Questa settimana la rubrica dei Cantieri sociali ospita un racconto che viene da Verona. Autrice ne è Tiziana Valpiana, che vive nella città di Flavio Tosi, il sindaco appena condannato per aver detto cose razziste. È una storia piccola piccola, di quelle che piacciono a Carta.
Quasi 500 cittadini e cittadine veronesi hanno proposto «un percorso pubblico per esprimere dissenso verso una città chiusa, discriminante e paurosa e per progettare una città aperta, giusta e gioiosa». Alla fine hanno individuato, come simbolo della città chiusa, discriminante e paurosa l'atto scellerato dell'amministrazione comunale di togliere le panchine dai giardini in cui erano soliti sostare anche stranieri. Togliendo le panchine, si sono ridotti i diritti di tutti: quelli ad una sosta ristoratrice, a giardini pubblici curati, al riposo, alla convivialità, a godere «gratuitamente» della vista della nostra città... Tutti i sabati di maggio alle 12, portando le proprie sedie da casa, i membri del Comitato, e non solo, si sono riuniti nel disadorno e indegno giardinetto di via Prato Santo semplicemente per stare assieme, offrendo a chiunque un aperitivo, una poesia, una lettura, uno spettacolo, a simboleggiare la possibilità di una città aperta, giusta, gioiosa. Il 9 luglio hanno «offerto» a quel giardinetto una verde e luccicante panchina che, certo, non era sufficiente a cancellare il degrado nel quale l'amministrazione lascia questo ed altri luoghi pubblici: ma non era che l'inizio di una riqualificazione voluta e attuata direttamente dai cittadini e dalle cittadine.
La panchina, ben confezionata con elegante fiocco rosso, è stata «scartata» e inaugurata, «a disposizione di chiunque voglia sedersi nei Giardini di Via Prato Santo», recita la targa affissa dal Comitato Verona città aperta.
Visto anche il via vai di giornalisti e fotografi, si sono subito avvicinati dei «curiosi» chiedendoci informazioni e plaudendo all'iniziativa. Molti hanno voluto essere fotografati seduti sulla panchina. Verso le 13 abbiamo acquistato della pizza, delle birre, un po' di frutta e verdura e, contravvenendo ad altra ordinanza, ma sotto gli occhi anche delle forze dell'ordine, abbiamo pranzato lì sulla «nostra» (e vostra) panchina, attirando, nell'ordine, un ragazzo del Senegal che si è unito a noi e sei turisti tedeschi che, stanchi del giro turistico in città e in attesa di andare a vedere Carmen in Arena, avevano cercato un po' di riposo, in mancanza di meglio, appoggiandosi ai tronchi degli alberi. È stata poi la volta di un ragazzo con le stampelle, che sulla panchina ha trovato un po' di riposo.
Al vicino bar, dove siamo andati a prendere i caffè che abbiamo poi sorseggiato sulla panchina, il gestore ci ha fatto presente che in quel giardino mancano anche le strisce pedonali per poterlo raggiungere, pur trattandosi di una meta un tempo frequentata da anziani. Un tempo, perché da quando le panchine non ci sono più - ci aveva fatto notare una signora residente lì vicina che era solita accompagnare il padre in carrozzella - l'accompagnatore è costretto a restare in piedi... C'è stato anche chi (un uomo dal codino grigio) ci ha gridato che su quelle panchine si sedevano anche coloro che «non pagano le tasse», ma quando gli abbiamo risposto che noi le paghiamo, altri non le pagano perché vengono fatti lavorare in nero, altri ancora perché sono evasori, non ha saputo replicare.
Alle 19, ora stabilita per il ritrovo di tutto il Comitato per un aperitivo di inaugurazione, una pioggia torrenziale ha costretto tutti a scappare. Giusto in quel momento è arrivata una macchina dei Vigili urbani, mandati a controllare la «manifestazione», ai quali abbiamo spiegato il senso della nostra azione, lasciandoli stupefatti.
L'indomani mattina, acquistati i quotidiani, abbiamo deciso di andare a leggerli, come si fa in tutte le città del mondo, al giardinetto, sulla panchina...che non c'era più! Su un palo della luce era rimasto affisso un cartello «Come è difficile restare umani. Grazie per la panchina», e come firma un nome di donna. Abbiamo pensato anche al suo grazie quando abbiamo posizionato nello stesso luogo una sedia («A disposizione di chiunque ») e le foto del giorno prima. Sulla sedia abbiamo lasciato un quaderno perché ciascuno possa scrivere ciò che pensa. La prima frase ieri era: «Una panchina è per sempre». Andate a scrivere la vostra fino a quando durerà: un vandalo si aggira per Verona.
L’attacco finale alla democrazia è iniziato. Berlusconi e i suoi sferrano il colpo definitivo alla libertà della rete internet per metterla sotto controllo. Ieri nel voto finale al Senato che ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (disegno di legge 733), tra gli altri provvedimenti scellerati come l’obbligo di denuncia per i medici dei pazienti che sono immigrati clandestini e la schedatura dei senta tetto, con un emendamento del senatore Gianpiero D’Alia (UDC), è stato introdotto l‘articolo 50-bis, “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet“. Il testo la prossima settimana approderà alla Camera. E nel testo approdato alla Camera l’articolo è diventato il nr. 60.
Anche se il senatore Gianpiero D’Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo, questo la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della “Casta” che non vuole scollarsi dal potere.
In pratica se un qualunque cittadino che magari scrive un blog dovesse invitare a disobbedire a una legge che ritiene ingiusta, i provider dovranno bloccarlo. Questo provvedimento può obbligare i provider a oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all’estero. Il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine. L’attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000 per i provider e il carcere per i blogger da 1 a 5 anni per l’istigazione a delinquere e per l’apologia di reato, da 6 mesi a 5 anni per l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all’odio fra le classi sociali. Immaginate come potrebbero essere ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta con questa legge?
Si stanno dotando delle armi per bloccare in Italia Facebook, Youtube, il blog di Beppe Grillo e tutta l’informazione libera che viaggia in rete e che nel nostro Paese è ormai l’unica fonte informativa non censurata. Vi ricordo che il nostro è l’unico Paese al mondo, dove una media company, Mediaset, ha chiesto 500 milioni di risarcimento a YouTube. Vi rendete conto? Quindi il Governo interviene per l’ennesima volta, in una materia che vede un’impresa del presidente del Consiglio in conflitto giudiziario e d’interessi.
Dopo la proposta di legge Cassinelli e l’istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al “pacchetto sicurezza” di fatto rende esplicito il progetto del Governo di “normalizzare” il fenomeno che intorno ad internet sta facendo crescere un sistema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.
Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet? Chi non può farlo pensa bene di censurarlo e di far diventare l’Italia come la Cina e la Birmania.
Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati Beppe Grillo dalle colonne del suo blog e la rivista specializzata Punto Informatico( http://punto-informatico.it/). Fate girare questa notizia il più possibile. E’ ora di svegliare le coscienze addormentate degli italiani. E’ in gioco davvero la democrazia!
in Eddyburg del 25 novembre 2006, divenuto testo di apertura di Libere osservazioni non solo di urbanistica e di architettura (Maggioli Editore 2008). Il tema della perdita degli spazi pubblici ha impegnato altri colleghi. Valgano, fra i contributi recenti, l’Eddytoriale120 di Edoardo Salzano (20 gennaio 2009) e l’articolo di Marco Romano Archistar fuori piazza in "il Domenicale" e in Eddyburg del 2 febbraio. Constatiamo che l’urbanistica e l’architettura moderne sono state incapaci di trarre insegnamento dalla storia della società e della città, antica e moderna.
Abbiamo perduto sia la piazza che la strada come luoghi di straordinaria manifestazione di socialità e di legame fra questa e l’architettura urbana. Piazze e strade magari ereditate quasi nella veste originaria non entrano più, per così dire, nella pratica intensa di rapporti sociali in spazio pubblico riconosciuto dalla comunità e nello stesso tempo intimamente tuo. Perché quei rapporti non esistono più. Avevano luogo in piazza e in strada ma l’esistenza di queste non ne erano il presupposto, invece costituito dalla data formazione economico sociale; che li determinava, non poteva farne a meno. La strada e la piazza, benché non loro causa diretta, diventavano però spazio urbano, architettonico, funzionale ed estetico che li favoriva, ne assicurava il sostegno e lo scenario. Spazio sociale e, direbbe Marc Augè, simbolico. In definitiva la comunità, come non poteva rinunciare a quei rapporti, così non poteva rinunciare a quel coerente contesto fisico.
Oggi, noi fiduciosi minoritari dell’urbanistica e dell’architettura potremmo forse realizzare strade e piazze belle (intanto non se ne vedono), ben dotate di funzioni richiamanti l’interesse delle persone, ma non possiamo far nulla né può chicchessia politico, sociologo, antropologo, economista riguardo alla rinascita di precedenti relazioni sociali rimpiante. È questa società a negarle, anzi ad averne decretato la morte schiacciate sotto il peso dell’unico moloch venerato: l’individualismo. Questa società non ha la possibilità di ammetterle, di crearle. Non le detiene impresse nei suoi geni.
Eppure dovremmo egualmente (saper) progettare per, dapprima, recuperare e poi realizzare piazze e strade tradizionali, vale a dire spazi incentrati sulla ricostituzione all’aperto del senso di limite, cortina, chiostro, del sentimento di agorà. Senza dimenticare che le piazze e le strade storiche maggiormente vitali furono quelle che insieme a funzioni commerciali, culturali, di servizio pubblico presentavano in larga misura abitazioni. Da tali spazi, se dotati delle destinazioni consolidate dall’uso storico, non per questo conseguiranno direttamente un rapporto comunitario e l’affabilità tra le persone, ma l’andirivieni e l’incontro obbligato in un contesto non solo funzionale ma estetico potranno aprire una falla nella loro solitudine e inserire un soffio di benestare nel cervello e nel cuore. È quello che può succedere quando si vive lo spazio ancora ricco di risorse di una delle sopravvissute magnifiche piazze o strade d’Italia e d’Europa. Non è vero che le ha sostituite l’ipermercato. Qui la frenesia dell’acquisto ad ogni costo divide, aumenta la solitudine di te davanti alla merce spropositata e ai tuoi soldi. E manca l‘influenza essenziale della bellezza architettonica, impossibile perché disdegnata, paventata dagli scopi dell’ipermercatismo.
"Il faut tuer la rue corridor", Le Corbusier. Il movimento moderno ha pagato un alto prezzo quando ha applicato quest’ordine meccanicamente, alla lettera senza capire cosa avrebbe perso la comunità cittadina distruggendo la cortina stradale e risolvendo ogni nuovo intervento urbanistico e architettonico mediante l’"edilizia aperta": corpi di fabbrica separati, distanziati secondo certe norme igieniche, distribuiti più o meno regolarmente nello spazio senza alcuna relazione con luoghi circoscritti di convergenza comunitaria ben distinguibili ("il disastro vero sono i quartieri nuovi delle città europee", Marco Romano). In Italia un protagonista del razionalismo ha cercato di interpretare cautamente il messaggio come gli rispondesse: "tuer? sì ma non troppo". Nacque (ma tardi, nel dopoguerra) il progetto di Piero Bottoni per la "Strada vitale", da un lato accettazione dei principi razionalisti per l’abitazione, dall’altro riproposizione, appunto, della vitalità della strada storica. Costruzioni residenziali relativamente alte perpendicolari al tracciato della strada ed edificio basso continuo lungo i lati per ricostituire l’efficacia della strada storica sia per funzione (tutti i servizi sociali culturali commerciali) sia per forma (la cortina continua). Circa la piazza o il suo parente cortile dell’abitazione il movimento razionalista non ha saputo trarre alcun insegnamento dal passato. Nessuna apprezzabile novità, poi, riguardo ai problemi qui proposti, nel prosieguo delle storie ormai separate dell’urbanistica e dell’architettura.
Dobbiamo ricorrere ad altri momenti del Novecento, soprattutto, per me, al tempo del piano di Amsterdam Sud di Berlage e della sua realizzazione attraverso i generosi architetti della "Scuola di Amsterdam" (Kramer, De Klerk, la Kropholler…). Il metodo berlaghiano di progettazione secondo cui il tutto sia presente nelle parti come le parti lo siano nel tutto – ossia l’urbanistica e l’architettura unite nell’azione – trova completa definizione attraverso un triplice riferimento: alla storia della città (l’isolato edilizio di forma rettangolare allungata), ai fattori istituzionali (le nuova legge del 1901 con regolamentazione promotrice dell’edificazione per blocchi residenziali), ai fattori sociali (la cooperazione, fondata sull’esperienza storica e profondamente radicata nel presente). Gli isolati e i blocchi chiusi concorrono al pieno rendimento del programma d’insieme fortemente coeso entro il quale dominano l’unità architettonica di quattro piani lungo i margini dell’isolato costituente all’esterno cortina stradale e la grande corte interna (50-60 x 100 e più metri), una vera piazza-giardino dei cooperatori e delle loro famiglie accessibile a tutti i cittadini.
Davanti a un pezzo di città moderna formato da strade e isolati Sigfried Giedion, mentore del razionalismo, scriverà: "Se consideriamo l’Amstellaan… ci accorgiamo che essa rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca: la strada domina l’assieme. L’Amstellaan è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, non una concezione nuova". Al contrario per il meno ortodosso dei maestri della generazione degli Ottanta, Bruno Taut, è la strada con gli edifici ai bordi a identificare "il prodigio, la creazione di un’architettura collettiva dove non è più la singola casa ad essere di particolare importanza, ma lo sono le lunghe schiere di case lungo le strade e ancor più l’aggregazione di molte strade in una unità complessa".
Per conto nostro, se pensiamo alla situazione attuale della città e della cultura urbanistica e architettonica, la Amsterdam Sud berlaghiana dovrebbe bastarci adesso. Ottocentesca? Se milanesi dovremmo tenerci stretta volentieri persino una Milano tutta berutiana, mille volte meglio dello sconquasso urbano guidato dagli insensati, spiazzati grattacieli d’autore (per modo di dire).
Milano, 18 febbraio 2009
Da tempo stavamo lavorando a un progetto di mappatura degli spazi pubblici. Nel dicembre 2008 abbiamo valutato la possibilità di partecipare a un bando di concorso, indetto dalla fondazione della Banca etica, per il finanziamento parziale della ricerca. I tempi molto stretti e il periodo dell’anno nel quale cadeva la scadenza (31 dicembre 2008) non ci ha consentito di coinvolgere nella presentazione del progetto tutti i partner che lo condividevano e con i quali contiamo comunque di proseguire la collaborazione. Inseriamo qui di seguito stralci della proposta presentata secondo lo schema stabilito.
Titolo: Conoscenza condivisa, responsabilità sociale, azione solidale. Partiamo dagli spazi pubblici nella città: un’iniziativa pilota.
2. LA PARTNERSHIP
Descrizione della partnership
Obiettivi
La partnership tra Zone, Legambiente Padova ed eddyburg.it ha come obiettivo quello di mettere a punto un modello di mappatura degli spazi pubblici esistenti, previsti e desiderati, delle loro caratteristiche e possibilità di utilizzazione a fini sociali, dei rischi cui sono sottoposti e delle azioni volte alla loro difesa e valorizzazione sociale (sia spontanee che programmate, sia promosse da associazioni, gruppi e comitati sia condotte dalle istituzioni preposte).
Tale obiettivo postula la necessità di costituire una partnership che abbia la capacità di:
(1) impostare un modello di ricerca / azione scientificamente e metodologicamente fondato;
(2) sperimentarlo localmente sul campo mediante un’azione sia di livello tecnico (mappatura dei luoghi e delle loro caratteristiche oggettive) che sociale (coinvolgimento degli abitanti nel riconoscimento dell’identità / utilità / desiderabilità);
(3) raccogliere una serie significativa di casi presenti a livello nazionale, relativi sia a buone pratiche che ad azioni di difesa di beni pubblici territoriali, anche in vista di una propagazione del modello di cui ai punti precedenti;
(4) costruzione di un bagaglio di conoscenze e azioni possibili, cui possano attingere attori e istituzioni che condividano le premesse del lavoro e i principi alla sua base;
(5) disseminare i risultati raggiunti in proiezione di azioni future anche a un livello europeo e mondiale.
Modalità
Nell’ambito del coordinamento generale effettuato da Zone si costituiranno:
(a) un comitato di esperti (di cui in allegato si fornisce la composizione e le competenze), che presiederà alla ricerca di base, all’impostazione scientifica e metodologica e fornirà supporto tecnico ai due team operativi, monitorandone le attività e i risultati;
(b) un team operativo, con base a Padova e coordinato da Legambiente Padova, per la mappatura a livello locale;
(c) un team operativo, con base a Venezia e coordinato da eddyburg.it, per la mappatura a livello nazionale.
La collaborazione / integrazione dei due team operativi avverrà, con il coordinamento di Zone, anche per l’organizzazione delle attività e degli eventi comuni (workshop, seminari, convegni, pubblicazioni, validazione e disseminazione dei risultati e delle conoscenze). Zone sarà responsabile dell’amministrazione del progetto e della sua gestione finanziaria.
Caratteristiche
Legambiente Padova ha svolto con successo numerose azioni volte a individuare i rischi derivanti da tentativi di privatizzazione e commercializzazione di spazi pubblici significativi, a fornire sostegno tecnico ed operativo alle azioni di rivendicazione sociale dell’uso di tali spazi, ottenendo rilevanti successi anche nel confronto con le istituzioni locali. La sua natura di componente di un’associazione di dimensione nazionale consente di offrire un utile supporto sia per la mappatura delle buone pratiche di difesa e utilizzazione sociale degli spazi pubblici presenti in altre regioni italiane, sia per disseminare su campi più vasti i risultati che saranno raggiunti nella ricerca proposta. A livello locale, la sua struttura, gli esperti dei quali può avvalersi e le sue esperienze rendono questa associazione particolarmente idonea a svolgere il lavoro sul campo, a coadiuvare nell’operazione di individuazione e mappatura degli spazi pubblici, per connettere in questa operazione sia le capacità tecniche che le azioni di abitanti, cittadini, gruppi e istituzioni presenti sul territorio.
L’associazione Zone ha svolto una significativa esperienza di ricerca e di lavoro sul campo, affrontando un tema relativo all’organizzazione degli spazi pubblici come strumento di azione sociale in un’area degradata, coordinando diversi gruppi, esperti e associazioni di professionalità, culture e nazionalità diverse. Ha coordinato associazioni ed esperti di diverse nazionalità organizzando convegni, seminari e workshop, su temi attinenti l’argomento della ricerca, al Word Social Forum 2007 (Nairobi) e all’European Social Forum 2008 (Malmö). Può avvalersi di un gruppi di esperti (ingegneri, architetti, pianificatori) soci volontari dell’associazione, e di un coordinatore esperto in attività di direzione di team pluridisciplinari.
Eddyburg.it svolge da anni un’attività di formazione, diretta e indiretta, attraverso:
(a) l’inserimento nel sito di materiali atti a conoscere, comprendere e criticare sia le idee e le pratiche mediante le quali l’habitat dell’uomo viene minacciato sia le azioni promosse o promuovibili per migliorarne le condizioni;
(b) l’organizzazione delle edizioni annuali della Scuola estiva di pianificazione;
(c) la presenza e disponibilità sul territorio dei numerosi esperti che al sito fanno capo, e che collaborano diffusamente con gruppi, comitati e reti impegnati nella difesa delle qualità sociali, culturali e storiche del territorio.
Il pool di esperti di cui può disporre fornisce ampie garanzie sulla serietà scientifica della collaborazione al progetto, e la notevole visibilità del sito nella rete internet è una risorsa rilevante per la discussione e disseminazione dei materiali della ricerca e come strumento stesso di raccolta dei casi studio a livello nazionale. L’associazione tra i tre partner, fondata su forti analogie delle azioni svolte nel passato da ciascuna di esse e da comunanza nelle finalità e nei principi, consente di connettere in un’unica rete esperienze di lavoro, risorse conoscitive e comunicative, capacità specifiche e connessioni con aree culturali diverse, ponendo le basi per ulteriori azioni comuni.
3.2. DESCRIZIONE DEL PROGETTO E ATTIVITÀ PREVISTE
Premessa
Gli spazi pubblici sono un patrimonio sotto il profilo culturale, sociale, economico: essi caratterizzano l’identità di un popolo, determinano le condizioni sociali della vita degli abitanti, sono il prodotto di investimenti e decisioni pubblici, costituiscono il lascito per le generazioni future. Nel passato gli spazi pubblici hanno costituito l’obiettivo di significative lotte sociali, spesso coronate da successo. Oggi, in molti casi, sono l’oggetto di fenomeni preoccupanti di degradazione, esclusione, privatizzazione. Sono al tempo stesso, e sempre più spesso, l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa. In Italia e in Europa cresce il numero dei comitati, dei gruppi, delle associazioni, spesso tendenti ad aggregarsi in reti più ampie, per la loro difesa e promozione. Occorre che gli abitanti di oggi si riapproprino degli spazi pubblici (esistenti, previsti, desiderati) per poterli difendere, conquistare, utilizzare, tramandare. Per riappropriarsene il primo passo da fare è conoscerli: a questo innanzitutto serve la mappatura la degli spazi pubblici che proponiamo.
Obiettivi del progetto
Il progetto propone di elaborare e sperimentare un processo di ricerca-azione di mappatura degli spazi pubblici, che coinvolga associazioni, cittadini, ricercatori ed esperti, diretto a comprendere la condizione attuale degli spazi pubblici nelle sue componenti fisiche, sociali ed economiche, al fine di sollecitare una maggiore responsabilità ambientale e sociale e di innescare un’azione di pianificazione dello spazio sociale, intesa come azione collettiva e solidale. Questo processo si costituisce come progetto-pilota in quanto mira ad essere applicato in altre realtà locali per la costruzione di mappe degli spazi pubblici alla scala comunale e provinciale e ad estendersi a comprendere ulteriori esempi di spazi pubblici a rischio e di buone pratiche (progettazione, uso, gestione, finanziamento degli spazi pubblici) nel territorio nazionale. Gli obiettivi specifici del progetto sono di tre ordini:
(a) Conoscenza.
Il progetto si propone di approfondire la conoscenza della condizione degli spazi pubblici nella società contemporanea italiana, a partire dal sapere scientifico e dal lavoro sul campo con cittadini, esperti e istituzioni. Una comprensione adeguata richiede il concorso di saperi tecnici e saperi locali. I primi sono essenziali per cogliere le caratteristiche oggettive dei luoghi (la storia della loro formazione, le caratteristiche della loro struttura fisica, le suscettività della loro utilizzazione sociale, i costi per la loro formazione e manutenzione ecc.) e per poter comparare spazi analoghi in contesti diversi. I saperi locali sono essenziali per cogliere il modo in cui gli spazi pubblici esistenti sono percepiti dagli utilizzatori, quali caratteristiche sono considerate positive e negative, quali sono le aspettative d’uso e di sistemazione di spazi pubblici previsti e non realizzati, quali sono i desideri in merito a spazi o a usi non ancora riconosciuti come pubblici. Il progetto riconosce nell’interazione tra i due saperi nell’affrontare la conoscenza degli spazi pubblici un contributo al recupero di una convergenza tra intellettuali e popolazione, tra depositari di un sapere speso reso astratto e lontano dal reale e una realtà sociale privata dall’intelligenza critica delle cose.
(b) Responsabilità ambientale e sociale
Attraverso una maggiore conoscenza degli spazi pubblici si può stimolare una maggiore responsabilità sociale e ambientale da parte dei cittadini, istituzioni e interessi coinvolti e una maggiore consapevolezza nel far riconoscere a tutti gli abitanti il diritto alla città. Il diritto cioè, oltre che ad usare un’abitazione appropriata, ad accedere e usare tutti i luoghi utili e belli della città: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via, per creare una dimensione collettiva più serena, vivibile ed emancipata. Il progressivo declino dell’uomo pubblico ha fatto smarrire la consapevolezza della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune dove le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti sono garantiti, dove è possibile accedere senza difficoltà ai servizi essenziali, dove è piacevole incontrarsi, dove le iniziative culturali consentono di affrancarsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico.
Il progetto riconosce nel sistema degli spazi pubblici non solo un elemento fondamentale all’organizzazione di una città e al buon funzionamento di una società, ma anche uno strumento di emancipazione della società stessa. Negli spazi pubblici si riversano le differenze, le contraddizioni e le diverse appartenenze, ma le regole della vita pubblica e la proprietà pubblica, permettono di vincere la sopraffazione di uno sull’altro, di costruire e ricostruire attraverso le trasformazioni della società, nuovi spazi e modi di condivisione, diventando quindi anche luoghi di apprendimento reciproco, in cui diritti e responsabilità cercano equilibrio.
(c) Azione solidale
Il riconoscimento della città come bene comune, oggi non pienamente garantito, richiede uno sforzo di pianificazione affinché le attrezzature di interesse collettivo siano previste in quantità adeguate e localizzate in modo opportuno. La loro progettazione, il loro uso e la loro gestione richiedono sapienza, responsabilità ed etica. Un uso intelligente delle risorse economiche delle amministrazioni locali è sempre più necessario per accrescere la consistenza degli spazi pubblici e migliorarne l’uso. Questo necessita di una capacità e di un impegno da parte delle istituzioni. Richiede inoltre una coscienza collettiva del valore delle risorse comuni, quali sono gli spazi pubblici, e soprattutto di un’azione solidale da parte della popolazione affinché l’impegno delle istituzioni, degli esperti, dei professionisti coinvolti nella progettazione e gestione sia diretto alla cura, salvaguardia, utilizzo collettivo di questo patrimonio senza che ciò significhi piegare a logiche finanziarie ciò che deve misurarsi in termini di equità, benessere e felicità.
Costituire intorno e per la mappatura degli spazi pubblici una rete di gruppi, associazioni, cittadini, esperti che concorrono alla conoscenza degli spazi pubblici, in tutte le loro dimensioni, costituisce la prima azione solidale per la loro difesa, migliore progettazione e gestione.
Metodologia
Il progetto propone di costruire delle mappe degli spazi pubblici esistenti, previsti negli strumenti urbanistici e desiderati come pubblici per le loro caratteristiche intrinseche o per nuove esigenze sociali, con attenzione all’uso sociale degli spazi e ai conflitti che in essi si dispiegano. I criteri adottati per la definizione, descrizione e mappatura degli spazi pubblici saranno individuati al fine di evidenziare elementi fisici (localizzazione, accessibilità, forma, estensione), sociali (fruizione, attività, conflitti), economici (attraverso quali risorse è stata finanziata la loro formazione e lo è la loro gestione).
Tre tipi di azioni strettamente collegate tra loro verranno impiegate: ricerca, sperimentazione e apprendimento-divulgazione.
Ricerca.
Essa mira a costruire le basi scientifiche e metodologiche del processo, approfondendo innanzitutto il concetto di spazio pubblico nella società contemporanea attraverso una ricognizione della letteratura sinora prodotta dai diversi campi disciplinari (urbanistica, sociologia, psicologia, antropologia, storia, geografia) nel tentativo di elaborare definizioni, individuare categorie di spazi pubblici ragionevolmente distinte tra loro, proporre parametri atti a descrivere compiutamente le loro caratteristiche fisiche e sociali. Un‘analisi della normativa e degli strumenti urbanistici disponibili in materia (standard urbanistici e territoriali, specifiche componenti della pianificazione ecc.) sarà inoltre necessaria per comprendere le potenzialità e i limiti di questi nel soddisfare bisogni e desideri e nel far fronte alle difficoltà di vario ordine che sembrano ostacolare, nella società contemporanea, la possibilitò di realizzare sistemi di spazi pubblici adeguati. La ricerca provvederà anche ad individuare una metodologia specifica per i due diversi tipi di sperimentazione.
Sperimentazione
Per cogliere la varietà dei contesti e dei fenomeni in atto in un territorio complesso come quello italiano (complesso per la storia della sua formazione, per le differenze tra le condizioni sociali e amministrative delle sue parti, per la dimensione e localizzazione dei suoi insediamenti), il processo prevede di operare sia alla scala locale, attraverso un progetto di “Mappa degli spazi pubblici locale”, che a quella nazionale, attraverso l’avvio, alla scala nazionale, della costruzione di una “Mappa nazionale degli spazi pubblici a rischio e delle buone pratiche”.
La sperimentazione alla scala locale inizierà dalla selezione dell’area d’intervento e dalla costituzione di una rete dei gruppi, organizzazioni, cittadini. Seguirà il lavoro sul campo di rilevamento degli spazi e dei conflitti attuali o potenziali. La restituzione del lavoro sul campo su una mappa geo-referenziata, collegata a una base di dati contenenti tutte le informazioni raccolte ne sarà l’elaborato conclusivo.
La sperimentazione alla scala nazionale inizierà con la costruzione di una cartella web “Spazi pubblici a rischio e buone pratiche” sul sito eddyburg.it e con la costruzione di una rete di corrispondenti (attuali auto iscritti alla newsletter di eddyburg.it, reti di comitati per la difesa del territorio, siti e referenti di associazioni, gruppi, comitati attivi nel settore ecc.). All’attivazione dei corrispondenti e alla fornitura di un modello di scheda di rilevamento farà seguito la raccolta dei materiali segnalati. Adottando la rete dei corrispondenti si eddyburg si procederà a una valutazione campionaria della loro attendibilità. Una mappa geo-referenziata, collegata a una base di dati contenenti tutte le informazioni raccolte, sarà l’elaborato conclusivo.
Apprendimento-Divulgazione:
Apprendimento e divulgazione sono due facce d’una medesima operazione. Divulgare significa condividere la conoscenza con persone che non hanno partecipato, o non hanno partecipato totalmente, al processo della sua costruzione; apprendere significa aver maturato una maggiore consapevolezza mediante la condivisione della conoscenza.
Saranno protagonisti delll’appprendimento/divulgazione soggetti a diversi livelli: i cittadini che hanno partecipato e quelli che saranno successivamente coinvolti/informati; gli esperti e del settore (studenti, urbanisti, funzionari pubblici), gli animatori sociali (operatori di associazioni, ecc.) che avranno partecipato, e quelli che parteciperanno agli eventi reali e virtuali di disseminazione.
Il programma prevede lo svolgimento di seminari, l’organizzazione di una giornata di studi, dedicata alla mappatura degli spazi pubblici, nell’ambito della Scuola estiva di pianificazione organizzata da eddyburg.it e Zone (V Edizione: “Città e spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”) la diffusione di pubblicazioni editoriali e on-line, il coinvolgimento di giornalisti della carta stampata e dell’etere (con particolare riferimento alle testate televisive più sensibili agli argomenti trattati). Si promuoverà l’organizzazione di eventi locali (visita guidata/giornata sul campo, costruzione locale della mappa, serate di discussione, eventi simbolici, contatti con l’amministrazione e i soggetti locali che si occupano degli spazi pubblici; particolare attenzione si porrà ai rapporti con le realtà scolastiche, a scala locale e a scala nazionale).
Attività
(A) Ricerca e Metodologia - Aprile -Settembre 2009 (6 mesi)
A1) Studio preparatorio.
Temi affrontati dalla ricerca: concetti (spazio pubblico, spazio comune, conflitto, rischio, standard, ecc.); gradiente pubblico degli spazi urbani; la norma e gli strumenti urbanistici; categorie e requisiti degli spazi pubblici; usi sociali degli spazi
A2) Metodologia per la mappatura degli spazi pubblici, del loro uso sociale e dei conflitti, sia a livello locale che nazionale. Organizzazione di due workshop in cui verranno discussi i temi affrontati dalla ricerca preliminare e poste le basi per la messa a punto della metodologia. Al workshop parteciperanno gli esperti e i responsabili delle varie attività.
A3) Stesura dei documenti e dei modelli (questionari, schede, ecc.)
(B) Sperimentazione Mappa Locale - Ottobre 2009-Maggio 2010 (8 mesi)
B1) Raccolta materiale esistente, lavoro di tavolino e primi sopralluoghi per la costruzione di una mappa di riferimento su cui lavorare.
B2) Forum sugli spazi pubblici. Preparazione e svolgimento di 4 workshop con associazioni, esperti, e attori per la costruzione partecipata della mappa degli usi sociali e dei conflitti. Raccolta e schedatura delle informazioni. Apertura di un blog di discussione.
B3) Elaborazione dei dati e restituzione cartografica. Costruzione della mappa degli spazi pubblici attraverso la realizzazione di un Sistema Informativo Georeferenziato (GIS)
B4) Organizzazione e svolgimento di due seminari pubblici: uno dedicato all’introduzione al tema degli spazi pubblici e presentazione delle attività di mappatura e un secondo dedicato alla presentazione dei risultati della ricerca e della mappatura finale.
(C) Sperimentazione Mappa Nazionale - Ottobre 2009-Maggio 2010 (8 mesi)
C1) Costruzione della pagina web e della call
C2) Raccolta, schedatura e sistemazione delle segnalazioni ricevute. La call rimane aperta 6 mesi. Contatti con associazioni.
C3) Elaborazione dei dati e restituzione. Costruzione della mappa degli spazi pubblici con utilizzazione del GIS.
(D) Divulgazione - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
D1) Workshop per la mappatura degli spazi pubblici – Giornata di formazione all’interno della Scuola di Eddyburg 2009.
D2) Pubblicazione su eddyburg.it di 8 aggiornamenti e invio di 8 Newsletter previa costruzione di un indirizzario.
D3) Pubblicazione editoriale dei risultati raggiunti, nei suoi aspetti teorici (concetti, definizioni, metodologia), pratici (la costruzione delle mappe), partecipativi, …
D4) Workshop sugli spazi pubblici /Standard urbanistici alla scala territoriale – Giornata di formazione all’interno della Scuola di Eddyburg 2009.
D5) Convegno Pubblico conclusivo
(E) Monitoraggio - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
E1) Svolgimento di quattro incontri (settembre 2009, novembre 2009, giugno 2010,
novembre 2010) tra gli esperti, responsabili delle attività e capo progetto.
E2) Stesura relazioni e rendicontazioni
(F) Amministrazione Progetto - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
F1) Coordinamento
F2) Amministrazione e Rendicontazione
3.3 Obiettivi, risultati attesi e monitoraggio del progetto
Il monitoraggio del progetto e la valutazione dei risultati sarà effettuata secondo criteri qualitativi e quantitativi. Rispetto ai tre obiettivi, si raggiungerà il risultato atteso se:
Conoscenza: (a) la mappatura degli spazi pubblici a livello locale sarà in grado di coprire un territorio comunale (min 20.000 ab.) o un settore urbano che comprenda centro storico e periferia (min.50.000 ab.) e sia in grado di individuare, entro tale territorio, gli spazi pubblici, le loro caratteristiche, e i conflitti ad essi connessi; (b) la mappatura a livello nazionale raccoglierà almeno 50 casi studio tra “buone pratiche” e “spazi pubblici a rischio”; (c) dal convegno e dalla pubblicazione conclusivi emergeranno, espressi con chiarezza comunicativa, metodo, azioni svolte, risultati conseguiti, nonché indicazioni innovative (cioè non ancora descritte nella letteratura del settore) sulle azioni da svolgere.
Responsabilità ambientale e sociale: (a) la mailing list della newsletter raggiungerà almeno i 2000 contatti; (b) le associazioni, movimenti, gruppi, cittadini, partecipanti ai workshop della mappatura locale raggiungeranno le 20 unità (ogni ente conta per uno); (c) i seminari pubblici avranno un’affluenza di almeno 100 partecipanti l’uno; (d) il convegno finale raggiungerà un’affluenza di almeno 300 partecipanti.
Azione solidale: (a) cittadini, associazioni, movimenti, amministrazioni pubbliche intraprenderanno nuove azioni (mappatura secondo criteri analoghi a quella sperimentata, nonché progettazione, difesa, gestione, uso) in accordo con i principi e le premesse che animano questo progetto; (b) centri di ricerca, fondazioni e simili istituzioni attiveranno progetti di ricerca, tesi di laurea e di dottorato, borse di studio e analoghe iniziative per affrontare il tema degli spazi pubblici in modo coerente ai principi alla base di questo progetto.
3.4 IMPATTO SOCIALE ED ECONOMICO SUL TERRITORIO
Impatto sociale
Gli spazi pubblici sono un grande patrimonio (culturale, sociale, economico) messo a rischio dai processi di commercializzazione e privatizzazione dello spazio urbano in atto in Italia (come in Europa e nel mondo). L’appropriazione da parte degli abitanti del loro sistema di spazi pubblici è la migliore garanzia della sua difesa, conservazione, fruizione, valorizzazione sociale e ambientale e della sua utilizzazione per il miglioramento della vivibilità urbana.
L’impatto sociale del progetto sul territorio è costituito dal grado di appropriazione da parte degli abitanti del loro sistema di spazi pubblici, e dipende dal modo e dalla misura in cui la popolazione interessata avrà partecipato alla mappatura, ne avrà condiviso obiettivi e principi, si sarà riconosciuta nei suoi risultati.
Il progetto si propone perciò di saldare strettamente il momento tecnico (fondato sul necessario spessore scientifico e culturale) con quello sociale, scegliendo per quest’ultimo tutta la gamma delle espressioni della società ma privilegiando quelle che, nell’Italia di oggi e nell’area della sperimentazione sul campo (Padova) appaiono più sensibili e attive. In primo luogo, quindi, ci si assicurerà l’adesione di associazioni, comitati, gruppi spontanei di cittadini, lavoratori, abitanti già costitutivi e operanti sul territorio, sia quelli che lo stesso svolgimento del progetto può stimolare ad emergere.
Ma si stabiliranno anche (soprattutto in riferimento alla mappatura di scala nazionale) rapporti di collaborazione con le reti organizzate e con le strutture (quali i Cantieri sociali) nelle quali già convergono strategicamente pluralità di movimenti di base, con quelle organizzazioni sindacali che hanno allargato sistematicamente la loro attenzione dalla fabbrica al territorio, con le istituzioni locali che hanno assunto la difesa e riqualificazione sociale degli spazi pubblici come tema di particolare impegno amministrativo. Costituisce impatto sociale sul territorio anche il sapere prodotto dal progetto, in quanto costituirà fonte e materiale di riferimento per esperti, istituzioni, associazioni che intendano operare secondo i medesimi indirizzi.
Impatto economico
Gli spazi pubblici costituiscono (come si è detto) un grande patrimonio economico. Unpatrimonio realizzato e valorizzato nel corso di decenni e secoli, per le decisioni e gli investimenti di generazioni di uomini. Negli anni recenti questo patrimonio (questo bene comune) sta cambiando di segno: privatizzazione e commercializzazione lo stanno sottraendo al consumo comune, usi contrastanti con la stessa natura degli spazi (le piazze trasformate in parcheggio) li degradano, la mancanza di manutenzione e di cura li deteriorano. La parti aperte e non costruite (i parchi, i boschi, le rive) vengono cementificate e asfaltate.
L’impatto economico del progetto è costituito dalla difesa stessa di questo patrimonio,condizione sine qua non per poterne godere oggi e per poterlo tramandare alle future generazioni. La sua permanenza, il suo accrescimento e miglioramento sono d’altronde condizioni essenziali per la qualità della vita sociale. Una città dotata di spazi comuni abbondanti e ben distribuiti, organizzati per una fruizione libera e aperta da parte di tutti gli abitanti, ricchi di funzioni collettive e di spazi naturali, luoghi d’incontro e di ricreazione, di rigenerazione psico-fisica e d’interrelazione sociale, sono essenziali per il benessere degli abitanti, per la loro salute, per la loro felicità.
L’approfondimento della conoscenza degli elementi del patrimonio costituito dagli spazi comuni può infine suggerire (come ulteriore elemento dell’impatto economico del progetto) modi più sapienti di utilizzarli nell’interesse sociale. Ad esempio, l’uso integrato di risorse per utilizzatori appartenenti a diverse fasce di fruizione (esempi: le attrezzature delle scuole aperte a tutti i cittadini nelle ore extrascolastiche, gli uffici pubblici utilizzati per la ricettività studentesca nei periodi di ferie), l’integrazione pubblico-privato per determinati spazi d’uso promiscuo (esempio: l’uso pubblico di aree agricole di proprietà privata) possono ridurre le spese di gestione ed allargare le possibilità di fruizione.
3.5 CONTINUITÀ E REPLICABILITÀ
Ilmodello di mappatura sperimentato sul campo (livello locale) sarà formulato in modo tale da essere applicabile a realtà diverse: per dimensione, per caratteristiche territoriali e sociali, per natura dei soggetti che intendano utilizzarlo. Se esso avrà successo e se i risultati saranno diffusi con l’ampiezza necessaria esso potrà essere utilizzato in molte altre parti del territorio italiano.
I partner che condividono questo progetto hanno già definito alcune ulteriori aree di collaborazione nell’ambito della Regione Veneto, allargando la partnership ad altre analoghe strutture con le quali solo ragioni di tempo non hanno consentito di avviare fin d’ora la collaborazione (Cantieri sociali Carta, Rete delle Camere del lavoro – CGIL). Anzi, nel corso stesso del processo di ricerca / azione ci si propone (avvalendosi delle reti di contatti dei tre partner) di attivare anche in altra realtà processi analoghi.
É ipotizzabile che in alcuni comuni che hanno in corso la redazione di strumenti di pianificazione si imposti il lavoro sugli spazi pubblici (ad esempio, nella redazione dei “piani dei servizi” previsti da alcune legislazioni regionali) adottando criteri e metodi proposti dal progetto. É ugualmente probabile che alcune delle realtà associative con cui si prenderà contatto nel corso della “mappatura degli spazi a rischio e delle buone pratiche” (livello nazionale) concorreranno alla ricerca non solo trasmettendo informazioni sulle loro esperienze, ma partecipando alla sua implementazione adottandone sperimentalmente il modello per effettuare operazioni sul campo.
La continuità e la replicabilità non sono previste solo dopo la conclusione del progetto, ma nel corso stesso della sua realizzazione. La continuità e replicabilità successive avranno invece una portata più ampia. Ci si propone di informare sul progetto e sul suo svolgimento partner stranieri per un suo sviluppo a scala europea, giovandosi dei contatti già attivi da parte dei soggetti promotori. Un primo canale già aperto è quello costituito dal Forum permanente sul Diritto alla città, di cui è già avviata la formazione all’indomani dello svolgimento del Forum sociale europeo 2008 (cfr. http://openesf.net/projects/urban/project-home).
Se tanti nuovi quartieri residenziali italiani fanno schifo, una ragione c’è. Antistorica. Se le nostre città sono coronate da piazze – che altre civiltà ignorano – non è per un caso bensì per un meraviglioso retaggio etico ed estetico. Una sfida durevole a mostrare quel che valiamo. Chi vuol progettare faccia i conti col passato, con la sua tensione estetica e umanistica
Il disastro vero non è lì, nelle opere talvolta stravaganti e sempre molto costose degli archistar, che con il tempo verranno innocuamente dimenticate come le riviste patinate che le rincorrono, il disastro vero sono i quartieri nuovi delle città europee, dove la cittadinanza dei cittadini è stata disperatamente vulnerata e che purtroppo dureranno invece centinaia di anni.
Quartieri di solito disegnati da professionisti di minore notorietà e qualche volta proprio da questi architetti che, pur rinomati per le loro opere architettoniche, non resistono alla tentazione di firmare anche qualche vasta lottizzazione allineata con gli altri disastri.
Il nuovo quartiere di Santa Giulia a Milano, firmato da sir Norman Forster. Il progetto del nuovo quartiere della Falck a Sesto San Giovanni, firmato da Renzo Piano. Il quartiere fiorentino, firmato da Marco Casamonti e ora sotto l’occhio della magistratura. La collina di Erzelli, a Genova, nelle versioni di Renzo Piano e di Mario Bellini. Eccetera.
Che questi architetti, quando viene loro chiesto il disegno di un brano di città, invece di ritrarsi e riconoscere la loro modesta competenza, siano pronti ad applicarsi in un campo del quale sanno nulla, mostra come l’antica e nobile arte di progettare le città – quella che le ha fatte così belle – è diventata da cinquant’anni un campo così privo di principi solidi, di una dottrina condivisa, di un insegnamento universitario fondato su manuali, di un mestiere riconoscibile e incontrovertibile, che chiunque ritiene di potervi impunemente scorrazzare, qualsiasi nuovo assessore all’urbanistica e qualunque architetto cui un committente privato richieda il piano di lottizzazione dei suoi terreni: molto spesso è il medesimo architetto cui chiederebbe il progetto della propria villa ma altrettanto spesso quello la cui notorietà aiuta a legittimare operazioni immobiliari di dubbia congruità.
Perché sono disastri? Chi autorizza un giudizio così perentorio, che peraltro molti condividono, come Oriol Bohigas?
Uno spazio libero e intimo
Da molto tempo molti lamentano la carenza di una soddisfacente vita collettiva e l’attribuiscono alla mancanza di spazi nei nuovi quartieri, tant’è vero che qualche anno fa il Comune di Roma lanciò il programma di “cento nuove piazze” per rivitalizzare la periferia, e cento nuove piazze si propose di realizzare di lì a poco anche il Comune di Torino, ma i risultati di tanta buona volontà furono agghiaccianti.
Il fatto è che la condizione essenziale di una piazza è di essere tale, cioè di essere costituita da uno spazio libero circondato e delimitato da case abbastanza alte perché alla vita collettiva occorre riconoscibilità e intimità. Ora, i quartieri progettati dopo il 1950 sono fatti di corpi di fabbrica disposti liberamente – vale a dire senza un criterio in qualche modo riconoscibile e consolidato e condivisibile – intorno a spazi vuoti privi di una specifica destinazione, se non talvolta per il gioco dei bambini o per altre modalità connesse all’uso residenziale: che ora, cresciuti i bambini, restano desolati monumenti all’insipienza dei progettisti, come sottolineava qualche anno fa il film L’odio (La haine, 1995, regia di Mathieu Kassovitz).
Dunque le nuove piazze erano di fatto spazi informi che l’arredo avrebbe dovuto riscattare: e ovviamente alla irrimediabile desolazione dei luoghi venne così aggiunta l’evanescenza delle loro nuove sistemazioni.
Se dessimo dunque ascolto a quanto sembrano reclamare i cittadini o comunque a quanto le amministrazioni comunali sembra percepiscano dei loro desideri – se avviano codesti programmi è forse perché ritengono che lo slogan delle cento piazze abbia una qualche favorevole risonanza nel loro elettorato –, ci sarebbe da attendersi che almeno nei nuovi quartieri venissero evitati gli errori del passato: ma invece non sembra sia così, sembra che coloro cui ne è affidato il progetto non possano liberarsi dall’idea moderna che la città nuova non debba per principio assomigliare all’antica.
Questa sorta di schizofrenia produce mostri, produce appunto l’epocale disastro europeo dopo le dittature del secolo breve.
Se invece ci proponiamo di riprendere il filo interrotto della città europea, se riteniamo cioè che le piazze debbano ridiventare, come un tempo, uno dei temi costitutivi della bellezza di una città e forse l’occasione perché le persone riconoscano, nel confronto con gli altri, la propria identità di cittadini, allora occorrerà disegnare piani regolatori che abbiano al loro centro ideale sequenze non di spazi pubblici generici – come recita una volgata insipiente – ma precisamente le piazze, che sono prima di tutto temi collettivi e solo secondariamente sono anche spazi pubblici. Anche i cessi stradali, i vespasiani, sono pubblici, ma non a quelli veniva affidata la bellezza della città e nemmeno – se non in forme marginali e notturne – la socialità cittadina.
Ma nel ricorrere alle piazze occorre conoscerne il senso, perché le piazze – una originalissima invenzione europea che invano cerchereste nelle città dell’Islam o nella lontana Cina – hanno ciascuna un proprio tema sociale, un proprio nome.
Tutti sappiamo riconoscere la piazza principale di una città, sappiamo cercarla perché siamo certi che in tutte le centomila città europee – villaggi o capitale che siano, da Edimburgo a Trapani e da Siviglia a Cracovia – la troveremo, proprio come troveremo la chiesa principale e il palazzo municipale. Se poi guardiamo meglio, vedremo le piazze dei conventi che nel Duecento i frati degli ordini mendicanti pretendevano davanti alle loro chiese, per sottolineare sul piano simbolico che la loro predicazione non era un compito da portare a termine nel cerchio chiuso della loro chiesa ma era diretta a tutta la cittadinanza, soprattutto agli eventuali eretici che vi sarebbero transitati, magari per caso.
E l’occhio amorevole e attento vede la piazza del mercato, dove venivano concentrate le bancarelle e, sotto i portici, le botteghe, per evitare di vederle nella piazza principale, di fronte al palazzo municipale, dove avrebbero intaccato la sua dignità, mentre il vescovo non aveva nulla in contrario ad averle di fronte alla cattedrale.
Così noi riconosciamo i portici delle botteghe, a Venezia, nella piazza davanti a San Marco, mentre la piazzetta davanti al Palazzo Ducale era la piazza principale dove quanti ne erano interessati tessevano i loro intrighi politici.
Poi riconosciamo la piazza della chiesa, concepita quando Alvaro da Cordoba divulgò la Via crucis nel Quattrocento, ma anche la piazza monumentale, con i palazzi privati o pubblici più prestigiosi ma senza botteghe – come piazza della Scala a Milano – o addirittura programmate con un’architettura rigorosamente unitaria, come le place royale francesi o le plaza mayor spagnole o come piazza san Carlo a Torino, piazza Mazzini a Catania o Piccadilly Circus a Londra.
E poi, dall’Ottocento, le piazze dedicate alla gloria della nazione, con le banche, gli istituti nazionali (l’Inps, l’Inail, ecc.), ma anche i monumenti ai cittadini che più si sono distinti nella sua costruzione culturale e politica, Raffaello a Urbino piuttosto che Pietro Vannucci a Perugia, e Vittorio Emanuele II o Garibaldi quasi dovunque.
Beninteso, la loro riconoscibilità non impedisce che la medesima piazza sia insieme – come piazza del Duomo a Milano – una piazza principale (perché tutti i cittadini vi accorrono spontaneamente quando un avvenimento mette in gioco l’appartenenza alla comunità), la piazza della chiesa, la piazza del mercato (perché è circondata da portici sotto i quali vengono aperte le botteghe), una piazza monumentale (perché scena di palazzi con la medesima veste architettonica) e infine una piazza nazionale con al centro la statua di Vittorio Emanuele II.
Queste piazze sono poi connesse tra loro dalle strade tematizzate (la strada principale con i suoi negozi, la strada monumentale con i palazzi dei maggiorenti, la strada trionfale con il suo fondale prospettico, la passeggiata alberata con una larghezza fuori del consueto, i boulevard uno di seguito all’altro, e i viali che ci accompagnano verso le altre città), strade, come le piazze, ben distinguibili una dall’altra.
Nel corso dei secoli i cittadini delle città europee hanno impresso il desiderio di fare della città un’opera d’arte, di farne la culla della bellezza, disponendo con una persistente e grandiosa volontà estetica le piazze e le strade tematizzate, in una loro deliberata successione, in sequenze che fino al 1950 raggiungevano i quartieri più nuovi e più lontani evitando così la loro emarginazione simbolica. Ecco per esempio a Firenze la strada monumentale, gli Uffizi, in sequenza con la piazza principale, piazza della Signoria, seguita subito dalla strada principale, via dei Calzaioli, dalla piazza del Duomo con il Battistero, dalla strada monumentale fatta di palazzi privati, primo di tutti il palazzo di Cosimo de Medici, poi la piazza del convento davanti a san Marco e infine la piazza nazionale, piazza della Libertà, circondata da un colonnato uniforme che la rende monumentale.
Desiderio divino della bellezza
Queste straordinarie sequenze, che riconosciamo subito in ogni altra città, sono il frutto di una deliberata volontà estetica dei cittadini europei che per otto secoli hanno dovunque dato forma alla loro urbs. La nostra città non è infatti l’esito del desiderio di condurre una vita piacevole accanto alla corte del sovrano, come sosteneva nel Settecento Cantillon, o delle convenienze commerciali, come sostenevano i positivisti dell’Ottocento, e neppure è un congegno meccanico, una machine à habiter con il medesimo rigore funzionale di una fabbrica vera e propria come, con terribili conseguenze, sosteneva Le Corbusier, ma è prima di tutto una creazione dello spirito, del desiderio divino della bellezza.
Progettare una città per gli uomini, per i suoi cittadini, è cosa semplice che non richiede il gesto geniale di un architetto famoso che forse la storia ricorderà, ma è un modesto lavoro, un mestiere che non richiede genio ma comporta invece, piuttosto, una conoscenza specifica dei cittadini e delle altre città.
Di costoro nessuno ricorda i nomi. Se molti sanno chi ha progettato la cupola di San Pietro a Roma, nessuno sa bene, neppure la Guida rossa del Touring, a chi dobbiamo il sublime tridente di piazza del Popolo, a chi dobbiamo l’invaso del campo di Siena, e chi ha progettato la croce di strade di Palermo, che l’ha resa una delle città più belle d’Europa, è molto meno noto di John Soane, che ha progettato nell’Ottocento a Londra la banca d’Inghilterra.
Chi disegna un nuovo quartiere sappia tutte codeste cose, sappia per averla riconosciuta in tutte le città europee questa antica e radicata sapienza, e sarà allora in grado di dare una risposta rigorosa alla domanda che in questa nostra società va emergendo, nelle richieste e nei programmi stessi delle nostre amministrazioni comunali, nella nostra collettività, nella nostra civitas.
Ed è questa grandiosa e pervasiva volontà estetica, sedimentata nei secoli nelle città europee, che dovrebbe essere al centro di una politica della bellezza, di quella bellezza della quale oggi un ministro dichiara di voler promuovere la ricerca e la protezione.
Le note che seguono sono una sintetica presentazione di alcune prime lettura che si consigliano ai frequentanti la Scuola di eddyburg 2008. Riguardano argomenti che saranno sviluppati nelle lezioni,oppure premesse a una loro piena comprensione. I titoli in neretto corrispondono a testi che si possono scaricare dall’elenco in fondo a auqesta pagina. Quelli sensibili sono link ad altre pagine di eddyburg.
L’analisi dell’equilibrio/squilibrio tra vita pubblica e vita privata è illustrato nella trilogia di Richard Sennett: Il declino dell’uomo pubblico, Palais-Royal e La coscienza dell’occhio.
Il primo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1974, è una storia sociale della città, con particolare riferimento alla città del XIX e XX secolo. Nel capitolo “La fine della cultura pubblica” si descrive come l’uomo pubblico sia divenuto sempre più ‘privato’ e passivo nei confronti di una società ‘relegata’ nel reame intimo del nucleo familiare e dove il discorso politico diviene inquinato da psicologismi ‘fatti in casa’.
Nel secondo libro, un romanzo ambientato nella Parigi e nella Londra degli anni 1830-40, si racconta di due fratelli in cerca della propria personalità e riconoscimento sociale. Sennett mette in evidenza come la complessità di una città arricchisca la vita degli individui che la società definirebbe ‘falliti’ secondo la scala di valori del mondo che li circonda.
Il terzo testo è di nuovo un saggio che mira a porre in relazione l’architettura, la progettazione urbana e la pianificazione di una città con la sua vita culturale.
La città di Batman di Elisabetta Forni indaga sulla complessa trama che lega i bambini e la città e “prova a far parlare i bambini del malessere e delle violenze di cui sono vittime in una società che ha riprodotto ovunque un modello urbano adultocentrico e segregante.”
In particolare nel capitolo “La crisi dello spazio pubblico urbano” affronta il tema centrale del libro: la declassificazione degli spazi pubblici a luoghi di conquista dei più forti, dove l’auto ha la meglio sui pedoni, dove l’uso commerciale si appropria e recinta spazi che oramai solo nominalmente sono pubblici. Si veda anche in eddyburg la recensione di Giancarlo Consonni.
Il punto di vista femminile è raccontato nel libro curato da Antonietta Mazzette “L’Urbanità delle donne”. Un percorso del fare e vivere la città al femminile in cui si raccontano luoghi e vissuti assumendo come punto di vista le pratiche urbane delle donne. Nell’introduzione, “Trasformazioni urbane e vissuti delle donne”, vengono riassunti i tre grandi temi assunti per analizzare le esperienze di riqualificazione e rigenerazione urbana avvenute in Italia negli ultimi due decenni:
- La creatività e professionalità femminili come elementi di rigenerazione femminili
- Le fatiche del vivere in città
- Le nicchie di potere delle donne e l’organizzazione della città.
Tempo, accessibilità e mezzi di trasporto nella città contemporanea sono affrontati da Maria Rosa Vittadini in “La città accessibile”.
Henri Lefebvre, nel brano “Livelli di realtà e analisi”, tratto dal libro “Il diritto alla città” propone un modo di leggere la città per livelli, da quello globale legato ai processi generali esterni ed interni alla città, a quello più prossimo legato alla quotidianità, al modo di vivere, abitare; per ordini e dimensioni.
Edoardo Salzano, in "Paura in città", ragiona sulla percezione della paura, la difficoltà di rapportarsi con il “foresto”, l’affievolirsi della dimensione pubblica e la necessità di rivendicare gli spazi pubblici per superare tutto questo.
Nel libro “La Metropoli Consumata” di Antonietta Mazzette e Emanuele Sgroi, il capitolo conclusivo, “ Quali politiche urbane per quali effetti sociali”, svolge riflessioni e considerazioni sulle politiche urbane, in particolare quelle di rigenerazione e riqualificazione dei centri urbani, e sui loro effetti controversi. Gli autori si domandano se le politiche urbane siano regolatrici del consumo o invece siano anche esse rivolte alla promozione del consumo, dell’acquisizione e dispersione d risorse tra cui il suolo, la qualità ambientale, il territorio. Si veda anche in eddyburg la recensione di Fabrizio Bottini.
Quei non-luoghi sono espressione e, a un tempo, strumento di una profonda trasformazione del mondo che è azionata oggi da quel complesso di poteri che trova del neoliberismo la sua ideologia-non ideologia. Una trasformazione che sta riducendo ogni bene a merce, ogni cittadino a consumatore, e ogni diverso a nemico. E non a caso i due requisiti più apprezzati dagli outlet villages vestiti da finti paesi o da baracconi da fiera, come dalle “cento piazze” delle ferrovie e degli aeroporti, sono costituiti da dallo shopping e dalla sicurezza.
Qualcuno definisce i non-luoghi come “spazio democratico”. Ma democrazia significa essere padroni del proprio destino, mentre la “gente” che affolla i non-luoghi assomiglia alle folle del film Metropolis: massa di soggetti schiavi di un potere che, benché invisibile e impersonale, non è per ciò meno autoritario.
Bisogna governare i super-spazi, si dice. Ma per farlo occorre in primo luogo rendersi conto che essi, oltre a essere espressione di quella trasformazione del mondo, ne sono anche strumento. Favorirne la crescita, renderli più accattivanti, significa accrescere la potenza d’uno strumento di per sé malevolo. Governarli deve significare invece riprendere e rinnovare gli strumenti del controllo pubblico delle trasformazioni, a cominciare dalle utilizzazioni delle diverse parti della città: arricchire di spazi comuni e di luoghi aperti dello scambio (non solo mercantile) le periferie; restituire alla complessità e alla ricchezza sociale della vita urbana, gli spazi pubblici; ripristinare in ogni parte della città quella mixitè che ne è l’attributo più rilevante. Privilegiare, insomma, gli obiettivi sociali del governo della città su quelli mercantili.
Nella speranza che i cittadini, grazie a una democrazia rinnovata, siano più potenti della WalMart, dell’Ikea e delle altre multinazionali, le quali pianificano e progettano la città di un domani inquietante.
Sull'argomento vedi anche Mazzette su eddyburg, Erbani su Repubblica del 31 ottobre 2007, Tozzi su il manifesto del 23 ottobre 2007, e il testo di Agnoletto, Delpiano e Guerzoni
Carissimo Eddy, il tuo intervento sul tema della paura in città è veramente centrato e chiaro. Proporrò all’Amministrazione di utilizzarne lo spirito, nel documento preliminare al PUC.
Condivido l'importanza della creazione di spazi pubblici, per i quali a volte non servono nemmeno altisonanti e griffati interventi architettonici. Nel caso del mio Comune abbiamo concluso un piccolo intervento in questa direzione: si è trattato in gran parte solo di togliere (traffico d'auto, parcheggi, spazzatura).
È un intervento che mi rende felice, perché è stato un po’ attuare quello che ricordi sempre tu citando Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
In definitiva si è trattato di recuperare lo spazio all'interno del centro storico, sede della vecchia ferrovia,togliere 100 posti macchina, mettere qualche albero panchina, e il paese ha cambiato volto. Prima era uno sporco intestino, ora è un tinello e soggiorno , i bambini giocano ovunque ,ci si dà appuntamento e si discute di politica e anche di urbanistica.
Come dici tu non è che con la creazione di spazi pubblici si possano risolvere i problemi dell'integrazione e della paura , ma intanto una città più vivibile si frequenta e si ama di più.
Allego alcune immagini, che rappresentano lo spazio com’era, e come è diventato.
Cara Carla, le immagini che mi mandi (e che allego in un .pdf in cui le ho montate) sono molto efficaci. Se dappertutto, in ogni città, invece di pensare a grattacieli e a monumenti pensati per épater le bourjois si lavorasse nella direzione di un recupero della civiltà (perché di questo si tratta con gli interventi come il vostro), credo che alla fine anche la società cambierebbe un poco. È una grande responsabilità quella che noi urbanisti abbiamo. Non è sufficiente predicare che occorre tornare dall’oggettistica al’urbanistica: bisogna anche saperlo fare, dove è possibile farlo nel concreto, e utilizzare queste possibilità per far comprendere ai cittadini che una città a misura di società è possibile. Magari lavorando con loro.
Per la città le piazze sono importanti: lo erano nella sua storia, potranno esserlo per il loro futuro. Le piazze sono i luoghi grazie ai quali privato e pubblico, le due dimensioni essenziali della vita umana, trovano il loro equilibrio. Sono la cerniera tra la città e la società: tra le pietre dell’urbs e lo spirito della civitas. Sono la rappresentazione e l’anima della città poiché sono il luogo dello scambio: della compresenza di persone appartenenti di ceti, età, mestieri, condizioni sociali diversi, e quello dell’incontro con il “foresto”, il diverso, quello da cui si può apprendere e a cui si può insegnare, e attraverso il quale la nostra comprensione del mondo aumenta e la nostra vita diventa più ricca.
Senza la piazza la città sarebbe un mero aggregato di case, di edifici privati. Aperte al mondo, pubbliche, luogo dove si svolge con quotidianità un gran numero di funzioni urbane: questi i tre requisiti essenziali della piazza. Una “piazza” chiusa, riservata solo ad alcuni ed esclusa ad altri non è una piazza (se vi piacciono gli anagrammi potete dire che è una pazzia). Una “piazza” che non appartenga alla comunità cittadina ma a un privato, il quale possa disporne a suo piacimento, è anch’essa una pazzia. Come lo è una “piazza” ridotta a luogo di passaggio, o a deposito di automobili, o a mera esibizione di merci uguali dappertutto.
Eppure è un questa direzione, nella direzione della mistificazione e dell’alienazione, che gli eventi, e le forze che li governano, dirigono le nostre piazze. Due esempi. La pubblicità per l’operazione “Centostazioni: cento nuove piazze italiane”, dove la sicurezza e lo shopping sono le due connotazioni delle “nuove piazze”. La recente manifestazione bolognese “la civiltà dei superluoghi”, dove si proclama che “outlet, centri terziari dell'interscambio, aeroporti, stazioni ferroviarie, fashion district, centri commerciali, sono gli spazi di successo della nostra società” e che quindi bisogna “comprendere e non rifiutare questi ambiti nel progetto della città futura”. Una città a misura di mercato.
Oggi per portare la vita nelle piazze (quelle che si riesce a liberare dalle automobili, per sempre o, più spesso, per la durata dell’evento) bisogna lavorare, inventare, spendere, organizzare. Una volta non era così. Le piazze erano naturalmente il luogo nel quale tutti s’incontravano, quale fosse la loro età o il loro genere, il loro ceto e il loro mestiere: perché erano tra le case e le botteghe, punti focali delle città, dei quartieri e dei borghi di cui erano l’ornamento; perché ai loro margini o al loro vertice erano collocati i luoghi della vita pubblica; perché erano gli spazi, animati e tranquilli, di una comunità che in essi si riconosceva.
Non è difficile comprendere perché questa trasformazione è avvenuta, e perché la stragrande maggioranza delle piazze d’Europa è quella ereditata dal passato nelle parti più antiche delle città. La piazza era la cerniera tra le famiglie e la società; era il luogo in cui gli abitanti diventavano cittadini, in cui si vivevano gli interessi, le necessità, le emozioni comuni a tutti. Adesso tutto questo è cambiato. Le cerniere, se ci sono, sono altrove, e collegano una moltitudine (non una società, non una civitas) di consumatori (non di cittadini), sempre più priva d’identità, a delle “piazze”, reali o virtuali, sempre più massicciamente dominate dagli interessi mercantili della globalizzazione: dalla tv degli spot pubblicitari ai mall e ai “centri commerciali”, recintati ed esportati fuori dalle città.
Non illudiamoci. Non basta imporre la costruzione di piazze nelle periferie, non basta preoccuparsi del loro aspetto fisico, delle loro forme e dei loro arredi. Occorre al tempo stesso lavorare perché cambino i valori e le regole, gli interessi e i poteri, che caratterizzano la società, e la rendono capace di volere le piazze, e perciò anche di viverle.
1) Per quali ragioni, a tuo avviso, l’iter parlamentare delle proposte inerenti il governo del territorio e l’urbanistica è accompagnato da un così gran silenzio? Manca la coscienza diffusa del ruolo determinante che città e territorio sono chiamati a svolgere per il benessere di tutte e tutti? Oppure nessuno crede più che il destino di questa risorsa collettiva così preziosa ed esauribile possa essere salvaguardato dalla mano pubblica?
Una legge ma non solo
Oggi siamo di fronte ad una forte e diffusa consapevolezza che territorio e insediamenti nelle loro diverse espressioni, sono un bene comune e che tutte le trasformazioni del territorio progettate e volute oppure prodotto indesiderato o semplicemente non previsto, hanno sempre un effetto sulle vite di chi quei territori li abita o in qualche modo li attraversa. E c’è anche la consapevolezza del diritto di tutte le persone coinvolte in qualità di abitanti, a partecipare ai processi decisionali e quindi alle scelte. Assunzione del territorio come bene comune e partecipazione alle decisioni da parte degli abitanti “subalterni”, è possibile solo e soltanto se si modificano i rapporti di forza e le regole del gioco, visto che esistono gruppi sociali, quelli definiti forti, che decidono in base ai propri interessi personali o di gruppo, arrivando spesso a nasconderli dietro falsi interessi comuni. Esiste quindi una domanda diretta o indiretta, esplicita o implicita, di nuovi esisti territoriali e quindi di nuove regole del gioco. Come modificare i rapporti di forza e le regole non è tuttavia scontato. Infatti la mano pubblica ha delegato e sta delegando in modo diretto o indiretto il governo della cosa pubblica e in particolare del territorio a enti e agenzia private, quando non addirittura a consorzi di imprese (privatizzazione del governo del territorio). Nessuno sembra responsabile e le leggi tendono a rendere flessibile e negoziabile l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. La flessibilità dei piani urbanistici e la discrezionalità delle scelte è da sempre lo strumento principe della valorizzazione immobiliare. Infatti la mancanza di regole a favore della razionalità sociale (contrapposta a quella economica) rende scontato l’esito: vincerà l’intervento più lucrativo, quello presentato dai soggetti imprenditoriali che di volta in volta (spesso sono sempre gli stessi) si dimostrerà il più forte. La pratica della vittoria del più forte viene congelata nella legge attraverso la flessibilità e la discrezionalità: da strapotere e connivenza diventa legalità, si trasferisce alla legge.
Siamo di fronte ad un dilagare di leggi sul governo del territorio inutili, non cogenti e anche di piani urbanistici e territoriali molto flessibili che lasciano le decisioni a chi di volta in volta, fra gli imprenditori, avrà più forza, come dire che sono i rapporti di forza che scelgono quali trasformazioni urbane avverranno, non certo la giustizia. Insomma le regole che dovrebbero proteggere i beni comuni se esistono possono essere stracciate, in base al solito diverso peso e diversa misura. Oppure si possono elaborare regole che rendono lecito e legale quello che non lo era. Certe descrizioni di cosa sia la governance assomigliano in modo sconcertante alle procedure proprie degli accordi illeciti di tangentopoli, come dire una legalizzazione dell’illegale. Non c’è limite all’asservimento di certi pseudo-intellettuali.
Tutto questo credo crei poca fiducia nella redazione di una legge. Un altro limite di ogni legge è che qualsiasi generalizzazione e inclusione di istanze sociali in una legge, sconta il fatto che il particolare viene ridotto e tagliato, svilito, quando diventa universale-generale, e molto viene perso. Questo non vuole dire che le leggi e i piani se opportunamente elaborati non possano contribuire a modificare i rapporti di forza e le regole del gioco. Leggi e piani possono essere usati per salvaguardare e far crescere i beni comuni, solo che dobbiamo essere noi “tecnici” a tradurre le istanze in norme e piani e dobbiamo essere noi (che conosciamo tanti trucchi) a farli diventare chiari e stringenti, fastidiosi per gli speculatori e i cacciatori di profitti e rendite, mai così intrecciate ed indissolubili come oggi. In questo contesto sta a noi essere chiare sulla posta in gioco e sui suoi limiti. Sta a noi definire come una legge sul governo del territorio possa assumere queste domande sociali di partecipazione e di qualità urbana e territoriale decisa e prodotta collettivamente.
Le lotte dei tanti comitati dei cittadini contro l’ennesima speculazione immobiliare, le lotte contro la TAV e la base USA al Dal Molin di Vicenza, decise in modo dittatoriale, alla faccia di tutte le false chiacchiere sulla democrazia e sulla partecipazione, mostrano quali problemi vanno affrontati; quali carenze sono presenti sui nostri territori e cosa manca. Le leggi devono inscrivere quelle norme che rispondano a quei bisogni e impediscano risultati socialmente deleteri.
2) Condividi, del tutto o in parte, l’idea che la scrittura della legge urbanistica nazionale potrebbe offrire una occasione per ribadire la responsabilità pubblica in materia di dotazioni territoriali minime e nel contempo per riflettere sui limiti degli standard urbanistici (spesso non applicati o applicati solo come mera quantità, senza nessuna attenzione alla qualità dei servizi, alla loro localizzazione, diffusione, accessibilità, tempi di realizzazione, ecc.) al fine di ridefinirli radicalmente anche alla luce dei cambiamenti che hanno attraversato la nostra società?
Le infrastrutture sociali del territorio: ovunque e dappertutto
Le dotazioni di infrastrutture sociali obbligatorie ed inderogabili devono essere riconosciute come elementi di qualità del territorio: nella legge sul governo del territorio, nella cultura e nelle pratiche delle pubbliche amministrazioni. Una responsabilità pubblica inderogabile. Gli standard urbanistici prescritti dal DM 1444/68 hanno costituito per molte amministrazioni un fastidioso obbligo da assolvere: spesso in modo formale e non sostanziale, come vincolo e non come servizio effettivamente predisposto. “Ho gli standard” per molti comuni significa averli sulla carta e non nella realtà, come se uno abitasse nell’immaginario e non nel territorio concreto.
Alcuni aspetti della normativa del DM1444/68 vanno modificati. E non mi riferisco agli standard per esempio delle scuole, in nome del fatto che nascerebbero meno bambini: una previsione, falsa e tendenziosa, visto che alcune amministrazioni le scuole se le sono vendute per far cassa e ora si rende necessario costruirne delle altre. Previsione smentita quindi, e che comunque non tiene conto del bisogno di istruzione permanente. Si potrebbero usare le scuole anche per altri utenti ed altre funzioni. I discorsi sulle prestazioni dei servizi e degli spazi collettivi residenziali avrebbero dovuto servire anche a questo: a capire che ci possono essere usi contemporanei, se sono compatibili, e che solo per fare un esempio, spazi usati al mattino e al pomeriggio dagli studenti possono essere usati da altri la sera. Le scuole possono essere pluri-funzionali, ed essere utilizzate anche per l’istruzione permanente, e le palestre, e le sale riunioni potrebbero essere utilizzate anche di sera. E non va dimenticata la grave carenza, rispetto alla domanda, di asili nido e scuole materne.
Nel DM 1444/68, va eliminata la differenziazione nell’obbligo di rispettare gli standard (rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi) fra zone omogenee A (agglomerati urbani storici), B (aree totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A) e C (aree destinate a nuovi complessi insediativi). Infatti tutte le zone devono garantire i minimi di legge, anche le aree A e B. L’articolo 4 del DM prevede che le aree a servizio, per gli interventi in zone A e B, cioè in aree edificate del tutto o in parte, siano computati in misura doppia rispetto a quella effettiva, per rispondere ad una presunta difficoltà a reperire spazi per gli standard per esempio in un centro storico. Questo poteva avvenire “qualora sia dimostrata l’impossibilità – per mancata disponibilità di aree idonee…”. Se una qualche giustificazione poteva darsi in certe condizioni certo non è vera adesso, quando si liberano aree dismesse produttive e terziarie nelle aree edificate e gli interventi speculativi coprono tutto lo spazio disponibile e quello per i servizi pubblici alla persona non si trova mai. E’ successo che si liberasse spazio negli stessi centri storici ma invece di utilizzarlo per gli standard sono stati concessi nuovi interventi abitativi, uffici, commercio mentre i servizi sono stati spostati altrove, in zone meno appetibili e pregiate.
Va eliminato il “di norma” che precede la ripartizione delle quantità degli standard (“tale quantità va, di norma, ripartita”; art.3 secondo comma) che ha permesso ai comuni di limitare i servizi a parcheggi e verde magari sulla copertura del parcheggio, lasciando gli abitanti privi della qualità urbana di cui dovrebbero aver diritto. In una logica di stato non confessionale, le chiese vanno eliminate dagli standard: non solo perché ce ne sono già davvero tante, ma anche perché in base a questa norma la chiesa cattolica riceve dai comuni i fondi derivanti dagli oneri di urbanizzazione, quando mancano servizi essenziali come quelli per gli anziani (autosufficienti e non autosufficient) e i centri sociali e culturali pubblici. Gli edifici delle diverse confessioni vanno costruite a spese dei loro credenti. Compito dello stato è offrire gli spazi e i servizi universali cioè per tutti.
Ma abbiamo bisogno anche di nuovi spazi per servizi, oltre a quelli elencati nel DM, ed escluse come già detto chiese ed oratori. Case per anziani con lavoratori contrattualizzati cioè con orari di lavoro definiti e con tutti i diritti fondamentali da statuto dei lavoratori: anche assumendo le badanti straniere che così non si troverebbero da sole di fronte ai datori di lavoro, né sarebbero soli gli anziani, costretti ad andare al supermercato per vedere qualcuno. Luoghi di cura e di incontro per gli anziani nel mezzo degli insediamenti urbani per favorire l’incontro con gli altri di tutte le età: mai più soli.
Creare le nuove cattedrali laiche della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, totalmente pubbliche. Imparare, insegnare, comunicare, discutere, decidere, progettare, assistere a spettacoli e guadare mostre, guardare gli altri, leggere, non da soli. Le scuole per tutti, lo spazio per l’istruzione permanente. Uso pubblico delle palestre. Centri sociali e case delle donne come spazi pubblici gestiti dai fruitori. Servizio alla persona universale significa che tutti devono poter accedere e che bisogna rompere la logica del servizio costruito dall’impresa privata che è disponibile a realizzare solo i servizi che rendono. Basti pensare al project financing che prevede siano attuati solo i servizi in grado di produrre reddito per ripagare che li realizza (e così si realizzano e sono davvero obbligatori solo i parcheggi a pagamento). Anche i mezzi pubblici e gli spazi pedonali fanno parte delle infrastrutture sociali urbane da rendere obbligatorie.
3) Il movimento delle donne ha già da tempo indicato la strada per ampliare il contributo dell’urbanistica alle politiche di welfare, andando ben oltre l’approccio delle “dotazioni territoriali minime”. Per quali ragioni, a tuo avviso, le tematiche legate alla qualità dei tempi e degli spazi di vita (le cosiddette politiche spazio-temporali) così come quelle relative alla sicurezza urbana, rimangono un ambito di riflessione, ricerca ed azione di alcune reti circoscritte ed animate soprattutto da donne?
Non ci sono tempi senza spazi. Tanta fatica per nulla: il problema non è facilitare l’assolvimento del ruolo ma liberare dai ruoli imposti. Solo per libertà.
Non ci sono tempi senza spazi. Senza nuovi servizi non ci possono essere politiche spazio temporali che rompano le discriminazioni. Le politiche su tempi e spazi che si focalizzano sulla conciliazione dei tempi rischiano di congelare e di dare per scontata una divisione dei compiti che non ha nulla di naturale né di immodificabile. Per qualcuno la politica di genere sembra sia caratterizzata dall’accorgersi delle discriminazioni e dei lavori delegati alle donne, ma invece di incidere con politiche efficaci su questa ingiustizia, si usano palliativi per rendere meno oneroso il doppio lavoro, senza cercare di superarlo e di individuare modi concreti per superarlo. Questo approccio lascia la dicotomia dei compiti attribuiti in base al genere a sé stessa e non propone altro che di “far correre meglio” di qua e di là le donne, ma non pensa minimamente che certi compiti dovrebbero essere una funzione sociale, attribuita a servizi pubblici. La famiglia viene incensata mentre le vengono attribuiti compiti abnormi rispetto alle sue forze: la cura degli anziani anche non autosufficienti, solo per fare un esempio, in nome della solidarietà, ma in realtà in nome del risparmio sul welfare. Un risparmio attuato per liberare risorse per un eccesso di autostrade e opere pubbliche non sempre così necessarie (alta velocità), oppure finalizzate allo sviluppo economico, di cui sarebbe più logico si facessero carico direttamente imprese e aziende che di quelle infrastrutture hanno bisogno per i loro spropositati profitti/rendite.
Le politiche spazio temporali hanno senso se se ci sono spazi da connettere e se ad essere connessi sono opportuni luoghi per nuovi servizi altre a quelli tradizionali, invece mancano elementi fondamentali di infrastruttura sociale come gli spazi pubblici e collettivi per l’incontro e la cultura. E ogni scusa è buona per eliminare quei pochi che ci sono. Se gli spazi da connettere sono solo i negozi, quelli, per vendere sono disposti ad essere aperti a qualsiasi ora. Allentare la rigidità dei tempi dei servizi, se i servizi non ci sono, non ha un gran senso.
Bisogna liberare gli spazi perché possano accogliere ed ospitare la creatività individuale e collettiva. Liberare gli spazi significa affrontare il nodo della rendita fondiaria e dei profitti immobiliari. Se non si cambia logica da quella del valore di scambio al valore d’uso, dalla razionalità economica a quella sociale, non avremo spazi da connettere, ma solo brandelli, sempre più piccoli di spazio privato (più piccoli perché i prezzi fanno ridurre lo spazio abitativo consentito).
Se la preoccupazione dei tempi riguarda le corse per far convivere lavoro domestico, di cura, la riproduzione, con il lavoro retribuito, fino a che sono le donne a farsene carico, chi altro dovrebbe occuparsene?
Altri problemi nel regolare i tempi attengono al fatto che il tempo di lavoro e la stessa occupazione tende ad essere sempre più flessibile. Come si fa a regolamentare? Il tempo di lavoro è sempre più faticoso: flessibile per i datori di lavoro, rigidissimo per noi. Tempi di lavoro e tempi di vita devono essere compresi e affrontati insieme. Altrimenti di chi e di che cosa stiamo parlando?
Quanto alla sicurezza urbana, il problema è che questo termine mette insieme significati troppo diversi, che creano gravi fraintendimenti. Una accezione di sicurezza, quella che ci interessa in una prospettiva di genere, è che le donne devono poter girare dappertutto, anche di notte, senza rischiare molestie, intimidazioni e violenze: il termine “sicurezza” non descrive questo bisogno di libertà di usare la città e il diritto alla inviolabilità e all’autodeterminazione delle donne. Infatti sicurezza urbana significa anche altro: per esempio ordine pubblico, spesso ingiusto, cioè debole con i forti e forte con i deboli. Non credo di dover fare degli esempi. Bisogna imparare ad usare i termini corretti per esprimere un concetto, in altri termini chiamare le cose con il loro nome, e sicurezza urbana non ha in sé la capacità di rappresentare la libertà delle donne nel muoversi nello spazio urbano. Anzi il rischio dell’uso del termine sicurezza urbana è che fa sembrare che la nostra libertà di donne si ottenga espellendo gli emarginati dallo spazio pubblico, mentre molti nostri nemici (sessisti) hanno soldi e sono apparentemente “per bene”, nessun vigile o poliziotto li fermerebbe mai per un controllo di ordine pubblico.
4) Cosa si potrebbe e/o dovrebbe fare perchè questo tipo di politiche, che peraltro sono state oggetto di alcune buone legge regionali, siano finalmente assunte da donne e uomini come politiche centrali da inserire con forza nelle scelte e nell’azione del nuovo Governo nazionale, contribuendo a ridisegnare le coordinate di un nuovo sistema di sicurezze e garanzie sociali (il cosiddetto welfare)?
Servizi pubblici e collettivi e la costruzione della città in comune
Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale delle città come bene comune. Bisogna liberare lo spazio dalla logica immobiliare e sviluppista, nel senso che deve prevalere il suo uso sociale su qualsiasi ipotesi di sfruttamento. Solo escludendo gli usi che producono rendita fondiaria – profitto immobiliare in favore di quelli di cui c’è davvero bisogno, potremo avere spazi in grado di ospitare nuovi modi di abitare, spazi comuni, collettivi, pubblici in cui possa svilupparsi la creatività sociale. Da un lato quindi va ottenuto spazio per quelle funzioni che sono oggi carenti nelle città: abitazioni a prezzi commisurati ai redditi (flessibili e fluttuanti) da lavoro e al mancato reddito dei disoccupati, servizi alla persona, spazi per l’istruzione permanente e per la cultura…
Ma un vero stato sociale, che in Italia non è mai esistito in pieno, oggi non può non porsi il problema del reddito per tutti. Se non c’è lavoro per tutti, tutti hanno bisogno di vivere. Luciano Gallino nel libro del 1998 “Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione” afferma che in Italia esiste una vera e propria “miniera di lavoro” che non viene sfruttata. Le aree di crescita occupazionale secondo lui sono molteplici: la difesa del suolo e dei cittadini, i beni culturali, i trasporti, la formazione e la ricerca. La strada che Gallino individua non è quella di moltiplicare gli oggetti da tenere in casa o in ufficio o addosso, ma bensì di creare lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita. Quante attività di cura sono necessarie e quanto bisogno hanno le città e le metropoli di una riqualificazione ed infrastrutturazione sociale che non è fatta solo di spazi ed edifici pubblici e collettivi ma anche di persone che danno loro senso e contenuto. Il lavoro di riproduttivo, di cura delle persone, deve diventare centrale, ma deve essere retribuito in modo diretto o indiretto. Se ho il reddito di cittadinanza posso fare lavoro sociale e di cura, ma anche culturale ed artistico senza sottostare alle logiche elitarie e segreganti del mercato capitalistico.
Non solo produzione ma anche riproduzione, non tanto produzione di oggetti ma produzione di relazioni e di cultura, e perché no, di felicità. Ricordate? Un salto di paradigma.
Nota
Il sito Tempi e spazi, Laboratorio sugli spazi , ospita un servizio a cura di Fanny Di Cara e Silvia Macchi (marzo 2007) su “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”.
In esso:
- un contributo di Marisa Rodano , che ha traccia “la storia del percorso intrapreso dal movimento organizzato delle donne, in particolare dall’Unione Donne Italiane, fra la fine degli anni ’50 e inizio anni ’60, per dotare le città di un minimo obbligatorio di servizi e per renderle rispondenti alle esigenze reali della popolazione”,
- le risposte di Patrizia Colletta, Marvi Maggio, Rossella Marchini, Anna Marson, Angela Scarpano alle domande sul tema: “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”
Inviamo il comunicato stampa relativo alla prospettata vendita, da parte del Comune di Modena di alcuni campi da calcio ubicati all'interno della città, Il Direttivo della Sezione di Modena
Modena si adegua alla controriforma urbanistica?
Legambiente è insorta e parla di “un’operazione che definire una porcheria è elegante”. Edoardo Salzano, l’urbanista che ha ispirato le migliori e più avanzate politiche territoriali nella nostra regione, “spera che la notizia sia smentita, perché è una notizia bruttissima”. Di che si tratta dunque? Nel quadro della delibera del consiglio comunale che approva il “piano triennale di dismissioni”, anche i campi di calcio esistenti di proprietà comunale sono messi sotto osservazione “per verificarne la migliore collocazione all’interno del territorio nell’ottica di realizzare possibili spostamenti che conducano a un miglioramento della dotazione sportiva della città”, perché, “una volta individuata la nuova collocazione, si potrà procedere alla modifica delle destinazioni delle aree occupate attualmente dai campi e alla vendita delle aree stesse in modo da finanziare l’operazione di spostamento dei campi”. E via intanto alle “verifiche di piano regolatore per la maggiore valorizzazione dei beni oggetto di alienazione”. Tutto qui. Un’operazione, allora, patrimonialmente e urbanisticamente a saldo attivo?
Crediamo francamente di no.
Le attrezzature sportive programmate e integrate entro i più recenti insediamenti anche residenziali della città costituiscono, così intenzionalmente collocate, non solo un essenziale servizio, ma anche un ineliminabile elemento di equilibrio, come spazi inedificati, nella composizione urbana. Non possono dunque in alcun modo considerarsi incompatibili con la residenza che ora le circonda (per usare l’espressione della delibera consiliare) e lì è insediata non certo casualmente ma per atto responsabile di pianificazione. Rimuovere (come una presenza spuria) i campi da calcio oggi in uso alle polisportive, confinandoli dunque all’estrema periferia, per recuperare alla edificazione gli spazi abbandonati, immessi nel mercato delle aree secondo la dichiarata logica privatistica della massima valorizzazione, è operazione urbanisticamente in vistosa perdita. Che coglie anzi il Comune in un singolare vizioso conflitto, giacché la nuova destinazione di quelle aree sarà decisa in conformità all’interesse del Comune-proprietario al più elevato realizzo e contro l’interesse del Comune-urbanista a contrastare il riempimento, con un denso edificato fuor di un disegno organico e con ovvi effetti di congestione, di vaste aree pubbliche dal piano regolatore volute libere e integrate in funzione di servizio nel circostante insediamento.
Italia Nostra invita quindi l’Amministrazione Comunale a riconsiderare il problema, rifiutando le soluzioni che appaiono espressione di quegli spiriti di controriforma urbanistica, che è agevole constatare ma è doveroso contrastare, negli anni recenti sempre più diffusi nel nostro paese.
Il direttivo della sezione modenese di Italia Nostra Grazie, modestia a parte. Per favore tenetemi informato. Una parte del mio cuore sta nell'urbanistica modenese. Conoscevo e stimavo Rubes Triva, e dall'urbanistica modenese, quando ero studente, ho imparato molto. Sono amico di Ezio Righi, urbanista comunale per molti anni, ed ero molto legato a Piercamillo Beccaria, che concluse la sua vita come sindaco di Modena; lo avevo conosciuto a Roma prima che decidesse di trasferirsi nella vostra città. Era lui che mi aveva illustrato il progetto di realizzare centri polisportivi con una forte caratterizzazione associativa e un forte ruolo democratico, basati sulla proprietà pubblica del suolo come garanzia di base. Mi dispiacerebbe molto se anche questo finisse con gli altri patrimoni comuni liquidati, divorati dal nostro tempo di lupi.
Buon lavoro.