A contare davvero saranno il talento e la competenza di chi ci lavora. Così si sfida Amazon - La catena Waterstones trasformerà i negozi in punti vendita differenziati, a misura dei lettori che li frequentano, dai bambini agli studenti universitari - La presenza della caffetteria avrà senso se nel quartiere non ce n´è un´altra
In tempi di fatturati sempre più magri e con lo spettro del mercato digitale alla porta, i librai si interrogano sul loro futuro. Lo fa in Italia il libraio indipendente Piero, nella defilata Acqui Terme, ma anche il colosso del Regno Unito Waterstones, che dopo aver aperto e trasformato le sue trecento librerie in supermercati della carta stampata, ha annunciato una clamorosa retro marcia.
Il suo nuovo manager, James Daunt, classe 1963, un riservato e tranquillo esponente della borghesia upper class londinese, intende suddividere la catena di librerie in una quarantina di gruppi più piccoli, diversificati e molto più specializzati. Il che non significa necessariamente abbandonare il modello dei grandi store dall´assortimento prodigioso, i libri di vendita facile o i commessi interscambiabili, ma sicuramente ripensare alla libreria come a un luogo socialmente particolare. «Le singole librerie sono più importanti di Waterstones», dichiara Mr. Daunt, specificando che non esiste un unico modello di catena che necessariamente funzioni.
Perché il vero motivo, oggi, per entrare in una libreria è che si tratta di una buona libreria. La ricetta di Daunt poggia su una rete di manager commerciali responsabili di non più di dieci negozi, che dovranno differenziare e rendere unici i loro punti vendita, in controtendenza, quindi, con le logiche del franchising. Ogni libreria potrà essere diversa: la presenza di una caffetteria avrà senso se nel quartiere dove sorge la libreria non c´è un´altra buona caffetteria, altrimenti non è obbligatoriamente necessaria.
Ci sarà una Waterstones specializzata in libri per bambini (e con scaffali bassi) in quel quartiere residenziale particolarmente popolato di giovani lettori, e una fornitissima di saggistica accanto al Campus universitario. Dare i giusti libri ai giusti lettori, insomma. Una ricetta "mirata" molto diversa da quella che propone il colosso americano Barnes & Nobles, intenzionato, invece, a continuare con il suo modello "generalista", con un fortissimo incremento, però, del reparto tecnologico. L´idea è quella di proporre l´e-book (vedremo come) sullo stesso piano del cartaceo. Con un rischio: quello di mettere il libro, se si allarga l´hi-tech a tutto, nello stesso calderone degli altri strumenti di cannibalismo del tempo libero.
E tra B&N e Waterstones, due modelli opposti, è in corso di definizione un accordo per la diffusione nel Regno Unito del Nook, il lettore e-book anti-Kindle che ha ottenuto un buon successo nel (solo) mercato Usa, e questo perché, dice Daunt, «è evidente che anche noi dovremo vendere libri digitali, dal momento che i nostri clienti li vogliono leggere. D´altra parte lo schermo del computer non è un bel posto dove acquistare libri: è più bello toccarli, sentirli, in un luogo fisico». Ma non basterà esporre Nook a salvare le librerie, così come non lo saranno eventuali aiuti governativi. «Forse in Francia, ma non nel Regno Unito». L´idea del manager di Waterstones è coerente con la reale sfida del momento: nell´epoca della conoscenza e dell´informazione, a fare davvero la differenza sono il talento e le competenze di chi lavora. E di chi sa offrire un sistema coerente di valori fondamentali.
Nonostante tutti gli algoritmi, infatti, i sistemi di suggerimento automatico del "diavolo" Amazon non potranno mai sostituire l´attenzione e la cura di un bravo libraio (come dice Daunt "editori, librai e agenti sono legati: o sopravvivono insieme o resterà un unico ente, Amazon, che rimpiazzerà tutti. Per questo la battaglia è comune"). Ed è proprio nel rapporto umano tra il libraio (e suoi commessi) e il cliente, all´interno di un negozio con una particolare atmosfera, che si gioca tutto. La catena di Borders (fallita) aveva fatto delle librerie dei luoghi dove leggere, bere e mangiare, ma le interazioni personali e le occasioni di arricchimento di un caffè e di un negozio di libri sono completamente diverse. Che cosa cerca infatti il compratore di libri? Stupore e comprensione. Da quando lo conosco, il libraio Piero ordina i quantitativi di libri scegliendoli a uno a uno dai vari cataloghi, e si difende dal marketing imposto dalle case editrici non perché sia particolarmente scontroso o reazionario, ma perché sa prevedere che cosa e a chi venderà.
I Di Giulio di Matera, ad esempio, puntano sulla localistica e sugli autori che possono generare interesse solo in un ristretto numero di chilometri, e questa è un´altra delle strategie annunciate dal management di Waterstones: non tutti i lettori, infatti, si interessano a tutto. Claudio, a Verona, preferisce organizzare le Libriadi con le insegnanti della zona, che saranno più facilmente suoi clienti per lungo tempo, piuttosto che invitare l´autore del momento.
Essere una buona libreria non è però necessariamente una caratteristica degli indipendenti: Daunt stesso dice di ispirarsi al modello di catena vecchio stile, riconoscendo anche in loro una filosofia di incontro culturale con i loro clienti. Occorre diventare sfidanti sulla percezione del luogo, sulla competenza, sulla capacità di scoperta e di suggerimento.
Il buon libraio non ama necessariamente i libri. Ama chi li legge. Roberto Calasso, in una lettera in calce a un saggio per librai (Vendere l´Anima, Laterza), scrisse che «la buona libreria è quella dove ogni volta si compra almeno un libro. E molto spesso non quello o non solo quello che si intendeva comprare quando si è entrati».
I tempi non sono facili: a Bologna rischia la chiusura la vecchia Zanichelli, a Roma dopo la storica Croce e Bibli sta per dare l´addio (lo annuncia il sito Finzioni) Amore e Psiche. Ogni giorno ha la sua pena. Eppure c´è chi, come Daunt, propone dei modelli per resistere. I buoni lettori hanno con le loro librerie un legame simile a quello che si ha con il proprio barbiere: un investimento di confidenza che non si vuole perdere. Che sia la Libreria Central di Barcellona, dove sono presenti le versioni in varie lingue degli stessi romanzi, o la Hatchard´s di Londra, poco importa. Quest´ultima è un gioiellino architettonico specializzato in libri per ragazzi autografati: ogni volta che esce qualcosa di nuovo cerco di passare davanti alla loro vetrina per vedere se ne avessero già una copia firmata. Ecco: c´è scritto che sono librai dal 1797. E poi ho scoperto che è una libreria Waterstones.
Il 23 febbraio del 2002, a Milano, la prima Critical Mass cominciò a pedalare controcorrente facendo della bicicletta il mezzo più efficace per pensare un’altra idea di città. Parla Giovanni Pesce, fomentatore della prima ora
Dieci anni fa, a Milano, un gruppo di pazzi senza meta cominciò a pedalare di sera stravolgendo il ritmo di una città che è cambiata (in meglio) anche grazie all’uso della bicicletta che è ben altro dall’essere «solo» il mezzo per muoversi più moderno e intelligente del mondo. Se qualcuno pensa che Critical Mass sia stata solo un’allegra apoteosi di ruote, telai e manubri per fancazzisti a spasso si sbaglia di grosso. Ne parliamo con Giovanni Pesce, un fomentatore degli albori che questa sera, con un po’ di nostalgia, inforcherà il suo mezzo per il solito appuntamento in piazza Mercanti (ore 22,30). Portate le candeline.
La bici è un’arte e i primi agitatori della Critical Mass l’avevano già capito dieci anni fa. Da allora come si è modificato l’immaginario della bicicletta?
Ciclismo e Artivismo improvvisamente erano diventati la stessa cosa. Critical Mass fin da subito si nutriva di immagini e arte. Flyer, poster, musica, poesia, illustrazioni, performance. Ricordo che a una delle prime CM milanesi si è presentato con la sua bici anche Berry McGee, uno dei padri della street art di San Francisco, adesso è diventato una star. Tra gli Artivisti di CM di tutto il mondo era costante un fitto interscambio di immagini per poster e di altri manufatti artistici che disegnavano una nuova estetica della bici. A Milano, e in seguito anche nelle altre città italiane, nascevano mostre, contest di poesia, rave, video installazioni, l’obiettivo era creare un nuovo immaginario e direi che la missione è perfettamente riuscita. I nuovi ciclisti hanno creato una nuova idea di bicicletta e di società che ha lasciato il segno, contagiando viralmente artisti, illustratori, grafici, designer, il tutto poi si è riversato nella moda, su youtube, nella pubblicità, direi che è stato un tassello molto importante per la creazione di un nuovo stile di vita. Non è un dramma se la bicicletta è di moda, anzi.
La prima sgambatella velorivoluzionaria è stata organizzata in inverno. Geniale questa cosa dell’epica invernale, la bicicletta per domare la città inospitale, non solo per rilassarsi con una scampagnata primaverile in compagnia dei bambini.
Era il 23 febbraio 2002. Dieci anni fa. Uno dei messaggi era che è bello vivere tutte le stagioni senza avere paura, prendendosi anche il vento gelato in faccia, fitness e rivoluzione, urban wilderness dicevamo per scimmiottare gli americani. L’idea era: perché fare gli sportivi solo in palestra o alla settimana bianca e non mentre si va a scuola o a lavorare? Milano è una città nordica che ha perso la propria identità locale fagocitata dal piattume climatizzato del tubo catodico, godiamocela lo stesso, saltando sulla bici anche al freddo e al gelo.
I ciclisti più fichi adesso le biciclette se le costruiscono da soli. Autoriparazione come filosofia scaccia crisi e meccanica ridotta all’osso per puntare all’essenziale, un’altra intuizione geniale questa.
La cultura D.I.Y. (do it yourself, fai da te) ha cambiato radicalmente l’uso e l’immaginario delle biciclette soprattutto nelle aree urbane. Gli esemplari autocostruiti sono bellissimi, la bicicletta è un esemplare unico, da collezione, un oggetto artistico ma alla portata di tutti, ognuno può farsi o ripararsi la sua in una ciclofficina pubblica. Non è un caso se la cultura del fai da te e dell’autocostruzione adesso è in piena esplosione anche commerciale.
Non mi sembra che CM abbia mai avuto a che fare con la politica ufficiale, insomma il vostro cavallo di battaglia non erano le piste ciclabili.
Direi di no. Invece di chiedere le cose direttamente al sindaco – e che sindaco avevamo... Critical Mass si rivolgeva direttamente agli altri cittadini praticando una sorta di lobbying orizzontale. Non era una manifestazione rivendicativa, ero «solo» un gruppo di persone che usciva alla sera per bersi un bicchiere di birra o di vino, sempre in bicicletta e sempre partendo dallo stesso punto, proprio per darsi un appuntamento fisso senza tanti sbattimenti, se ci sei vai ti aggreghi e ti diverti... Sembra una cosa solo giocosa ma non lo è, perché così facendo i ciclisti agivano, e agiscono, sui modelli di consumo: un gesto individuale come quello di prendere la bicicletta e uscire, reso visibile e importante facendo «massa critica», è un gesto molto politico, è servito anche, o meglio dovrebbe servire, ad abbattere un tabù. Anche a sinistra.
Cioè?
Il tabù della supremazia «metalmeccanica». Critical Mass ha aperto un doloroso ma necessario dibattito anche a sinistra, laddove l’automobile è ancora considerata un feticcio, come se questi ultimi decenni di (im)mobilità insostenibile non avessero ancora insegnato niente. Il movimento – mai come in questo caso la definizione è perfetta – ha inaugurato un nuovo repertorio di argomentazioni, che sposta l’accento sulla nostra condizione esistenziale di schiavitù dell’automobile. Lo definirei ambientalismo estetico esistenziale: parla di esistenze recluse (ore e ore per rientare dal lavoro), interi popoli (il nostro soprattutto) che vivono incapsulati in ridicoli salottini semovibili, alienati dal territorio, bambini privati della propria libertà di deambulazione. In fondo lo smog è solo uno dei problemi, forse il minore. La civiltà dell’auto è un modello esistenziale, industriale, antropologico. CM ha cercato di alzare il livello del discorso, altrimenti sempre appiattito solo sulla questione sanitaria, lo smog appunto.
Lo spontaneismo puro del movimento su due ruote non è anche il suo limite?
C’è una profonda differenza rispetto ai tanti movimenti strutturati in comitati, esecutivi, assemblee. CM è una coincidenza organizzata, non una manifestazione tradizionale. La testa della CM non esisteva, decideva chi era presente in quel momento. Lo spontaneismo di strada aveva i pro e i contro, ogni tanto si scivolava nella provocazione pura e semplice, c’era sempre un piccolo atto di prepotenza, ma mai niente di importante, occupare la stada era un po’ come giocare a Davide contro Golia, con uno spirito giocoso, almeno una volta alla settimana.
Questi ultimi dieci anni valgono un secolo, il mondo è cambiato. Credi davvero che CM abbia lasciato il segno?
Sì, la «massa critica», almeno quella su due ruote, ha mostrato il volto epico e poetico della bici, ha ridato dignità ai ciclisti urbani uscendo dal territorio delle rivendicazioni politiche classiche (niente petizioni, presìdi sotto il municipio, lettere al sindaco...). E questo atteggiamento, paradossalmente, le ha dato ancora più peso politico. Come è successo negli anni Sessanta per i Provos di Amsterdam. Sono loro, gli artivisti olandesi che hanno creato le condizioni di consenso per inventare la Amsterdam moderna che ancora oggi è un punto di riferimento per tutte le città che si vogliono europee. A Milano, per esempio, la bici cresce del 20% ogni anno, e questo successo lo si deve anche a Critical Mass.
Titolo originale: The whole economics of the Olympics project have failed absolutely - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si potrebbero scrivere parecchi libri sull’andazzo delle Olimpiadi. C’è una quantità sterminata di cose da dire a proposito del Comitato Olimpico Internazionale e di come funziona. E anche parecchio più in generale sull’evento su cui varrebbe la pena di approfondire davvero. Io mi sono occupata delle trasformazioni urbane. Non avevo alcun motivo particolare per occuparmi dell’evento sportivo, ma la cosa ha iniziato a interessarmi quando ho capito che era l’occasione di cambiare radicalmente una enorme porzione della città. Un’altra enorme fetta di tessuto urbano, e ancora col medesimo metodo del privato [come altre, i Docklands ad esempio, di cui ho parlato nel mio libro Ground Control].
Secondo i politici britannici quella era una enorme potenziale riqualificazione urbana. Ma quando si parla di riqualificazione in questo paese si intende in realtà trasformare e segregare enormi zone della città. Si è cominciato coi Docklands e pare adesso siamo arrivati a Stratford City. Non credo che si siano spiegate con sufficiente chiarezza le questioni [che stanno dietro privatizzazione e riqualificazione]. Non è un ambito dove si gioca alla pari. Nessuno ha mai detto che ci saranno perdite in termini di superfici pubbliche, certo si ottiene un parco, ma si tratta di un parco totalmente privato. Non è uno spazio democratico. Cose di cui non si discute mai chiaramente.
L’associazione London Citizens chiede più informazioni su questa carenza democratica [ad esempio non si sa a chi è demandata la gestione del quartiere olimpico dopo i giochi]. E le cosiddette consultazioni pubbliche, che assomigliano molto di più a una mostra itinerante dei progetti, di fatto non sono per nulla occasioni di discussione sul piano. Risulta davvero difficile arrivare al punto. Bisogna capire tante cose, andare oltre le espressioni gergali di certi pianificatori. Il modo in cui queste cose sono decise e proposte sul mercato fa sì che non si capisca mai bene cosa sta accadendo. Succede sempre, ovunque, quando si tratta di riqualificazione urbana.
L’aspetto più scioccante [se guardiamo alla circoscrizione amministrativa che ospita le Olimpiadi, Newham] è quello della casa. Mi sono interessata di Newham proprio perché volevo verificare quelle promesse di case economiche, a fronte della realtà in un contesto di generali tagli al settore. Ho girato per Newham restando totalmente sconvolta dalla situazione abitativa. Che resta del tutto invisibile. Si guarda una casa dal di fuori e tutto pare a posto. Niente fa capire che in realtà lì dentro ci sono 20-30 uomini che dormono in due in letti a castello, in condizioni orribili, con umido e muffa sulle pareti. All’associazione Shelter mi hanno addirittura raccontato che uno dei loro assistiti dormiva in un frigorifero industriale, e tutto resta completamente invisibile. Non appare evidente, come fosse un ghetto, una baraccopoli, niente di tutto questo. Sta nascosto dietro a quanto ci appare come un edificio normalissimo. Ecco qual è la situazione: condizioni in tutto e per tutto da terzo mondo.
Ma tutta la vicenda delle Olimpiadi è piena di aspetti scioccanti. Mi ha colpito il documento di impegno etico [siglato prima dei giochi ma non riconosciuto poi dalla Olympic Delivery Authority sulla base della sua istituzione solo successiva alla firma] del tutto ignorato per quelli che davvero paiono stupidi cavilli legali. Dov’è finito lo spirito olimpico?. Sparito l’atteggiamento dei grandi eventi nazionali del passato. Il motivo – non si tratta proprio di qualcosa di nebuloso – sta nelle leggi. Abbiamo perso del tutto l’idea del bene pubblico da quando nel 2004 essa è stata in silenzio sostituita dalla [necessità] economia. Una cosa già successa negli Usa, e che lì ha provocato una enorme reazione nazionale, titoli di prima pagina. Qui niente. Neppure nel dibattito sul localismo è riemerso il concetto di bene pubblico.
Ed è decollato il turbocapitalismo. Se al centro ci fosse stato il bene pubblico l’ente di gestione del dopo-Olmpiadi non avrebbe potuto dire che l’offerta del Wellcome Trust [1,2 miliardi di euro per trasformare il parco olimpico in un polo scientifico e tecnologico] non era vantaggiosa. Si tratta evidentemente di un riuso molto più nell’interesse collettivo della proposta invece scelta [il parco ceduto a pezzi, un po’ alla famiglia reale del Qatar, altre parti a costruttori privati]. Il meccanismo economico complessivo del progetto olimpico non ha funzionato per nulla, e quando arriva quell’offerta di 1,2 miliardi di euro loro rispondono: “Ma noi possiamo guadagnarci molto di più”. Proprio l’idea di ritornare in possesso di quello spazio, di fronte alla prospettiva di vendere al miglior offerente a pezzi il parco olimpico, è quello che distingue la prospettiva, il tipo di mentalità che ha fatto respingere l’offerta Wellcome Trust. Verifico spesso come il pubblico concordi con me [sui pericoli di un controllo privato dello spazio pubblico], ma è difficile capire tutte le conseguenze impreviste di una serie di scelte che hanno costruito questo contesto, se non si indaga davvero a fondo. Ed è soprattutto necessario discutere, dibattere il più possibile. Il vero problema è che chi comanda non considera affatto questi aspetti.
Chiusi rispetto all’esterno [recinti, o telecamere a circuito chiuso] si finisce per indebolire le interazioni dirette. E uno spazio si fa meno sicuro, sono necessarie altre misure del genere, e aumentano ancora paura e sospetto. Le cosiddette soluzioni messe in campo negli ultimi dieci anni sono diventate il vero problema. Ci fidiamo così poco dei rapporti umani che abbiamo tentato di risolverli con tecnologie in grado di dirci cosa fare, come comportarci. L’interazione umana al massimo sono azioni punitive. Avevamo una serie di figure rappresentanti glia spetti benevoli dell’autorità, dai conducenti di autobus ai guardaparco. Dotate di autorità anche se non potevano dar multe, né indossavano uniformi autoritarie. Nel nome dell’efficienza li abbiamo eliminati, sostituendoli con una falange di guardie private. Costruendo un modo assai diverso.
(naturalmente, per chi non l’avesse già fatto, l’invito è a leggere anche gli altri contributi di Anna Minton su eddyburg.it e mall.lampnet.org)
Titolo originale: The London Olympics: a festival of private Britain - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I responsabili dell’organizzazione di Londra 2012 ribadiscono spesso quanto i giochi olimpici di quest’estate siano in grado di lasciare un’eredità del nostro tempo tale da rivaleggiare con quella della Grande Esposizione nel 1851 o del Festival della Gran Bretagna cento anni più tardi. La Grande Esposizione ci ha lasciato musei come il Victoria and Albert, quello di Storia Naturale o della Scienza. Il Festival del 1951 ci ha lasciato il Royal Festival Hall, uno dei più begli edifici pubblici del paese. Eventi straordinari del genere sono un’occasione per verificare lo spirito del tempo, valutare la condizione della società e della democrazia. Come mostrano le recenti crisi, gli scandali, c’è qualcosa che non va nel nostro sistema politico, e nulla lo conferma con più evidenza dei giochi olimpici. Nel 2009 nel mio Ground Control ho descritto le conseguenze della crescente privatizzazione delle città, modello degli anni di crescita economica a base immobiliare e debitoria (si vedano i vari contributi della Minton anche su queste pagine n.d.t.). Un meccanismo iniziato col progetto dei Docklands negli anni ’80, e che col progetto delle Olimpiadi ha raggiunto l’apogeo.
La logica economica sottesa, è che tutte le risorse necessarie sarebbero state raccolte dal privato. Ma con la crisi finanziaria non si è più stati in grado di ottenere prestiti, e così ci ha dovuto pensare il governo ai Giochi, aumentando il contributo pubblico di oltre sette miliardi di euro: il triplo dell’originale. Secondo i calcoli della commissione della Camera dei Comuni, il contributo dei privati alla fine è stato inferiore al 2%. Ma nonostante questo intervento pubblico, Londra 2012 non lascerà in eredità nessun segno di spirito pubblico paragonabile a quelli del 1851 e 1951. Al contrario le trasformazioni saranno totalmente private, e rivendute pezzo a pezzo al miglior offerente. Il Queen Elizabeth Olympic Park – si tratta del primo nuovo parco in Gran Bretagna da oltre 150 anni – non sarà gestito dalla pubblica Royal Parks Agency, ma dai privati; e tutti gli spazi al suo interno, dal villaggio olimpico ai vari impianti, saranno pure privati. Almeno questa sarebbe l’intenzione, anche se la disfatta nella cessione dello stadio pare dimostri la fragilità di questo tipo di accordi.
Poi, l’offerta da un miliardo e duecento milioni di euro del Wellcome Trust, per acquisire Parco e villaggio olimpico, e realizzare una “Silicon Valley Europea” – più due università, museo, case economiche, 7.000 posti di lavoro – è stata respinta dall’Olympic Park Legacy Company. Perché non dava garanzie al contribuente. Adesso il villaggio è stato ceduto a un consorzio guidato dalla famiglia reale del Qatar. Poi c’è l’aspetto, spesso tirato in causa, delle case. Nel progetto di massima del parco olimpico si promettono 11.000 nuovi alloggi. Alla fine non si sa quanti esattamente ne verranno realizzati, l’unica cosa certa è che col villaggio olimpico nel 2013 ne sono garantiti 3.000, metà dei quali di tipo economico. E la definizione di cosa sia una casa economica è tutt’altro che chiara e univoca. Praticamente impossibile da fissare una volta per tutte da quando lo stato non costruisce più le case popolari, e social housing sta solo a significare con sostegno pubblico. Con gli interventi del governo di coalizione gli enti per le case economiche possono arrivare sino all’80% dei prezzi di mercato anche per il social housing, ovvero lo mettono fuori portata per gran parte degli abitanti dell’area olimpica, dove ci sono alcuni dei quartieri più poveri del paese.
Poi c’è la questione del sostegno locale al progetto, che è sempre stata essenziale in tutte le Olimpiadi. Nel 2004, Lord Coe, presidente del Comitato, l’allora sindaco di Londra Ken Livingstone, e John Biggs, vicepresidente della London Development Agency, firmarono un “Impegno Etico Olimpico” con le amministrazioni locali, dove si davano garanzie in termini di posti di lavoro, formazione, casa, e la promessa che almeno il 30% dell’occupazione creata coi cantieri sarebbe stato destinato agli abitanti. Dopo l’assegnazione a Londra nel 2005, l’Olympic Delivery Authority ha rifiutato di onorare l’impegno, con la scusa di essere stata istituita solo dopo la firma del patto. E così la vera eredità olimpica finisce per essere un lungo rosario di accordi saltati e promesse non mantenute da parte di un intrico di enti e imprese. La forte componente di spirito pubblico si sarebbe potuta mantenere solo se l’idea di “bene collettivo” avesse ancora qualche senso nel dibattito politico odierno. Invece tutto è silenziosamente scomparso dagli accordi nel 2004, specchio dell’invasione da parte del mercato del concetto di bene pubblico, del tutto escluso dalla politica. Se gli eventi simbolo rispecchiano le condizioni della società e della democrazia, queste Olimpiadi non sono né sono mai state, in grado di replicare lo spirito pubblico del 1851 o del 1951.
Due mesi fa sono andato a Zurigo per lavoro. Dopo cena decido di fare quattro passi incuriosito da una città che conosco così poco ma di cui, tra architetti, si parla molto. Camminando intuisco quello che potresti aspettarti da una metropoli calvinista, in una serata, a metà settimana, alle dieci di sera, di novembre: un silenzio pressoché assoluto, poche persone che si muovono rapide camminando a testa bassa, le luci calde che traspaiono da dietro le tende delle case intorno a me.
Finché, avvicinandomi a una grande chiesa mi accorgo che l’abside e il suo fianco sono impacchettati da decine di tende, accrocchi di plastica e teloni colorati che si compongono a formare uno strano, fragile, villaggio che prosegue sino alla facciata dove si allargano per ospitare una grande tenda aperta in cui stazionano alcune persone infreddolite. Un riverbero bluastro m’incuriosisce e vedo che all’interno si proietta su un grande schermo Il grande dittatore, ci sono delle sedie, persone che assistono in silenzio, altre, pochi metri distanti, che si raccolgono intorno a un banco che vende prodotti bio e libri.
Mi accorgo di essere appena entrato nel centro degli indignados di Zurigo, a pochi passi dagli uffici della Borsa locale. E tante immagini, video, blog incontrati durante l’anno, prendono improvvisamente una forma fisica chiara, riconoscibile. Una delle cose che più mi ha impressionato durante il 2011 e che, credo, continuerà a produrre conseguenze interessanti anche durante questo nuovo anno è il ritorno evidente della gente a utilizzare gli spazi pubblici come luogo di espressione e di elaborazione politica. Sia Time che Wired-America hanno provocativamente indicato gli indignatos e i riots come “man of the year”, e per me è stato naturale interrogarmi sui luoghi scelti perché tutto questo prendesse forma.
Sembrava che negli ultimi anni le piazze avessero progressivamente perso la capacità di essere quel luogo naturalmente deputato a essere “casa” e “laboratorio” della città e del suo territorio. E’ vero, le piazze sono sempre, naturalmente, usate per festeggiare campionati vinti e feste paesane, per accogliere raduni automobilistici, mercatini natalizi, fiere di qualsiasi genere, comizi elettorali e riti pubblici, manifestazioni e raduni, ma ogni volta avevo la sensazione che quei luoghi fossero sempre più abitati con poca consapevolezza e che tutto fosse consumato in maniera più superficiale e meno identitaria, soprattutto nelle grandi metropoli.
Si è fatto un gran parlare negli anni Novanta dei centri commerciali, dei cinema multisala, degli aeroporti e stazioni, dei cosiddetti “non luoghi”, come degli spazi che le nuove comunità avevano eletto a luoghi pubblici di rapido uso e consumo. Sembrava che le piazze avessero perso anima e significato, che non rappresentassero più, se non per centralità topografica, il cuore sociale di una città, e spesso questa sensazione era confermata da tanti progetti di recupero o di “arredo urbano” inutili, invadenti e fintamente retorici. Sembrava che in un mondo in cui la soglia tra reale e digitale, tra pubblico e privato, tra interni ed esterno, uno spazio tradizionale come la piazza avesse perso il suo senso profondo, la sua qualità più importante, ovvero quello di essere vissuta come una parte importante e riconoscibile nella nostra vita di cittadini.
E, invece, in un momento di crisi profonda che torna a coinvolgere le paure e le emozioni primarie della gente (il lavoro, il cibo, i diritti) le piazze e tanti altri luoghi potenzialmente pubblici ma invisibili agli occhi della gente come i tetti degli edifici, le gru e le impalcature, i ponti, i sagrati delle chiese, tornano ad essere al centro del bisogno di stare insieme, di condividere, di produrre contenuti e di cercare conoscenze comuni. Le piazze degli indignatos spagnoli, Zuccotti Park, i ponti di New York e San Francisco, piazza Tharir a Il Cairo, il sagrato della cattedrale St. Paul a Londra, le decine di micro spazi pubblici occupati nel mondo di fianco ai luoghi simbolici del potere finanziario e politico, i tetti delle fabbriche occupate, sono diventati tanti laboratori urbani capaci di produrre idee, confronti, protesta pacifica e consapevole e, insieme, di entrare in rete moltiplicando potenzialmente su scala globale la loro capacità di produrre cultura critica e consapevolezza sociale.
Non sono state considerate come semplici immagini, quinte momentanee di una scenografia instabile senza significato, ma come casa per tutti, luogo riconoscibile capace di dare ospitalità e senso allo stare insieme e al condividere un bisogno di cambiamento che parte dall’occupare fisicamente e dal vivere insieme un’esperienza di rinnovamento radicale. Se dovessi immaginare quale potrebbe essere considerata la migliore architettura del 2011 e, probabilmente, quella potenzialmente più interessante del nuovo anno, non avrei dubbio nell’indicare la piazza, nella sua straordinaria, universale capacità di essere tornata al centro della vita di una società globale, che spesso confusa e intorpidita nel suo rapporto con i luoghi, è tornata a considerarla un “inedito” centro per produrre anticorpi necessari per affrontare diversamente i tempi inquieti che stiamo vivendo.
Antonella Agnoli è una vera eretica. Autrice di un pamphlet rivolto alle amministrazioni locali in cui spiega perché è necessario investire nella pubblica lettura e aprire i locali a tutti, non solo a studiosi e studenti
La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l’integrazione fra tutti questi servizi». Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica) è un altro tassello che Antonella Agnoli, bibliotecaria et alia in un paese in cui (quasi) nessuno legge, sottrae al muraglione ideologico che sta intorno all’idea di cultura, di intellettuale e di privilegio culturale e che è il principale fortilizio che soffoca la mobilità tra le classi sociali nel nostro paese. Ed è quindi un altro tassello aggiunto al concetto di democrazia.
Se ne Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà (Laterza, 2009), Agnoli ha scritto che prima di fare cultura è
necessario fare alfabetizzazione e che entrare in una biblioteca in Italia significa, invece e troppo spesso, essere costretti a valutare la situazione sociale nella quale ci si trova, in base all’esperienza in altri ambienti pubblici e all’arredamento e che dunque «occorre pochissimo tempo a un potenziale lettore per capire, grazie a una quantità di indizi, quale sarà il suo posto all’interno dell’istituzione e valutare se rischia di rendersi ridicolo o di perdere la faccia» -, in questo pamphlet si rivolge direttamente alle amministrazioni locali per spiegare e dimostrare come, anche in tempo di crisi, sia possibile e pure necessario investire nelle biblioteche di pubblica lettura.
Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione. Le biblioteche di pubblica lettura, al contrario delle biblioteche di conservazione che pure «sono state sempre un oggetto di valore collocato nelle nostra città come un vaso cinese in salotto, che potrebbe esserci oppure non esserci» dal 1972 sono una responsabilità degli enti locali e spesso sono vissute come un «optional affidato alla buona volontà e alla lungimiranza della singola amministrazione» e non come la risorsa energetica che sono. «Nella crisi, la biblioteca è un’ancora di salvezza per i ceti più deboli, i giovani che non riescono a trovare un lavoro, i bambini che hanno bisogno di crescere in un ambiente stimolante e di fare esperienze culturali che in famiglia non potrebbero avere».
Tuttavia per essere davvero una risorsa energetica la cultura continua Agnoli ha bisogno di una società che pensa e che ama pensare. Tutto il lavoro saggistico, e tutto il lavoro che Antonella Agnoli ha fatto e fa sul territorio la direzione della biblioteca di Spinea (Venezia), l’ideazione della Biblioteca San Giovanni di Pesaro, il capillare giro di presentazioni de Le piazze del sapere in ogni minimo comune, biblioteca, circolo di lettura, presidio del libro italiano, scuole gira intorno al concetto che il libero accesso ai libri è condizione necessaria e sufficiente alla salute, al mantenimento e all’adattamento, in epoca di accelerazione e manipolazione dell’informazione, del concetto di democrazia e della democrazia in sé. «Non si riflette abbastanza sul paradosso di un pianeta dove l’informazione è (relativamente) alla portata di tutti mentre l’impoverimento culturale della vita collettiva è palese».
Antonella Agnoli, come tutti coloro che sono padroni di un’ortodossia, è una vera eretica, le sue proposte per le biblioteche di pubblica lettura in tempo di crisi spaziano dalla possibilità di usare i locali delle biblioteche di conservazione e di pubblica lettura per matrimoni, feste di compleanno, mercatini di libri usati, come location per pubblicità, tutte proposte che rappresentano la reale possibilità di aprire un luogo considerato storicamente per studiosi, studenti, curiosi e intellettuali, a tutti.
La sopravvivenza di una biblioteca garantisce e leggendo Agnoli si esclama «è vero!» la possibilità, a chi non può consentirselo per ragioni economiche o di lingua, di accedere alla rete, alla modulistica per bollette, pensione, alla possibilità di compilare un curriculum vitae. «Come i sindaci di un secolo fa non avevano dubbi sulla necessità di realizzare le fognie e di portare l’acquedotto nei loro comuni, così oggi si deve guardare alle connessioni a banda larga come a un diritto basilare dei cittadini, un bene comune importante quanto l’acqua».
La biblioteca, è insomma un luogo di confronto, discussione, alfabetizzazione e cultura. «La perdita dell’abitudine a ritrovarsi e confrontarsi in piazza, al bar, dal parrucchiere è uno dei molti motivi che rendono la nostra democrazia un guscio vuoto».
Odio la parola vocazione, tuttavia mi pare che per lei la diffusione della cultura somigli abbastanza a una vocazione... sono stati la scuola, l’università, i libri, le persone?
«Se sono quello che sono lo devo alla politica, non certo alla scuola. Non so bene chi mi abbia insegnato a leggere e scrivere, ma sono sicura che dai 14 ai 18 anni l’unica cosa che mi interessava era andare a ballare. Se dicessi che la cultura è stata per me una vocazione fin dall’infanzia penso che finirei nell’ultimo girone dell’inferno dantesco: dopo la maturità sono andata a Roma e invece che fare l’università frequentavo giovani artisti e la cellula di Potere Operaio (prima che fosse messo fuori legge). L’università, ripresa più volte, non l’ho mai finita, c’era sempre qualche cosa di più importante da fare. Penso che negli anni Settanta il Pci sia stato l’università di un’intera generazione».
Perché ha deciso di lavorare su, con e per le biblioteche?
«La biblioteca l’ho scoperta quando me ne hanno data una da fondare: prima non ci ero mai entrata. Avevo fatto la campagna per il referendum sul divorzio, e poi quello sull’aborto e così avevo conosciuto il sindaco di Spinea, una città-dormitorio alla periferia di Venezia. Non sapevo nulla, ma a me piace fare cose nuove, organizzare luoghi e attività dove le persone possano stare insieme quindi ho iniziato dalla biblioteca per bambini, scommettendo che i genitori che accompagnavano i figli si sarebbero prima o poi accorti che era un posto piacevole anche per loro. Ho cercato di raggiungere le giovani coppie con figli, comprato i libri di Munari e sperato che funzionasse. Ha funzionato. Quando me ne sono andata, nel 2000, era passato in biblioteca il 50% di cittadini».
Nell'immagine: Giuseppe M. Crespi «Scaffale di libri», 1725
"I litorali su cui insistono chioschi e varie strutture turistiche saranno oggetto di diritto di superficie che dura 90 anni", questo dice il decreto. I Verdi: "In nessun paese d'Europa e del mondo si è arrivati ad una simile gestione del demanio marittimo"
"Le spiagge su cui insistono chioschi e varie strutture turistiche saranno oggetto di diritto di superficie che dura 90 anni", questo dice il decreto sviluppo approvato oggi. In sostanza chi prende in concessione uno stabilimento balneare può andare avanti praticamente a vita. E le rassicurazioni Giulio Tremonti, "le spiagge restano pubbliche" ha detto, non rassicurano ambientalisti e opposizioni che attaccano: "Svendono i litorali italiani". Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli commenta: "In nessun paese d'Europa e del mondo si è arrivati ad una simile gestione del demanio marittimo".
"Un decreto sottosviluppo" con all'interno "un piano casa e la privatizzazione spiagge: un regalo senza precedenti a mafiosi, abusivi e speculatori" commenta Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. "Mai avremmo potuto immaginare di raggiungere un punto così basso - aggiunge Cogliati Dezza - Il Belpaese smembrato e devastato dal cemento, in mano alla criminalità e agli speculatori con l'avallo del governo".
Tremonti, però, difende il provvedimento: "Tutto ciò che è terreno su cui insistono insediamenti turistici (chioschi, stabilimenti balneari) sarà oggetto di diritto di superficie, che durerà novant'anni e dovrà essere richiesto dagli imprenditori che vorranno proseguire la loro attività. Il diritto sarà ovviamente a pagamento e noi riteniamo che sarà pagato molto bene, ovviamente a condizione che ci sia regolarità fiscale e previdenziale". "Abbiamo ritenuto - spiega il m inistro - che un diritto lungo dia una prospettiva di tempo sufficiente per fare degli investimenti e creare lavoro".
Secondo il Codacons il piano spiagge, "concedendo il diritto di superficie sulle nostre coste per un periodo addirittura noventennale, crea le premesse per un "grande" piano di cementificazione del territorio".Positiva, invece, la reazione della Fiba, il sindacato dei balneari della Confesercenti. :"Sul diritto di superficie che interessa gli insediamenti turistici sulle spiagge la posizione di Tremonti è una positiva novità che registriamo con grande interesse".
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico ha inoltrato (5 maggio 2011) un esposto al Commissario per gli usi civici della Toscana, del Lazio e dell’Umbria, al Presidente della Regione Lazio, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli e al Procuratore regionale della Corte dei conti per il Lazio avverso il “piano delle alienazioni di beni immobili di proprietà comunale da classificare nel patrimonio disponibile” del Comune di Capena (RM) che, inopinatamente, include fra i terreni da alienare per far cassa ampie aree in loc. Macchie appartenenti al demanio civico di Capena, fra i boschi, proprio nel sito dove ha avuto origine l’antichissimo borgo laziale.
Il piano delle alienazioni del Comune di Capena è stato approvato con deliberazione Giunta comunale n. 21 del 25 marzo 2011, ai sensi dell’art. 58 del decreto-legge n. 112/2008, come convertito nella legge n. 133/2008 (vds. Corte cost., 16 dicembre 2009, n. 340, che ne dichiara la parziale incostituzionalità) sul presupposto, evidente quanto erroneo, che i terreni appartenenti al demanio civico siano di proprietà comunale – patrimonio disponibile.
Invece, è necessario ricordare che con sentenza del Commissario per gli usi civici per la Toscana, il Lazio e l’Umbria n. 35 del 31 ottobre 2003 veniva riconosciuta l’appartenenza al demanio civico di Capena delle aree in argomento. Tale provvedimento giurisdizionale veniva confermato con sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione speciale usi civici, n. 11 del 26 agosto 2005 e con sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, 12 marzo 2008, n. 6524 (ord.), proprio sulla Collettività di Capena. E’ chiaro, quindi, che quei terreni in buona parte ricoperti di macchie e boschi fanno parte del demanio civico.
I diritti di uso civico sono inalienabili (art. 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.), inusucapibili ed imprescrittibili (artt. 2 e 9 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.). Ogni atto di disposizione che comporti ablazione o che comunque incida su diritti di uso civico può essere adottato dalla pubblica amministrazione competente soltanto verso corrispettivo di un indennizzo da corrispondere alla collettività titolare del diritto medesimo e destinato ad opere permanenti di interesse pubblico generale.
Inoltre, i demani civici sono tutelati ex lege con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico ha chiesto il diniego da parte della Regione Lazio di qualsiasi autorizzazione alla sdemanializzazione delle aree in argomento, al Commissario per gli usi civici l’emanazione dei necessari provvedimenti per il rispetto delle sentenze già passate in giudicato. Agli Organi inquirenti ordinario ed erariale è stato richiesto lo svolgimento delle opportune indagini finalizzate a evitare la commissione di eventuali reati e il depauperamento dei demani pubblici.
Ulteriori informazioni su http://gruppodinterventogiuridico.blog.tiscali.it
Nella maggior parte degli stati americani i finanziamenti alla cultura sono calati drasticamente e nel Regno Unito i tagli del governo conservatore hanno provocato la chiusura di quattrocento biblioteche. Tocca ai cittadini mobilitarsi per salvare queste «infrastrutture democratiche»
Ci è voluto un cinico giornalista del Financial Times per scrivere nero su bianco quello che tutti pensano ma si guardano bene dal dire in pubblico: le biblioteche sono destinate a morire. In un lungo articolo pubblicato il 16 aprile, Christopher Caldwell ha tracciato un primo bilancio delle chiusure provocate dai tagli del governo conservatore nel Regno Unito: quattrocento biblioteche in meno. Dall'altra parte dell'Atlantico il 15 per cento delle biblioteche americane negli ultimi mesi ha ridotto l'orario di apertura, le altre cercano disperatamente aiuti privati per evitare di farlo.
Dall'osservatorio di Pittsburgh posso aggiungere che in Texas si sta discutendo un bilancio 2012 in cui i finanziamenti alle biblioteche vengono ridotti del 99%, oltre a una perdita di 8 miliardi di dollari in fondi del governo federale. In Florida, il Senato ha eliminato il 100% dei contributi alle biblioteche, il che provocherà anche una perdita di finanziamenti del governo federale, che sono legati a un certo livello dei servizi. In California il bilancio è ancora nel caos e difficilmente i servizi culturali saranno risparmiati.
In competizione con i pompieri
Un'eccezione c'è: la Pennsylvania, dove i finanziamenti dello Stato non calano: l'anno prossimo il Public Library Subsidy rimarrà allo stesso livello del 2011 (53,5 milioni di dollari) al contrario di molti servizi essenziali, come l'università, i trasporti pubblici o la difesa dell'ambiente, che il nuovo governatore repubblicano Tom Corbett ha tagliato senza esitare. Secondo American Libraries, 19 stati su 50 hanno ridotto i fondi per le biblioteche (e dieci hanno fatto tagli superiori al 10%).
Il Financial Times spiega che le biblioteche non attraversano una crisi passeggera ma una fase in cui la loro stessa esistenza è in dubbio. La ragione è semplice: in quanto istituzioni finanziate dai governi locali esse devono subire le conseguenze di una crisi fiscale che non è contingente. Tutti i governi occidentali hanno bilanci pesantemente in rosso e in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, ridurre la spesa pubblica è diventato una priorità. Né Cameron né Obama vogliono (o possono) aumentare le tasse, quindi possono soltanto tagliare le spese e non saranno certo quelle militari a essere ridotte, almeno nel breve periodo.
Tra le spese non militari, le biblioteche devono competere con servizi sanitari sempre più costosi e con un sistema pensionistico squilibrato per ragioni demografiche (in futuro ci saranno più pensionati che lavoratori attivi). La crisi continua a mantenere elevate le spese di assistenza ai disoccupati e ai poveri e - sottolinea Caldwell - negli Stati Uniti «le spese locali per il welfare sono spesso obbligatorie per legge mente le spese per le biblioteche sono discrezionali».
La fine della transizione
L'autore dell'articolo va oltre: «Le biblioteche appartengono a un periodo di transizione alla fine del XIX secolo, dopo l'affermazione della democrazia ma prima della crescita del welfare state. Le biblioteche facevano da ponte fra il vecchio stile di governo e il nuovo». Oggi questo periodo di transizione è finito da un pezzo e la biblioteca, come molti altri settori dello stato sociale, potrebbe soccombere alla crisi fiscale.
Esse sono vulnerabili anche perché, al contrario della sanità o della scuola, servono una minoranza della popolazione. Non ci sono famiglie escluse dal servizio sanitario in Gran Bretagna, né famiglie che rinuncino all'istruzione obbligatoria negli Stati Uniti (con modeste eccezioni legate a convinzioni religiose). Le biblioteche, invece, vengono frequentate da circa un terzo dei cittadini in Inghilterra e, in America, il 58% degli adulti sostiene di avere la tessera della biblioteca ma questo naturalmente non significa che poi ci si vada davvero. Gli enti locali devono decidere se tagliare servizi che semplicemente sono irrinunciabili, come i pompieri o la polizia, oppure sacrificare una istituzione utile solo a una minoranza: non è difficile immaginare quali saranno le scelte.
Studenti in difficoltà
Implicita in questa discussione, ma mai affrontata è la questione di un'altra fase di transizione che le biblioteche hanno estrema difficoltà a gestire. Si tratta della fase iniziata alla fine del ventesimo secolo con la prepotente affermazione delle tecnologie di comunicazione individualizzate. Il computer portatile, il telefonino, ora l'iPad non potevano che generare la sensazione che la fase in cui le biblioteche facevano da ponte fra la cultura accumulata nei secoli e il singolo utente fosse finita. Su questo, qualche riflessione più approfondita sarebbe utile.
I bibliotecari sostengono che le biblioteche sono un servizio necessario per la comunità e nessuno studioso serio lo nega ma i politici, almeno in questi anni tristi, sono indifferenti a ogni ragionamento che vada al di là della prossima scadenza elettorale. Se proprio devono pensarci, diranno che nell'era degli smart phone, del Kindle e dell'iPad nessuno ha veramente bisogno della biblioteca. Magari potranno anche riconoscere che sono molto utili per i pensionati, i disoccupati e gli immigrati ma i primi possono andare a leggere il giornale al bar, i secondi si accontentino di non morire di fame e gli ultimi prima se ne vanno e meglio è.
Non ci sono buoni argomenti che possano convincere cattivi politici a fare ciò che dovrebbero, ma i cittadini hanno varie buone ragioni per mobilitarsi in difesa delle biblioteche, a cominciare proprio da quei grandi utilizzatori di smart phone, di Kindle e di iPad che sono gli studenti universitari. Un rapporto di qualche anno fa sulla loro capacità di fare ricerche su internet finalizzate allo studio e non all'intrattenimento dava risultati poco entusiasmanti: solo il 52% era in grado di valutare correttamente l'obiettività di un sito web, solo il 65% il suo grado di autorevolezza. In altre parole, moltissimi giovani, forse la maggioranza, non sono in grado di distinguere il valore dei materiali di Wikipedia da quello delle pubblicazioni dell'università di Harvard, né sono capaci di trovare ciò che è utile per capire situazioni complesse o problemi politici con i quali non hanno familiarità.
Questo significa che, in assenza di ambienti culturali collettivi che offrano aiuto e guida, le straordinarie possibilità di ricerca offerte dalla rete resteranno delle possibilità, quando non aggraveranno la confusione per l'eccesso di stimoli non filtrati. I gadget elettronici non sono un sostituto né della scuola né della biblioteca.
Confronto tra cittadini
Questa linea di ragionamento, tuttavia, rimane ancora nell'ambito ristretto di una valutazione economicista dell'utilità sociale della biblioteca: se non si vuole che i giovani crescano troppo ignoranti, e quindi incapaci di competere sul mercato mondiale, occorre fornire almeno dei servizi culturali minimi, tra cui le biblioteche. C'è una ragione ben più sostanziale da mettere al centro del dibattito: come scriveva la bibliotecaria Eleanor Jo Rodger in un saggio del 2009, le biblioteche sono una irrinunciabile «infrastruttura democratica» e questo è il motivo per cui Andrew Carnegie spese la sua fortuna personale per costruirne ovunque.
Il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c'è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile ai cittadini di informarsi non nella solitudine di un computer casalingo ma in un confronto con altri cittadini, altri documenti, altri formati. Di questo lavoro incessante le biblioteche sono un luogo necessario. Anche se ci si va soltanto per leggere la Pittsburgh Post Gazette o il Resto del Carlino.
ROMA - «In nome della sicurezza non si possono espropriare i diritti fondamentali». I costituzionalisti lanciano l´allarme e bocciano l´estensione del Daspo alle manifestazioni di piazza: «Il rischio è di violare le libertà costituzionali». Il divieto di assistere a spettacoli sportivi è una misura restrittiva della libertà personale, disposta dall´autorità di pubblica sicurezza (il questore) nei confronti di una persona ritenuta pericolosa. È una misura di prevenzione - che prescinde cioè dalla commissione di un reato - giudicata legittima dalla Consulta con la sentenza 512 del 2002. Qual è allora il problema?
«Una cosa è comprimere il diritto di tifare Lazio, un´altra limitare il diritto di manifestare contro una riforma universitaria - risponde Michele Ainis, costituzionalista a Roma Tre - in questo secondo caso, infatti, c´è una tutela costituzionale rafforzata, perché esistono diritti funzionali ad altri». Tradotto: «La democrazia non si limita al voto e se prima delle elezioni non potessi manifestare la mia opinione, verrebbe aggredito un bene costituzionale di valore ben superiore al tifo calcistico». Per questo «i beni costituzionali vanno bilanciati e in nome della sicurezza, o della paranoia della sicurezza, non si possono certo espropriare i diritti».
Sulla stessa linea, il ragionamento di Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «In base all´articolo 17 della Costituzione, le riunioni in luogo pubblico possono vietarsi "solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica". Il divieto vale dunque per tutti ed è esclusa la possibilità di impedire a un singolo cittadino di partecipare a riunioni non vietate. Non solo. Sulle misure di prevenzione si discute ormai da anni. Limitare la libertà personale con pronuncia dell´autorità di pubblica sicurezza, e non del giudice, è già al limite della costituzionalità nell´ambito sportivo; se esteso alla piazza travolgerebbe tutto il sistema delle libertà costituzionali, violerebbe la riserva di giurisdizione indicata dall´articolo 13 della Costituzione e rischierebbe di riportarci a una situazione simile a quella originaria del Testo unico di pubblica sicurezza, così come varato in epoca fascista».
Contro il rischio di generalizzare una misura eccezionale si schiera anche Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma: «Con una reazione emotiva e poco razionale agli avvenimenti complessi degli ultimi giorni - sostiene il giurista - il governo ancora una volta si contrappone all´autonomia e al ruolo della magistratura, alla quale sola spetta il potere di limitare la libertà di circolazione». E ancora: «Tutto questo è segnale di una cultura di governo più attenta alle questioni d´ordine pubblico, che alle garanzie di libertà dei cittadini, col rischio concreto di disattendere il chiaro quadro costituzionale improntato al garantismo».
Alla cautela invita Federico Sorrentino, docente di diritto costituzionale a Roma, «perché - premette - vanno comprese le legittime esigenze della sicurezza pubblica». Ma non per questo il giurista nasconde la sua «perplessità su una misura grave e di dubbia conformità al quadro costituzionale». L´estensione del Daspo al di là del ristretto ambito sportivo, infatti, «non incide tanto sull´articolo 21 della Costituzione relativo alla libertà di manifestazione del pensiero, quanto principalmente sull´articolo 17 che prevede la possibilità di vietare le riunioni per motivi di sicurezza, ma mai fa riferimento al singolo manifestante».
Una società per azioni con l’obiettivo di costruire nuove scuole al Sud, coinvolgendo anche i privati. Sarebbe questo il progetto allo studio del governo al quale stanno lavorando i ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture e dell’Istruzione. Il piano è ancora ai primi passi e sono diverse le ipotesi che sono state esaminate. La proposta iniziale era trasferire alla nuova Spa la proprietà e la gestione dei 42 mila edifici scolastici italiani oggi nelle mani di Comuni e Province. Un’operazione complessa dal punto di vista normativo, che metterebbe in testa ad un unico soggetto la responsabilità di un patrimonio edilizio disastrato (per 10 mila edifici si ipotizza la demolizione). E che, espropriando di fatto gli enti locali, soffierebbe in direzione opposta rispetto al vento federalista. Per questo si sarebbe deciso di limitare l’attività della Spa alla costruzione degli edifici nuovi. E di concentrare l’azione nelle regioni del Sud, dove la situazione è più pesante.
Nelle intenzioni del governo la «Scuola spa» dovrebbe servire ad ottimizzare i flussi di spesa, cioè spendere meno a parità di servizi realizzando, ad esempio, un appalto più grande al posto di tanti piccoli appalti. Ma anche a superare i mille nodi che, con l’obiettivo di garantire il corretto utilizzo del denaro pubblico, in alcuni casi possono allungare tempi e procedure. Una logica simile a quella della Protezione civile spa, il progetto al quale il governo ha poi rinunciato nel pieno della bufera su Guido Bertolaso. Pochi giorni fa era stato il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini a dire che, per l’edilizia scolastica al Sud, il governo stava «studiando il modo per reperire risorse da enti privati». Nel progetto sarebbero coinvolti gli enti previdenziali e le fondazioni bancarie. Ma il grosso delle risorse potrebbe arrivare da quei 416 milioni di euro già destinati e non ancora spesi per la messa in sicurezza degli edifici esistenti.
Il nodo vero, però, è decidere come assegnare gli appalti. Fonti del ministero dell’Istruzione assicurano che si farebbe ricorso comunque alle gare. Resta da decidere, allora, come accelerare i tempi per la realizzazione dei lavori. Critico sul progetto il segretario della Flc Cgil: «Il problema — dice Domenico Pantaleo — non è cercare soluzioni alternative ma trovare i soldi. Ben vengano Inps o Inail ma non i privati. Se c’è un privato c’è un ritorno economico e l’istruzione non va ridotta a mercato».
Sono figlio della città e della guerra. Sono cresciuto a Parigi. Nel 1945 avevo dieci anni. Se provo a mettere in relazione il tema dei miei giochi d´infanzia e quello dei luoghi della città in cui sono cresciuto (in questo caso Parigi), posso supporre, senza grosse possibilità di essere smentito, che le due realtà siano cambiate moltissimo; la cosa più sorprendente sarebbe che i miei ricordi riuscissero a dire qualcosa a un bambino o a un preadolescente di oggi.
Iniziamo con qualche ricordo.
Durante la guerra lo stato maggiore tedesco aveva occupato, vicino al giardino di Luxembourg e al Senato, il "Lycée Montaigne", che normalmente era la mia scuola. Così, fino all´ottobre del ´44, quando il "Lycée Montaigne" tornò alla sua funzione originale, noi bambini eravamo stati smistati in diverse scuole primarie del quinto arrondissement. Avevo nove anni e a scuola ci andavo da solo a piedi partendo dalla rue Monge, risalendo la rue de la Montagne Sainte-Geneviève, discendendo la rue Soufflot e attraversando il giardino di Luxembourg.
I miei primi luoghi di gioco furono i cortili delle scuole e la strada, poi il giardino di Luxembourg. Il mio quartiere, da cui non mi sono mai allontanato se non per ritornarci, l´ho percorso in tutti i sensi, prima accompagnato dall´uno o l´altro dei miei genitori e poi da solo. È il luogo della mia infanzia al quale sono rimasto fedele. Viaggio molto, ma, a intervalli più o meno regolari, lo ritrovo e mi ci ritrovo.
I nostri giochi d´infanzia erano molto fisici e segnati dagli eventi dell´epoca. Le prime classi della scuola elementare erano miste e le bambine avevano i loro giochi, per esempio "la campana" (la marelle), ai quali di solito noi bambini non ci associavamo. Partecipavamo solamente quando cedevamo alla tentazione di mostrare la nostra forza, mettendoci quindi a saltare di casella in casella con un piede solo, cercando di raggiungere il cielo che coronava quella struttura tracciata frettolosamente per terra con il gesso. Di solito noi giocavamo alla guerra. Divaricavamo le braccia e volavamo per il cortile ruggendo come i motori degli aerei. Da buoni piccoli maschi fallocratici ci suddividevamo i ruoli: alcuni di noi attaccavano le bambine, gli altri le difendevano. L´arbitraggio arrivava spesso dal cielo, quando le sirene risuonavano. Era l´allarme, la guerra vera. Ci facevano scendere di corsa nei rifugi sotterranei, che in questa parte di Parigi erano un pezzo delle catacombe. Quando dopo l´allarme rientravamo a casa, cercavamo i frammenti dei proiettili tirati dalla DCA (la difesa contraerea). Erano delle calamite eccellenti ed erano facili da trasportare poiché si fissavano le une sulle altre, formando dei piccoli cumuli irregolari e compatti che laceravano le nostre tasche (...).
Oggi i giochi sono cambiati e c´è sicuramente molto da osservare e imparare a contatto con i bambini e gli adolescenti. La familiarità che la maggior parte di loro ha con gli strumenti elettronici modifica sia il loro rapporto con la solitudine, sia il modo di instaurare relazioni sociali. È vero anche, d´altro canto, che la geografia della città e dell´ambiente si trasforma. Tuttavia, non è detto che la necessità di aprire spazi pubblici per i bambini e gli adolescenti non resti ancora una necessità urgente. Un mio collega, David Lepoutre, ha scritto un libro molto interessante sull´etnologia della città, Coeur de banlieue, pubblicato nel 1997 da Odile Jacob. Lepoutre insegnava, all´inizio degli anni Novanta, nel quartiere della Courneuve e la Cité des Quatre Mille e aveva avuto modo di notare che i bambini, a volte molto piccoli e per la maggior parte figli di genitori immigrati, tendevano a formare delle bande, la cui prima occupazione era di appropriarsi del territorio, del loro ambiente, trasformandolo attraverso l´immaginazione: inventavano frontiere, luoghi straordinari e persino riti d´iniziazione. In queste bande di preadolescenti e adolescenti c´erano ragazzi di diverse età, ed era verso i sedici anni il periodo in cui avveniva la selezione tra chi abbandonava la banda e chi entrava invece nel mondo della delinquenza, sollecitato da traffici di tutti i generi.
Senza la pretesa di paragonare il giardino di Luxembourg degli anni ´50 e le banlieue degli anni ´90 o di oggi, vorrei suggerire l´idea che i temi del gioco, dello spazio e dell´infanzia hanno da molto tempo una portata sociale e politica fondamentale. Uno dei problemi delle banlieue è che gli spazi di cui i giovani cercano di appropriarsi non sono spazi pubblici, semplicemente perché gli spazi pubblici non esistono o comunque non esistono più oggi. L´immaginario corre liberamente senza un ambiente circostante che lo accolga e dunque senza una protezione simbolica. Il miracolo dei giardini pubblici è dovuto al fatto che sono un bene che permane. Le Tuileries o il Luxembourg non sono cambiati da quando Proust o Anatole France li frequentavano da bambini. Ma, dato il decentramento della capitale verso le periferie, questi giardini fungono da spazi pubblici solamente per una manciata insignificante di favoriti.
Uno degli obiettivi del Grand Paris, di cui si parla tanto oggi, dovrebbe essere la creazione, vicino agli edifici scolastici, di luoghi perenni, tra i quali i giardini pubblici restano ancora oggi il miglior esempio. Questi luoghi dovrebbero manifestarsi in modo spettacolare e simbolico come degli spazi pubblici, situarsi in prossimità di edifici pubblici, di teatri o di cinema, non limitarsi alla riduttiva funzione di luoghi di passaggio ma restare aperti, in quanto spazi ludici, alle iniziative dei giovani.
Alla fine tutto è politico. Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di "corpi efficacemente disciplinati", ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza nulla imporre. Recentemente mi è capitato di vedere dei ragazzi molto giovani e di talento che si allenavano con lo skateboard la domenica vicino alla fontana di Trocadéro, sotto uno sguardo vagamente preoccupato ma allo stesso tempo ammirato dei passanti e dei turisti. Spero che potremo ancora per lungo tempo continuare a osservarli giocare e sfidarsi nel cuore di Parigi. È il loro modo per crescere ed educarsi.
Traduzione di Chiara Pavan
Il testo è parte dell´intervento che Marc Augé terrà a "Tocatì", il Festival Internazionale dei Giochi in Strada che si terrà da oggi al 26 settembre a Verona, organizzato dall´Associazione Giochi Antichi e dal comune. Il Paese ospite dell´ottava edizione è la Svizzera
«Chi protesta contro la scuola di Adro dovrebbe protestare anche quando nelle scuole entrano i simboli di sinistra». È il desolante commento del ministro Gelmini a proposito dell´esproprio (del quale lei per prima è vittima in quanto ministro dell´Istruzione) da parte della Lega di una scuola della Repubblica italiana, trasformata in istituto padano. Il ministro finge di ignorare, per superficialità o per pavidità, la natura del tutto inedita dell´accaduto. Non si tratta di una scuola nella quale qualcuno (professore o studente) entri con una falce e martello sulla maglietta, o una svastica tatuata sul bicipite, o altri simboli ideologici o di partito. Si tratta di una scuola che è essa stessa, strutturalmente, un simbolo di partito, concepita e arredata come tale. Un luogo pubblico privatizzato, cioè snaturato, sottratto alle sue funzioni di neutralità e accoglienza. La reazione del ministro fa capire che il governo non ha alcuna intenzione di intervenire: avvalla il sopruso, e amen. Restiamo in attesa di sapere se un prefetto, un magistrato, un ente locale, il Parlamento, il Quirinale, Strasburgo, il pianeta Giove, insomma qualcuno che ha percezione almeno vaga dell´enormità di quanto è accaduto, voglia tentare, almeno tentare di evitare un oltraggio così insopportabile al concetto stesso di "bene pubblico".
Precari sullo Stretto
Primo giorno di scuola
di Manuela Modica
«Invece di spendere soldi per il Ponte, metteteli in cultura, istruzione». Alla vigilia del primo giorno di scuola irrompe ancora la protesta dei precari. Così inizia un anno dalle mille difficoltà. Per loro. Per tutti.
Per chi suona la campana oggi? Per tutti. Per chi riaprirà i cancelli, le aule, e per chi non aprirà neanche la porta di casa. Ma la campana suona anche per chi con la scuola non c’entra nulla: «Perché lesinare sull’istruzione è lesinare sulla civiltà di una nazione». Maria Pina Panella è un insegnate di lettere di 31 anni. Parte sabato sera a mezzanotte da Foggia per scendere lo stivale e partecipare alla grande manifestazione promossa dal comitato dei precari della Scuola di Agrigento, e ricordare che «così non si produce ricchezza morale, né economica». La campana suona per l’Italia intera. «Senza il sapere il lavoro di domani non c'è. Il sapere è tradito in Italia», ha detto a Torino il segretario del Pd, Pierluigi Bersani.
Mezza Italia ieri in piazza a protestare. Da Trapani, Siracusa, Agrigento, Bari – il comitato promotore – che raccoglie tutte le città siciliane, maanche la Calabria e la Puglia, l’adesione di Flc –Cgil, Sel, il Pd. Sono partiti da piazza Cairoli e hanno marciato fino alla riva dello Stretto, per bloccare il traghettamento pubblico per ore, perché «i soldi del ponte sono nostri». Un luogo simbolo, per dire che i tagli «non sono giustificati». E un dispiegamento di forze dell’ordine che produce ben 25 denunce per reati contro l’ordine pubblico. Mentre si appellano al Presidente della Repubblica: «Carissimo Presidente - recita commossa Maria Rita Gadaleta -, siamo qui come comitato perché a 150 anni dall’unificazione vogliamo riscrivere la Storia di questo Paese: non vogliamo un ponte di cemento ma di solidarietà».
Vogliono essere ascoltati, perché si sentono ignorati: «Per le televisioni noi non esistiamo», sottolinea ancora la Panella. Così quando arriva la Rai, i cori si allontanano dalla Gelmini per zoomare su Minzolini: «Vergogna, vergogna», gridano contro le televisioni. Vogliono ribattere a quel che dice Maria Stella Gelmini, «ché lei si può parlare, e menziona sempre queste percentuali: 98 per cento della spesa scolastica va agli stipendi. Così tutti pensano sia giusto che vada meglio bilanciata con la didattica: ma cos’è la didattica senza gli insegnanti?», ripete più volte Samanta Bruno, precaria palermitana: «È importante dirlo perché il ministro indisturbato ripete sempre questa tiritera, intanto, che spostino la spesa sulla sola didattica non ci crede nessuno ». C’è ansia di parlare, c’è il panico, tra questa gente, di non essere ascoltati. Così mentre il ministro della Pubblica istruzione sostiene di fare quadrare i bilanci, 25mila precari, in tutta Italia, mancano dall’inquadratura. Sono venuti qua a rappresentarli sulle due rive dello Stretto, per combattere una «battaglia di civiltà e democrazia». Intonano cori: «Vogliamo un solo disoccupato, ministro Gelmini sei licenziato», è lei la protagonista della manifestazione, quella della «riforma epocale: licenziamento totale». Alla quale chiedono «Manderai tua figlia in una classe di 33 alunni?». Un Ministro che «non viene in commissione», spiega Tonino Russo, del Pd, componente della commissione Cultura della Camera:«Un comportamento che segue una logica di disprezzo delle Istituzioni che parte dal Presidente del consiglio. Si tratta del più grande licenziamento di massa che il Paese abbia mai conosciuto».
Numeri che si declinano in storie, in vite: «Inizia la Scuola e non sappiamo niente di niente. Né io né mio marito: siamo rovinati», racconta Roberta Trombetta, docente di disegno da 20anni.E oltre i docenti anche i collaboratori, i bidelli. Roberto Vinciguerra, si agita, tira per la giacca, parla di corsa, ha paura di non essere ascoltato. Tocca rassicurarlo, può fare con calma, sarà ascoltato, con attenzione, così riesce a spiegare: «A 19 anni, cioè 24 anni fa, ho iniziato. E ora sono senza lavoro: non so che fare. Non ho più niente».
Intervento
La democrazia è a rischio anche tra i banchi
di Maria (Milli) Virgilio
Non c’è più spazio per confronti aperti e discussioni accese I dirigenti scolastici sono sotto pressione e costruiscono degli ordini del giorno in cui dei problemi non si parla più
È in atto nella scuola pubblica un capovolgimento della democrazia e della legalità costituzionale. Alle illegittimità della Riforma Gelmini/Tremonti (lo ha scritto il Tar Lazio) offrono fedele riscontro le amministrazioni scolastiche periferiche, soprattutto dove la protesta è più forte. Quanto alla democrazia scolastica e al rispetto della legislazione scolastica, possiamo stare tranquilli: sono leciti la presa di parola da parte degli operatori scolastici, l’uso dell’ironia e, come leggiamo sui giornali, i rapporti con la stampa. Peccato che questo valga solo per i superiori gerarchici. Solo per approvare le scelte governative. Solo per sedare le voci critiche e non disturbare il manovratore. Non vale infatti quando a esercitare la libertà di manifestazione del pensiero (che si lega strettamente alla libertà di insegnamento) sono docenti gerarchicamente subordinati che devono svolgere il loro ruolo didattico, educativo e formativo (per legge «attraverso un confronto aperto di posizioni culturali?»), e dunque agire in modo critico e costruttivo.
Quando la scuola pubblica è in crisi e il Governo la affonda, invece di rafforzarla (violando la legge - lo ha scritto il Tar Lazio - e scavalcando il Parlamento), allora vengono silenziati i docenti che non ci stanno. Quando le voci dissenzienti di studenti, docenti genitori, cittadini sono molte, questi momenti divengono conflittuali.
I superiori devono negarlo. Ma gli educatori degni di questo nome (subordinati,ma non supini) conoscono bene lo strumentario gerarchico e burocratico sfoderato contro i non acquiescenti. Per prima vengono stravolte le regole dell’autonomia scolastica e della vita democratica: nei collegi dei docenti e negli organi collegiali chi ha a cuore la scuola come bene comune non può dire quello che pensa, né dentro né fuori la scuola. Gli organi collegiali non vengono riuniti. Il Dirigente costruisce l’ordine del giorno escludendo i temi caldi che interessano i più. Si impedisce la presentazione di mozioni critiche. Viene ostacolata la consultazione dei verbali. Nei confronti di chi non cede si rispolvera il potere disciplinare. Dobbiamo essere consapevoli dicome in questo modo si sta deteriorando la quotidianità scolastica e la funzione stessa promozionale della scuola. Dobbiamo reagire per ripristinare ogni legalità violata. Altrimenti gli enti locali, pressati dalle esigenze concrete, verranno indotti a supplire ai tagli servendosi di servizi convenzionati e estendendo le privatizzazioni (sussidiarietà?). Le Regioni continueranno ad affidarsi solo alla mediazione politica con il governo, limitandosi a salvaguardare per via giudiziaria solo i loro poteri di autonomia legislativa in materia scolastica (federalismo scolastico?). Così riusciranno solo a strappare qualche posto in più, ma non riusciranno a contrastare lo sfascio complessivo.
L’analisi
Gelmini apre l’anno alla scuola del Gemelli. Meglio evitare fischi
di Fabio Luppino
Tanto certa della svolta «storica » impressa alla scuola il ministro Gelmini oggi eviterà accuratamente di andare a prendere applausi al classico Mamiani o al Parini di Milano. Neppure nei disastrati istituti delle mille periferie abbandonate da questo governo al degrado, anche culturale. No, il ministro con un atto di coraggio alla rovescia andrà, secondo indiscrezioni, lì dove nessuno avrà soprattutto la forza di muoverle critiche: nella scuola del Policlinico Gemelli di Roma. Un gesto toccante, indubbiamente. Avrà accoglienze festanti.
Cercare applausi così è l’ultimo atto di una campagna demagogica servita a nascondere una realtà drammatica. Ieri c’è stata anche la copertura di Berlusconi che di certo non mette piede in una scuola da sessant’anni, in una scuola vera, di quelle scrostate, con i banchi segnati e le finestre chiuse da serrande mai riparate perché nonci sono soldi. Più inglese, più informatica, più impresa, più internet? Ma lo sa il premier cosa prevede la riforma del suo ministro? Magari un test Invalsi in merito farebbe capire quanta distanza c’è tra la destra benpensante e la scuola in carne e ossa, derelitta da loro negli ultimi due anni, a partire da chi la fa, i professori. Una umiliazione per i genitori che hanno già ricevuto gli appelli dei capi d’istituto (quando ci sono, perché ne mancano sedicimila e si moltiplica dunque la figura del preside reggente, che per governare un’altra scuola riceve solo 700 euro in più, una miseria) a collaborare per la cartaigienica, le fotocopie, i toner, la pulizia delle aule, qualcos’altro?
La cosiddetta riforma delle superiori stronca vite e carriere. Migliaia di professori a cinquant’anni da oggi rinunciano a lavorare, perché nessuno li chiamerà. E non è affatto vero che saranno riassorbiti nei prossimi otto anni. La matematica non è un’opinione: tra quattro anni, quando la riforma andrà a regime in modo integrale anche nei licei, le ore per insegnare saranno molte meno delle attuali, già drammaticamente ridotte. I precari saranno sempre gli stessi, anzi di più.
La «svolta storica» di Gelmini riguarderebbe anche il merito. Ma come si fa ad assecondare i meritevoli quando in una classe ci sono anche 35 alunni e quasi mai meno di trenta...
Come si fa a garantire il diritto all’istruzione ai disabili e ai non disabili quando il rapporto disabili prof di sostegno si alza, sempre più ragazzi per un docente, a dispetto di certe statistiche usate da giornali ben orientati a suonare fanfare, spesso senza conoscere sulla materia, al rigore fasullo di viale Trastevere.
L’ultima tirata demagogica riguarda la valutazione degli insegnanti. Magari, lo chiedono i professori stessi da anni, perché è certo, come in ogni dove, che a scuola ci sono i furbi e quelli che non si risparmiano mai, che fanno da docenti e da assistenti sociali, da madri e da padri di figli non loro in una società dove non si investe per superare le disgregazioni familiari. Ma come fa a dirlo un ministro che andò a cercare, con spregio del pericolo, la commissione menosevera per accedere alla professione di avvocato?
Flash mob della Rete degli studenti Casco giallo contro «le macerie»
Casco giallo in testa per proteggersi «dalle macerie causate da Gelmini e Tremonti», al suono della prima campanella del primo giorno di scuola gli studenti organizzeranno flash mob davanti alle scuole di numerose città della penisola: lo annuncia la Rete degli studenti.
«NON DAREMO RESPIRO»
«Partiremo con una protesta - affermano- che nondarà respiro al ministro Gelmini e alla sua opera distruttiva. Il13settembre cominceremo a ricostruire quello che le forbici della Gelmini hanno distrutto: saremo davanti alle nostre scuole con dei caschetti gialli da lavoro, per proteggerci la testa dalle macerie che la Gelmini e Tremonti hanno causato e daremo inizio alla nostra ricostruzione». Per «flash mob» si indica un gruppo di persone che si riunisce all' improvviso in uno spazio pubblico, mette in pratica un'azione insolita generalmente per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi.
«Non si può considerare la scuola un'azienda in dissesto economico, i saperi un capitolo di bilancio sul quale risparmiare, le nostre vite uno spreco di denaro» protestano gli studenti, che annunciano di voler essere loro, insieme a tutte le componenti della scuola, a «ricostruire pezzo su pezzo le nostre scuole». Oggi, quindi, si comincia con le scuole di Venezia (liceo Foscarini), Torino (via Bligny e corso Dante), Roma(liceo Tasso e liceoMontessori), Frosinone (liceo classico Turriziani) Perugia (piazzale Anna Frank), Grosseto (istituto agrario Leopoldo II di Lorena). per poi proseguire a Bologna il 14 (istituto tecnico Aldini), a Palermo il 15 (VittorioEmanuele III), il 16 a Caltanissetta e il 25 a Lentini. DAVANTI AL MINISTERO Nel pomeriggio di oggi, infine, gli studenti saranno davanti al Ministero della pubblica istruzione a Roma, per continuare la protesta «fino a una grande mobilitazione studentesca in ottobre».
Verde privato, verde pubblico
di Ivan Berni,
L’inizio di Via Washington offre lo spunto per una passeggiata istruttiva. Per una volta guardate per terra senza timore di incappare nei soliti souvenir del miglior amico dell’uomo: i larghi marciapiedi vi offrono piccoli tappeti erbosi perfettamente curati, sui quali spuntano ortensie o vasi di fiori.
Un cartello dà voce all’inconsueta presenza verde: «Per favore non calpestatemi! Sono un prato adottato dai cittadini che si stanno prendendo cura di me con entusiasmo. Gli amici cani non la devono fare qui! Grazie, vi offrirò magnifici fiori». Le aiuole parlanti si susseguono ordinate per un centinaio di metri, fino al civico 11. Poi il panorama torna il solito. Al posto dei praticelli, auto in sosta a spina di pesce. Spiazzi polverosi con qualche ciuffo d’erba agonizzante, sacchetti di plastica abbandonati e gli immancabili cumuli di mozziconi. Via Washington è una piccola metafora del tempo in cui viviamo e della pessima concezione dello spazio pubblico, e in fondo del bene comune, che anima chi governa questa città.
La nostra passeggiata racconta che lo spazio diventa realmente pubblico, fruibile, gradevole e curato soltanto quando viene "adottato" dai cittadini. Ovvero soltanto quando qualche "privato" decide di farsi carico di una missione pubblica. All’opposto, quando lo spazio pubblico rimane orfano – ovvero quando resta soltanto nelle cure del Comune, che si chiama così perché la sua missione è occuparsi delle cose di tutti – imperano trascuratezza e degrado. Lo sporco attira sporco. La sciatteria alimenta il disinteresse. Ciò che è pubblico non diventa mai spazio o opportunità per tutti: rimane figlio di nessuno.
Quel che è accaduto in via Washington misura la distanza siderale degli occupanti di Palazzo Marino dal "sentimento" con cui i cittadini vivono la loro città, ma al tempo stesso lancia un importante messaggio a chi spera che le prossime elezioni segnino una decisa inversione di tendenza. Chi vuol prendersi l’onore e l’onere di governare Milano deve fare i conti con una città che vuole tornare a essere ascoltata, che chiede partecipazione e cura. Che domanda ai suoi amministratori un progetto e una visione ma soprattutto la capacità di stare in sintonia col territorio, di intervenire sulle decine di piccoli problemi e trascuratezze che fanno sentire il milanese stanco e disilluso appena mette il naso fuori casa. Quelli di via Washington non si sono chiesti, prima di zappettare e seminare, se il loro sforzo sarebbe risultato patetico o inutile.
L’hanno fatto e hanno mostrato quanto patetica, e dannosa, sia invece una concezione di "bene pubblico" che ha dimenticato il significato della parola civismo e che per recuperare consenso e popolarità non esita a seminare paura e ansie securitarie. Lasciando ai cittadini la convinzione che chi occupa gli scranni del governo lo faccia per coltivare ambizioni e affari propri. E infine la convinzione che il fai da te sia l’unico modo per mostrare che il civismo è ancora vivo e praticabile. Nonostante l’amministrazione civica.
Monte Stella, paesaggio lunare svettano solo i tubi di plastica
di Ilaria Carra
Erba incolta e arida, qualche rifiuto, siccità. Aria da deserto, tutto intorno. C’è un tubo di plexiglas, lo shelter, a imprigionare le piantine. Uno per ognuna, bianco e alto 1,20 metri, o basso e verde, a seconda dell’essenza. Sono migliaia, arrivati nel quartiere tra marzo e aprile, davanti al Monte Stella, a ridosso del Palasharp, dietro al QT8: ontani, ciliegi, querce, noccioli. Piantati fitti fitti, in fila, su quattro collinette. Tutti mini, messi giù giovani. A guardarci dentro a quelle canne di protezione, in almeno la metà si trovano solo ramoscelli rinsecchiti e foglie marrone bruciato. Quattro collinette e un piccolo parco piatto davanti all’istituto delle Suore della Riparazione di via Salerio: cinque cimiteri.
Dopo le centinaia di piante già scheletri a quattro mesi dalla messa a dimora, in zona 7 alle spalle di San Siro, ecco un altro esempio di una buona iniziativa che finisce nel degrado. Eppure questo, tra le vie Benedetto Croce e Sant’Elia, è uno dei boschetti tematici inaugurati a giugno dal sindaco Moratti. "Di benvenuto", li hanno chiamati: un tocco verde per accogliere chi arriva o lascia la città: viale Suzzani, Cascina Gobba, via Pertini, alberi sparsi in zone di frontiera, alle porte di Milano.
La collinetta che se la passa peggio è quella che s’affaccia su via Benedetto Croce, compresa in un giardino più grande di recente creazione intitolato alla memoria dei caduti di Nassiriya. Un parco metà comunale (la zona tenuta meglio, dall’Amsa) e metà regionale (cestini strabordante e sporcizia ovunque). Le piante secche sulla collinetta sono più della metà. Proseguendo lungo via Croce si arriva a un poggio un poco più ampio sul quale le nuove piantumazioni sono state almeno 2.000. Lo spruzzino dall’alto gira lento e bagna, ma evidentemente non basta se il risultato sono arbusti e piantine scheletriche. In zona del progetto non sapevano nulla: «Ce le siamo ritrovati all’improvviso - denuncia Angelo Dani, consigliere Pd in zona 8 - E un paio di settimane fa abbiamo ricevuto un gruppo di residenti infuriati e delusi perché quelle nuove piante sono già tutte morte. Una vergogna».
Ci risiamo. Nuovo verde che arriva, poche cure, piante secche che se non si riprenderanno da sole sono condannate. Accade anche al miniparco in piano: «Erano delle dune così belle, bastava curare il prato - ricorda una suora che vive lì di fronte - invece ogni anno mettono giù nuove piante che poi non resistono. Per fortuna sono venuti almeno a tagliare l’erba settimana scorsa: sembrava una giungla e qui avevamo paura delle bisce. Ma sono venuti solo perché ha preso fuoco un pezzo di parco, c’è stato un incendio. Se no di gente qui a lavorare ne vediamo di rado». Non va meglio in via dei Missaglia, al quartiere Terrazze: qui le nuove piante a fusto già alto sono un’ottantina e, percorrendo la strada, si nota come la metà sia già color terra bruciata. «Più acqua», è la cura banale suggerita da qualche residente che passa e allarga le braccia.
Se in via dei Missaglia è il consorzio Coges che dovrebbe pensarci, il nuovo verde davanti alla Montagnetta dei milanesi è in carico all’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, che, secondo una convenzione con Palazzo Marino, ha realizzato, appunto, i boschetti "di benvenuto". E per il primo anno deve occuparsi anche della manutenzione, di queste piantine che vengono dal vivaio certificato di Curno: tutti semi prodotti dalle foreste lombarde. Poi si vedrà. Spiega il direttore di Ersaf, Sauro Coffani: «È stata una stagione tremenda, è piovuto poco: c’è criticità ma è nella norma, siamo al 10 per cento di morìa stando ai nostri tecnici. Spesso se ne piantano di più perché si va per diradamento naturale, anche la metà a volte. Gli impianti d’irrigazione vanno giorno e notte. Le piantine che dovessero morire entro l’anno saranno sostituite».
Gli alberi di Abbado uccisi dalla fretta
di Anna Cirillo
Chi vorrebbe nel proprio giardino una pianta che muore? Eppure questo è lo spettacolo che si presenta a Milano, dove molti dei giovani alberi piantumati in primavera sono in vera sofferenza, in parte già estinti. E anche se, come dice l’assessore al Verde Maurizio Cadeo, «il monitoraggio del Comune sulle piante è quotidiano, la moria fisiologica che abbiamo constatato è al 6 per cento, quando il limite fissato dalla facoltà di Agraria è dell’8», alla Coges, il Consorzio gestione servizi che si occupa del verde urbano, qualcuno non la pensa così. Quelle piante, messe a dimora in fretta e furia - decisione a febbraio e piantumazione a marzo - per dare una prima risposta al maestro Abbado (i famosi 90 mila alberi chiesti per tornare alla Scala) «sarebbe stato meglio piantarle in autunno. Poi gli alberi vanno in letargo, così possono preparasi meglio alla successiva primavera» dice un agronomo del consorzio che lavora da una vita nel settore. Invece, senza impianto di irrigazione e bagnati a mano, molti di questi alberi non hanno resistito all’estate particolarmente torrida e sono sotto forte stress. Anche perché l’autobotte per l’irrigazione a mano costa 800 euro al giorno, una bella botta.
La Coges, contratto con il Comune scaduto a giugno e prorogato fino a fine anno, è un consorzio di cui fanno parte sei ditte (Gaslini e Baronchelli di Milano, Rappo di Cusago, Premav, Santamaria e Malegori di Monza) che ha diviso la città in zone. Ogni ditta ha la sua: chi piantuma deve poi seguire le piante e abbeverarle. Ma è il consorzio che risponde al Comune e paga una penale se la moria è superiore al 10 per cento. E che deve, per contratto, sostituire la pianta che non ce la fa, senza chiedere altri soldi all’amministrazione. La piantumazione non è, però, esclusivo appannaggio del consorzio: la fanno, per esempio, anche le imprese che costruiscono case o box, e pagano con una parte di verde gli oneri di urbanizzazione, oppure l’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi alla agricoltura e alle foreste, responsabile dell’impianto disastrato a Monte Stella.
L’assessore Cadeo difende il lavoro fatto puntualizzando che «la piantumazione è stata fatta da novembre a marzo, stagione agronomicamente corretta». Ma più di 5mila alberi, per esempio in zona 7, sono stati messi a dimora a marzo e tra questi molte le querce (quercus rubra) che, dice sempre l’esperto del consorzio, «non sono più adatte al clima ormai troppo caldo di Milano. Infatti sono quelle che muoiono». Per quel che riguarda gli impianti di irrigazione «li facciamo dove è possibile, altrimenti i costi sarebbero insopportabili - conclude Cadeo - . E comunque i conti si faranno a fine stagione. Vedremo quante piante andranno sostituite». «Il verde in città non dovrebbe essere una operazione di marketing e pubblicità - commenta invece Maurizio Baruffi, consigliere comunale del Pd - . Noi più volte abbiamo chiesto che ci venisse fornito un resoconto chiaro delle operazioni in campo. Mai avuto risposte. L’impressione è che ci si muova in maniera confusa e casuale. Sulle piantumazioni ci vuole una nuova attenzione, che sfugga al dibattito quantitativo su quanti alberi si piantano e punti, invece, alle condizioni necessarie per farli vivere meglio».
E nemmeno la città di pietra se la passa bene, come ci ha ricordato Vittorio Gregotti
Spero sia cosa ovvia affermare che la pratica di chiudere qualche gruppo sociale entro un recinto di muri sia la rappresentazione simbolica della paura delle comunità altre e del suo fantasmatico antidoto, cioè la sicurezza soggettiva o di una comunità in cui si pensa di riconoscersi. Non si può dire certo che manchino anche nella storia antica del nostro pianeta esempi della questione, anche se gli esempi dei nostri anni hanno allargato notevolmente le antiche motivazioni di difesa militare della costruzione delle mura della città, e della loro coincidenza con il limite città-campagna che ne definiva l'insediamento. Il borgo medioevale era sovente un luogo specializzato ma al servizio della città; persino la specializzazione funzionale degli insediamenti predicata dalla Carta d’Atene negli anni 30 del ventesimo secolo si presentava come un modo di essere della organizzazione della città senza recinti murati.
Ma gli esempi di oggi, con giustificazioni diverse, investono l’intero pianeta in modi nuovi: motivazioni di contese territoriali, motivazioni religiose, razziali, di censo, di protezionismo economico, ma anche di difesa di privilegi o di vere o supposte identità comunitarie, di cultura, di lingua, etc etc. Si va dai muri che dividono palestinesi ed israeliani (muri dimentichi delle terribili tradizioni dei ghetti ebraici) sino a quelli frammentari che chiudono nei paesi d’Europa gli immigrati clandestini. Sono anche ben noti i recinti controllati che definiscono negli Stati Uniti (ma anche in alcuni paesi sudamericani) gli insediamenti per ricchi, a partire ad esempio da Lewittown sino ai numerosi casi californiani: per scendere alle nostre provinciali imitazioni come «Milano Due».
Una delle motivazioni (o se si vuole delle coperture ideologiche) più diffuse è quella del «controllo urbano» nella prospettiva del suo indispensabile funzionamento nei confronti degli spostamenti di popolazione (più o meno clandestina) nei paesi più ricchi dai paesi più poveri; l’altra quella dell’immigrazione della manodopera dalla campagna alla città, con le diverse motivazioni relative.
Di recente sono emersi a questo proposito i provvedimenti presi in alcune grandi città cinesi per regolare gli insediamenti di periferia, conseguenti al fenomeno dell’inurbamento delle campagne, con la costruzione di insediamenti definiti da muri e cancellate sorvegliate, da cui si entra o si esce mostrando un documento, recinti che circondano interi quartieri come quello di Daxing alla periferia di Pechino. È pur vero che in Cina la tradizione del recinto sorvegliato èmolto antica anche se è oggi rotolata dall’antica «città proibita» sino all’isolato con ingressi sorvegliati, un principio fatale al destino dei nuovi insediamenti cinesi. Sono tutti segnali che la relazione tra città e cittadini si è fatta sempre più instabile e provvisoria. La città più che accogliere seleziona, produce scarti sotto forma di quantità crescente di immondizie ma anche di esuberi umani che il potere tenta di contenere in recinti.
Il recinto, lo spazio sorvegliato (ricchissimo o poverissimo) è quindi un’idea che va molto di al di là del tema della sicurezza, è il principio di una concezione della stessa città come somma di «accampamenti» reciprocamente impermeabili. Ciascuno provvede alle proprie necessità primarie e forse, in futuro, oltre che ad una propria polizia, ad una propria giustizia. Ciascuno è visto come nemico del gruppo opposto.
Scrivo di «accampamenti» perché essi, nella mobilità socio-finanziaria dei nostri anni, sono aree che negano qualsiasi possibilità di stratificazione storica, non si propongono come luoghi componenti di un insieme urbano riconoscibile. Proprio a partire dal suo isolamento e dalla sua autonomia relativa l’accampamento (anche multipiano ed esteticamente decorato) è nel suo insieme pronto ad essere sostituito tra un trentennio da qualcosa d’altro, più redditizio o meglio localizzato; non fonda cioè in alcun modo l’idea di contesto civile, non conta come tessuto urbano consolidato, non contiene funzioni aperte e necessarie al resto della città; le sue variazioni interne sono solo provvisoriamente estetiche o duramente connesse alla pura sopravvivenza.
Ancora una volta, quindi, neofunzionalismo immobiliare, riduzione delle parti urbane a gettoni da giocare al momento giusto in funzione speculativa. Contro, un’immagine della città come luogo del mutamento, della mescolanza, della possibilità, della libertà come progetto aperto di relazioni urbane, ci si muove in direzione opposta della postmetropoli senza forma.
postilla
Giustamente Gregotti individua aspetti fortemente simbolici di certe forme insediative che spesso diamo per scontate, e/o che molti suoi colleghi progettisti praticano, insegnano a giovani ahimè assai plasmabili, impongono in quanto emissari di grandi operatori immobiliari.
C’è naturalmente dell’altro, sopra, sotto e oltre l’aspetto puramente spaziale dei fenomeni descritti, e ha a che fare direttamente col potere, col nostro futuro, con le possibilità che abbiamo di incidere concretamente anche nella qualità concreta di questi ambienti, oltre che nei valori che rappresentano.
Nel corso delle edizioni 2008 e 2009 della Scuola di eddyburg, a proposito sia della vivibilità che dello spazio pubblico, abbiamo rivolto un'attenzione particolare alle politiche e ai progetti urbani che mistificano il concetto stesso di spazio pubblico (e quello di città) promuovendo segregazioni, recinzioni, frammentazioni, sconnessioni fisiche e sociali. Che cosa possiamo fare per tutelare, riconquistare, ampliare un vero spazio pubblico aperto, accessibile, politicamente praticabile a tutti?
Le riflessioni di studiosi, operatori, società civile, sui temi della Scuola di eddyburg sono raccolte in libro. Oltre a quelli già pubblicati (a proposito di sprawl, di città pubblica, di vivibilità) è disponibile fra pochi giorni quello dedicato allo spazio pubblico: declino, difesa, riconquista (f.b.)
Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine «nonluoghi» per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi nonluoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. In altre parole, erano tutto il contrario dei tradizionali villaggi africani che avevo studiato in precedenza e nei quali le regole di residenza, la divisione in metà o in quartieri, gli altari religiosi delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.
Questa definizione di nonluoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Non esistono luoghi o nonluoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il nonluogo degli altri e viceversa. Gli spazi virtuali di comunicazione, poi, permettendo agli individui di scambiarsi messaggi, di mettersi in contatto tra loro, non possono facilmente essere definiti nonluoghi. Si tratta, in questo caso, di interrogarsi sulla natura della relazione che si stabilisce tramite determinate tecnologie della comunicazione per chiedersi anche come sia possibile che in questo mondo definito «relazionale» gli individui si sentano così soli.
Le immagini che ci vengono presentate danno una prima risposta a questa domanda, o più precisamente permettono di riformularla perché gettano una luce cruda sulla faccia nascosta della globalizzazione e, allo stesso tempo, mettono in evidenza un’altra dimensione dei nonluoghi. Quello che ci permettono di scoprire, infatti, non è l’anonimato di quegli spazi in cui si passa soltanto, la solitudine provvisoria del viaggiatore in transito o la libertà alienata del consumatore medio nei reparti dell’ipermercato, ma lo scontro tra due mondi ognuno dei quali si presenta come il negativo dell’altro. Coloro che fuggono davanti alla miseria, alla fame o alla tirannia, alle violenze della natura e della Storia, e che si gettano a volte in mare mettendo in pericolo la propria stessa vita, vivono in una logica del tutto o del niente, del «si salvi chi può», e tagliano ogni legame con il luogo d’origine, anche se agiscono nella speranza di poter aiutare in seguito quelli che hanno lasciato a casa.
È il momento della fuga insensata. L’esercito disordinato dei sopravvissuti sbarca sulle spiagge dell’esilio già ingombre dei cadaveri che il mare ha rigettato: strano paradiso, quello che in genere, molto rapidamente, prende la forma di campi di internamento.
L’altro mondo, quello al quale vorrebbero accedere e che continua a sfuggirgli, non riescono mai a raggiungerlo. Resta un miraggio, anche per chi riesce a penetrarvi clandestinamente. Non c’è niente di più tragico del destino di questi individui presi in trappola tra due negazioni: quella dell’origine e quella del presente, ma condannati a sperare, tuttavia, o piuttosto a ripetere, per sfuggire al nonsenso totale. Finite, allora, o rinviate a più tardi, le sottili distinzioni tra nonluoghi empirici e nonluoghi teorici, le considerazioni sfumate sulle varie relazioni che si possono avere con spazi diversi.
Le immagini che abbiamo sotto gli occhi ci mostrano innanzitutto individui che hanno perduto il loro luogo senza averne trovato un altro, individui doppiamente assegnati ai nonluoghi, in un certo senso. Spesso gli africani in fuga strappano i loro documenti di identità per evitare, una volta presi, di essere rimandati nel Paese d’origine: come non-persone hanno una maggiore possibilità di aggrapparsi un po’ più a lungo ai nonluoghi sui quali sono andati ad arenarsi. Del resto, sono proprio due mondi quelli che si scontrano: un mondo da cui bisogna fuggire per sopravvivere e un mondo che fa di tutto per respingere questa invasione della miseria, erige muri per contenerne gli assalti, fa pattugliare le frontiere dalle forze dell’ordine, raffina i metodi di indagine e apre campi per parcheggiarvi coloro che sono riusciti, malgrado tutto, ad arrivare.
Da un lato, quindi, i nonluoghi dell’abbondanza (aeroporti, autostrade, supermercati). Dall’altro, i nonluoghi della miseria: rifugio, a volte (quando accolgono, come accade in Africa, le masse in fuga a causa dei massacri e della repressione), e prigione (quando vi si rinchiudono quelli che hanno infine messo piede sulla terra promessa). Sempre, contemporaneamente, rifugio e prigione, oggetti, allo stesso tempo, del controllo poliziesco e dell’assistenza umanitaria.
Che cos’hanno in comune questi due tipi di nonluoghi? Più di quanto non sembri, forse. Perché è evidentemente proprio nei punti di contatto e di passaggio da un mondo all’altro — gli aeroporti, i grandi assi stradali, i porti — che si mettono in atto meccanismi di difesa. Inoltre, sono i mezzi di trasporto più caratteristici della nostra epoca (gli aerei e i loro carrelli d’atterraggio, i grossi camion e i loro container) a fornire al clandestino un veicolo e un nascondiglio.
Gli aeroporti hanno le loro sale di detenzione e gli espulsi vengono caricati su aerei di linea o su charter. I punti di passaggio hanno un’importanza strategica. È là che si dispiegano i mezzi di sorveglianza più perfezionati, ma è sempre là, nel punto di congiunzione tra i due mondi, che passano i turisti. Attratti dall’esotismo, dalla sabbia, dal sole o dal sesso, vi si affollano per recarsi nei Paesi che i migranti cercano di lasciare.
Questi due movimenti che vanno in senso inverso (il turismo e la migrazione) si incrociano e si ignorano. È inevitabile pensare, vedendo una coppia occidentale distesa sotto l’ombrellone, intenta a rilassarsi contemplando il mare a due passi da un cadavere arenato sulla spiaggia, che l’immagine è emblematica della nostra epoca.
Uno dopo l'altro i sindaci, uomini e donne, vanno al microfono e raccontano la loro storia sull'acqua. Siamo a Roma, nel palazzo della Provincia, nella sala dedicata a Don di Liegro, un eroe dei nostri tempi. Di fronte è in corso la manifestazione regionale sugli abusi ambientali, veramente troppi. I sindaci che arrivano da tutta Italia hanno deciso di incontrarsi tra loro per stabilire le basi di un'associazione che serva per raccogliere una grande forza per promuovere e vincere un referendum che sventi la privatizzazione dell'acqua che il governo porta avanti. Il governo, mai come in questo caso comitato d'affari della borghesia o dei poteri finanziari che l'hanno conquistata.
L'ultima è dell'altro ieri (ieri per la discussione). Nella ratifica del cosiddetto decreto Ronchi sugli enti locali alla Camera, si è infilato nel testo un emendamento che elimina con un tratto di penna gli Ato (ambiti territoriali ottimali) dell'acqua. L'iter della legge si concluderà al senato, ma l'esito è sicuro - un voto di fiducia, se serve - non si nega a nessuno. A portare all'assemblea dei sindaci questo ulteriore caso, un vero e proprio colpo di mano, è Corrado Oddi, che rappresenta il Forum dei movimenti. La fine degli Ato, spiega, porterà a un'ulteriore esclusione dei sindaci dai luoghi di decisione. Anche negli Ato i sindaci rappresentano la popolazione, il contropotere popolare. Si tratta di un altro passo verso la privatizzazione dell'acqua, la sua definitiva mercificazione. Le funzioni passeranno alle regioni. E le multinazionali convinceranno la politica che regioni tanto oberate dai debiti e strette dai patti di stabilità non potranno gestire un bene delicato come la rete di distribuzione. Diventerà ovvio, anzi gradito vendere al migliore offerente: le generose multinazionali dell'acqua, le società multifunzione emerse dalle fusioni tra le antiche, carissime, municipalizzate. Anche gli Ato, che nessuno considerava un baluardo del pubblico, lo diventano quando la legge parla in modo arrogante e chiaro. Nel giro di un anno «sono soppresse le autorità d'ambito territoriale... Decorso lo stesso termine ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo». Attraverso gli Ato, conclude Oddi, circa metà dell'acqua - 64 Ato - stanno per passare di mano. Tornare indietro sarà impossibile: nessuno mai avrà i soldi sufficienti per farlo.
Tutti i sindaci insistono sulla gestione democratica dell'acqua, sul fatto che l'acqua è di tutti, che occorre conoscerla e non sprecarla, non sporcarla. Intorno a un problema tanto sentito si organizza la società civile, si raggiungono le scuole, si preparano le future generazioni alla difesa dei beni comuni. E i sindaci siciliani insistono sul fatto di rappresentare ormai la volontà di 118 comuni nella sola provincia di Agrigento, un milione e centomila cittadini che oggi conoscono il problema per quello che veramente è.
Qualcuno osserva che «da loro» i politici locali sono latitanti e non solo quelli di destra. Neppure organizzando una manifestazione nei pressi della sede di Palazzo dei Normanni si sono fatti trovare. Parla il sindaco di Povegliano veronese, una giovane donna. Lega il tema dell'acqua ai problemi pratici. «Il patto di stabilità cui siamo sottoposti, essendo in settemila cittadini - il limite è cinquemila - ci impedisce di dare aule ai piccoli». Sarà difficile resistere, non cedere l'acqua e rinunciare al resto, pur così importante. Ma poi suggerisce a tutti i presenti un'altra riflessione, semplice, alta: «L'acqua è vita e la vita è uguale per tutti».
Parla Nichi Vendola in un video; non è una sorpresa che non sia presente. Tutti capiscono come siano giorni di fuoco per lui. Pure parla di acqua. «L'aquedotto pugliese, il più grande d'Europa, è un boccone preferito per il mondomarket» e intende il grande mercato un non luogo gigantesco, totale, nel quale tutto è merce, spesso merce inutile, come certe acque, ma è posta in vendita purché consenta un profitto. Non glielo lasceremo, promette. Difende l'acqua bene comune e altri beni comuni come la terra e la memoria. Tutti devono essere strappati alla «voracità», alla «volgarità» dell'attacco.
Non c'è una vera conclusione alla giornata dei sindaci dell'acqua. Hanno parlato in molti, si sono ritrovati e soprattutto conosciuti, hanno constatato di pensarla in un modo e di agire in modi magari differenti, seguendo esperienze e pratiche dei loro paesi e città. Bengasi Battisti, sindaco di Corchiano (Viterbo), fa il punto, verso la fine. «Il giorno 20 marzo, giornata mondiale dell'acqua, si svolgerà la manifestazione nazionale di Roma. Essa - aggiunge - servirà anche a lanciare la raccolta di firme per il referendum abrogativo delle norme che impongono la privatizzazione dell'acqua. Dovremo inoltre definire l'associazione che legherà i comuni, il forum dell'acqua, tutti insomma. E fondarla, ché viva, dal notaio».
IL 20 IN PIAZZA, POI REFERENDUM
Si annuncia molto partecipata la manifestazione nazionale per l'acqua pubblica indetta per sabato 20 marzo a Roma, alla vigilia della Giornata mondiale per l'acqua (che è il 22 marzo). A scendere in piazza comitati, associazioni e movimenti da ogni parte d'Italia, ma anche le 150 amministrazioni comunali che si sono riunite ieri a Roma. Immediatamente dopo, partirà la raccolta delle firme per il referendum abrogativo delle norme che hanno privatizzato l'acqua. Obiettivo: seicentomila firme entro luglio. «Solo un grande movimento popolare trasversale potrà regalarci una grande vittoria per il bene comune. Sull'acqua ci giochiamo tutto, anche la nostra democrazia», scrive Alex Zanotelli in un appello sul sito del Forum italiano dei movimenti per l'acqua. Per poi concludere così: «Dobbiamo e possiamo vincere. Ce l'ha fatta Parigi (la patria delle grandi multinazionali dell'acqua, Veolia, Ondeo, Saur che stanno mettendo le mani sull'acqua italiana) a ritornare alla gestione pubblica. Ce la possiamo fare anche noi».
Cosa succederebbe se i 4.5 milioni di immigrati che vivono in Italia incrociassero le braccia per un giorno? Cosa è l’iniziativa “Primo Marzo 2010 Sciopero degli stranieri” Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni di italiani stanchi del razzismo?La manifestazione “Primo Marzo 2010 – Sciopero degli stranieri” nasce in Francia (con il nome “La journée sans immigres – 24 h sans nous”)con il proposito di rendere tangibile l’importanza del ruolo degli stranieri nell’economia e nella società europea. L’idea iniziale è quella di promuovere un’astensione generale dal lavoro rivolta, in primis, agli immigrati, ma anche agli italiani.
L’iniziativa nasce spontanea e rapidamente si diffonde ad altri paesi europei: si formano comitati in Italia, Grecia e Spagna. Ciascun comitato nazionale promuove il “Primo Marzo” e ben presto nascono comitati locali che lavorano per la buona riuscita della manifestazione.
Man mano che l’iniziativa prende piede appare chiaro come in molte realtà italiane sia molto difficile promuovere un’astensione dal lavoro: primo perché di norma sono i sindacati a indire uno sciopero organizzato; secondo perché in molte zone del Paese la situazione lavorativa degli immigrati non è tale da prestarsi a forme di protesta assimilabili a uno sciopero organizzato. Per questo si è deciso di dare libertà organizzativa ai comitati locali i quali possono individuare le iniziative più opportune per dare localmente risalto al tema che sta alla base della manifestazione: stimolare una riflessione seria su cosa accadrebbe se i milioni di immigrati che vivono e lavorano in Europa decidessero di incrociare le braccia o andare via e, di conseguenza, riflettere sul ruolo concreto degli immigrati nelle nostre realtà.
Chi siamo
La struttura organizzativa di Primo Marzo 2010 prevede un Coordinamento nazionale, formato dalle fondatrici: Stefania Ragusa (www.stefaniaragusa.com), presidente e coordinamento comitati; Daimarely Quintero, portavoce; Nelly Diop, tesoriere; Cristina Seynabou Sebastiani. Il referente per il Comitato di Cagliari è Marco Murgia (mmurg@tiscali.it | cell. 3204186060)
I comitati locali lavorano per estendere le adesioni alla manifestazione, rivolgendosi ad associazioni, istituzioni, singoli cittadini. Chi partecipa all’organizzazione dà il suo contributo in termini di idee, contatti, disponibilità di tempo. I comitati sono contenitori che hanno l’unico scopo di coordinare la pluralità dei soggetti che parteciperanno alla manifestazione. Si sottolinea che i comitati sono coordinamenti spontanei di liberi cittadini e associazioni e che l’iniziativa non sta sotto nessun cappello partitico.
Il Primo Marzo a Cagliari
Il programma del Primo Marzo a Cagliari si articolerà su 3 moduli:
1-Primo Marzo nelle scuole: per tutta la giornata, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, nelle sedi delle associazioni, verranno organizzati incontri, proiezioni, dibattiti sul tema dell’immigrazione;
2-Primo Marzo informa: verrà preparato un volantino informativo con informazioni concrete sulla vita degli immigrati in città. Per tutta la giornata il volantino verrà distribuito in diversi punti della città;
3-Primo Marzo in piazza: a partire dalle h 19 organizzeremo un raduno pubblico in una piazza del centro con lo scopo di dare evidenza all’iniziativa e rilevanza al tema attraverso i racconti degli immigrati e degli operatori.
Stiamo esaminando una serie di proposte su iniziative specifiche, all’interno di questi moduli, in modo tale da selezionare quelle più efficaci e quelle più concretamente realizzabili visti i tempi ristretti. Nastrini gialli verranno distribuiti perché siano appuntati sugli abiti il primo marzo: il giallo è il colore del “Primo Marzo” scelto perché è considerato il colore del cambiamento e per la sua neutralità politica.
Link – Ulteriori informazioni sulla manifestazione sono reperibili in rete nel sito del Coordinamento nazionale (www.primoMarzo2010.it) e nel sito francese de “La Journée sans Immigres” (www.lajourneesansimmigres.org/fr/). Il comitato di Cagliari ha aperto uno spazio su facebook (http://www.facebook.com/#!/pages/Primo-Marzo-2010-Sciopero-degli-stranieri-CAGLIARI/288228094829?ref=ts).
MANIFESTO
“Primo Marzo 2010” è un collettivo non violento che riunisce persone di ogni provenienza, genere, fede, educazione e orientamento politico. Siamo immigrati, seconde generazioni e italiani, accomunati dal rifiuto del razzismo, dell’intolleranza e della chiusura che caratterizzano il presente italiano.
Siamo consapevoli dell’importanza dell’immigrazione (non solo dal punto di vista economico) e indignati per le campagne denigratorie e xenofobe che, in questi ultimi anni, hanno portato all’approvazione di leggi e ordinanze lontane dal dettato e dallo spirito della nostra Costituzione.
Condanniamo e rifiutiamo gli stereotipi e i linguaggi discriminatori, il razzismo di ogni tipo e, in particolare, quello istituzionale, l’utilizzo strumentale del richiamo alle radici culturali e della religione per giustificare politiche, locali e nazionali, di rifiuto ed esclusione.
Ricordiamo che il diritto a emigrare è riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e che la storia umana è sempre stata storia di migrazioni: senza di esse nessun processo di civilizzazione e costruzione delle culture avrebbe avuto luogo.
La violazione di questo e di altri diritti fondamentali danneggia e offende la società nel suo complesso e non solo le singole persone colpite.
Vedere negli immigrati una massa informe di parassiti o un bacino inesauribile di forza lavoro a buon mercato rappresentano, a nostro avviso, impostazioni immorali, irrazionali e controproducenti.
La parte preponderante degli immigrati presenti sul territorio italiano lavorano duramente e svolgono funzioni essenziali per la tenuta di una società complessa e articolata come la nostra. Sono parte integrante dell’Italia di oggi.
La contrapposizione tra «noi» e «loro» , «autoctoni» e «stranieri» è destinata a cadere, lasciando il posto alla consapevolezza che oggi siamo «insieme», vecchi e nuovi cittadini impegnati a mandare avanti il Paese e a costruirne il futuro.
Vogliamo che finisca, qui e ora, la politica dei due pesi e delle due misure, nelle leggi e nell’agire delle persone.
Vogliamo stimolare insieme a loro una riflessione seria su cosa davvero accadrebbe se i milioni di immigrati che vivono e lavorano in Europa decidessero di incrociare le braccia o andare via. Non ci precludiamo nessuno strumento, ma agiremo sempre nel rispetto della legalità e della non violenza.
Comitato 1 marzo 2010
Anticipiamo un brano da Le città come zona di frontiera, che compare sul nuovo numero di Lettera Internazionale
Rispetto allo spazio nazionale, quello della città è, per la politica, uno spazio molto più concreto. E diventa un luogo in cui gli attori politici non-formali possono entrare a far parte della scena politica molto più facilmente che non al livello nazionale. A tale livello, infatti, la politica passa necessariamente attraverso sistemi formali consolidati, sia che si tratti del sistema politico elettorale sia che si tratti di quello giudiziario. In questo senso, se all’interno dello spazio politico nazionale gli attori politici non-formali sono resi invisibili, lo spazio della città consente al contrario un ampio spettro di attività politiche – occupazioni, manifestazioni contro la brutalità della polizia, battaglie per i diritti degli immigrati e dei senza tetto, politiche culturali e identitarie, politiche gay, lesbiche e queer. Attività che in molti casi diventano visibili in strada.
La maggior parte delle politiche urbane infatti è concreta, è innescata dalla gente anziché dipendere dalle tecnologie mediatiche di massa. La politica di strada rende dunque possibile la formazione di nuovi soggetti politici, e consente loro di evitare il passaggio obbligato per il sistema politico formale. Inoltre, attraverso le nuove tecnologie reticolari, le iniziative locali possono diventare parte di un network globale di attivismo senza perdere, con questo, l’adesione a specifiche battaglie locali. Rendendo così possibile una forma di attivismo politico di natura transnazionale, fin qui inedita, centrata sulla molteplicità dei luoghi che pure sono intensamente connessi.
Secondo la mia analisi, è proprio questa una delle più rilevanti forme di politica critica resa possibile da internet e dagli altri network: una politica locale fortemente differenziata, in cui le diverse località sono connesse a livello regionale, nazionale e mondiale. Il fatto che il network sia di natura globale non significa, infatti, che tutto debba accadere a livello globale. Direi anzi che i network digitali stiano contribuendo all’affermazione di nuove forme di interconnessione che si articolano seguendo topografie frammentarie, locali o globali. Gli attivisti politici possono usare i network digitali per operazioni globali o non-locali e allo stesso tempo per rafforzare le comunicazioni locali e le operazioni all’interno della città o di una determinata comunità rurale. E le odierne città di ampie dimensioni, in particolare le città globali, si impongono come luoghi strategici per queste operazioni inedite. Sono sì un luogo strategico per il capitale globale, ma anche uno di quei luoghi nei quali si materializzano in modo concreto le nuove rivendicazioni da parte di attori politici informali.
Non ci vorrà molto prima che la maggior parte dei residenti delle città cominci a sperimentare il "locale" come una forma di micro-ambiente di portata globale. Molte delle cose che continuiamo a rappresentarci e a esperire come fenomeni di natura locale – un edificio, un luogo urbano, un nucleo familiare, un’organizzazione di attivisti nel nostro quartiere – in realtà non sono collocate soltanto nei luoghi concreti in cui le vediamo, ma anche nei network digitali che avvolgono il globo. E sono connessi con altri edifici, organizzazioni, nuclei familiari che possono essere localizzati all’altro capo del mondo. E che nelle loro attività potrebbero essere orientati più verso queste aree lontane che non verso le loro immediate vicinanze. Si pensi, per esempio, al centro finanziario in una città globale, o alle sedi delle associazioni per i diritti umani, o agli uffici degli ambientalisti, gruppi la cui azione è orientata non verso ciò che li circonda immediatamente, ma verso processi globali.
Vorrei ora ragionare brevemente su due aspetti. Il primo di questi è che cosa può significare per "la città" contenere una proliferazione di questi uffici, nuclei familiari, organizzazioni, molto localizzati, ma orientati globalmente. Sotto questo aspetto, la città diventa un amalgama strategico di numerosi circuiti globali che la attraversano. E dal momento che le città e le regioni urbane sono sempre più attraversate da circuiti non-locali, inclusi quelli di natura principalmente globale, una gran parte di ciò che esperiamo come locale perché localmente collocato è di fatto già il prodotto di una trasformazione perché intrecciato, embricato, a dinamiche non-locali, oppure perché è una localizzazione di processi globali. Ciò produce uno specifico insieme di interazioni nel rapporto che una città intrattiene con la sua topografia. La nuova spazialità urbana così prodotta è doppiamente parziale: perché rende conto solo parzialmente di quel che succede nelle città e della loro natura, e perché occupa solo parte di quel che tendiamo a pensare sia lo spazio urbano.
Alfano si affida al modello L’Aquila. E il capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta si ispirerà a Guido Bertolaso. Da ieri, con il voto del Consiglio dei ministri, è emergenza per il sistema carcere e non si possono attendere le lungaggini di una riforma. Perciò, in poche mosse, il piano del ministro prevede l’attribuzione di poteri di commissario delegato al capo del Dap e ordina la costruzione, nell’immediato, di 47 nuovi padiglioni. «Mentre apriamo questi cantieri sul modello dell’Aquila, noi evadiamo tutta la procedura burocratica per realizzare nel 2011 e nel 2012 le strutture tradizionali e flessibili a cui daremo vita con tempi e con modelli organizzativi realizzati in Abruzzo», ha comunicato il Guardasigilli fiducioso. Una corsa contro il tempo per tirar su edifici penitenziari che risolvano la questione del sovraffollamento, una situazione drammatica che riguarda, a ieri, 64.670 persone private della libertà.
Ma soprattutto un’emergenza, altrimenti destinata ad abbattersi sul governo con gli effetti di un terremoto. Niente indulto, tanto meno amnistie, dunque. L’autorizzazione a procedere viene dallo stesso presidente del Consiglio che ha affiancato il ministro in conferenza stampa. Ai cinquecento milioni stanziati in Finanziaria, se ne aggiungeranno altri cento distratti dai fondi del ministero della Giustizia, mentre le risorse per la costruzione dei nuovi istituti devono ancora essere individuate. «Se non è un bluff, è quantomeno assai preoccupante », spiega Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, l’associazione che monitora il sistema di detenzione italiano. «Con questi soldi, anche volessero risparmiare, difficilmente si realizzeranno i 21.749 posti in più promessi da Alfano. Ma ciò che davvero ci allarma – incalza Gonnella – è che la partita “emergenza” finisca con la secretazione delle gare d’appalto, creando nuova illegalità economica». Se, secondo le stime dello stesso dipartimento penitenziario, per erigere un padiglione da 200 posti occorrono circa 20 milioni di euro, il piano «è poco credibile» anche per il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi, che ha sottolineato come «questo governo ha tagliato i fondi destinati al comparto sicurezza», mentre molto ha impiegato nella «politica degli annunci».
Che si tratti di «un rimedio di tipo comunicativo», come indica il presidente di Antigone, è la tesi comune a molti operatori del settore. Paola Balducci, responsabile Giustizia dei Verdi e autrice di molti scritti sul sistema penale, entra subito nel merito del problema: «Quello delle carceri è un tema che si solleva da sempre e questo Paese continua a attribuire un potere salvifico alla sanzione penale. Ci vuole molto tempo per costruire nuovi edifici, mentre si dovrebbe riformare il codice, depenalizzando quei reati che non sono più tali e incentivando il sistema delle misure alternative». Temi che erano al centro delle mozioni presentate lunedì e martedì scorso a Montecitorio e che ora, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, devono cedere il passo.
Il premio Nobel a Elinor Ostrom riconosce l'importanza di aver ipotizzato l'esistenza di una terza via tra Stato e mercato. Quella di Ostrom è una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione "comunitaria" possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi a proposito dei beni collettivi globali, come l'atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l'attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.
Uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell’ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L’individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, infatti, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo (in quanto questo costo verrà socializzato). Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte.
UNA TERZA VIA TRA STATO E MERCATO
Il ragionamento di Hardin partiva dall’esempio delle enclosures inglesi, precondizione della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l’interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento.
Quando non vi sono le condizioni per un’appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico.
Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l’esistenza di una “terza via” tra Stato e mercato, analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le common properties non degenerino. Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le “ common pool resources” (res communis omnium) dai “ free goods” (res nullius): nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta.
Su queste fondamenta poggia l’edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Analisi che intreccia con grande profondità e intelligenza la teoria delle istituzioni, il diritto, la teoria dei giochi, per lambire quasi le scienze sociali e l’antropologia.
Il campo di applicazione delle ricerche sviluppate in questo filone può far storcere il naso: dalle risorse di caccia degli Indiani d’America alle comunità di pescatori africani, o alla condivisione delle acque sotterranee in qualche remoto sistema agro-silvo-pastorale nepalese. Ma come spesso succede, applicare il concetto di base a un oggetto semplice consente di mettere a fuoco concetti e teorie di portata molto più generale.
Non a caso, la lezione della Ostrom è di particolare importanza oggi, a proposito dei global commons, come l’atmosfera, il climao gli oceani. Per applicare la ricetta di Hardin a questi beni, infatti, ci mancano sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune, e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione tra i popoli della Terra per raggiungere un qualsiasi risultato in termini di lotta ai cambiamenti climatici.
Ma è importantissima anche in quei casi – si pensi alla falda acquifera sotterrane a e più in generale alla regolamentazione delle fonti di impatto ambientale diffuse – in cui un principio di proprietà pubblica è in astratto possibile e nei fatti esistente, almeno sulla carta; ma la sua attuazione effettiva si scontra, da un lato, con l’enormità dei costi amministrativi (in Italia ci sono centinaia di migliaia di pozzi privati che bisognerebbe monitorare per applicare la norma), dall’altro con la difficoltà politica di vietare comportamenti che sono prassi consolidate percepite come diritti.
UNA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
Il lavoro di Ostrom trova punti di contatto con la teoria dei giochi, in particolare con quei filoni di ricerca che attraverso il concetto di gioco ripetuto mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa “ tragedy of the commons” è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni. È interessante anche notare come il “comunitarismo” della Ostrom trovi qui un punto di contatto con “l’anarchismo” antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l’importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza.
Non mi risulta che Ostrom si sia mai occupata di finanza, ma è quanto meno singolare la coincidenza del premio con la ri-scoperta dell’importanza del capitale sociale e delle regole condivise per il buon funzionamento dei mercati. Forse anche la crisi finanziaria che stiamo vivendo altro non è che un esempio di “saccheggio” di una “proprietà comune”, la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario.
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La città nasce con lo spazio pubblico
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. L’ uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’ esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’ insieme della società.
Decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’ incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’ era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis..
Non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’ uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’ altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’ intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese.
Dalla fabbrica al welfare
Il conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dell’ individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una base della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ ideologia conduce all’ affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dall’ altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’ inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’ allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’ inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. S’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’ affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
L’ incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’ allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società.
Lo vediamo nell’ affermarsi del diritto socialmente garantito all’ uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ ambito familiare
Le parole dello spazio pubblico
Nel quadro di questa riflessione, nell’avviare la Scuola abbiamo presentato una serie di approfondimenti e specificazioni del termine “spazio pubblico”, e ne abbiamo verificato ed esteso l’analisi nel corso delle tre giornate. Diamo sempre grande importanza alle parole. Don Lorenzo Milani diceva: “Chiamo uomo chi è padrone della propria lingua”, e sosteneva che chi ha più parole (chi controlla meglio l’uso delle parole e dei loro significati) ha più potere.
In questa occasione l’analisi delle parole ci ha permesso di ragionare sulla molteplicità dei significati del termine e sulla molteplicità dei suoi usi.
Abbiamo esaminato le diverse definizioni di spazio pubblico: a partrire da quella più ampia e intuitiva (luogo in cui a tutti è concesso qualche diritto di accesso, e regolato da un insieme di norme e convenzioni), allo spazio della partecipazione alla vita collettiva, allo spazio dei servizi collettivi orientati al “consumo comune”, allo spazio come “sfera pubblica (cioè area dove si forma l’opinione pubblica, dove si confronta e si discute), allo spazio non intenzionale, anarchico (quello che viene occupato dagli immigrati delle varie etnie, nazionalità, lingue culture, dai non rappresentati, da quelli che non hanno voce, i giovani), come spazio della rappresentazione, come luogo del conflitto e delle differenze (là dove i conflitti si manifestano e trovano la loro composizione, dove le differenze si manafestano e trovano la loro con-vivenza).
Abbiamo poi prroposto alla discussione le condizioni che possono influenzare il carattere pubblico di uno spazio e aiutare a definirne il gradiente di “pubblicità”. Ci sono sembrati rilevanti l’accessibilità/inclusività, la proprietà, l’intersoggettività.
Particolarmente rilevante ci è apparso il primo. Ma abbiamo sottolineato che un luogo può apparire accessibile e inclusivo, ed essere invece condizionato da sottili forme di esclusione e oppressione: esclusione di determinate le attività (protesta, comizi…) o di certi comportamenti o persone, monitoraggio e controllo, ecc. E le barriere possono essere fisiche; visuali e simboliche; sociali, culturali e finanziarie. Il criterio dell’accessibilità/inclusività rappresenta in definitiva la relazione tra potere di accesso e potere di esclusione, tra diritti privati e diritti della collettività in quanto il diritto di accedere esteso a tutti implica la necessità individuazione dei limiti per tutelare il sopruso di potere da parte degli altri.
L’attribuzione di uno spazio pubblico alla proprietà privata o a quella pubblica ha importantiimplicazioni e conseguenze su tipo di restrizioni ed esclusioni che possono essere applicate (in termini di accesso, di attività che si possono esercitare, e del grado di libertà di espressione consentito). Certamente se la proprietà è privata l’accessibilità è a discrezione del proprietario che ha il diritto di disporre di quel bene come meglio crede.
Il terzo criterio, l’intersoggettività, riguarda l’interazione che lo spazio pubblico potenzialmente consente. Esso può porre i partecipanti principalmente come consumatori (di merci o di eventi), può porti come membri di un’audience (lo stadio, il teatro, il festival, ecc.), come co-creatori di uno spazio condiviso (la piazza, la strada, ecc.), oppure infine (ed è il livello più alto) può consentire ai soggetti di avere un dialogo e svolgere un ruolo critico, e quindi di concorrere alla modellazione dell’ecosistema in cui vivono (arene di dibattito culturale e politico).
Abbiamo riflettuto sulla regolamentazione dello spazio pubblico. Questo deve essere sempre regolato, per trovare un giusto equilibrio tra libertà e diritti: tra la libertà per tutti di esprimersi e il diritto di ciascuno di non essere privato della sua voce. Le regole devono essere condivise: un sistema effficace di regole è quello che va sotto l’espressione di “buona educazione”; ma non possono essere le regole di una comunità di eguali, devono aiutare la con-vivenza di soggetti caratterizzati da differenze.
Se le regole condivise non esistono, le testimonianze recate alla Scuola rivelano che prevale o la “legge del branco”, oppure l’ultra-regolazione, a base di divieti, ordinanze, ukase..
Il declino dello spazio pubblico
Dopo l’analisi del significato di “spazio pubblico”, l’analisi del declino. I diversi interventi hanno testimoniato come oggi la situazione della città e l’ orientamento delle politiche urbane siano radicalmente diverse da quelle che la storia della città ci suggerisce, sia che le osserviamo nel lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’ interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’ abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto.
Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dall’ essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’ obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’ integrazione, della varietà, della libertà d’ accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’ outlet, dall’ aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.
Le ragioni del declino
Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’ equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’ equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’ abitazione.
In effetti negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si e smarrita la consapevolezza dell’essenzialitò, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.
Contemporaneamente, l’ uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’ economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’ amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. Un’ altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’ acqua agli spazi pubblici, dall’ università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’ obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’ uno e l’ altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Collocarci nella storia
Lo spazio pubblico è stato, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Per comprendere in che modo esercitare la difesa e la riconquista dello spazio pubblico è stata utile la riflessione a più voci sugli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Discorrendo con gli studenti ci siamo resi conto del grave danno provocato da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci proponiamo di costruire un futuro diverso dal presente.
Nella narrazione a più voci che abbiamo fatto sugli eventi che hanno condotto al decreto degli standard urbanistici, alla politica della casa con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo cannone, alla generalizzazione della pianificazione urbanistica, all’acquisizione di rilevanti beni pubblici come l’Appia antica. Si è ragionato sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.
Illuminante è stato il ruolo allora svolto dai movimenti di massa: l’Unione donne italiane e il movimento per l’emancipazione della donna dalla condizione d’inferiorità, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É apparso significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradursi in norme e politiche.
Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia?. Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. E bisogna nutrire la speranza che essi possanno essere soddiafetti anche nei tempi che viviamo.
Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che sono state illustrate nella Scuola testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema cenetrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale. L’Italia appare molto in ritardo al confronto, sebbene non manchino interessanti esperienzedi gestione intelligente degli standard urbanistici, anche nell’indispensabile dimensioe dell’area vasta e del coordinamento intercomunale.
Esistono già domande che si esprimono nel terreno specifico dell’azione della pianificazione delle città e dei territori. L’aspirazione a difendere le qualità del territorio in quanto tali, in quanto “beni comuni” di cui a atutti deve essere garantita una fruizione rispettosa delle regole dettate dalla necessità di difenderne consistenza e valore. Estendere il concetto di “standard urbanistico” ai beni culturali e a tutti i luoghi dotati di particolari qualità è parso un’indicazione utile. Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nel’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.
Che fare oggi
Infine ci siamo chiesti che cosa fare oggi per uscire dal declino, per difendere e riconquistare lo spazio pubblico.
É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola.
Oggi dobbiamo ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Costituiscono un possibile modo di ricostituire la politica. Sono già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, la capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. Le testimonianze già emerse nelle prime tre giornate della Scuola e quelle che emergeranno oggi ci raccontano di questa capacità, degli ostacoli e dei rischi che ne caratterizzano il cammino.
L’ altro interlocutore sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’ Europa e al mondo.
Siamo convinti che un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’ azione. Siamo intellettuali, depositari d’ un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Chiusa per ferie? No, per mancanza di personale. Ma questa volta non si tratta purtroppo di una qualsiasi sala pubblica, all’interno di un ufficio o di un museo, bensì di una sala operatoria: quella dell’ospedale «Santo Stefano», nel comune siciliano di Mazzarino, provincia di Caltanissetta. E chissà quante altre si trovano nelle stesse condizioni nel resto d’Italia, a causa dei tagli alla sanità che possono improvvisamente tagliare la vita o la salute a tanti cittadini, ignari e incolpevoli.
L’ultima vittima è un giovane di 23 anni, rimasto ferito gravemente in un incidente stradale. Si era tranciato una gamba cadendo in motocicletta. Ma non ha potuto essere operato in tempo ed è morto per un’emorragia. Ucciso dalla malasanità, dall’inefficienza e dalla crudeltà di un sistema sanitario che ormai s’ispira alla legge di bilancio più che a quella della solidarietà, umana e civile.
Si può anche morire così nel Paese dei privilegi e degli sprechi, dell’evasione fiscale, delle «grandi opere» incompiute o irrealizzabili, dei finanziamenti a pioggia o dei fondi europei non utilizzati. Per mancanza di personale. Cioè per mancanza di risorse, ma soprattutto per mancanza di un’organizzazione sanitaria in grado di assicurare un’assistenza immediata e tempestiva a chi si trova in pericolo di vita.
Eppure, nel più disastrato bilancio statale d’Europa, quella per la sanità è tuttora la voce maggiore di spesa. Ma non basta evidentemente a impedire un delitto come quello di Mazzarino, a soccorrere la vittima di un incidente stradale, a sottrarre alla morte un giovane che cade in moto e finisce dissanguato. E non tanto o non solo per carenza di soldi, quanto per le inefficienze, gli sperperi, le ingiustizie o le ruberie di un sistema sanitario che, sotto l’ingerenza della politica nazionale e locale, è diventato ormai da tempo la più grande greppia di Stato; la fonte principale del malaffare e della corruzione; la centrale delle concessioni, delle clientele e delle tangenti.
Che cos’altro può fare un povero padre che perde un figlio in tali circostanze, più che incatenarsi davanti all’ospedale per disperazione e per protesta? E che cos’altro possono fare i suoi compaesani, più che scendere in piazza e occupare la superstrada statale in segno di solidarietà? L’indignazione popolare minaccia fatalmente di degenerare nella rivolta contro il potere, contro i suoi rappresentanti e i suoi simboli, quando il potere volta le spalle ai cittadini; ignora le loro esigenze fondamentali; nega di fatto il diritto alla salute e alla vita.
C’è un filo nero che collega questo tragico episodio alla strage dei disperati che ha insanguinato nei giorni scorsi il mare di Sicilia. È il cinismo di una politica disumana che chiude le porte delle sale operatorie come quelle dei centri di accoglienza per gli immigrati, nel culto pagano di un primato dell’economia che finisce per soffocare la ragione, il sentimento, la pietà. Ma quanto vale una vita umana, affidata alla precarietà di una motocicletta o di un gommone? E qual è la gerarchia dei valori e delle priorità che deve orientare le scelte di uno Stato civile?
Dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente Obama sta combattendo proprio in queste settimane una coraggiosa battaglia, personale e politica, per garantire al suo Paese un’assistenza sanitaria più equa e solidale. Da noi, invece, nel cuore della vecchia Europa, patria del welfare e dei diritti sociali, l’ideologia del mercatismo penetra perfino nelle corsie d’ospedale e nelle sale operatorie, imponendo il dogma assoluto del profitto. Ma di mercato e di profitto si può anche morire: e non solo per mancanza di personale.