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Lo riconosce Fuksas su La Repubblica: "Niemeyer non visitò Ravello e ha visto la costa amalfitana solo sulle carte". Ma è "grottesco" (lo afferma De Seta) opporre all'atto creativo le ragioni della legalità. Perché questo auditorium viola le previsioni del piano urbanistico territoriale approvato (caso unico nel panorama nazionale) con legge regionale. Che la previsione dell'auditorium fosse illegittima era stato riconosciuto dal Tar Campania con una sentenza che, è vero, il Consiglio di Stato poi sorprendentemente annullò, ma senza entrare nel merito, per un supposto vizio di notifica dell'originario ricorso di Italia Nostra. Dunque l'auditorium è innanzitutto un abuso edilizio. E perché immaginato da chi non conosce il luogo mirabile in cui sarebbe stato calato, "all'illegalità si aggiunge la violazione di ogni rispetto del paesaggio e del contesto (come anche di recente ha ribadito Italia Nostra) per le dimensioni palesemente fuori scala - parte del costruito aggetta sui terrazzamenti - e per la forma: la cupola si oppone all'andamento naturale del pendio e occupa pesantemente le visuali dall'alto e dal basso; la struttura ondeggiante non ha alcun rapporto con la tipologia edilizia tradizionale dominante in Costiera", che è esplicitamente l'oggetto di tutela del vincolo paesaggistico operante nel luogo.

Nella occasione della solenne inaugurazione Italia Nostra crede doveroso ammonire che neppure la più alta architettura è sollevata dal rispetto del principio fondamentale scolpito nell'articolo 9 della Costituzione.

Roma, 28 gennaio 2010

Il territorio. E poi i "patti territoriali", agenzie territoriali, lo sviluppo a partire dai territori, piani territoriali, programmi territoriali, politiche territoriali, il territorio "identitario", la centralità del territorio, territori distrettuali. Le azioni istituzionali di promozione e di sviluppo dei tanti territori della Campania "plurale", come viene definita nel Piano Territoriale Regionale, non difettano certo di immaginazione nominalistica. L’inconcludenza dei risultati di molte di queste azioni "per i territori" fa emergere, però, come in genere si tratti di locuzioni vuote, ridondanti, utilizzate per chiamare con nomi diversi cose similari, utili solo a ripartire ogni volta da capo per spendere altri fondi, con le medesime, inefficaci modalità. Per la Regione Campania, ad esempio, il territorio è stato una sorta di fissazione: attorno a questo concetto hanno girato interi quinquenni di politiche, leggi, deroghe, vincoli, scenari, strategie. Nonostante gli enunciati, le buone premesse iniziali sono state sgretolate da alcuni fattori determinanti, tra cui: l’assenza di controlli credibili sui flussi di spesa, la frammentazione degli interventi, lo scollamento tra gli investimenti e la programmazione urbanistica che pure la stessa Regione ha portato avanti contestualmente, il rifiuto di fare valutazioni ex post, oggettive e indipendenti, di quanto andava a realizzarsi.

Di questa navigazione a vista, a sorprendere non è tanto la facile conclusione di trovarsi di fronte a una classe di governo non all’altezza o a una burocrazia non preparata e inesperta, quanto il fatto che, contemporaneamente, la stessa Regione ha portato avanti con diligenza e competenza altri tipi di politiche (che, comunque, con il territorio hanno sempre a che fare), come quella dei trasporti, in cui la programmazione e il tiraggio della spesa viaggiano insieme, e non è un caso se l’assessore Cascetta sia tra i pochi a poter proporre la propria leadership in maniera credibile al governo regionale. Una discrasia, quella di avere allo stesso tempo esiti così divergenti, sulla quale sarebbero interessanti analisi e spiegazioni non banali.

Intanto il "trattamento" del territorio da parte del settore "molle" e pericoloso della Regione, continua. Anche simbolicamente, infatti, questa legislatura regionale si è chiusa mestamente con il cosiddetto Piano Casa, atto legislativo finale il cui impianto, discostandosi in radice persino da quanto aveva semplicisticamente, ma più realisticamente, proposto Berlusconi a suo tempo, non fa altro che confermare una linea di assalto al territorio, inconcludente da un punto di vista dello sviluppo e piratesco da parte di chi è in grado di afferrare la crescita della rendita urbana, i nuovi valori posizionali e le tante premialità a fondo perduto. Per operare una riflessione concreta su questo piano casa (oramai tradotto nella legge regionale 19 del 28 dicembre 2009) è opportuno attendere i primi passi e le prime interpretazioni che di essa verranno fatte. Ma alcune questioni possono ragionevolmente essere date per definite.

La prima: nella Campania "plurale", non c’è la minima distinzione tra paesaggi ordinari e paesaggi di pregio. Nonostante gli assunti della Convenzione Europea del Paesaggio, infatti, i secondi vengono ricondotti, da un punto di vista speculativo, ai primi, mescolando tutto sotto il finto, onnicomprensivo e generico tema dello "sviluppo". La legge 19, cioè, non distingue tra Caivano e la Costiera Sorrentina, tra Nocera Inferiore e il basso Cilento, in una omogeneizzazione sommaria i cui effetti sul "territorio" si potranno valutare facilmente tra qualche mese.

La seconda: caso unico in Italia, gli interventi di ampliamento degli edifici potranno anche essere fatti sia sugli immobili condonati, premiando doppiamente l’abuso, sia, cosa inverosimile, su quelli per i quali è stata semplicemente presentata istanza di condono, pure se non ancora concesso. Anche di questa capriola da consumato agitatore politico, che condona l’ampliamento dell’abuso prima dell’abuso stesso, il "territorio" non potrà che essere grato.

Terzo: sono anni che le statistiche marcano al rialzo il fabbisogno di abitazioni della regione. Ovviamente i dati sono restituiti in buona parte in maniera pretestuosa e fasulla, perché assimilano il desiderio di avere, magari a buon mercato, un’abitazione, con l’effettiva possibilità di costruire tanti altri alloggi quanti sono i desideri dei singoli, con una pressione insostenibile sul territorio. Diverso, però, è il caso dell’edilizia residenziale pubblica, per la quale si dovrebbe varare il vero "piano casa" che da anni è in Regione ancora allo stato embrionale. Per questo tipo di edilizia la legge 19 prevede invece, all’articolo 7, una serie di interventi velleitari, legati alla «riqualificazione delle aree urbane degradate», sperando in un improbabile intervento privato e vincolando il tutto alla «programmazione di fondi regionali per l´edilizia economica e popolare», che negli ultimi anni hanno prodotto poco più di un fico secco.

Un’ultima questione: in attesa delle linee guida, che dovrebbero essere elaborate tra un mese, si potrebbe provare ad aprire una discussione almeno sui tre temi proposti, ma finora politici e funzionari regionali hanno sempre negato che le cose stiano come descritte in quest’articolo. Non farlo più sarebbe un primo, piccolo, passo avanti. Per il territorio.

Il Procuratore aggiunto di Napoli, responsabile della sezione Reati ambientali, dott. Aldo De Chiara - uno che di abusi se ne intende - ha bollato il Piano Casa come “condono mascherato”. Ma si è sbagliato. E’ vera macelleria urbanistica. Eppure le affermazioni perentorie dell’assessore Cundari, responsabile dell’urbanistica regionale, avevano fatto sperare in qualcosa di meno indecente. Appena il 1° aprile di quest’anno, all’esito dell’intesa Stato-Regione, l’assessora dichiarava: “sono stati esclusi dagli interventi tutti gli edifici abusivi, i centri storici e le aree vincolate di ciascuna Regione, a tutela delle specifiche caratteristiche architettoniche, ambientali e paesaggistiche". Poi, il 14 luglio, rincarava la dose: “Grande attenzione è stata dedicata alla tutela del paesaggio: gli ampliamenti e le ristrutturazioni non sono consentiti nelle zone vincolate - in particolare sulle coste marine, lacuali e fluviali.” Pensate un po’: le avevamo creduto.

E avevamo sperato che il “piano-casa” della Campania, arrivato buon ultimo nel panorama nazionale, avrebbe potuto riscattare almeno l’immagine – se non la sostanza – di una Regione che si è distinta per la peggiore gestione dell’ambiente e in cui spariscono (dati Legambiente), inghiottiti da asfalto e cemento, 9333 ettari di terreno all’anno, pari a oltre 25 ettari ogni giorno. La plenipotenziaria dell’urbanistica regionale, messa lì dai Verdi (o presunti tali), avrebbe pur dovuto capire qualcosa di paesaggio, ambiente e urbanistica, visto che, tra l’altro, occupa la cattedra di Politica dell'Ambiente della Federico II. E l’altro cofirmatario della legge – l’assessore pluridecorato Forlenza, docente universitario, magistrato amministrativo, già capo di vari gabinetti ministeriali - avrebbe pur dovuto saper confezionare un testo appena decente. Né una cosa, né l’altra. La legge, sgangherata e scritta male, ma con approvazione bipartisan e il voto contrario dell’IdV, diffonderà, in tutto il territorio regionale – isole comprese - le logiche costruttive proprie dell’abusivismo. Come la peste si propagherà nelle città e nelle campagne, farà crescere i tumori dell’abusivismo e incrementerà la rendita fondiaria di chi le leggi ha già violato. Ma gli assessori, nonostante il misfatto o a cagione di questo, girano come madonne pellegrine a propagandare il Piano Abusi, davanti a platee gremite da tecnici avviliti, umiliati dalla politica, allo stremo e perciò disposti a trangugiare qualsiasi porcheria faccia loro sbarcare il lunario.

La legge di deroga (sembra un ossimoro), diversamente da quanto impunemente sostenuto dalla Cundari, si applicherà nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico che – come si sa – non è un vincolo di inedificabilità. E si applicherà anche agli edifici condonati o per i quali sia stata semplicemente presentata una domanda di condono dall’esito ancora incerto, purché i fabbricati abusivi siano indicati (si ignora a quale data) come prima casa. Consentirà, con un semplice permesso di costruire - e dunque sottraendo ai comuni la possibilità di indirizzare le scelte urbanistiche - di trasformare gli immobili industriali decotti in residenze, uffici, negozi. A parità di volumetria, dispensando, cioè, a piene mani rendita fondiaria.

Il Piano Casa targato Cundari/Forlenza, ne ha per tutti, è una strenna di Natale per palazzinari: si potrà incrementare del 35% la volumetria degli immobili residenziali da demolire, del 20% quella delle casette da ampliare, del 50% quella dei complessi industriali (magari costruiti con contributi pubblici o acquisiti dallo Stato per un tozzo di pane) da riconvertire. E coloro che non possono ampliare i propri immobili? Tranquilli, ce n’è anche per loro. Sarà possibile variare la destinazione d’uso “da volumetria esistente non residenziale a residenziale”, magari anche trasformando i box realizzati con la Tognoli, già in deroga agli strumenti urbanistici. Ben oltre “la deroga come regola” temuta e teorizzata da Vezio de Lucia, la regione Campania codifica oggi la deroga della deroga. C’est plus facile. Ma la chicca - quella che fa gongolare il consigliere PD Carpinelli – è la possibilità, anche qui, in deroga a tutto, di variare la destinazione d’uso delle pertinenze agricole dei già falsi fabbricati rurali.

“Mi sono battuto fortemente – ha confessato Carpinelli - per agevolare l’approvazione di questa norma ad edilizia zero, che senza sprecare nemmeno un metro di terreno agricolo, consentirà di realizzare nuove abitazioni e nuove opportunità di sviluppo economico per tante famiglie proprietarie di immobili edificati in zona agricola. Con questo provvedimento si chiuderanno molte vertenze tecnico – legali e diversi fabbricati attualmente sequestrati dalla magistratura, potranno rientrare in uso dei legittimi proprietari.” Più che condono mascherato, è, dunque, un condono palese. Irrituale ma palese, peraltro a costo zero e dichiaratamente rivolto a disinnescare la sacrosanta azione di contrasto all’abusivismo posta in essere dalle Forze dell’Ordine e dalla Magistratura a tutela del territorio. Non mancano, poi, concetti del tutto nuovi, come – ad esempio – la possibilità di ampliare (questa volta in deroga alla fisica) gli immobili con opere interne e, infine, la trasformazione, in deroga a tutti i vincoli - perfino di quelli introdotti dal Piano Urbanistico Territoriale della divina costiera – delle “strutture di allevamento animale” (anche pollai e porcili, dunque) ricadenti nell’area del “Provolone del Monaco”. Una specie di zona franca in nome del provolone. Potremmo chiamarla Provolonia, istituita con una legge “ad provolam”, “ad casĕum”, direbbero i puristi. A quando le deroghe urbanistiche per il caciocavallo silano, la ricotta di bufala, il fico del Cilento, il cipollotto nocerino o il carciofo di Paestum?

L’ineffabile Legislatore regionale, tutto preso dalla foga cementifera, non ha valutato che gli ampliamenti concessi riverbereranno negativamente sul dimensionamento dei piani regolatori e sul già drammatico deficit di standard urbanistici. Gli effetti sul territorio già martoriato della regione Campania saranno devastanti. Gli ampliamenti si faranno ovunque e comunque, e non saranno distinguibili da quelli abusivi, anche perché la tanto sbandierata qualità architettonica non è in alcun modo garantita e resta, dunque, una pia illusione. “Questa regione aveva bisogno di ricontestualizzare il territorio” – ha sentenziato l’assessore Forlenza. Cosa significhi davvero (e se significhi qualcosa) non è dato comprendere. Ma, detto, con aria severa, da un grand commis, giurisperito e pluridecorato, fa accapponare la pelle.

Ferdinando Formisano, capo dell’ufficio tecnico comunale, allarga le braccia: «Progetti di bonifica? Solo per sentito dire. Si è fatta la pulizia ordinaria di alcuni alvei che è competenza della Provincia. Ma la manutenzione è rarissima. C’era un progetto del Genio civile di Napoli per interventi su tutti i valloni, importo 10 milioni, con fondi del commissariato di governo e Protezione civile. La sovrintendenza ai Beni ambientali l’ha bocciato».

È una storia di progetti mancati, quella della frana assassina di Casamicciola, dell’ordinaria manutenzione mai fatta, di costoni disboscati dagli incendi, gli stessi da cui si sono staccati i massi. Intanto oggi il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo presenterà in consiglio dei ministri un decreto legge per un piano straordinario per la difesa del suolo dal dissesto idrogeologico. E ricorda che ad Ischia era stato finanziato nel 2006 un intervento per la stabilizzazione del costone tufaceo in località Castiglione e Cafiero per l´importo di 259 mila euro. Lavori che non sono stati mai avviati».

Antonio Piro, dipendente dell’Ufficio tecnico comunale, ricorda che a Cava Fontana «che confluisce nella zona dove è passata la frana, si è fatta una bonifica 10 anni fa, poi però si è riempita di nuovo di detriti. Magari dentro ci buttano anche l’immondizia, materiali da risulta, bombole del gas, termosifoni». Si affaccia al balcone: «Vede quegli alberi bruciati? Da lì si è staccata la parete».

Giuseppe Conte, ingegnere, capogruppo Pd all’opposizione, urla al vento. Dal 2007 denuncia la mancata manutenzione dei costoni, «l’ultima volta dieci giorni fa in consiglio. Mi hanno pure detto che porto sfortuna». Mostra il faldone con un progetto per il risanamento dei costoni e recupero degli alvei Sinigallia, Negroponte e Fasaniello, connessi alle antiche fonti termali del Gurgitiello, in piazza Bagni, epicentro della colata di fango. «Erano interventi per l’ingabbiamento dei massi e opere di ingegneria naturalistica, è finita che hanno rifatto la strada con i basoli». La relazione geologica che accompagna quel piano di risanamento lo dice chiaro e tondo, che a monte di piazza Bagni, zona termale per eccellenza, «parallelamente a via Tresta, la valle si presenta stretta e ricolma di detriti che in alcuni tratti impediscono il naturale deflusso delle acque».

Che si è fatto nel tempo per evitare la catastrofe? «Per questa zona mai nulla. L’amministrazione l’ha abbandonata», accusa un geologo, Aniello Di Iorio, «per le opere di protezione alla cava di Pozzillo si sono trovati fondi comunitari gestiti dalla Regione».

Davanti alle "Terme Manzi", una delle più antiche, le ruspe spalano fango e detriti e tronchi di castagno recisi. C’è chi fruga nella melma per recuperare oggetti perduti e gli speleologi esplorano il canale delle acque che corre sotto la strada, alla ricerca di altri punti di ostruzione. A piazza Bagni si è rischiata la strage. Perché in cima alla salita chiamata via della Lava c’è la scuola più grande, l’istituto per ragionieri "Mattei", frequentato da sei, settecento alunni, che proprio martedì, per fortuna, era chiuso per disinfestazione.

Adesso gli amici del cemento hanno due patroni da celebrare: San Ugo Cappellacci, il 16 ottobre, e San Claudio Burlando, il 28 ottobre. La prima data, ricorderanno i libri di storia urbanistica, celebra l’approvazione del piano casa sardo che in un colpo cancella l’èra Soru e spinge il limite di edificabilità praticamente sul bagnasciuga. La seconda, invece, ricorderà il giorno in cui una giunta di centrosinistra varerà un piano casa che farebbe impallidire perfino il Cavaliere. Qui dove ci sono migliaia di case vuote.

IL PIANO

“Il destino del paesaggio ligure si gioca il 28 ottobre”, avverte Carlo Vasconi. Il consigliere regionale dei Verdi, in veste di presidente della VI Commissione ha in mano le bozze del piano casa che sta per essere approvato e indica alcuni emendamenti: “Ampliamenti di immobili residenziali fino al 75%, tanto per cominciare. Poi possibilità di ampliare del 20% anche gli insediamenti agricoli, artigianali e industriali”. Vasconi fa parte della maggioranza, ma soffre, e si vede: “Sono compresi negli aumenti perfino gli immobili condonati, un segnale tremendo per chi ancora crede nella legalità. La giunta di centrosinistra è andata molto oltre il centrodestra, molto più in là di Berlusconi. Questo è un piano casa che sembra scritto apposta per le lobby del cemento”. Attaccano gli ambientalisti, ma anche esponenti politici dello stesso centrosinistra: “È il peggior piano casa d’Italia”, sostiene Roberto Della Seta, capogruppo Pd nella commissione Ambiente del Senato. É già toccato alla Sardegna amministrata da Cappellacci, pochi, però, si aspettavano che ad ampliare ulteriormente i limiti suggeriti da Berlusconi fossero regioni di centrosinistra. Una in particolare, la Liguria, come ha annunciato Bruno Lugaro sul “Secolo XIX”.

SPREMUTA

La stessa Liguria che negli ultimi anni ha già spremuto ogni centimetro quadrato ancora libero dal cemento e, come la Sardegna, campa con il turismo. Negli ultimi anni, infatti, giunte di centrodestra (Sandro Biasotti) e centrosinistra (Claudio Burlando) hanno dato via libera a progetti per oltre tre milioni di metri cubi di nuove costruzioni, mica pochi, soprattutto se concentrati sulla costa, una striscia di terra profonda poche centinaia di metri. Case e moli: nel giro di dieci anni Biasotti e Burlando hanno approvato la costruzione di decine di nuovi porticcioli turistici, raddoppiando di fatto i posti barca da 14 mila a quasi 30 mila. La Liguria detiene ormai il record di un ormeggio ogni 47 abitanti. Il 28 arriverà il voto decisivo.

Le novità più contestate dovrebbero passare senza problemi all’esame dell’aula. Vasconi riassume il piano: “Saranno ammessi aumenti fino al 60% (che arriveranno al 75% per chi realizza migliorie architettoniche, energetiche e antisismiche) per gli immobili residenziali sotto i 150 metri cubi, del 40% sotto i 200. Sarà possibile costruire stanze e nuovi piani, con quelle aggiunte posticce che hanno effetti orrendi sul paesaggio”. Ma i parchi dell’Entroterra? “Gli ampliamenti saranno possibili, ma ci vorrà il permesso del Parco”. I centri storici? “Occorrerà il via libera del Comune”. Nessuna clemenza, nemmeno un panorama fermerà le ruspe: “Nelle aree definite zone-anima, cioè quelle di grande pregio paesistico, ma con vincoli meno stringenti, si potranno ampliare i volumi fino al 60%, purché le costruzioni si trovino ad almeno 300 metri dal mare.

Un disastro, perché la bellezza della nostra regione, quella che noi liguri amiamo e che richiama i turisti, dipende proprio dall’integrità delle zone-anima”. E’ previsto anche un aumento del 20% dei volumi per edifici artigianali, agricoli e industriali (con una soglia, però, ancora da definire). Ci sono delle esclusioni: condomini, fabbricati abusivi, aree inondabili o a rischio frana. A Sanremo ricordano un episodio denunciato dalla Stampa un anno fa: nel 2008 il Comune votò compatto – con il sì della maggioranza di centrosinistra e il solo voto contrario della Lega – la trasformazione in zona edificabile di un’area che appena 20 anni prima era stata definita “frana attiva”.

A nulla valgono le proteste di chi fa notare che la Liguria detiene il record italiano di case vuote (65.000) in rapporto agli abitanti e soprattutto di spopolamento (secondo i dati della stessa Regione la popolazione nei prossimi 20 anni scenderà a poco più di 1,4 milioni, quasi 200 mila in meno di oggi).

L’ASSESSORE

Colate di cemento? Nessuna, solo illusione ottica, per l'assessore all’urbanistica, Carlo Ruggeri: “Il piano era necessario. Il testo approvato in giunta non prevede alcuno scempio. Chi vuole ampliare sino ai 200 metri cubi può usufruire del 30%, poi abbiamo previsto delle fasce. Noi vogliamo aiutare chi possiede poco, non chi ha tanto: non daremo oltre il 10% per i 1.000 metri cubi”. E chi prevede misure antisismiche, pannelli solari? “Potrà usufruire di una premialità, ovvero dei bonus, un altro 10%, per chi ha meno di 200 metri cubi si potrà arrivare al massimo, proprio al massimo al 40%. Il 75? Non esiste”. Eppure all'articolo 4 del disegno di legge, oltre il 10% per gli ambientalisti, si prevedono due “ulteriori” 5%: ovvero 20 in totale e, per chi vuole ampliare 200 metri cubi, è a disposizione un bel 50% e non 40. E per le case condonate? “Noi abbiamo escluso i condoni gravi e meno gravi, certo dobbiamo appurare la legittimità del comma. Se lei compra da me una casa condonata sei anni fa, qual è il problema? Lei non ha un problema. Ci sono una trentina di emendamenti, vedremo”. Ruggeri è infastidito: “Non mettiamo in giro false notizie. Chi dice queste cose? Della Seta?”.

PROTESTA

Inizia una settimana decisiva, il testo già di per sé violento con l'ambiente potrebbe inasprirsi, e quindi il presidente Claudio Burlando vuole silenzio intorno. Comincia con il non rispondere al telefono. L’opposizione sollecita un’approvazione rapida, qui dove la trasversalità politica spunta sulle beghe: “Abbiamo perso anche troppo tempo”, spiega Biasotti. Se destra e sinistra sembrano compatti, il Pd e la maggioranza si sfaldano all'interno. I consiglieri delusi di centrosinistra si confidano: “Erano state presentate due versioni del piano. Una, più restrittiva, della maggioranza, un’altra del Pdl con primo firmatario Nicola Abbundo, imprenditore, guarda caso del settore immobiliare. Stranamente gli emendamenti presentati da Luigi Cola, consigliere del Pd e già sindaco di Cogoleto attivissimo nel concedere permessi edilizi, hanno recepito le principali richieste del centrodestra. Sono tutti d’accordo”. Se la politica sembra aver già deciso, il popolo dei blog si mobilita. Il sito della Casa della Legalità ha lanciato un appello: “Sommergiamo di mail la Regione. Per fare un favore ai costruttori, qui si distrugge l’ambiente” Il destino del paesaggio ligure sembra già segnato: i candidati alle prossime elezioni regionali del 2010 saranno Claudio Burlando e Sandro Biasotti (gli stessi del 2005, alla faccia del rinnovamento). Chiunque sia eletto, vincerà il mattone.

Lo stabilimento balneare è stato inaugurato a luglio e per ora è raggiungibile solo via mare. Si chiama ‘Spiaggia del Fuenti’ ed è gestito dalla famiglia Mazzitelli, proprietaria di quel che fu l’Hotel Amalfitana. Più famoso come Mostro del Fuenti, il simbolo di tutte le devastazioni della costa campana e italiana, raso al suolo nel 1999 dopo un contenzioso trentennale.

Lo stabilimento balneare è il primo passo di un progetto di riqualificazione della costa di Vietri sul Mare, compromessa dall’abbattimento dell’ecomostro, che lasciò in eredità un brullo cratere più brutto persino dell’albergone distrutto. Ricordate? L’hotel di sei piani, 34mila metri cubi di cemento, ultimato nel 1971 e presto chiuso per una storia di licenze concesse e poi stracciate, per decenni al centro del mirino di una dura campagna degli ambientalisti. Conclusa d’imperio dal ministro verde dell’Ambiente Edo Ronchi, che ne decretò e ottenne la demolizione. Riuscendo lì dove per l’ecomostro dell’Alimuri di Meta, finora, si è fallito.

Eppure le due vicende hanno diversi punti in comune. Anzitutto, entrambi gli ecomostri non erano abusivi nel senso classico della parola. Lo sono diventati ‘dopo’. Nacquero, infatti, con regolari licenze edilizie. Poi annullate. Una follia, direte, concedere i permessi per edificare nel ventre dei costoni. Ma così fu. All’Amalfitana-Fuenti la licenza venne rilasciata nel 1968. Per l’albergo dell’Alimuri, cinque piani di cemento nel tratto di litorale tra Meta e Vico Equense, l’autorizzazione risale al 1962. Sono gli anni del saccheggio delle coste. Poi emergeranno le magagne. La licenza dell’Amalfitana-Fuenti viene revocata per sempre dal Consiglio di Stato del 1981 e inutilmente la giunta regionale guidata dal Dc Antonio Fantini concede nel 1990 il condono, invalidato da Soprintendenza e Ministero. La famiglia Mazzitelli si arrende nel 1998, quando il Consiglio di Stato conferma una sentenza del Tar e rigetta l’ultima domanda di condono. Mentre la licenza dell’Alimuri viene revocata dalla Regione nel 1975 perché in contrasto con il Programma di Fabbricazione. Ma il Tar Campania nel 1979 ed il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. Nel 1986 i lavori sono definitivamente bloccati dal Comune di Vico Equense perché si rendono necessari lavori di consolidamento del costone roccioso retrostante: piovono massi sui solai, uno buca un paio di piani.

Le analogie finiscono qui. Il Fuenti, infatti, era un albergo ultimato e operativo: ha vissuto tre anni, dal 1977 al 1980, poi la Protezione Civile lo ha utilizzato per ospitare i terremotati, fino alla definitiva chiusura del 1984. L’Alimuri è rimasto incompiuto: è solo uno scheletro di cemento armato, corroso dal mare e dalle intemperie.

La differenza più evidente, ovviamente, è che il Fuenti è stato abbattuto. Mentre il rudere dell’Alimuri resiste da 42 anni. Inoltre, il Fuenti è stato tirato giù a spese dei proprietari. Invece, secondo il protocollo promosso il 19 luglio 2007 dal ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli e finora inattuato, per demolire lo scempio dell’Alimuri e rimettere in sicurezza il costone, lo Stato e la Regione dovrebbero versare una consistente quota, superiore a quella dei privati. E nell’accordo si concede ai titolari la possibilità di realizzare un albergo di uguale cubatura in un’altra zona di Vico Equense.

In Campania, infatti, esistono i mostri ‘cattivi’ e i mostri ‘buoni’. Il Fuenti era senz’altro ricompreso tra i cattivi. Ed è stato incenerito senza tanti riguardi. L’Alimuri invece è un mostro buono, e se proprio bisogna ucciderlo, va fatto con dolcezza per poi farlo risorgere altrove. “Due pesi e due misure, dunque – scrisse nel 2007 Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, giornale che sulla questione ha condotto una lunga campagna stampa – perché? C’entra qualcosa il fatto che il mostro di Alimuri sia di proprietà di Anna Normale, giovane imprenditrice e moglie dell’assessore regionale (all’epoca, oggi è europarlamentare, nda) Andrea Cozzolino”?

Risposte convincenti non ce ne sono e in assenza di queste, sottolineamo che la parentela non c’entra niente. Però ci chiediamo: come è andata a finire col Fuenti? Cosa è stato permesso ai Mazzitelli in cambio della demolizione dell’ecomostro amalfitano, compiuta a loro spese? Una lunga e laboriosa conferenza dei servizi con le istituzioni pubbliche e le associazioni ambientaliste si è conclusa nel marzo 2004 con un progetto di rinaturalizzazione e restauro paesaggistico dell’area – chiamato ‘Parco del Fuenti’ – dal costo superiore ai 22 milioni di euro, che non concede molto al cemento e alla speculazione. Si prevede uno stabilimento balneare (pronto), dei vigneti, un giardino mediterraneo che dalla roccia arrivi fino alla spiaggia, innesti di ginestre, ulivo, corbezzolo e lentisco, ovvero la stessa vegetazione divelta quando il promontorio venne sbancato. Mentre dentro il basamento dell’albergo, salvato dalla demolizione, si vorrebbero allestire il ristorante e il centro fitness. E anche se i lavori procedono molto lentamente, l’accordo ha strappato parole lusinghiere al presidente di Legambiente Campania, Michele Buonomo: “Se una volta per forza di cose eravamo contrapposti alla proprietà, ora siamo al loro fianco in piena sintonia, condividendo il progetto del Parco del Fuenti. Un percorso fatto insieme, grazie anche alla lungimiranza di imprenditori che hanno saputo con coraggio investire e realizzare un progetto ecocompatibile”.

Un programma di 100 pagine con dati, informazioni e progetti, stilati in vista di due grandi eventi: il 150° anniversario dell'Unità d'Italia nel 2011 e l'Expo del 2015 di Milano. Cento pagine che il sottosegretario al Turismo, Michela Vittoria Brambilla, anticipa a Panorama, in vista del 20 giugno, quando si terrà la conferenza annuale di Riva del Garda: primo incontro ufficiale del governo con la categoria, gli operatori del settore e le regioni.

Può fare qualche esempio di cantiere già approvato?

“Il nuovo Palazzo del cinema di Venezia e la riqualificazione delle aree limitrofe: il futuro della mostra e dell'economia del Lido è legato alla realizzazione di questo complesso che favorirà l'occupazione e lo sviluppo durante tutto il corso dell'anno.”

Come sarà il nuovo spazio?

“Una grande sala da 2.400 posti e l'area del mercato dei film, composta da 15 sale di proiezione polivalenti e da aree commerciali per un totale di 7 mila mq.”

Altri progetti?

“La costruzione del nuovo auditorium a Firenze. Nascerà lungo la linea che separa la Firenze verde da quella di pietra, giocherà infatti un delicato ruolo tra le diverse parti della città. Ci sarà una cavea all'aperto, giardini interni e spazi coperti, anche un ponte pedonale che a sud-ovest supera il fosso Macinante.”

Questo per le città d'arte. Quali altri centri sono interessati?

”Il museo dell'arte contemporanea a Cagliari, che mira anche alla riqualificazione del fronte mare della città, e l'ampliamento dell'aeroporto internazionale di Perugia S. Egidio. L'Umbria infatti, pur avendo una posizione geografica molto favorevole, non ha mai avuto collegamenti viari, ferroviari e aerei importanti, sebbene ospiti da diversi anni manifestazioni di risonanza come UmbriaJazz, Eurochocolate e il Festival dei due mondi. E ancora: la nascita di un polo, un grande parco urbano territoriale, con aree boschive pregiate, tra il parco della Reggia di Caserta e quello nell'area dell'ex Macrico con edifici dedicati al turismo e al tempo libero.”

Qual è la prima cosa che ha fatto quando è entrata nei suoi uffici?

“Una riunione con i dipendenti per dire che la parola d'ordine è operatività. A ogni euro speso deve corrispondere un turista in più. Basta con gli sprechi.”

Piglio manageriale. La reazione?

“Ottima: non vedevano l'ora di rimettersi al lavoro. Ho intenzione di operare una sintesi fra tutti i contributi dei vari enti, dando vita a un'unica politica nazionale di promozione e sostegno del turismo. Credo sia questa una delle mancanze degli ultimi anni.”

Qualcuno l'ha ribattezzata strategia acchiappaturisti. È così?

“Senza essere paradossali diciamo che ce n'è bisogno. I dati parlano chiaro: dal 1991 al 2006 c'è stata una crescita di presenze nel nostro Paese del 36,8 per cento. Non è un numero rassicurante: basti pensare che in Spagna sono aumentate del 63, in Francia del 44,8, nel Regno Unito del 66,5, in Turchia dei 323 e in Cina del 346 per cento. I dati ci dicono di un settore che cresce ma non abbastanza, o perlomeno non quanto sta crescendo in altri paesi del Mediterraneo.”

Altri dati di confronto?

“Il World travel & tourism council (Wttc) ci dice che siamo al 173° posto nella

graduatoria mondiale delle previsioni di crescita. Se l’Italia sale dell’ 1,4 per cento, la Spagna, nostra diretta concorrente, si sviluppa del 2,8: il doppio.”

Perché questa differenza?

“Intanto occorre ricordare che il 60 per cento del turismo nel nostro Paese è fatto da nostri connazionali. Inoltre un dato significativo è che i due terzi del turismo non va più giù di Roma. Il che vuol dire che Nord e Sud hanno necessità totalmente differenti. Venezia viene visitata ogni anno da circa lo stesso numero di turisti di tutto il Sud. Inoltre c’è un problema di qualità dei servizi offerti e di formazione professionale che varia a seconda delle diverse aree del Paese.”

Ci saranno anche altre carenze...

“Le stiamo ancora analizzando. A intuito possiamo dire che l'Italia ha bellezze artistiche e paesaggistiche ma manca di infrastrutture. Nell'ultimo anno abbiamo scoperto che sono stati cancellati 7 mila treni locali. Dovremo identificare le zone di maggior crisi e quelle di maggior competitività, con uno sguardo complessivo.”

Male i treni, ma anche le autostrade non stanno tanto bene.

“Dagli anni Settanta a oggi nei paesi europei la rete autostradale è cresciuta del 230 per cento, in Italia solo del 67. La rete dell'alta velocità copre nel nostro Paese soltanto 590 chilomentri, circa un terzo rispetto alla rete francese, che arriva a 1.540 chilometri.”

E per quanto riguarda i porti?

“I paesi con il maggior numero di ormeggi sono i Paesi Bassi (220 mila) e la Gran Bretagna (175 mila), seguono la Francia e la Spagna.”

Perché le grandi catene alberghiere sono controllate dagli stranieri?

“Ci dovremo lavorare: nemmeno nei primi 50 gruppi europei figura oggi una catena italiana. La jolly hotel infatti è stata acquistata nel 2007 da un gruppo spagnolo.”

Ha un obiettivo per il suo mandato?

“Aumentare i flussi turistici in modo da portare a casa almeno 3-4 punti di pil. Tempo massimo: 5 anni.”

Postilla

Managerialità, operatività, concorrenza e - immancabile – competitività. Eccolo il programma della fulvocrinita sottosegretaria: tale è la foga dell'azione che vi traspare, da provocare un senso di stanchezza alla sola lettura. Qualcuno deve aver suggerito alla wonderwoman della Brianza che buttarla sul numero fa molto executive e, se non altro, aiuta a seppellire sotto un diluvio di cifre pescate un po' a casaccio da qualche documento qua e là l'eventuale ignoranza della materia su cui si discetta. E quando persino l'intervistatore pur amichevolissimo tenta di porre un argine a tale cumulo di banalità (avreste mai sospettato, ad esempio, che il Nord abbia necessità totalmente differenti dal Sud?) la nostra ermeneuta da agenzia viaggi si affida all'intuito (sic!), che le suggerisce la consueta lezione: porti, aereoporti, autostrade e in generale infrastrutture e costruzioni di ogni genere e foggia; persino l'unico esempio evocato di progetto di parco urbano, oltre a qualche accessorio esemplare botanico, sarà fruttuosamente destinato ad ospitare non meglio precisati edifici per il tempo libero e il turismo. Nella panoplia dell'armamentario sviluppista nulla ci viene risparmiato e così non possono mancare i centri commerciali a indispensabile coronamento del Palazzo del Cinema e la consueta equazione ad usum plebis: più costruzioni=più lavoro.

La Napoleonessa delle EPT venuta a risvegliare i letargici dipendenti dal loro torpore (“non vedevano l'ora di rimettersi al lavoro”, sic!) pare divorata dall'ansia da guinness: sembra che l'obiettivo prioritario per il nostro paese (da raggiungere, guarda caso, in un lasso di tempo che coincide perfettamente con quello della legislatura) sia quello di scalare le classifiche del settore, risalire le posizioni, sconfiggere gli avversari e, goal!, guadagnarsi la Coppa Campioni del turismo.

E in questa tragicomica manifestazione di sindrome da horror vacui cementizio neanche il più vago accenno ad un impiego di risorse destinato a ciò che di tutto questo movimentismo vacanziero dovrebbe essere lo scopo principale e cioè la fruizione del nostro patrimonio paesaggistico e culturale: l'anelito al primato della nostrana combattente sul fronte dell'ufficio prenotazioni è talmente scevro da ogni preoccupazione di carattere latamente culturale, da svelare senza reticenze e senza dubbi come, in questa visione, il nostro paesaggio e il nostro patrimonio culturale nel loro insieme siano al più sentiti come un utile gadget, da sfruttare e spremere finchè serve per “portare a casa” - quella della libertà, s'intende - qualche punto percentuale di fatturato in più. E in questo ribaltamento assoluto di mezzi e fini che rimescola in un unico melting pot da film di Cronenberg Eurochocolate assieme al Festival dei due mondi, le uniche pulsioni ideologiche paiono rifarsi ad un nazionalismo da figurina Panini, condito in salsa similbocconiana e veterolittoria.

Ma forse le ascendenze sono da recuperare un po' più vicino nel tempo e nel genere: a rileggere l'assertivo slogan “voglio un turista per ogni euro speso”, davvero la memoria corre alle esortazioni prescrittive della Wanna Marchi nazionale che, nell'impeto della televendita e con esilarante sprezzo dell'evidenza, vista la non esile figura, ci ingiungeva: “Vi voglio tutti magri!” (m.p.g.)

Con la benedizione del Ministro Scajola è ufficialmente scattata a Sanremo, auspice una ditta di costruzioni, la fase due della cementificazione della Liguria, resa inevitabile dalla fine dello spazio disponibile per ulteriori caseggiati ad Arma di Taggia, San Bartolomeo al Mare, Loano, S. Margherita, Sestri L. ecc. Stavolta toccherà direttamente al mare e al piccolo lembo di costa che lo lambisce, sacrificati al nuovo idolo economico- speculativo: il porto turistico, i parcheggi per la nautica da diporto, che, ha detto la ruspante vedova Cozzi, dovranno crescere ben oltre gli attuali 3500 posti. In realtà, questa fase è partita in sordina già da decenni e vanta pregevoli mostri come il porto degli Aregai a Santo Stefano o Porto Sole a Sanremo: banchine di cemento, file di anonime imbarcazioni parcheggiate, edilizia collegata orribile, livello di attività collaterali capace di competere con quello di un grosso garage con annesso autolavaggio.

Intendiamoci. Non voglio mettere in discussone la buona fede di chi promuove questa nuova ondata edilizia in Liguria. Non ignoro che iporti turistici potranno avere delle positive ricadute in termini di occupazione e di economia del circondario (manutenzione delle barche, guardianaggio, ristoranti, seconde case). E non mi nascondo che, come ha detto Scajola, non si può dire solo no.

Ma il punto è che, con questa soluzione e soprattutto con la smania gigantistica che la contraddistingue (tipica per la verità di tutte le speculazioni), si stanno per ripetere sul mare gli stessi orrori che si sono fatti in terraferma dagli anni Sessanta in poi: urbanistica da periferia, tessuto sociale assente e scadente, città fantasma, senza centro, senza anima.

Ora, chi non sarebbe disposto a rinunciare a qualcuno dei guadagni che pure ci sono stati in termini di microeconomia locale pur di tornare a rivedere un pezzo di verde a Arma di Taggia o a non vedere i tristi casermoni di Ceriale o Spotorno ?

ALLORA: perché riprovarci? Come non rendersi conto che la nautica da diporto abbasserà ancora di più il già miserevole livello qualitativo delle presenze in Liguria, portando un tipo di pubblico analogo a quello che sarebbe attirato da maxi-parcheggi riservati a gipponi di 5 metri? Come non pensare al peso che i rumorosi e frettolosi inquilini di Porto Sole hanno avuto nella fine di Sanremo come centro di un turismo permanente e di qualità? E ancora: dopo la devastante esperienza di un'edilizia ipertrofica, senza gusto e senza garbo, che ha offerto una villeggiatura anonima in squallidi loculi costosi, come non interrogarsi sulla compatibilità con quel che resta del territorio ligure di impianti portuali troppo grandi, spaventose cattedrali nel deserto come gli Aregai o inaccessibili enclave cementificate come quella che si prospetta a Imperia, nell'unico fronte mare ancora accessibile in piena città?

Se è vero che non si può dire solo no e non si trova niente di meglio, per rilanciare il turismo in Liguria, che favorire i parcheggi delle barche, perché non porsi almeno rigidissimi vincoli di dimensione, non costruire i porti nelle insenature naturali (come è in parte avvenuto ad Alassio), non evitare che diventino garage preclusi a chi non ha la chiave, non curare l'edilizia di servizio secondo criteri di discrezione ed eleganza? Ma la discrezione e l'eleganza interessano ancora a qualcuno?

Il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo e Legambiente difendono il progetto della funivia delle Cinque Terre. Un´iniziativa che dovrebbe concretizzarsi il prossimo anno, che collegherà i sentieri sopra Riomaggiore alla cima del monte Parodi dove si trova l´ex forte di Bramapane, e che, come anticipato ieri da Repubblica, è stata duramente bocciata dal consiglio nazionale di Italia Nostra. Per l´associazione presieduta da Giovanni Losavio la funivia rappresenta uno sfregio all´integrità delle Cinque Terre. Franco Bonanini, presidente e anima del Parco, difende la sua scelta spiegando che servirà ad allentare la pressione turistica oggi concentrata su una parte ridotta del territorio, incentiverà il turismo dei borghi collinari e soprattutto, viste le caratteristiche (meno di un chilometro e una sola campata dice Bonanini), non deturperà l´ambiente.

«Il progetto rappresenta un´opera che si muove nella direzione giusta» ha detto Stefania Prestigiacomo, ministro dell´Ambiente, «per accrescere il valore dell´area e consentire ad un numero sempre maggiore di persone di apprezzare le suggestioni delle Cinque Terre anche al di fuori dei celeberrimi sentieri sul mare. Questa è la logica che dovrebbe guidare la gestione dei Parchi, una logica che le Cinque Terre, grazie ad una guida lungimirante ed illuminata, hanno seguito riuscendo a far diventare il vincolo paesaggistico motore della rinascita economica di un´area di incomparabile bellezza».

Sulla stessa linea, ma polemici nei confronti dei "cugini" di Italia Nostra, i dirigenti di Legambiente. Va però ricordato che si tratta di una difesa d´ufficio, visto che Franco Bonanini, oltreché presidente del Parco e direttore dell´Agenzia turistica della Regione Liguria, è da anni uno dei membri più influenti del direttivo nazionale di Legambiente.

«C´è un ambientalismo che blocca e conserva - dice il vicepresidente Sebastiano Venneri - ma che rischia di fare danni incalcolabili al territorio. Senza innovazione e senza un´idea di futuro, infatti, qualsiasi luogo sarebbe condannato a una misera gestione del presente». Sposa le tesi del ministro di centro destra anche Roberto Della Seta ex presidente di Legambiente, oggi senatore del Pd: «E´ un attacco gratuito e pretestuoso. Come purtroppo capita da tempo, Italia Nostra se la prende con i pochi simboli positivi di uno sviluppo veramente sostenibile».

A una distanza ancora ragionevole dalla prossima campagna elettorale per le regionali, che tenderà a ricondurre critiche e riflessioni a più innocue polemiche di matrice politica, è forse ancora possibile tentare un valutazione minima delle politiche per il territorio che la Regione ha messo in campo.

In maniera molto sintetica, visto lo spazio ovviamente contingentato di questo articolo, si può fare riferimento a tre grandi famiglie di strumenti di intervento, attraverso i quali ricostruire in maniera strumentale le opzioni (o le retro-opzioni) che la Regione Campania ha utilizzato per intervenire, tutelare o pressare sul territorio.

Le tre famiglie sono: i progetti integrati legati alla programmazione di indirizzo e cofinanziamento comunitario; la pianificazione di area vasta; leggi, normative e regolamenti in materia urbanistica ed edilizia.

Sulle speranze (e, spesso, sulle credenze) legate al ruolo della prima famiglia di strumenti (in gran parte denominati Pit, Progetti integrati territoriali), si è scritto parecchio e la fase di cosiddetta "sperimentazione", durata almeno una decina d´anni, ha consentito di procrastinare continuamente una stima seria dei processi e degli esiti. Ora che alcune prime valutazioni indipendenti e sostenute da dati statistici sufficienti sono state elaborate, sta emergendo che, a fronte di una metodologia severa imposta dall´Unione europea (qualità dei progetti, priorità selezionate, concentrazioni di risorse in programmi di massa critica adeguata, attivazione di partenariato istituzionale e sociale, documentazione dei risultati in maniera rigorosa), gli esiti sono stati per lo più effimeri in termini fisici, clamorosi in termini di flussi finanziari finiti in mille rivoli e mille tasche, inconsistenti dal punto di vista di uno sviluppo duraturo legato ai territori, e si sono conseguentemente chiusi con valutazioni fittizie e furbe, consegnate a una Unione europea che non ha saputo e voluto verificare.

L’unico esito positivo è stato quello di indurre all´apprendimento e all’innovazione la farraginosa macchina burocratica regionale che ha indubbiamente acquisito dimestichezza con pratiche amministrative meno obsolete e grossolane. A questa famiglia, è bene ricordarlo, appartengono anche i nuovi programmi Piu, come quello già partito sul centro storico di Napoli, che si spera utilizzino l´esperienza dei fallimenti passati.

Il secondo gruppo di strumenti, e cioè quelli che fanno riferimento alla pianificazione di area vasta, si identifica in particolare con i Piani territoriali di coordinamento provinciale e il Piano territoriale regionale. Nonostante l’enorme mole di lavoro e di speranze, nessun piano provinciale è stato mai approvato da quando, a partire più o meno dal 2000, le varie province hanno cominciato a elaborare questo tipo di piano. Non c’è riuscita nemmeno la Provincia di Napoli che, arrivata quasi alla fine del processo, ha visto un cambio di maggioranza che rischia di rendere improduttivi i circa 1,5 milioni di euro che si sono spesi, negli ultimi 8 anni, per la redazione del piano. A essere approvato definitivamente, invece, è stato, nel 2008, il Piano territoriale regionale (Ptr). E non è un caso.

Priva di un disegno chiaro su che cosa la Campania dovrà essere nel medio-lungo periodo, la Regione ha approvato l´unico piano che non creava problemi. Il Ptr infatti è un piano di indirizzi, poco cogente, fatto di visioni, scenari e cartografie sufficientemente generiche e poco chiare, utili per consentire infinite interpretazioni e tali da non garantire alcun orizzonte solido verso il quale si sarebbero potuti densificare i contrasti interni alla stessa maggioranza. L´unico elemento positivo del Ptr sono le allegate Linee guida per il paesaggio, un insieme di indirizzi e di prescrizioni che, a partire da una conoscenza puntuale dell´intero territorio regionale, costituiscono uno sfondo argomentato che difficilmente potrà essere messo in discussione, se non dalla poca cogenza del Ptr stesso.

L’ultimo gruppo di strumenti che in queste due legislature di centrosinistra ha "lavorato" sul territorio è quello delle leggi e delle norme. Esse ruotano tutte attorno alla nuova legge urbanistica regionale 16/2004. Una legge che offre spunti di innovazione (generalmente copiati da leggi di altre Regioni), molti punti di inammissibile incertezza (come quella di non prevedere per i piani comunali la suddivisione in parte programmatica e parte operativa, come hanno fatto quasi tutte le altre Regioni d’Italia), e un generale impianto ibrido che manifesta il fatto di essere stata scritta da legulei e non da tecnici urbanisti, rendendola "edibile" ma certamente un´occasione persa per fare qualcosa di più.

Ma la politica regionale per il territorio, quella vera, ha il suo snodo nella legge 19/2001 che (utilizzando simulazioni ingenue, facili da individuare) liberalizza la materia edilizia e fornisce un grimaldello eccezionale per demolire i vincoli paesaggistici, delegando la loro essenza a controlli che non ci sono, all´etica del privato, alla benevolenza del mercato. Con questa legge, ad esempio, la giunta di Antonio Bassolino ha reso edificabile l´intera Penisola sorrentina. Esclusi i centri storici e le aree di tutela integrale (Zt 1 e Zt 9 del Put), circa il 20 per cento del territorio, è in pratica possibile sbancare dovunque la Penisola (come nei fatti si sta facendo) nel restante 80 per cento per realizzare al posto di noceti e oliveti mega-parcheggi interrati che, al netto del metro di terreno in copertura, sono costruzioni a tutti gli effetti che rendono l’area di sedime irreversibilmente compromessa alla pari di un edificio di 10 piani. Si può discutere su altri strumenti e su altre leggi, ma che questo scempio sia l’eredità più solida lasciata al territorio dalle ultime stagioni della politica regionale, è indubbio. E tutto questo in attesa di vedere quello che succederà col "piano casa".

Insomma, un quadro poco confortante, perché fatto di cose effimere, fragili e poco funzionali in termini di promozione dello sviluppo, nei casi migliori, palesemente contro il territorio e a favore della speculazione, in quelli peggiori. L’ultimo anno di tempo è forse poco per mutare il segno di questa tendenza, ma probabilmente dei correttivi sono possibili, per lenire, almeno nel limitato campo urbanistico, il peso di una così poco confortante eredità.

Duramente criticato dalle Assise di Palazzo Marigliano il piano casa della regione Campania. Secondo Carlo Iannello, professore di diritto dell’Ambiente alla Sun, "con questo disegno di legge si affiderebbe, di fatto, il governo del territorio alla proprietà fondiaria, vanificando la pianificazione urbanistica comunale". Luigi De Falco – segretario regionale di Italia Nostra – ha affermato "che si tratta di una disciplina incostituzionale, in quanto non esclude dal suo ambito di applicazione tutte le zone soggette a vincolo paesistico". Per Vezio De Lucia "questa è la peggiore legge che la Regione Campania potesse fare".

Secondo l’ex assessore all’urbanistica del comune di Napoli, siamo in presenza di un disegno di legge inaudito: gli articoli 5 e 6 devono essere del tutto eliminati. Secondo De Lucia gli effetti di questo disegno di legge sarebbero esiziali non solo per il governo del territorio e per il paesaggio, ma addirittura per l’occupazione: la possibilità di modificare la destinazione d’uso degli edifici (art. 5) rappresenterebbe per le industrie, anche per quelle produttive, un incentivo a dismettere le attività industriali, licenziando i lavoratori e riconvertendo i volumi in edilizia residenziale: "Questa operazione – ha ribadito De Lucia - consentirebbe alle imprese di realizzare profitti immensi a danno dei cittadini e dei lavoratori".

Sul piano casa della Regione Campania, v. su eddyburg

Tormentone tutto italiano: perché i Verdi in Paesi europei sviluppati spuntano consensi di massa e in Italia, Paese minacciato come pochi, stagnano all’1 %? Personalmente penso: a) i Verdi italiani sono nati lasciando da parte (con qualche iniziale eccezione, Fulco Pratesi) i loro "padri": lo stesso Antonio Cederna non è stato mai eletto dai Verdi, altri sono stati lasciati a casa loro, Insolera, Amendola, Fazio, ecc. ; b) i Verdi sono stati via via egemonizzati da componenti extra-parlamentari di sinistra (Dp soprattutto) divenendo così un partitino militante della sinistra nel quale, se si era ambientalisti, bisognava essere contro l’intervento nel Kosovo, anti-capitalisti, ecc., mai trasversali; c) la decisione di trasformare il movimento in partito (lo dissi subito all’amico Luigi Manconi) era sbagliata in radice, bisognava rimanere movimentisti, presenti in tutte le formazioni democratiche, decidendo volta a volta liste "verdi". Il partito – previsione scontata – l’avrebbe conquistato il primo che avesse fatto collezione di tessere. Incaglio che vedo riaffiorare in vista del congresso del Pd e che mi ricorda i nefasti del Psi dove la sinistra di Lombardi-Giolitti prevaleva nelle assemblee politiche e nel voto di opinione (allora c’erano le 4 preferenze), ma veniva poi sotterrata dai voti clientelar/famigliari ai congressi, dove c’erano in ballo posti & poltrone.

Il Belpaese ha dunque enormi problemi sul piano della conservazione attiva del patrimonio storico-artistico-paesaggistico, aggravati da un centrodestra che massacra il bilancio dei beni culturali, e quindi la tutela stessa, minaccia i parchi, non investe nel risanamento idrogeologico, nella prevenzione sismica, ecc.. Ma, a fronte di una vera tragedia epocale, abbiamo associazioni indebolite (Carlo Ripa di Meana presidente romano di Italia Nostra ha elogiato il piano casa Berlusconi…), Verdi ridotti ai minimi dal loro "suicidio" con Pecoraro Scanio, un ambientalismo vago o insufficiente nel centrosinistra.

Comincio dall’Italia dei Valori: non si è ancora data un vero programma generale e su questi temi dice poco o nulla (nonostante Pancho Pardi e altri). Antonio Di Pietro, del resto, ministro delle Infrastrutture tutt’altro che vicino all’ambientalismo, ha tenuto in vita la Società per il Ponte sullo Stretto, prontamente rivitalizzata da Berlusconi. L’Ulivo prodiano si era dato, a fatica, un programma impegnativo in materia. Fra gli ex Ds tuttavia c’erano stagionate insensibilità. Del resto – l’ha fatto notare Alberto Asor Rosa ad un convegno sul paesaggio – il marxismo stesso è stato sviluppista e industrialista, mentre i difensori della natura e del patrimonio storico (Zanotti Bianco, Bassani, Cederna, Detti, Rossi-Doria, Desideria Pasolini, ecc.) vengono dal pensiero liberale o liberalsocialista. Per molti anni, tuttavia, le elaborazioni della sinistra in materia di centri storici e di paesaggio (Cederna, Cervellati, Achilli, l’INU di Detti, Insolera, Gambi, ecc.) hanno positivamente influenzato le amministrazioni Pci-Psi e la sinistra dc. Ricorda Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia: "Allora noi trovavamo quasi sempre una sponda positiva nelle giunte di sinistra o di centrosinistra. Oggi spesso ce le troviamo contro". Dato di fatto incontestabile. Lo confermano casi clamorosi: a Monticchiello, a Casole d’Elsa o a Urbino oggi di nuovo minacciata da "grandi lavori" e da centri commerciali vicino o dentro le mura stesse. I tempi del primo PRG di De Carlo voluto da un sindaco pci, il falegname Egidio Mascioli, sembrano preistoria.

Nel Partito Democratico circola un "ambientalismo del fare" che poco affascina, poco incide e poco aggrega rispetto al "fare" berlusconiano. Sembra, a volte, che si "insegua" il modello della deregolazione, delle grandi opere cementizie, di passanti ferroviari sotterranei (vedi Firenze) quando ci sono già stazioni di superficie, di centri commerciali giganteschi a tutto spiano (a Roma, in pochi anni, da 2 a 28, in contrasto stridente col "piano del ferro" Tocci-Rutelli).

Non contrapponendo al modello berlusconiano, sfrenatamente consumistico (anche sul piano dell’enorme consumo di terra e di paesaggio), un modello alternativo, perché mai consensi elettorali di massa dovrebbero piovere sul Pd? I voti di centro vanno alla Lega o all’Udc, quelli di sinistra si frantumano, o affogano nell’astensione. Adesso "va molto" l’"invidia della Lega" che "fa come il vecchio Pci, sta fra la gente, organizza le feste", ecc. D’accordo, fra la gente bisogna starci, ma con un proprio programma, non con quello della Lega (dura difesa dall’immigrazione, sicurezza con le ronde, individualismo da padroncini, localismo, rifritture del solito qualunquismo).

Nel Pd Giovanna Melandri, responsabile per la cultura, mi sembra avere incisivamente corretto la linea sbagliata della "produttività" dei beni culturali e ambientali, della loro "messa a frutto" abbracciata anni fa da Federculture, da Ermete Realacci e da non pochi ds. Cavalcata, ora, di gran carriera, da Berlusconi, dai fantasmatici Bondi e Prestigiacomo e dall’incombente Mario Resca superdirettore alla valorizzazione. La giusta correzione di Giovanna Melandri va tradotta in strategia per una cultura rigorosa, attiva, moderna della tutela (anche a fini turistici, o suicidi!). In Maremma Nicola Caracciolo, pur presidente toscano di Italia Nostra, ha teorizzato che le aziende agricole si risanano dando loro modo di costruire. Un controsenso. Anche agricolo. Ma, guarda caso, nel Piano casa berlusconiano (per ora bloccato alla Conferenza Stato-Regioni), era previsto un 10 per cento, comunque, di "premio" nelle zone agricole. La Regione Toscana ha varato per prima la legge regionale di un Piano casa nazionale che…ancora non c’è. Non è confusione delle lingue, questa?

Il disegno di legge sul cd. piano casa proposto dalla giunta regionale mette una pietra tombale sull’assetto urbanistico delle città.

Innanzitutto, questa normativa non esclude dal suo ambito di applicazione tutte le zone soggette a vincolo paesistico: sono solamente i vincoli di inedificabilità assoluta a impedirne l’applicazione. Dove è scritto nel disegno di legge che l’ampliamento non è possibile in ogni area sottoposta a vincolo paesistico? Manca pertanto una disposizione chiara del tipo «nei centri storici e nelle aree sottoposte a vincolo paesistico non si applica la disciplina della presente legge».

Inoltre, effetti ancora più dirompenti di quelli contenuti negli art. 3 e 4 del testo approvato in Giunta (i quali disciplinano, rispettivamente, l’ampliamento, in deroga alla pianificazione urbanistica, della volumetria degli edifici del 20% e del 35% ) provengono dall’art. 5 comma 4 ossia dalla possibilità di modificare, sempre in deroga alla pianificazione urbanistica, la destinazione d’uso degli edifici e di effettuare interventi di sostituzione edilizia a parità di volumi. Chiaramente questa disposizione si applica ad attività industriali rendendo possibile la riconversione in edilizia residenziale degli spazi attualmente utilizzati (o inutilizzati, si pensi alle attività dismesse) dalle imprese. Senza nessuna verifica dell’impatto di scelte di tale tipo sul contesto sociale e ambientale, si introduce una possibilità che vanifica d’un colpo la stessa funzione urbanistica. Per voluntas principis trasformazioni rilevanti dell’assetto urbanistico delle nostre città sono operate senza che vi sia la men che minima percezione degli effetti (potenzialmente devastanti) sulle città e sulla vita quotidiana dei cittadini.

Quali esiti, in una città come Napoli, potrebbe avere una disciplina di questo tipo? La trasformazione delle ex aree industriali potrebbe essere gestita in deroga alla pianificazione urbanistica. Si pensi a Napoli est, ma non solo. Si vanificherebbero, così, le più rilevanti decisioni urbanistiche adottate dalla città di Napoli. Il governo del territorio passerebbe dalla mano pubblica a quella dei privati proprietari delle aree.

Inoltre, siamo sicuri che questa normativa non si applichi nei centri storici? Gli interventi che prevedono l’ampliamento ne sono esclusi: La sostituzione edilizia a parità di volume, invece, non lo è, almeno in modo chiaro. La normativa è scritta male, anzi malissimo. È così piena di difetti e di ambiguità che si potrebbe sostenere l’applicabilità della disciplina sulla modifica di destinazione d’uso a parità di volume (art. 5, comma 4) anche ad edifici ricadenti nei centri storici per i quali la pianificazione comunale prevede invece l’abbattimento.

La critica che generalmente viene condotta contro questi provvedimenti, ossia che maschererebbero un condono anticipato, non coglie dunque nel segno. Gli effetti di questa legge sarebbero molto più devastanti di quelli di un condono. Le deprecabilissime leggi sul condono si limitavano a ratificare (entro certi limiti) l’esistente, per fare cassa (non senza incentivare, almeno sulla carta, un rafforzamento del rigore per il futuro). Senza nemmeno la giustificazione di fare cassa, la giunta regionale propone una legge che mina l’idea stessa di pianificazione urbanistica, concretandosi in una completa abdicazione dell’urbanistica pubblica a favore della più completa deregulation. Una legge che nella sostanza tradisce il compito che la costituzione ha –inopportunamente, stando a questo disegno di legge – affidato alle regioni denominato «governo» del territorio.

[…] Le considerazioni svolte fin qui mettono in evidenza che gli aspetti territoriali hanno grande rilievo in Italia, per motivi storici, geografici, economici e sociali. Le analisi sviluppate quest’anno hanno consentito, da un lato, di cogliere meglio l’articolazione a scala locale dei problemi legati alla performance delle imprese e alle caratteristiche del mercato del lavoro all’inizio della fase recessiva; dall’altro, hanno permesso di fare il punto sulle aree di forza e di debolezza di un "modello" produttivo e sociale profondamente radicato localmente. In questa chiave di lettura, il territorio non rappresenta una dimensione astratta, uno spazio geografico, ma fa riferimento a un insieme di elementi concreti (anche se non sempre tangibili), a un "sistema" di risorse localizzate: attività produttive, ma anche competenze, tradizioni, know-how, elementi culturali e "valori" che definiscono le identità locali, regole e pratiche che compongono un modello di governance.

Per questo motivo, al fine di mettere in luce eventuali ulteriori vincoli allo sviluppo, il Rapporto annuale affronta, sempre in termini statistici, il tema dell’impatto della relazione tra crescita economica e assetto urbanistico. Storicamente, e ormai da parecchi decenni, la crescita della cosiddetta "Terza Italia" si è associata a un esteso consumo di suolo, legato non solo alla nascita e alla crescita di localizzazioni produttive al di fuori delle aree metropolitane, ma anche alla trasformazione della struttura sociale dei territori investiti da quei processi di sviluppo. In molti luoghi sembra essersi instaurato un circolo vizioso: da una parte, si mettono in luce i "costi" che il modello di sviluppo locale prevalente da almeno trent’anni, e largamente spontaneo, ha comportato in termini di consumo delle risorse territoriali; dall’altra, si pone la questione se la riproduzione del medesimo modello sia ancora sostenibile oppure, in larghe porzioni del Paese, non incontri un limite alla sua evoluzione e al suo progresso proprio nello sfruttamento incontrollato del capitale territoriale. L’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti che si è prodotta in assenza di pianificazione urbanistica sovra- comunale in importanti aree del Paese (Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte).

Nel periodo 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di m3, il 40 per cento dei quali per edilizia residenziale (22,3 m3 all’anno per abitante) e il rimanente per le attività produttive. Limitatamente alla componente residenziale, la domanda di nuova edificazione non è più sostenuta tanto dalla crescita demografica, quanto dalla moltiplicazione dei nuclei familiari, da attribuirsi alle trasformazioni strutturali in atto nella società italiana.

La dinamica delle superfici edificate è caratterizzata da espansioni continue: nel 2001 le aree urbanizzate (cioè località abitate individuate in occasione dei censi- menti) includevano il 6,4 per cento del territorio nazionale, con un incremento del 15 per cento rispetto al 1991. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta soltanto dello 0,4 per cento.

Le procedure di revisione delle aree urbanizzate in vista dei prossimi censimenti consentono di aggiornare il quadro per alcune regioni, e di confermare che i processi di edificazione sono proseguiti a ritmi sostenuti: in Puglia, Marche e Basilicata gli incrementi di superfici urbanizzate spaziano tra il 12 e il 15 per cento, e in Molise si raggiunge il 18. In Veneto, che già nel 1991 condivideva con la Lombardia il primato di regione "più costruita" d’Italia, le superfici edificate crescono ancora del 5,4 per cento, approssimando situazioni di saturazione territoriale. Con Lazio e Puglia, il Veneto è anche la regione dove in assoluto si è costruito di più (oltre 100 km2 di nuove superfici edificate).

In definitiva, l’analisi consente di individuare aree e configurazioni a forte e consolidata caratterizzazione: da un lato, i sistemi locali metropolitani e quelli di hinterland, con forme consistenti di consumo intensivo del suolo; dall’altro le aree del triangolo veneto-lombardo-romagnolo, dove più evidente si manifesta il fenomeno dello sviluppo urbano a bassa densità nei terreni ai bordi delle città, con forme evidenti di consumo estensivo (urban sprawl).

A queste si aggiunge l’individuazione ulteriore di situazioni critiche per densità di popolazione nelle aree extraurbane e la pressione della domanda di nuova edificazione: in gran parte della pianura padanoveneta, nella fascia litoranea marchigiano-abruzzese e nelle vaste aree d’influenza di Roma e Napoli il modello insediativo ad alto consumo di suolo tende a riprodursi saturando complessivamente i residui spazi disponibili; in Puglia, nella pianura friulana, nella bassa lombarda e nel Campidano – tutte aree a bassa e media densità di popolazione extraurbana – la domanda di nuova edificazione segnala un cambio di paradigma, che rischia di mettere in crisi la stessa immagine storica dei territori.

La retroazione positiva fra modello prevalente di sviluppo locale e crescita del consumo di suolo appare dunque in prospettiva doppiamente critica, sia per la sostenibilità territoriale dell’incremento dell’urbanizzazione nel lungo periodo, sia per i limiti che la commistione degli usi e la congestione degli spazi impongono all’evoluzione delle imprese e delle economie locali verso dimensioni e strutture organizzative più solide. Le specificità e le caratteristiche storiche dei luoghi, dunque, non pongono soltanto problemi di tutela e conservazione, ma sono elementi del "capitale territoriale", determinanti per rilanciare lo sviluppo senza stravolgere le vocazioni locali. Un esempio, parziale ma rappresentativo, di queste tematiche è costituito dai beni culturali, e in particolare dai musei e dagli altri luoghi di antichità e arte, cui il Rapporto dedica un approfondimento specifico.

A fianco delle 400 strutture museali statali (in grado di esercitare una capacità attrattiva quantificabile in oltre 34 milioni di visitatori annui e di produrre un volume finanziario, solo di incassi, pari a 106 milioni di euro) esiste un ampio ed eterogeneo patrimonio culturale "non statale" distribuito in modo capillare sul territorio: 4.340 istituti a carattere museale, nel 42 per cento dei casi associati in forme di circuiti territoriali o tematici, che nel 2006 hanno ospitato più di 62 milioni di visitatori. La geografia culturale descritta da queste realtà rappresenta una domanda che non si concentra nelle aree di maggiore notorietà e attrazione di massa, ma è interessata a realtà minori, disseminate sul territorio, e che quindi è potenzialmente un elemento di sviluppo, non soltanto turistico.

http://www.istat.it/dati/catalogo/20090526_00/sintesi.pdf

La brochure è curatissima, stampata su carta patinata e impreziosita da decine di foto. Di rappresentanza anche lo stand espositivo per le informazioni agli operatori di mercato e l’organizzazione dei meeting con i potenziali investitori stranieri. Un lavoro da piazzisti in doppio petto sulla croisette di Cannes, teatro il “Mipim 2009”. Ossia il principale forum mondiale della proprietà: 2.687 aziende espositrici da 89 paesi e 7.625 fra investitori ed utenti finali. Quattro giorni (dal 10 al 13 marzo scorso) per consentire, recita il sito internet, «ai delegati di avere una prospettiva unica sul mercato mondiale». Niente di strano per una azienda che opera nel settore degli immobili, qualcosa di più curioso invece se sulla brochure e nello stand fanno bella mostra di sè gli stemmi dell’Esercito, della Marina Militare, dello Stato Maggiore della Difesa, dell’Aeronautica e dei Carabinieri.

Ma che ci facevano le forze armate ad una fiera internazionale dell’immobiliare? La risposta è nei due articoli di un disegno di legge fermo in commissione difesa del Senato e nella pagina 3 della suddetta brochure informativa, accanto al testo tradotto in inglese: «il patrimonio immobiliare del Ministero della Difesa comprende una vastissima tipologia di siti ed infrastrutture, sparsi su tutto il territorio nazionale, quali depositi, caserme, forti e arsenali, molti dei quali risalgono al periodo del secondo conflitto mondiale e, spesso, anche ad epoche precedenti». Molti di questi siti, spiega il ministero, «non risultano essere più in linea con le attuali esigenze» e pertanto aprono la strada ad «un processo di significativa riduzione». Che tradotto significa, citiamo ancora dall’elegante pubblicazione, che molte di queste strutture «potranno essere cedute» e dalla loro «eventuale vendita o locazione sarà possibile ricavare risorse finanziarie aggiuntive, da destinare alle esigenze di ammodernamento e miglior funzionamento della Difesa». Del resto la cura Tremonti, e lo stesso ministero è stato costretto ad ammetterlo nella propria nota illustrativa alla Finanziaria, ha ridotto gli stanziamenti per le forze armate di 838 milioni di euro nel solo 2009.

Servono soldi freschi, insomma, e l’idea del governo è quella di «vendere al miglior offerente», citazione testuale dalla solita brochure, pezzi del patrimonio architettonico italiano che il ministero della Difesa non ritiene più utili o adatti alle esigenze delle forze armate. Per farlo il governo ha escogitato l’ennesima trovata di una storia già nota sotto al titolo “Finanza Creativa”. E falliti i piani A e B (due emendamenti: uno al collegato “disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese nonché in materia di energia”, l’altro al decreto legge sui prezzi con l’obiettivo di mutarne il titolo sostituendo la dicitura “pesca professionale” con “attività funzionali alle forze armate”) l’esecutivo ha deciso di prendere di petto la questione presentando un proprio disegno di legge. Il numero 1373 che, se all’articolo 1 punta alla «tutela dei segni distintivi delle Forze Armate», con l’articolo 2 istituisce la “Difesa Servizi Spa”: una società privata a capitale pubblico, il ministero della Difesa ne è l’unico azionista, che «ha ad oggetto la prestazione di servizi e lo svolgimento di attività strumentali e di supporto tecnico-Amministrativo in favore dell’amministrazione della difesa per lo svolgimento di compiti istituzionali di quest’ultima anche espletando, per il comparto sicurezza e difesa, le funzioni di centrale di committenza» (art.2 comma 3). Ma la “Difesa Servizi Spa”, ed è proprio questo il punto, «può altresì assumere partecipazioni, detenere immobili ed esercitare ogni attività strumentale, connessa o accessoria ai suoi compiti istituzionali».

I primi effetti di questa formulazione così vaga, li ha spiegati proprio il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto nell’ottobre scorso quando spiegò che «il Governo intende velocizzare i processi di dismissione degli immobili di pertinenza del ministero della Difesa». Ed è stato proprio lo stesso Crosetto a volare a Cannes per presentare ai potenziali investitori le meraviglie che il governo italiano intende immettere sul mercato per venderle o quantomeno affittarle «al miglior offerente». Una lista che ha fatto strabuzzare gli occhi a molti investitori stranieri. Perché degli immobili messi in vetrina (divisi per uso residenziale, industriale o turistico alberghiero) fanno parte veri e propri gioielli del patrimonio italiano. Dall’Arsenale di Venezia (l’arzanà de’ Viniziani, lo definì Dante nel XXI canto dell’Inferno) a quello di Taranto; dall’Isola di Sant’Andrea di Venezia a quella di Palmaria. E poi il Castello Aragonese di Brindisi, i Depositi di Punta Cugno ad Augusta, gli stabilimenti del Genio di Pavia e il comprensorio di San Gallo di Firenze. Per non dimenticare poi le caserme sparse fra Milano, Torino e Bologna. «Le operazioni immobiliari che il Ministero della Difesa si appresta ad avviare - si legge infatti nella brochure - riguarderanno installazioni di più rilevante valore commerciale, quelle cioè che sono in grado di offrire un ventaglio di maggiori possibilità di riconversione ad uso civile e di nuova costruzione, singoli edifici di particolare pregio architettonico o grandi strutture». E sono soltanto i primi pezzi pregiati da vendere al miglior offerente: altri ne seguiranno quando alla Difesa Servizi Spa saranno affidati gli altri siti di un patrimonio immobiliare il cui valore, secondo stime, si aggira intorno ai 4 miliardi di euro.

Questo prevede il disegno di legge n. 1373 che, fra le altre cose fa della Difesa Servizi Spa un grande “contractor” che si occuperà di tutti gli appalti del settore sottraendoli di fatto a qualsiasi controllo. Ma questa è un’altra storia, che fra l’altro puzza di immondizia ed è pericolosa quanto l’uranio delle centrali nucleari. La racconteremo più avanti.

(1-continua)

Da palazzo Brasini all’isola di Palmaria.

L’arsenale di Venezia rappresenta una parte molto estesa della città insulare e fu il cuore dell’industria navale veneziana a partire dal XII secolo. Ospita una delle sedi espositive della Biennale.

L’Isola di Sant’Andrea di Venezia è una piccolissima isola conosciuta per il Forte di Sant’Andrea, costruito nel XVI secolo.

L’Isola Palmaria si trova all’estremità occidentale del Golfo de La Spezia ed è grande 6 km quadrati. È stata inserita fra i Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco.

Il Castello Aragonese di Brindisi fu costruito nel 1491 sull’isola antistante il porto da Ferdinando I d’Aragona a difesa della città.

Le strutture dei depositi di Punta Cugno, ad Augusta, sono di proprietà della Marina Militare e rientrano nel primo elenco dei siti che il ministero della Difesa intende dismettere.

L’Arsenale Militare Marittimo di Taranto è della Marina Militare. I lavori per la realizzazione della struttura iniziarono nel settembre del 1883. Occupa un’area di oltre 90 ettari ed ha un fronte a mare di circa 3 km, da cui si sviluppano 4,5 km di banchine.

Anche Palazzo Brasini, a Taranto, rientra nella lista degli immobili che la Difesa ha presentato a Cannes agli investitori interessati all’acquisto.

Il comprensorio San Gallo, a Firenze, è di proprietà dell’Esercito. È uno dei siti individuati dalla Difesa per la dismissione e inseriti nella lista degli immobili turistico alberghieri.

La Caserma Cavalli di Firenze, ex Granaio dell’Abbondanza, fu costruito nel 1695 dall’architetto Giovan Battista Foggini per volontà del Granduca Cosimo III de’ Medici.

La Caserma Tagliamento di Bologna fa parte del primo “lotto” di immobili che la Difesa intende dismettere. La sua riqualificazione, secondo i progetti, sarebbe ad uso residenziale.

L’Arsenale di Pavia di via Riviera, meglio conosciuto come gli Stabilimenti del Genio di Pavia, finiranno presto sul mercato immobiliare. Appartiene all’Esercito e il nuovo uso a cui sarebbe destinato è quello residenziale.

La Caserma La Marmora di Torino, in via Asti 22, venne costruita tra il 1887 e il 1888. Durante la seconda guerra mondiale fu anche prigione per i sospetti partigiani.

La Caserma Mardichi di Torino, di proprietà dell’esercito, sarà messa in vendita dalla Difesa. La nuova destinazione ipotizzata è quella turistico alberghiera.

Anche la caserma Montebello di Milano, secondo i piani del ministero della Difesa, dovrebbe essere venduta per un nuovo utilizzo turistico alberghiero.

La Caserma Cadorna di Legnano, in passato, ha ospitato anche il 2° Reggimento Bersaglieri. In futuro, secondo i piani della Difesa, potrebbe diventare una struttura turistica alberghiera.

A Vado Ligure oggi rimane una sola spiaggia. È l’unica superstite della cementificazione massiccia del territorio circostante, in pieno stile ligure: oggi in tutta la zona, secondo alcune stime, solo 19 chilometri di spiaggia su 135 sono ancora liberi.

Fra poco anche questa spiaggia potrebbe soccombere.

La piccola Vado è una cittadina di ottomila abitanti alle porte di Savona, con una storia fatta soprattutto di attività industriali.

In questa rada ben presto inizieranno i lavori per la costruzione della cosiddetta “piattaforma Maersk”: la realizzerà la Apm Terminals, divisione indipendente del colosso danese A.P. Moller-Maersk (vedi pagina accanto). Maersk è un nome (e un simbolo) noto a tutti anche in Italia, soprattutto per quei container con la stella bianca in campo azzurro che si vedono impilati nei porti uno sopra all’altro, in attesa di essere recapitati a destinazione.

Il progetto della piattaforma - nel corso degli anni: se ne parla da almeno otto - è cambiato, è evoluto, è cresciuto, rimanendo nel bene e nel male sempre fedele a se stesso: costruire nel golfo di Vado Ligure una “piattaforma multifunzionale” per la movimentazione dei container, per dirla con le parole dell’Autorità portuale di Savona, con una superficie a mare di 210.700 metri quadri, pari più o meno al centro abitato di Vado, o se volete a 30 campi da calcio.

Un’opera talmente grande che secondo la Valutazione di impatto ambientale nazionale (V.i.a.) diventerà senza ombra di dubbio “l’elemento dominante del paesaggio da qualsiasi punto di vista del territorio circostante”, riempiendo per circa due terzi la rada di Vado. Irreversibilità, sovradimensionamento, impatto sul paesaggio e inquinamento (atmosferico, acustico e marino) sono le principali critiche mosse al progetto dalle associazioni ambientaliste locali e nazionali (Italia Nostra, Wwf, Greenpeace e Legambiente):

“Si vuole costruire qui un’opera paragonabile alla piattaforma di Marsiglia, senza ricordarsi che a Vado abitano appena 8mila anime. Fatti due calcoli si tratta di circa cento metri quadri di piattaforma a famiglia”, commenta Sergio Uras, presidente del circolo di Legambiente di Finale Ligure.

Una previsione davvero grigia per un’area già massacrata dal cemento che tuttavia rimane all’interno del Santuario dei mammiferi marini ed è a soli tre chilometri dall’Area marina protetta Isola di Bergeggi (istituita dal ministero dell’Ambiente nel 2007). Il progetto include anche la cosiddetta riqualificazione del fronte mare, per la “mitigazione” e la “compensazione” della piattaforma. Due concetti che già attestano la presenza di un danno. In altre parole si tratta di altro cemento che andrà ad “attutire” il brutto spettacolo creato dalla piattaforma container: un porticciolo turistico, un centro polivalente, una piscina e una piazza spettacoli. Un progetto da 40 milioni di euro, vinto da un team guidato dall’architetto Paolo Cevini. Docente presso la Facoltà di Architettura di Genova, Cevini nello stesso periodo si è aggiudicato anche il concorso per la “riqualificazione” del waterfront di Rapallo.

I soci, i soldi. Facciamo un passo indietro e diamo un occhio a chi partecipa all’affare. Alla gara per la realizzazione e gestione dell’opera, promossa dall’Autorità portuale di Savona e bandita nel 2006 col sistema del “project financing”, partecipa un solo concorrente: Maersk. Lo fa in qualità di capocordata di un’associazione temporanea di imprese (Ati) che comprende anche Grandi Lavori Fincosit e Technital. Sono nomi tutt’altro che sconosciuti. Gl Fincosit, con sede a Genova e a Roma, è oggi è tra le prime imprese di costruzione in Italia. Fa parte del Consorzio Venezia Nuova, che opera per la cosiddetta “salvaguardia di Venezia” (progetto noto al grande pubblico per il “Mose”).

In curriculum ci sono anche sei delle maggiori centrali termoelettriche italiane e la partecipazione alla costruzione della centrale nucleare di Caorso, nel 1973. In passato Fincosit ha partecipato anche alla realizzazione delle “autostrade gravitanti intorno a Genova”, come si legge sul sito web, e degli “impalcati dell’autostrada Messina-Catania”. Oggi Gl Fincosit partecipa ai lavori dell’Alta velocità Milano-Bologna “nella zona di Piacenza”. Anche Technital vanta in curriculum i lavori nell’ambito del “progetto per la salvaguardia di Venezia”. Inoltre altri grandi opere, tra cui il progetto preliminare per i lavori di idraulica a Pont Ventoux, in Val Susa, e i lavori nell’ambito della progettazione della rete autostradale in Sicilia.

Insomma, anche se una successiva fase della gara vede una seconda proposta proveniente dal gruppo Itinera (gruppo Gavio), Coopsette e Codelfa, respinta dall’Autorità portuale perché “ inaccoglibile”,

il bando viene vinto dall’Ati Maersk/Technital/Gl Fincosit.

Ottenuta la gara, si tratta di trovare i soldi per la costruzione della piattaforma. A guardare il piano economico, lo squilibrio tra finanziamenti pubblici e privati è più che evidente. Il costo totale dell’opera è infatti di 450 milioni di euro, ma solo 150 milioni sono a carico di Maersk: i restanti 300 sono a carico del soggetto pubblico e dovrebbero provenire da un mutuo che si poggia su una serie di garanzie. Eccole: da una parte si parla di “125 milioni di finanziamento statale, in tranche annuali di 15 milioni per 15 anni” (sulla base del comma 991, art.1, Finanziaria 2007); dall’altra “il 25% del valore di incremento di Iva e accise derivante dall’attivazione della nuova infrastruttura per un periodo non superiore ad anni 15 nel limite del costo complessivo dell’intervento” (sulla base del comma 990). In altre parole una scommessa sulle previsioni di un traffico massiccio che sarà generato dalla piattaforma. Garanzie solide? Forse, ma a oggi (metà novembre) i nomi delle banche che dovrebbero concedere il mutuo sono ancora sconosciuti, anche se l’inizio dei lavori per la costruzione della piattaforma è previsto per la primavera 2009.

Lo scorso agosto otto associazioni, tra cui Vivere Vado e Wwf Liguria, hanno presentato un esposto alla Commissione europea, chiedendo di verificare se il finanziamento pubblico previsto possa configurarsi come un aiuto di Stato a imprese private.

In particolare è stato chiesto di “verificare se il lungo periodo di concessione della piattaforma al raggruppamento di imprese, pari ad anni 50, e il relativo canone corrisposto all’Autorità portuale (circa 750.000 euro l’anno), siano congrui con il capitale pubblico (300 milioni di euro) impiegato per la costruzione dell’opera”. “L’Ue ha richiesto alcuni documenti all’Autorità portuale: stiamo aspettando delle risposte”, dice Franca Guelfi, portavoce della lista civica Vivere Vado (vedi sotto). Ma all’Autorità Portuale tutto tace.

Per un pugno di bar. I 300 milioni di finanziamento pubblico dovrebbero essere impiegati “per sostenere un differente modello di sviluppo, che tenga conto di tutte le variabili ambientali, sociali ed economiche presenti sul territorio e che non sia a vantaggio di un unico soggetto commerciale, che ha già una posizione dominante sul mercato mondiale del trasporto container”, dicono le associazioni firmatarie del reclamo all’Ue. Quali sono invece i vantaggi concreti per gli abitanti di Vado Ligure? “Nell’ambito dell’accordo di programma fatto con la Regione e con il Comune abbiamo stabilito che una quota dell’investimento, almeno del 20-25%, vada a imprese locali”, spiega Rino Canavese, presidente dell’Autorità portuale di Savona-Vado, già deputato durante il primo governo Berlusconi. “Già in fase di realizzazione le ricadute saranno abbastanza, basti pensare alle forniture. E poi il fatto di avere un’opera di quelle dimensioni costruita lì è importante in termini di ricadute per i bar, per i ristoranti, per gli alberghi, per chi ha le cave e per chi produce le materie prime”. In termini occupazionali le previsioni ufficiali parlano di 300 posti di lavoro nel 2012, che dovrebbero arrivare a 400 nel 2020. A questi si andrebbero ad aggiungere i 250 posti generati dall’occupazione indotta direttamente sulla piattaforma dalla Compagnia portuale.

Se tutto andrà secondo le previsioni, si badi bene. Infatti, “le scelte di una multinazionale sono sempre poco prevedibili”. Lo sanno bene quelli dell’Rsu di Maerks Italia, la divisione container di A.P. Moller Maersk, che in Italia ha sede a Genova: “Nel capoluogo ligure, lo scorso gennaio, Maersk ha tagliato 129 posti di lavoro. Tagli che si inseriscono in strategie di pianificazione globale, non locale. Su scala mondiale, infatti, gli esuberi sono stati circa 3mila”.

Per quel che riguarda il traffico container generato dalla nuova struttura invece, Maersk nel suo piano di impresa parla di circa 450.000 Teu/anno (Teu è la misura standard pari a un containerlungo 6,1 metri) all’avvio del terminal, che salirebbe a 720.000 Teu/anno a regime. Rino Canavese, che in passato ha fatto parte della Commissione trasporti e Commissione lavori pubblici e ambiente, è più ottimista: “Io penso che supereremo il milione”.

Quel che è certo è che la piattaforma di Vado Ligure si andrà a inserire in un tratto di costa compreso tra Livorno e Savona, lungo appena 250 chilometri, in cui oggi si concentrano ben quattro fra i maggiori porti nazionali (Genova, Savona, Livorno e La Spezia). “Di fatto più che a fare sistema questi porti tendono a competere tra loro”, spiega Francesco Parola, ricercatore presso la Facoltà di Economia dell’Università Parthenope di Napoli. “In un certo senso Vado è la prova dello scarso coordinamento presente. Per anni Maersk ha chiesto un terminala Genova, che non gli è mai stato dato in concessione”. A Genova, il terminal container di Voltri nel 2007 ha movimentato un milione di Teu, tanti quanti si pensa potrebbe movimentarne la piattaforma Maersk con una superficie circa cinque volte più piccola. Qualcosa non torna.

“Il coordinamento sulla realizzazione di progetti portuali e sull’assegnazione di concessioni non è consentito dall’attuale contesto normativo, in quanto ciò darebbe luogo a comportamenti di tipo collusivo lesivi della libera concorrenza”, riprende Francesco Parola. “Oggi si costruisce un terminala Vado, ma non in un ottica di sistema dei porti liguri. Sarebbe meglio sfruttare o potenziare le strutture esistenti, in cui gli spazi, spesso, non vengono utilizzati al massimo delle loro potenzialità. Tanto più che per una nave proveniente dall’Asia scaricare a Vado o scaricare a Voltri o a La Spezia è piuttosto indifferente”.

L’impero danese dei terminal

La società Apm Terminals, che realizzerà la piattaforma di Vado Ligure, dal 2001 è una divisione indipendente del gruppo A.P. Moller-Maersk. Possiede 50 terminal container in 31 Paesi in cinque continenti e altri 14 sono in arrivo. La società ha chiuso i primi sei mesi del 2008 con un fatturato di 1,5 miliardi di dollari, in crescita del 27% rispetto allo stesso periodo del 2007. Gli utili salgono a 185 milioni di dollari rispetto ai 49 dei primi sei mesi dell’anno scorso. Apm Terminals non opera esclusivamente con Maersk Line, la divisione container di Ap Moller-Maersk: la quota-fatturato generata da altri clienti nei primi sei mesi del 2008 corrisponde al 38% del totale (era il 34% nell’intero 2007 e il 33% nei primi sei mesi 2007). www.apmterminals.com

Il ruolo dell’Autorità

L’Autorità portuale di Savona amministra un arco di costa che si estende da Albisola a Bergeggi e comprende i bacini portuali di Savona e Vado Ligure. Fino al 1968, il controllo del porto e delle sue attività, era gestito dall’Ente portuale di Savona Piemonte, in sinergia con altre aziende del settore.

Quell’anno venne istituito e riconosciuto l’Ente autonomo del Porto di Savona, trasformato nel 1994 nell’attuale Autorità portuale, istituita dalle legge 84/94. Con questa legge le Autorità portuali sono state dotate di personalità giuridica pubblica e sottoposte alla vigilanza del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Tra le entrate dell’Autorità portuale ci sono i canoni di concessione delle aree demaniali e delle banchine comprese nell’ambito portuale e dai proventi di autorizzazioni per operazioni portuali; gli eventuali proventi derivanti da cessioni di impianti; il gettito delle tasse sulle merci sbarcate e imbarcate; i contributi delle Regioni, enti locali e altri enti e organismi pubblici. La sede dell’Autorità portuale di Savona nel 2012 sarà trasferita all’interno delle aree demaniali del porto di sua proprietà. Un investimento pari a 5 milioni di euro, di cui 3,5 già finanziati dal governo, per realizzare una struttura alta 30 metri che occuperà un’area di 3mila metri quadri. A Vado l’Autorità portuale ha concluso l’acquisto di 32mila metri quadri di aree comunali, costate invece sei milioni e mezzo di euro, un investimento fondamentale per “per ottimizzare i varchi doganali di accesso e la viabilità”.

In Italia, l’Autorità portuale è presente nei porti di Ancona, Bari, Brindisi, Cagliari, Catania, Civitavecchia, Genova, La Spezia, Livorno, Marina di Carrara, Messina, Napoli, Palermo, Ravenna, Savona, Taranto, Trieste e Venezia.

Al servizio delle industrie

La piccola Vado nel corso della storia ha subito un’industrializzazione pesantissima. Oggi la Exxon Mobil produce qui lubrificanti finiti per oltre 100.000 tonnellate l’anno, utilizzando le materie prime del vicino impianto della Infineum Srl (ex Esso Chimica). A farle compagnia ci sono Petrolig (porto petroli), Zinox (ossido di zinco), Vetrotex (filati di vetro), Nuova Isotermica srl (mattoni refrattari) e Sanac (materiale refrattario). E ancora: due cave di calcare attive (la cava Trevo e la cava Mei-Colombino) e due discariche (una per rifiuti solidi urbani e una per rifiuti speciali). La centrale termoelettrica a carbone Tirreno Power (ex-Enel) svetta nel mezzo al paese. Bombardier Trasportation Italy lavora qui per la progettazione e la costruzione di treni “davvero speciali”: in particolare il “V300 Zefiro”, “la punta più avanzata in materia di Alta velocità”, secondo il presidente di Bombardier Italia Luca Navarri. “Una vera e propria servitù industriale”, sottolinea Stefano Sarti, presidente di Legambiente Liguria, l’associazione che lo scorso giugno ha assegnato la sua bandiera nera al Comune di Vado Ligure (Savona), alla A. P. Moller-Maersk (Copenhagen) e alla Maersk Italia Spa (Genova). “Il futuro si costruisce su basi durature e distruggendo il territorio non ci sono prospettive”, aveva dichiarato in quell’occasione Rina Guadagnini, portavoce di Goletta Verde. “Non si possono barattare posti di lavoro incerti con un sicuro scempio ambientale, rifiutato dai cittadini”.

Resistenza vadese

“Sono otto anni che siamo sul piede di guerra”, dice Franca Guelfi, portavoce della lista civica Vivere Vado e consigliere comunale. “Abbiamo sempre sostenuto che un’opera del genere sarebbe a dir poco devastante per il paese”. Una resistenza attiva, cominciata nel 2000, l’anno in cui si inizia a parlare per la prima volta di una possibile “piattaforma Maersk” a Vado. “Abbiamo organizzato allora una prima raccolta firme”, spiega Franca, “e poco tempo dopo abbiamo chiesto un referendum”. Nel corso degli anni la contestazione si allarga e, nel 2007, sono oltre 2mila le firme di cittadini contrari al progetto presentate al sindaco di Vado Carlo Giacobbe, perché la progettazione delle opere portuali fosse “radicalmente rivista”. In quel periodo il fronte del no si allarga con l’uscita dalla maggioranza di tre assessori e due consiglieri. Pochi mesi dopo, una consultazione popolare è indetta dalla stessa amministrazione comunale. Il 20 gennaio 2008 3mila vadesi (49,8%) si recano ai seggi, in un tentativo estremo di opporsi al progetto. La vittoria dei no è schiacciante, ma le istituzioni non battono ciglio: “A Vado il referendum interviene quando esiste già un piano regolatore approvato che prevede il progetto ed è stata già eseguita una gara pubblica, con un iter progettuale già in corso e con atti e impegni stabiliti”, dichiara il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando. A dargli man forte c’è Rino Canavese: “Se la piattaforma non si farà, i tir della Liguria anziché passare da Vado arriveranno da Marsiglia. I francesi non vedono l’ora di accogliere Maersk”. E per finire il Presidente della Provincia di Savona Marco Bertolotto: “È stato un errore fare la consultazione. Non rientra nel mio concetto di democrazia”. A fine luglio, centinaia di manifestanti assediano un Consiglio comunale “blindato”, con tanto di forze dell’ordine che scortano i membri della Giunta. Quel giorno l’Accordo di programma che dà il via alla piattaforma viene approvato.

I cittadini hanno presentato ricorso al Tar.

Cronistoria di una colata

2002 Il Consiglio comunale adotta un Piano regolatore portuale (Prp) che contiene un nuovo progetto di piattaforma.

2004 Elezioni comunali di Vado: la lista civica “Vivere Vado” ottiene un consigliere in Consiglio comunale

2005 Il Prp supera la V.i.a. nazionale, con alcune prescrizioni. Anche il Consiglio regionale approva il Prp con altre prescrizioni tra cui la stipula di un Accordo di programma e il parere della V.i.a. regionale (ancora mancante).

2006 Il Consiglio comunale delibera gli indirizzi per la stesura dell’Accordo di programma. Maersk partecipa al bando dell’Autorità portuale per la realizzazione e la gestione dell’opera e lo vince.

2007 Vengono resi noti i vincitori del bando del masterplan. Il Comitato portuale approva il progetto preliminare di Maersk. 2mila firme di cittadini contrari vengono presentate al sindaco. Viene approvata la delibera sulla bozza dell’Accordo di programma in Consiglio comunale.

2008 Alla consultazione popolare indetta dal Comune partecipa il 49,8% dei cittadini. Luglio: il nuovo Accordo di programma viene approvato in Consiglio comunale. Settembre: un’ordinanza del comune di Vado vieta l’affissione di manifesti, volantini e scritti “su qualsiasi struttura immobile o mobile che non sia ad essa legittimamente destinata”. Agosto: otto associazioni presentano esposto all’Ue. Ottobre: cinque banche partecipano alla fase preliminare per la concessione del mutuo. Novembre: le associazioni presentano ricorso al Tar. Apm Terminals inaugura i nuovi uffici di Vado Ligure.

A Vicenza si sono riempite le strade. Ma Fuksas non è ‘amerikano´, nonostante la cappa. Purtroppo. Perché allora gli esponenti della sinistra, di Rifondazione in particolare, che ho sentiti con le mie orecchie promettere che la speculazione della Margonara non si sarebbe fatta, li avremmo visti in piazza. Resistere. Mobilitarsi. Qui no, qui c´è il sovrano mattone, di cui un partito traversale si serve. E lo serve. Madonnina, ha detto Fuksas invece di Madonnetta. Piccolo lapsus, ma significativo, come sempre. Quel grattacielo, in sé forse un bell´oggetto, poteva andare indifferentemente a Milano, alla Fiera. O nel Dubai, dove si sarebbe stagliato sul mare smeraldino e il deserto. Noi, no, noi abbiamo altra storia, e memoria. Anzi, diciamo di averle ma le rinneghiamo.

A Milano dunque la grande occasione del ricupero della aree fieristiche sta andando sciupata. Scartato il progetto di Piano, che rispettava prospettive e verde, pur innovando, hanno vinto tra l´altro tre grattacieli che lasciano spicchi di ombra gelida su rimasugli di verde. Peggio che alla Torretta di Savona, dove pure i savonesi cominciano a sentire il peso del nuovo squallore che incombe e si accrescerà tra breve. Freddo, negli spazi e nel cuore. La città si imbruttisce. Ebbene, uno dei tre grattacieli milanesi è identico a un altro, dello stesso autore, costruito in estremo oriente. Appunto. Madonnina o Madonnetta. Dubai o Fiera. Questa non è architettura.

Non ci sarà qualcuno che prende in giro i cittadini? Si fanno consultazioni in ambienti e contesti che già si sanno favorevoli. Si imbonisce il consiglio comunale con pompose conferenze, lo si svuota così del suo orgoglio e della sua responsabilità. Si annuncia che il grattacielo sarà "visibile da Genova", sfruttando malamente la storia per confondere il presente. Che è tristissimo. Non c´è nessuna esigenza abitativa che giustifichi lo sfruttamento di aree sul mare di pertinenza della comunità il cui pregio viene sottratto ai cittadini e regalato alla speculazione che ne ricaverà i vantaggi. Non ci sono vie di comunicazione adeguate, anzi il sistema stradale è in condizioni del tutto critiche, che influiscono già ora negativamente sulla qualità della vita, l´ambiente, le esigenze economiche e portuali. Se si costruisce ora, approfittando del porto turistico per caricare il luogo di lussuosi appartamenti, si faranno pagare domani ai savonesi i costi altissimi delle opere di urbanizzazione indispensabili per non soffocare. Ma allora i cantieri edili saranno scomparsi, gli amministratori locali saranno cambiati, qualcuno magari, come Ruggeri, avrà abbandonato anzitempo il mandato dei cittadini per seguire le sue ambizioni di carriera nel settore appunto edilizio e urbanistico.

Ricordo gli anni Settanta, quando a chi si occupava di contrastare l´inquinamento e la speculazione si affibbiavano etichette di retrogrado, o più spesso di sinistrismo, mentre le magnifiche sorti e progressive gonfiavano il petto dei furbi e dei potenti. Non ho timore di essere di nuovo, alle soglie della vecchiaia, aggredito in quel modo: forse si comincia a vedere chi mentisse sull´inquinamento e sulla distruzione delle risorse naturali. Ricordo di essermi personalmente battuto per quelle cause, e ne sono contento.

A Genova, si voleva demolire l´antico edificio del seminario, ora vi si trova la biblioteca Berio, splendida. Si voleva avvolgere l´abbazia di San Giuliano con un condominio di molti piani; hanno dovuto cambiare idea, sotto la spinta della giustizia, della stampa e dell´opinione pubblica, alleate per il bene comune. Cose avvenute a Genova: in questo sì che si potrebbe rimettere in auge la gara tra le nostre città, nella dignità delle battaglie civili e politiche. Ma allora c´era una città viva, a Savona come a Genova; c´era un dibattito politico, dove ora c´è il pateracchio. Non ci sono più né i veri liberali né una sinistra decorosa.

Nell´intervista pubblicata ieri da Repubblica, Fuksas dà solo due indicazioni sui concetti architettonici che lo hanno ispirato. Primo: in Liguria siamo nervosi perché viviamo allo stretto. Ecco: ora si confonde con Hong-Kong. Il bosco savonese è una delle più grandi foreste italiane. Però è vero, lo spazio costiero è scarso, perciò prezioso; e va usato a favore di tutta la comunità. Come è vero che certe zone urbane sono degradate, hanno pochi spazi per gli abitanti: ma non è di queste che si preoccupa il progetto di Fuksas.

Poi c´è la puntura di spillo come terapia per la Liguria. Troppa grazia, centoventitrè metri sono uno spiedo, gigantesco, per cucinarci a fuoco lento come polli. Davvero finiremo col diventare nervosi.

Sull'argomento vedi gli articoli di Marco Preve, Luciano Angelici e Donatella Alfonso , di Sara Menafra, di Luciano Angelini e gli altri materiali nella cartella SOS / In giro per l'Italia

Liguria, la disfida delle due torri

di Marco Preve

Ventitré piani per un totale di 105 metri, affacciati sulle serre della piana Podestà, sul rettilineo che da Prà porta a Voltri, dove, secondo il progetto di Fabio Pontiggia, dovrebbero sorgere un albergo su sette piani e diciassette piani di residenze. E poi parcheggi, pertinenziali e non, aree commerciali e verde: il tutto per impegnare 16.440 metri quadri di spazi. Il progetto non è ancora approdato in consiglio comunale ma le polemiche divampano già accesissime. E se i produttori di basilico obiettano che la grande costruzione finirà per fare ombra alle preziose piantine, molti abitanti si dichiarano pronti a fare le barricate contro quello che considerano un vero e proprio mostro.

In Comune, a Savona, è arrivata invece ieri la complessa vicenda della Margonara, dove l’architetto Massimiliano Fuksas ha in mente di costruire un’altra, imponente torre a presidiare il nuovo porto turistico. Per difendere la propria creatura, ieri, Fuksas ha arringato proprio i consiglieri comunali. Uno show, il suo, che ha finito per dividere ancora una volta la stessa maggioranza di centrosinistra.

SAVONA - Più che un tecnico che si sottopone ad una commissione esaminatrice, pare il discorso ai discepoli. Ieri pomeriggio, l’architetto Massimiliano Fuksas, assieme al suo committente, l’ingegnere genovese Giovanni Gambardella, avrebbero dovuto confrontarsi con il consiglio comunale di Savona - aperto al pubblico che ha risposto in massa - per la prima di tre sedute straordinarie che il sindaco Federico Berruti ha voluto dedicare, sposando la linea dell’assoluta trasparenza, al progetto Margonara. Si tratta dell’intervento per 90 milioni di euro per porto turistico con grattacielo da 120 metri osteggiato dagli ambientalisti. Il contesto avrebbe dovuto quindi essere quello di assoluta neutralità. E’ andata un po’ diversamente, complice anche l’impressionante curriculum dell’architetto, la sua indubbia capacità oratoria, e, a far buon peso, le direttive di partito.

Anche se alla fine i consiglieri dovranno decidere sulle carte e sui numeri, parrebbe che, al momento, le uniche problematiche connesse, seppur indirettamente all’operazione, riguardino Pierre Noiray, il socio francese di Gambardella. La magistratura di Nizza sta per chiudere l’inchiesta che quattro anni fa lo portò in prigione. Una storia, anche, di false fatture pagate ad un tecnico d’oltralpe per consulenze riguardanti porti turistici in Tunisia e in Italia. Tra le carte all’esame dei giudici nizzardi ci sarebbero anche quelle della Margonara. Vicenda che in nessun modo coinvolge Gambardella.

Torniamo a Savona. «Vi ringrazio - ha detto Fuksas ai consiglieri e al pubblico - di avermi fatto l’onore di essere qui per partecipare a questa riflessione sull’architettura». Ha nuovamente attaccato la concezione urbanistica che punta a replicare il «solito tipico borgo ligure», ha illustrato la sua teoria del «concentrare l’insediamento in un’unica soluzione, uno spillo, una puntura», il grattacielo da 120 metri. Poi ha spiegato che tutto è relativo, le misure vanno confrontate con ciò che ci circonda, ad esempio con le navi di oggi alte fino a 70 metri. Ha illustrato con tono coinvolgente la sua filosofia:»E’ l’architettura iconica ciò di cui hanno bisogno le città. E’ la riscoperta del mondo delle emozioni. Quella che si prova entrando a SanSofia a Istanbul». E domani nel grattacielo in cui si spera di convogliare qualcuno «degli 800mila croceristi che partono ogni anno da Savona». Con Gambardella - che ha più volte scherzato sulle parcelle dell’architetto, e a tal proposito pare che a Fuksas vada circa 1 milione mezzo di euro di compenso - ha ricordato che l’opera è prevista dalla Regione in un’area degradata. Infine non ha mancato di sottolineare la sua amicizia con Umberto Veronesi, i suoi lavori per il water front di Marsiglia, la rubrica su l’Espresso, la sua ultima mostra visitata da 15 mila persone. Con nonchalance, come a dire che ai giornalisti importa soprattutto il nome celebre, ha detto «se gli imprenditori avessero fatto il villaggio alla ligure la stampa non se ne sarebbe neppure accorta».

Quando ha concluso, metà del pubblico e dei consiglieri hanno applaudito. Un signore ha ricordato al presidente del consiglio Marco Pozzo che se si consentiva l’applauso bisognava anche tollerare i fischi. Pozzo ha chiuso bruscamente e si è rivolto all’architetto: «La ringraziamo per la fantastica presentazione».

Sullo stesso tono il capogruppo Ds Roberto Decia: «Oggi è una giornata storica perché questo consiglio ospita uno dei più grandi intellettuali italiani. E lo dico senza piaggeria». Per il resto, a parte Patrizia Turchi e Alessandro Parrino - di A Sinistra per Savona e An - , da maggioranza e opposizione, qualche domanda sulla viabilità («il porto sarà l’occasione per trovare delle soluzioni») e ringraziamenti all’architetto.

Anche se l’approvazione sembrerebbe cosa fatta, restano due incognite. Intanto il modo in cui il sindaco Berruti guiderà la discussione e la riflessione. E poi la posizione di Rifondazione Comunista. Franco Zunino, savonese, assessore regionale all’ambiente, otto mesi fa disse che l’operazione Margonara non si doveva fare. E all’interno del partito oggi c’è chi chiede, in caso di approvazione del progetto, l’uscita di Rifondazione dalle maggioranze comunali e regionali.

Business da 100 milioni sotto la luce del superfaro

di Luciano Angelini

SAVONA - Carte in tavola. Massimiliano Fuksas si è presentato al tavolo o alla sbarra, a seconda degli schieramenti, ad illustrare la sua torre-faro di 120 metri e tutto quello che ci sarà dentro e attorno, ovvero a spalancare il sipario sul progetto del «suo» porto turistico con Torre che sfida il cielo e le ire di ambientalisti e sinistra radicale, che da questa parti sta nella maggioranza, larga parte della quale, Ds in testa, è schierata sul fronte del «sì». Lo ha fatto, nell’arena di Palazzo Sisto IV, a memoria mai così affollata, a consiglio comunale (e non solo) schierato. All’esterno striscioni e volantinaggio dei verdi e banchetto per la raccolta di firme contro il progetto. Un momento molto atteso dai vari fronti, fortemente voluto dal sindaco Berruti per offrire ai consiglieri motivi di verifica, riflessione e analisi in vista delle «tre giornate» di assemblee aperte del 15, 22 e 25 febbraio per le audizioni di enti, associazioni, categorie economiche e sindacati.

Un «martedì da leoni» per Massimiliano Fuksas, architetto e urbanista, 63 anni appena compiuti, nato a Roma, origini lituane, preferenza per Rifondazione nell’ultima tornata elettorale. Il suo palmarès parla da solo con opere firmate, quasi sempre in verticale, da Salisburgo (Europark) a Jaffa (Centro della Pace), a Bordeaux (Maison des Arts), Vienna (Twin Towers), Nagasaki (sistemazione dell’antico porto) a Ginevra (Place des Nations).

La filosofia e gli obiettivi del suo progetto di porto turistico, torre compresa? "Proseguire la sistemazione del fronte mare tra la vecchia darsena e il litorale di Albissola Marina, prevedendo un riassetto paesistico ed un recupero di un’area degradata. L’obiettivo è quello di individuare un mix di funzioni che rendano il porto turistico fortemente legato sia agli abitanti che ai turisti con strutture polifunzionali, tali da rendere l’area un punto di forte richiamo. E al tempo stesso di amalgamare l’aspetto turistico-ricettivo tipico dei porti turistici con quello di polo ricreativo per la città, con destinazioni d’uso diversificate in grado di attrarre non solo il territorio savonese ma anche, in occasioni particolari, bacini di influenza più estesi".

Fuksas, architetto e affabulatore smaliziato, nel suo progetto mostra attenzione a chi teme per le sorti della Madonnetta, che lui ha chiamato Madonnina, il grande scoglio, oasi per gabbiani e di cormorani, tra Savona e Albissola. Attorno agli scogli della Madonnetta, per fare sì che il nuovo porto mantenga le radici nella tradizione del territorio, è previsto uno specchio d’acqua di rispetto dove saranno ospitati natanti di piccola dimensione, tradizionalmente legati alle associazioni locali di pescasportiva".

Ecco i numeri del progetto: investimenti, 100 milioni di euro: attività commerciali, artigianali e servizi, 6.186 metri quadrati; attività ricettive (albergo nella torre), 4.875 mq; attività ricettive (residence), 5.225; parcheggi in struttura, 1.170; parcheggi a raso, 220; posti barca, 700 (anche per yacht di grandi dimensioni).

Albergo. E’ localizzato nella Torre (altezza esatta 123 metri). Il piano terra e i primi piani sono destinati ad attività completamente aperte al pubblico. Il sistema alberghiero vero e proprio è previsto ai piani superiori. "Si tratta - afferma Fuksas - di una struttura ricettiva di qualità in grado di ospitare eventi congressuali e dello spettacolo, con spazi interni all’aperto, e di rispondere ai massimi livelli del turismo legato ad attività aziendali e di lavoro. All’ultimo piano è previsto un ristorante panoramico aperto al pubblico".

Polo ludico-ricreativo. L’obiettivo, secondo Fuksas, è quello di "consentire a cittadini, turisti giornalieri e non, utenti delle crociere, di potersi recari al porto per un periodo limitato, anche di poche ore, o di soggiornarvi per una breve vacanza".

Queste le attività previste. Ristorazione: bar, ristoranti di qualità e livello diverso, innovativi o tradizionali, per un pasto veloce o per un pranzo di lavoro o di rappresentanza.

Attività culturali: spazi per esposizioni, sale da musica, di incisione e sale prove per attività musicali e di recitazione, ludoteche, biclioteche.

Wellness-fitness: piscine, palestre, centri benessere.

Attività sportive: scuole di vela, surf, canoa, palestra, mini campi di calcio.

Attività commerciali: negozi legati al turismo nautico e per i visitatori occasionali del porto

Ventitré piani sopra il basilico

di Donatella Alfonso

«MA LA TORRE fa ombra al basilico!». Beh, ventitré piani per un totale di 105 metri, affacciati sulle serre della piana Podestà, sul rettilineo che da Prà porta a Voltri, sicuramente un po’ d’ombra la fanno. Ma soprattutto, obiettano in zona, spunta come uno strano fungo, ben al di sopra delle costruzioni circostanti; appena a valle del casello della A10, di fronte al Vte. E se la riqualificazione dell’area ex Verrina, dopo quasi vent’anni di attesa, è ora pronta al decollo (il progetto di schema urbanistico firmato dall’architetto Fabio Pontiggia, approvato in giunta, è arrivato al primo esame in circoscrizione), è proprio la torre a far storcere il naso ai comitati del Ponente e a creare non poche perplessità nella circoscrizione stessa, prima ancora che il progetto approdi in consiglio comunale. Un albergo su sette piani, diciassette piani di residenze al di sopra; e poi parcheggi, pertinenziali e non, aree commerciali e verde: il tutto per impegnare 16.440 metri quadri di spazi e rilanciare una zona un po’ più vasta, adesso totalmente abbandonata e occupata dalle strutture in ferro dell’ex stabilimento metalmeccanico Verrina, situata tra l’Aurelia e le case di via Ventimiglia, appena dopo l’uscita autostradale di Voltri. A compiere l’operazione si è candidato il gruppo Grandi Lavori Fincosit, a cui appartiene l’area; committente risulta l’impresa Salati.

Area strategica per un insediamento di qualità, inserita nel Puc come zona di trasformazione; il Sau (cioè lo schema di assetto urbanistico) approvato dal Comune parla di «recupero qualificato delle aree urbane costiere del ponente cittadino in relazione con i processi di consolidamento e sviluppo delle attività portuali». Bene, ma c’era proprio bisogno di una torre così alta? «Non è mica l’unica del ponente - sbotta Arcadio Nacini, portavoce dei comitati e consigliere comunale del Prc - A parte le tre di Fiumara e la torre Elah di Pegli, ci sono progetti per altre due costruzioni molto alte nell’area Enel di fronte a Fiumara, e una a San Benigno. Paradossalmente, è "colpa" del fatto che, nella nuova mappatura dei rischi geologici fatta circa cinque anni fa dalla protezione civile nazionale, la zona centrale ligure non risulta sismica, e quindi non ci sono vincoli sull’altezza degli edifici. Non solo: non è più obbligatorio fare strutture metalliche di sostegno, perciò, si va su con il cemento, con un costo decisamente inferiore... «.

Ma tra Prà e Voltri, il problema dov’è? «Il problema sta nel fatto che già nel Prg del ‘97 c’erano vincoli vari - elenca Nacini - Ad esempio avevamo chiarito di non volere un insediamento commerciale di tipo alimentare di grandi dimensioni; inoltre, la stessa circoscrizione aveva fatto ratificare l’obbligo che l’albergo non fosse più alto delle case circostanti; ci sono state poi varie modifiche, accolte anche in Comune, accuse e controdeduzioni sia dei progettisti che dei Comitati del ponente. È finita che ora, nel progetto, ufficialmente l’albergo è all’altezza giusta, cioè i primi sette piani; peccato che sopra ci siano le case». Ci sono stati incontri pubblici in circoscrizione, i malumori si sono fatti sentire, sia per via dell’ombra sul basilico, che a Prà è coccolato come un bambino, sia per la presenza di un edificio decisamente fuori misura. E un parere la circoscrizione non l’ha ancora elaborato. Peraltro, gli aspetti di criticità di cui la progettazione deve tener conto, secondo le prescrizioni del Comune, sono molto precisi: il fronte sull’Aurelia, l’imponente muro di confine con le serre di Villa Podestà. Previsto uno spazio pedonale e di verde, una vera piazza pubblica, a fare da snodo ai vari insediamenti: al centro dei quali sarà la torre residenziale. Non è esclusa, specialmente per la sistemazione dei parcheggi, la riutilizzazione dei vecchi capannoni in ferro della ex Verrina, a fare da testimonianza alla storia dell’area. Si vedranno bene dalla cima della torre...

Sulla torre di Fuksas e altre schifezze savonesi vedi un altro articolo di Luciano Angelini (la Repubblica), un articolo di Sara Menafra (manifesto), alcuni articoli sui porticcioli turistici (la Repubblica), e un intervento sulla costa savonese e altro di E. Salzano (convegno Italia Nostra a Savona)

Sulla costa una colata di posti barca

di Ava Zunino

È in arrivo qualche migliaio di posti barca lungo la costa ligure, con relativi edifici per abitazioni, uffici e negozi, in qualche caso cantieri per la nautica e in altri anche alberghi e residence: sono quindici interventi, per lo più nell’imperiese e nel savonese ma anche nel genovese e uno solo a La Spezia, precisamente a Portovenere-Fezzano. In quasi tutti i casi, tranne eccezioni come Ventimiglia, sono ampliamenti di porti esistenti e sono progetti che risalgono indietro negli anni e solo adesso stanno arrivando a compimento. Come direbbero gli ambientalisti, sono alcune decine di migliaia di metri quadri di cemento.

«In questi casi collidono sempre due questioni: la salvaguardia della costa e la costruzione di volumetrie, ma nessuno vuole i porti-garage, ossia i depositi di barche che nella stagione invernale sono abbandonati e in estate sono comunque frequentati solo per arrivare alla barca e ripartire», spiega Carlo Ruggeri, l’ex sindaco di Savona che da un anno è l’assessore regionale all’urbanistica della giunta di Claudio Burlando e dunque si è trovato la quasi totalità di questi progetti sulla scrivania, con iter già perfezionati. Non tutte le partite però sono chiuse perché su cinque dei quindici progetti in questione, manca ancora l’istruttoria sul progetto definitivo. Sono i progetti del nuovo porto turistico di Ventimiglia, dedicato ai grandi yacht per sottrarre clientela a Montecarlo, quelli di Bordighera, di Diano Marina, Loano e Albissola-Savona. Su questi dunque le procedure devono ancora essere completate. Sono già aperti invece i cantieri a San Lorenzo al Mare, Alassio, Varazze, Arenzano, Sestri Ponente e Portovenere Fezzano.

In generale, l’assessore spiega che: «ognuno di questi interventi è compatibile con il piano della costa e i luoghi ritenuti idonei alla costruzione di un porto turistico, in genere, nel passato sono stati maltrattati sotto il profilo ambientale: usati come discariche o per interventi impropri». In ogni caso, la compatibilità con le previsioni del piano della costa non sono sufficienti ad ottenere l’autorizzazione ad ampliare un porticciolo esistente o a costruirne uno ex novo: «sui singoli progetti si fanno le verifiche ambientali, perché il piano della costa ha solo fatto una maglia che indica dove si può eventualmente fare un porticciolo; poi ci sono le successive verifiche ambientali».

In Liguria comunque, resteranno ben poche località senza un porticciolo: i dati dell’Ucina aggiornati ad ottobre del 2005 parlano di 51 porti esistenti. Adesso si aggiungono altri quindici progetti in itinere, di cui 9 sono ampliamenti dell’esistente.

«Ciononostante - spiega Ruggeri - non ci avviciniamo neppure all’enorme richiesta di approdi e rispetto ad altri paesi, anche molto vicini a noi, stiamo rispettando un buon equilibrio anche se non è facile mantenersi su una linea che eviti da un lato le cosiddette cementificazioni e dall’altro gli approdi autosufficienti che non hanno alcuna ricaduta sul territorio né in termini economici, né in termini vitali».

In questa logica di mixare le varie funzioni, dice l’assessore, la Regione sta preparando una modifica di legge sui porticcioli: «che preveda una speciale tutela per la parte che deve essere riservata ai pescatori». Questa sarà una novità, intanto Ruggeri spiega che al di là dei vincoli ambientali, vengono poste alcune condizioni.

«Chiediamo sempre un trattamento speciale per la cosiddetta nautica sociale, ossia i gozzi e le piccole imbarcazioni e quando è possibile anche per la cantieristica. L’obiettivo è di realizzare insediamenti vivi, che abbiano ricadute anche economiche lungo tutto l’arco dell’anno». E uno dei punti cardine su cui la Regione intende spingere è che in ogni porto turistico: «vengano lasciati rilevanti spazi per i transiti, per chi cioè non ha il posto barca ma è in vacanza e vuole fermarsi una o più notti, cosicché attraverso i porti possano arrivare in Liguria dei turisti in più, che visitano città e paesi».

Savona: Ground Zero nell’ex Italsider

di Luciano Angelini

«Sopra e sotto di me sono dirupi scoscesi. Mi trovo su un promontorio della costa, in un punto dove s’apre uno slargo, una terrazza sul mare; in alto, sui dirupi, ci sono delle muraglie molto alte, biancogrigie, tutto in giro un sistema di fortificazioni, mezzo inghiottite dalle piante che crescono tra i muri e sui pezzi di prato: agavi grigie che divaricano al sole la corona delle lance, qualche basso fico che espande la sua cupola d’ombra, contorcendosi fino a toccare terra con le foglie cariche di lattice. In basso, a picco sotto i muraglioni della fortezza, un cortile di fabbrica, dove vengono depositate delle sbarre di ferro, e un’alta struttura con un ponte e una cabina sollevabile, tutto in ferro. Al di là comincia il mare che occupa tutto il resto del campo visuale: alto d’orizzonte, con navi alla rada un po’ sfocate dalla foschia. In cielo volano i gabbiani».

Così, Italo Calvino, nel lontano 1974, nel suo «Ferro rosso, terra verde», scopriva Savona attraverso la sua storia, così raccontava l’immagine dell’Ilva (poi Italsider, poi Omsav fino alla chiusura) spaziando con lo sguardo dall’alto della fortezza del Priamar.

Quell’immagine ora non c’è più. Lo stabilimento, i cui embrioni risalgono al 1861, l’anno dell’Unità d’Italia, quando due imprenditori savoiardi, Giuseppe Tardy e Stefano Benech, costruirono una ferriera sulla spianata davanti alla torre di Sant’Erasmo, nell’area portuale, è affondato, scomparso. Schiacciato da un fallimento quasi tredici anni fa. E fino all’alba del 2006 rimasto come sospeso, come "sorvegliato" da un guardiano di antica pietra.

Ma ora non c’è più. Cancellato dalle ruspe. Spazzati via, ridotti in macerie, capannoni, officine, uffici, spogliatoi, sala mensa, infermeria. Tutto. Là dove c’era una fabbrica ora c’è il «ground zero» di 150 mila metri quadrati dell’industria savonese.

Al suo posto in 36 mesi nascerà un grande complesso turistico-residenziale «firmato» da Ricardo Bofill, l’architetto catalano a cui i «tre cavalieri bianchi» Orsero, Dellepiane e Campostano hanno affidato il compito di ridisegnare il fronte mare della città, la parte della città attorno alla Vecchia Darsena e accanto al Palacrociere che ogni anno ingoia e smista oltre 600 mila turisti delle navi con il fumaiolo giallo. Ma la definitiva scomparsa di una (importante) fetta della storia dell’industria savonese non può (e non deve) passare inosservata. Accettata in silenzio, come un episodio di nessun conto e significato. Da rimuovere.

Non si cancella così la memoria di una città. Come non ricordare che fino agli anni ‘50 nello storico stabilimento lavoravano oltre 4 mila persone; che sotto le ciminiere della mitica Ilva il movimento operaio e sindacale savonese ha scritto pagine importanti con le indimenticabili, aspre e dolorose battaglie per la difesa dell’occupazione. Tutta la città mobilitata (lavoratori, commercianti, la chiesa con alla testa il vescovo G. B. Parodi) per dire no, per ribellarsi al pesante taglio dell’occupazione. E poi il Natale in fabbrica, il «libretto della spesa» su cui venivano segnati gli acquisti delle famiglie ridotte sul lastrico, gli scioperi, le grandi manifestazioni. Donne e ragazzi in piazza accanto ai lavoratori in lotta, decisi a fronteggiare le cariche degli "scelbotti", capaci di sfidare, anche a rischio della vita, i caroselli delle camionette, e di dare un grande prova di compattezza, di solidarietà, di dignità. La lotta fu dura. Intensa. Ma non servì. Il piano Sinigallia per la siderurgia puntava allo sviluppo di Genova e Taranto, Savona veniva relegata ad un ruolo marginale. Fu l’inizio della fine. I tagli furono pesanti. Migliaia di famiglie finirono sul lastrico. Il contraccolpo sul piano economico, morale e sociale fu drammatico. Fu la prima di una lunga serie di ristrutturazioni, ridimensionamenti, soprattutto tagli.

Scelte calate dall’alto senza nuovi progetti e strategie di sviluppo, talvolta aggravate da una miope difesa dell’esistente. Tese a rinnegare, soffocare senza rinnovare la sua vocazione industriale. E a mutarne progressivamente il volto e a condizionarne il futuro. Ora, con l’avvio operativo del progetto di Orsa 2000, il cerchio si chiude. Là dove c’era lo stabilimento, si svilupperà una grande operazione immobiliare con due complessi residenziali di sette e cinque piani per complessivi 72 mila metri cubi.

Una cittadella di vetro e cemento firmata da Ricardo Bofill, prestigioso architetto catalano. Un progetto complessivo da 150 milioni di euro che andrà a completare e sancire l’alleanza dei tre "cavalieri bianchi": Raffaello Orsero, il "re della frutta" che dalla piana di Albenga ha esteso il suo regno a Porto Vado con il Reefer Terminal, ha in progetto un centro talasso-terapico sul fronte di Bergeggi, armatore e costruttore; Aldo Dellepiane, il self made man della Valbormida, leader dell’impiantistica industriale, i cui arredi fanno belle le navi di Costa Crociere, cantieri per cartiere e centrali in Polonia e Egitto, vincitore dell’appalto per la costruzione del nuovo ospedale di Albenga; Paolo Campostano, terminalista di punta a Savona e a Genova, leader nei traffici dei "prodotti della foresta", arrivato a conquistare le Funivie dei vecchi, cari carrelli che dalla stazione di Miramare portano il carbone in Valbormida.

Grandi alleanze. Grandi business. Grandi operazioni immobiliari. Sull’addio di Savona alla sua vocazione industriale si sono sviluppati, in tempi e con protagonisti diversi, gli interessi (di pochi) che sono sotto gli occhi di tutti. Ma non è finita. Ruspe e gru in azione anche nella vecchia centrale Enel (ex Cieli), splendido esempio di stile liberty e di archeologia industriale, tra l’Aurelia e la spiaggia.

Presto toccherà all’ex Squadra Rialzo, zona vecchia stazione Letimbro, a un tiro di fionda dal Palazzo di Giustizia. E, proprio nel cuore della città, all’ex ospedale San Paolo dopo quasi 15 anni di manovre, litigi tra Comune e Asl, contestate gare di vendita, senza dimenticare l’ex cinema Astor demolito a tempo di record all’imbocco del centro storico per fare posto ad un centro residenziale-direzionale, galleria commerciale e box. Savona è cambiata. Savona cambia. Torri e grandi complessi residenziali vista mare e vista porto. Appartamenti da 8-10 mila euro a metro quadro. Case, uffici, garage là dove c’erano fabbriche e cantieri, sale cinematografiche, orti e verde.

Savona cambia pelle. In cerca di una nuova vocazione. In attesa anche di un nuovo sindaco. Lo slogan che campeggia sui manifesti del candidato del centrosinistra, il commercialista ex bocconiano Federico Berruti, recita così: "Savona città delle idee". In attesa di un’idea per Savona.

La Spezia: Arsenale, addio mito ingombrante

di Costantino Malatto

A voler essere chiari: per molti spezzini è come quel vecchio parente che ti ha dato da mangiare per tanti anni. Ma che oggi che pensi di essere in grado di cavartela da solo ti dà più fastidio che altro, anche perché ti mette in un certo imbarazzo. E vorresti sbarazzartene. O almeno ridimensionarlo un bel po’. Ma come si fa alla Spezia a liberarsi dell’Arsenale della Marina Militare? La città praticamente è nata con quello, con la grande realizzazione militare nata da un’idea di Napoleone Bonaparte e dall’iniziativa del conte di Cavour. È l’Arsenale che ha portato lavoro, ricchezza, nome alla città.

Ma i tempi sono cambiati. Anche la Marina Militare deve fare i conti con la scarsità delle risorse e con i tagli del governo. È cambiata anche la linea strategico-militare: le navi militari giocano un ruolo sempre più importante nel sud Mediterraneo, cresce il ruolo dell’Arsenale di Taranto a scapito degli altri e La Spezia vede ridimensionato il suo ruolo. In parole povere: lo spazio occupato dall’Arsenale Militare alla Spezia - 85 ettari di superficie totale, 18 dei quali di superficie coperta, sei bacini di carenaggio in muratura e due galleggianti, oltre due chilometri e mezzo di banchine - non è più consono all’attività della struttura.

Molti spazi potrebbero essere liberati e destinati ad attività civili. Come si dice in questi casi: restituiti alla città. «È da cinque anni che chiediamo l’apertura di un tavolo di confronto - sbotta il sindaco della Spezia, Giorgio Pagano - ma il ministro della Difesa Antonio Martino non ci ha degnato di un cenno. Se non capiamo quali sono le intenzioni del governo e della Difesa diventa impossibile immaginare progetti per il futuro. Ora che cambia il governo speriamo di avere risposte positive e concrete».

Soprattutto se, come si sente dire sempre più spesso, a fare il sottosegretario alla Difesa andrà il senatore uscente Lorenzo Forcieri. Il politico che ha cercato di rilanciare il ruolo della Marina Militare alla Spezia, anche attraverso la nascita del Secondo distretto tecnologico ligure dedicato alle tecnologie marine, di cui l’Arsenale dovrebbe essere uno dei centri nodali. Infatti Forcieri non nasconde le sue convinzioni: «È necessario e urgente mettere intorno a un tavolo tutti i soggetti interessati, dal governo alla Marina Militare, dagli enti locali alle industrie - dice - per chiarire finalmente quali sono le intenzioni della Difesa e della Marina su questa struttura militare. E dunque quali sono le aree indispensabili per queste attività. Il passo successivo deve essere l’elaborazione di un piano economico-finanziario e l’attivazione degli accordi di programma con tutti gli interessati che possano definire con chiarezza i progetti».

Uno dei punti più delicati è quello della proprietà delle aree. Se la Marina Militare decidesse di dismettere un’area non più usata, questa passerebbe direttamente in proprietà del Demanio. E alla Marina non toccherebbe neppure un euro. Ora è ovvio che questa norma legislativa è vissuta come qualcosa di punitivo per la Marina, che per rilanciare l’attività della Base Navale, punto cardine dell’Arsenale, avrebbe bisogno di interventi strutturali e tecnologici. Costosissimi e non facilmente finanziabili in questi tempi di vacche magre. È naturale dunque che la Marina darebbe più facilmente un via libera alla dismissione di alcune aree se il valore di queste finisse almeno in parte alla Marina stessa. Da qui l’esigenza di una legge che riconoscesse alla Marina diritti economici sulle aree da dismettere.

Quanto poi a cosa realizzare su queste aree, il sindaco Pagano non ha dubbi: «Per le porzioni di territorio sulla linea di costa gli interventi turistico-portuali sono quelli più naturali - spiega - Per le aree all’interno gli usi possono essere diversi. Per esempio Marileva, dove avveniva il reclutamento dei marinai, potrebbe essere destinata in parte all’Università. Ci sono poi strutture per le quali niente impedisce di pensare a un uso condiviso, sia militare sia civile: per esempio l’ospedale militare o le strutture sportive. Insomma: le idee non mancano, ma bisogna cercare di metterle in pratica». Anche perché quel "vecchio parente" un tantino imbarazzante dà ancora occupazione, secondo i dati della Marina Militare, a 200 militari e a 1.900 tra impiegati e operai. «La ricchezza prodotta dall’Arsenale e dalle sue strutture - dice Forcieri - costituisce ancora una quota che si aggira sul 30% del prodotto interno lordo spezzino. Sarebbe un delitto sottovalutarne l’impatto per la tentazione di qualcuno di buttare via il bambino con l’acqua sporca».

29 novembre 2008

Savona, la Regione frena la torre Fuksas

"Progetto cambiato, va riconvocata la conferenza dei servizi"

Nel mirino una delle strutture più contestate degli ultimi anni, a pochi passi da un’area di grande pregio ambientale

di Ava Zunino

Non è un cartellino rosso. E neppure un parere di merito. Però è un richiamo formale della Regione ai Comuni di Savona e Albisola perché verifichino le procedure seguite nell’iter di approvazione del progetto della torre di Fuksas alla Margonara: agli uffici regionali non risulta che i Comuni si siano ancora pronunciati sulla nuova versione del progetto di Fuksas, quella del 2007, né che sia stata convocata la conferenza dei servizi per pronunciarsi sulla ammissibilità del progetto nella nuova versione, che è "diversa" da quella originale. La richiesta di rivedere l’iter è contenuta in una lettera indirizzata alle due amministrazioni comunali e firmata dai direttori generali della pianificazione territoriale, Franco Lorenzani, e dell’ambiente, Gabriella Minervini. E’ partita ieri e mette nel mirino nel piatto di uno dei progetti più contestati degli ultimi anni, cemento nuovo di zecca che andrà a coprire una fetta dell’arco di costa ligure, tra l’altro nell’area accanto allo "scoglio" della Madonnetta, che la commissione nazionale della valutazione di impatto ambientale aveva già detto che andrà tutelata. L’intervento dei direttori generali è chiaro e con parole semplici si può tradurre nel richiamo a non trascinare tutti gli enti in una vicenda di vizi procedurali. Cosa che va al di là del giudizio di merito: «sul quale - scrivono i direttori generali - ci riserviamo di pronunciarci a seguito del superamento positivo dell’ottemperanza procedurale». E appunto chiedono di verificare che le procedure siano state tutte espletate correttamente. Sia come sia, è la prima volta che la Regione interviene sulla vicenda con un proprio atto. «Ci troviamo coinvolti in polemiche per progetti che non abbiamo mai ricevuto e sui quali dunque non possiamo pronunciarci: sarebbe singolare che la Regione si pronunciasse su progetti che non ha ricevuto», aveva detto il presidente Claudio Burlando solo qualche settimana fa. E adesso? Che cosa è successo? Formalmente nulla. Il Comune di Savona ha appena adottato una delibera di intenti in cui dice che alla Margonara non vanno fatte residenze. Ma sul progetto, come è stato modificato durante un lungo cammino iniziato nel 1999, non si è ancora espresso. L’ultima versione del progetto di Fuksas è inoltre molto diversa dall’originale, su cui si era espressa anche la commissione nazionale per la valutazione di impatto ambientale che aveva dato alcune prescrizioni, tra cui la tutela dello scoglio della Madonnetta, una riduzione dei volumi previsti, la sicurezza dell’ingresso del porto e l’utilizzo di tecniche di edilizia tradizionale. Sono tutte cose rispettate anche nella nuova versione del progetto? Nessun ente si è ancora espresso, come fanno notare i direttori generali della Regione. La lettera non è un atto politico. E non è un giudizio sul progetto. E’ però un richiamo formale alla verifica della correttezza delle procedure e come tale rappresenta l’esordio della voce della Regione su questo tormentato progetto savonese. Ai piani alti della Regione assicurano però che l’iniziativa dei direttori generali non sarebbe stata sgradita al presidente Burlando non solo in quanto atto amministrativo. E sostengono che, in termini molto ampi, potrebbe essere la cartina al tornasole di una volontà di cautela nell’approccio a questa edificazione sul mare. Si vedrà.

30 novembre 2008

Margonara, l’amarezza di Fuksas "Non sono un cementificatore"

L’architetto: è più facile lavorare all’estero "La torre è un’idea che si concilia con un progetto che rispetta l’ambiente"

di Luigi Pastore

«OGNI volta che parlo della Margonara, per me è un dolore, una sofferenza. La cosa che più non sopporto è che mi diano del cementificatore, perché non corrisponde alla verità. Io non faccio parte di quella categoria».

Massimiliano Fuksas è all’aeroporto di Roma, di ritorno da Parigi, dove ha firmato il progetto del nuovo Centro degli Archivi nazionali di Pierrefitte-sur-Seine. Il progetto, battezzato dai francesi "Le coffre de Fuksas", si presenta come un grande baule dalla instabile luminosità, data all’interno da un gioco di luci e trasparenze e all’esterno da uno specchio d’acqua, ovvero il laghetto accanto al quale sorge la struttura: «Un progetto al quale abbiamo lavorato con grande soddisfazione - dice - ma purtroppo quando uno rientra in Italia, si ritrova immediatamente a che fare con una realtà ben diversa, e sotto certi aspetti, molto triste. L’unica cosa bella oggi è che qui a Roma c’è sole e fa caldo, mentre a Parigi faceva un freddo cane e sembrava di essere in pieno inverno».

Non ha ancora letto i giornali, Fuksas, ma l’eventuale stop della Regione sul progetto del porticciolo turistico della Margonara dice di considerarlo «l’ennesima goccia di uno stillicidio che va avanti da tempo. Eppure - aggiunge - non sono stato certo io a voler fare il progetto Margonara, ma un bel giorno è stato il signor Canavese (attuale presidente dell’Autorità portuale di Savona ndr) che mi ha chiamato, chiedendomi di occuparmene. Il progetto precedente era già pronto e molto più invasivo, prevedeva anche i parcheggi sulla spiaggia. Mi è stato chiesto di pensare qualcosa di differente, di meno impattante, e lì mi è venuta l’idea di quella torre che ho chiamato una puntura di spillo luminosa, senza che volessi con ciò offendere nessuno o fare riferimenti ad altre architetture. Ma certo, il progetto non era solo quello, ho pensato alla passeggiata degli artisti, mi sono preoccupato che non si costruisse sull’Aurelia, che la si lasciasse libera. Ciononostante, mi sento dare del cementificatore».

Le perplessità di molti vertono sulla compatibilità della torre con il contesto circostante, ma per l’architetto il discorso è più complessivo. «La verità è che in Italia è impossibile fare ciò che si fa all’estero. Ogni volta che tenti di realizzare qualcosa di diverso, ti attaccano e ti danno del cementificatore. Storia buffa nel caso del sottoscritto, che non ha mai lavorato per quelli che sono considerati per definizione i grandi cementificatori, ovvero Ligresti e Zunino. Scelte mie, per carità, altri preferiscono lavorare con loro. Io no, ho le mie idee e le porto avanti. Tutto mi interessava sulla Liguria, fuorché fare un’operazione invasiva. Lo spirito era e resta esattamente il contrario. Ma evidentemente non tutti la pensano allo stesso modo».

Il problema è forse anche che il caso-Margonara si inserisce in una stagione controversa sul tema dell’ambiente e dell’urbanistica in Liguria. Tanti i progetti in campo da levante a ponente e molti contestati, senza dimenticare il dibattito sull’opportunità di continuare ad aprire porticcioli turistici. «La discussione sui posti barca è curiosa - sottolinea Fuksas - il fatto che le barche inquinino non mi sembra un motivo per non trovare loro dei posti. Bisogna anche prendere atto della realtà e di come funziona l’economia. Mi sembra che quando una fabbrica inquina, in Italia non la si chiuda, ma anzi si tenti sempre di fare di tutto per tenere aperte le industrie, anche magari con aiuti pubblici».

Adesso resta da capire cosa succederà nei prossimi mesi, se cioè questa frenata della Regione sia solo un segnale fine a se stesso o il prologo di una retromarcia. «Guardi, io sono disponibile a qualsiasi soluzione. Fare la Margonara o non farla non mi cambia certo la vita. Se decideranno diversamente, ne prenderò atto e mi ritirerò in buon ordine».

30 novembre 2008

Sinistra a testa bassa "Partita da chiudere"

Il verde Vasconi: ora Burlando sia coerente

di Marco Preve

Carlo Vasconi, consigliere regionale dei Verdi aspetta «di vedere i fatti», mentre Patrizia Turchi consigliere comunale di "A Sinistra per Savona" annuncia di aver già chiesto «l’immediato ritiro della pratica dopo la brutta figura dell’amministrazione comunale».

Ecco le reazioni a caldo di due degli oppositori della prima ora del progetto "porto più grattacielo" dell’architetto Fuksas. Rappresentanti di un vasto e trasversale movimento che raccoglie comitati, blog e siti internet, singoli cittadini, dallo studente al pensionato, di varia estrazione sociale.

«Erano aspetti che avevamo sollevato in più occasioni - dice Vasconi -. Spiace vedere che l’intervento lo abbiano fatto i tecnici, anche se importanti come Lorenzani e Minervini, e non i politici. Quanto al sindaco e agli amministratori comunali penso che la prenderanno male perché si sono dimostrati più realisti del re».

Per Vasconi l’intervento regionale è anche un riconoscimento al movimento anti cemento. «Gli ambientalisti, accusati dall’assessore alla Cultura di Savona Ferdinando Molteni, di essere pantofolai e borghesi finti rivoluzionari, hanno dimostrato prima di tutto la bontà delle loro critiche, quanto poi alle offese credo che i finti rivoluzionari siano quelli che regalano aree pubbliche ai costruttori, quelli sì davvero ricchi».

Vasconi affronta anche un elemento contraddittorio. La Regione richiama all’ordine Savona sul progetto della Margonara di cui l’assessore all’Urbanistica, ed ex sindaco della Torretta, Carlo Ruggeri, è sempre stato un convinto assertore.

«Ruggeri - dice Vasconi - con il presidente del porto Canavese (centrodestra, ndr) è sempre stato un sostenitore del progetto, ma un conto sono le idee politiche, un altro quelle dei tecnici. Speriamo che tutti se lo ricordino. Comunque, proprio Burlando, ha detto che non si doveva più costruire in aree libere. E allora, visto che penso che il percorso sia ancora lungo, aspettiamo di vedere i fatti».

Le osservazioni della Regione erano state sollevate alcuni giorni fa anche da Patrizia Turchi in commissione. «Ricordiamoci - dice - che la concessione riguarda solo il primo progetto, quello presentato dallo stesso Gambardella (Giovanni, manager genovese titolare della licenza di costruzione, ndr). Inoltre, e lo possiamo provare, già per quel progetto del 1999 esistono osservazioni cui l’Autorità Portuale non ha mai dato risposta».

Turchi attacca poi l’amministrazione savonese: «L’intervento della Regione è importante perché senza la giunta, martedì, in occasione del Consiglio, avrebbe legato i consiglieri a questo progetto».

Turchi non sa dire se all’azione tecnica seguirà quella politica: «Per ora vedo due funzionari che hanno preso carta e penna e hanno messo nero su bianco che la procedura del Comune di Savona era fallace, dimostrando così l’assoluta incapacità operativa della nostra amministrazione cittadina».

Il dribbling del sindaco Berruti "Per noi non cambia nulla. Si tratta solo di realizzare attività produttive che creino posti di lavoro"

di Ava Zunino

La lettera della Regione sulla Margonara e la Torre dell’architetto Fuksas? Per il sindaco di Savona, Federico Berruti, eletto tre anni fa come indipendente e che poi si è iscritto al Pd, è solo una questione tecnica «di cui si occuperanno i tecnici degli uffici. Riguarda le procedure e non l’abbiamo ancora ricevuta perciò mi risulta difficile commentarla». Non è "un fatto politico", dice. Non legge questo atto come il preludio a un nuovo atteggiamento della Regione verso un progetto che ha sollevato crescenti contestazioni. Dunque, per il sindaco di Savona lascia il tempo che trova. E non scalfisce la sua convinzione che la torre, il porticciolo, il cemento a snaturare il mare e la costa, si debbano fare. L’ambiente? «E’ evidente che un porto turistico ha un elevato impatto ambientale, tuttavia bisogna fare i conti con lo sviluppo. Si tratta di fare attività produttive che creino posti di lavoro e a queste condizioni il bilancio costi-benefici per noi è positivo. I costi ci sono, lo so. L’ideale sarebbe stato non toccare niente, ma vale oggi lo stesso discorso di quando, nel dopoguerra, costruimmo le fabbriche». Secondo molti fu un errore: pezzi di costa e di mare sacrificati, per industrie che ormai sono in crisi mentre la Liguria avrebbe potuto puntare tutto sull’ambiente. O no? «Non lo, ma so che il livello di vita che abbiamo non viene dal nulla ma viene da quelle scelte. Poi so bene che è difficile trovare un equilibrio - dice Berruti - ma per noi il progetto Fuksas è un costo sostenibile». Dal punto di vista tecnico i direttori generali della pianificazione territoriale e dell’ambiente della Regione dicono di verificare le procedure. Non risulta, ad esempio, che la nuova versione del progetto Fuksas per la Margonara sia mai stato approvato dal vostro Comune o da quello di Albisola e neppure dalla conferenza dei servizi.

«Ripeto ancora una volta che non avendo ancora ricevuto la lettera non so cosa dire e comunque le osservazioni procedurali le vedrà la conferenza dei servizi. Il responsabile del procedimento è l’Autorità Portuale. Non vedo implicazioni politiche». Ma il progetto nella nuova versione è già stato approvato? «Il progetto preliminare è già stato esaminato dalla giunta e dalla commissione e martedì andrà all’esame del consiglio comunale - continua Berruti - La proposta della giunta è di approvarlo con una serie di prescrizioni». Resta da capire quali: le stesse che a suo tempo chiese la commissione nazionale per la valutazione di impatto ambientale? «Le nostre prescrizioni sono: non fare residenze; ricavare da questo progetto le risorse per realizzare la passeggiata tra Savona e Albisola, e altre prescrizioni sulle funzioni turistico ricettive nel faro - elenca il sindaco - Per noi il senso di questo progetto è che sia un’occasione di sviluppo turistico inteso come attività produttiva. Chiediamo un polo per gli sport del mare con uno spazio per le barche grandi che hanno equipaggi e che sono quelle che creano indotto anche presso le attività artigianali». Uno spazio per chi ha soldi e può spenderli, insomma. Ma il sindaco amplia il ragionamento. «Non solo, chiediamo anche posti di nautica sociale che siano accessibili alla gente comune che ha piccole imbarcazioni. E sono tanti». Lo scoglio della Madonnetta, che la stessa commissione nazionale del Via aveva chiesto di tutelare, in tutto questo rischia di fare una brutta fine. «Noi già l’anno scorso avevamo deliberato sulla tutela dello scoglio - chiarisce Berruti - Le condizioni di allora sono tutte confermate e tra queste sono comprese la protezione dello scoglio e delle spiaggette che sono lì accanto, perché siano difesi i tratti caratteristici di questo tratto di costa». E quindi, lasciarlo libero dal cemento non sarebbe stata una migliore difesa? «Bisogna fare i conti con lo sviluppo e valutare costi e benefici. Per noi in questo caso è un bilancio positivo».

Altri articoli sulla torre di Savone e sulla distruzione della costa ligure nella cartella SOS Liguria

Tuvixeddu, la più grande necropoli punica del Mediterraneo, è salva. Il direttore del Servizio beni culturali dell’assessorato alla pubblica istruzione della Regione Sardegna ha firmato un provvedimento di sospensione dei lavori in corso nel colle di Tuvixeddu, dove la Coimpresa, una cordata di imprenditori guidata dal costruttore Gualtiero Cualbu, aveva cominciato ad edificare un intero quartiere (quasi trecentomila metri cubi). «Sono inibiti - si legge nel testo del provvedimento - tutti i lavori, riferibili ad opere pubbliche o opere a carattere privato comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio nella zona del colle di Tuvixeddu ».

Il provvedimento si rifà al Codice Urbani, che consente alle Regioni di vincolare aree di particolare interesse paesaggistico o storico culturale, e ha efficacia solo per un periodo di novanta giorni. Novanta giorni che saranno impiegati, da Renato Soru e dalla sua giunta, in un confronto con il comune di Cagliari, retto da un’amministrazione di centrodestra, e con Cualbu, con l’obiettivo di convincere sindaco e costruttore a rinunciare al progetto in cui amministratori e impresa si sono impegnati con un accordo siglato nel settembre del 2000.

Non sarà un confronto facile. Cualbu, infatti, ha annunciato che non bloccherà i lavori nell’area archeologica fino a quando i suoi legali non avranno vagliato il contenuto dell’ordinanza emessa dagli uffici della Regione. «Le ruspe si fermeranno - ha detto Cualbu - soltanto se nell’ordinanza sono citati articoli di leggi che sopravanzano l’accordo di programma che abbiamo siglato con il comune, un vero e proprio contratto, che ha valenza civilistica». Se la Coimpresa non sospenderà i lavori nell’area della necropoli punica neanche quando, probabilmente domani, sarà notificata l’ordinanza emessadalla Regione, la Guardia forestale dovrà mettere i sigilli ai cantieri. A Cualbu, per ilmomento, Soru ha risposto: «Noi facciamo le regole, alle quali ci si può attenere oppure disubbidire». «Il sistema delle imprese - ha aggiunto il presidente della giunta regionale - è un pezzo della società al servizio della società. La società, nei suoi valori più alti, non è al servizio dell’impresa. Ci sono valori che vanno al di là dei metri cubi».

Il provvedimento che ferma le ruspe fa riferimento in particolare al Piano paesaggistico regionale, la legge salvacoste voluta da Soru. Il Piano individua alcuni sistemi storico-culturali da tutelare. Tra questi c’è Tuvixeddu. «I lavori in corso - si legge nel documento firmato dal direttore del Servizio beni culturali della Regione - sia per l’incidenza sulla morfologia del sito sia per la loro collocazione a ridosso della necropoli e della vasta area storica e monumentale del colle di Tuvixeddu, sono capaci di pregiudicare il bene paesaggistico tutelato dal Piano paesaggistico regionale, limitando la possibilità della Regione di intervenire con le misure di recupero e di riqualificazione indicate dal Piano paesaggistico».

Domani s’insedierà una commissione regionale, prevista dal Codice Urbani, che dovrà individuare, oltre Tuvixeddu, tutte le altre aree da vincolare. Sarà composta dagli archeologi Raimondo Zucca e Maria Antonietta Mongiu, dal naturalista Ignazio Camarda, dall’architetto Sandro Roggio e dal direttore generale dell’assessorato alla pubblica istruzione. L’istituzione della commissione segna un’ulteriore conferma della strategia di tutela dell’ambiente e dei beni storico-culturali perseguita sin dall’inizio da Soru con particolare determinazione. A sostegno di Soru e della sua maggioranza si è schierata Italia Nostra. «Dopo Monticchiello e Mantova - afferma Italia Nostra - il cemento è arrivato a minacciare anche Tuvixeddu in Sardegna, una delle più importanti necropoli Puniche del Mediterraneo. Per fortuna il presidente della Regione, Renato Soru, ha stoppato i lavori. Vediamo con soddisfazione che sta nascendo una leva di amministratori locali sensibili ai problemi della conservazione dei beni culturali e al rispetto del paesaggio: dal sindaco di Mantova, che ha bloccato una devastante villettopoli, a Soru che è intervenuto più volte adifesa della sua Sardegna, prima salvaguardandone le coste, poi battendosi contro l’invasione delle torri eoliche e ora evitando la colata di cemento su Tuvixeddu». Poi Italia Nostra tira le orecchie a Francesco Rutelli: «Sul caso Tuvixeddu ci si sarebbe aspettati un intervento ben più deciso da parte del ministro dei Beni culturali, sollecitato a intervenire nei mesi scorsi dallo stesso Soru». Con le ruspe già in azione, Rutelli si è limitato ad invitare gli uffici regionali del ministero a studiare il problema per avanzare eventuali proposte.

Nel capitolo dedicato a Finale Ligure c'è una frase che dà il senso: «Alla prossima tornata elettorale si invertiranno le parti e il gioco ricomincerà». Certo, è uno di quei tormentoni che fanno storcere il naso ai teorici dell'anti-casta, a quelli che basta con i dipietristi d'accatto. Eppure Il partito del cemento. è un libro che piacerebbe anche a loro. Scritto da Ferruccio Sansa e Marco Preve, giornalisti de Il Secolo XIX e Repubblica, non si basa solo su carte giudiziarie. È una vera inchiesta, che collega fatti, tira fili, per arrivare a dipingere un quadro dove nessuno, ma proprio nessuno è innocente.

Tutti coinvolti, in questa assurda corsa al cemento che rischia di devastare una delle regioni più belle d'Italia, la Liguria. Tre milioni di metri cubi di cemento sono in arrivo, e se non c'è più spazio in terra, costruiamo in mare. Porti e porticcioli turistici, in pochi anni il Ponente — ma anche il Levante non scherza — diventerà il buen retiro dei natanti di mezza Italia e mezza Francia, quella che rifiuta di costruire sulle sue coste, tanto a poca distanza c'è chi lo fa anche per lei. La tesi dei due autori è che la Liguria sia una sorta di miniatura italiana, dove la commistione di interessi che sottomette l'interesse pubblico a quello privato ha assunto una dimensione transpartitica. A farne le spese, ovviamente, sono coste, colline e cittadini.

Il partito del cemento sta diventando una sorta di convitato di pietra a casa propria. A Genova e dintorni è il libro più venduto, nella sua meticolosità elenca una lunga serie di notabili liguri, sempre i soliti, in quasi ogni caso di cementificazione citato. Eppure è stato avvolto da una nube di silenzio. Come se quello che raccontasse, la convergenza di interessi ai più alti livelli, gli amorosi sensi tra Claudio Burlando, presidente della Regione, e Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico e sovrano della provincia di Imperia, l'assoluta mancanza di regole che in fondo va bene a tutti, fosse fiction, e non una denuncia alla quale almeno la decenza consiglierebbe una risposta da parte delle persone tirate in ballo.

Preve e Sansa sono liguri, e questo conta. Non per mero antropologismo, ma perché parlano di un mondo che conoscono, e amano. E fanno emergere quello che non c'è più, o sta scomparendo. L'incanto delle terre di Ponente raccontato da Francesco Biamonti, la Sanremo che tanto piaceva a Italo Calvino, quella Bocca di Magra che in virtù della sua bellezza divenne crocevia di scrittori e intellettuali. Il meglio del libro è in questa sovrapposizione, tra un presente fatto di piani regolatori decisi e cambiati nel giro di una cena, e un passato del quale esiste ancora qualche reperto, che andrebbe conservato con cura, nell'interesse di tutti. Così, pare di capire, non è: avanti con il cemento. Libro bello e triste, da leggere come un giallo, sapendo che i colpevoli sono come il maggiordomo, sempre i soliti noti. Soltanto che qui, purtroppo, non si tratta di fiction.

E’ un errore richiamare, a partire dalla crisi dei rifiuti in Campania, un nuovo conflitto tra Berlusconi e la magistratura o, se piace di più, tra la magistratura e Berlusconi. Magari, si trattasse soltanto di questo. L’affare a Napoli è molto più contorto di questa semplificazione lineare. Lo si comprende soltanto se si è consapevoli che il collasso di Napoli non nasce da un accidente occasionale. E’ il frutto marcio di una cattiva politica e di una pessima amministrazione che, del tutto prive di una "cultura del risultato", hanno trasformato la raccolta dei rifiuti e il ciclo industriale del loro smaltimento in un’occasione per distribuire reddito e salario a una società stressata e assegnare profitti a poteri criminali ingordi e a imprese private senza scrupoli. Con l’evidente utilità – per la politica – di amalgamare un «blocco di potere» corrotto (dal professionista al "pregiudicato") che, in cambio del saccheggio di quelle risorse pubbliche, ha assicurato consenso accettando di vivere in un progressivo, inarrestabile degrado igienico-sanitario.

Ne è nata una spirale diabolica: la cattiva gestione della cosa pubblica ha provocato «l’emergenza». «L’emergenza», altra cattiva gestione. E ancora «emergenza» e ancora cattiva gestione in un gorgo il cui esito è oggi sotto gli occhi di tutti. E tuttavia, anche nella procura di Napoli, è facile incontrare più d’un pubblico ministero disposto ad ammettere che le frasi (intercettate) di Marta Di Gennaro – il braccio destro di Bertolaso agli arresti domiciliari da martedì – sono le parole «sofferte» di un funzionario dello Stato che deve scegliere tra il male e l’orribile per far fronte all’emergenza, pur nella consapevolezza che le «ecoballe» sono un «mucchio di merdaccia» (perché non lavorate, non inertizzate), che la discarica di Macchia Soprana è «una vera schifezza» (perché vi finisce anche quel che, tossico e pericoloso, non dovrebbe finirci).

Come interrompere questo avvitamento? Con un decreto che ha valore di legge ordinaria, il governo ha "spento" qualche principio costituzionale per rafforzare la sua decisione e l’operatività della task force affidata a un sottosegretario/commissario straordinario. L’esecutivo ha la convinzione, non campata per aria, che a Napoli e in Campania ci sia uno «stato d’eccezione» che legittima un «vuoto del diritto» e la sospensione delle norme perché le decisioni necessarie ad evitare la crisi non possono essere determinate più né dalle norme né dal diritto, ma soltanto dalla gravità dell’emergenza. Accade così che, per la sola Campania, non ci sarà alcuna differenza tra rifiuti e rifiuti tossici o pericolosi perché si agirà in deroga alle leggi e alle normative europee. Nasce un ufficio giudiziario a competenza regionale che elimina «il giudice naturale» con la centralizzazione in capo al procuratore di Napoli dell’esercizio dell’azione penale e delle indagini preliminari. Sono ridimensionati i poteri del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, cui è vietato il sequestro preventivo d’urgenza delle discariche irregolari o pericolose. Si condiziona l’intervento preventivo della magistratura a «un quadro indiziario grave» e non, come avviene in Italia, alla «sufficienza indiziaria». Si crea, come dicono i magistrati, un "procuratore speciale" con il compito di proteggere il lavoro "sporco" e urgente del "Commissario del Governo" che già ha nelle mani la direzione di tutte le autorità pubbliche (polizie, prefetti, questori, forze armate, gli altri poteri competenti per materia).

Ci sono delle ragioni sufficienti per questa straordinarietà, è sciocco o irresponsabile negarlo. Le leggi e il diritto delimitano una condizione di normalità. Qui di "normale" non c’è più nulla. Se non si trovano, nei prossimi mesi, sei, sette capaci «buchi» dove stipare, quale che sia la sua pericolosità, tutta l’immondizia della regione non raccolta e quella che continua a produrre, ricorderemo a lungo l’estate del 2008 come la stagione di una catastrofe sanitaria molto poco europea.

A questa ragione di Stato si oppone un’altra ragione altrettanto ostinata. L’eccedenza autoritaria dei provvedimenti del governo riduce, per i campani, alcuni diritti garantiti dalla Costituzione. Se «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», articolo 3 della Carta, i campani saranno meno eguali, avranno meno dignità sociale. Ciò che è «tossico» altrove, in Campania non lo è. Ciò che altrove è considerato «pericoloso», qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia e controllo sanitario qui non saranno in vigore. E ancora, appare «inaccettabile», come ha scritto su queste pagine Stefano Rodotà, la manipolazione del sistema giudiziario. «Il governo si sceglie i magistrati che devono controllare le sue iniziative. Viene aggirato l’articolo102 della Costituzione, che vieta l’istituzione di giudici straordinari o speciali. Vengono creati nuovi reati di ampia interpretazione che finiscono per restringere il diritto di manifestare liberamente. La garanzia dei diritti costituzionalmente garantita è degradata. La legalità costituzionale è complessivamente incrinata». Per di più – anche questo sarebbe sciocco e irresponsabile negarlo – è proprio vero che questo diritto «speciale», non alimenti ancora, come è già accaduto, quella cattiva gestione che finora ha prodotto soltanto guai e nuove emergenze?

Come si vede, non abbiamo dinanzi il consueto conflitto tra i governi di Berlusconi e la magistratura. La controversia è più intricata e mette in contrasto l’urgente necessità di agire per risolvere, nel brevissimo periodo, una crisi che può diventare un cataclisma e il dovere di garantire, protetto dall’indipendenza della magistratura, il diritto alla salute che, violato, potrebbe produrre nel medio/lungo periodo danni al cittadino e disgrazie per la democrazia non più lievi di quelle prodotte dall’emergenza di oggi. Non c’è spazio per gli estremismi ideologici. Occorre pragmatismo e responsabilità. E una faticosa mediazione che, tenendosi alla larga dalle forzature corporative e dalle eccedenze autoritarie, sappia risolvere – oggi – la catastrofe napoletana senza pregiudicare – per il domani – la Costituzione e regole del gioco di una democrazia.

In un generale silenzio e nel torpore colpevole di chi dovrebbe controllare e non lo fa, la Penisola Sorrentina, da paesaggio-simbolo delle bellezze italiane, sta pericolosamente assurgendo a caso-studio di come, in un territorio tutelato, sia possibile approvare norme tanto incredibili quanto vessatorie per il paesaggio e remunerative per l’investimento privato, che viene di fatto trasformato nella vera priorità delle azioni amministrative.

In pieno accordo con buona parte della burocrazia e della politica regionale, i Comuni sorrentini stanno infatti procedendo ad ambigue varianti ai Piani Regolatori e ad approntare decine di altri strumenti di deregulation urbanistica, trasformando in regola quello che dovrebbe essere eccezione e in regolamentare ciò che altrimenti sarebbe considerato abuso.

Incapaci di pensare a percorsi di sviluppo nuovi e sostenibili, i Comuni pagano in “moneta urbanistica” i propri servizi sociali, le manutenzioni, l’illuminazione, le scuole, i lavori pubblici ordinari e soprattutto lo sproporzionato numero di dipendenti a bassa produttività: si cerca di fare cassa con gli sbancamenti per i box, con gli oneri di urbanizzazione, con gli introiti dei permessi a costruire.

Come ha affermato un amministratore sorrentino, parafrasando uno che comandava più di lui: «Quando sento parlare di piano paesistico mi viene voglia di mettere mano alla pistola». Intanto, il nuovo Piano Regolatore adottato a Sorrento, consente di costruire persino nelle Zone di tutela ambientale 1B del PUT (il piano paesistico della Penisola Sorrentina) e la magistratura è già dovuta intervenire per le continue irregolarità riscontrate nei colossali cantieri per garage interrati.

A Meta di Sorrento non hanno messo mano alla pistola, ma al Piano Regolatore. Con una delibera dei primi mesi di quest’anno sì è proceduto ad una variante che riscrive le Norme Tecniche di Attuazione del Piano, progettato da Vezio De Lucia, limandole e smussandole nei punti più fastidiosi e trasformando con un arzigogolo lessicale e una giravolta giuridica, la speculazione di pochi privati in “attrezzature di interesse generale”. Sono stati cassati, così, indici di fabbricabilità, altezze massime, rapporti di copertura tra costruito e aree libere, ecc. Il tutto in un grande preludio alla realizzazione di sterminati parcheggi interrati, negozi, bar, chioschi e via costruendo, per garantire «il sostegno economico all’iniziativa privata», concludendo con l’incredibile affermazione che queste costruzioni «sono consentite in tutto il territorio comunale». Infine, in un eccesso di protervia, al comma 7 dell’art.24 delle nuove Norme, si stabilisce che “Nell’ambito della pianificazione esecutiva potranno essere individuati ulteriori spazi ad integrazione delle quantità reperite in sede di pianificazione generale, senza che ciò costituisca variante al Piano Regolatore”. Come a dire: il Piano Regolatore serve a chi non si sa regolare, e a Meta si sanno regolare benissimo. L’ultima parola, comunque, tocca alla Provincia di Napoli, il mese prossimo.

A Vico Equense, la città dell’Alimuri, dove l’aggiro delle regole urbanistiche e paesistiche è un divertissement col quale si misura la capacità, l’efficienza e l’utilità dei tecnici, si è inventato il garage pertinenziale “satellite”. Dopo aver fatto costruire da un’impresa privata le solite centinaia di box auto al di sotto di una grande piazza nel centro cittadino, il comune ha organizzato un sorteggio per la vendita dei box pertinenziali a prezzo calmierato. La norma sulla pertinenzialità prevede che ogni acquirente dovrà apporre un vincolo pertinenziale, appunto, con l’abitazione di proprietà. La ratio della norma è quella di fornire un posto auto alle abitazioni che ne sono sprovviste e, sempre secondo questa ratio, tutti i comuni stabiliscono una distanza ragionevole tra il box e l’abitazione, mediamente 500 metri. Ebbene, il Comune di Vico Equense ha dilatato questa distanza a tutto il territorio comunale (tra i più estesi della Campania). Decine di fortunati residenti sul Monte Faito si sono visti assegnare il loro garage pertinenziale a molti chilometri da casa, ma a poche centinaia di metri dal mare, mentre chi abita nella piazza dove sono stati costruiti i box non ha goduto di nessuna priorità e continuerà a mettere l’auto per strada. Un criterio assurdo e comico, che consente il massimo agio e potere contrattuale all’imprenditore privato e ai politicanti in cerca di consenso spicciolo e che sta per essere adottato per decine di parcheggi interrati in approvazione al Comune.

A fronte di queste enormità, la Regione Campania, nonostante le nuove disposizioni del Codice Urbani-Rutelli, preferisce glissare, e con uno scarno comunicato apparso pochi giorni fa sul suo sito internet precisa che «la competenza all’esercizio delle funzioni amministrative attive, volte al rilascio delle autorizzazioni ed all'irrogazione delle sanzioni in materia paesaggistica, resta ancora in capo ai Comuni», almeno fino al prossimo anno.

O al prossimo comunicato.

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