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Cosa può fare un comune cittadino per difendere il «volto amato della Patria», e cioè l’ambiente e il paesaggio italiani? Per esempio può firmare e diffondere l’appello (promosso da Italia Nostra ed Eddyburg, e sottoscritto dal Comitato per la Bellezza, Legambiente, Fai e Mountain Wilderness) contro il disegno di legge approvato il 1° marzo dalla Regione Campania.

«Si tratta del più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio.

Un provvedimento che avrà conseguenze gravissime su un territorio fragilissimo già martoriato da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che nonostante tutto conserva ancora aree preziosissime.

Esplicitamente dichiarata la finalità: limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. […] Non tutela del paesaggio, quindi, ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale.

Il disegno di legge adottato in Campania è incostituzionale, perché attraverso di esso la Regione si appropria surrettiziamente di competenze di tutela del paesaggio che l’articolo 117 della Costituzione mette esclusivamente in capo allo Stato. È illegittimo perché modifica unilateralmente la pianificazione vigente, a partire dal Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentina Amalfitana e ignora platealmente i procedimenti di copianificazione prescritti dal Codice […]».

Se non vogliamo affogare nel cemento, questa battaglia potrebbe essere l’ultimo salvagente.

Presentando il disegno di legge sul paesaggio adottato dalla Giunta regionale, con apprezzabile sincerità l’Assessore Taglialatela ha dichiarato che la finalità è quella di sfrondare i troppi vincoli che gravano sul territorio, di dare slancio al settore edilizio, di offrire una soluzione all’abusivismo esistente.
E’ bene dirlo con franchezza: tutto questo non c’entra proprio niente con il paesaggio. Piuttosto, si tratta di una nuova puntata dell’avventura intrapresa dalla Regione con il piano casa, il discutibile provvedimento di deregulation varato su istigazione del precedente governo nazionale.

Noi pensiamo che non sia questa la strada da percorrere. Riteniamo che per proteggere e mantenere in vita i paesaggi della Campania, già martoriati da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che costituiscono ancora nonostante tutto la vera ricchezza della nostra regione, occorra altro.
Più che indebolire i vincoli, c’è bisogno di un serio investimento nelle attività di manutenzione, cura e controllo di un territorio e di un ecosistema tra i più fragili e pericolosi del mondo. All’opposto, il disegno di legge dà il via libera al piano casa anche nelle zone rosse, a più elevato rischio vulcanico.

Quello di cui c’è bisogno in Campania è una efficace politica per arrestare il consumo di suolo, che viaggia a ritmi vertiginosi, distruggendo irreversibilmente il residuo capitale di fertilità, biodiversità e bellezza di Campania felix. In tutta Europa e nel resto del Paese la conservazione delle terre è diventata priorità assoluta, ma a questo tema il disegno di legge non dedica purtroppo neanche un rigo. All’opposto, il disegno di legge interviene direttamente sul Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentino-Amalfitana, ristabilendo la supremazia, nelle aree agricole ritenute “non rilevanti sotto l’aspetto paesaggistico”, delle previsioni di quei piani comunali che al PUT avrebbero dovuto invece adeguarsi vent’anni fa. Il rovesciamento di prospettiva è evidente.

Se le finalità di fondo sono queste, è inutile poi parlare di approcci sofisticati di contabilità ambientale, come l’ecoconto, che sono stati pensati e che vengono applicati in contesti molto differenti dal nostro, e che appaiono nel disegno di legge come il pretenzioso e inefficace orpello di un lavoro approssimativo, venuto male.

Sull’abusivismo, poi, la soluzione prospettata dal disegno di legge non si basa sul principio sacrosanto di sanzione e riparazione, né su serie politiche di prevenzione, quanto piuttosto su una modifica in corsa delle regole, sulla base di una singolare interpretazione del principio di legalità. A ciò si aggiungono gli infortuni comunicativi, perché le dichiarazioni fatte in sede di presentazione del provvedimento (“Non ci saranno più divieti in assoluto, né vincoli astratti; non si può pensare di far ricorso alle ruspe per tutte le violazioni né di sanare ogni abuso pagando”) saranno interpretate, nel contesto sociale e territoriale regionale, come un allarmante segnale di via libera anche per il futuro.

Quello che ci preoccupa in questa vicenda è il silenzio dello Stato, cui la costituzione (art. 117) assegna la competenza esclusiva in materia di tutela del paesaggio, e che secondo il Codice del 2004, è chiamato a cooperare con le regioni per la definizione delle nuove discipline e politiche del paesaggio. La sensazione è che la Direzione regionale stia subendo l’iniziativa regionale, con un esercizio francamente debole delle proprie prerogative. Vedremo nei prossimi giorni se questo timore è fondato.
In ultimo, il disegno regionale sul paesaggio prevede che l’approvazione del futuro Piano paesaggistico regionale non avvenga in consiglio regionale, con il contributo di tutte le rappresentanze politiche, ma in commissione consiliare, addirittura con il meccanismo del silenzio assenso. Non ci sembra questo il modo migliore, in termini di garanzie democratiche e di partecipazione, per fornire la Campania di quello che sarà probabilmente lo strumento più importante di governo del territorio.

Le associazioni firmatarie credono che non sia questa la legge della quale la nostra Regione ha bisogno. Si tratta di un provvedimento inutile, per molti versi dannoso, con aspetti sostanziali di incostituzionalità, e che indirizza alla comunità regionale un messaggio sbagliato, quello della relatività delle regole. Occorre invece, come sta avvenendo per l’evasione fiscale, una rivoluzione copernicana. Occorre ribadire con fermezza che alcune cose non si possono fare perché –proprio come l’evasione fiscale - danneggiano l’intera collettività. Chi consuma il territorio impoverisce anche te. Di questo c’è bisogno in Campania. Su questi temi siamo disposti a collaborare.

Reffaella Di Leo, Presidente Italia Nostra Campania

Michele Buonomo, Presidente Legambiente Campania

Alessandro Gatto, Presidente WWF Campania

Leggete qua. “L’inefficienza e la tolleranza degli Enti locali nel controllo del territorio e l’abusivismo dilagante e talora irresponsabile contribuiscono a determinare, oltre la distruzione di un patrimonio naturale unico al mondo, risorsa essenziale per attività economiche, investimenti e occupazione, le conseguenze disastrose che puntualmente si sono verificate anche nello scorso anno”. Non è un leader ambientalista, ma, giusto ieri, il presidente del Tar della Campania Infelix, Antonio Guida. E sapete quali sono i Comuni dove più si ricorre al Tar a difesa degli abusi edilizi? I più belli (o ex belli): Sorrento, Ischia, fra un crollo e l’altro, e Capri. Una follia suicida.

Constatato che l’abusivismo edilizio – lasciato galoppare – rappresenta “un dramma sociale”, la Giunta regionale di centrodestra ha varato il 1° marzo una legge (che vorrebbe magari far approvare in commissione…) con cui procede ad una sorta di condono mascherato travolgendo subito le norme e i vincoli vigenti. Il governatore Caldoro non usa toni sfumati: “Per gli abusi edilizi esistenti, la mia linea è chiara: riaprire i termini del condono 2003”. Questa però è materia del governo. Lui, intanto, “allenta i vincoli” (ci siamo capiti), abroga in gran fretta il Piano della Penisola sorrentina-amalfitana, e affida i controlli edilizi ai Comuni responsabili di aver avallato un disastro paesaggistico mai visto, alla cui testa c’è la camorra. Ci aveva provato Berlusconi, nel maggio scorso a fare della Campania una “zona franca” proponendo di bloccare per un semestre le ruspe anti-abusi. Il Cavaliere voleva così “valutare con serenità il problema campano”. La legalità poteva ben attendere.

Ora, la Campania, insieme a Calabria, Sicilia e Puglia, totalizza gran parte dell’abusivismo edilizio nazionale. Secondo Legambiente, dal 1950 al 2008, essa è stata fra le regioni più colpite da eventi franosi, con 431 vittime, e da inondazioni, con altre 211 vittime (fonte, Cnr-Irpi). “In un territorio così fragile in soli dieci anni sono state realizzate 60.000 case abusive, 6.000 ogni anno, 16 al giorno”. A Casalnuovo, 15 Km da Napoli, l’inviato di Ambiente Italia (Rai3), Igor Staglianò, “scoprì” nel 2007 ben 124 edifici (500 appartamenti) del tutto abusivi. Il sindaco Antonio Manna, berlusconiano, commentò: “C’ero passato in macchina, ma c’era ancora l’erba alta…” Eppure nel suo Comune si devono conoscere un po’ tutti visto che la densità per Kmq è di quasi 6.400 persone. Invece ci volle un satellite, il Marsec, messo in piedi da un gruppo di giovani sostenuti dall’allora presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone, e utilizzato dalla Regione Campania. Ci sarà ancora? Al governatore campano Stefano Caldoro (Pdl) non deve risultare granché simpatico.

Torniamo alla sua bella legge “in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio”. Avete già capito: tutela, ma, insieme, valorizzazione. Imbruttendo, dissipando il paesaggio, ci si riesce meglio. Per questo Caldoro si prende competenze non sue: la tutela del paesaggio è dello Stato. La Regione, anziché impossessarsene e ridurla a tappetino, avrebbe dovuto co-pianificare col Ministero per i Beni Culturali realizzando i sospirati piani paesaggistici. Il MiBAC, con Bondi e Galan, non ha mosso paglia. E con Ornaghi? Mistero. In una delle rare interviste ha parlato del piano-casa, non dei piani paesaggistici già in grave ritardo. Eppure, a differenza di Bondi che non c’era mai, sta al Collegio Romano dall’alba fino a notte. E allora batta un colpo. L’imbarbarimento avanza, invade il Belpaese. Con mafia, camorra, n’drangheta.

La reggia di Carditello cade a pezzi. E intorno a questo gioiello dell'architettura settecentesca, a pochi chilometri da Caserta, si allestisce una specie di danza macabra. Non bastano i ladri e i vandali che quasi ogni notte scavalcano il recinto e strappano la corona dello stemma, si avventano sulle aquile alla base dell'obelisco oppure danno fuoco a uno dei grandi platani che svettano davanti alla facciata dell'edificio, nell'arena dove i re Borbone allenavano i cavalli - i migliori nell'Europa del Settecento. Al grottesco e lugubre balletto dei saccheggiatori si aggiungono le istituzioni che dovrebbero occuparsi di questa residenza reale, costruita nel cuore di quella che un tempo era la Campania felix. E che invece scaricano le responsabilità l'una sull'altra. Lasciando che la reggia a marzo prossimo venga venduta all'asta per pochi spiccioli (poco meno di venti milioni, dopo due sedute andate a vuoto).

La reggia è di proprietà di un ente della Regione Campania, il Consorzio di bonifica del Basso Volturno, che affoga nei debiti. E che è costretto a svendere ai creditori (l'ex Banco di Napoli, ora Banca Intesa) il suo patrimonio. E quindi la reggia, finita ora sotto la custodia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Qualche settimana fa il giudice che cura la vendita ha emesso un decreto con il quale si vieta a chiunque, anche ai giornalisti, di entrare. Pericolo di crollo, dice il provvedimento. Che impedisce ai cronisti di documentare lo strazio di un patrimonio culturale, ma non ha evitato che i saccheggiatori facessero man bassa. Qualche giorno fa si è deciso di istituire una vigilanza anche notturna. Ma la notizia è stata presa come l'ulteriore, tardiva beffa in una storia triste e tragica che va avanti da tempo.

Ai ladri si sommano gli effetti dell'abbandono in cui versa la reggia. Le decorazioni, restaurate appena una decina di anni fa, rischiano di staccarsi inzuppate dall'acqua che cola nelle murature, e sono in pericolo anche i preziosi affreschi di Jakob Philipp Hackert, amico di Goethe e pittore di corte con Ferdinando IV di Borbone, aggrediti dall'umidità e dalle muffe. I ladri sono saliti fin sull'altana, da dove lo sguardo spazia sulla maglia a scacchiera della campagna aversana che, nonostante le discariche abusive e quelle legali, conserva i tratti di un paesaggio rurale fra i più celebrati. Dalle balaustre hanno staccato i pilastrini in marmo, uno dopo l'altro, scartando quelli del piano di sotto che invece sono copie. I pilastrini che si sono rotti durante il trasporto li hanno abbandonati ai piedi del recinto. I pezzi interi li hanno portati via con i camion. Ci sono volute ore, i pilastrini sono pesanti e ingombranti. Ma nessuno ha visto niente. Negli anni scorsi hanno rubato quasi tutti i caminetti, i lastroni in marmo delle scalinate e interi pezzi di pavimento. Non si erano però mai viste tante razzie come negli ultimi giorni. Ora si teme per le cornici delle porte, anch'esse di un marmo che non si trova più in circolazione.

Il Consorzio di bonifica, che in realtà si occupa di irrigazione e regimazione di acque, ha ereditato la reggia, circondata da una tenuta di oltre 2 mila ettari, dall'Opera nazionale combattenti, alla quale finì in dote negli anni Venti del Novecento. Nessuno, né i combattenti né il Consorzio, hanno mai capito che cosa fare di questa meraviglia. La tenevano lì, inscrivendola nei propri bilanci e sperando che qualcuno se l'accollasse. Negli anni Ottanta nei padiglioni laterali di Carditello venne organizzato un Museo della civiltà contadina, tenuto con molta cura. Ma poi anch'esso venne abbandonato, i solai cominciarono ad aprirsi e le tegole si sfracellavano al suolo. I pezzi più belli vennero rubati, altri furono dispersi in varie collezioni. Attualmente ci sono solo brandelli di carretti, di macine e di aratri.

Alla fine degli anni Novanta il Ministero per i Beni culturali investì cinque miliardi di lire per restaurare la parte centrale dell'edificio, la vera e propria residenza reale. Ritornarono a splendere gli stucchi verde chiaro delle volte e ripresero colore gli affreschi di Hackert, molti dei quali raffigurano il paesaggio rurale dell'intorno, attraversato da cavalli e bufale, l'acquedotto carolino e la Reggia di Caserta. Il Consorzio vi installò alcuni uffici e la Reggia, seppure con abiti burocratici, viveva. Poi la crisi: le casse del Consorzio si andavano prosciugando e l'ente agonizzava a causa dei debiti. Fra i creditori c'era l'allora Banco di Napoli, che tramite una sua società, la Sga, avviò la procedura per la vendita all'asta.

La Reggia di Carditello ha iniziato a morire giorno dopo giorno. Vuota, abbandonata, perdeva pezzi. I tetti, sfondati, lasciavano entrare la pioggia che imbeveva le murature. Gli infissi non chiudevano più, l'acqua penetrava nei grandi saloni e stagnava nei solai. La Regione Campania (era Bassolino) avviò dei progetti di restauro e di riuso dell'edificio. Il Consorzio, per iniziativa di un commissario, Alfonso De Nardo, raggiunse un'intesa con la Sga che si sarebbe accontentata di 9 milioni, evitando che la reggia finisse all'asta. Bastava che la Regione, a sua volta debitrice del Consorzio, versasse nelle casse dell'ente quanto dovuto. Ma tutto è rimasto fermo. Nel frattempo è cambiata l'amministrazione regionale. Ora il presidente Stefano Caldoro fa sapere tramite la sua portavoce che lui su Carditello non ha niente da dire. E il consiglio regionale ha appena bocciato un emendamento alla legge finanziaria che stanziava tre milioni in tre anni per pagare il debito del Consorzio e per evitare che la reggia finisse nelle mani di chissà chi.

Il Consorzio accusa la Regione. E contro la Regione si scaglia anche la Soprintendente Paola Raffaella David. Che mette Caldoro sul banco degli imputati insieme a Consorzio e Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, cercando di impedire la vendita all'asta e chiedendo l'intervento dell'Avvocatura dello Stato per fermare la procedura. D'altronde, ribattono gli imputati, non è che i Beni culturali abbiano fatto granché. E in effetti a Carditello non si è mai visto nessuno in questi anni, tantomeno ministri o alti dirigenti di quel ministero, quasi che la reggia, fastidioso ingombro, non avesse altro destino che essere abbandonata o soccombere sotto i colpi dei vandali.

L’inchiesta di Francesco Erbani e Anna Laura De Rosa con interviste e video su R’E Le inchieste

CINQUE TERRE (La Spezia) — C'è una frana invisibile. Che non fa morti. Ma annichilisce certezze e annebbia lo sguardo sul futuro. C'è aria di anno zero in questo paradiso violentato dal fango e dal dolore. Assieme alle case, ai ponti e alle strade, è il «modello Cinque Terre», frutto di un fragilissimo mix tra territorio e turismo (la tanto decantata «sostenibilità») a venire giù. Di colpo.

Quei 367 milioni di metri cubi caduti in una manciata di ore su queste terre (tanto per rendere l'idea: due volte il lago del Vajont) non hanno solo ucciso 10 persone (e 3 sono disperse), hanno anche strappato l'ultimo velo su un paradiso che per troppo tempo non ha voluto vedere il virus che lo divorava dentro. «Ci siamo venduti la terra, la casa e l'anima» dice l'ingegnere Franco Siccardi che insegna costruzioni idrauliche all'università di Genova. Il diavolo del business che divora l'angelo dell'ambiente. Il turismo unica religione. Come se Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore potessero essere governati con la logica del divertimentificio romagnolo.

Lo scrittore Maurizio Maggiani, 60 anni, ligure di Castelnuovo Magra, un Campiello e il premio Strega nel carnet, ha mirato al cuore sulSecolo XIX: «Da 30 anni si è smesso di contenere i corsi d'acqua, rinforzare le terrazze e i muretti a secco. La gente si è arricchita in un colpo solo. Oggi chi possiede anche solo una cantina non ha nessuna intenzione di lavorare». E non si è fermato qua. A rischio di tracimare anche lui, si è scagliato contro Monterosso («Non esiste più da 20 anni»), contro la politica del Parco delle Cinque Terre, la cementificazione, gli abusi.

«Maggiani sputa nel piatto dove mangia. Se siamo morti da 20 anni, come mai lui continua ad avere l'ombrellone in prima fila?». È un ringhio quello di Angelo Betta, sindaco alluvionato di Monterosso (giunta civica con simpatie di centrodestra): «Cementificazioni? Quando mai? Ma lo sapete che qui ci sono vincoli ferrei, siamo nel Parco delle Cinque Terre. È dal '77 che non si costruisce niente...». Eppure gli ambientalisti gli fanno le pulci. Un autosilo da 300 posti in cima al paese. La piscina di un hotel a picco sul mare. E poi quella storia di presunti abusi edilizi in cui è finito il senatore Luigi Grillo, potente ras di queste valli e presidente della commissione Lavori pubblici, per alcuni interventi nella sua tenuta di Buranco: che ora è nel mirino della Procura di La Spezia, ma che in passato ha avuto titoloni perché lì si produce il vino sciacchetrà davanti al quale nel 2004 Silvio Berlusconi e l'allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, sancirono la pace.

Betta artiglia ogni accusa: «Il parcheggio? Ne abbiamo bisogno come il pane: questo paese passa da 1.500 abitanti a 20 mila per 8 mesi all'anno. La piscina? Una vasca di 100 metri quadrati, tutto autorizzato. Il senatore Grillo? È solo il crollo di un muro, che la magistratura faccia pure il suo lavoro».Un tempo si arrivava alle Cinque Terre con il trenino o scarpinando per sentieri. Oggi è un brulicare di auto. L'unico modo per centrare l'obiettivo dei 5 milioni di turisti all'anno. Un tempo i muretti a secco, le «miagie», imbrigliavano i versanti e le comunità montane pagavano i contadini che ci lavoravano. Ora le «miagie» scoppiano e finiscono a valle. E i figli dei contadini fanno gli affittacamere o i bagnini. «Qui molti si sono arricchiti e a diventare povero è stato il territorio» dice l'ambientalista Claudio Frigerio, uno dei primi a puntare il dito contro la gestione del Parco da parte di Franco Bonanini, detto il «Faraone», finito in manette un anno fa con alcuni funzionari di Riomaggiore per una storia di licenze e falsi.

Ora il carrozzone è in mano al commissario Aldo Cosentino, eppure qualcosa si è fatto: aumentati gli ettari coltivati (nel 1950 erano 1.350, nel 1999 solo 80, nel 2010 sono tornati a superare i 100); obbligo di coltivare 3 mila metri quadrati per chiunque faccia anche piccoli lavori sulla casa; recuperati terrazzamenti. Una goccia nel mare. «È prevalso un modello di gestione — dice il geologo Alfonso Bellini — che trascura la conservazione dell'ambiente perché non ha un ritorno economico immediato». Il sindaco di Vernazza, Vincenzo Resasco, non nega: «Il turismo è manna, ma sappiamo che senza ambiente non c'è business...». Ecco un buon inizio per l'anno zero.

Ci provano da quasi 40 anni, sempre bloccati dentro una storia che sembrava infinita. Ma ora ce l’hanno fatta: il cemento è arrivato, “Portopiccolo” sta per diventare realtà. Una grande speculazione turistico-immobiliare in uno dei più bei tratti di costa adriatica, nella baia di Sistiana, a 15 chilometri da Trieste.

Il luogo non solo è incantevole, con il suo microclima esclusivo, ma è anche carico di storia e di reminescenze letterarie, a un passo dal castello di Duino dei conti Thurn und Taxis, dove Rainer Maria Rilke scrisse le Elegie duinesi. La baia di Sistiana era l’unico tratto di litorale rimasto verde e inalterato dopo la massiccia cementificazione di tutta la riviera nord adriatica, dalla Laguna di Venezia alla Slovenia. Lì la costa si innalza smangiata da una cava di calcare, abbandonata negli anni Settanta: con la scusa di risanare e rimarginare quella vecchia ferita, in molti hanno provato a progettare interventi. Alla fine degli anni Settanta un ex ufficiale dei corazzieri, Quirino Cardarelli, arriva dall’Aquila con un progetto firmato dall’architetto Renzo Piano: “valorizzare” la costa con un porto turistico scavato nell’anfiteatro formato dalla cava ed edifici per 250 mila metri cubi. Il comune di Duino-Aurisina approva. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ratifica.

Insorgono gli ambientalisti, il Wwf, i Verdi, i comitati locali, che denunciano la violazione della legge Galasso. Nel 1991 il ministero dei Beni culturali annulla le autorizzazioni concesse dalla Regione, giudicandole “illegittime per eccesso di potere e violazione di legge”. Subito dopo, la Fintour spa di Cardarelli affonda e nel novembre 1992 l’impresario viene arrestato per bancarotta fraudolenta.

Si fa sotto un altro imprenditore che arriva da fuori regione: questa volta è il mantovano Carlo Dodi, un venditore ambulante che distribuendo prodotti Rimmel e accessori per la Barbie, con la sua Gabbiano spa, è riuscito a diventare un ras nazionale del commercio. Dodi, in trasferta sulla costa triestina, si butta nel business immobiliare per realizzare il colpo grosso della vita. Dopo il crac di Cardarelli, la sua Immobiliare Santi Gervasio e Protasio (Sgp) riesce ad acquistare i terreni della Fintour (900 mila metri quadri) all’asta fallimentare a un terzo del loro valore, sborsando solo una dozzina di miliardi di lire. Ottiene in affitto dalla Regione anche l’area della cava dismessa (80 mila metri quadri), che poi, nel 2003, acquista per 2 milioni e mezzo di euro, conferendo poi i terreni alla sua società Sts, Servizi turistici Sistiana. La vendita è uno degli ultimi atti del presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Renzo Tondo (centrodestra), prima dell’arrivo di Riccardo Illy (centrosinistra).

Dodi riesce perfino a far cambiare una legge regionale, per poter costruire sul luogo anche prime case (fiscalmente più convenienti) e non solo insediamenti turistici. Si assicura anche un finanziamento europeo a fondo perduto di 14 milioni di euro, cui deve però rinunciare, perché i soldi andavano spesi in tempi rapidi, mentre il progetto di “riqualificazione della baia” aveva tempi più lunghi.

Intanto gli ambientalisti – il Wwf, Italia nostra, Greenaction transnational – continuano la loro battaglia contro quella che ritengono una speculazione ai danni della costa. Si unisce agli oppositori anche la forte minoranza slovena locale. Nel 1998, anche il settimanale Il Borghese aveva pubblicato inchieste di fuoco sull’affare e sulle sue coperture politiche: “Un gruppo di persone, sempre le stesse, da anni si passa la baia di Sistiana, di società in società, di fallimento in fallimento. Incassano i finanziamenti delle ipoteche concesse da banche compiacenti e non onorano i debiti”. L’allora presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Roberto Antonione (Forza Italia), aveva querelato per diffamazione, ma i giornalisti erano stati assolti. Alla fine, a opporsi restano poche voci fuori dal coro, gli irriducibili Simone Napolitano del Comitato turistico-economico Rilke, Paolo Parovel del settimanale triestino Il Tuono, Roberto Giurastante di Greenaction transnational. Articoli, inchieste, esposti alla magistratura di Trieste e alla corte di Strasburgo non ottengono, fino a oggi, alcun risultato.

Ora siamo a un passo dal traguardo. A edificare è la Rizzani De Eccher spa, colosso delle costruzioni con sede nei pressi di Udine, che si è aggiudicata un appalto di 110 milioni di euro. Così la vecchia cava sulla costa cara a Rilke viene trasformata in un grande centro immobiliare e del divertimento. Le istituzioni locali, dopo quasi quattro decenni di intrecci tra politica e affari, applaudono contente. Il sindaco di Duino-Aurisina, Giorgio Ret: “Sistiana è un bene ambientale per tutti”. La presidente della Provincia di Trieste, Maria Teresa Bassa Poropat: “Vinta la sfida: riqualificare senza offendere la naturalità del luogo, che potrà anche meglio integrare lingue e persone diverse del territorio”. E Renzo Tondo, tornato a presiedere la Regione dopo la parentesi di Illy: “Le idee camminano sulle gambe dell’uomo, la perseveranza ha vinto. Sistiana proietta il Friuli-Venezia Giulia sullo scenario internazionale”. Dietro i politici, i promotori privati brindano al successo dell’affare. Hanno già venduto in un anno il 70 per cento delle unità abitative (a costi che vanno dai 6.500 ai 7.500 euro al metro quadro) e superato il break-even dell’operazione. Ma intanto, nel luglio 2010, dopo oltre quindici anni di battaglie e proprio a un passo dal traguardo, il vincitore è apparentemente scomparso dall’affare Portopiccolo: Dodi ha passato la mano al Fondo Rilke, un fondo chiuso d’investimento immobiliare. Il project management, il controllo di gestione e di cantiere, è stato affidato alla anglo-australiana Bovis Lend Lease. Della commercializzazione si sta occupando il Gruppo Valdadige di Verona.

Che fine ha fatto Dodi? È davvero uscito dall’affare? No. Si è soltanto reso invisibile. Ha investito nel Fondo Rilke, restando però di fatto l’operatore di riferimento dell’operazione Portopiccolo. Tanto che a metterci la faccia resta sempre il suo braccio destro a Trieste, Cesare Bulfon, che ripete il suo slogan per la baia di Sistiana: “Trasformare qualcosa di devastato dall’uomo in un luogo dove gli uomini possano trovare serenità”.

Che cos’è il Fondo Rilke? Lo ha costituito nel 2010 la Serenissima sgr, controllata dalla Società autostrade di Brescia, Verona, Vicenza e Padova, concessionaria del tratto Brescia-Padova della A4. Serenissima sgr è tra le prime dieci società di gestione del risparmio in Italia attive nel settore dei fondi immobiliari, con asset per circa un miliardo di euro. Nel febbraio 2011 è passata di mano: il 51 per cento di Serenissima sgr è stato acquistato per 14 milioni di euro dalla Centrale Finanziaria di Giancarlo Elia Valori. Vecchia conoscenza dell’Italia dei poteri & dei misteri, Elia Valori è l’unico membro della P2 espulso dalla loggia di Licio Gelli perché faceva ombra al Maestro Venerabile.

Una bella coppia, potente e invisibile, l’ex venditore ambulante Dodi e il supermassone Elia Valori. Alla fine del 2013, Portopiccolo sarà pronta, promette il gentilissimo Bulfon. L’inaugurazione sarà però agli inizi del 2014, “perché le ultime piante di questo paradiso potranno essere messe a dimora soltanto a primavera”.

Qui un'ampia documentazione sulla vicenda di Baia Sistiana

L’amico del cardinal Tarcisio Bertone, l’amico di Gianpiero Fiorani (emigrato in Nigeria dove si occupa di petrolio) e il braccio destro del senatore Pdl Luigi Grillo (a sua volta legato ai furbetti del quartierino). Con una serie di società con sede in Lussemburgo e in paradisi fiscali stanno investendo centinaia di milioni, comprando mezza Liguria, pronti a sbarcare in Toscana. Cemento, pallanuoto e calcio, sono dappertutto. A cominciare dal contestato progetto per il porto di Santa Margherita.

Si parla di un investimento da 70 milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri di talassoterapia, giardini pensili e 250 box interrati in una delle località più famose del Mediterraneo. Un progetto che ha visto l’opposizione di comitati di cittadini e di liguri del calibro di Renzo Piano. Ma amministratori e giornali locali non hanno dubbi: “Si trasformerà la cittadina in un salotto eco-sostenibile”. A guardare le immagini dei rendering dello studio architettonico Gnudi sorge, però, qualche dubbio: ecco i moli, le passerelle di legno degli stabilimenti e gli enormi scalini di cemento proprio sul mare. L’architetto Giorgio Gnudi, però, assicura: “Abbiamo studiato ogni dettaglio per ridurre l’impatto. Siamo pronti a discutere”.

Ma il cemento è la punta dell’iceberg, il grosso della storia sta sotto il pelo dell’acqua. E racconta un intreccio di nomi che vantano amicizie dal Senato al Vaticano. A realizzare il nuovo porticciolo sarà infatti la società Santa Benessere & Social srl. Tra i soci c’è la Rochester Holding, società anonima lussemburghese (a sua volta controllata da società delle Isole Vergini e di Panama), un “dettaglio” che potrebbe suscitare polemiche se il Comune dovesse affidarle una concessione pubblica. Per ammissione di chi propone il progetto, la società fa capo a Gabriele Volpi. Originario di Recco, poi emigrato a Lodi e quindi in Africa, oggi risiede a Lagos (Nigeria) e guida un impero con 15 mila dipendenti e 300 milioni di patrimonio che fino a pochi anni fa risultava controllato da società offshore. È un uomo schivo, nonostante il jet personale e lo yacht da 60 metri, che ha fatto la sua fortuna fornendo appoggio logistico alle multinazionali del petrolio. Volpi ha sempre respinto le voci che lo associavano al commercio di armi: “Non ho mai avuto bisogno di fare cose del genere”. Insomma, leggende metropolitane. Volpi oggi è una potenza nella sua Liguria. Oltre alle attività edilizie si è lanciato in avventure sportive che gli procurano largo consenso: è proprietario della Pro Recco che sta sbancando il campionato italiano di pallanuoto. Suo anche lo Spezia Calcio. Ma Volpi non ha mai nascosto la sua amicizia con Fiorani (anche lui in passato interessato a investire in Liguria il frutto delle sue operazioni finanziarie). Anzi, il furbetto del quartierino dopo le disavventure giudiziarie del 2005 scelse una partita della Pro Recco per ricomparire in pubblico.

L’operazione di Santa Margherita, però, rivela altre alleanze di Volpi. Presidente di Santa Benessere & Social è Andrea Corradino (che guida anche lo Spezia Calcio). Area Pdl, Corradino è l’avvocato dell’onorevole Luigi Grillo. E qui le coincidenze si moltiplicano: Grillo, uomo del Pdl nel mondo delle banche, è stato condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per l’inchiesta Antonveneta sui furbetti. E proprio l’influenza di Grillo nel sistema bancario e nella Cassa di Risparmio della Spezia, dicono i critici, avrebbe portato Corradino alla presidenza di Carispezia.

Non basta: nel cda della Santa Benessere ecco Gianantonio Bandera, costruttore amato dalla Chiesa. Ma soprattutto dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone, ex cardinale di Genova. Bandera è membro del cda dell’impresa che sta realizzando a Roma un progetto caro al Vaticano, ma ancora più contestato di quello di Santa Margherita: auditorium, uffici e laboratori dell’ospedale Bambino Gesù (presieduto da un altro fedelissimo di Bertone, Giuseppe Profiti, condannato a sei mesi per l’inchiesta genovese di Mensopoli). Bandera è consigliere di società che fanno capo all’Amministrazione Patrimonio della Sede Apostolica ed è stato nominato dalla Curia di Genova Magistrato della Misericordia, fondazione che amministra i beni della Diocesi destinati ai poveri, un patrimonio enorme.

Ma il trio è impegnato anche nella mega operazione immobiliare nelle aree dismesse della Iml, a Recco: stadio di pallanuoto, residenze per gli atleti, hotel a 4 stelle, uffici, più gli immancabili parcheggi con residenze. Altra operazione che divide la popolazione. Nella società San Rocco Immobiliare spa ritroviamo Corradino e Bandera. Proprietaria dell’impresa è la Recina Invest, società con sede in Lussemburg, a sua volta con rimandi a Panama (Daedalus Overseas inc) e alle Isole Vergini Britanniche (Bright Global sa).

Lo stesso schema replicato a Recco nella Sant’Anna srl. Stavolta si parla del progetto di riqualificazione della piscina (con la costruzione di posti auto sotterranei in riva al mare) che sarebbe gestita dalla Pro Recco di Volpi. Basta? No, Bandera era impegnato in operazioni immobiliari nei terreni delle parrocchie della Riviera. Ma sono bruscolini, l’imprenditore pensa in grande, per diventare uno dei signori della Liguria con investimenti di almeno 200 milioni: attraverso il consorzio Lavagna Futura ha proposto un progetto di riqualificazione del porto di Lavagna, il più grande del Mediterraneo (1.300 posti barca). Poi si parla di Lerici e, dicono ambienti a lui vicini, della Toscana. Del resto a Carrara c’è già la sede di molte sue società, negli uffici del commercialista Giulio Andreani (candidato sindaco di Carrara nel 2002 con il centrodestra). Progetti realizzati contro la popolazione? No, secondo il sondaggio commissionato a Renato Mannheimer il 57% dei residenti è favorevole al porto di Santa Margherita. C’è, però, chi, come il giornalista Marco Preve, ricorda un dettaglio: “Mannheimer compare come socio o titolare di quote in diverse società che si occupano di comunicazione, finanza e immobiliare. In una di queste, la Opera Multimedia in liquidazione di Pavia, ha tra i suoi soci anche l’Union des Banques Suisses, che controlla interamente uno dei soci dell’impresa che realizzerà il porto”.

Questo governo Berlusconi sostenuto dai cosiddetti “responsabili” (ma di che?) continua a commettere atti irresponsabili nei confronti del paesaggio: urbano, extra-urbano, agrario, marittimo che sia. Pesa ancora la totale latitanza dell’ex ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, “il fantasma del Collegio Romano”, il quale ha lasciato marcire, fra le tante cose, la co-pianificazione Stato-Regioni imposta dal Codice per il Paesaggio. Dopo che aveva ceduto a tagli, indebolimenti, ridimensionamenti e commissariamenti straordinari. Ora, sempre in nome del “rilancio dell’economia” – per il quale la sola ricetta berlusconiana sembra essere il sempiterno binomio Cemento&Asfalto – il Decreto legge n.70 del 13 maggio prevede almeno due pozioni avvelenate per il nostro già deperito patrimonio. La prima riguarda l’edilizia del Novecento di proprietà pubblica (ma anche religiosa e no-profit) evidentemente per dare un robusto aperitivo “federalista” agli Enti locali ai quali, soprattutto nell’ultima fase del fascismo e in quella della ricostruzioni postbellica è andata una cospicua eredità immobiliare. L’altra concerne le spiagge demaniali soggette a concessione per le quali si è ridotto il periodo inizialmente previsto dagli scandalosi 90 anni a 20 anni (che comunque non sono poco) introducendo però il diritto di superficie e quindi la possibilità di nuove edificazioni.

Dalla legge Nasi del 1902 alla legge Rosadi del 1909, alla legge Bottai del ’39 (che inglobò in gran parte le norme giolittiane), fino all’ultima versione del Codice per il Paesaggio (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli-Settis) si è sempre prevista una tutela specifica per gli edifici di pregio architettonico con almeno 50 anni di vita non ancora vincolati. Improvvisamente questa linea normativa è stata cancellata dal solito Tremonti il quale, con decreto legge n.70, ha allungato i termini a 70 anni. In tal modo viene esposta a gravi pericoli di manomissione, trasformazione o vendita una parte fondamentale dell’architettura italiana fra guerra e dopoguerra. Le “firme” di pregio che rischiano seriamente sono quelle di Franco Albini, Giovanni Astengo, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rosers), Adalberto Libera, Pier Luigi Nervi, Ludovico Quaroni, Giuseppe Samonà e di tanti altri ancora.

Si tratta spesso di interi quartieri come il QT8 di Milano, il Quartiere INA di Cesate (Milano), la Falchera di Torino, l’INA-Casa del Tiburtino a Roma, le Torri INA di viale Etiopia sempre a Roma, il Borgo La Martella (Unnra Casa) di Matera, ecc. E ci sono in ballo le grandi opere predisposte per le Olimpiadi di Roma 1960 con due capolavori di Nervi come il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio (inaugurato nel ’59), lo stesso Palazzone all’EUR (Nervi e Piacentini), o come l’interessante Villaggio Olimpico di Libera, Luccichenti, Cafiero e Monaco.

In un appello rivolto al ministro Giancarlo Galan dall’Associazione fra i tecnici del Ministero, dalla “Bianchi Bandinelli” e dal Comitato per la Bellezza, si chiede che il nuovo titolare del Collegio Romano dia concretamente corso, in sede parlamentare, all’impegno preso davanti al Consiglio Superiore dei Beni Culturali di “fare il possibile” per eliminare le trappole del Decreto legge n.70. Anzitutto, riportando ai 50 anni il periodo dal quale far scattare la salvaguardia. Poi eliminando la norma in base alla quale i detentori di beni immobili vincolati vengono sottratti all’obbligo di notificare alle Soprintendenze il trasferimento ad altri di quegli stessi beni al fine di consentire agli uffici dello Stato di averne una mappa aggiornata. Infine cancellando il solito silenzio/assenso (una vera fissazione dei governi Berlusconi) rispolverato dal decreto qualora in 90 giorni gli uffici di tutela non rispondano alla richiesta di autorizzazione per progetti che ricadano in zone con vincolo paesaggistico. E’ vero che tale disastrosa innovazione entrerà in funzione quando saranno stati approvati i piani paesaggistici e il parere delle Soprintendenze da vincolanti diverranno obbligatori, e però la regola del silenzio/assenso va respinta, oggi, a priori.

C’è un altro “pilastro” del confuso e avvelenato Decreto Tremonti che occorre modificare a fondo: quella sugli arenili demaniali a privati. Il governo aveva “sparato” l’assurda durata di 90 anni. L’intervento del Capo dello Stato l’ha ridotta a 20 anni e però è rimasto quel diritto di superficie – in luogo del diritto di concessione - che promette soltanto altro cemento sui nostri già tanto compromessi litorali. Si pensi che in Adriatico, su 1.240 Km di spiagge, le dune sopravvissute, a uno o più cordoni, rappresentano appena il 9 % del litorale, pur ricomprendendovi il delta del Po e il Conero, che a Ostia il 90 % delle sponde risulta, legalmente o abusivamente, cementificato e sbarrato e che fra Palermo e Punta Raisi non c’è da anni un solo accesso al mare…Cosa si vuole di più e di peggio?

“Mappa di un paese in rovina. L'Italia è crollata». Questo è l'articolo che Antonio Cederna ha scritto sulle pagine della rivista Il Mondo. Ieri? No. Ben 36 anni fa! L'articolo, infatti, pubblicato nel 1975 all'indomani della costituzione del ministero dei Beni Culturali e Ambientali voluto da Giovanni Spadolini, sottolinea l'importanza di tale istituzione, vista la gravità dello stato in cui versava il patrimonio culturale e naturale del Paese. Come ieri, anche oggi, ritorna ad essere grave l'abbandono dei monumenti e dei siti archeologici. Immersi nel paesaggio, come nelle città e nelle periferie, questi, sempre più spesso, periscono fino a scomparire lasciando alle generazioni che seguiranno non "testimonianze avente valore di civiltà", ma soltanto pietre e polvere: macerie da raccogliere. L’Italia così continua a perdere pezzi della sua storia. All'ombra del Vesuvio, dopo il crollo della Schola Armatorarum nel sito archeologico di Pompei, anche il "Miglio d'Oro", un quadro spettacolare di arte e natura lungo la linea di golfo che va da San Giovanni a Torre del Greco, ha perso un'altra testimonianza storica: Villa Lauro-Lancellotti a Portici. Voluta dal principe Scipione Lancellotti nel 1776 e costruita dall'architetto Pompeo Schiantarelli, la dimora settecentesca costituiva una testimonianza unica per gli affreschi dello splendido salone cinese, danneggiato proprio dal recente crollo. Tra le 122 ville vesuviane a perire, per il grave stato di incuria e abbandono, è anche la villa d'Elboeuf, una splendida terrazza sul mare. Prima in ordine cronologico, fu voluta dal duca d'Elboeuf su disegno di Ferdinando Sanfelice, nel 1711, di cui elemento caratteristico è la doppia scala ellittica con balaustra in marmo e piperno di accesso ai due portali della facciata principale. Tuttavia altrettanti episodi di incuria si registrano anche nel cuore antico della città di Napoli, dichiarato dall'Unesco, nel 1995, Patrimonio mondiale dell'umanità. Dalla Guglia dell'Immacolata dove, a novembre, sono cadute parti della decorazione marmorea, alla chiesa di Sant'Agostino alla Zecca, dove sono crollati pezzi di piperno dall'ultimo ordine del campanile; dal Cimitero delle Fontanelle dalle cui alte pareti sono precipitati piccoli pezzi di tufo, alla chiesa di San Paolo Maggiore dove alcune decorazioni in stucco hanno ceduto all'azione del tempo. E nel Belpaese - dove l'attenzione alla tutela delle antichità ha preceduto la formazione dello Stato unitario - il Gran Tour continua, dal Nord lungo tutto lo stivale fino sue isole, nell'Italia dei disastri. Anche la Serenissima perde pezzi. Un cornicione da Palazzo Ducale, un gradino dalle fondamenta davanti a Ca' Farsetti, sede del Comune di Venezia, un masegno da Riva Sette Martiri, e, infine, una colonnina dal ponte di Rialto. Negli ultimi anni per lo storico ponte, che resiste dalla fine del '500 alle intemperie, alle vibrazioni delle imbarcazioni e al calpestio dei turisti, erano già stati lanciati allarmi per delle crepe nell'arco di volta e per il distacco di altre colonnine dalla balaustra. La sua manutenzione e, ancor più, il suo restauro sono vittime delle fitte maglie della burocrazia e della cronica carenza di fondi. Da Venezia ad Agrigento, l'Italia è un paese che "crolla". Solo pochi giorni fa, nella città siciliana, si è verificato un altro grave cedimento. In pieno centro storico un palazzo in stile barocco è completamente collassato e le macerie, di quel che fu il Palazzo Lo Jacono, ancora giacciono sul ciglio della strada. Anche nella città di Roma le testimonianze storiche cedono, esauste, alle pressioni del tempo e all'incuria dell'uomo. E’ del 30 marzo 2010 la notizia di un altro crollo nella Domus Aurea, preziosissima testimonianza di epoca neroniana. La parte coinvolta dal crollo è di circa 60 metri quadrati e ha interessato una delle gallerie traianee. La maestosa dimora, scoperta per caso alla fine del XV secolo, ricca di decorazioni a "grottesche", non mancò di ispirare gli autori del fermento artistico romano, da Perugino a Raffaello, fino a Michelangelo. Artisti celebratissimi già dai contemporanei, come si evince dalle parole di Giorgio Vasari, storiografo e pittore, il cui prezioso archivio, pervenuto fino a noi e conservato nella sua casa natale ad Arezzo, rischia oggi la vendita e la dispersione. Tra ruderi e rovine, tra la 'fuga' dai confini nazionali di importanti testimonianze e l'alterazione degli equilibri naturali, l'Italia perde la sua identità storica, patrimonio di civiltà. Sono noti a tutti gli effetti devastanti di un evento naturale quale il terremoto che ha colpito l'Abruzzo il 6 aprile 2009. Un evento naturale non è contrastabile, ma di certo i suoi effetti vanno a potenziare le linee di azione di una tutela carente come fin qui si è cercato di descrivere. La città de LAquila, particolarmente colpita da quell'evento tellurico, si è spogliata dei suoi abitanti e sta perdendo il suo patrimonio di arte e natura. Ha perso il complesso contesto di strade ed edifici, l'articolazione organica di case, piazze, giardini, «che di ogni nucleo antico di città costituisce il tono, il tessuto necessario, l'elemento connettivo, in una parola 1' ambiente vitale» - affermava Cederna nel 1991. Ora l'Italia ha un centro storico in meno e un pesante vuoto culturale in più. Tuttavia, «la lotta per la qualità della vita - scriveva Spadolini nel 1975 - è altrettanto importante della lotta per la cultura per la sopravvivenza delle testimonianze del passato. Non c'è antitesi, in prospettiva, fra paesaggio e biosfera. E non c'è neanche antitesi fra crisi dell'ambiente e crisi degli archivi di Stato. Un paese moderno si misura sulla lotta contro gli inquinamenti non meno che sulla dignitosa conservazione di una storia, che è pure parte essenziale della propria identità di nazione». Eppure, come disse Antonio Cederna nel suo articolo del 1975, «forse è ancora possibile evitare il crollo totale. Se tutti, Parlamento, governo, Regioni e Paese lo vorremo».

La reggia borbonica di Carditello, a pochi chilometri da Caserta, svetta nella piana aversana, circondata da discariche e attorniata dagli sversatoi abusivi in cui la camorra ha buttato rifiuti d'ogni specie. È in condizioni disastrose, ma il pericolo più imminente per questo capolavoro dell'architettura settecentesca non è che si stacchi ciò che resta degli affreschi di Jacob Philip Hackert oppure che i ladri si portino via, oltre ai camini e alle acquasantiere, già derubati, i fregi e i marmi delle scalinate. Il rischio è che Carditello venga venduta all'asta, al prezzo di 25 milioni (secondo un calcolo, 2,5 euro al metro quadro). E che venga venduta non si sa a chi. Ma non è difficile immaginare chi in questa piana, nel cuore di Gomorra, ha più soldi e tanto desiderio di gettarli in un'impresa pulita.

La storia di Carditello è esemplare di come in Italia marcisca un tesoro che altrove avrebbe ben diverso destino. La reggia è di proprietà del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno, un ente pubblico gravato da una serie di debiti con il Banco di Napoli, poi assorbito da Banca Intesa (ma il Consorzio accampa anche molti crediti dalla Regione e da alcuni Comuni). Ora la Banca esige il rimborso e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha avviato da qualche settimana la vendita all'asta. La procedura partirà in autunno, ma le prime sedute, si sente dire, andranno deserte e il prezzo calerà e così Carditello per poche manciate di euro diventerà, se va bene, una sala per matrimoni.

La reggia è al centro di un paesaggio a tratti miracolosamente intatto. Dall'altana, che sovrasta il corpo centrale, destinato alla residenza del re, si domina la partizione regolare delle strade che convergono verso l'edificio. Più oltre c'è Casal di Principe, il regno dei casalesi, e quasi a corona incombono le discariche Maruzzella, Casone, Santa Maria la Fossa, Parco Saurino, Ferrandelle, Pozzobianco, e poi i siti di stoccaggio dell'immondizia con milioni di balle ricoperte di teli. Terribile destino per questa zona, i Regi Lagni, dove il viceré Don Pedro di Toledo, lo stesso che disegnò i Quartieri spagnoli di Napoli, iniziò a metà del XVI secolo una monumentale bonifica. I lavori furono proseguiti dai Borbone, che realizzarono un delicatissimo reticolo di canali, con un "lagno" principale lungo 55 chilometri e una serie di piccoli affluenti a spina di pesce. Qui veniva convogliata l'acqua e così una distesa di pantani, piagata da malaria e alluvioni, si convertì in terreni fertilissimi, ospitando coltivazioni pregiate, comprese quelle del lino, e allevamenti. La sistemazione durò fino agli anni Trenta del Novecento.

Dall'altana della reggia di Carditello quella trama geometrica di canali, opera della migliore ingegneria idraulica, è ancora visibile, sebbene ridotta ad appendice di un sistema fognario. E sebbene ospiti un mortale parco di discariche abusive e legali, che soltanto una follia perversa ha immaginato di collocare in questo territorio fatto di acque che emergono e di suoli che s'inabissano. Due anni fa la Regione invitò uno dei più esperti paesaggisti europei, Andreas Kipar, per disegnare un progetto che risanasse i canali e recuperasse i terreni all'agricoltura. La tenuta intorno alla reggia di Carditello, si disse, sarebbe diventata "un orto della biodiversità".

Non se ne fece nulla.

Nonostante il territorio sia vandalizzato, Carditello resiste. Costruito nel 1787 da Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, fu usato dai sovrani come residenza di caccia e per l'allevamento di cavalli pregiati. Hackert affrescò le sale del corpo centrale e vennero decorate la cappella e le scalinate. Nei due padiglioni laterali erano sistemate le stalle, secondo moderni criteri di allevamento. Cavalli e bufale pascolavano nell'intera tenuta e qui si produceva la migliore mozzarella del regno.

L'edificio centrale è stato restaurato nel 2000, ma senza manutenzione quei lavori resistono a stento. E ogni giorno c'è un pezzo in meno. Nelle stalle venne sistemato, alla fine degli anni Settanta, un museo della civiltà contadina, i cui oggetti ora giacciono abbandonati, mentre tanti altri sono stati derubati o trasferiti altrove. Ora non c'è più niente. Le scale sono divelte. I tetti crollano, se piove entra acqua e le travi penzolano minacciose. Il cancello è chiuso. Per entrare c'è bisogno di un permesso del giudice.

Si sono mossi comitati di cittadini, moltissimi i giovani. Sono stati organizzati sit-in. "Questo territorio è devastato: perché non si fa niente per quei tesori che sono ancora in piedi?", si domanda Antonio D'Agostino, animatore del gruppo Comunità che viene.

Italia Nostra di Caserta, presieduta da Maria Carmela Caiola, sta promuovendo un appello a Giorgio Napolitano. Finché è stato in carica Antonio Bassolino, la Regione ha mostrato segni di interesse. Ma la giunta di Stefano Caldoro ha annullato i propositi dei predecessori. Eppure, dicono Alfonso De Nardo, commissario del Consorzio proprietario di Carditello, e il direttore generale Antonio De Chiara, "basterebbe che Regione e Comuni pagassero le somme che ci debbono per contributi di bonifica, e noi potremmo riacquisire Carditello e avviarne il restauro. Poi si possono immaginare varie destinazioni, da quella espositiva e museale a quelle didattiche e di ricerche fino alla promozione dei prodotti di qualità, come la mozzarella di bufala, o alla riscoperta delle antiche tecnologie e pratiche colturali". "Carditello è la Venaria del Sud", spiega Alessandro Magni dell'associazione Siti Reali. "Ma mentre sulla reggia piemontese le istituzioni sono intervenute e l'hanno trasformata in un gioiello, sede di mostre e iniziative di livello internazionale, quello casertano è un tesoro lasciato a se stesso, in uno stato di degrado assoluto".

La soluzione è apparsa più volte a portata di mano. Fra il Consorzio di bonifica, che ha intenzione di restare in possesso della reggia, e la società di recupero crediti sono in corso trattative. Ma dal sito di Carditello non si allontanano gli appetiti più minacciosi.

L’ ultima volta, due anni fa, era sceso in campo addirittura Renzo Piano. Una stroncatura netta, senza appello, da parte dell’archistar genovese per la colata di cemento che avrebbe dovuto trasformare uno dei più antichi porticcioli d’Italia, un’ansa naturale fatta apposta per pescherecci, gozzi e yacht di medie dimensioni, in un’anonima megastruttura come tante che costellano le nostre coste. Allora la sollevazione di big, intellettuali e, soprattutto, dei cittadini di Santa Margherita Ligure bloccò quella che venne ritenuta unanimemente una mera speculazione edilizia.

Ora ci riprovano e puntualmente riesplodono le polemiche. Santa Margherita non è Rapallo, simbolo nazionale dello stravolgimento ambientale, del cemento e dell’edilizia selvaggia (non a caso è stato coniato un neologismo, «rapallizzazione», per identificare il tirar su case senza rispetto del territorio) e ha sempre conservato un’alta sensibilità in difesa delle sue colorate abitazioni storiche, gli edifici ad anfiteatro affacciati sul porto, le piazzette e i vicoli pittoreschi, i negozi ricercati. Tanto da diventare approdo e rifugio per numerosissimi milanesi e torinesi, lombardi e piemontesi.

Il nuovo progetto, proposto dalla società «Santa Benessere & Social» prevede un investimento di 70 milioni di euro, un notevole ampliamento del porto e la riqualificazione della zona a sud (sono state già rilevate le licenze di tre stabilimenti balneari) con la creazione di un centro di talassoterapia sul modello della francese Saint Malo. Per quanto riguarda il porto l’obiettivo è di allungare la diga foranea di 80 metri e il molo di sottofluttuo di un centinaio di metri, con la creazione di 150 nuovi posti barca in grado di garantire lo stazionamento per tutto l’anno anche di maxiyacht di oltre 50 metri. Il centro di talassoterapia sarebbe invece dotato di 250 parcheggi interrati, 25 suites, piscine, campi da tennis, negozi e ristoranti. Secondo i promotori verrebbero garantiti 195 posti di lavoro più altri 350 nell’indotto, con una ricaduta annuale sul territorio di 31 milioni di euro.

Ma chi sono questi promotori? Si tratta di imprenditori e professionisti che stanno pianificando importanti business nel levante ligure, ma che hanno intenzione di sbarcare anche a Genova e non solo. La «Santa Benessere & Social» fa capo a una società lussemburghese, la Rochester Holding, a sua volta controllata da società domiciliate nelle Isole Vergini e a Panama, ma comunque riconducibili a Gabriele Volpi. Nato a Recco, 68 anni, uomo d’affari (ricchissimo, jet Falcon 900 da 11 posti, yacht da 60 metri, società off shore, uffici a Londra, villa sopra Santa Margherita) opera da trent’anni in Nigeria (ha anche la cittadinanza) nell’indotto del petrolio e del gas attraverso la holding Intels: possiede terminal portuali e organizza la logistica e i campi con tanto di scuole, ospedali, mense e tutti i servizi per migliaia di dipendenti Eni e Bp. Amico di Gianpiero Fiorani sin dai tempi in cui, ragazzo, lavorava alla Lodi, Volpi è proprietario della Pro Recco (che è un po’ il Barcellona della pallanuoto) e dello Spezia Calcio. Secondo alcuni sarebbe accreditato come futuro patron della Sampdoria il giorno che Riccardo Garrone passasse la mano.

Accanto a Volpi, come amministratore delegato della «Santa Benessere», troviamo il costruttore Gianantonio Bandera, uomo vicinissimo al Segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone dai tempi della sua permanenza a Genova. Proprio il cardinale lo ha voluto nel cda della Fondazione Magistrato di Misericordia che amministra immobili della curia genovese (Angelo Bagnasco che la presiede lo ha riconfermato) e nel cda della Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Padre Pio), oltre a sceglierlo fra i realizzatori del nuovo centro dell’ospedale Bambin Gesù a Roma. Presidente della «Santa Benessere», infine, è l’avvocato Andrea Corradino, presidente di Banca Carispezia (gruppo Credit Agricole), vicepresidente dello Spezia Calcio e legale di fiducia del senatore Pdl Luigi Grillo, intimo (anche per via delle comuni vicende giudiziarie) dell’ex governatore Antonio Fazio e di Fiorani. Un gruppo affiatatissimo che troviamo anche dietro ad altre due operazioni immobiliari milionarie per cambiare il volto di Recco.

Se contro il vecchio progetto di porto turistico vi fu il no compatto di intellettuali, ambientalisti e amministratori pubblici, questa volta si registrano alcuni distinguo. Il comune, con il sindaco Roberto De Marchi in testa, è possibilista. Allettato dagli ipotetici nuovi posti di lavoro in un periodo effettivamente molto difficile sul fronte occupazionale, il sindaco ha detto che il progetto è «un’ipotesi sulla quale lavorare». Rossella Rosa, presidente della delegazione Portofino Tigullio del Fai (Fondo Ambiente Italia) parla addirittura «di riqualificazione di cui c’era bisogno».

L’avvocato Francesco Maria Ortona, leader della vecchia battaglia con il movimento «Tuteliamo Santa», spara invece ancora una volta ad alzo zero. Definisce il progetto «surreale» e paventa «una rapallizzazione trent’anni dopo». Il giornalista e uomo di mare Piero Ottone teme uno snaturamento di Santa e si schiera contro il progetto. Suo un accorato appello in cui scrive: «Spero ardentemente nella conservazione di Santa Margherita così com’è, perla del Tigullio, città e porto di incomparabile bellezza, una delle poche meraviglie che siamo riusciti finora a conservare in un’Italia molto mal ridotta». E di «rischio di svendita del territorio» parlano l’associazione internazionale «Amici del Monte di Portofino» guidata da Raffaello Uboldi, l’associazione «Gente di Liguria» con Marco Depino e l’associazione «Città Futura» con Alberto Cattaneo. E Piano? Per ora tace. Anche se con Bandera ha un precedente. Il costruttore qualche anno fa aveva proposto una marina nel quartiere genovese della Foce, poco distante dalla Fiera. L’architetto liquidò così il progetto: «Un porticciolo di quelli che impestano l’Italia».

Oggi il Consiglio Regionale voterà un piano da cui dipende il destino del paesaggio. In Liguria se ne parla da mesi, ma anche i Verdi ed esponenti nazionali del Pd sono intervenuti per lanciare l’allarme: il Piano Casa voluto dal centrosinistra di Claudio Burlando ha rischiato di superare a destra le norme di Ugo Cappellacci. Capire esattamente che cosa preveda l’ultima versione per i cittadini è un rebus: ogni giorno il testo cambia, con la sinistra che chiede vincoli, ma l’assessore Idv e una parte del Pd che li tolgono.

L’assessore Idv “sbianchetta” i vincoli del Piano Casa. Senza nemmeno avvertire la sua maggioranza fa un regalo ai signori del mattone che potrebbero riversare sulla Liguria 40 milioni di metri cubi di cemento. Ormai il Piano Casa della Liguria è diventato un caso nazionale per il centrosinistra e soprattutto per il partito di Antonio Di Pietro che pure nei manifesti elettorali portava scritta in evidenza la parola “ambiente”.

Oggi il Consiglio Regionale voterà un piano da cui dipende il destino del paesaggio. In Liguria se ne parla da mesi, ma anche i Verdi ed esponenti nazionali del Pd sono intervenuti per lanciare l’allarme: il Piano Casa voluto dal centrosinistra di Claudio Burlando ha rischiato di superare a destra le norme di Ugo Cappellacci. Capire esattamente che cosa preveda l’ultima versione per i cittadini è un rebus: ogni giorno il testo cambia, con la sinistra che chiede vincoli, ma l’assessore Idv e una parte del Pd che li tolgono (per la felicità del Pdl e dei costruttori). Secondo l’ultima versione modificata in extremis il Piano sarà applicabile agli immobili parzialmente condonati (un nodo particolarmente indigesto per la sinistra), ma sarà leggermente corretta la norma più devastante che avrebbe consentito di spostare i capannoni industriali in zone residenziali e di trasformarli in case incrementando addirittura i volumi. Un disastro per l’ambiente. Secondo il nuovo testo le strutture industriali potranno essere spostate, ma se diventeranno case non potranno essere ampliate. Pare.

Ma andiamo con ordine: un mese fa l’assessore all’Urbanistica Marylin Fusco (Idv, vicepresidente della Regione) presenta quella che dovrebbe essere l’ultima versione del Piano. E pur in una Liguria ormai ricoperta dal cemento scoppia la rivolta: il Piano Casa firmato Fusco prevede ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni) fino al 35 per cento. Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Ancora: si parla di comprendere anche gli alberghi.

Insomma, sarebbe una pietra tombale sull’ambiente di una regione che campa sul turismo, ma paradossalmente punta tutto sul mattone. Angelo Bonelli, presidente nazionale della Federazione dei Verdi lancia l’allarme: “Quarantacinque milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Il piano casa della Liguria è come Attila. Per questa regione, per il suo paesaggio, ma anche per il turismo e l’economia sarebbe un colpo fatale. Sta per arrivare una seconda rapallizzazione”. Così anche una parte della maggioranza di centrosinistra si sveglia e alza la voce. Prima si decide di congelare il Piano, poi si arriva a un accordo tagliando gli aumenti volumetrici per gli edifici industriali. Marylin Fusco non nasconde la sua delusione, sostenuta paradossalmente soprattutto dal centrodestra che ha sempre sostenuto la norma.

Ma quando la battaglia sembra finita ecco la sorpresa, come ha rivelato Alessandra Costante sul Secolo XIX: il documento concordato dalla maggioranza approda in Commissione con un testo sostanzialmente modificato. Ecco ricomparire il via libera alla demolizione dei capannoni produttivi e il loro spostamento, fino a un massimo di 10mila metri cubi e con l’aumento del 35 per cento della volumetria, anche in zone residenziali senza troppi vincoli legati agli indici del Puc. Insomma, i consiglieri regionali si ritrovano davanti un documento che pare accogliere le osservazioni di Marco Melgrati, il vice presidente della commissione Attività Produttive, ex sindaco Pdl di Alassio, architetto, plurindagato per illeciti urbanistici. I consiglieri di centrosinistra fanno un salto sulla sedia: Fusco non li aveva informati delle modifiche sostanziali al documento. Non tutti, almeno. Il capogruppo del Pd, Nino Miceli, al Secolo XIX ammette: “Sì, io lo sapevo: se le obiezioni hanno un fondamento devono essere prese in considerazione”. E ricomincia la mediazione. “Abbiamo costruito un emendamento che mantiene il premio del 35 per cento per le attività produttive quando vengono delocalizzate, ma se invece c’è un cambio di destinazione d’uso e l’intervento diventa residenziale perché il Puc lo prevede, allora viene cancellato l’incremento”, spiega Miceli. Assicura: “E’ una norma più restrittiva di quella vigente”.

Ma i Verdi e i Radicali non sembrano per niente convinti. Per domani annunciano una protesta contro il Piano. Ci sarà anche Domenico Finiguerra, sindaco anti-cemento noto in tutta Italia. E pensare che dal Pd nazionale già l’anno scorso erano arrivati chiari segnali di allarme: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato il Roberto Della Seta (Pd), accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civati e Debora Serracchiani non erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”.

Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di cose che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Insomma, nonostante le accese proteste di associazioni, comitati e cittadini, nonostante i timidi dissensi, il Pd va dritto per la sua strada. Del resto negli ultimi quindici anni centrosinistra e centrodestra hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo e si sono votati al cemento. Claudio Burlando, pur con recenti ripensamenti, è stato uno dei massimi sponsor della colata di cemento che ha portato ovunque in Liguria nuovi porticcioli (siamo quasi a trentamila posti barca, uno ogni 47 abitanti). Il 12 ottobre 2005 disse: “Un mio amico di Bologna (Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Invece io dico: più ombrelloni e più porticcioli”. Così ecco nascere porticcioli di centrodestra e di centrosinistra: a Imperia 1.400 posti barca, voluti fortissimamente dall’altro Claudio (Scajola), sui quali adesso indaga la magistratura. Alla Marinella, alle foci del Magra (vicino alla Spezia), invece arriveranno quasi mille posti barca più 200 esercizi commerciali e 750 residenze realizzati da una società che fa capo al Monte dei Paschi di Siena, la “banca rossa”, e oggi è partecipata dalle cooperative. Nel cda della società sedeva il cassiere della campagna elettorale di Burlando.

Burlando negli ultimi mesi ha respinto sempre le accuse di chi parlava di un Piano Casa votato al cemento: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”. Ma in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fiorani stanno realizzando 174mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta dal centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (dove sta accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti).

Intanto a Savona le giunte di centrosinistra hanno voluto fortissimamente la colata griffata dall’architetto Ricardo Bofill che ha cambiato il volto del porto storico, a due passi dall’antica fortezza del Priamar e dalla Torretta simbolo della città. Poi c’è La Spezia, altro comune amministrato dal centrosinistra: la città ha un’occasione unica, ridisegnare e riqualificare la propria costa anche grazie a milioni di metri quadrati di aree che la Marina lascerà libere. E invece ecco il progetto per il nuovo waterfront: sponsor Lorenzo Forcieri (Pd, presidente dell’Autorità Portuale) e ancora la Regione con Marylin Fusco. Legambiente denuncia: “E’ un affare da 250 milioni di euro su un’area di 330mila metri quadrati”. Il progetto, anche questa volta griffato da un architetto straniero (José Maria Tomas Llavador) prevede due grattacieli, uno dei quali di trenta piani, che ospiteranno due alberghi a cinque stelle e poi spazi commerciali, un centro congressi, uffici, parcheggi sotterranei e le immancabili residenze.

Cemento, cemento, cemento. E pensare che, secondo le stime, in Liguria nei prossimi vent’anni la popolazione calerà di 150mila abitanti, che la regione ha già il record di case vuote (65mila) in rapporto alla popolazione. Che il turismo è attività fondamentale dell’economia (15 per cento del pil). Il voto di questi giorni sarà decisivo non soltanto per gli equilibri politici della Regione. Ma soprattutto per il futuro dell’ambiente di una delle terre più belle d’Italia.

Non abbiamo il petrolio, noi. Non abbiamo il gas, non abbiamo l'oro, non abbiamo i diamanti, non abbiamo le terre rare, non abbiamo le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d'arte.

E ce ne vantiamo. Ce ne vantiamo sempre. Fino a fare addirittura la parte dei «ganassa» («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa. Primato che, per quanto ne sappiamo, spetta all'unica «rossa» che piace al Cavaliere, la ministra del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell'Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l'Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale». Bum! E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l'esercito di terracotta di Xi'an, Petra, Sana'a e tutto il resto del pianeta? Si spartiscono gli avanzi.

Un'intervista di Marcello di Falco all'allora ministro del Turismo Egidio Ariosto sul Giornale ci ricorda che nel maggio 1979 l'Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario». Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto. E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.

Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti. Ma questa è un'aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità. Al loro fallimento. Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (Pricewaterhouse Coopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d'affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l'Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130. Umiliante.

E suicida. Non abbiamo molte altre carte da giocare. Ce lo dicono i dati del Fondo monetario internazionale e il confronto con le nuove grandi potenze. Dal 1994 a oggi, in quella che per noi è stata la Seconda Repubblica, mentre il nostro Pil cresceva di 1,9 volte in valuta corrente, inflazione compresa, quello brasiliano si moltiplicava per 3,6 volte, quello indiano per 4,9 volte, quello cinese addirittura di 11,5 volte (...).

Alla fine di gennaio del 2011 Giampaolo Visetti scriveva sulla Repubblica che «sarà il turista cinese ad alimentare la crescita dei viaggi a lungo raggio ed entro il 2015 diventerà il padrone assoluto dei pacchetti organizzati e dello shopping di lusso in Europa. Il rapporto annuale dell'Accademia cinese del turismo prevede che nell'anno in corso trascorreranno le ferie all'estero 57 milioni di cinesi (...) e il Piano turistico nazionale calcola che entro il 2015 si recheranno all'estero tra i 100 e i 130 milioni di persone, arrivando a spendere oltre 110 miliardi di euro» (...).

Peccato che non ci capiscano. L'Italia, agli occhi di Pechino, rappresenta un incomprensibile caso a sé. Dieci anni fa era la meta preferita dei pionieri dei viaggi in Europa. I cinesi amano il mito dello «stile di vita», il clima mediterraneo, la passata potenza imperiale e culturale, la moda e il lusso, la natura, la varietà gastronomica che esalta la qualità dei vini. «Eravate il punto di partenza ideale» dice Zhu Shanzhong, vicecapo dell'Ufficio nazionale del turismo cinese «per un tour europeo. Poi ci avete un pochino trascurati». Al punto che «la promozione turistica dell'Italia in Cina è inferiore a quella dei Paesi Bassi». Una follia.

Ma per capire la fondatezza dell'accusa basta farsi un giro sul portale turistico aperto dal governo italiano in cinese, www.yidalinihao.com. Costato un occhio della testa e messo su con una sciatteria suicida che grida vendetta. Per cominciare, le quattro grandi foto di copertina che riassumono l'Italia mostrano una Ferrari, una moto Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Con tanto di freccette sulla mappa che ricordano la sua centralità rispetto a Roma, Milano, Venezia e Firenze. Oddio: hanno sbagliato capitale? No, come ha scoperto il Fatto Quotidiano, è solo un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna aimiliyaluomaniehuanyingni.com (...).

Ma ancora più stupefacenti sono i video che illustrano le nostre venti regioni. Dove non solo non c'è un testo in cinese (forse costava troppo: i milioni di euro erano finiti...) ma ogni filmato è accompagnato da un sottofondo musicale. Clicchiamo il Veneto? Ecco il ponte di Rialto, le gondole, il Canal Grande, le maschere, i vetrai di Murano... E la musica? Sarà di Antonio Vivaldi o Baldassarre Galuppi, Tomaso Albinoni o Benedetto Marcello, Pier Francesco Cavalli o Giuseppe Tartini? Sono talmente tanti i grandi compositori veneziani del passato... Macché: la Carmen del francese Georges Bizet rivista dal russo Alfred Schnittke! La musica dell'Umbria? Del polacco Fryderyk Chopin. Quella della Campania? Del norvegese Edvard Grieg. Quella del Lazio? Dell'austriaco Wolfgang Amadeus Mozart. Quella dell'Abruzzo? Dell'inglese Edward Elgar. E via così: tutti ma proprio tutti i video che dovrebbero far conoscere l'Italia ai cinesi, fatta eccezione per quello della Basilicata dove la colonna sonora è del toscano Luigi Boccherini, sono accompagnati dalle note di musicisti stranieri. Amatissimi, ma stranieri (...).

Il guaio è che da molto tempo immaginiamo che tutto ci sia dovuto. Che gli stranieri, per mangiar bene, bere bene, dormire bene, fare dei bei bagni e vedere delle belle città, non abbiano altra scelta che venire qui, da noi. Che cortesemente acconsentiamo a intascare i loro soldi, quanti più è possibile, concedendo loro qualche spizzico del dolce vivere italiano. Peggio: siamo convinti che questi nostri tesori siano lì, in cassaforte. Destinati a risplendere per l'eternità senza avere alcun bisogno di protezione. Di cura. Di amore. Non è così (...).

Spiega uno studio dell'Associazione europea cementieri che l'Austria nel 2004 ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21 e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 46,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna. Solo che la Spagna ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. Insomma, di territorio ne abbiamo già consumato troppo (...).

Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul Corriere questo nostro Paese che tanto aveva amato. E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all'unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l'autodistruzione» (...).

Diamo qualche flash sullo spreco. Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell'ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme. Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico. Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art. Un disastro. Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze (...).

Dice l'Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna che quello delle opere d'arte trafugate è il terzo business mondiale del crimine dopo i traffici di droga e di armi. Eppure tra i 69.000 detenuti nelle carceri italiane all'inizio del 2011 neanche uno era in cella per avere scavato una tomba etrusca, rubato un quadro o trattato la vendita di un vaso antico a un ricettatore straniero. Se sei ricercato per «tentato furto di una mucca», come capitò all'albanese Florian Placu, puoi restare sei mesi a San Vittore. Se cerchi di vendere all'estero la statua di Caligola non vai in carcere. Se poi trovi certi giudici, puoi perfino tenerti la merce.

È successo ad Angelo Silvestri, un sub laziale denunciato per essersi «impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato». Aveva trovato, guardandosi bene dall'avvertire la soprintendenza, 28 pezzi tra i quali varie anfore antiche e un set di preziosissimi strumenti chirurgici romani con tanto di astuccio, perfettamente integri. Il pubblico ministero chiese una condanna ridicola: sei mesi e 2500 euro di multa. «Esagerato!», pensò il giudice di Latina Luigi Carta. E il 3 maggio 2004 assolse l'imputato perché «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari» (...).

C'è poi da stupirsi se i musei stranieri, davanti alla nostra richiesta che venga restituito questo o quel pezzo ricettato, che magari loro con amore custodiscono e con amore offrono in visione a milioni di visitatori, fanno resistenza pensando che quel pezzo finirà anonimamente nel mucchio delle tante ricchezze abbandonate in qualche museo di periferia?

«Revisionisti!» . L’accusa cala come una mannaia sulla storia della gloriosa Italia Nostra, fondata (tra gli altri) da Giorgio Bassani, Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Desideria Pasolini dall’Onda in un mattino romano del 1951, a un passo da piazza di Spagna. La denuncia parte da Vezio de Lucia, urbanista, autore di un centinaio di saggi sulla storia e la gestione del territorio italiano, rimosso nel 1990 dal ministro dei Lavori pubblici dc Giovanni Prandini dall’incarico di direttore generale dell’Urbanistica per la sua allergia a ogni compromesso con i privati. E, fino alle dimissioni di pochi giorni fa, consigliere nazionale di Italia Nostra. Giorni fa Goffredo Fofi, sull’Unità, ha parlato di crisi strutturale e ideologica dell’associazione.

Tutto comincia dall’ormai famoso libro Electa su Antonio Cederna (ispiratore delle storiche campagne dell’associazione) voluto dal Consiglio lombardo presieduto da Luigi Santambrogio, e ritirato dopo le dure critiche della famiglia Cederna e in seguito all’appello di prestigiosi intellettuali (Alberto Asor Rosa, Pier Luigi Cervellati, Giulia Maria Crespi, Vittorio Emiliani) che constatavano un «tradimento del pensiero» cederniano. Dice De Lucia, che ha chiesto senza successo le dimissioni di Santambrogio: «Attenzione. Quel libro non può essere interpretato come un semplice incidente di percorso, ma rappresenta un segnale di tendenza. C’è una forte corrente revisionistica rispetto alle posizioni storiche che giustificano l’esistenza stessa di Italia Nostra: ovvero il fondare la cultura del recupero, proprio grazie a Cederna, sul concetto di centro storico come "monumento complessivo"e agendo su di esso come un tutt’uno, il vedere l’urbanistica come appartenente alla sfera del potere pubblico e quindi non della mano privata» .

E dove sarebbe la crisi? «Crisi e decadenza... È in quello che l’ex sindaco Pietro Bucalossi chiamava il "rito ambrosiano". Cioè il contrattare, il negoziare con i privati che rappresenta il male dell’urbanistica milanese. Ho constatato che la maggioranza del Consiglio è su questa linea al punto da manifestare disponibilità a rivedere posizioni consolidate e acquisite. Io ne ho tratto le inevitabili conseguenze. E ho salutato» . Clima tesissimo. Anche nei simboli. Desideria Pasolini dall’Onda è l’ultima fondatrice ancora in vita da quel lontano 1951 ed è stata anche presidente del sodalizio. In molti si aspettavano una sua acclamazione a presidente onorario. Invece niente. L’acclamazione è arrivata invece dal Comitato per la bellezza di Vittorio Emiliani, ex di Italia Nostra da dieci anni, che così commenta: «Un nostro omaggio ammirato a una rara capacità di combattere. La mancata acclamazione a Italia Nostra? Ahimè, un triste segno dei tempi».

Chi non si dimette ma rimane in consiglio su posizioni critiche («La battaglia va condotta dall’interno» ) è Maria Pia Guermandi, archeologa, docente all’Istituto Beni culturali della Regione Emilia Romagna: «C’è un silenzio assordante in area milanese... Mi riferisco al Piano di governo del territorio, ai milioni di metri cubi che minacciano quel territorio, a ciò che avverrà fino all’Expo 2015. Mi sembra, purtroppo, profondamente cambiato anche l’atteggiamento sul parcheggio milanese a Sant’Ambrogio. Per anni e anni le presidenze nazionali lo avevano avversato molto duramente, adesso l’aria mi sembra sensibilmente cambiata» . Revisionismo, Guermandi? «Italia Nostra gestisce da anni il meraviglioso Bosco in città a Milano: convenzione col Comune da cui trae congrui proventi. Ora le convenzioni, per decisione della giunta Moratti, possono essere ridiscusse. Quindi l’associazione subisce un ricatto sotto traccia. Di qui il silenzio: meglio farebbe l’associazione a disimpegnarsi, a ritrovare piena libertà d’azione» .

E come reagiscono i vertici? La parola ad Alessandra Mottola Molfino, già direttore centrale della cultura al Comune di Milano, artefice della rinascita del Museo Poldi Pezzoli, presidente di Italia Nostra dal settembre 2009: «Ma quale revisionismo... Parlano le nostre battaglie, i nostri successi, le nostre campagne come quella sui "paesaggi sensibili", le cento cause che abbiamo in Italia per le devastazioni del paesaggio e che gli avvocati a noi vicini ci seguono gratuitamente. Parlano le minacce che io stessa ho ricevuto dal sindaco di Savona dopo le battaglie sulle coste...» .

Il caso di Milano, presidente? Quel «silenzio assordante» e quel «contrattare» ? «Risponderemo nei fatti oggi stesso, mercoledì 2 febbraio, alle 18.30 a Milano allo Spazio Krizia in via Manin 21. Abbiamo aderito all’appello di Libertà e Giustizia per ridiscutere il Piano di governo del territorio: 35 milioni di metri cubi in arrivo!» . L’appello è stato firmato anche da Gae Aulenti, Umberto Eco, Rosellina Archinto, Giulia Maria Crespi, Ilaria Borletti Buitoni. In quanto al merito, presidente? «Il Pgt è stato contestato e smontato pezzo per pezzo dalle osservazioni di Marco Parini, presidente della nostra sezione di Milano. Ci batteremo, eccome se ci batteremo, contro questo insensato aumento di metri cubi» .

Ma la convenzione per il Bosco in città non vi lega le mani? «È una delle eccellenze in campo nazionale, un autentico modello, abbiamo quest’affidamento da trent’anni e non abbiamo mai risparmiato critiche a nessuna amministrazione. E continueremo così» . Mottola Molfino tace per un momento: «Forse qualcuno ci vorrebbe più schierati da una parte... Forse hanno dato fastidio le campagne contro la giunta Vendola in Puglia per il massacro del Salento a colpi di campi eolici e fotovoltaici, poi ci hanno dato ragione... Ma noi a Italia Nostra abbiamo una lunga tradizione di polemiche interne. Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano...» .

Postilla

«Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano». Sono lieto di questa dichiarazione della presidente pro-tempore di Italia nostra, ben diversa della lettera personale che mi aveva inviato rimproverandomi di dar conto su eddyburg alle critiche degli eredi e di un vasto gruppo di amici di Antonio Cederna. La discussione che si è aperta nel gruppo dirigente di Italia riguarda la maggiore o minore coerenza con le proprie radici ideali che una prestigiosa istituzione culturale deve rispettare, e le modalità che è tenuta a seguire se quella coerenza vuole dismettere. E’ positivo che il dibattito si sia aperto, che sia uscito dalle stanze dell’associazione, e sono orgoglioso che i due vicedirettori di questo sito ne siano tra i protagonisti. Ma non è una discussione che possa riguardare solo l’associazione. Lo testimonia con grande efficacia Goffredo Fofi nell’articolo su l’Unità. Perciò su eddyburg continueremo a seguirne e documentarne lo sviluppo, come abbiamo fatto fin dall’inizio. (e)

Goffredo Fofi su l'Unità ha denunciato -parlando della crisi della storica associazione ambientalista- il rischio per tutti noi di abituarci all'idea della bruttezza e dell'imbecillità. L'associazione è in crisi come si sa da tempo; i in più d'un caso se ne sono occupate anche le cronache suscitando sorpresa e amarezza in chi conosce il ruolo importante da essa giocato - come Fofi ricorda -, ad esempio, sulla legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il Parco del Delta del Po, quello dell'Appia antica a Roma e in tante altre battaglie. Crisi che amareggia ancor più perché mai come in questo momento le politiche ambientali e non solo nel nostro paese appaiono decisive se vogliamo uscire da una crisi in cui danni ambientali ed economici appaiono strettamente intrecciati. Un intreccio che richiede da parte delle istituzioni un governo del territorio in cui sia superata ogni separazione. Una novità questa a cui non hanno saputo far fronte adeguatamente neppure forze politiche come i verdi che dell'ambiente avevano pur fatto la loro bandiera.

E che presenta innegabili e inedite novità anche per l'associazionismo ambientalista che non sempre se l'è cavata e se la cava bene nel rapporto con il sistema istituzionale. Sistema che a sua volta -specie in questo momento- mostra grandissime difficoltà e pesanti colpe nell'avviare finalmente un politica non più all'insegna della bruttezza e dell'imbecillità. Chi ha visto la puntata di Presa Diretta di Iacona dedicata alla bella politica e a Vassallo il sindaco di Pollica assassinato sarà rimasto probabilmente sorpreso del fatto che lui al pari del sindaco di Isola Capo Rizzuto non abbiano trovato sempre e non trovino sempre neppure nella propria parte politica il sostegno che ci sarebbe dovuti aspettare.

E non colpisce meno il fatto che in quei territori (ma la cosa non riguarda solo il Cilento o il sud) molti comuni abbiano strumenti di governo del territorio fermi agli anni sessanta-settanta. Ed è ancora più sorprendente che di questa situazione per la quale il titolo V della Costituzione dal 2001 prevedeva una vera riforma, nessuno o quasi parla né in parlamento né fuori malgrado le chiacchiere sul federalismo.

Eppure quando parliamo - tanto per fare due esempi non a caso - di bacini idrografici e di parchi parliamo si strumenti e soggetti istituzionali preposti alla gestione di aspetti decisivi della pianificazione del territorio che poi però non trovi neppure citati in un documento recente di Italia Nostra in cui si denunciano le non poche malefatte ambientali. Ecco, istituzioni e associazionismo ambientalista se non riusciranno - ognuno facendo la sua parte - a sintonizzarsi adeguatamente a questa novità difficilmente riusciranno ad evitare altre Pompei.

Uno dei compiti più urgenti di cui i pochi che si preoccupano della possibile, necessaria, indispensabile rinascita di una sinistra decente – una sinistra il cui sfacelo è in questi giorni di primarie del tutto evidente, né i nuovi dirigenti sembrano rendersene adeguatamente conto anche perché tanti di loro a questo sfacelo hanno abbondantemente contribuito e non sembra abbiano nessuna intenzione, da Torino a Napoli, di tirarsi da parte – sarebbe quello di ridar dignità a chi si occupa della cosa pubblica non solo da politico e da amministratore (ceti e professioni di cui non ci si fida più) ma da cittadino, nell’antico significato che dava alla parola citoyen la Rivoluzione francese. Da cittadino che insieme ad altri cittadini costituisce gruppi, fonda cooperative, dà vita a iniziative di protesta e di proposta, e afferma o nega a seconda del caso.

La dizione “società civile” è molto bella, ma si giustifica oggi soltanto se chi se ne fa carico impara ad annoverare tra le forme del suo intervento quello della “disobbedienza civile”. Sono convinto che l’eccessiva remissività della società civile nei confronti della politica, e in sostanza la delega ai politici delle proprie battaglie, sia una delle maggiori cause, se non la maggiore, del declino del nostro paese, e che essa sia stata favorita dai politici, che hanno continuato a sottomettere corrompere castrare per ragioni di mera rivalità tutto ciò che si muove al di fuori del loro controllo. E penso soprattutto alla tradizione politica del Pci e dei suoi eredi. Non è il caso però di dimenticare le responsabilità che le organizzazioni della società civile hanno avuto nel loro stesso declino, a volte per timidezza, più spesso per opportunismo.

Come sempre succede – e proprio per questo ogni nuova organizzazione o associazione dovrebbe tenerlo nel debito conto – alla fase “eroica” iniziale subentra nella storia di ogni iniziativa importante la fase del consolidamento e della burocratizzazione. Del compromesso. Tra le associazioni di società civile di più lunga storia, si è parlato spesso in questi giorni di Italia nostra, che venne fondata per “proteggere i beni culturali e ambientali” del nostro paese nel lontano 1955 da alcuni italiani di valore tra i quali Umberto Zanotti Bianco (un grande personaggio nella storia del volontariato e non solo, dirigente per tanti anni della Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia oggi un po’ fiacca), Trompeo, Bassani, Elena Croce eccetera, e che ha avuto in Antonio Cederna la sua colonna e, credo, il più attivo e migliore dei suoi rappresentanti. Si devono all’associazione Italia nostra, con sedi in molte città italiane, tanti risultati importanti, per esempio la legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il parco del Delta del Po, quello dell’Appia antica a Roma eccetera, tante battaglie talora vinte e talora perse e più spesso vinte (o perse) a metà o per più della metà...

Ma pian piano, e poi velocemente con la morte di Cederna, anche Italia nostra ha finito per perdere la sua fisionomia e la sua autonomia, come ha dimostrato di recente uno scandalo milanese (la pubblicazione con il nome di Cederna di testi manipolati da una dirigenza, diciamo così, filo-palazzinara, le dimissioni di un probo e acuto urbanista come Vezio De Lucia e di tanti altri, le esplicite divisioni interne che sembrano preludere a qualche scissione e alla nascita di nuove organizzazioni).

In passato, Italia nostra è stata accusata a torto da certa sinistra di essere troppo borghese e un tantino snob, e in questo c’era qualcosa di vero, ma quella sinistra, tutta proiettata sulle tematiche dello sviluppo, aveva anche il torto di una grande insensibilità “ecologica”, di considerare con molta sufficienza le lotte per la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico. Che si sono invece rivelate centrali, fondamentali. Chiedersi se Italia nostra supererà la crisi che sta attraversando, è chiedersi se sarà in grado l’Italia di superare la crisi che sta attraversando, ma questo dipende anche dai singoli, da ciascuno di noi. In un saggio recente e importante, Salvatore Settis ricostruisce e analizza il disastro ambientale legandolo strettamente al degrado civile (Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi), e si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, e come si dovrebbe cercare di rimediare alla luce dei dettami della Costituzione.

Dipende da noi, egli dice, da ciascun cittadino. Si spera che all’interno di Italia nostra vincano i “nostri” e non i politici, e tantomeno i distruttori dell’ambiente e della bellezza stessa del paese, con tutti i loro complici; si spera che Italia nostra possa diventare un punto di riferimento attivo per gli indignati e gli esasperati, ma insistendo sull’attivo, sulla concretezza delle buone proposte, e anche delle risposte al malaffare alla corruzione alla distruzione; si spera che possa riorganizzarsi, e organizzare risposte adeguate alla vastità e profondità del disastro ambientale che questi ultimi trent’anni hanno enormemente accresciuto, facendo berlusconianamente del Bel Paese un paese isterico e imbecille, e sempre più brutto.

Gli avevano dato un nome altisonante: «Operazione Vesuvia». L’obiettivo? Ambizioso: convincere ad andar via i campani residenti nella «zona rossa», la zona a rischio più vicina al Vesuvio. La giunta Bassolino, nel novembre 2003, con l’articolo 5 della legge regionale pose il vincolo di inedificabilità su 250 chilometri quadrati di territorio. La notte del 21 dicembre scorso, però, il Consiglio regionale della Campania ha inserito senza grande clamore all’interno del nuovo Piano casa una modifica al vincolo di inedificabilità: si potranno ristrutturare gli immobili esistenti «anche mediante demolizione e ricostruzione in altro sito, in coerenza con le previsioni urbanistiche vigenti, a condizione che almeno il 50%della volumetria originaria dell’immobile sia destinata ad uso diverso dalla residenza».

Detto in parole povere, anche edifici fatiscenti o finora usati come ufficio potranno diventare al 50%nuove abitazioni, aumentando di fatto il numero di persone che potrà andare a vivere nella zona a rischio. L’emendamento, prima firmataria la consigliera regionale di Somma Vesuviana Paola Raia (Pdl), si basa sul fatto che «gli immobili esistenti» da ristrutturare non debbano essere esclusivamente abitazioni. Una prospettiva che fa a cazzotti con lo spirito del 2003, anche se c’è da dire che il bonus di 30 mila euro proposto alle famiglie che abbandonavano la zona a rischio, negli anni si è rivelato un flop: solo 106 nuclei accettarono, e di questi molte solo fittiziamente poiché lasciarono la casa ad altri.

«Ma comunque ci provammo— riflette oggi l’ex assessore all’Urbanistica Marco Di Lello, coordinatore nazionale psi e promotore del «Progetto Vesuvia» —. Sancimmo il principio che in una zona a rischio eruzione non si può costruire. Ma vedo che si continua a governare pensando più al consenso che al bene comune: grave destinare anche solo il 50%della ristrutturazione ad abitazione». Una zona, per intenderci, dove l’ultima eruzione è stata nel 1944 (ben descritta nella sua forza distruttiva nel libro Naples ’ 44 di Norman Lewis). Ma che secondo il vulcanologo Franco Barberi «è quella a più alto rischio vulcanico nel mondo considerando l’abnorme concentrazione edilizia spintasi a poche centinaia di metri dal cratere» . Secondo Legambiente nei 18 comuni a rischio, nella zona rossa, vivono circa 600 mila persone, ed esistono 45 mila costruzioni abusive, di cui 5 mila dentro il Parco del Vesuvio.

Ma nonostante questo nell’aprile 2009 il sindaco di San Sebastiano al Vesuvio, Giuseppe Capasso, chiese all’allora governatore Bassolino un «patto speciale» per i Comuni dell’area protetta, in modo da consentire di applicare anche nella zona rossa il Piano casa berlusconiano. Ora l’introduzione di questa modifica alla legge regionale del 2003 apre nuove «possibilità» a chi finora mal sopportava il vincolo di inedificabilità. Anche se l’assessore regionale all’Urbanistica Edoardo Cosenza, interpellato, esclude che attraverso questo emendamento si possa aprire un nuovo varco all’edificabilità nella zona a rischio: «Lo spirito dell’emendamento presentato dalla maggioranza era di ridurre dal 100%di uso abitativo al 50%di uso abitativo. Ma se l’emendamento, come sembra, non è chiaro e si espone a diverse interpretazioni, mi impegno a chiarirlo nel regolamento attuativo. Perché lo prometto: neanche un cittadino in più dovrà entrare nella zona rossa».

L´episodio di Pompei è l´ultimo atto del degrado dei beni culturali: uno stato di abbandono che distrugge la memoria storica e i suoi luoghi più importanti - Sono vitali alla riflessione storica e ricorrono nell´arte e nella letteratura - Sono parte della nostra tradizione e parlano delle nostre origini - Non basta dichiarare l´emergenza ma occorre "curare" il dissesto idrogeologico senza inutili strumentalizzazioni

Secondo il grande storico dell´arte cinese Wu Hung (professore a Chicago), nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle; le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell´arte e nella letteratura. Per Chateaubriand (in una celebre frase del Génie du Christianisme, 1802), «tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine», a causa di un sentimento del sublime destato dal contrasto fra la condizione umana e la caduta degli imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano. Secondo un saggio di Georg Simmel (1919) «il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un´opera dell´uomo possa esser percepita come un prodotto della natura», della sua potenza distruttrice. J. B. Jackson, che il New York Times definì «il massimo scrittore sulle forze che hanno forgiato la terra occupata dalla nazione americana» scrisse nel 1980 un prezioso libretto, The Necessity for Ruins.

Secondo Jackson (americano, ma nato e morto in Francia), le città americane fanno enormi sforzi per costruirsi una memoria storica artificiale, creata a partire da oggetti visibili che vengono reinterpretati come monumenti, landmarks; ma anche creando dal nulla rovine fittizie, prêtes-à-porter di marca hollywoodiana, come i saloons "ricostruiti" in tante piccole città del Nevada. Anche le finte rovine hanno una prodigiosa efficacia sociale: presuppongono e incorporano le rovine della storia e quelle dell´immaginazione, ricreano un passato "vero" non perché dimostrabile, ma perché "tipico". Il gesto di invenzione della tradizione viene implicitamente legittimato come "ricostruzione" di una tradizione "autentica", che interpreta un´esigenza quasi religiosa di memoria collettiva. Scrive Jackson: «solo le rovine danno un incentivo efficace per la rinascita, per un ritorno alle origini. È necessario un intervallo di morte o di oblio, prima che possa davvero parlarsi di rinnovamento o di riforma».

Pensieri consolanti, in un Paese che va, moralmente e fisicamente, in rovina? È davvero necessario che Pompei e la Domus Aurea cadano a pezzi, per innescare nei cittadini una qualche voglia di riscossa? Dopo la frana di Giampilieri di un anno fa (18 morti), dobbiamo aspettare che franino l´una e l´altra sponda dello Stretto per accorgerci che non basta "dichiarare l´emergenza" come fece allora il governo, ma bisogna "curare" il dissesto idrogeologico anziché posare le prime pietre di un faraonico Ponte? Ma la riflessione sulle rovine, nella tradizione occidentale, non è consolatoria, è tragica.

Il detto famoso di Beda il Venerabile («Finché starà il Colosseo, starà Roma; e finché starà Roma, starà il mondo») non è un grido di trionfo, è un ammonimento e un allarme. Scrivendo nell´VIII secolo, Beda non si riferiva al Colosseo nel suo pieno fiorire, luogo di spettacoli che accolse per secoli decine di migliaia di spettatori, ma già (come oggi) a un gigantesco rudere che continua a morire a ogni istante, eppure vive ancora. Perciò le foto di Jack London a San Francisco dopo il terremoto del 1906 indugiano su chiese semidistrutte, ma ancora in piedi, su edifici in frammenti, ma riconoscibili. Fra la rovina (il frammento) e l´intero c´è una corrente di senso: fin quando la rovina è riconoscibile, invita il lavoro della memoria, la pietà della ricostruzione, l´intelligenza della riflessione storica. Perciò le rovine segnalano sì un´assenza, ma al tempo stesso incarnano, sono una presenza, un´intersezione fra il visibile e l´invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere "inutile" e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria). Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia, ben al di là della perdita del valore d´uso, la durata, e anzi l´eternità delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo.

Memoria di quel che fummo, le rovine ci dicono non tanto quel che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quel che per l´individuo sono le memorie d´infanzia: alimentano la vita adulta, innescano pensieri creativi, generano ipotesi sul futuro. Così le rovine (dei monumenti, delle istituzioni, dei valori) ci ricordano col loro crollo quotidiano che non possiamo essere solo spettatori. Nel segno della morte, alzano una barriera fra i viventi, sono segno di contraddizione: di qua chi al crollo reagisce con sdegno e volontà di rimedio, di là i distruttori di mestiere, che nei crolli e nelle rovine vedono solo occasioni di far bottino, e a chi si sdegna rispondono con battute e sberleffi, e l´inevitabile, miserevole invito a "non strumentalizzare" (è successo, in alcune servili reazioni dopo il recente crollo a Pompei).

Ma nelle rovine di quel che fu Roma peschiamo almeno questa citazione (da Seneca): è capace di indignazione solo chi è capace di speranza. Guardiamo dunque attentamente le rovine che si addensano intorno a noi, ma guardiamole con occhi allarmati. Hanno molto da dirci, se sappiamo interrogarle. Se non le consideriamo "inevitabili", ma prodotto di incuria a cui porre rimedio. Lasciamo alla loro morte morale chi danza cinicamente sulle rovine. Prendiamoci la vita, la lezione etica e politica che viene dalla memoria e dalla solidarietà collettiva, dalla volontà di rinascita. L´Italia lo merita.

Il buon Dio regalò a Gioia Tauro certi fondali profondi come abissi di Poseidone. Un bel giorno, pensò, quei fondali, unici in Italia a poter accogliere le immense navi porta-container del terzo millennio, renderanno finalmente la Calabria ricca e fiorente. Il cuore del traffico marittimo nel Mediterraneo. Poi vide che gli uomini non se li meritavano. E li accecò.

In alto, la banchina maggiore del porto di Gioia Tauro. A sinistra, la lapide che ricorda il ferimento di Garibaldi a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 29 agosto del 1862. A destra, l’albero nella foresta di Gambarie dove fu adagiato il generale ferito.

Sapete quanti Teu, i container che dominano il 96% (petroli esclusi) del traffico mondiale di merci, arrivano ogni settimana nel porto calabrese? 53.846. E potrebbero essere molti di più. Una miniera d’oro, sarebbero. Oro! Se non fossero subito smistati su altre navi più piccole per essere avviati verso altri porti. Sapete quanti treni partono da Gioia carichi di Teu? Uno la settimana. Uno. Cose da pazzi.

Il grosso del guadagno, infatti, spiega una relazione del ministero dei Trasporti del giugno 2008, è nel trattamento finale. Quando il container è «sdoganato, stoccato, manipolato e distribuito, supportato adeguatamente da una rete infrastrutturale efficiente. Il fatturato passa da 300 euro a 2.300 euro, l’utile da 20 euro passa a 200, il beneficio dello Stato da 110 euro a 1.000 e ogni mille unità movimentate invece di generare cinque unità lavorative ne generano 42». E in quelle tre parole, la «rete infrastrutturale efficiente», c’è la maledizione di Gioia Tauro.

Direte: come è possibile che dopo anni e anni di pensosi «bla bla» sulla necessità di privilegiare la rotaia alla gomma venga allestito un solo treno la settimana (per Bari) contro 53.846 Teu giunti nel porto calabrese? Un treno che, se sta nella media dei treni merci meridionali, ha 12 vagoni e porta 36 container, cioè uno ogni 1.495 sbarcati? E il bello è che quel treno non è manco delle Ferrovie dello Stato. Le quali, dopo avere alzato le tariffe (in modo spropositato rispetto al servizio, accusano i trasportatori) si sono ritrovate con una manciata di clienti e hanno abolito in Calabria tutti ma proprio tutti i treni merci. Una scelta suggerita da un ulteriore intoppo: sui binari verso Nord, non bastassero gli altri problemi, ci sono a Vallo della Lucania un paio di gallerie troppo piccole e qualche curva troppo stretta: i nuovi container non ci passano. Basterebbe allargare i tunnel e rettificare le curve, ma i soldi? E il tempo? Racconta Guglielmo Epifani: «Il gestore privato del porto mi ha detto: se continua così ce ne andiamo. La concorrenza di porti come quello del Cairo non riusciremo a batterla mai…». Quanto ai container caricati sui camion, auguri. Neanche il tempo di percorrere la corta bretellina costruita in tre o quattro millenni fino all’autostrada e vanno a infognarsi nel pantano della Salerno-Reggio Calabria.

Risultato: dopo essere miracolosamente salito grazie a quei fondali naturali (a Genova, per capirci, i nuovi colossi del mare non possono attraccare) fino al 23° posto nel mondo, Gioia Tauro perde colpi su colpi. Nel 2005, spiega l’ufficio studi del porto di Amburgo, era il sesto porto europeo. Oggi è l’ottavo. Era il secondo del Mediterraneo, adesso è il quarto. E la società concessionaria Mct, che occupa un numero enorme di persone (1.100 fissi più 200 «terzisti») ha visto nel 2009 un tracollo del fatturato del 26%. Da incubo il confronto con il cairota Port Said: cinque anni fa Gioia movimentava 1.539.915 container in più, oggi 670 mila in meno. Quanto alle classifiche mondiali, stendiamo un velo. Basti dire che sei anni fa il porto cinese di Xianem stava 400 mila container indietro e adesso sta quasi due milioni più avanti. Per non dire del «contorno». Come la periodica scoperta di carichi fuorilegge. C’è un piazzale pieno zeppo di 400 container che contengono merci contraffatte di ogni tipo. Uno, qualche mese fa, aveva in pancia sei tonnellate di esplosivo.

Eppure una cinquantina di chilometri più sotto, a Reggio Calabria, è raro avvertire la consapevolezza dell’occasione storica sprecata. E’ bello da togliere il fiato, «il più bel chilometro d’Italia», come lo chiamò Gabriele D’Annunzio. Di là dallo Stretto scintilla la costa siciliana: così vicina che nelle giornate limpide sembra di toccarla. Palme e magnolie dell’orto botanico che sfila lungo la strada quasi ti vengono addosso, con umori tropicali che si mischiano al profumo, prepotente, del mare. «Un paradisooo!», strillano i reggini entusiasti. Peccato per quello che c’è dietro. Cioè una delle aree urbane più violentate d’Italia, dove gli avvertimenti ai magistrati antimafia arrivano con i bazooka appoggiati fuori dalla loro porta. Benvenuti a Reggio Calabria, dove finisce la strada che non finisce mai. Quel proseguimento dell’Autosole che coi suoi viadotti entra dall’alto in città, scivolando nel caos edilizio per scendere in picchiata verso il «più bel chilometro d’Italia». L’incompiuta per antomasia.

«Un monumento all’impotenza della politica», la definì un giorno Fausto Bertinotti. Il rapporto «Sos impresa» del 2007 di Confesercenti andò oltre. «C’è chi l’ha definita il corpo di reato più lungo d’Italia». Dietro ogni curva c’è una cosca che si avventa, è camorra nel primo tratto ed è ’ndrangheta giù nelle «Calabrie». Un percorso che disegna la spartizione del potere; le betoniere e gli escavatori segnalano le «famiglie» dominanti sul territorio. Così la cartina stradale diventa un organigramma mafioso. È stato un supertestimone, Piero Speranza, un piemontese che ha riciclato in Toscana i soldi dei trafficanti calabresi, a raccontare per la prima volta come i «mammasantissima» si siano impossessati della A3. Ci fu un summit in una villa di campagna a Torremezzo di Falconara, in provincia di Cosenza. E i boss si misero subito quasi d’accordo. Era l’agosto di sei anni fa. Da quel momento ogni fornitura di calcestruzzo e ogni movimento di terra li ha assicurati la ’ndrangheta. In principio ci fu qualche regolamento di conti. Poi, tanti erano i soldi che hanno fatto scoppiare la pace.

Costruirono quei 443 chilometri in 11 anni, dal 1963 al 1974, con un costo equivalente a 5,8 milioni di euro attuali al chilometro. Senza prevedere un pedaggio perché solcava l’area più depressa del Sud. Leandra D’Antone, docente di storia contemporanea alla Sapienza è convinta che sia proprio quello il peccato originale: «Chi non paga il pedaggio non può pretendere la manutenzione necessaria a un’autostrada. Ma nemmeno la sicurezza».

E non solo per quanto riguarda la mattanza, davvero pazzesca, causata dagli incidenti stradali. E’ successo di tutto su quella strada maladetta. Di tutto. Turisti ammazzati a pistolettate. Donne strangolate nei distributori di benzina. Scheletri nei tombini di scolo delle stazioni di servizio. Agguati alle Alfette dei carabinieri. Camionisti assassinati al volante dei Tir. Neonate abbandonate in una piazzola di sosta. Rapine finite nel sangue a furgoni portavalori. Imboscate della ’ndrangheta. Di tutto. Si pensi all’episodio più conosciuto, lo spaventoso assalto all’auto della famiglia Green, turisti americani innamorati dell’Italia, concluso con l’uccisione del piccolo Nicholas.

Ecco, per capire come mai 23 anni dopo l’avvio dell’adeguamento deciso da Craxi nel 1987 non sono ancora finiti i lavori (campa cavallo!), nonostante ne fossero bastati 11 per la realizzazione, e come mai questa sistemazione costerà 22,6 milioni al chilometro, cioè quattro volte la cifra investita per la costruzione, con sommo gaudio delle cosche. Non si può che partire da qui: dal pedaggio che non c’è.

Tutto cominciò con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione, come scrisse Giovanni Russo, che quella strada rappresentava un secolo dopo «il compimento dell’Unità d’Italia». E’ terra di aspre contraddizioni, la Calabria. E c’è davvero un senso se proprio qui, nella foresta di Gambarie, nel comune di Santa Eufemia d’Aspromonte, alla fine di agosto del 1862, avvenne il primo scontro armato tra patrioti italiani. Di qua l’Eroe dei Due mondi che voleva andarsi a prendere Roma. Di là la colonna del Regio Esercito sabaudo che non voleva grane coi francesi protettori del Papa Re. Come finì lo ricordano un motivetto canticchiato da un secolo e mezzo («Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba…»), uno stivale col buco della pallottola conservato dal 1970 al Museo Centrale del Risorgimento e un cippo voluto nel 1988 (con tanto di strafalcione sulle date) da Giovanni Spadolini. Volete andarci? Il posto è struggente, la strada micidiale. Un milione di tornanti. Ma se arrivate dall’autostrada vi sembreranno leggeri. La Salerno-Reggio, con i suoi cantieri e le sue deviazioni e i suoi ingorghi e i suoi tamponamenti è peggio. Molto peggio.

Ma torniamo alla costruzione. I lavori durarono lo spazio di tre cicli elettorali: 1963, 1968 e 1972. Inutile dire che uno svincolo non si negò a nessuno. Democristiani, socialisti, comunisti... Tutti furono accontentati. È così la A3 ha un’uscita ogni 8,86 chilometri. Con il risultato che dopo, anche se avessero voluto, sarebbe stato impossibile, soltanto per il costo dei caselli, introdurre il pedaggio.

Per piegare il tracciato alle esigenze dei vari politici locali, si tuffò il nastro d’asfalto in mezzo alle montagne. Un’assurdità. Che fece allungare la strada di 40 chilometri e schizzare i costi all’insù. E fu spiegata, nella relazione del geologo Giuseppe Rogliano, scomodando Annibale: «Attraverso la valle del Savuto, infatti, Annibale, uno dei più grandi strateghi e soprattutto progettista di strade e valichi militari, raggiunse Cosenza, capitale dei Bruzi, e la sottomise, e poi, attraverso la valle del Crati, raggiunse prima la regione delle Sibariti, le cui vestigia opulente...».

Già una decina d’anni dopo il taglio del nastro inaugurale venivano fuori tutte le magagne. Da allora, i costi sono lievitati come un soufflé: da 983 milioni di euro di oggi nel 1987 a 4 miliardi nel 1997, a 6,9 nel 2004, a 9 nel 2008, a 9 miliardi 698 milioni nel 2010. E giù promesse su promesse. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro sinistrorso Nerio Nesi. «Finiremo nel 2004-2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas rispondendo alle accuse («di questo passo finiranno nel 2040») della Cgil. «Sì, nel 2008», si adegua Lunardi. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché il 29 settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Risate in aula. In quelle ore, Matteoli dichiara alle agenzie: «Sarà pronta per il 90% entro il 2014». Auguri.

Il fatto è che, oltre alle «normali» lentezze italiane, in questa opera c’è una variabile non secondaria. Si chiama ’ndrangheta. Fa venire i brividi la lettura della richiesta di arresto emanata nel 2006 dalla direzione antimafia di Reggio a carico di 52 persone affiliate alle cosche locali infiltrate negli appalti. In quel documento c’è la fredda descrizione delle regole fissate dalle «consorterie calabresi per accaparrarsi i lavori di ammodernamento dell’autostrada». A cominciare dall’imposizione di una «tassa ambientale»: così è stata battezzata la tangente da pagare alle ’ndrine, fissata nella misura del 3% dell’importo del capitolato. E poi «l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, la fornitura di materiali qualitativamente non corrispondenti al capitolato, l’imposizione di ditte amiche, l’ostracismo di quelle non gradite...». Senza contare l’obbligo per le imprese di assumere i mafiosi.

Per chi non si adeguava c’era la bomba al cantiere, la caterpillar incendiata, le minacce con la pistola. Clamoroso lo sfogo pubblico del presidente di Impregilo Massimo Ponzellini, il quale ha rivelato che negli ultimi mesi i cantieri hanno subito 181 (centottantuno) attentati. Bisogna avere fegato, per gestire un cantiere lì. Come bisogna averne per fare il magistrato alla procura di Reggio. Quale sia la situazione «ambientale», del resto, lo fa capire uno dei magistrati impegnati nelle inchieste sugli appalti dell’autostrada, rivelando la preoccupazione che le gallerie del vecchio tracciato, una volta dismesse, siano chiuse, «e chiuse bene», per evitare che i buchi nella montagna possano diventare depositi di armi, esplosivo e quant’altro.

Ma che la gente di qui sia rassegnata non si può proprio dire. Lo dimostrano le iniziative spontanee che proliferano, come Quello che non ho: una «rete della legalità» promossa dall’ex segretario della Cgil Francesco Alì. In centinaia stanno preparando una petizione al governo, sintetizzabile in tre parole: «Qui manca tutto». Il reddito medio non arriva a 13 mila euro, contro i 25 mila di Milano. Nella classifica Unioncamere del prodotto interno lordo procapite la provincia reggina è al novantaseiesimo posto: 16.215 euro nel 2008, metà di Bergamo o Brescia. La disoccupazione «ufficiale» è al 12%, ma quella reale è ben altra cosa. Un terzo dei giovani è senza reddito. Il tasso di «occupazione», che misura il numero delle persone di età compresa fra 15 e 64 anni che hanno un lavoro, si ferma al 42,9%: la media nazionale è del 58,7%. E meno male che c’è la pubblica amministrazione, che assorbe il 20% degli occupati. Senza contare la sanità, altro grande affare per quel torbido impasto fra criminalità e politica.

Il sindaco reggino Giuseppe Raffa, che ha sostituito Giuseppe Scopelliti eletto Governatore dopo aver travolto Agazio Loiero, è nei guai. Soffocato da 270 milioni di debiti, 236 decreti ingiuntivi e 473 pignoramenti, il Comune rischia il crac. Quanto abbiano pesato le spesucce del predecessore, che arrivò a noleggiare una ventina di «teledivi» della scuderia di Lele Mora perché una sera passeggiassero amabilmente in città («ma lei è Nina Moric! Possiamo fare una foto insieme?»), non si sa. Certo è che ci sono da pagare 10 milioni di bollette Enel scadute. La Acquereggine (depurazione delle acque) avanza 12 milioni. E altri 80 sono vantati dalla Regione per l’acqua potabile. Il tutto mentre l’opposizione sta per lanciare un bel siluro, il caso di una dirigente esterna voluta da Scopelliti al vertice della ragioneria comunale e auto-destinataria di compensi astronomici: 567.990 euro soltanto nei primi dieci mesi del 2010. Di più: un rapporto della Corte dei conti mette il dito nella piaga delle società partecipate dal Comune come l’Atam, l’azienda di trasporto comunale che nel 2008 ha incassato appena 18,5 milioni ma ne ha spesi 12,5 soltanto per pagare lo stipendio ai 349 dipendenti.

Una situazione che rende oggettivamente complicata per il centrodestra la prospettiva della prossima scadenza elettorale del 2011, quando a Reggio si voterà per il Comune e per la Provincia. La confusione è totale in entrambi gli schieramenti. Il Partito democratico è commissariato: affidato alle cure dell’ex sindacalista della Uil Adriano Musi. Mentre qualcuno ipotizza il ritorno, per il centrodestra, dell’ex senatore Pietro Fuda.

Sono lontani i tempi della «primavera» di Reggio, così la chiamavano i fan del sindaco Italo Falcomatà, che restituì ai reggini «il più bel chilometro d’Italia», coprendo la ferrovia che separava il centro urbano dal suo mare. L’uomo che nel 1993 fece rialzare la testa a una città ancora avvilita dallo strappo del 1970, quando il capoluogo di Regione venne assegnato a Catanzaro innescando una sanguinosa rivolta. Quarant’anni dopo i segni di quella insurrezione sono ancora ben visibili. Il primo è il Consiglio regionale, dove nel 2005, al tempo della maggioranza di centrosinistra, si arrivò a mettere per iscritto: «I membri del consiglio e del governo regionale nonché i dipendenti rifiuteranno ogni tipo di rapporto, contatto o condizionamento della mafia». Articolo uno del «Codice calabrese del buon governo». La Calabria è l’unica Regione italiana con due capoluoghi «politici». La Giunta è a Catanzaro. Il Consiglio, cioè il parlamento, è rimasto invece a Reggio Calabria. Un risarcimento. E che risarcimento: il Consiglio costa 77,5 milioni l’anno, solo per le spese correnti, e occupa circa 350 persone.

«Lo stretto necessario», giurano. «Lo stretto necessario». Tanto più che oggi, con il museo archeologico nazionale in ristrutturazione, devono ospitare i massimi tesori: i Bronzi di Riace. Scampati al tentativo del Cavaliere e dei suoi fedeli di portarli ora al G8 della Maddalena, ora a Roma per dare il via a un tour mondiale. «Provvisoriamente», hanno spiegato. Ma del «provvisorio» all’italiana, da queste parti, non è che si fidano. Così, mentre il museo veniva chiuso per ristrutturazione, i bronzi bisognosi di cure sono stati trasferiti nei locali del Consiglio regionale, dov’è stato allestito un sofisticato laboratorio separato dal pubblico da una parete di vetro. Lì dentro quei tesori, che i turisti possono comunque ammirare, sono al sicuro. Perché su una cosa a Reggio son tutti d’accordo: una volta usciti dalla città, c’è il rischio che i Bronzi non rientrino più. E Reggio perderebbe qualcosa di prezioso quanto lo status di capoluogo. Tanto più che «quelli di Roma» avrebbero una scusa buona per sfilare quei capolavori: laggiù in fondo in fondo alla Calabria sono un po’ sprecati. Accusa infida. Nel luglio del 2009 il Quotidiano ha rivelato che il Museo dov’erano custoditi ha staccato in un anno 130.696 biglietti. Quasi 24 mila in meno rispetto ai 154.227 dello zoo di Pistoia.

Arrivò il giorno in cui mezzo paese si scoprì abusivo. Per trent’anni a Palinuro, in provincia di Salerno, si è costruito senza autorizzazione in riva al mare. La procura di Vallo della Lucania ha disposto ieri il sequestro di 15 ettari nel piccolo paese della costiera cilentana. Una superficie pari a circa 40 campi da calcio, in prossimità del mare. Anche se il piano regolatore non le prevedeva, sono sorte villette, appartamenti per le vacanze e piccole abitazioni. In tutto, sono stati sequestrati 120 immobili, per un valore complessivo di circa 12 milioni di euro. Una speculazione edilizia che riguarda soprattutto piccoli proprietari, sono 81 gli indagati, la maggior parte residenti nel Comune di Centola, di cui Palinuro è frazione. Il sindaco Romano Speranza prende le difese dei suoi concittadini: «In questa zona ci sono troppi vincoli. È quasi impossibile costruire. Ora c’è stato questo sequestro fatto con tanto clamore, ma negli ultimi 30 anni dove sono state la magistratura e la sovrintendenza?».

Gli abusi sono iniziati più o meno nel 1980. Prima, nell’area posta sotto sequestro, sorgeva un villaggio del Club mediterannée. Il tour operator francese si era insediato a Palinuro nel 1954 e l’aveva lanciata come meta del turismo di massa. E dal momento che le leggi regionali vietavano la cementificazione vicino al mare, il vil-laggio turistico, che si estendeva per oltre 15 ettari, era costituito esclusivamente da tukul, capanne di legno e paglia. Nel 1980, però, il Club mediterranée non ha più rinnovato il contratto di affitto di quei terreni. I proprietari si erano resi conto che per loro era molto più conveniente costruire che non affittare. E quindi hanno cominciato a trasformare i tukul in ville.

In questo modo, è partita la speculazione. Ovviamente, non avrebbe potuto avere dimensioni così devastanti per il territorio se non ci fosse stata la connivenza delle istituzioni locali, che per trent’anni chiuso tutti e due gli occhi. Infatti anche Speranza, che nel negli anni ’80 si è battuto per fare rimanere il Club mediterranée a Palinuro, ammette: «Se ci sono tali brutture nel nostro paese non è perché siamo stati colonizzati dai marziani. Siamo noi stessi gli artefici del nostro sottosviluppo». Ilprimo cittadino, però, nonostante il sequestro, ci tiene ad aprire una polemica sui vincoli paesaggistici, secondo lui troppo rigidi: « Io combatto ogni giorno con la Sovrintendenza e con il Parco per le licenze edilizie. Ho dovuto fare i salti mortali per farmi autorizzare la costruzione di un piccolo parco giochi. Se le regole sono troppo rigorose, nell’opinione della gente, un abuso minimo finisce con l’essere equiparato a uno grande».

Non la pensa sicuramente così Alfredo Greco, il pm della Procura di Vallo che ha chiesto il sequestro. A Terra, spiega: «Quell’area è stata devastata. Da anni la magistratura prova a bloccare la lottizzazione abusiva, ma purtroppo per questo tipo di reato la prescrizione arriva prestissimo. In tutti i procedimenti giudiziari avviati in passato non si è mai arrivati a una sentenza passata in giudicato».

In vista l’allargamento dell’arteria esistente, ma la Provincia di Grosseto non ci sta - La Sat risparmierebbe più di un miliardo. I tempi però si allungano e sorge il problema degli attraversamenti

GROSSETO. I rilievi per cambiare il tracciato, a sud di Grosseto, li stanno facendo da mesi. Ora dal presidente della Sat, Antonio Bargone, arriva la conferma che, anche per le prescrizioni chieste dal Cipe, si sta lavorando per cambiare il tracciato dell’autostrada Tirrenica. Non più a monte dell’Aurelia, ma sopra all’Aurelia stessa, che sarà di fatto allargata e trasformata. Una rivoluzione che farà risparmiare a Sat più di un miliardo, ma che non va giù alla Provincia di Grosseto.

Il tratto è quello a sud della città di Grosseto, fino al confine con il Lazio, quello più pericoloso, dove ogni anno si contano i morti. A nord, dove i lavori sono iniziati a Rosignano, già è previsto che l’autostrada passi sull’Aurelia. Lo stesso avviene nel tratto laziale, fino a Civitavecchia.

In mezzo, nei Comuni di Grosseto, Orbetello e Capalbio, il progetto originario prevede un tracciato interamente a monte dell’Aurelia, con quest’ultima trasformata in strada-parco. Progetto che adesso Sat pensa di rivedere. Bargone ne aveva già parlato al Tirreno nell’aprile scorso: «Non siamo noi a voler cambiare il progetto - disse - ma è il Cipe che ce lo chiede. Anche se poi, passando sull’Aurelia, i costi complessivi scendono da 3,7 a 2,5 miliardi di euro».

Soprattutto all’altezza di Orbetello in origine era prevista una larga pancia del tracciato, che si allontanava parecchio dall’Aurelia. Una soluzione ritenuta dal Cipe troppo impattante sull’ambiente. «Prima di fare una scelta definitiva - ci disse ancora Bargone - la concerteremo comunque con le amministrazioni locali».

Ma, evidentemente, una gran concertazione non c’è stata. Visto che il presidente della Provincia, Leonardo Marras, saputo della nuova ipotesi taglia corto «È folle passare sull’Aurelia».

Le motivazioni sono legate soprattutto al gran numero di attraversamenti presenti: «A sud di Grosseto, fino al confine, ci sono adesso quasi cinquecento accessi all’Aurelia. Sono strade più o meno grandi, spesso semplici passaggi da un podere all’altro. Come si pensa di fare con 3-4 caselli? Da dove passano i residenti, gli agricoltori? Mica si possono alzare due muri e tagliare in due il territorio senza dare un’alternativa. Le altre strade, in quella zona, sono un labirinto».

I problemi sono più di uno. Da una parte ci sono aziende attraversate dal nuovo tracciato, dall’altra ci sono i tempi, che rischiano di allungarsi. Infine l’aspetto economico. E proprio su questo il presidente della Provincia ha le idee assai chiare: «Con un po’ di buona volontà una soluzione si può trovare, penso ad un tracciato che sia più basso di quello originale, ma comunque non coincidente con l’Aurelia, che resterebbe strada ottima per i collegamenti locali, con tanto di pista ciclabile. Non capisco perché lo Stato non debba contribuire alla realizzazione di un’opera come questa e si pensi di farla ripagare interamente dai pedaggi».

Contro la nuova ipotesi si scaglia anche l’Idv. Sia a livello centrale, con l’onorevole Fabio Evangelisti che annuncia un’interrogazione parlamentare, sia sul territorio: «Sono stati necessari - dice Mauro Pasquali, coordinatore provinciale - molti anni per arrivare a una conferenza dei servizi che mettesse d’accordo tutti e finalmente si era arrivati a un progetto preliminare condiviso. Oggi, invece, ecco una nuova ipotesi, senza la necessaria complanare (prevista per legge). Così anche i residenti, passati i 5 anni in cui saranno esentati dal pedaggio, dovranno pagare per ogni spostamento poiché senza alternative».

Postilla

Svolta nella pluridecennale vicenda dell’autostrada tirrenica. Il tratto maremmano è stato quello più a lungo contestato. Si sono susseguiti tracciati autostradali che tagliavano in vario modo le colline o le pianure maremmane. Le associazioni ambientaliste e gli esperti non legati alla potente SAT (Società autostrade toscane) hanno sostenuto la maggior convenienza, per i traffici di lunga percorrenza, di utilizzare l’esistete statale Aurelia correggendone il tracciato, sulla base di un progetto che l’Anas aveva già predisposto. Ma questo avrebbe impedito la “continuità autostradale”, e quindi obbligato la società privata a rinunciare a una parte dei pedaggi. Le ragioni degli oppositori al tracciato SAT e la forza delle associazioni che ne costituivano la base sociale hanno alla fine prevalso. Sembra che la SAT abbia ripiegato sulla soluzione fisica proposta dagli oppositori, e quindi sia disposta a modificare il tracciato utilizzando il tracciato (e l’area) dell’Aurelia. Meno impatto, meno occupazione di terreno, meno devastazione del paesaggio, meno soldi.

Una vittoria, da questo punto di vista. Con un “ma”. In questo modo gli abitanti che vogliono muoversi da un punto all’altro della Maremma sono obbligati a pagare il pedaggio. Si fa interprete di questo disagio il presidente della provincia di Grosseto, che si oppone alla nuova soluzione e vuole cjhe si torni alla soluzione dell’autostrada in sede proppria. Come se il consumo di suolo, spreco di risorse, impatto ambientale e distruzione del paesaggio fossero prezzi che un amministratore può accettare di pagare (di far pagare alla collettività di oggi e di domani). Insomma, il ricatto della SAT è questo: se volete il tracciato territorialmente corretto mi dovete concedere di recintare l’Aurelia. Un altro bene pubblico privatizzato.

Il ricatto si deve rifiutare. Bisogna accogliere la bocciatura del Cipe che ha indotto a scegliere il tracciato dell’Aurelia, ma bisogna ricontrattare con la SAT la concessione. Nel tratto maremmano l’autostrada deve essere aperta, chi l’attraversa non deve pagare il pedaggio; e non per solo 5 anni. Esistono certamente le modalità tecniche che lo consentono. Per lottare per questa soluzione bisogna che i difensori dell’interesse collettivo si attrezzino e sottopongano a un attento vaglio critico le convenzioni che Stato e SAT hanno stipulato. L’antico maestro Guglielmo Zambrini ci ha insegnato che con atti unilateralmente favorevoli alle società concessionarie lo stato si è spogliato perfino delle mutande, e che la costruzione di autostrade, in Italia, è per i privati un affare che produce laute e prolungate rendite, anziché onesti profitti imprenditoriali.

Pompei non è un’emergenza o un grande evento. La Corte dei Conti rinfocola la polemica dei giorni scorsi con il governo e ribadisce che la città degli scavi non è affare della Protezione civile e di delibere che possono derogare dalle leggi ordinarie. Pompei, afferma, non è minacciato da calamità naturali, mentre il governo ha sempre sostenuto questa tesi, paragonando la Città degli scavi addirittura al "pericolo Vesuvio".

La Corte dei Conti torna sulla vicenda. Per i magistrati contabili, il ministero guidato da Sandro Bondi ha sbagliato ad affidare gli scavi di Pompei a un commissario della Protezione civile. Sottolineano che «non appare corretta l’affermazione che la Corte dei Conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile». Pompei non è una calamità naturale né un grande evento. La Corte con assoluta chiarezza ribadisce che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato». Ed esclude, con un articolato parere ed entrando nel merito, che per il sito archeologico più visitato del mondo si possano ravvisare i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza. Il meccanismo è stato attivato l’anno scorso anche per le opere di manutenzione o per assicurare le guide ai turisti.

La risposta della Corte, insomma, è una secca smentita delle dichiarazioni della struttura diretta da Guido Bertolaso.

La magistratura contabile si dilunga sulla vicenda che la vede chiamata in causa nei confronti della presidenza del Consiglio. Cita leggi e regolamenti. E in un botta e risposta contraddice il comunicato del dipartimento della Protezione civile, riportato dai giornali, nel quale si afferma che la «Corte dei Conti, nell’esercizio del controllo preventivo su alcune ordinanze della Protezione civile, avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile stessa». A «fini di completezza e di informazione», precisa che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato».

La Corte - si spiega nella nota - , «impregiudicata l’eventuale questione di legittimità costituzionale della norma che ha previsto l´esenzione del controllo dei provvedimenti stessi, ha escluso la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato di emergenza per la città degli Scavi». La Corte, ha inoltre ritenuto «ingiustificato l’intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono inquadrarsi nel concetto di tutela della vita dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni. Iniziative che avrebbero potuto essere attuate da un commissario straordinario, in regime non derogatorio».

La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi.

Il comunicato della Corte dei Conti

Bisognerebbe far leggere gli articoli pubblicati in questi giorni sulla vicenda dell’Antiquarium di Ercolano al ministro dei Beni culturali Bondi, il quale, secondo me, vive su un altro pianeta. Non perché la sua espressione attonita ricordi talvolta quella di un alieno, ma perché di recente ha avuto l´audacia di dire che nelle aree archeologiche del napoletano, in particolare a Pompei, tutto è risolto. «Fatevi un giro - ha detto - lì tutto è cambiato».

Io credo che il giro dovrebbe farselo Bondi, ma senza annunciare la sua presenza, in incognito, magari in maschera. Solo in questo modo può rendersi conto di come stanno davvero le cose.

A Pompei, come a Ercolano, come nei Campi Flegrei, come nella città di Napoli. E, vorrei dire, come nel resto del Paese, nelle aree archeologiche commissariate e abbandonate al degrado, mal gestite, bloccate da una burocrazia senza senso e spesso senza cuore. Monumenti chiusi, scavi abbandonati, musei sbarrati a causa di mancanza di fondi e di personale.

La situazione di Pompei è stata denunciata decine di volte da sindacati e operatori della cultura: restauri fatti in modo grossolano, cantieri allestiti senza norme di sicurezza e tutela per il patrimonio, un commissariamento che punta più all´immagine che alla sostanza, che prova a buttare fumo negli occhi con i kolossal per coprire la mancanza di una strategia vera di rilancio culturale di Pompei.

Come stanno le cose a Ercolano, con l’Antiquarium, lo ha denunciato "Repubblica", che ha il merito di aver lanciato un dibattito davvero utile. Una struttura costruita 35 anni fa e mai aperta, con 4 mila reperti che sono conservati nel caveau di una banca invece di essere mostrati a 300 mila visitatori che ogni anno arrivano a Ercolano per ammirare i suggestivi scavi, dove alcuni settori sono addirittura chiusi, come le "terme" e il "teatro antico". E poi tanti soldi spesi altrove, e spesi male. Non mitiga l’amarezza l´annuncio dell’ennesimo finanziamento di 3 milioni. Soldi arrivati tardivamente, quando un´altra estate, ormai, si consuma così.

La scena diventa addirittura peggiore se ci spostiamo verso l´area nord. I Campi Flegrei sono conosciuti in tutto il mondo per uno straordinario patrimonio storico, archeologico, ambientale; una storia antichissima. Fin dalla Roma augustea, questa zona a nord di Napoli, era la meta per i soggiorni di nobili e imperatori, e il suo straordinario scenario naturale ha attivato la suggestione di poeti, narratori, storici, fin dai tempi di Virgilio e Dante. Oggi fa impressione scorrere l’elenco dei siti che sono chiusi al pubblico. Per ricordarlo al ministro ho dovuto elencarli in una interrogazione.

Da Pozzuoli a Bacoli e fino a Cuma, anfiteatri, templi, necropoli risultano negati alle visite. Ad esempio, a Pozzuoli, il Rione Terra, lo Stadio Antonino Pio, le necropoli di San Vito e di via Celle, che soffocano tra sterpi e rifiuti, il tempio di Serapide, che è nell´abbandono, trasformato in una sorta di palude, sommerso per metà da un pantano d’acqua fetida dove si annidano insetti. Ingresso sbarrato anche al museo archeologico di Baia (con le sale del nuovissimo allestimento), al mausoleo di Fescina a Quarto, all’antica cisterna romana delle Cento Camerelle a Bacoli, all´antica Tomba di Agrippina, sempre sulla marina di Bacoli. Altri siti sono aperti sporadicamente, e solo grazie all’opera di volontari. Basti pensare al mausoleo del Fusaro, aperto periodicamente da un’associazione di volontari, e alla Piscina Mirabilis di Bacoli, la più grande cisterna mai costruita dai Romani, che viene addirittura aperta, su richiesta, da una signora dirimpettaia, che ha le chiavi.

Di fronte a una situazione di questo tipo il ministro Bondi si vanta addirittura di aver raggiunto successi e traguardi. Ma dove sono?

L’autrice è deputato del Pd ed ex sindaco di Ercolano

Sommersa dai temi vaghi e approssimati della campagna elettorale, la legge sul "piano casa" prosegue di sottecchi il suo percorso di attuazione, che prevede, come atto finale, una delibera dei singoli Comuni ai quali è stato inopinatamente affidato il compito di individuare le eventuali aree di esclusione dall’applicazione della legge e quelle dove prevedere nuova edilizia residenziale (in parte pubblica).

Approfittando di una generale distrazione verso le apparentemente più concrete scadenze elettorali, i Comuni campani si stanno muovendo come meglio credono e ognuno di essi propone una propria interpretazione a un testo di legge scritto in maniera appositamente meschina, inesatto in più punti e incomprensibile in altri.

Tecnicamente una legge-porcata, che avvelena i pozzi della già debole urbanistica regionale, abbandonandola a un pout-pourri di regole contrastanti e normative fiacche. Tra i primi Comuni a elaborare la delibera c’è Napoli. Tentando di muoversi all’interno dell’impostazione della vigente variante al piano regolatore, il Comune quadruplica l’offerta residenziale teorica, passando dai circa 3.650 alloggi già previsti, agli oltre 10.000 che si dovrebbero realizzare applicando il piano casa in 10 ambiti e sub-ambiti di Prg e in 8 rioni di edilizia residenziale pubblica.

Di questa nuova offerta abitativa soltanto un terzo sarà edilizia residenziale sociale, il resto sarà venduto sul libero mercato senza nessuna misura perequativa. A questi alloggi si dovranno aggiungere quelli generati dall’ampliamento delle case uni e bifamiliari, dalla quantificazione incerta, ma probabilmente attorno a ulteriori 5000 vani.

Si può discutere sulla bontà o sulla necessità di prevedere tanta nuova edificazione, ma alcune riflessioni sono utili.

Raddoppiare, ad esempio, l’offerta abitativa dell’ambito Coroglio, in ossequio a una specifica "richiesta" protocollata il giorno prima della delibera da Bagnolifutura, non solo pone problemi sul controllo del processo di trasformazione dell’area e sul rapporto pubblico-privato delle trasformazioni urbane, ma, soprattutto, determina una consistente modifica urbanistica per pezzi e non organica con un orizzonte più generale di sviluppo urbano. La nuova previsione si pone, poi, come una farsesca variante di variante di variante, essendo state le capacità edificatorie della variante generale già sottoposte a congruo aumento nell’ottobre 2009.

Più positiva è, invece, l’individuazione di 8 ambiti degradati di edilizia residenziale pubblica per interventi di demolizione e ricostruzione con un incremento del 50 per cento. In questi casi, fermo restando il soddisfacimento degli standard di servizi e attrezzature pubbliche, si potrà procedere a una vera e propria ristrutturazione urbanistica utilizzando l’intervento dei privati, cui andrà l’incremento volumetrico del 50 per cento, ottenendo anche il miglioramento della qualità abitativa per migliaia di cittadini che attualmente vivono in alloggi inadeguati.

Ma a sfuggire completamente alle maglie del controllo pubblico e degli indirizzi ed equilibri del piano regolatore saranno le decine di lotti (di massimo 15.000 mq) con immobili industriali dismessi che potranno essere convertiti a parità di volume a edilizia residenziale, di cui solo un terzo di tipo sociale. In questo caso l’affidamento al caso per la trasformazione di pezzi di città, fuori da ogni tipo di disegno urbano, è pressoché totale. Soltanto nell’area Est si possono stimare in maniera sommaria circa 10.000 nuovi alloggi con un incremento di quasi 40.000 abitanti.

Tuttavia non è a Napoli che bisogna guardare per valutare nella loro enormità le regole del "piano casa", ma ai Comuni minori e, soprattutto, a quelli inclusi in aree a vincolo paesaggistico, che la legge varata dalla giunta Bassolino si è preoccupata minuziosamente di includere. In molti casi, ad esempio Castellammare di Stabia, il consiglio comunale ha pensato bene di bocciare la delibera elaborata dalla giunta, aprendo la strada all’applicazione del piano casa sull’intero territorio comunale. Ma è l’appetibilità delle aree vincolate che sta muovendo interessi ciclopici che molte amministrazioni comunali in cerca di voti, consenso e danaro, si apprestano ad accontentare. Il Comune di Vico Equense, tanto per citare uno dei territori paesaggisticamente più tutelati d’Italia, travisando in parte l’occasione offertagli dal "piano casa", ha individuato aree nelle quali poter realizzare nuova edilizia residenziale (sia sociale che da vendere sul libero mercato) per un’estensione pari alle attuali aree urbanizzate dell’intero Comune. In pratica si prevede il raddoppio delle superfici edificabili e il conseguente raddoppio del numero di abitanti. Un destino da litorale domizio, ma con tanto di delibera comunale.

In maniera non dissimile si stanno muovendo molti Comuni della costiera e, in generale, molti di quelli che ricadono in aree a vincolo paesaggistico e che un ente regionale meno smodato avrebbe escluso con chiarezza dall’applicazione, almeno parziale, del piano casa.

E invece si è ritenuto di procedere, sapendo quello che sarebbe capitato: l’espulsione dall’agenda politica della pianificazione e delle visioni di sviluppo compatibili e legate al bene paesaggio, tra gli ultimi "valori" che questa regione faticosamente conserva.

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