Intervistata da Gianni Barbacetto la scrittrice motiva la sua adesione al referendum contro l'Italicum. "Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione"
Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016
Rosetta Loy, dopo tanti romanzi, ci ha regalato un racconto dell’Italia recente (Gli anni fra cane e lupo, Chiarelettere 2009) che è una storia addolorata di un Paese sospeso e braccato, tra stragi, corruzione e cattiva politica. Oggi meriterebbe un nuovo capitolo, quella sua storia che dalla bomba di piazza Fontana arrivava fino a Berlusconi. Intanto Rosetta Loy ha messo anche la sua firma sotto l’appello per il No al referendum costituzionale. “La nostra Costituzione non deve essere ferita. Ha retto benissimo il tempo, non vedo perché stravolgerla così”. Riforma? “Piuttosto un passo verso un sistema in cui i cittadini hanno sempre meno voce. Quello che verrà consolidato è il sistema della casta che taglia fuori i cittadini. Loro decidono, noi siamo fuori. Invece democrazia vuol dire: voce ai cittadini”.
Protagonista della scena politica e promotore della riforma costituzionale è Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico. “Renzi non mi ha mai conquistato, come figura politica, ma all’inizio mi sembrava una persona decisa, uno che voleva rinnovare la politica italiana. Si eraautoproclanato rottaatore. Invece non ho visto rinnovamento. Mi pare anzi di essere tornata ai tempi della Dc, con una casta che comanda dopo aver conquistato la maggioranza: ma non la maggioranza degli elettori, la maggioranza dentro la casta dei politici”.
È cambiato anche il partito, quel Pd erede del vecchio Pci. “È cambiato moltissimo. Attenzione: io non sono una politica, quindi non so fare un discorso politico. Sono sempre stata un po’ diffidente nei confronti della politica. Però sono una cittadina che è sempre stata attenta alla storia del suo Paese e si è sempre impegnata per cercare di capire ciò che succedeva. Oggi questo impegno, per i cittadini, è diventato molto più difficile. Ed ha anche molta meno forza, meno possibilità di pesare, di incidere sulla realtà”.
L’Italia è molto cambiata, dopo gli anni “fra cane e lupo”. Anche la cultura italiana. “Un tempo cultura e politica vivevano insieme. Forse perché c’era stata la guerra, c’era stato il fascismo: c’era un interesse forte che univa cultura e politica. Questo oggi si è stemperato tantissimo. Anche la cultura, oggi, non sai dove sia. La insegui, ma è come un gabbiano che vola in cielo e non capisci dove finirà.
Invece la politica e i suoi nuovi personaggi di riferimento si occupano prevalentemente d’altro. “Maria Elena Boschi, la ministra delle riforme che ha dato la sua faccia a questo stravolgimento della Costituzione, è una delle creature di Renzi. Non è l’unica. E dietro di loro vedo occhieggiare un’altra figura: quella di Denis Verdini”.
Sacrosanta la predica (anzi, l'anatema), ma viene dal pulpito sbagliato. Peccato che dai pulpiti giusti si taccia, e, quando pure si parla, non si agisca.
Il manifesto, 12 marzo 2016
Ai vituperati giornalisti, Massimo D’Alema ne regala tali e tante sul Pd da far invidia a Beppe Grillo. Con la differenza che le bordate sparate dal primo rottamato dell’era Renzi non sono affidate al linguaggio urlato del Blog, ma recitate nel freddo e lucido linguaggio della battaglia politica e della lotta di partito.
Il giudizio di D’Alema sul gruppo dirigente del Nazareno è pesante e senza appello, sul filo delle carte bollate: le primarie sono fatte apposta «per falsificare e gonfiare» i voti. Renzi è «oggettivamente» come Berlusconi. Jobs act, Imu e riforma elettorale non hanno niente a che vedere «con un progetto riformatore». I dirigenti sono «oltre l’arroganza, siamo alla stupidità». Come quella di credere che andando con Alfano e Verdini si vince mentre si perdono tutti i voti del centrosinistra verso il quale Renzi «non ha mai nascosto il suo disprezzo».
Peccato che l’accusa a Renzi di non rispettare lo spirito dell’Ulivo, di non riconoscere a lui e a Prodi il ruolo di padri fondatori del Pd, venga da proprio dal pulpito da cui partì l’attacco al padre dell’Ulivo quando D’Alema, insieme a Bertinotti, disarcionò il governo, fu colpito da una sonora sconfitta del Pd alle elezioni regionali e poi si persuase alle sue stesse dimissioni da palazzo Chigi. Ma il j’accuse è lungo, non si salva niente e nessuno. A parte gli 80 euro, è tutto sbagliato, è tutto da rifare.
Nell’intervista al Corriere della Sera e successivamente a un seminario romano sulla politica estera, l’ex presidente del consiglio ha giocato a fare l’estremista. Non fino al punto di risparmiarsi la battuta sui «partitini di sinistra», ma senza dimenticare che se il Pd va avanti con Alfano e Verdini «nessuno può escludere che alla fine qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un partito». Però qui viene il punto. Per non finire nella ridotta di un partitino di sinistra e ricostruire una sinistra di larghe culture politiche e sociali, sarebbe più facile se chi se ne dice portatore all’interno del Pd si decidesse a lasciare Renzi al suo destino di fondatore del partito della nazione.
Invece eccole le «simpatiche minoranze» dei Cuperlo e dei Bersani, che «non riescono a incidere sulle decisioni fondamentali», come nota la perfidia di D’Alema. Tutta la ricca schiera degli oppositori del leader di Rignano abbaia alla luna e non sposta Renzi di un millimetro. Tanto che basta il bazooka dalemiano per incenerire il borbottìo delle esauste minoranze.
il manifesto che il giornale, per ragioni di spazio, ha dovuto ridurre. I sottotitoli sono nostri. 12 marzo 2016
Cedere ad Erdogan:"un assalto frontale ai caposaldi della democrazia"
Un altro pezzetto di verità che sembra emergere nel complesso mosaico di eventi e personaggi che hanno concorso alla tragedia della tortura e morte di Giulio Regeni. Una sola certezza, fin dall'inizio: fu un assassinio di Stato.
La Repubblica, 12 marzo 2016
Il Cairo. «Posso dirvi quello che so. Per il bene della verità e di Giulio, che considero un figlio». Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights, è la donna che stava aiutando Giulio Regeni nelle sue ricerche sui sindacati. È stata tra le ultime a vederlo. Soprattutto, è testimone di alcune circostanze chiave che aiutano a comprendere perché, da un certo momento in poi, Giulio diventò oggetto delle attenzioni della Polizia e dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, il Servizio segreto civile alle dipendenze del Ministero dell’Interno.
Quando ha incontrato Giulio per l’ultima volta?
«Il 19 gennaio, per parlare dell’ipotesi di un salario minimo in Egitto. Ci vedemmo qui all’Egyptian Center for Economic and social rights, dove sono responsabile dei dossier in materia di lavoro».
Lei è stata interrogata dalle autorità egiziane?
«Il 16 febbraio scorso. Sono stata sentita prima dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale e, successivamente, ma sempre nella stessa giornata dal pubblico ministero di Giza».
Cosa le hanno chiesto?
«Volevano sapere quando e come avessi conosciuto Giulio, che tipo di contributo avessi dato alle sue ricerche e, approssimativamente, quante volte lo avessi incontrato tra la fine di agosto del 2015 e il gennaio scorso. Anche se non so cosa stessero davvero cercando con le loro domande ».
Cosa?
«Furono stranamente cortesi e gentili. A cominciare dal modo con cui mi convocarono per testimoniare. Mi telefonarono senza ricorrere alla notifica ufficiale».
La stampa egiziana ha ripetutamente ipotizzato che il movente dell’omicidio potrebbe essere rintracciato nelle incomprensioni sorte tra Giulio e il sindacato degli ambulanti su un progetto di ricerca di 10 mila sterline inglesi che alla fine Giulio decise di accantonare. In particolare, si è fatto riferimento a un conflitto tra Giulio e Mohamed Abdallah, capo di quel sindacato. Un uomo dal curioso passato di giornalista per tabloid scandalistici. Lei che informazioni ha?
«Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto. Mi spiego meglio. Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo. Ma in un gioco ben più grande che ha a che vedere con lo scontro di potere in Egitto».
A quanto pare, Abdallah riteneva di dover ricevere parte delle 10 mila sterline con cui veniva finanziata la ricerca che Giulio aveva proposto e quando Giulio comunicò la sua intenzione di abbandonare il progetto Abdallah si risentì. È così?
«In realtà le cose stanno in modo diverso. Abdallah pensava che Giulio avesse deciso di rinunciare alla ricerca e quindi al finanziamento perché Giulio aveva a un certo punto smesso di parlarne con lui. In realtà, Giulio non aveva alcuna intenzione di lasciar cadere il progetto e rinunciare al suo finanziamento. Semplicemente, sapeva che la legge egiziana vieta donazioni dirette ai sindacati e dunque stava pensando a un modo alternativo per fare andare in porto il progetto. Aiutare gli ambulanti era un obiettivo di Giulio. Sfortunatamente, non abbiamo avuto abbastanza tempo per parlarne quando tornò in Egitto dalle vacanze di Natale».
Torniamo ad Abdallah e al suo sindacato. È vero che gli ambulanti sono normalmente utilizzati da Polizia e Servizi come informatori?
«È vero. Perché per stare in strada devono sottostare al controllo della Polizia. Per altro gli ambulanti furono utilizzati dal Regime durante la rivoluzione di piazza Tahrir per attaccare i manifestanti».
Proviamo a dirla così: è possibile ipotizzare che Abdallah, capo di un sindacato infiltrato da informatori, possa aver “venduto” Giulio agli apparati?
«Diciamo che io posso rispondere così. Sicuramente il capo del sindacato degli ambulanti potrebbe essere un “agente” della Polizia».
Nei giorni precedenti la sua scomparsa, Giulio le ha mai manifestato paura per qualcuno o qualcosa?
«Mai. Mi disse che Abdallah sosteneva di avere problemi finanziari ma non al punto da averne paura».
Quanti testimoni in questa storia tacciono per paura?
«Penso che i responsabili di questa vicenda siano negli apparati di sicurezza dello Stato e che se anche questo venisse alla fine ammesso, in ogni caso non si riuscirà a dargli un nome. Primo perché potrebbe trattarsi di qualche grosso papavero. Secondo, perché questo equivarrebbe ad ammettere che l’Egitto ha un governo criminale e questo non sarebbe tollerabile da Al Sisi, che vuole dare l’impressione di essere nel pieno controllo del sistema ».
L'elmetto indossato da Renzi diventa sempre più ingombrante, l'articolo 11 della Costituzione sempre più calpestato, l'Italia sempre più colonia degli UsaDa Comiso d Aviano una grade base militare per aggredire il nemico.
Antonio Mazzeo Blog, 11 marzo 2016
“Dal prossimo mese di ottobre verrà stanziato ad Aviano uno squadrone dell’US Air Force destinato al controllo aereo”. A riferirlo il console degli Stati Uniti d’America per il nord Italia, Philip Thomas Reeker, durante l’incontro svoltosi a Trieste mercoledì 9 marzo con la presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, vicesegretaria nazionale del Pd. “Contrariamente alle indiscrezioni di chiusura o ridimensionamento, Aviano è strategica per la sua posizione geografica e per le strutture presenti”, ha spiegato il console Reeker. “Saranno circa 450 persone, contando le famiglie, che giungeranno nella base aerea e la loro presenza avrà anche un impatto positivo di tipo economico sul territorio”.
“L’aumento della presenza nella base di Aviano, confermata dal console generale, è senza dubbio una notizia molto positiva ed è un ulteriore tassello negli ottimi rapporti tra Stati Uniti e Friuli Venezia Giulia”, ha commentato Debora Serracchiani. “Con Reeker ci siamo confrontati su alcuni temi che riguardano la nostra regione ma in generale tutta l’Europa, come l’immigrazione, ma è stata soprattutto un’opportunità per continuare il ragionamento avviato nella visita istituzionale a New York e Washington dello scorso ottobre che ha visto protagonista in particolare il Sistema della Ricerca regionale. A giugno organizzeremo in Friuli Venezia Giulia un forum con gli enti americani e le aree di ricerca della nostra regione”.
Quelli che giungeranno ad Aviano il prossimo autunno saranno i componenti del 606th Air Control Squadron dell’aeronautica militare Usa (circa 300 unità più familiari al seguito), sino ad oggi ospitato nella base di Spangdahlem, Germania. Il loro trasferimento in Italia era stato annunciato lo scorso anno dal Pentagono nell’ambito del cosiddetto piano European Infrastructure Consolidation (EIC), finalizzato al “consolidamento delle strutture militari statunitensi in Europa” attraverso la concentrazione di uomini e mezzi in grandi poli militari e la chiusura di piccole e costose installazioni sparse nel continente. Il 606th Air Control Squadron è un’unità di comando mobile con apparecchiature di telecomunicazione high-tech. Gli avieri possono operare in tempi brevissimi dal loro trasferimento nei teatri di guerra per “fornire il loro supporto ovunque sia necessario e trasmettere utilizzando comunicazioni radio o chat via internet”. In occasione di un dislocamento in Iraq nel 2005, la sezione armi del 606th Air Control Squadron ha coordinato più di 2.500 missioni di combattimento. Nel 2013 l’US Air Force aveva disattivato proprio ad Aviano un’unità gemella (il 603rd Air Control Squadron).
Sempre lo scorso anno il Pentagono ha deciso di trasferire nella base aerea friulana pure due squadroni di pronto intervento di pararescuemen (paracadutisti-cercatori d’uomini), il 56th e il 57th Rescue Squadron dell’US Air Force di stanza nella base britannica di Lakenheath. “Questi due squadroni sono specializzati nella conduzione di missioni di ricerca in teatri di combattimento e recupero del personale civile e militare e il loro trasferimento in Italia consentirà migliori opportunità addestrative, avvicinandoli agli hot spot regionali”, ha spiegato il comandante del 56th Rescue Squadron, col. Bernard Smith. “Da un punto di vista geostrategico, questo spostamento ci consentirà di essere ancora più agili e di rispondere più velocemente in supporto alle richieste di soccorso del personale Usa in Europa, Africa e nell’Asia sud-occidentale”.
“I nostri pararescuemen hanno la necessità di addestrarsi in condizioni e climi differenti e Aviano si trova nel luogo migliore perché assicura un facile accesso alle Alpi, al Mare Adriatico e a diversi poligoni terrestri italiani”, ha aggiunto il col. José Cabrera, comandante del 57th Rescue Squadron. Ricostituito solo nel febbraio 2015, questo squadrone è composto da una settantina di avieri ultra-specializzati denominati Guardian Angels, abilitati ad azioni di pronto intervento in mezzo al campo di battaglia, al lancio con il paracadute e all’attività subacquea e con una preparazione specifica anche in campo infermieristico-sanitario. Il rischieramento ad Aviano dei circa 350 avieri, 5 elicotteri HH-60 “Pave Hawk” (una variante più moderna e armata dei più noti UH-60A “Black Hawk”) e dei velivoli da trasporto Lockheed HC-130 “Hercules” nella disponibilità dei due squadroni sarà avviato a partire del 2017 e dovrebbe concludersi in un anno.
A preferire Aviano quale base di lancio dei due squadroni di paracadutisti-cercatori d’uomini ha certamente contribuito il sistema logistico-infrastrutturale creato in questi ultimi anni per assicurare la più ampia mobilità dei reparti di pronto impiego e dei propri mezzi da combattimento. La base è infatti una delle principale facility in Europa per le operazioni dei grandi aerei da trasporto statunitensi e funge da vero e proprio trampolino di lancio per la 173rd Airborne Brigade, la brigata aviotrasportata dell’esercito Usa di stanza a Vicenza che opera prevalentemente negli scacchieri di guerra afgani e iracheni e più recentemente anche in Ucraina ed Est Europa. Per assistere i reparti d’assalto statunitensi, ad Aviano sono entrati in funzione in particolare un grande magazzino-hangar dove vengono tenuti i materiali necessari per le operazioni di aviolancio, un centro logistico in grado di ospitare sino ad un migliaio di paracadutisti in transito e una piattaforma per le soste tecnico-operative dei velivoli da trasporto, capace di accogliere simultaneamente sino a dodici Lockheed C-130 “Hercules” o cinque Boeing C-17 “Globemaster”.
Attualmente nella grande base di Aviano operano 4.200 militari e 300 dipendenti civili statunitensi. L’infrastruttura è sede del 31st Fighter Wing di US Air Force con due squadroni dotati di cacciabombardieri F-16 (il 510th e il 555th Fighter Squadron) in grado di operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO e del Comando supremo alleato in Europa.
I due squadroni del 31st Fighter Wing sono abilitati al trasporto e al lancio di testate nucleari, armi che sono custodite all’interno della base aerea friulana. Sino al 2000 Aviano ospitava una settantina di ordigni in 18 caveau, ciascuno dei quali con una capienza massima di quattro testate. Nei mesi scorsi, le forze armate statunitensi hanno avviato il potenziamento dei sistemi di protezione dei bunker che custodiscono le testate che potrebbe portare ad una loro riduzione quantitativa (forse un massimo di 35 atomiche stoccate in 12 caveau). I lavori di ristrutturazione rientrano nell’ambizioso programma di ammodernamento nucleare varato dall’amministrazione Obama che prevede nel caso specifico di Aviano e di altre basi aeree Usa in Europa la sostituzione delle vecchie testate B61 con le nuove bombe all’idrogeno B 61-12. Queste saranno disponibili in quattro versioni (da 0.3, 1.5, 10 e 50 kilotoni), tutte a guida di precisione, che potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo, con una potenza distruttiva nettamente superiore alle vecchie testate. Per il programma di aggiornamento di circa 400-500 ordigni B61-12, Washington ha previsto una spesa di 12 miliardi di dollari. Essi saranno messi a disposizione dei bombardieri strategici B-2 e dei cacciabombardieri F-16 e Tornado PA-200 e, a partire del 2020, anche dei caccia di quinta generazione F-35 acquistati dai paesi NATO.
Un'analisi come al solito acuta del quadro della politica politicienne italiana, in particolare del centrosinistra. Ma un'inesplicabile speranza di un ravvedimento del PMR. La Repubblica, 11 marzo 2016
AFFONDA molto all’indietro e ha molte ragioni la deriva del Partito democratico, il suo logorarsi in dissoluzioni e frantumazioni, e talora indecenze, sempre più incomprensibili. Sembra tramontare per questa via la possibilità stessa di una forza riformatrice nel nostro Paese: di questo si tratta e di questo occorre ragionare.
Era ambiziosa l’idea che iniziò faticosamente a profilarsi dopo il trauma di Tangentopoli, nello scomparire dei grandi partiti del Novecento: l’idea di raccogliere i lasciti più fecondi delle principali correnti riformatrici per costruire una realtà nuova, adeguata alle nuove sfide. Non era più possibile guardare all’indietro: i funerali di Berlinguer, nell’ormai lontanissimo 1984, avevano visto l’ultimo, commosso apparire di un “popolo comunista” di cui erano crollati ormai i pilastri fondativi (dalla “centralità operaia” ai riferimenti internazionali e ad altro ancora). E Tangentopoli aveva reso solo più evidente quanto fosse deperito e degradato il riformismo cattolico nel corso di una lunga occupazione del potere.
È su questa china che il centrosinistra ha visto progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze, le proprie dinamiche interne. Ha visto moltiplicarsi burocrazie e piccoli potentati, e ha iniziato a smarrire sin regole etiche. Un altro nodo è venuto poi alla luce all’uscir di scena dei protagonisti formatisi all’alba della repubblica: la grande inadeguatezza della generazione successiva della sinistra, pur cresciuta negli anni di uno straordinario miracolo economico, di una forte apertura culturale e di un diffuso protagonismo collettivo. Qualunque sia stata la sua scelta iniziale nel partito comunista in espansione degli anni Sessanta e Settanta o nelle effimere esperienze all’esterno di esso - quella generazione mancava ora largamente alla prova, e una sua parte era già affondata con il Psi craxiano. Veniva anche da qui l’incapacità della sinistra di rivolgersi agli italiani nel momento stesso in cui il ventennio berlusconiano franava lasciando orfana, smarrita e inasprita quell’ampia parte del Paese che vi aveva creduto.
Venne soprattutto da qui il successo alle elezioni europee del 2014, in cui il Pd riconquistava tutti i suoi elettori - come non accadeva da tempo - e ne attraeva moltissimi altri. Era un dato fondamentale in un Paese che stava smarrendo la fiducia nella democrazia e due anni dopo non è facile comprendere perchè la leadership di Renzi abbia in qualche modo tradito se stessa proprio su questo nodo centrale, smarrendo l’iniziale “spinta propulsiva” e larga parte della propria credibilità. Poteva avere buone ragioni, certo, l’idea di rinnovare il Paese a partire soprattutto dall’azione di governo ma va riconosciuto che non ha retto alla prova.
Il segretario “rottamatore” è apparso sempre più prigioniero di feudatari locali, soprattutto nel Mezzogiorno; sempre più sordo ai segnali che via via venivano (si pensi almeno all’astensionismo esploso nella roccaforte emiliana); condizionato in alcune realtà, e non solo a Roma, da un partito «dannoso e pericoloso» (parole di Fabrizio Barca) che aveva preso corpo prima di lui; in estrema difficoltà nel proporre nelle più importanti città italiane una classe dirigente all’altezza del compito, e certo non stimolato da una sinistra interna a lungo silente proprio su questi aspetti.
Nell'intervista ad Aldo Cazzullo, D'Alema spara a zero su Matteo Renzi.
Corriere della sera, 10 marzo 2016
Le polemiche dopo le primarie di Roma e Napoli. Ma soprattutto la situazione in cui versa il Pd: «Una condizione gravissima» con una classe dirigente che «reagisce insultando e calunniandocon metodi staliniani. Ilpartito è in mano a persone arroganti e autoreferenzialiche vogliono distruggerlo». L’ex premier Massimo D’Alema dice al Corriere: «Nascono associazioni e gruppi, maverrà qualcuno a unirli per ricostruire il centrosinistra».E ancora: «Le primarie? Bisogna riscrivere le regole».
Massimo D’Alema, allora ci siamo? Bray candidato a Roma, Bassolino a Napoli, tutti contro Renzi, con lei regista?
«Sono sbarcato all’alba a Fiumicino dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non avevo né telefono né Internet. Non so nulla di quello che è successo in questi giorni. So solo che il Pd versa in una condizione gravissima, e la classe dirigente reagisce insultando e calunniando con metodi staliniani».
Lei a Roma sostiene Bray, sì o no?
«Massimo Bray è un mio carissimo amico, ma è un uomo libero e indipendente. È anche una delle persone più testarde che ho conosciuto in vita mia. Non sente nessuno; decide, e va rispettato nella sua decisione. E non è neppure iscritto al Pd. Basta consultare la Rete per vedere quanti cittadini e associazioni si stanno rivolgendo a lui; anche se io non figuro, non faccio parte di questa comunità».
Quindi lei vota Giachetti?
«Non so ancora chi siano i candidati. Li valuterò liberamente da cittadino romano. Non so cosa farà Bray. Certo non ho il minimo dubbio che la sua candidatura sarebbe quella di maggior prestigio per la Capitale; mentre qui pare tutto un giochino interno al Pd. Sono molto attaccato a questa città, che dopo le vicende drammatiche che ha vissuto merita un sindaco di alto livello, a prescindere dall’appartenenza di partito».
Giachetti non lo è?
«Giachetti si è fotografato su Internet mentre traina un risciò su cui è seduto Renzi. Ma questa non può essere l’immagine del sindaco di Roma, neanche per scherzo. Il quadro è estremamente preoccupante. C’è una crisi della democrazia. Una caduta di partecipazione e tensione politica, di fronte alla quale i partiti, compreso il Pd, non riescono a schierare personalità all’altezza».
Siamo alla scissione che lei paventò un anno fa sul «Corriere»?
«Sta crescendo un enorme malessere alla sinistra del Pd che si traduce in astensionismo, disaffezione, nuove liste, nuovi gruppi. Si tratta di un problema politico e non di un complotto di D’Alema, che è impegnato in altre attività di carattere culturale e internazionale».
Lei è uno dei fondatori del Pd. Ci sarà o no la scissione?
«Anche Prodi lo è, e anche lui mi pare sempre più distaccato. Il Pd è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali. Dei fondatori non sanno che farsene. Ai capi del Pd non è passato per l’anticamera del cervello di consultarci una volta, in un momento così difficile. Io cosa dovrei fare? Cospargermi il capo di cenere e presentarmi al Nazareno in ginocchio a chiedere udienza a Guerini?».
A Napoli bisogna annullare le primarie?
«I dati sono impressionanti. Nelle aree di voto d’opinione, Bassolino è nettamente avanti. In altre zone è sotto di tremila voti: a proposito di capibastone e di truppe cammellate, come le chiamano i nostri cosiddetti leader. Bassolino denuncia un mercimonio. Produce video che lo provano. E il presidente del partito, con il vicesegretario, rispondono che il ricorso è respinto perché in ritardo? Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità».
Il presidente del partito, Matteo Orfini, è una sua creatura.
«Nella vita si può evolvere in tanti sensi. Del resto, loro dicono che sono bollito; anch’io avrò avuto una mia evoluzione. Ma come non capire che una risposta così sconcertante getta discredito sul partito, sulla politica?».
Basta primarie allora?
«Non ho detto questo. Ma così hanno perso ogni credibilità. Sono manipolate da gruppetti di potere. Sono diventate un gioco per falsificare e gonfiare dati. Bisogna scrivere nuove regole. E intanto rispettare quelle che già ci sono».
A Milano la sinistra Pd aveva pensato a Gherardo Colombo.
«Nessuno potrebbe sospettarmi di essere l’ispiratore di Gherardo Colombo: l’ultima volta che ci siamo incrociati, scrisse che con la Bicamerale volevo realizzare il programma della P2. Il punto vero è che il Pd non ce la fa più a tenere insieme il campo di forze del centrosinistra. E dubito che riuscirà a compensare le masse di voti perse a sinistra alleandosi con il mondo berlusconiano: non solo Alfano,Verdini, Bondi, ma anche Mediaset e uomini di Cl. A destra viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo: del resto Renzi non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’esperienza di governo del centrosinistra, che anzi è bersaglio costante della sua polemica».
Il premier replica che mai lei e Bersani avete avuto una parola in sostegno del governo.
«Non è vero. Potrei elencare una serie di mie dichiarazioni a favore del governo, a cominciare dagli 80 euro».
Allora Renzi non governa così male.
«L’Italia cresce dello 0,7%. Questo dato modesto viene presentato come frutto di grandi riforme. In realtà, la ripresa sia pur faticosa investe tutta l’Europa; e la ripresa italiana è metà di quella europea, forse un po’ meno. La Germania cresce dell’1,7, con la disoccupazione al 6. Altro che “siamo più forti dei tedeschi, l’Italia ha ripreso a correre, non ce n’è più per nessuno”. Sarebbe carino evitare la propaganda e dire la verità al Paese. Il nostro gap viene da lontano, non è certo colpa di Renzi. Ma lo si affronta con un vero progetto riformista di innovazione. Non vedo questo né nel Jobs act né nella cancellazione dell’Imu».
Sta dicendo che Renzi somiglia più a Berlusconi che all’Ulivo?
«Oggettivamente è così. La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria. Anche la sua riforma elettorale si ispira a quella di Berlusconi, non alla riforma uninominale maggioritaria voluta dalle forze dell’Ulivo. È una legge plebiscitaria: non si elegge il Parlamento; si vota il capo».
Nascerà un partito alla sinistra del Pd?
«Molti elettori ci stanno abbandonando. Compresi quelli che ci avevano votato alle Europee, nella speranza che Renzi avrebbe rinnovato la vecchia politica: ora vedono un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra. Non so quanto resteranno in stato di abbandono. Nessuno può escludere che, alla fine, qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un nuovo partito».
Perché invece non combattere una battaglia interna al partito?
«L’attuale gruppo dirigente considera il partito un peso. Gli iscritti sono poco più di 300 mila; il Pds ne aveva 670 mila. Si tende a trasformare il Pd nel partito del capo. Tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori. Guardo con simpatia alla battaglia della minoranza, ma non mi pare che, purtroppo, riesca a incidere sulle decisioni fondamentali».
Renzi obietta che è stato il segretario a convocare più direzioni.
«La direzione è una cassa di risonanza. È un luogo dove lui fa dei discorsi e viene applaudito. Poi si vota a maggioranza cose che dovrebbero vincolare tutti. Ma la politica è ascolto, scambio, mediazione».
Separare l’incarico di segretario da quello di premier aiuterebbe a tenere tutti insieme?
«Ma loro non vogliono tenere insieme il centrosinistra. Vogliono sbarazzarsene. Mi fanno ridere quelli che lanciano l’allarme sul partito della Nazione; il partito della Nazione è già fatto, è già accaduto. Lo schema mi pare evidente: approfittare della crisi di Berlusconi per prenderne il posto. Ma è un’illusione. Il problema non è Verdini, che è uomo intelligente e molto meno estremista di alcuni suoi partner del Pd. Verdini ha capito che se Renzi rompe con la sinistra va dritto verso la sconfitta, magari in un ballottaggio con i Cinque Stelle. Per questo, capendo di politica, è preoccupato».
Sta dicendo che Renzi sarà sconfitto?
«Secondo me, una volta lacerato il centrosinistra, non viene il partito della Nazione; viene il populista Grillo. O viene la destra. Perché il ceto politico berlusconiano che oggi si riunisce attorno a Renzi non gli porterà i voti di Berlusconi. La destra è confusa, ma esiste, e una volta riorganizzata voterà per i suoi candidati. Renzi sposterà voti marginali, non paragonabili a quelli che perde. Di questo bisogna discutere, anziché insultare la gente. La vera sfida è come si ricostruisce il centrosinistra. Ed è, oggi, una battaglia che non si conduce più, oramai, soltanto all’interno del Pd».
Lei come voterà al referendum di ottobre?
«Al momento opportuno presenterò in modo motivato le mie opinioni. Non mi sento vincolato se non dalla mia coscienza: si vota sulla Costituzione della Repubblica. La rivista Italianieuropei sta preparando un numero sui 70 anni della Costituzione. Ho appena ricevuto il contributo di Giorgio Napolitano. Si intitola: “Elogio di una classe dirigente”. Ma si riferisce a quella del 1946; non a questa».
Intervistato da Elisabetta Rosaspina l'ammiraglio De Giorgi afferma:«Non esistono muri in mare, per chi chiede aiuto», e si comporta di conseguenza, sebbene la consegna sia il respingimento dei profughi verso l'inferno dal quale fuggono. Ma in terra può essere diverso?
Corriere della sera, 10 marzo 2016
«Non esistono muri in mare, per chi chiede aiuto». L’Europa può decidere di sbriciolarsi, barricarsi, disseminare i suoi confini terrestri di filo spinato, per cercare di fermare i profughi, ma in mare vige un’altra legge. Un imperativo morale: «Io non lascio indietro nessuno, neppure un cane» assicura il capo di stato maggiore della Marina Militare italiana, ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Che parla fuori di metafora, perché, quando diresse per 72 ore consecutive, alla fine del 2014, le operazioni di salvataggio dei 400 passeggeri del traghetto Norman Atlantic, in fiamme nel canale di Sicilia, mantenne gli elicotteri in verticale sulla nave, nonostante il fumo e le fiamme, finché non furono evacuati dal ponte anche gli ultimi esseri viventi: tre cani.
E proprio a uno di loro, il più grosso, l’ammiraglio e la coautrice Daniela Morelli hanno dato voce nel loro libro S.O.S Uomo in mare (Giunti Editore) per descrivere quelle notti e quei giorni di paura a bordo del traghetto sempre più rovente, sempre più inclinato, nel mare grosso.
La figura peggiore è quella degli umani che litigano per accaparrarsi i primi giubbotti di salvataggio.
«Quando c’è pericolo, molti perdono i freni inibitori. Per questo ordinai subito di calare a bordo un team di soccorritori che ristabilisse l’ordine. C’erano giubbotti per tutti. Pure per i cani».
Perché il libro, in cui si parla anche dell’operazione Mare Nostrum e del calvario dei profughi, esce in una collana per ragazzi?
«Perché non vorrei che le nuove generazioni crescessero pensando che sia giusto o normale abbandonare al suo destino chi fugge dalla guerra, e che si possano respingere e lasciar affogare masse di disperati».
Intanto però a Bruxelles si discute di confini marittimi e di blocchi.
«Non lo so. Noi blocchiamo soltanto i trafficanti di armi, uomini e droga. Ne abbiamo arrestati seicento con Mare Nostrum, una cinquantina con Mare Sicuro. Non esistono muri in mare per chi sta affogare. Non abbandoniamo neanche i morti. Tra poche settimane, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, la Marina Militare procederà al recupero, da una profondità di 375 metri, dell’intero peschereccio carico di immigrati naufragato nel Canale di Sicilia il 18 aprile dell’anno scorso. Nella pancia di quella nave sono intrappolati ancora almeno 300 o 400 corpi, stando alle testimonianze dei pochi superstiti».
Erano i passeggeri di terza classe?
«Sì, quelli che avevano pagato ai trafficanti 800 dollari a testa per finire rinchiusi nella stiva, fra le esalazioni di Co2, e a contatto con quel miscuglio di acqua e gasolio, sul fondo, che ustiona atrocemente la pelle. Ci volevano 1.000 o 1.500 dollari per un posto migliore, sul barcone. Abbiamo già recuperato 169 salme dal fondo del mare, altre 52 le avevamo ritrovate nell’immediato. Ora ci prepariamo a riportarle in superficie tutte. Per tutte è previsto l’analisi del Dna, a tutte deve essere data la possibilità di essere identificate e restituite alle famiglie».
Dopo più di un anno in mare?
«A 375 metri di profondità, il buio, il freddo, la pressione dell’acqua e la scarsità di fauna contribuiscono alla conservazione dei corpi. Il presidente del Consiglio, Renzi, ci ha dato l’incarico di recuperarli tutti. E lo faremo, a qualunque costo, con robot e sistemi pilotati a distanza».
Da Mare Nostrum a Mare Sicuro, a Eunavfor Med: con i nomi, cambiano gli obiettivi delle missioni?
«I pilastri operativi di Mare Sicuro sono il ripristino dell’uso legittimo del mare, la protezione della sicurezza e degli interessi nazionali, come le piattaforme petrolifere, da possibili attacchi terroristici. Ma anche dei pescherecci italiani e dei mezzi di soccorso: è già accaduto che una nave della Capitaneria di porto fosse attaccata dagli scafisti ai quali aveva sequestrato il barcone. Eunavfor è un’iniziativa europea voluta dall’Italia, ed è servita come bastione per il controllo delle acque internazionali, le ispezioni dei mercantili. Un incremento degli obiettivi può venire dalla decisione dell’Unione Europea di passare a una nuova fase e di operare in acque libiche».
Lei che ne pensa?
«Sono valutazioni politiche in cui non entro. Noi abbiamo in zona la portaerei e nave ospedale Cavour , che ha tutte le capacità di comando e controllo delle operazioni, concepita per interventi di protezione civile. E poi il vecchio portaelicotteri Garibaldi ».
L’anno scorso si era lamentato dell’insufficienza della flotta, delle navi obsolete.
«Ed è servito. Nel 2020 avremo i primi pattugliatori polivalenti d’altura: 136 metri di lunghezza, una piattaforma innovativa che permette di cambiare rapidamente configurazione d’impiego, per antipirateria, sorveglianza, ripristino di comunicazioni, elettricità, acqua potabile, in caso di calamità naturali».
Abbandonare il parlamentarismo - come di fatto sta avvenendo - comporta inevitabilmente e il trasferimento della funzione di decidere a una sola persona. Ma evitare questo rischio è possibile solo se si trasforma l'attuale funzionamento del Parlamento.
Il manifesto, 9 marzo 2016
Molte sono le cause di questa progressiva emarginazione del parlamento, tra queste certamente la scelta sciagurata per le forme reali della democrazia di adottare sistemi elettorali sempre più distorsivi della rappresentanza. L’ultima legge approvata (Italicum) porta all’estremo questo tragitto, garantendo in ogni caso una maggioranza parlamentare, anche contro la rappresentanza reale. Anche in questo caso il grande acume di Kelsen aveva visto lontano: la rappresentanza è una «crassa finzione», aveva sostenuto il maestro praghese. E chi può oggi negare che di finzione si tratti? Ma su quali gambe – in base a quale legittimazione politica, sociale, culturale – può reggersi un parlamento privato del suo demos? Così non può stupire che il potere (il kratos, la faccia nascosta della democrazia) si concentri in un altro luogo, quello che può essere legittimato dal diverso principio identitario: il governo, la leadership, il capo.
La crisi del parlamentarismo, dunque, se non la fine della democrazia tout court, sembra almeno annunciare il consolidarsi di un altro tipo di democrazia, quella «identitaria».
Il maggior teorico di questo particolare modello costituzionale – Carl Schmitt – in effetti rivendicava il fondamento democratico del principio identitario, poiché, egli scriveva, il popolo deve essere inteso nella sua unità politica, oltre le organizzazioni dei gruppi sociali, superando le divisioni pluralistiche. In questa prospettiva è chiaro che il parlamento perde di ogni ruolo costituzionalmente rilevante, non ha diritto a frapporsi alla «decisione» che non può trovare ostacoli. Se l’organo della rappresentanza non ha la forza politica necessaria per prevalere – scriverà a chiare lettere Schmitt – «allora non ha il diritto di chiedere che tutti gli altri uffici responsabili siano incapaci di agire». Ed oggi, in Italia, in effetti la sede della «decisione» non è certo nel parlamento, bensì fuori da esso. Al principio parlamentare si va sostituendo quello presidenziale.
C’è a questo punto da chiedersi se possiamo noi rinunciare al modello parlamentare. Se – seguendo Kelsen – la risposta dovesse essere negativa, dovremmo cominciare a riflettere su com’è possibile invertire la rotta, poiché è chiaro che dinanzi ad un parlamento sempre più svuotato, delegittimato, lontano dalla rappresentanza reale, la ricetta identitaria non potrà che stabilizzarsi.
Da dove ripartire? Sulla legge elettorale si sta giocando la partita referendaria, ma non basta. Per rivitalizzare l’organo parlamentare bisogna anche guardare al suo interno. I regolamenti modificati nel corso degli anni hanno ormai cancellato ogni possibilità di discussione e confronto tra le forze politiche (contingentando i tempi, accelerando le procedure, sottraendo i poteri di intervento ai singoli parlamentari). Le interpretazioni fornite di questi stessi regolamenti hanno poi ulteriormente costretto il dibattito (legittimando maxiemendamenti, consentendo di reiterare richieste di fiducia anche su atti dello stesso governo, ammettendo emendamenti premissivi privi di contenuto normativo). La stessa opposizione, impotente, non si è sottratta al gioco della delegittimazione dell’istituzione parlamentare (plateali uscite dall’aula, Aventini dichiarati e poi rapidamente rimossi, uso strumentale del potere emendativo per fini esclusivamente ostativi e non invece alternativi o modificativi).
In questa situazione un primo piccolo passo potrebbe essere quello di richiedere la modifica dei regolamenti al fine di riscrivere le regole del dibattito parlamentare, con la speranza di dare voce ad un parlamento ormai afono. Non è neppure difficile indicare i principi che dovrebbero essere seguiti: garantire il dibattito e la possibilità per tutti i parlamentari di esercitare liberamente il proprio mandato. Non si possono negare le prerogative della maggioranza (e dunque eventuali corsie preferenziali per gli atti collegati all’indirizzo politico dell’esecutivo), ma il contrappeso deve essere uno statuto delle opposizioni che assicuri la discussione delle proposte delle forze politiche minoritarie.
Anche il potere emendativo, lo strumento più importante di discussione e di decisione, deve essere razionalizzato. Se si vuole evitare l’assurdo di un’opposizione senza testa che sforna emendamenti affidandosi agli algoritmi anziché alla forza delle proprie convinzioni, è necessario impedire l’arroganza di maggioranza, la possibilità che questa – forte solo dei numeri, ma non dei propri argomenti – imponga la fine di ogni discussione presentando maxiemendamenti, emendamenti preclusivi del dibattito, reiterate fiducie esclusivamente tecniche.
Infine, le leggi sono fatte di parole, ma se queste sono incomprensibili rischiano di produrre effetti indesiderati e danni collaterali. A scapito, ancora una volta, della legittimazione dell’organo che le ha espresse. E allora se il regolamento parlamentare stabilisse regole sulla fattura delle leggi che, ad esempio, escludesse la possibilità di presentare articoli con più oggetti ed imponesse l’unitarietà dei commi, forse potremmo evitare lo scempio di leggi della vergogna, che dentro un solo articolo condensano in un centinaia di commi il caos universale.
Cambiare i regolamenti parlamentari non risolverà la crisi del parlamentarismo, ma da qualche parte si dovrà pure iniziare. Se stiamo fermi ad aspettare temo che saremo travolti, in fondo la slavina della riforma costituzionale, che pone ancor più ai margini il sistema parlamentare, è annunciata. Proviamo a reagire.
«Incontro tra Francia e Italia a Venezia. I due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi».
Il manifesto, 9 marzo 2016 (m.p.r.)
Da ieri la guerra in Libia è più vicina. Molto più vicina. All’uscita del vertice italo-francese di Venezia, svoltosi «nel nome di Valeria Solesin», la vittima italiana del Bataclan, i due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi. In Libia il governo unitario stenta a nascere, e il premier italiano avverte: «La formazione di un governo in Libia è una priorità, innanzitutto per il popolo della Libia. Ma i libici per primi devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito».
Quello di Renzi è un monito minaccioso ed è anche un’inversione di rotta rispetto alla linea sin qui tenuta, ribadita del resto anche ieri da un Giorgio Napolitano che continua a parlare come se fosse il presidente della Repubblica: «Nessuna azione militare senza un governo legittimo che invochi l’intervento». Sino a ieri era una condizione necessaria. Ora è solo auspicata, e chiarendo ai libici, ma in realtà anche agli italiani, che il tempo a disposizione per evitare l’arrivo delle truppe è limitato. Toni che fanno il paio con quelli del presidente francese che, dopo aver espresso solidarietà per le due vittime italiane, va giù senza perifrasi: «Vorremmo fare di tutto in Libia per la creazione di un governo. Ma la lotta contro Daesh deve essere portata avanti».
Un’inversione di marcia tanto netta dovrebbe significare che la trattativa in corso da giorni tra i due Paesi europei più coinvolti nella crisi libica ha fatto nel vertice veneziano sostanziosi passi avanti. Il principale punto critico è la composizione della spedizione, che nelle ipotesi sin qui trapelate ricadrebbe esageratamente, per Renzi, sulle spalle del suo Paese, ma è probabile che in ballo ci siano anche gli assetti della Libia dopo la guerra, o più precisamente una spartizione delle aree di influenza e dell’accesso alle fonti energetiche, che è da sempre motivo di frizione profonda tra Roma e Parigi.
I venti di guerra non spirano solo a Venezia. L’inviato dell’Onu Kobler dichiara forte e chiaro che «si deve agire subito: il tempo è un fattore determinante e Daesh si sta allargando». Kobler pensa a un’offensiva, «guidata dai libici», ma «con l’assistenza della comunità internazionale». Gli americani, dal canto di loro, premono sull’acceleratore con i raid che, informa Renzi «sono già una realtà e ne eravamo stati informati». Volenti o nolenti, quelle dell’inviato delle Nazioni unite e quelle di Washington finiscono di fatto per essere entrambe pressioni sul governo che da giorni è sotto tiro con l’obiettivo di spingerlo ad agire, quello di Roma. In questo clima di fatto prebellico, stamattina alle 11 il ministro degli Esteri Gentiloni sarà a palazzo Madama, per riferire sullo stato della crisi libica, l’eventuale coinvolgimento militare italiano e sulla vicenda tragica dell’uccisione di due ostaggi quasi contemporanea alla liberazione degli altri due. Pare impossibile, ma dopo giorni di articoli sulla stampa di mezzo mondo, di polemiche nazionali e internazionali, di dichiarazioni a raffica, preferibilmente dal video, sarà la prima volta che il governo si degna di affrontare la vicenda nella sede propria, cioè in Parlamento.
Ieri sera, il minstro teneva le dita strettamente intrecciate, nella speranza di non doversi presentare al Senato senza ancora le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano in Italia. «Dovrebbero rientrare in nottata», spiegavano fonti della Farnesina, aggiungendo però che purtroppo «mancano conferme ufficiali». Poi uno sprazzo di ottimismo: il rientro prima dell’alba pare certo, è già prevista l’autopsia al Gemelli. Ma è proprio Renzi a gelare di nuovo le attese: «Quando arriveranno le salme vi sarà data comunicazione ufficiale». Impossibile capire quale sia l’impedimento che ha sin qui impedito alle famiglie di riavere almeno i corpi dei loro congiunti. «Solo problemi logistici», assicurava al Corriere della Sera il ministro degli Esteri del governo di Tripoli Abuzaakouk: una di quelle formule fatte apposta per vincere il premio della reticenza.
Sul piano della ricostruzione degli eventi, Gentiloni sarà quasi certamente altrettanto reticente. Le versioni ufficiali sono, se non proprio bugiarde, almeno molto parziali. Molto più credibile e completa la ricostruzione uscita sull’Huffpost di ieri. Indica una vicenda che presenta un’infinità di punti in comune con la liberazione di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari, 11 anni fa. Anche in questo caso, infatti, la tragedia sarebbe arrivata a un passo dal lieto fine, quando l’accordo era sul punto di realizzarsi e il riscatto pronto. Perché, a quel punto, i rapitori abbiano deciso di dividere in due gruppi gli ostaggi per portarli fuori da Sabrata e soprattutto perché, nonostante secondo il governo di Sabrata fossero state tutte avvertite, le milizie abbiano aperto il fuoco sul convoglio uccidendo i due ostaggi italiani resta avvolto nel mistero. Proprio come quelle raffiche di mitragliatrice che, nonostante gli avvertimenti, colpirono nel 2005 la macchina sulla quale viaggiavano Giuliana Sgrena e il suo liberatore.
a insopportabile è che il governo italiano renda l'Italia complice. La Repubblica, 8 marzo 2016
In cinque settimane nessuno ha neppure provato a cercare la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Al contrario, il depistaggio sul movente, i mandanti e gli esecutori, è cominciato appena il cadavere è stato ritrovato. Due diverse testimonianze indicano infatti che nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del corpo, la mattina del 3 febbraio, la polizia egiziana si mise al lavoro per confondere le acque. Le persone più vicine a Giulio furono segretamente interrogate nella stazione di polizia di Dokki, dove gli furono chieste con insistenza notizie sulla vita privata di Giulio, sulle sue inclinazioni sessuali. E tutto questo mentre il nostro ambasciatore, Maurizio Massari, veniva tenuto volutamente all’oscuro della morte del ricercatore (lo avrebbe appreso “ufficiosamente” soltanto la sera del 3 da una fonte confidenziale egiziana). Di più. La polizia del Cairo conosceva Giulio Regeni. E lo cercò nella sua abitazione di Dokki senza trovarlo, nel dicembre scorso. Una circostanza ufficialmente smentita nei verbali di interrogatorio dei condomini del palazzo ma confermata a
L’INTERROGATORIO NOTTURNO
L’otto febbraio, sull’aereo che lo riporta in Italia, viene “esfiltrato” il suo amico al Cairo. È un ragazzo italiano che ora vuole interrogare la procura di Giza. Lo chiameremo F. ( Repubblica conosce ma non svela l’identità per garantirne la sicurezza) e ha avuto modo di ricostruire, nella testimonianza resa ai nostri investigatori, dettagli cruciali per comprendere cosa è accaduto prima dello scomparsa di Giulio e dopo il ritrovamento del suo cadavere.
F. viene convocato la sera del 3 febbraio nella stazione di polizia di Dokki, a qualche centinaio di metri da dove Giulio viveva. F. non sa ancora che il corpo del suo amico è stato ritrovato poche ore prima su un cavalcavia del quartiere 6 ottobre. Ma la polizia egiziana ha urgenza di sentirlo. Lui e tutte le persone a Giulio più vicine. Tra loro anche il professor Gennaro Gervasio.
«Seppi quella sera della morte di Giulio — dice F. ai nostri investigatori in una lunga testimonianza — Me lo comunicarono nella sala d’attesa del commissariato. Mi avevano convocato “per farmi alcune domande”. Mi interrogarono in sei, forse sette. Non c’erano magistrati. Cominciarono a chiedermi di Giulio, dei suoi studi, delle sue relazioni al di fuori della ragazza con cui stava, se facesse uso di sostanze stupefacenti ».
Perché interrogare immediatamente tutti gli amici più vicini a Giulio senza darne avviso al nostro ambasciatore, Maurizio Massari, che il 26 gennaio ne aveva denunciato la scomparsa? Perché non comunicargli ufficialmente che il corpo era già in un obitorio della città, che la polizia già faceva domande, e lasciare che il nostro ambasciatore venisse allertato solo in modo “ufficioso” da una fonte del ministero degli Esteri egiziano? Forse per impedire quello che poi sarebbe accaduto? Che l’ambasciatore vedesse in quali condizioni era il cadavere prima dell’autopsia?
LA RAGAZZA CON IL TELEFONINO
La sensazione è che già in quelle prime ore gli egiziani si muovano per occultare ogni traccia che accrediti il movente politico dell’omicidio. F. è il custode del “segreto” di Giulio. È stato infatti il testimone oculare di quanto accaduto l’11 dicembre in un’assemblea al Cairo alla quale partecipa con Giulio. «Eravamo insieme in una sala con un centinaio di persone — dice — L’assemblea era stata convocata da una Ong che si occupa di diritti dei lavoratori per riunire il fronte dei sindacati indipendenti: in discussione c’era la legge sul pubblico im- piego e c’era da affrontare il nodo delle libertà sindacali. Non si trattava di una riunione particolarmente a rischio. Anzi. La notizia era circolata anche sulla stampa nei giorni precedenti, ed erano presenti anche diversi giornalisti. Giulio cercava materiale per la sua ricerca. Furono registrati tutti gli interventi e al termine fu lui a fare interviste singole. Una cosa però ci inquietò». Prosegue F.: «Giulio si accorse che durante la riunione era stato fotografato da una ragazza egiziana, con un telefonino. Pochi scatti. Strano. Ne parlammo a lungo. Una delle possibilità è che fossero presenti informatori delle forze di sicurezza».
LA VISITA IN CASA
Del resto, come riferiscono due diverse fonti che in quel mese di dicembre ebbero modo di raccogliere le confidenze di un inquilino molto informato del palazzo, la polizia egiziana cercò Giulio nella sua abitazione senza fortuna. In un caso minacciando una perquisizione. Un particolare che nessuno dei testimoni egiziani formalmente sentiti ha voluto confermare. Ma che non sorprende affatto F. «Il giorno della sua scomparsa era il 25 gennaio, anniversario di piazza Tahrir. Bastava uscire di casa per incappare in un controllo. Nelle settimane precedenti c’era stato un clima di tensione e paranoia fortissimo, non solo nei confronti degli attivisti. C’erano stati controlli a tappeto negli appartamenti abitati da stranieri. Temo possa esserci stato un cortocircuito. Nel clima di paranoia e xenofobia è possibile che alcuni corpi, reparti, gruppi, abbiano scambiato Giulio, il suo lavoro, chissà per cosa. Il clima generale è quello. A volte basta essere stranieri e parlare arabo per destare sospetti. Nella retorica ufficiale, spesso, si attribuiscono a spie straniere complotti per sovvertire l’ordine e la stabilità del paese». E invece. «Invece Giulio era semplicemente uno scienziato. Che aveva scelto un metodo di ricerca che si fa sul campo. Era convinto che il lavoro accademico potesse servire per cambiare le cose».
L’ARTICOLO TRADOTTO
L’interrogatorio notturno dei testimoni il 3, la ragazza con il telefonino, le visite in casa della polizia. Ma c’è anche un quarto indizio che accredita il movente politico. Dopo la morte di Giulio e la pubblicazione, il 6 febbraio, con la firma di Regeni sul Manifesto dell’articolo che raccontava l’assemblea dell’11, la polizia egiziana si mette nuovamente in allarme. E torna a fare domande che con la ricerca dei responsabili non hanno nulla a che fare. Ma hanno molto a che vedere con le idee di Giulio. Racconta F.: «Giulio non aveva mai collaborato né era entrato in contatto diretto con il Manifesto. Quell’articolo lo abbiamo scritto insieme e l’avevo proposto io al giornale con la garanzia dello pseudonimo. Ho saputo che la polizia egiziana ha chiesto ad altri amici comuni di Giulio, dopo la pubblicazione del 6 febbraio, notizie sulla presunta collaborazione di Giulio con il quotidiano».
LE CONTRADDIZIONI DEI PERITI
Nella fretta di vendere agli italiani una morte dal movente che non sta in piedi, gli egiziani lavorano a mano libera anche con l’autopsia. Rispetto a quanto accerterà l’esame effettuato in Italia dal professor Vittorio Fineschi, i medici del Cairo non refertano molte delle lesioni inflitte al ragazzo (a cominciare da una decina di fratture), indicano come avvenute in un’unica soluzione le sevizie e come causa della morte un colpo al cranio che avrebbe provocato un edema cerebrale letale. Non una di queste conclusioni collima con il referto italiano. La causa della morte, per Roma, è infatti nella rottura della prima vertebra cervicale compatibile con una spaventosa torsione del collo. Al contrario, l’edema (che pure l’autopsia di Fineschi ha individuato) non è causa della morte. Ma, significativamente, sarebbe compatibile con la prima inverosimile versione propinata dalle autorità egiziane: l’incidente stradale.
Le domande ciniche fino all'inciviltà del giornale tedesco Bild, e le risposte tranquillamente umane di Alexis Tsipra rivelano la drammaticità della situazione e l'efferatezza dell'UE e degli stati europei.EA. lista di discussione, 9 marzo 2016
Il primo ministro greco Alexis Tsipras ha chiesto all’Europa di aiutare la Grecia ad affrontare la crisi dei rifugiati in corso. ” La Grecia chiederà che tutti i paesi rispettino il trattato europeo e che ci siano sanzioni per coloro che non lo fanno”, ha detto Tsipras al presidente del Consiglio dell’Unione europea Donald Tusk, Venerdì. “Siamo in un momento cruciale per il futuro dell’Europa. Non buttiamo le persone in mare, rischiando la vita dei bambini”
Sono le 11:25 di Mercoledì mattina, quando di buon umore, ma visibilmente esausto Alexis Tsipras riceve il giornalista della BILD al “Megaro Maximou”, la residenza ufficiale del Primo Ministro. La sua stretta di mano è morbida, il suo sorriso grande. Tsipras dice: “Sono felice che tu sia qui.” Nel suo ufficio è appeso alla parete una moderna opera d’arte con colori vivaci, dal titolo “contraddizioni” dell’artista Dimosthenis Kokkinides. “Volevo che qui ci fosse un’atmosfera aperto. In particolare è importante per me aprire le finestre”
Da fuori si sente la musica di una cappella della Guardia Nazionale. Mentre Tsipras ascolta la prima domanda dell’intervista, le sue dita si muovono sul tavolo a tempo con la musica.
BILD: Signor Primo Ministro, prima la crisi del debito e ora il ruolo principale nel dramma dei rifugiati, la Grecia è sotto una maledizione?
Alexis Tsipras : la posizione della Grecia è sia una benedizione che una maledizione per soli motivi geografici.Le persone sono felici di visitare il nostro paese in vacanza. Ma è anche una regione sensibile e delicata dove tre continenti si intersecano. Sin dai tempi antichi la Grecia è stata teatro di guerre e conflitti.Ora, nella crisi dei profughi, siamo il primo paese di arrivo e siamo quindi di fronte alla più grande delle sfide.Come con la crisi finanziaria, adesso è importante per noi e per l’intera Europa mostrare solidarietà e risolvere i problemi insieme.
B: Si parla di regole. Ma, come nella crisi del debito, la domanda sorge spontanea: perché la Grecia non segue le regole? Secondo l’accordo di Dublino, il primo Stato UE attraverso in cui un immigrato entra l’UE è responsabile della procedura di asilo.
Tsipras : Ancora una volta, non è possibile confrontare la crisi del debito con la crisi dei rifugiati. Per quanto riguarda la crisi del debito è interessato, abbiamo dissanguato e mantenere sanguinamento oggi, al fine di rispettare le regole. Ma la crisi dei rifugiati non può essere risolto dalla sola Grecia. Non abbiamo deliberatamente violato le regole.Siamo semplicemente sopraffatti dal compito. Non abbiamo alcun problema con la protezione delle nostre frontiere terrestri.La nostra costa, tuttavia, è più di 10.000 chilometri. Inoltre, se individuiamo una barca nella nostra acqua territoriale che è in pericolo, siamo obbligati – secondo il diritto internazionale – a trasportarla in un luogo sicuro a terra. Immaginate che ci sono isole con 150 abitanti, in cui improvvisamente 1.500 rifugiati arrivano in un solo giorno. Cosa dovremmo fare con queste persone? Si tratta di un onere insostenibile per la Grecia. E ‘solo a causa della nostra posizione geografica e nient’altro.
B: Tuttavia, l’impressione che si pone la Grecia si occupa principalmente con agitando i rifugiati fino al nord Europa il più velocemente possibile.
Tsipras: Dovete capire la mentalità dei rifugiati. Hanno visto le loro case bombardate e hanno rischiato la vita per fuggire e venire in Grecia, che è la porta verso l’Europa. Ma per i rifugiati, La Mecca si trova più a nord! Sanno che c’è una crisi in Grecia e che non troveranno un lavoro qui. Come possiamo evitare che la gente vada avanti? Non abbiamo il diritto di farlo.Non possiamo bloccare queste persone, ciò violerebbe gli accordi internazionali. Tutto quello che possiamo fare è aiutare a salvare queste persone in mare, prenderci cura di loro e registrarli. Poi vogliono continuare. Un processo di reinsediamento è quindi l’unica soluzione.
B: Se il confine marittimo può, infatti, non essere protetto, è allora davvero possibile per i confini della Grecia diventare la frontiera esterne dell’UE?
Tsipras : L’UE non consiste solo dell’Europa centrale. Ci sono anche paesi come la Spagna, l’Italia, la Grecia che hanno frontiere marittime. E ‘vero che dobbiamo essere ancora più efficace nella protezione dei confini. Ma vede, abbiamo già fatto enormi progressi nel processo di registrazione e nella creazione di hotspot. Ora stiamo realizzando al cento per cento in queste aree.
B: Lungo il percorso dei Balcani, ci sono nuovi sviluppi ora e i confini sono chiusi. I giornali europei sono intitolati: “La Grecia ha perso il controllo sui rifugiati”. È corretto?
Tsipras: Quello che alcuni paesi hanno concordato e deciso è contro tutte le regole e contro tutta l’Europa. Riteniamo che sia un’azione non amichevole. E ‘inaccettabile che, dopo che una decisione è presa in un vertice UE, alcuni paesi si incontrino e decidano semplicemente di chiudere le loro frontiere Questi paesi danneggiano gravemente l’Europa.
B: Quindi, è la situazione fuori controllo?
Tsipras: La situazione è difficile, ma non è fuori controllo. La Grecia è l’unico paese che rispetta gli impegni. Abbiamo già 30.000 rifugiati qui, sulla terraferma e le isole, e siamo in grado di ospitare 20.000 persone in più. Abbiamo realizzato oltre il 100% dei nostri impegni, mentre altri non hanno nemmeno raggiunto il 10% e preferiscono criticarci. Ma le dirò questo francamente, se molti rifugiati continuano ad arrivare dalla Turchia e le frontiere dei Balcani restano praticamente chiuse, allora la situazione diventa molto critica per noi.
B: La Grecia diventerà il ‘Libano dell’Europa’?
Tsipras: E ‘certamente una crisi umanitaria. I rifugiati vogliono continuare da qui al nord, ma non sono in grado. Voglio essere molto chiaro: abbiamo bisogno di fornire a queste persone sistemazione adeguata qui. La Grecia deve difendere il volto umano dell’Europa, non importa quanti rifugiati stiano arrivando. Ma chiediamo una distribuzione equa. La Grecia non può trasformarsi in un magazzino permanente di anime umane che non vogliono rimanere qui.
B: Ha paura che l’Europa potrebbe finalmente sacrificare la Grecia ed escludere il paese dalla zona di Schengen?
Tsipras: No, non ho paura, perché difendiamo i valori fondamentali dell’Europa. Alla fine, saranno coloro che hanno sollevato recinzioni di filo spinato, che hanno allontanato i rifugiati con la violenza e che hanno trasformato i loro paesi in fortezze che saranno isolati in Europa. Noi, al contrario, siamo in alleanza con i paesi che mostrano solidarietà. E questi sono paesi con i quali abbiamo avuto grossi problemi durante la crisi finanziaria.
B: Ma ancora una volta: Che cosa succede se la Germania dovesse chiudere le frontiere?Tsipras: paesi come l’Austria e l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia hanno già chiuso i loro confini. Questo è successo senza che la Germania avesse preso tale misura. Pertanto, la situazione di emergenza già esiste.
B: Il vertice UE con la Turchia avrà luogo lunedi. La Turchia non è in grado di ridurre il numero di rifugiati, o non vuole ridurli?
Tsipras: La Turchia deve assumere un pesante fardello. Ci sono più di 1,5 milioni di rifugiati nel paese. Se collaboriamo con la Turchia, saremo in grado di controllare il problema. I rifugiati non vengono a nuoto verso di noi. Arrivano in barche e indossano giubbotti di salvataggio, fabbricati in Turchia. Questa è un’industria di miliardi di dollari. Dobbiamo combattere i trafficanti e affrontare il problema alla radice.
B: la Turchia chiede un accordo di liberalizzazione dei visti in cambio dei suoi sforzi. La Grecia chiede una riduzione del debito nella crisi dei rifugiati?
Tsipras: I negoziati per la crisi del debito non sono legati alla crisi dei rifugiati. Ma quello che voglio dire circa la crisi del debito è questo: abbiamo firmato un programma in luglio e ci atteniamo ad esso. Il problema rimane il FMI. Ulteriori richieste continuano ad arrivare dal Fondo monetario internazionale che non hanno nulla a che fare con l’accordo iniziale. L’UE deve chiedere al Fondo monetario internazionale di rispettare l’accordo. Tutto questo non ha nulla a che fare con la crisi dei rifugiati. Noi non abbiamo il tempo di rinviare nulla in relazione al problema dei rifugiati.Abbiamo bisogno di solidarietà. E ne abbiamo bisogno ora.
(Traduzione di Daniela Sansone)
Una festa per la metà dell'umanità largamente incolpevole di ciò che l'altra metà ha combinato, rendendo invivibile e disumano il pianeta nel quale insieme viviamo. Il manifesto, 8 marzo 2016
Non c’è molto da festeggiare, e molto per cui lottare, in questo 8 marzo 2016. Questa ai miei occhi la sintesi di un anno complesso e di una scadenza che ritorna politica, dopo anni di allegre feste popolari tra amiche. Un appuntamento che cade in un momento in cui non solo i temi e le questioni aperte dalle donne e dai femminismi sono al centro della politica, per tutte e tutti, ma soprattutto delle femministe risultano fondamentali le chiavi di lettura, le interpretazioni, spesso le più incisive per comprendere un mondo sempre più caotico.
Un’efficacia che va perfino al di là della consapevolezza delle femministe, una consapevolezza necessaria, per dare senso alla forza sedimentata in anni di lavoro e di politica. Dalla piazza di quarant’anni fa, le manifestazioni dell’8 marzo 1976 sono state le più imponenti del femminismo degli anni Settanta. Lì apparvero le streghe tornate a far tremare il patriarcato, oggi le femministe possono rompere gli schemi in cui viene codificato lo scontro sociale in epoca neoliberista.
Ricordiamo tutti e tutte la Sylvesternacht di Colonia, l’allarme del capodanno dei molestatori. La montatura mediatica – come si è accertato mano mano – costruita intorno al preteso attacco deliberato alle donne occidentali da parte di uomini “Nordafricani e arabi”, si è accompagnata alla domanda accusatoria ripetuta da varie parti: dove sono le femministe? Che sarebbero colpevoli di rompere il fronte dell’Occidente, di rinunciare a difendere la propria solidarietà. Mentre è vero il contrario. È solo la cultura politica delle femministe, che permette di decodificare la trasversalità della violenza maschile senza cedere ai buoni sentimenti, alla solidarietà senza giudizio. Non occorre essere accomodanti con gli uomini, mussulmani e non. La critica radicale del patriarcato non ha indulgenze per nessuno, e proprio per questo è uno strumento efficace per spezzare la propaganda della “guerra di civiltà”. È una specie di bisturi politico, che taglia alla radice l’asse “noi e loro”. Per questo è così avversato.
Altrettanto colpevoli sarebbero le femministe italiane, almeno quelle che non si accodano al proibizionismo universale contro la “maternità surrogate”, o meglio Gpa, gravidanza per altri. Non perché si sia cieche verso lo sfruttamento, categoria improvvisamente comparsa nel dibattito politico dopo essere stata cancellata da qualunque altro contesto, di lavoro per esempio. Ma nelle pratiche femministe si impara ad ascoltare, guardare con i propri occhi, prendere atto che le persone coinvolte hanno molto da dire, che non coincide con i giudizi tranchant. Soprattutto le femministe hanno molto da dire sulle famiglie, che spesso sono gabbie terribili, e che se sono belle non hanno molto a che fare con le tradizioni e i ruoli imposti. E lo sfruttamento contro il quale lottare, non può essere confinato alla sfera della riproduzione.
Che non è, non può essere l’unico elemento per cui parlare in nome delle donne. Le donne non coincidono con l’essere madre. La maternità oggi è una scelta, perfino nei mondi che ci ostiniamo a pensare arcaici. L’essere madre non definisce la soggettività di una donna. Sia quando lo è che quando non lo è. Così si scopre che i cambiamenti reali - in effetti oggi le donne nel mondo fanno meno figli di un tempo, e anche per le madri l’arco di tempo in cui effettivamente ci si occupa dei figli è relativamente breve, in vite sempre più lunghe – fanno a fatica a entrare nella mente di ciascuno. Gli ideali si rifanno al passato, e il presente viene percepito come disordine, confusione. Un bel terreno di lotta.
Certo, il 2016 potrebbe essere l’anno in cui Hillary Clinton diventerà finalmente presidente degli Stati Uniti. E una governante di alto livello, anche se conservatrice come Angela Merkel, rischia la sua notevole forza politica per un’impopolare posizione di accoglienza nei confronti dei rifugiati. Il quadro del potere, e soprattutto del potere simbolico, è mosso, articolato. Il governo italiano è pieno di donne importanti. A gestire una guerra è una donna, Roberta Pinotti, e le riforme hanno nomi di donna, Maria Elena Boschi e Marianna Madia.
Cambia qualcosa? Si potrebbe dire che più ci sono donne visibili e potenti, più diventa chiaro che la parità è un obiettivo necessario eppure fasullo. Un trucco da agitare, se non diventa vera equità sociale. A che serve il 50e50, se il welfare viene smantellato? Se l’aborto incontra un’obiezione di coscienza quasi al 70 per cento, rendendo a volte inevitabile il ricorso al mercato clandestino, salvo poi essere multate, le donne, per questa illegalità? E se le madri singole non hanno i supporti necessari non possono che risultare quello che sono: le più povere, in tutti gli indici di povertà.
Per questo i femminismi sono più vitali che mai. Essere donna è sempre l’occasione di una presa di coscienza, dell’occasione di diventare una soggettività attiva, politica. Un accumulo di forza da spendere. Per sé, per il mondo, per la propria libertà, per la libertà di tutte e tutti.
Un appello che invitiamo a firmare per non essere corresponsabili del massacro in atto alle porte della Fortezza Europa, e all'interno stesso delle sue mura. Il manifesto, 8 marzo 2016
Noi, cittadini dei paesi membri dell’Unione europea, della zona Schengen, dei Balcani e del Mediterraneo, del Medioriente e di altre regioni del mondo che condividono le nostre preoccupazioni, lanciamo un appello d’emergenza ai nostri concittadini, ai governi, ai rappresentanti nei parlamenti nazionali e al Parlamento europeo, oltre che alla Corte europea dei diritti dell’uomo e all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati:
Bisogna salvare e accogliere i rifugiati dal Medioriente
Da anni, i migranti del sud del Mediterraneo che fuggono dalla miseria, dalla guerra e dalla repressione annegano o si scontrano contro le barriere. Quando riescono ad attraversare, dopo essere stati vittime delle filiere di trafficanti, vengono respinti, messi in carcere o obbligati a vivere nella clandestinità da stati che li designano come dei «pericoli» e come dei «nemici». Tuttavia, coraggiosamente, si ostinano e si aiutano a vicenda per salvare le loro vite e ritrovate un avvenire.
Ma dopo che le guerre in Medioriente e soprattutto in Siria si sono trasformate in massacro di massa senza una prevedibile fine, la situazione ha cambiato dimensione. Popolazioni intere, prese in ostaggio tra i belligeranti, bombardate, affamate, terrorizzate, sono gettate in un esodo pericoloso che, a costo di migliaia di morti supplementari, precipita uomini, donne e bambini verso i paesi vicini e bussa alle porte dell’Europa.
Siamo di fronte a una grande catastrofe umanitaria. Ci mette di fronte a una responsabilità storica da cui non possiamo sfuggire.
L’incapacità dei governi di tutti i paesi a mettere fine alle cause dell’esodo (quando non contribuiscono ad aggravarlo) non li esonera dal dovere di soccorrere e di accogliere i rifugiati rispettando i loro diritti fondamentali, che con il diritto d’asilo sono inscritti nelle dichiarazioni e convenzioni che fondano il diritto internazionale.
A parte alcune eccezioni – l’iniziativa esemplare della Germania, non ancora sospesa a tutt’oggi, di aprire le porte ai rifugiati siriani; lo sforzo gigantesco della Grecia per salvare, accogliere e scortare migliaia di naufraghi che ogni giorno sbarcano sulle sue rive, mentre l’economia del paese è crollata in un’austerità devastatrice; la buona volontà dimostrata dal Portogallo per raccogliere una parte dei rifugiati che stazionano in Grecia – i governi europei si sono rifiutati di valutare con realismo la situazione, di spiegarla alle opinioni pubbliche e di organizzare la solidarietà superando gli egoismi nazionali. Al contrario, da est a ovest e da nord a sud, hanno respinto il piano a minima di ripartizione dei rifugiati elaborato dalla Commissione o hanno cercato di sabotarlo. Peggio ancora, hanno scelto la repressione, la stigmatizzazione, la violenza contro i rifugiati e i migranti in generale. La situazione della «giungla» di Calais, a cui adesso fa seguito lo smantellamento forzato, senza tener conto né dello spirito né della lettera di un sentenza giudiziaria, ne è l’illutrazione scandalosa, ma non è la sola.
All’opposto, sono i semplici cittadini d’Europa e d’altrove – pescatori e abitanti di Lampedusa e di Lesbos, militanti di associazioni di soccorso ai rifugiati e delle reti di sostegno ai migranti – che hanno salvato l’onore e mostrato la strada per una soluzione.
Ma si scontrano tuttavia con la mancanza di mezzi, l’ostilità a volte violenta dei poteri pubblici, e devono far fronte, come gli stessi rifugiati e migranti, alla rapida crescita di un fronte europeo della xenofobia, che va da organizzazione violente, apertamente razziste o neo-fasciste, fino a dei leader politici «rispettabili» e a governi sempre più preda dell’autoritarismo, del nazionalismo e della demagogia. Due Europe totalmente incompatibili si fanno cosi’ fronte, tra le quali bisogna ormai scegliere.
Questa tendenza xenofoba, ad un tempo micidiale per gli stranieri e rovinosa per l’avvenire del continente europeo come terra di libertà, deve immediatamente rovesciarsi.
Nel mondo ci sono 60 milioni di rifugiati, il Libano e la Giordania ne accolgono un milione coscuno (rispettivamente il 20% e il 12% delle loro popolazioni), la Turchia 2 milioni (3%). Il milione di rifugiati arrivati nel 2015 in Europa (una delle più ricche regioni del mondo, malgrado la crisi) rappresenta solo lo 0,2% della popolazione ! Non soltanto i paesi europei, presi nel loro insieme, hanno i mezzi per accogliere i rifugiati e trattarli in modo dignitoso, ma hanno il dovere di farlo per poter continuare a fare riferimento ai diritti dell’uomo come fondamento della loro costituzione politica. E’ anche nel loro interesse, se vogliono cominciare a ricreare, con tutti i paesi dello spazio mediterraneo che da millenni condividono la stessa storia e le stesse eredità culturali, le condizioni di una pacificazione e di una vera sicurezza collettiva. E’ questa la condizione per far indetreggiare al di là dell’orizzonte lo spettro di una nuova epoca di discriminazioni organizzate e di eliminazione di esseri umani «indesiderabili».
Nessuno può dire quando e in quali proporzioni i rifugiati rientreranno «a casa loro» e non si deve neppure sotto-stimare la difficoltà del problema da risolvere, le resistenze che suscita, gli ostacoli, persino i rischi, che comporta. Ma nessuno deve neppure ignorare la volontà di accoglienza delle popolazioni e la volontà di integrazione dei rifugiati. Nessuno ha il diritto di definire insolubile il problema, per meglio sfuggirvi.
Ampie misure d’emergenza vanno prese quindi immediatamente
Il dovere di assistenza ai rifugiati del Medioriente e dell’Africa nel quadro di una situazione d’emergenza deve venire proclamato e messo in atto dalle istanze dirigenti della Ue e declinato in tutti gli stati membri. Deve ricevere l’approvazione delle Nazioni unite e fare oggetto di una concertazione permanente con gli stati democratici di tutta la regione.
Forze civili e militari devono venire impegnate, non per fare una guerriglia marittima contro i passeurs, ma per portare soccorso ai migranti e fermare lo scandalo degli annegati. E’ solo in questo quadro che potrà essere possibile reprimere i traffici e condannare le complicità di cui godono. La proibizione dell’accesso legale è difatti all’origine delle pratiche mafiose, non il contrario.
Il fardello dei paesi di prima accoglienza, in particolare la Grecia, deve essere immediatamente alleggerito. Il loro contributo all’interesse comune deve venire riconosciuto. Il loro isolamento deve venire denunciato e ribaltato in solidarietà attiva.
La zona di libera circolazione di Schengen deve essere preservata, ma gli accordi di Dublino che prevedono il rinvio dei migranti verso il paese d’entrata devono venire sospesi e rinegoziati. L’Ue deve fare pressione sui paesi del Danubio e balcanici perché riaprano le frontiere, e negoziare con la Turchia perché cessi di utilizzare i rifugiati come alibi politico-militare e moneta di scambio.
Contemporaneamente, devono venire messi a disposizione mezzi di trasporto aerei e marittimi per trasferire tutti i rifugiati recensiti come tali nei paesi del «nord» dell’Europa che possono oggettivamenti ricerverli, invece di lasciare che si intasino in un piccolo paese che rischia di diventare un immenso campo di ritenzione per conto dei vicini.
A più lungo termine, l’Europa – che deve far fronte a una grande sfida, di quelle che cambiano il corso della storia dei popoli – deve elaborare un piano democraticamente controllato di aiuto a chi è sfuggito al massacro e a coloro che portano loro soccorso: non soltanto delle quote di accoglienza, ma aiuti sociali per la scuola, per la costruzione di case decenti, quindi un finanziamento speciale e disposizioni legali che garantiscano nuovi diritti per inserire degnamente e pacificamente le popolazioni sfollate nei paesi d’accoglienza.
Non c’è altra aternativa: ospitalità e diritto d’asilo, o la barbarie!
Primi firmatari
Michel Agier (Francia), Horst Arenz (Germania), Athéna Athanasiou (Grecia), Chryssanthi Avlami (Grecia), Walter Baier (Austria), Etienne Balibar (France), Marie Bouazzi (Tunisia), Hamit Bozarslan (Francia, Turchia), Judith Butler (Stati uniti), Marie-Claire Caloz-Tschopp (Svizzera), Dario Ciprut (Svizzera), Edouard Delruelle (Belgio), Matthieu De Nanteuil (Belgio), Wolfgang-Fritz Haug (Germania), Ahmet Insel (Turchia), Nicolas Klotz (Francia), Justine Lacroix (Belgio), Amanda Latimer (Gran Bretagna), Camille Louis (Francia), Giacomo Marramao (Italia), Roger Martelli (Francia), Sandro Mezzadra (Italia), Judith Revel, Toni Negri (Francia), Maria Nikolakaki (Grecia), Josep Ramoneda (Spagna), Vicky Skoumbi (Grecia), Barbara Spinelli (Italia), Etienne Tassin (Francia), Hans Venema (Olanda), Marie-Christine Vergiat (Francia), Frieder Otto Wolf (Germania).
Per firmare:
baier@transform-network.net
netbaier@transform-network.net
Flop del candidato di Renzi a Roma: alle primarie del PD ci è andato meno della metà di quelli che ci andarono per eleggere Marino. La Repubblica, 7 marzo 2016
«In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo. Ampi stralci del documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia».
Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2016
Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.
1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” diLorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, iltentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.
2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?
3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.
4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia.
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)
5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.
6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)
7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)
8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.
9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo, si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.
10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)
11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.
12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)
14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.
Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi
Italia in guerra? Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. Ma stavolta si è infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume.
Il manifesto, 6 marzo 2016
Ě difficile credere che l’ambasciatore Usa Philips abbia parlato a vanvera, quando ha detto di aspettarsi 5000 uomini dall’Italia per l’intervento in Libia. Non sorprende perciò che Matteo Renzi, di solito oratore inarrestabile e sfiancante, taccia da giorni sulla questione, preferendo occuparsi dei sindacati della reggia di Caserta. Ma allora, che vuol fare Palazzo Chigi? Andare in Libia o no?
Tutto dipende, naturalmente, dal significato di “andare in Libia”. Per chiarire la questione dobbiamo tornare al decreto del 15 novembre 2015, con cui si ponevano i corpi speciali delle forze armate sotto il comando dell’Aise (servizi di sicurezza esterna), cioè di Renzi. Un decreto passato incredibilmente con 395 voti a favore, 5 contrari e 26 astenuti (tra cui Sel e M5S, che sarebbero gli “oppositori” di Renzi). Un decreto formalmente legale, come vuole il Quirinale, ma che sottrae al parlamento, con il suo consenso supino e preventivo, il controllo delle operazioni militari. Una carta in bianco al governo, insomma, per qualsiasi guerra presente o futura.
Successivamente, la parte attuativa del decreto è stata secretata in modo così maldestro, che tutti ne sono venuti a conoscenza. Di fatto, il solo D’Alema (che di guerra s’intende, avendone fatta una extraparlamentare nel 1999) ha parlato a suo tempo contro il decreto, sapendo come agiscono i nostri servizi, tra intrighi e inefficienza. La nebbia che circonda la morte dei due ostaggi di Sabrata e il ritorno degli altri due sembra proprio dargli ragione.
Ě chiaro ormai che Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. D’altronde, non è lo stesso “pacifista” che fa rifinanziare le missioni italiane all’estero e manda 500 uomini in Iraq a proteggere un’azienda italiana? Si direbbe però che questa volta si sia infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume. Un conto è promettere ossessivamente un destino roseo a un paese prostrato dalla povertà e giocare sui decimali del Pil. Altra questione, ben più seria, è promettere agli Usa di intervenire e poi non mantenere le promesse, perché i sondaggi gli dicono che la stragrande maggioranza del paese non vuole nessuna guerra, e chiunque, da Berlusconi a Prodi, gli intima di non pensarci nemmeno. Gli americani, si sa, non si accontentano delle chiacchiere quando c’è da andare al sodo.
La verità è che la guerra in Libia c’è già e che americani, inglesi e francesi, senza avvertire nessuno, si stanno dando da fare da mesi tra il confine tunisino e quello egiziano. Appoggiando in sostanza il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto ma odiato dal governo di Tripoli, che in sostanza è dei Fratelli musulmani. In queste condizioni, pensare che in Libia possa nascere un governo di unità nazionale, come vorrebbero le anime belle dell’Onu, e che l’Italia possa guidare la coalizione anti-Isis è una pia illusione, anzi fa francamente ridere.
L’Italia non guiderà nessuna coalizione diplomatico-militare, perché Usa, Francia e Inghilterra si fanno i fatti propri, oggi come nel 2011, e l’Italia ha ben poco peso nella faccenda, a onta degli squilli di tromba degli editorialisti con l’elmetto. D’altra parte, Renzi ha ben pochi alleati in Europa, non si può mettere contro Hollande e quindi dovrà ingoiare il rospo e accettare, al di là delle sparate propagandistiche, un ruolo subordinato, esattamente come Berlusconi nel 2011. Così, quello che farà l’Italia sarà mandare qualche decina di uomini a difendere i suoi interessi energetici, incrociando le dita e sperando che nessuno si faccia ammazzare. D’altronde il famoso decreto garantisce la necessaria riservatezza sulla faccenda.
Ma la guerra c’è, in un contesto in cui centinaia di bande e milizie, che fanno capo oggi a Tripoli e domani all’Isis, o viceversa, si sparano addosso senza tregua. E quindi le conseguenze si faranno sentire eccome, anche se l’Italia si nasconderà dietro il paravento della legalità internazionale o invierà un po’ di soldati alla volta. Sperando che l’Isis non se ne accorga. E sperando anche che con il tempo nessuno si ricordi più di Giulio Regeni, visto che l’Egitto è un nostro caro alleato.
Ormai, non è retorica dire che tutto il Sahara è in fiamme, dall’Algeria all’Egitto, grazie al genio politico di Sarkozy e Cameron, di Bush e di Blair (i comandanti dell’Isis in Libia vengono dall’Iraq). In questa situazione, l’abilità politica che funziona con Verdini e Alfano, o per tenere a bada la sinistra Pd, serve a ben poco. Giorno dopo giorno, scivoliamo in una guerra senza strategia e che gli altri hanno deciso per noi.
L’unica consolazione, ma è ben poca cosa, è che questa volta, diversamente dal 2011, nessun sessantottino pentito vuole la guerra in nome dei diritti umani.
In occasione del vertice Renzi-Hollande appuntamento a Venezia dei rappresentanti delle persone d'ogni genere, età, colore, regione e condizione mobilitate in una moltitudine di gruppi contro le iniziative dei governi di destra e di "centrosinistra" che lavorano per i padroni della finanza e degli affari.
Il manifesto, 6 marzo 2016
Venezia«Par tera e par mar»: è l’altro san Marco a lanciare il grido di battaglia, insieme al popolo della Val Susa. Martedì pomeriggio il summit italo-francese numero 33 fra Matteo Renzi e il presidente François Hollande a palazzo Ducale sarà anche un omaggio “pacifista” a Valeria Solesin, vittima degli attentati del 13 novembre a Parigi. Ma servirà soprattutto per mettere a punto l’agenda dei due governi, in particolare la missione in Libia e il rilancio dell’alta velocità ferroviaria.
Così a Venezia si sono già dati appuntamento movimenti, comitati e associazioni che difendono il territorio dal furore delle Grandi Opere. Il concentramento è previsto alle 10 nel piazzale della stazione ferroviaria di santa Lucia, da dove muoverà la manifestazione con una nutrita delegazione NoTav.
In contemporanea, la contestazione si muoverà anche in laguna con il corteo di barche già sperimentato in occasione delle mobilitazioni contro le Grandi Navi che attraversano il cuore della città e della laguna.
«L’8 marzo nella bella Venezia Matteo Renzi e François Hollande, con il loro codazzo di ministri cercheranno una vetrina per esporre al mondo i loro disastri. Una grande opera inutile, un patto finanziario con le banche per strangolare i cittadini, una nuova frontiera per lasciare morire di guerra le persone, una nuova guerra e ancora molto altro di peggio. Aspettando la nefasta scaletta di appuntamenti anche noi ci prepareremo», si legge nell’appello lanciato dalla Val Susa e raccolto in tutta Italia: i comitati contro le trivellazioni in Adriatico di Marche, Abruzzo e Molise; «Stop Biocidio» di Napoli; i No Tav anche dal Terzo Valico, Trentino, Brescia, Verona e Vicenza. E i collettivi universitari nel «giardino liberato» di Ca’ Bembo hanno dato inizio ai preparativi, mentre sempre per martedì è annunciato lo sciopero del Coordinamento studenti medi in occasione del corteo.
Intanto ieri pomeriggio a Padova, nonostante la pioggia battente, sono tornati in piazza i lavoratori migranti con Adl Cobas e i centri sociali del Nord Est. Hanno manifestato all’insegna dell’antirazzismo nella città governata dal sindaco leghista Massimo Bitonci, ma anche «contro la guerra, i bombardamenti e un sistema che produce milioni di profughi» e in difesa delle lotte sociali per la casa.
Di nuovo protagonisti, in questa occasione, i facchini del Prix a Grisignano di Zocco (Vicenza), le lavoratrici marocchine della Nek di Monselice, bengalesi e africani della logistica, magrebini delle coop dove si “sperimenta” il Jobs Act.
«È tutto l’establishment politico e finanziario occidentale che ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti». Il manifesto, 5 marzo 2016
Prima che siano la guerra e i disumani populismi a dettare le regole del gioco.
«Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo».
La Repubblica, 5 marzo 2016
La conquista del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.
Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del Subjection of Women (La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.
Un paio di esempi del modo in cui di distorcono le leggi e le direttive calpestando diritti personali e sociali fondamentali, per accontentare i potenti di turno normative a favore della speculazione
Che sul fronte del diritto alla casa questo fosse un paese al contrario un po’ ce ne eravamo accorti. Questi ultimi mesi sono stati esemplari. Nella legge di stabilità per il 2016 è stata confermata l’odiosa esenzione IMU in vigore dal 2013 (art. 2 del D.L. n. 102/2013) per gli immobili invenduti dalle imprese di costruzione. Non solo, ma questo privilegio fiscale, inizialmente previsto per soli tre anni, è stato garantito per sempre dal Governo Renzi. E’ chiaro come questa sia una norma che agevoli fiscalmente solo le grandi imprese di costruzione senza riconoscere gli stessi diritti ai comuni mortali che, ad esempio, ereditino una casa e la vogliano rivendere non potendola mantenere. In più questa normativa “droga” il mercato immobiliare perché consente ai costruttori di aspettare che i prezzi si alzino per vendere il loro stock abitativo. Così facendo, inoltre, si impedisce a chi è in cerca di una prima casa di beneficiare di prezzi accessibili.
L’ultima forzatura pro speculazione edilizia, in ordine di tempo, è quella contenuta nell’articolo 16 del decreto legge n. 18 del 2016 (c.d. “Decreto banche” – v. box 1 in calce ). Con questa norma si permette a chi fa il mestiere di comprare e rivendere case alle aste immobiliari, di fare più soldi. Infatti potranno comprare e rivendere casa pagando solo 200 euro di tassa fissa (anziché il 9% sul prezzo di aggiudicazione). Quindi se, per esempio, ad una asta fallimentare avente ad oggetto un immobile dal valore di 200.000 euro si dovessero presentare una persona che cerca di comprare la sua prima casa e un’impresa immobiliare che compra e rivende, quest’ultima, in caso di aggiudicazione, sarà avvantaggiata perché dovrà pagare di tasse solo 200 euro (anziché 18.000), mentre il semplice cittadino in cerca della sua prima casa ne dovrebbe pagare ben 4.000 (2%). Insomma il Governo privilegia la speculazione immobiliare, la incoraggia, non solo a svantaggio di coloro che cercano di acquistare la loro prima casa, ma anche dei contribuenti. Infatti questo ulteriore privilegio neanche risulta a costo zero per i cittadini perchè costerà 220 milioni di soldi pubblici (vedi il comma 3).
E il futuro? Non è certo roseo perché è in via di approvazione uno schema di decreto legislativo (v. box 2) nel quale è previsto che le banche, in caso di ritardo nel pagamento delle rate del mutuo, si possano riprendere la casa direttamente, senza attivare alcuna procedura giudiziaria di vendita. La solita scusa che si accampa è che la direttiva 2014/17/UE imporrebbe questa norma. Ma a ben leggerla non è affatto così, in quanto la direttiva non esclude, come invece fa il decreto legislativo in itinere, che l’accertamento del valore sia effettuato sotto la supervisione giudiziaria. Con questo decreto legislativo si faranno stracci di secoli di civiltà giuridica che hanno sempre vietato il c.d. patto commissorio, cioè il prelievo diretto del bene dato in garanzia. E questo perché è chiaro che le banche e i creditori in generale sono molto più forti dei debitori, che sono le parti fragili del rapporto e vanno tutelate, specie nel caso in cui si tratti della prima casa. Per questo il patto commissorio è sempre stato proibito, anche dal nostro codice civile (art. 2744), almeno fino ad oggi…
Questi sono gli esempi riferiti solamente agli ultimi due mesi, ma sono tante le norme che sono state approvate in questi ultimi dieci anni, in nome di una invocata crisi del settore edilizio e finanziario. Si continuano a vedere norme che forzano le ragioni della tutela del paesaggio, dei beni comuni, dei consumatori e del diritto alla casa, a tutto vantaggio della speculazione edilizia e della grande finanza. La lista è lunga: piani casa, deroghe regionali agli standard urbanistici, silenzio-assenso per le autorizzazioni paesaggistiche, depotenziamento delle Soprintendenze, rivalutazione delle quote che gli istituti di credito detengono in Banca Italia, svendita del patrimonio culturale del Paese. E si potrebbe continuare.
Sarebbe ora che ci fosse una inversione di tendenza e che si imboccasse la strada delle regole scritte nell’interesse generale e non dei potentes di turno.