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«Da Banksy a Elena Ferrante. Scegliere di non firmare le proprie opere o di usare uno pseudonimo corrisponde a un programma etico e politico. E ha un’origine nobile che risale al Medioevo». La

Repubblica, 20 marzo 2016

I writers somigliano ai tanti pittori vissuti prima del Rinascimento e di cui conosciamo la produzione ma non i nomi In qualche modo chi dipinge su un muro rifiuta l’eredità del moderno e predilige una tradizione fatta di comunità e non di singoli

Chi è Banksy? Chi è Elena Ferrante? Siamo disposti ad arrampicarci sulle più improbabili congetture pur di riuscire a dare un volto, una biografia, una foto senza trucco ai pochi artisti o scrittori che hanno scelto di negare al circo mediatico la propria persona. Non tolleriamo che qualcuno «si nasconda » dietro uno pseudonimo: e basterebbe la scelta del verbo «nascondersi» per rivelare lo spirito vagamente inquisitoriale col quale guardiamo a chi vuole parlare solo con le proprie opere. Molti che non hanno mai visto un Banksy, né letto una riga della Ferrante si sono, negli ultimi giorni, appassionati all’abilissima cronaca della caccia alla loro identità anagrafica: poterli mettere a sedere tra gli ospiti in un programma del primo pomeriggio (quando «non c’è due senza trash», come canta Fedez) sarebbe il sogno di qualunque venditore di immagine.

Intendiamoci, il culto della personalità degli artisti è un culto antico. Se è vero che esso conta tra i molti tratti che si sono esasperati e radicalizzati nel passaggio dalla «società dello spettacolo» (Guy Débord) alla totalitaria «civiltà dello spettacolo» (Mario Vargas Llosa), è anche vero che la storia dell’arte come la intendiamo oggi rinasce — dopo l’anonimato del millennio medioevale — con un’autobiografia d’artista: quella di Lorenzo Ghiberti, alla metà del Quattrocento. Leggendo Plinio e altre fonti antiche, gli uomini del Rinascimento scoprivano una legione di artisti: ne conoscevano i nomi e i successi, le conquiste figurative e le avventure personali. I testi erano stati davvero più duraturi del bronzo (come aveva predetto Orazio), e se le opere avevano fatto naufragio, le biografie si erano in qualche modo salvate.

È su queste basi che Giorgio Vasari edifica un monumento storiografico che tuttora ci condiziona: le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550 e 1568) culminano nell’apoteosi di un Michelangelo divino, contro cui Roberto Longhi mostrava, nel 1950, tutta la sua insofferenza («e s’è già troppo sofferto del mito di artisti divini e divinissimi, invece che semplicemente umani»). Parliamo ancora con le parole di Vasari quando chiamiamo «divi» e «dive» gli attori o le cantanti che ci sembrano più grandi, e la medaglia ha il suo rovescio: quello dell’artista sporco, sociopatico e assassino. Caravaggio, dunque: caso in cui l’arte ci sembra indissolubile dalla biografia, lo stile del pennello da quello della spada.

Ma è proprio con Caravaggio che diventa evidente il prezzo enorme di questa affermazione di una forte individualità eterodossa: quando le sue pale d’altare vengono rifiutate dalle chiese ed entrano subito nelle grandi collezioni private, inizia a rompersi il nesso opera-funzione. Inizia il lungo processo verso l’arte di oggi: che «non fa perdere all’arte la sua qualità di arte, ma le fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfluità» (Edgar Wind).

Consapevolmente o no, è contro tutto questo che lotta il writer Blu quando cancella le opere che aveva fatto sui muri di Bologna perché non vengano staccate ed esposte nell’ennesima mostra di cassetta sulla Street Art. È in questo senso che l’anonimato di Banksy non sembra solo un vezzo personale, o la conseguenza del carattere illegale dello scrivere sui muri, ma un programma artistico, etico, politico.

Un’«arte senza nomi» che prova a riportare indietro le lancette della storia: a prima di Ghiberti. Ottimi studi sulle firme e i ritratti degli artisti (soprattutto italiani) del Medioevo hanno ormai messo in crisi «l’immagine romantica dell’artista che annulla la sua personalità nell’opera condotta insieme ad altri, a maggior gloria di Dio», ma è innegabile che «percorrendo a ritroso il Medioevo si direbbe che i tratti individuali degli artisti, i loro stessi nomi sfumino e si confondano insieme, unificati in una sorta di configurazione collettiva» (Enrico Castelnuovo). E proprio Peter C. Claussen (lo storico dell’arte che più di ogni altro ha saputo censire le tracce individuali degli artisti medioevali) ha sottolineato l’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, tra il 1130 e il 1250: le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori collettivi voluti e costruiti da comunità civili.

È in questo senso che la Street Art rifiuta l’eredità del moderno, cercando altrove. Per molti versi viviamo in un nuovo Medioevo: nelle nuove città torri sempre più alte separano la vita lussuosa dei nuovi signori feudali da quella della massa dei servi, non della gleba, ma di un mercato senza regole. A redimere la programmatica bruttezza dei non luoghi dove vive la maggior parte degli occidentali è nata un’arte che appare collettiva per natura, e generata quasi in opposizione simmetrica a quella mainstream.

Se quest’ultima è un’arte privata per definizione, un’arte da interno che nasce per gallerie e per case di lusso, o per musei, simili a lounges aeroportuali, nei quali si paga un biglietto, la Street Art è un’arte pubblica, un’arte da esterno che si vede gratis perché aderisce come una seconda pelle ai luoghi dove vive e lavora chi possiede quasi solo la propria pelle. La prima non puoi comprarla perché costa milioni, la seconda non puoi comprarla perché non è in vendita: e negare il nesso arte-mercato è un altro tratto che nega tutta la tradizione moderna, tornando al nesso medioevale arte- comunità. E anche per macchine tritatutto come il mercato dell’arte e l’industria delle mostre non è facile digerire la Street Art: perché quando la sradichi, ne uccidi anche il valore estetico.

In questo gioco di contrari, il divismo esasperato dei Jeff Koons, Damien Hirst o Maurizio Cattelan trova un corrispondente perfetto nell’anonimato di Banksy.

Dei writers — come di molti artisti medioevali — conosciamo solo le firme, e — proprio come accade per l’arte europea dell’alto Medioevo — non possiamo interpretarne l’arte alla luce delle biografie: non possiamo individualizzarla, e dunque siamo “costretti” a leggerla come un’arte davvero collettiva.

Equesta strategia funziona: difficilmente vedremmo i cittadini insorgere in difesa di un museo d’arte contemporanea, mentre in molte città d’Europa (e ora a Bologna) succede che la comunità si preoccupi della sorte di un’arte che sente “sua” anche grazie all’eclissi della personalità del creatore. Non di rado i writers italiani mettono in atto progetti di notevole valore civico, oltre che artistico: come il collettivo FX, che ricopre con il testo dell’articolo 9 della Costituzione i muri di cemento che l’hanno violato distruggendo il paesaggio. O come il Gridas (Gruppo Risveglio dal Sonno), che ha raccontato l’epopea collettiva dei cittadini di Scampia non «coprendo le brutture» del quartiere, ma «usandole in modo creativo» (lo raccontano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Graffiti. Arte e ordine pubblico, il Mulino 2016).

Se oggi in molti pensiamo che «le parole dei profeti /sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi» (come recitava, già nel 1964, la fine di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel) è anche perché i writers continuano a pensare che la loro arte valga più del loro egotismo. Un messaggio, questo sì, profetico.

Chi produce armi per le guerre è complice di chi le guerre le promuove, le scatena e le conduce; è complice quindi degli stermini di massa provocati dalle armi più distruttive. L'Italia e una parte consistente della sua industria appartengono a questa genìa. Sempre più, sembra.

Antonio Mazzeo Blog, 21 marzo 2015

Le aziende del gruppo Finmeccanica fanno grandi affari con le armi di distruzione di massa delle forze armate Usa. A fine 2015, la controllata DRS Technologies, con sede ad Arlington (Virginia), azienda leader nella fornitura di sistemi di sorveglianza, reti satellitari e telecomunicazione, ha sottoscritto un contratto con US Navy per un valore massimo di 384 milioni di dollari per produrre equipaggiamenti elettronici di ultima generazione da destinare a varie classi di sottomarini, nucleari e non. “Grazie all’aggiudicazione di questa commessa, DRS Technologies diventa prime contractor della Marina militare americana, ampliando così il ruolo dell’azienda come principale fornitrice di sistemi di combattimento per sottomarini”, spiegano i manager di Finmeccanica.

Una parte importante del contratto riguarderà l’ammodernamento dei sistemi di propulsione della classe di sottomarini lanciamissili balistici “Ohio”, uno dei sistemi d’arma chiave nelle dottrine di guerra nucleare del Pentagono. Azionati da un reattore del tipo S8G (di ottava generazione), realizzato da General Electric, quattordici unità della classe “Ohio” sono armati ognuno con 24 missili intercontinentali Trident II D5 con una gittata di 12.000 km, in grado di trasportare fino a 12 testate nucleari del tipo W88, con una potenza distruttiva di 475 chilotoni. Complessivamente ogni sottomarino imbarca 192 testate atomiche, un vero e proprio arsenale di morte per attacchi multipli su obiettivi sparsi in tutto il pianeta. Altri quattro sommergibili della stessa classe (l’Ohio, il Michigan, il Florida e il Georgia) sono predisposti invece al lancio dei missili da crociera BGM-109 Tomahawk, in grado di trasportare a 2.500 km di distanza sia testate nucleari che convenzionali. Tutti gli “Ohio” sono armati infine con una dozzina di siluri Mark 48, capaci di percorrere sino a 40 Km di distanza a una velocità superiore ai 55 nodi. Questi siluri trasportano testate dotate di uranio impoverito e rame liquido, la cui combustione può perforare anche navi o sottomarini a doppio scafo.

Il 30 settembre 2014, la controllata la DRS Laurel Technologies con sede a Johnstown (Pennsylvania), si era aggiudicata un contratto del valore di 171,2 milioni di dollari per fornire computer, display, hardware, ecc., per sviluppare le reti informatiche dei sottomarini Usa delle classi “Los Angeles”, “Seawolf”, “Virginia” e “Ohio”. Il contratto firmato con l’U.S. Naval Undersea Warfare Center Division di Keyport, Washington, includeva pure la fornitura di sonar, processori e sistemi elettronici di controllo armi di ultima generazione “TIH” per i sottomarini d’attacco della classe “Collins” della marina di guerra dell’Australia, nell’ambito di un accordo di cooperazione con il Pentagono. A fine 2011 sempre DRS Laurel Technologies aveva ottenuto una commessa del valore di 691 milioni di dollari dalla Lockheed Martin Corp. Mission Systems and Training di Manassas (Virginia) per fornire i sistemi sonar e di combattimento TIH ai sottomarini nucleari di US Navy.

Intanto il Pentagono ha predisposto un ambizioso programma a medio termine per lo sviluppo di una nuova classe di sottomarini lanciamissili balistici che sostituisca gli “Ohio” a partire dal 2029. Con un costo stimato di 95,8 miliardi di dollari, l’Ohio Replacement Program ha già un nome in codice “Hence SSBN-X”. La nuova classe di sommergibili dovrà trasportare 16 tubi di lancio ciascuno, in contrapposizione agli attuali 24, e sarà predisposto per il lancio di ordigni nucleari e convenzionali. DRS Technologies sarà una delle aziende che collaborerà allo sviluppo del programma di ammodernamento dei nuovi dispositivi strategici Usa. Il 23 dicembre 2011, i manager di Finmeccanica hanno reso pubblico che Consolidated Controls Inc. (CCI), una società del gruppo Drs Technologies, si era aggiudicata un contratto da General Dynamics Electric Boat per progettare, realizzare e testare un sistema di controllo elettromeccanico destinato ai sottomarini atomici che sostituiranno la classe “Ohio”.

Finmeccanica acquistò DRS Technologies nel 2008 spendendo 5,2 miliardi di dollari. In verità le commesse militari poi ottenute non hanno compensato i massicci investimenti della holding italiana negli Stati uniti d’America; così lo scorso anno è stato avviato un piano di dismissione di alcuni settori produttivi, principalmente nel campo dell’avionica, della logistica e delle telecomunicazioni. Per il gruppo con sede ad Arlington, il 2015 si è comunque concluso con una crescita del fatturato del 15,1% rispetto all’anno precedente (da 1,59 a 1,83 miliardi di dollari), mentre gli ordini hanno registrato un +21,1%. Oltre alla fornitura di attrezzature elettroniche per i sottomarini strategici, DRS Techonologies ha siglato un accordo del valore di 55 milioni di dollari per ammodernare i sistemi di comunicazione vocale integrati degli incrociatori e dei cacciatorpediniere AEGIS di US Navy. Lo scorso anno DRS ha pure fornito potenti visori notturni e sofisticati sistemi informatici all’esercito statunitense, mentre in Canada si è aggiudicata una commessa di 100 milioni di dollari per la produzione di antenne e sistemi di sorveglianza per equipaggiare i carri armati LAV 6.0, prodotti da General Dynamics e acquistati dall’esercito canadese. Nonostante i buoni affari di guerra - in linea con quanto accade internazionalmente al complesso militare industriale - DRS Technologies ha visto ridurre drasticamente i propri addetti: da 10.000 a 5.500 unità in meno di dieci anni. Soldi tanti, occupazione poca.

La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale: quella di tenere insieme libertà e giustizia; un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone di scegliere» Ma Renzi appartiene alla "sinistra democratica"?Huffington post, 20 marzo 2016

La sofferenza della sinistra va oltre le vicende nazionali e le scissioni, minacciate o reali, che la segnano. Come un processo di partenogenesi, da un seme comune -- che porta il nome di giustizia sociale tra liberi e eguali -- molti e diversi corpi nascono, cadono e si sviluppano senza interruzione. E’ possibile leggere questo fenomeno come un segno di libertà e di vivacità politica che esiste solo nelle società aperte e libere. Partenogenesi è, dopo tutto, nuova vita non frammentazione ed espressone di un segno per fortuna mai sopito che esiste il bisogno di pensare, di riflettere criticamente sulle modificazioni sociali e su come queste cambino le interpretazioni dei comuni valori e principi. Dissenso implica ricerca.

Tuttavia, nonostante questo sforzo di vedere le cose in positivo, per la tradizione della sinistra democratica e liberale questa è e sarà ricordata come un’età di grande sofferenza, per la difficoltà di trovare un punto di riferimento solido che stia oltre le figure politiche individuali, oltre leader rappresentativi, e invece nei processi sociali e nelle costruzioni ideali che tengono insieme forme collettive. E’ nel partito che le trasformazioni e le ricerche possono e devono trovare radicamento, in un movimento collettivo. La leadership in solitudine non basta e in alcuni casi può essere ostruttiva del processo di trasformazione.

La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale. Quella di tenere insieme libertà e giustizia -- un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone agli attori politici, ai cittadini e ai leader, di scegliere. In un clima di scarsità delle risorse, come è quello in cui ci troviamo, finita la fase di crescita espansiva dei consumi e della programmazione via stato della redistribuzione della ricchezza tra eguali cittadini della nazione democratica, la sinistra nei paesi occidentali, ed europei soprattutto, ha cominciato a registrare una reale crisi di identità e un declino di identificazione. Si tratta di un fenomeno non recentissimo e che ha preso i caratteri specifici dei paesi di appartenenza.

E' la profonda insoddisfazione verso le politiche sociali del Partito Democratico che mette in risalto la difficoltà di Hillary Clinton a conquistare una forte e chiara nomination nelle primarie per le prossime elezioni presidenziali. Come un fiume carsico, l’energia contestatrice di democrazia sociale e di criitica della straordinaria disegueglianza economica che si è sprigionata con Occupy Wall Street sta emergendo in maniera dirompente, senza timidezza, con lo straordinario successo di opinione e identificazione intorno a Berny Sanders. E anche se la sua campagna per la nomination non avrà successo, le richieste che rappresenta – fare del sogno americano una promessa realizzabile non un opium populi—non sono destinate a scomparire. E così, in Francia, gli scioperi contro laderegolamentazione del lavoro e la decurtazione dei diritti sociali rendeno isocialisti al governo la controparte contro la quale i cittadini (e isocialisti) contestano la violazione della promessa di giustizia sociale. Nonsarà facile per il partito di Holland arginare il movimento e restare allaguida del movimento. Essere partito dilotta e di governo, arduo in sè, è praticamente impossibile quando lecondizioni per la redistribuzione della ricchezza sono ridotte all’osso. In questa Europa, gruppi sociali e poterihanno voci molto ineguali e indubbiamente la radicalizzazione dei conflitti puòdiventare isostenibile per le democrazie costituzionali.

Al di fuori dei partititradizionali, il movimento di ricostruzione della sinistra in contestisocio-economici disastrati o difficili ha preso strade movimentiste e populiste,linguaggi e forme di aggregazione che fino a qualche tempo fa erano, in Europaalmeno, praticate soprattutto dalla destra. Il populismo che la sinistrabrandisce in Grecia e in Spagna ha il significato esplicito di una reazionecontro partiti socialisti consumati dall’esercizio del potere. Senza classi sociali sulle quali ricostruireil tessuto connettivo degli ideali di giustizia e solidarietà, è il popolo deimolti, la maggioranza larga di coloro che vivono (male) del proprio lavoro, enon hanno rappresentanza sociale forte, a fare da tessuto connettivo. Ilpopulsimo al quale la sinistra si è rivolta è il segno di un “grido di dolore”(come chiamava Emile Durkheim il socialismo) che i partiti tradizionali dellasinistra non sembrano capaci o desiderosi di ascoltate e che il populismostesso non garantisce di risolvere.

E’ in questa età complessa che la sinistra vive lasofferenza di una cultura politica che non sembra riuscire più ad orientare leazioni e unire larghe forze collettive, che ha smarrito il linguaggio delriformismo sociale. Accanto agli esempidi indubbio coraggio politico che vengono dagli Stati Uniti (e dal pocomenzionato Canada, un esempio di vittoria della sinistra democratica dirilievo) vi sono casi come quello italiano di profonda e radicale frammentazione.In Italia, dove l'erosione della tradizione e dei valori delle sinistra si èintrecciata al declino per vie giudiziarie della classe politica e dei partitiche fecero la ricostruzione post-bellica, la transizione verso un soggettopolitico nuovo sembra infinita. E nonancora approdata ad una sedimentazione delle fondamenta. Nel moto tellurico disigle, statuti, e leadership, sembrano essere stati travolti quegli stessiprincipi di democrazia sociale che vengono tuttavia propagandati e proclamati.La sinistra italiana sembra annaspare senza riuscire a trovare un appigliosicuro a partire dal quale recuperare energie e tornare a nagivare in mareaperto. Essa é l’immagine più esemplare della sofferenza

Dall’insegnamento universitario dovrà scomparire innanzi tutto il passato. Ciò che fa la differenza è il potere che ogni raggruppamento disciplinare è in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri: l’accesso a finanziamenti privati, la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo e la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei». Corriere della Sera, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

L’Italia che insegna e che studia, che ricerca e scrive libri cercando anche così di conservare al Paese il suo posto tra gli altri del mondo, non solo è sempre più povera (come si sa destiniamo all’istruzione superiore la cifra di gran lunga più bassa tra tutti i grandi Paesi europei), non solo appare sempre più divisa tra Nord e Sud, ma ormai vede aprirsi all’interno dell’istituzione universitaria una drammatica frattura tra ambiti culturali. Da un lato quelli destinati a restare importanti e centrali, dall’altro quelli destinati invece, se le cose continueranno così come oggi, a spegnersi più o meno rapidamente.

Detto in breve, dall’insegnamento universitario - e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani - dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo.

Non sto scherzando. Sto semplicemente scorrendo i dati meritoriamente raccolti e ordinati da Andrea Zannini, un valente docente di Storia moderna dell’Università di Udine, e pubblicati sul sito Roars (Return on academic research).

Dati che riguardano gli effetti che ha avuto sulle varie aree scientifiche il processo di contrazione del corpo docente accademico che si è verificato negli ultimi sette-otto anni. In complesso, nel periodo tra il 2008 e il 2015, tale contrazione è stata del 12 per cento (la maggiore, io credo, verificatasi nel pubblico impiego: da 62 mila a 54 mila persone circa) a causa di tre fattori soprattutto: il taglio generale dei fondi a tutto il sistema universitario, le nuove assunzioni limitate a una percentuale ridottissima rispetto al numero dei pensionamenti, il nuovo sistema di scorrimento delle carriere.

Ma tale contrazione - ed è questo il punto - non è stata eguale per tutti. Al contrario. Essa ha diviso spietatamente i sommersi dai salvati, i settori disciplinari che hanno visto il numero dei propri effettivi diminuire percentualmente solo di poco, ovvero restare tali e quali e talvolta addirittura crescere; e quelli che viceversa sono stati ridimensionati in misura brutale fino alla prospettiva di una virtuale cancellazione entro un tempo non troppo lungo.

Le discipline storiche sono state quelle più duramente colpite, seguite a ruota da quelle filosofiche. In neppure un decennio esse hanno visto i loro addetti diminuire rispettivamente del 27,8 e del 22,1 per cento (con punte di oltre il 32 per cento nel caso di «Storia moderna», «Storia della filosofia», «Storia delle religioni» e «Storia del cristianesimo», mentre «Storia medievale» è a meno 29,4 per cento e «Storia contemporanea» a meno 25,1). Ma messi assai male appaiono anche il settore geografico, con una decurtazione di oltre il 20 per cento e il raggruppamento letterario-artistico con un calo del 19,2 per cento.

Anche tra le discipline in senso lato umanistiche vi sono però figli e figliastri. Di fronte alle discipline demo-etno-antropologiche, ad esempio, che perdono oltre il 25 per cento degli addetti si segnalano le materie pedagogiche che invece fanno segnare quasi tutte ottime performance con il record ottenuto da «Pedagogia sperimentale» con un bel più 25 per cento di aumento.

Il raggruppamento disciplinare (comprendente più discipline) in assoluto più baciato dalla fortuna risulta comunque quello d’Ingegneria, che addirittura cresce del 2,1 per cento. Vengono subito dopo quelli delle materie economiche, sociologiche e giuridiche, tutti con diminuzioni poco significative. Non quello di Medicina - e forse qualcuno si stupirà - la cui consistenza esatta è peraltro difficile da calcolare per la commistione/sovrapposizione con il Servizio Sanitario Nazionale.

Come si vede la divisione tra i sommersi e i salvati non è propriamente tra settori umanistici e settori scientifici. Prova ne sia che le discipline matematiche e informatiche, quelle fisiche, quelle biologiche e quelle geologiche, fanno segnare tutte decrementi tra il 12 e il 20,5 per cento.

Ciò che fa la differenza è altro. È il potere che ogni raggruppamento disciplinare (cioè i suoi docenti) sono in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri soprattutto: l’accesso a finanziamenti privati (che è quasi nullo per le scienze di base e per le discipline umanistiche mentre è massimo per le scienze applicate: vedi Ingegneria et similia), la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo (è il caso delle discipline pedagogiche divenute ormai una sorta di altra faccia del ministero dell’Istruzione), e infine la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei. Qui soprattutto sta il punto forse più importante, dal momento che sono tali organi di autogoverno (Rettore, Consiglio d’amministrazione) quelli che in pratica gestiscono le risorse e la loro distribuzione tra i diversi raggruppamenti disciplinari, decidendo così delle nuove assunzioni da parte di ogni singola sede universitaria.

Ebbene, in un numero crescente di atenei ormai da tempo il gruppo di comando è nelle mani di un blocco formato perlopiù intorno a un nucleo ingegneristico-medico-giuridico il quale - forte del peso costituito sia dalla propria entità numerica che dalle proprie specifiche competenze, certo più utili a governare di quelle di un filosofo o di un biologo - ha finito per monopolizzare di fatto il potere. Ed è incline a utilizzarlo, com’è inevitabile, per fare gli interessi innanzi tutto delle proprie discipline di appartenenza.

È in questo modo che l’Italia decide del suo futuro culturale e della direzione che prenderanno i suoi studi; decide che cosa sarà delle sue non proprio indegne tradizioni in alcuni campi del sapere. Nella completa latitanza della politica, da tempo rappresentata da ministri dell’Istruzione politicamente insignificanti, perciò incerti e timorosi di tutto, sempre prigionieri dei più triti luoghi comuni, e dominati dalle corporazioni accademiche forti alle quali addirittura essi stessi per primi talvolta appartengono.

Intervista di Marco Ansaldo a Hakan Gunday. Sugli attentati «Siamo sotto shock, la gente non vuole neanche più sapere chi ci colpisce». Sull'accordo sui profughi:«ancora una volta una tragedia è diventata un affare. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico».

La Repubblica, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

«Stiamo sperimentando un caos totale. Negli ultimi 5 mesi abbiamo avuto 3 attentati ad Ankara e 37 morti solo nella bomba della scorsa settimana. Non abbiamo ancora avuto il tempo di capire ed eccoci qui a ragionare su questo nuovo atto terroristico. Uno shock assoluto». In Turchia c’è uno scrittore con cui riflettere su argomenti distinti come il terrorismo e i migranti, ed è Hakan Gunday. Lo scorso mese, nel tour in Italia per presentare il suo ultimo romanzo Ancòra (Marcos y Marcos), ha parlato a lungo della questione rifugiati, al centro del libro. E ora pure dell’accordo fra Europa e Turchia raggiunto venerdì a Bruxelles.

Uno shock assoluto?
«Sì, perché non sai più da dove arrivano gli attacchi. O meglio, non vuoi nemmeno più saperlo: se dall’Is, dal Pkk, dal Tak, o qualsiasi altra sigla. Pensi solo ai morti e ai feriti. È proprio questo il loro obiettivo: paralizzarci».
Lei oggi ha volato da Ankara a Istanbul, poli degli attacchi delle ultime ore. Quale atmosfera si respira nelle due città?
«La consapevolezza che nella nostra vita siamo diventati dei bersagli. Perché quello che sta accadendo è irrazionale. E non riesci nemmeno a pensare o agire».

Con quale prospettiva?
«Quella di poter capire che cosa succederà nei prossimi mesi: questa che viviamo è un’onda di terrore? E si fermerà? Oppure andrà avanti? Ci sentiamo totalmente vulnerabili. Dopo si potranno fare tutte le analisi. Ma ora c’è gente morta, ferita».

E cosa pensa dell’accordo sui profughi?
«Che ancora una volta una tragedia è diventata un affare, un mercanteggiamento. Su esseri umani. Ed entrambe le parti, Ue e la Turchia, lo giocano in modo matematico. Il fattore umano non sembra più contare».
Ma non è stato comunque meglio trovare un accordo?
«Questo patto mi ricorda l’intesa raggiunta fra Turchia e Germania Federale sugli emigranti nel 1961. Allora l’Europa aveva bisogno di lavoratori, oggi invece vuole limitarli».

E che cosa la infastidisce?
«Che la Turchia tratti su temi come l’ingresso nella Ue o la concessione dei visti, ma sulla pelle di chi? Di persone che cercano rifugio, legalmente o no. E quando hai le vite degli uomini nelle tue mani, allora fai il mercante. È tutto un grande teatro».

Un dramma, oppure una tragedia?
«Una tragedia, perché non si pensa alle persone singole, caso per caso, ma a loro solo come massa».

Intervista a Marco Martiniello, docente di sociologia a Liegi, esperto di multiculturalità. «Non tutti gli esclusi seguono la via del radicalismo, o passano alla violenza. Si può vivere pacificamente nel proprio estremismo». Il manifesto, 20 marzo 2016

«La radicalizzazione come perdita di senso di questa società materialista». Le ragioni della radicalizzazione vanno cercate nella storia migratoria delle varie comunità che compongono il tessuto sociale della società belga. Scopriremmo così che ci sono alcune comunità, come quella marocchina, più sensibile e vulnerabile di altre, ai fenomeni della radicalizzazione di stampo religioso. Secondo Marco Martiniello, passaporto italiano ma nato e cresciuto in Belgio, le ragioni di questi fenomeni vanno cercate anche nella perdita di senso della nostra società, votata al materialismo. Professore di sociologia all’Università di Liegi, esperto di politiche migratorie e delle tematiche legate ai fenomeni di razzismo e della multiculturalità, ha vissuto dieci anni nel quartiere di Molenbeek, di cui ne conosce il tessuto sociale e culturale.

Cos’è il radicalismo in una società multiculturale?
Abbiamo tanti esempi di radicalismo, come nel campo del tifo calcistico. Oggi lo vediamo associato all’islam, ma c’è anche un radicalismo cattolico, un radicalismo politico di estrema destra. Lo abbiamo visto in Francia e lo vediamo in Belgio, con esponenti di governo dichiaratamente fascisti. Parliamo di radicalismo quando si portano agli estremi la propria fede o la propria identità e il sentimento di appartenenza ad un gruppo.

Esiste un problema di identità nella società belga?
Nella storia del Belgio la costruzione dell’identità è sempre stata problematica. Con le ondate migratorie degli ultimi decenni, Bruxelles conta 150 nazionalità diverse, la questione si è complicata. Chi è arrivato qui ha dovuto fare i conti con un panorama identitario frammentato, che contrappone fiamminghi e walloni, all’interno del quale non ha trovato mezzi per potersi esprimere. Forse addirittura la costruzione identitaria nazionale belga si è costruita in opposizione agli immigrati. La questione è poi esplosa negli anni ’80, con la vittoria alle elezioni locali del Vlaams Blok, formazione di estrema destra, che ha politicizzato la questione dell’integrazione. Forse in questi episodi di discriminazione che vanno cercate le ragioni che spinge un giovane oggi al radicalismo.

Cosa spinge quindi un giovane belga-marocchino, che è belga prima che essere marocchino, a partire per un Paese come la Siria?
La spiegazione è complessa. C’è un panorama globale fatto di guerre, come quella siriana, c’è un sentimento di mancata appartenenza per una fascia della popolazione che è nata e cresciuta qui, c’è poi un oggettivo razzismo. Ma tutto ciò non basta a spiegare questi fenomeni e del perché in una famiglia un fratello parta in Siria, ed un altro lavora nell’amministrazione pubblica. Dobbiamo forse focalizzarci sulla perdita di senso di questa società materialista. C’è tanta gente che non riesce a dare senso alla propria vita. Per alcuni il senso viene dato dall’attaccamento viscerale, estremo e radicale alla squadra di calcio. Per altri è il fondamentalismo religioso.

Possiamo parlare dei fenomeni di radicalizzazione come dovuti alla sola esclusione sociale?
Si dobbiamo parlarne. Così come dobbiamo parlare dell’aspetto socio-economico, ma c’è anche dell’altro. Non tutti gli esclusi seguono la via del radicalismo, o passano poi ad azioni violente. Perché si può essere radicali nel pensiero e vivere pacificamente nel proprio estremismo. Saranno quindi i soggetti più fragili e vulnerabili, che poi in assenza di una rete sociale e familiare forte si lasciano andare a forme di estrema violenza. E questo spiega perché fra i giovani radicalizzati belgi partiti in Siria, la maggior parte sono della comunità marocchina. Poiché essa è molto destrutturata e frammentata. A differenza di quella turca, molto salda e coesa al suo interno. La radicalizzazione si potrebbe anche spiegare partendo dalla peculiare storia dell’immigrazione di ogni comunità. L’immigrazione marocchina, voluta dallo stato belga, non si credeva avrebbe avuto lungo respiro. Non c’è stata la volontà di mettere in campo una visione a lungo termine. C’è stata invece una chiara volontà di escludere questi cittadini dal romanzo nazionale. Tutto ciò può creare frustrazione ed odio. Ed in Italia vedo svilupparsi un atteggiamento simile. Dovremmo forse sostenere una politica capace di spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza.

«Bergoglio ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla capacità di praticare solidarietà».

La Repubblica, 19 marzo 2016 (m.p.r.)

Il futuro dell’Europa si gioca sempre di più sulla questione dei migranti, come mostra l’accordo con la Turchia finalmente raggiunto dopo ripetuti vertici dell’Unione europea. E le Chiese sono impegnate perché la bilancia penda dalla parte dell’accoglienza. È ormai in atto un coinvolgimento sempre più intenso di tanti cristiani - non da soli ma insieme a molti altri - in questioni sociali, dispute religiose, lotta al terrorismo, confronti elettorali, problemi politici e trattative diplomatiche che si intrecciano sempre più strettamente intorno al nodo immigrazioni.

Il cardinale Marx e il vescovo evangelico di Berlino hanno stigmatizzato il “linguaggio d’odio” usato dall’Afd, partito vicino all’ideologia xenofoba di Pegida, che ha raccolto molti consensi nelle recenti elezioni tedesche. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha raccomandato una preparazione spirituale all’ormai prossima Pasqua ortodossa che passi per un concreto soccorso ai profughi. Qualche giorno fa l’arcivescovo di Bologna ha sollecitato la costruzione di una grande moschea nella sua città e questa settimana i vescovi francesi hanno dedicato la loro assemblea generale ai rapporti con l’Islam. Il Consiglio permanente della Cei, che si è occupato di accoglienza ai profughi «senza discriminazione di nazionalità», ha dichiarato che «l’immigrazione porta con sé un contributo di ricchezza per tutto il Paese» e a Skopje il cardinale Parolin ha ribadito che l’Europa deve affrontare l’emergenza dei migranti con maggior solidarietà e meno individualismo.
Nel giro di pochi giorni, infine, papa Francesco, ha elogiato i «corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Chiese evangelica, valdese e metodista per evitare i «viaggi della morte» a chi giunge in Europa; ha lanciato un appello perché «le nazioni e i governanti aprono i cuori e le porte» a quanti «stanno vivendo una drammatica situazione d’esilio»; e ha richiamato l’attenzione delle future classi dirigenti sui rifugiati «tragicamente costretti ad abbandonare le loro case, privati della loro terra e della loro libertà».
Tante iniziative e tanti interventi, non coordinati tra loro, danno l’idea di un orientamento sempre più diffuso e radicato, malgrado divisioni e resistenze (come in Europa Orientale dove è forte l’ostilità verso gli immigrati). Emerge, indirettamente, un progetto sul futuro dell’Europa. È quello che Francesco ha cominciato a tracciare scegliendo Lampedusa per il suo primo viaggio da papa. Di recente, ha criticato severamente l’Europa per una gestione dei processi migratori senza visione e strategia.
Bergoglio ha più volte paragonato il Vecchio Continente ad una nonna che deve tornare ad essere madre o ad una donna sterile che può generare sebbene in tarda età. E si è detto sicuro che «l’Europa alla fine sorriderà ai migranti », anche grazie alla forza che viene dalla memoria di «grandi personaggi dimenticati» della sua storia come Adenauer, Schuman, De Gasperi. Proprio al piano Schuman, che fu all’origine del primo nucleo della Comunità europea, fa non a caso riferimento l’ultimo numero de La Civiltà cattolica - i cui articoli sono concordati con la Segreteria di Stato vaticana - per affermare che sospendere o, peggio, abbandonare il trattato di Schengen sulla libera circolazione all’interno dell’Unione europea significa contraddirne i principi fondamentali.
Il Papa che «non si immischia in politica» - come ha detto tornando dal Messico - è oggi il principale ispiratore di un “partito dell’accoglienza” destinato ad avere un peso politico crescente. È una politica molto lontana dall’iniziativa messa in atto nel 2003 per inserire riferimenti alle «radici cristiane» del Vecchio Continente in una Costituzione europea destinata tra l’altro a non entrare mai in vigore. Non a caso, nel 2014 Francesco ha detto che il carattere cristiano dell’Europa non si misura sulle sue lontane radici ma sulla sua capacità di praticare o meno la solidarietà.
Quella di oggi non è la politica tradizionalmente praticata dai cattolici: non è infatti scolasticamente desunta da principi supremi ma empiricamente ispirata dalle attese degli ultimi, non è ecclesiasticamente organizzata ma laicamente disorganizzata, non è chiusa in un recinto confessionale ma aperta a «tutti gli uomini di buona volontà». Ma è, anch’essa, politica. Un’Europa solidale verso gli immigrati sarà, infatti, «più facilmente immune dai tanti estremismi». Il “partito dell’accoglienza” può avere cioè un ruolo nella battaglia tra il centro e le estreme - o tra i partiti democratici e quelli che non lo sono - che nei Paesi europei, come ha scritto Garton Ash su Repubblica, sta sempre più spesso prendendo il posto del tradizionale confronto tra destra e sinistra.

Un altro successo della demenziale politica dell'UE e dei governi che la costituiscono: oltre alla carcerazione dei profughi nei lager turchi, oltre all'affidamento al gaulaiter di Ankara delle barriere contro i miseri della terra, assestare un altro colpo alla Grecia di Tsipras. Tombola! Il Fatto quotidiano, 19 marzo 2016

Spetterà alla disastrataGrecia l’onere di far fronte praticamente alla crisi umanitaria dei profughi. L’accordo con la Turchiasiglato ieri dall’Unione europea richiede, per essere applicato, un ulterioresforzo da parte di Atene sia in termini di impiego di forze umane che diprocedure, non solo burocratiche.
“Il governo dovrà affrontare una quantitàenorme di lavoro a partire da oggi, specialmente per quanto riguarda ilcapitolo dell’accordo che prevede il trasferimento dei profughi dalle isolegreche alla terraferma e quindi il loro rientro in Turchia, qualora verràprovato che gli stessi siano arrivati via mare dalle coste turche”, dice conuna smorfia scettica Nikos Kostandaras, vice direttore del quotidiano nazionalepiù autorevole, Ekhatimerini. L’accordo, che si basa sul collocamento oricollocamento nei campi profughi turchi di qualsiasi rifugiato arrivato in Greciadalla Turchia, comporta infatti un surplus considerevole di lavorolegale e tecnicoper le autoritàgreche fin daiprossimi giorni.

Lo scogliopiù difficile dasuperare intempi brevi, è larevisione delleprocedure peril diritto di asilo, apartire dalriconoscimento della Turchia come “paese terzo sicuro”, che consentirebbeall’Unione europea di far sì che i richiedenti asilo possano essere rispostatiin Turchia. Ma la Ue ha dovuto smussare la parte dell’accordo che riguarda proprio il ricollocamento in Turchiadei migranti – già abbozzato il 7 marzo scorso – perché considerato illegale daparte dell’Onu e della sua agenzia per i rifugiati, Unhcr, che assieme ad altreorganizzazioni umanitarie internazionali ed europee l’ aveva bocciato in quanto“deportazione di massa”. Questo aggiustamento richiede però allo stato greco unulteriore sforzo: la legislazione dovrebbe anche cambiare in modo che ledomande di asilo siano evase entro alcuni giorni e non mesi, come nel casoodierno. Allo stesso tempo, la Grecia dovrà prendere tutti i rifugiati emigranti attualmente sulle sue isole, Lesvos e Kos, circa 8 mila, e portarlinei campi della zona continentale, che però non sono sufficienti a conteneretutti.
Nei giorni scorsi sonoiniziati i lavori per l’allestimento di nuovi campi, anche nella zona nord occidentaledel Paese, al confine con l’Albania. Tale operazione deve avvenire pri ma chel'accordo con la Turchia entri in vigore. Dopo aver fatto questo, il governogreco dovrà istituire un sistema per registrare eventuali nuovi arrivati sulleisole ed esaminare le loro richieste di asilo. Ogni richiedente dovrà essere intervistatodai poliziotti di frontiera europei (a Lesvos la maggior parte è costituita da agentitedeschi) di Frontex come parte del processo e ogni richiesta esaminataseparatamente dalle altre. Chi si vedrà respinta la domanda avrà il diritto dipresentare ricorso.

Ciò comporta un forte coinvolgimento dellamagistratura e la presenza di centinaia di funzionari pubblici e altropersonale di stanza sulle due isole, per esempio traduttori, personale disicurezza e funzionari dell'agenzia delle frontiere dell’Ue, la già attivaFrontex. Inoltre dovranno essere presenti osservatori turchi. “I migranti cheda domani raggiungeranno le isole greche dalla Turchia devono essererimpatriati a partire dal 4 aprile”, ha dichiarato un funzionario turco. Forseall’inizio, per mostrare che l’accordo è applicabile, le cose andranno comedevono andare. Ma, considerati i tanti problemi del Paese, per quanto?
«Lo scambio. Niente di umanitario. Occhi chiusi sul destino dei profughi. Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea». Qualcuno prima o poi pagherà per l'ennesimo crimine dell' Europa ai danni dei più miseri del mondo.

Il manifesto, 19 marzo 2016

Sull’accordo di ieri tra Consiglio d’Europa e Turchia bisogna reprimere un senso opprimente di vergogna. I 28 statisti che governano questo continente di 506 milioni di abitanti hanno negoziato con Davutoglu (cioè con il suo padrone Erdogan) il seguente accordo: l’Europa accetterà 72.000 profughi e ne rimanderà altrettanti dalla Grecia in Turchia. In cambio Ankara ottiene per il momento 3 milioni di Euro per progetti sui migranti (i termini qui sono vaghi per occultare le promesse europee di altro denaro), l’avvio della procedura di ammissione della Turchia alla Ue e una facilitazione, anch’essa vaga, dei visti d’ingresso dei cittadini turchi in Europa.

Davotoglu ha avuto la faccia tosta di definire questo accordo non un mercanteggiamento ma una questione di «valori». Certo, basta dividere i 3 miliardi ottenuti dalla Turchia per 72.000 e otteniamo poco più di 40.000 euro a persona. Ecco il valore di migranti e profughi per Ankara. E che cosa ne faranno Erdogan e Davutoglu del gruzzoletto? Pasti caldi e comodi alloggi per tutti o magari, con i quattrini risparmiati sui rifugiati, un po’ di armi e di bombe? Bisognerà chiederlo ai curdi.

Ma accusare la sola Turchia di speculare sull’umanità alla deriva tra Egeo e Macedonia sarebbe ingiusto. Perché i veri mercanti di uomini sono gli stati europei. Come ha scritto ieri la Tageszeitung, 72.000 sono solo gli stranieri arrivati in un anno a Berlino. Una cifra irrisoria se proiettata sull’intero continente. Un numero che non risolve nulla, che lascia le cose come stanno e che serve solo ad alleggerire il peso dell’accoglienza che si è scaricato negli ultimi mesi sulla Grecia. Ora, orde di funzionari, poliziotti e guardie di confine europee invaderanno le isole dell’Egeo per “selezionare” gli stranieri buoni da quelli “illegali”. Per uno che entra, uno deve uscire. È la roulette russa del profugo.

L’ipocrisia europea ha toccato in questo caso cime abissali. Poiché una recente sentenza della Corte di giustizia prescrive che un profugo possa essere espulso in uno stato terzo solo se questo è “sicuro”.

Paese “sicuro”, cioè non specializzato in torture, ecco che alla Grecia basterà riconoscere alla Turchia questa qualifica e, voilà, i giochi sono fatti. La Turchia uno stato “sicuro”? Quella che rade al suolo le sue città abitate dai curdi? Quella che manganella manifestanti a tutto spiano? Quella che chiude i giornali non allineati al regime di Erdogan?

L’accordo di ieri non ha nulla a che fare con l’umanità, di cui ha parlato qualche tempo fa Frau Merkel. È la risposta miserabile della Ue alle paranoie di Hollande, all’eccezionalismo high brow di Cameron, alle pretese fascistizzanti di Orban, del governo ultra-reazionario di Varsavia, dell’estrema destra tedesca e di tutti gli altri cultori del filo spinato. E anche delle istituzioni finanziarie che ora, se l’emergenza di Idomeni finirà, potranno dedicarsi a spennare ancora un po’ Atene. E probabilmente della Nato, di cui la Turchia è membro irrinunciabile.

Che fine faranno i 72.000 rimandati in Turchia e tutti gli altri che dovevano essere ricollocati da mesi e vagano tra Sicilia, Calais e chissà dove? Che ne sarà di quelli che arriveranno ora, con la stagione calda, e che sicuramente la Turchia farà passare per spillare ancora quattrini agli europei? Renzi ha dichiarato che la questione dei migranti si risolve in Africa. Bisognerà dirlo agli afghani, agli iracheni e a tutti gli altri che non sono africani, non sono riconosciuti come profughi ed errano in quell’enorme campo minato che si stende tra Istanbul e Kabul, passando per Damasco e Baghdad. Con l’accordo di ieri l’Europa ha chiuso gli occhi sul loro destino.

Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea.

Nonostante gli scettici, dunque, per alcuni problemi e per alcuni gruppi di persone la cui vita è toccata pesantemente da quei problemi, la rappresentanza non elettorale, che fa centro sulla figura dello speaker di fama, può essere rilevante.

La Repubblica 18 marzo 2016

L’ALTO Commissariato dell’Onu per i rifugiati ha nominato sua inviata speciale Angelina Jolie, dando un riconoscimento autorevole al suo impegno a rappresentare cause umanitarie globali; un servizio volontario che l’attrice americana porta avanti da anni. Non votata né scelta dai rifugiati che rappresenta, l’attrice è stata incaricata da un’autorità di indubbia autorevolezza morale e simbolica a mettere la sua persona e la sua fama al servizio di milioni. Accettando l’incarico, l’attrice ha sottolineato di parlare a nome dei sessanta milioni di rifugiati che vanno ogni giorno nel mondo alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere. Ha detto di parlare soprattutto per quelli che provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, che scappano dalla guerra civile in Siria e che premono, spesso respinti con la forza, alle frontiere dei Paesi europei. Angelina Jolie si fa rappresentante senza alcun mandato elettorale e con la forza della sua celebrità, che ha il potere di avere e fare audience, si rivolge ai «governi di tutto il mondo» spronandoli a «dimostrare leadership» e ad «analizzare la situazione e capire esattamente quello che i loro Paesi possono fare, quanti rifugiati possono assistere».

La rappresentanza di problemi (claim-making representation) è da alcuni anni un fenomeno sempre più ricorrente. Basato su un semplice concetto: l’informazione e Internet in particolare hanno il potere di unificare l’opinione dell’umanità al di là dei confini nazionali, e di fare pressione su chi deve prendere decisioni. Parlare per chi non ha voce scuotendo la sensibilità di milioni (fare audience) con lo scopo di risolvere o almeno di mantenere un problema grave sempre sotto i riflettori. Per impedire che chi non ha voce scompaia dai radar del pubblico.

Il primo caso dirompente di questa rappresentanza non elettorale, eppure molto politica, è stato quello di Bono. Nel corso della campagna 2004 “Make Poverty History” il cantante degli U2 dichiarò: «rappresento molte persone che non hanno voce alcuna... non mi hanno chiesto di rappresentarle. È impudente da parte mia, ma spero che siano contente che lo faccia».

In tutte le società ci sono persone che non sono state elette né scelte da nessuno e che a volte rivendicano di essere “rappresentanti politici” di qualcuno che soffre per una condizione di ingiustizia ma non ha voce nelle istituzioni, spesso nemmeno tramite la rappresentanza elettorale tradizionale. Anche tra i cittadini di uno Stato il voto non riesce a dare garanzia che la voce di alcuni non sia ignorata, che i problemi di tutti siano considerati, che alcune questioni non siano iniquamente considerate inferiori ad altre, che magari hanno rappresentanti di interessi forti e agguerriti. I gruppi forti hanno anch’essi i loro rappresentanti non eletti che incidono sulle scelte dei Paesi, ma proprio per la loro forza non hanno bisogno di ricorrere all’espediente della risonanza (anzi, spesso, per essere incisivi non vogliono essere visti né ricevere l’attenzione del pubblico). Sono i perdenti della rappresentanza tradizionale che hanno bisogno di ricorrere a forme nuove di rappresentanza.

Il declino delle ideologie classiste, l’indebolimento dei confini nazionali nel sollevare questioni e determinare decisioni condizionate vieppiù dalle multinazionali, la cronica disaffezione dei cittadini dei Paesi democratici verso i partiti politici (veicolo classico di rappresentanza idologica e simbolica oltre che elettorale), infine la prepotente affermazione di problemi transnazionali e globali che nessuno Stato ha il potere di risolvere da solo: tutto questo fa della rappresentanza di persone che nessuno ha eletto un fenomeno sempre più importante.

Certo, c’è un deficit istituzionale e di legittimità democratica in queste forme di patrocinio volontario transnazionale. Come ha riconosciuto Bono, è un «impudenza» dichiararsi rappresentante di qualcuno senza che quel qualcuno nemmeno lo conosca e, forse, non condivida neppure le sue idee. E impudente ma è una scelta che può avere successo e che, soprattutto, può aprire un nuovo processo rappresentativo, capace di mobilitare le opinioni di milioni di persone, fino a costringere chi ha la funzione di decidere a non girare le spalle. Nonostante gli scettici, dunque, per alcuni problemi e per alcuni gruppi di persone la cui vita è toccata pesantemete da quei problemi, la rappresenza non elettorale, che fa centro sulla figura dello speaker di fama, può essere rilevante. In un mondo che su questioni sempre più importanti non conosce confini, avere forme di rappresentanza capaci di giungere all’opinione pubblica che sta oltre i confini nazionali è sempre più necessario.

«Cosa accadrebbe se fossero i cittadini a chiedere a parlamentari o ministri di esercitare gratuitamente le loro funzioni istituzionali. Lo dico con tutto il rispetto che si deve ai rappresentanti del popolo. Sono convito che l'attività politica vada retribuita giustamente, così come quella giornalistica». Il manifesto, 18 aprile 2016 (m.p.r.)

Il lavoro gratuito al Viminale «non è una novità». La notizia è stata fornita ieri dal ministro dell'Interno Angelino Alfano in una dichiarazione a seguito delle polemiche sollevate da un bando pubblicato dal suo ministero per giornalisti «a titolo assolutamente gratuito». «Non sarebbe incardinato in via permanente nei ruoli del Ministero - ha detto Alfano - Non è una novità. Nessuno costringe nessuno. Vediamo se qualcuno vuol dare una mano d'aiuto in questo modo, viceversa prenderemo atto che nessuno ha voglia».

Poi la precisazione che rivela, più di altre, la realtà disperante di chi, costretto dalle necessità, considera comunque il lavoro gratuito un’opportunità. «Suppongo - ha continuato Alfano - che qualcuno presenterà la domanda». Una certezza da verificare: se la gara andasse deserta sarebbe un punto a favore della resistenza al ricatto del lavoro gratuito. Alfano, invece, è sicuro del contrario. La questione del reddito, escluso per un incarico per ufficio stampa che si occuperà di immigrazione, è stata derubricata a questione «sindacale». «Il nostro è invece un approccio che dà l'opportunità di un'esperienza». L'opportunità di lavorare gratis.
Una durezza simile ancora non si era vista in Italia. All'Expo, ad esempio, l'ex Ad della kermesse e attuale candidato sindaco per il centro-sinistra Giuseppe Sala, aveva usato un vasto repertorio di eufemismi per giustificare il lavoro gratuito di 18.500 «volontari», stabiliti da un accordo sindacale con Cgil, Cisl e Uil. Alfano propone la stessa retorica dell'opportunità che fa curriculum e ribadisce che il lavoro sarà gratis. Il caso, ne abbiamo scritto ieri su Il Manifesto, ha prodotto indignazione, una pioggia di articoli online, la reazione del sindacato dei giornalisti che ha chiesto il ritiro del bando.
«Viene da chiedersi come mai la richiesta non sia stata fatta anche ad altre categorie professionali - sostiene il segretario Fnsi Raffaele Lorusso - Immagino che il Viminale retribuisca medici o avvocati secondo i parametri previsti. Mi chiedo cosa accadrebbe se fossero i cittadini a chiedere a parlamentari o ministri di esercitare gratuitamente le loro funzioni istituzionali. Lo dico con tutto il rispetto che si deve ai rappresentanti del popolo. Sono convito che l'attività politica vada retribuita giustamente, così come quella giornalistica che ha ugualmente una dignità costituzionale». Nel bando Lorusso ha riscontrato «una chiara violazione della legge sugli uffici stampa che parla di giornalisti pubblicisti e professionisti nella pubblica amministrazione - continua - Nel bando si fa riferimento solo ai professionisti. C'è una discriminazione ai danni dei pubblicisti. Questo profilo potrebbe essere sicuramente oggetto di un'impugnativa».
Stampa Romana, l'associazione dei giornalisti di Roma e del Lazio, ieri ha presentato un esposto all'autorità anticorruzione di Raffaele Cantone per valutare la presenza di irregolarità nel bando. «Se un ministro importante come il titolare del Viminale arriva a giustificare il lavoro gratis e lo considera alla stregua di un'opportunità - afferma il segretario di Stampa Romana Lazzaro Pappagallo - vuol dire che il patto sociale fondato sull'articolo uno e trentasei della Costituzione è stato scardinato». Un rapporto Lsdi del 2014 sostiene che riguardi un giornalista su quattro in Italia.
«Questo ci fa orrore quando il committente è privato - risponde Pappagallo - Qui parliamo di un committente pubblico, un ministero. Abbiamo contestato situazioni simili nei casi di piccoli comuni. Ora è il ministero dell'Interno, ramificato in tutto il paese, a farlo. Il collega che sarà selezionato dovrà occuparsi di immigrazione. Trattare questo compito come un'"opportunità di fare esperienza", quindi come un’esperienza formativa, non mi pare sia all'altezza della complessità di un lavoro chiesto comunque a chi lo svolge da anni». Il bando è stato definito «gravissimo» in una nota diffusa da Fp-Cgil: «Grave pensare di non pagare chi lavora, ancora di più scoprire che lo fa il Viminale». Fabio Lavagno (Pd) ha presentato un’interrogazione. In un’altra il movimento 5 Stelle ha chiesto «l’immediato ritiro del bando».
«Vent’anni dopo l’assedio la pace è un lungo dopoguerra. Ecco cosa resta del conflitto che ha cambiato il volto dell’Europa».

La Repubblica, 17 aprile 2016 (m.p.r.)

Quattro Bmw nere ultimo modello con vetri affumicati arrivano sgommando davanti a un ristorante sulla strada fra Tuzla e Sarajevo. Ne escono dieci uomini con giubbotto antiprotettile e pistole nelle fondine, seguiti da civili e qualche valigetta 24ore. L’ultimo ad aprire la portiera è un uomo in giacca e cravatta, faccia rubiconda. Entra senza salutare con la scorta, nella locanda si fa silenzio. Consuma agnello arrosto, patate. Beve un bicchiere di yogurt misto ad acqua, poi butta sul tavolo una manciata di euro spiegazzati e se ne va, seguito dai guardiaspalle. Non è un boss. È un ministro. E la gente dice che è cosa normale. La Bosnia è in mano alla mafia, mentre il popolo è alla fame.

Vent’anni dopo la fine dell’assedio, appena arrivi a Sarajevo e salti su un taxi, il driver ti fa la lista dei misfatti. Che non sono più quelli del nemico del ‘92, ma quelli della criminalità organizzata attuale, incoronata dagli accordi di Dayton e nella quale l’Europa trova i suoi affidabili interlocutori. «Che unità - ti dice la gente - può esprimere un Paese dove fin dalle elementari i bambini imparano, a secondo se sono serbi, croati o musulmani, una storia diversa della loro terra?». Come puoi vivere, ti dicono altri, in una terra dove incontri ogni giorno l’assassino di tuo padre e di tuo figlio? Sono le frasi che in Bosnia suggellano una pace senza giustizia che si è fatalmente trasformata in un infinito cessate il fuoco e nella delega del potere a clan armati fino ai denti.
Vent’anni dopo il secondo conflitto mondiale l’Italia era già in pieno boom. Nello stesso spazio di tempo in Bosnia è nata una generazione che non ha conosciuto gli orrori del ‘92-‘96 e avrebbe potuto far ripartire il Paese, ma Sarajevo vive un infinito dopoguerra e centinaia di organizzazioni non governative continuano a operare sul territorio come se il disastro si fosse appena consumato. Noi stessi ci siamo abituati a guardare alla Bosnia in termini caritatevoli anziché di sviluppo. Un turista, oggi a Sarajevo, sente ancora il fascino del vecchio mercato; anche il profumo del pane e dei cevapcici è sempre lo stesso. Ma appena prendi la strada della periferia e della campagna scopri che tutto è misero, immobile, buio. Tranne le luminarie dei ristoranti o dei distributori di benzina nella mani dei rapinatori che con la guerra si son fatti nababbi.
Nel ‘92 Sarajevo non credette alla guerra. Ci mise dei mesi ad accettare il fatto compiuto. Intorno alla città si scavavano trincee e nidi di cecchini, ma l’evento sembrava inconcepibile. Irreale. Non era possibile, pensava la raffinata borghesia della città, uno scontro nella repubblica jugoslava che più delle altre aveva costruito un suo amalgama laico, staccato dal divide et impera titoista fra serbi, croati e musulmani (gli ultimi letteralmente inventati dai geometri delle etnie per equilibrare il peso dei primi due). Io stesso, alla vigilia del massacro, quando vidi trecentomila persone marciare a Sarajevo per la pace, mi dissi che la guerra sarebbe potuta scoppiare ovunque, tranne che in Bosnia. Bastò un cecchino su un tetto per far saltare la polveriera. Il fatto è che Sarajevo, così come non aveva creduto alla guerra, alla fine dell’assedio ha mostrato di non credere alla pace.
Nel marzo del ‘96 non c’è stata nessuna esplosione di gioia. Era cambiato tutto in quei quattro anni. La parola Mir si era svuotata di senso. La città aveva perso l’innocenza, aveva imparato a odiare. I Caschi blu avevano consentito il massacro di Srebrenica e l’Europa aveva mostrato le sue divisioni, i suoi opportunismi. Nello stesso tempo i dollari degli emiri avevano riempito i vuoti lasciati dall’Occidente, alimentando una rete di imam che all’Occidente avrebbero guardato con poca simpatia. Ovunque tornavano in auge i chierici, fossero cattolici, ortodossi o musulmani. Minareti contro campanili, entrambi enormi e nuovi fiammanti. Anche il cielo veniva cantonizzato, il mitico amalgama bosniaco crollava miseramente. E intanto il meglio della borghesia emigrava in America.
L’attuale governo nato dagli equilibrismi etnici di Dayton è la guida impotente di uno stato fantoccio. I suoi ministri non sono stati capaci di mettersi d’accordo nemmeno sul bando del fumo nei locali pubblici. Lo stesso apparato della cooperazione internazionale, che in Bosnia ha trovato la pacchia ideale per perpetuare se stesso (vedi il film The perfect day), finisce per schiacciare la società civile, impedendole di esprimersi se non attraverso agende eterodirette.
Viviamo con questa polveriera a cento e passa chilometri da Trieste perché ce la siamo voluta. Ce la siamo voluta come europei, perché non abbiamo compreso che lì abitava un Islam moderato che ci avrebbe protetto dai fondamentalismi. Abbiamo consentito che si smantellasse una società plurale in nome di una geometria cantonale che coi Balcani non ha nulla a che fare e abbiamo delegato la nostra difesa agli americani, come in Iraq e in Siria. Sarajevo era Europa. Oggi è lo specchio nel quale per la prima volta l’Europa si è guardata scoprendosi cinica e piena di rughe.

Ormai è chiaro il gioco che l'Europa, seguendo l'esempio di Renzi, sta seguendo con il Pinochet egiziano. «Ma con Al Sisi, Netanyahu, Abu Abbas, l’Italia e l'Europa hanno scelto di appiattirsi sul vecchio ordine, ormai incapace di produrre altro che repressione brutale». Il Fatto quotidiano, 17 marzo 2016

Dall’assassinio di Giulio Regeni soltanto al Cairo èaccaduto quanto segue: sono spariti nel nulla due studenti turchi (eprobabilmente altri egiziani, dei quali però mai si parla); la polizia hachiuso con un pretesto l’unico centro che curava le ferite fisiche e psicologicheinflitte a migliaia di torturati; sono stati arrestati per aver bestemmiato ilCorano tre ragazzini cristiani; 17 organizzazioni umanitarie hanno denunciatoil progressivo attacco ai diritti delle donne e alle libertà religiose, sommatoalla crescente ferocia della repressione.

Cinque giorni fa il Parlamento europeo si èfinalmente accorto che il regime egiziano ha costruito “un contesto di tortura,morte in custodia e sparizioni (di arrestati)”, così come è scritto nella mozioneapprovata a larghissima maggioranza, anche su impulso italiano (come sollecitavada tempo questo giornale). Poiché il testo apre la strada a temutissime sanzioniad personam contro alti dignitari del regime, in un’intervista a Repubblicaieri il maresciallo Al Sisi ha promesso piena collaborazione agli inquirentiitaliani per scovare gli assassini di Regeni. Su questo risultato non scommetteremmouna svalutata lira egiziana, tanto più perché il generalissimo precostituiscel’esito delle indagini: Regeni ucciso per sabotare le ottime relazioni traItalia ed Egitto, ovvero il rapporto tra lui e Renzi, “un buon amico mio”.
Però mettiamo che il generalissimo cismentisca, che insomma la magistratura cairota offra una versione nonsgangherata come le precedenti, perfino qualche indizio per arrivare allafeccia che materialmente torturò e uccise: cosa dovremmo fare a quel punto?Torneremmo ad affratellarci con il Pinochet egiziano fingendo di non sapere deisuoi centri di “ interrogatori” , delle migliaia di desparecidos e morti sottotortura? Oppure ci tratterrebbe quel che finora è mancato, un residuo dipudore, un principio di intelligenza?
È sufficiente questo dubbio per capire che laterribile vicenda Regeni ormai investe la nostra politica estera in unoscacchiere, il Mediterraneo, per l’Italia decisivo; e mette in gioco l’identitàe i valori di ciascuno tra i nostri partiti, a cominciare dal Pd. Dunque cosafaremmo? Stando agli editorialisti che hanno sfiorato l’argomento dovremmoconfermare la nostra alleanza con Al Sisi: il generale sarebbe un baluardo contro il terrorismo (così i vari Battistasulla scia di Renzi, che ad Al Sisi disse: “La tua guerra è la nostra guerra”).
Questo modo di ragionaresi richiama a un principio ispiratore della nostra politica estera, ilcosiddetto realismo. Che nella circostanza suona così: noi veneriamo i dirittiumani, fondamento della nostra civiltà; ma se c’è una convenienza ci facciamoamici di qualsiasi sterminatore (purché non tocchi la nostra gente). Applicatoall’Egitto (e ad altri Egitti della nostra politica estera), un realismo checonduce ad un esito così paradossale sembra ribaltarsi nell’irrealtà. Qui non si tratta di opporgli i buonisentimenti o di ignorare il nostro interesse nazionale: però dobbiamo capire seè limpido il percorso di quel rovesciamento. L’Europa che si pretende realistaha deciso di ignorare il nucleo di società civile all’origine delle ‘primaverearabe’ ed ha accettato l’alternativa che proponeva Al Sisi o il despota ol’orda terrorista, nient’altro sulla scena. È una rappresentazione clamorosamentefalsa ma fonda uno schema conveniente per tutti.
Potremmo chiamarlo lo schema-Renzi perché è l’italianoche lo inauguradue anni fa,quando, primotra gli europei afar visita ad Al Sisi, aiuta l’egiziano ad usciredall’isolamento.Il baratto a quelpunto è chiaro: ilgolpista Al Sisiotterrà dagli occidentali rispettabilità e legittimazione (con l’omertà che ne consegue),gli occidentali (i più furbi) ricche commesse e la disponibilità di Al Sisi adassecondare alcuni loro piani. Parigi ne ha ricavato 4,6 miliardi di euro inforniture militari e il sostegno egiziano a varie iniziative nella regione.Anche Roma ha trovato il suo vantaggio, però forse minore di quanto Renziavesse meritato eccedendo nelle lodi del grande statista’ egiziano. Inoltre AlSisi collabora attivamente col governo Netanyahu, e questo coincide con lapolitica estera renziana, che mantiene con Israele un rapporto profondo.

Ma un realista cheguardasse oltre il proprio naso farebbe un bilancio meno entusiasta. Con AlSisi, Netanyahu, Abu Abbas, l’Italia ha scelto di appiattirsi sul vecchioordine, ormai incapace di produrre altro che repressione brutale. Un pensatoioamericano, Foreign policy, si chiedeva se Al Sisi sarebbe arrivato al 2017ancora in sella. Per sopravvivere inventa complotti e spinge sul nazionalismo,tigre rischiosa da cavalcare in tempi di dura crisi economica (e il peggio staarrivando). Di recente ha lasciato di sasso una platea di funzionari con un discorsomelodrammatico nel quale ha ripetuto, commosso fino alla lacrime, che pur digiovare alla patria avrebbe venduto anche se stesso. Chi comprebbe oggi unPinochet egiziano? Pochi tra i 40 milioni di musulmani sotto i 25 anni. Ilgiornalismo renziano, tutto. E i giovani del Pd, nessun dubbio, nessun disagio,nessun valore?

A partire dagli eventi pre-elettorali di Roma, una lettura dell'evoluzione della destra italiana dopo la crisi del berlusconismo. Chi rifonderà l'area della sinistra?

Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016 (m.p.r.)

La politica finisce sempre per rispondere, bene o male, ai sussulti delle evoluzioni sociali, dentro cui ci sono anche le successioni di generazioni. Non è detto che queste comportino sempre il rito di uccidere il padre (più o meno metaforicamente), ma spesso succede, ed è quanto sta avvenendo nel centrodestra. In maniera confusa, si capisce, ma anche questa è una sorta di regola. La querelle per le elezioni a Roma è emblematica da questo punto di vista. Troppo semplice ridurla ad uno scontro dove l’ambizione del giovane leader rampante Salvini è disarcionare definitivamente il vecchio duce Berlusconi. Quello è l’esito di una evoluzione che converrebbe considerare più attentamente.
In origine, dopo il fallimento del grande contenitore di centro democristiano che faceva al tempo stesso da ponte e da argine fra i due estremi dello spettro politico, la ricostruzione della destra italiana era stata realizzata da Berlusconi con la capacità di unire una nuova narrazione con un recupero di alleanze unificate sotto la sua guida. La narrazione era quella di un paese in cui la libertà di fare (e di trafficare) che genera ricchezza e possibilità di avanzamento per tutti era impedita dai «comunisti», cioè da un potere pubblico dirigista perché in mano ai partiti della sinistra. A sostenere quella narrazione c’era la vicenda personale del leader che facendo e trafficando era diventato ricco pur essendo partito da condizioni non privilegiate.
Le alleanze erano costruite sull’unione del suo nuovo partito con gli «esclusi» dal sistema che si combatteva: i populisti della Lega e i politici della destra post-fascista. Anch’essi erano portatori di narrazioni che facevano perno sulle leggende di un potere in mano a partiti che impedivano lo sviluppo delle rispettive enclave di consenso: il Nord prospero vampirizzato da un Sud scroccone; i partiti che mettevano i loro interessi sopra quelli dello «stato-nazione» unica fonte per il benessere del popolo.
Quel che sta accadendo ora a Roma rende evidente la dissoluzione di quello schema che per un ventennio è stato egemone e anche a lungo vittorioso. Innanzitutto nella crisi economica e sociale attuale non regge più il mito che la libertà di fare e trafficare porti ricchezza a tutti, anzi si comincia a temere che se vengono meno i sostegni pubblici la situazione peggiorerà. La possibilità di Berlusconi di incarnare quel mito si è appannata: ricco è diventato lui, ma appare più interessato a difendere la sua posizione personale che a dare chance di successo a tutti. Adesso il nemico non sono più i «comunisti», ma gli immigrati che, sempre nella narrazione, rubano il lavoro e comunque pesano sulle spalle degli italiani; l’Europa che ci impone sacrifici e via dicendo.
Di conseguenza sono mutate anche le narrazioni alla base delle forze che un tempo Berlusconi aveva federate. Alla Lega di oggi importa poco del conflitto Nord-Sud e del secessionismo, mentre cavalca le nuove paure contro immigrazione, impoverimento del welfare (vedi la campagna anti-Fornero), prospettive di declino economico. La destra post-fascista è lontana dalle pulsioni al riconoscimento sociale e all’inclusione nelle stanze dei bottoni che avevano animato la stagione di Fini visto che quello non le ha portato gran bottino elettorale e anzi la vede fagocitata nel generico quadro del moderatismo conservatore. Perciò riscopre le pulsioni populiste che da tempo facevano parte del suo Dna, il che la spinge inevitabilmente in sintonia con la nuova versione della Lega, a cui però quella alleanza serve molto per la sua strategia di espansione al Sud.
Se leggiamo in quest’ottica ciò che sta avvenendo, comprendiamo la centralità del caso romano. Qui la vecchia narrazione berlusconiana così come la sua ambizione di federare le ali estreme come pretoriani del moderatismo non reggono. Al nuovo partito lepenista di Salvini il «Roma ladrona» di bossiana memoria non serve, mentre per converso quel che resta della antica An non sa che farsene del mito della destra conservatrice e in doppio petto sola rappresentante del perbenismo politico. Sono tutti residui di un passato di cui le generazioni dei quarantenni non hanno nostalgia e che servono ormai poco per raccogliere consensi. La competizione non è più quella coi «comunisti», ma con la concorrenza populista dei Cinque Stelle da un lato e con il nuovo partito pigliatutto di Renzi dall’altro.
Berlusconi è spiazzato in questo contesto e non se ne rende conto, il che è l’aspetto veramente rilevante. È per questo che non riesce a mettere in campo strategie di vera risposta, che non siano quelle già viste del mugugno. Se leggesse un po’ di storia, saprebbe che agli eredi della classe dirigente liberale prefascista non è servito a nulla indignarsi perché al potere andavano i democristiani che non avevano la loro esperienza di classe di governo ed erano più o meno dei giovani senza arte né parte. Alla fine, per quel tanto che hanno potuto, han dovuto venire a patti coi nuovi vincitori. Così all’ex cavaliere servirà poco denunciare che Salvini ha fatto al massimo la comparsa a Mediaset o la Meloni la babysitter a casa Fiorello.
Naturalmente non tutto è semplice, perché nel gioco di rifondazione dell’area di destra non ci sono solo questi soggetti. A parte le truppe di disturbo locali, tipo Storace, c’è il fantasma delle «liste civiche» alla Marchini, che non è affatto un fenomeno solo romano, perché lo troviamo sempre più spesso presente nelle competizioni locali. Per ora è un qualcosa di molto variegato e con una fisionomia sfuggente, che cerca di essere accalappiato tanto dall’area di sinistra quanto da quella di destra, ma può anche avere evoluzioni che lo consolidino e lo portino ad essere una componente in grado di giocare un qualche ruolo nella ricomposizione dell’universo della destra italiana.

La contraddizione profonda tra lo scippo renziano del referendum per l'acqua pubblica e il moltiplicarsi di iniziative referendarie, con le quali il popolo, tradito dalla politica politicante, vuole riappropiarsi della democrazia. La Repubblica, 17 marzo 2016

oQUASI cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel quale ci troviamo.

Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l’anno del referendum o dei referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato l’Italicum alla Consulta).

Questo non significa che quest’anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell’Adriatico. Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni, questo attivismo testimonia l’esistenza di riserve diffuse di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non sollecitate dall’alto che non possono per alcuna ragione essere sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i cittadini diventano protagonisti della costruzione dell’agenda politica, dell’indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese.

Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”, che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente incidono sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l’Italicum. Le leggi d’iniziativa popolare riguardano l’articolo 81 della Costituzione, il diritto allo studio nell’università (per iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell’ambiente e dei beni comuni. E bisogna aggiungere l’iniziativa della Cgil che sta consultando tutti i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali del lavoro”, mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.

Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l’unico referendum che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e che si possa ignorarne gli effetti.

Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono giunti negli ultimi giorni, nell’approvare le nuove norme sui servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l’acqua rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma qui, come s’era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della ”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto referendario.

È evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le istituzioni rischia d’essere vanificato. Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente travolgerli.

Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l’attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso dall’alto, e dunque l’opposto del referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra “il capo e la folla” indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così delicato della democrazia diretta.

Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente parlare di democrazia “in pubblico” e che il moltiplicarsi degli strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che la democrazia si è fatta “continua”. Ma forse, se vogliamo indagare il nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo trasferimento a quest’ultimo di quote crescenti di potere di decisione, questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre Rosanvallon, di una “democrazia di appropriazione”, nella quale il mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini, passaggio necessario per recuperare una “democrazia della fiducia”.

A proposito delle polemiche provocate dagli strumentali attacchi dei campioni del maschilismo italiano (B&B) a Meloni una riflessione che ricorda, ai più vecchi, temi degli anni 60 del secolo scorso. LaRepubblica, 16 marzo 2016

PER le donne sembra non ci sia mai il momento giusto per dedicarsi al lavoro, alla politica, all’impegno sociale, al perseguimento di un interesse. Se non hanno figli potrebbero tuttavia averne in un prossimo futuro; quindi sono considerate un rischio per i datori di lavoro. Se ne hanno di piccoli, sono inaffidabili perché devono occuparsi di loro. Se ne hanno di adolescenti, è bene che non li perdano di vista perché potrebbero mettersi nei guai.

Gli uomini invece no, possono dedicarsi anima e corpo al lavoro, alla politica, o a qualsiasi altro interesse, anche se hanno figli. Forse è per questa visione ottocentesca condivisa ancora da troppi uomini italiani, specie a capo di aziende o in politica, che l’organizzazione del lavoro è così ostile alle mamme lavoratrici, si investe così poco nei servizi, gli orari delle organizzazioni politiche e sindacali sono così difficili da conciliare con la vita e le responsabilità familiari, per le donne e per gli uomini. Se anche i padri si occupassero di più dei figli, forse penserebbero a modelli organizzativi più ragionevoli. Avviene già in altri paesi, dove non a caso si vedono anche più donne, anche mamme, in politica e a dirigere aziende. E dove i padri prendono qualche mese di congedo per stare con i figli piccoli.

In Italia invece c’è chi, non avendo mai lontanamente pensato di fare una cosa del genere e neppure, avendone il potere (da premier, oltre che come capo di aziende), ha mai fatto nulla per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare, si permette di dare consigli su come dovrebbe comportarsi una vera madre. Tra l’altro, sembra che ogni figlio di donna in politica (o comunque in carriera) nasca orfano di padre. La presenza di questi non è prevista come adeguato sostituto della madre nelle ore o giorni in cui questa non potesse essere accanto al piccolo. Quanto al congedo di maternità, evocato da Berlusconi come impedimento alla candidatura di Meloni, è un diritto duramente conquistato dalle donne lavoratrici, per proteggerne la salute, dare loro tempo con il neonato, non esporle al rischio di licenziamento. Ma non le esime, per lo più, dal lavoro domestico e dalla cura dei figli, se ne hanno già altri. E molte libere professioniste o artigiane, per necessità o scelta, non abbandonano del tutto il lavoro anche durante il congedo. Ho il sospetto che lo stipendio da parlamentare, ma anche da sindaco di una grande città, consenta di delegare ad altri il lavoro domestico e anche parte della cura del neonato, a differenza di quanto avviene per molte madri lavoratrici. Decidere di assumere un impegno gravoso durante la gravidanza e dopo il parto può essere una scelta che si può o meno condividere individualmente, non da impedire o dichiarare impossibile.

È vero che la prima ad alludere ad una incompatibilità tra maternità imminente e candidatura a sindaco era stata proprio Giorgia Meloni, quando ha utilizzato il palcoscenico del Family day, con i suoi slogan sulle nette distinzioni tra padri e madri, per annunciare di essere incinta. È probabile, tuttavia che, al netto della strumentalizzazione della circostanza per accreditarsi in quell’elettorato, Meloni si riferisse a un suo personale, comprensibile, desiderio di godersi gravidanza e primi mesi di vita del bambino, senza imbarcarsi in una impresa indubbiamente faticosa, non ad una impossibilità, o incapacità a tenere insieme le due cose. E in effetti, anche prima di decidere di candidarsi, non ha smesso neppure un giorno la propria attività politica, dando anche più di un indizio che, forse, era stata troppo precipitosa nel chiamarsi fuori. Chissà se gli interessati consigli che sta ricevendo dai suoi (ex?) alleati, così intrisi di antichi stereotipi di genere, non la facciano guardare con maggiore spirito critico alle sue battaglie contro “la teoria gender”.

Come al solito su queste pagine una domanda riemerge, drammatica: come mai un così palese disprezza della democrazia, un così pertinace privilegio ai grandi interessi economici a danno degli interessi di tutti non toglie consensi all'autore di queste scelte?

Il manifesto, 16 marzo 2016

Quello che i parlamentari del Pd da una parte, e il Governo Renzi-Madia dall’altra, stanno portando avanti in questi giorni sulla questione dell’acqua, è di una gravità estrema.

Partiamo dai fatti. Nel 2007 il movimento per l’acqua aveva presentato, corredata da 406.000 firme, una legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua e la sua gestione partecipativa. Quella legge, mai portata in discussione nelle istituzioni fino alla decadenza, è stata ripresentata in questa legislatura da un intergruppo di parlamentari (M5S, Sel e alcuni Pd), in diretto accordo con il Forum italiano dei movimenti per l’acqua. La legge è finalmente approdata alle Camere, ma, all’ultima curva prima del traguardo, con la sorpresa di emendamenti Pd – votati anche dai parlamentari proponenti della legge (!)- che, abrogando l’articolo che prevedeva modi e tempi per il ritorno alla gestione pubblica di ogni situazione territoriale oggi in mano ai privati, ne stravolge il cuore e il senso.

Con questo atto, il Pd pone una cesura irreversibile non solo con il movimento per l’acqua, ma con l’idea stessa di democrazia diretta, come iniziativa legislativa posta in essere direttamente da centinaia di migliaia di cittadini.

Nel contempo, oltre 26 milioni di donne e di uomini di questo Paese si sono pronunciati, nel referendum del giugno 2011, per l’uscita dell’acqua dal mercato e dei profitti dall’acqua, attraverso un’esperienza di straordinaria partecipazione dal basso e un percorso di alfabetizzazione sociale senza precedenti.

Anche quel pronunciamento è oggi sotto attacco diretto: è stato diffuso, sempre in questi giorni, il Testo Unico sui servizi pubblici locali, decreto attuativo della Legge Madia n. 124/2015, che si prefigge – letteralmente – gli obiettivi di «ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità» e di «garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati».

In quel testo, è contenuto l’obbligo di gestione dei servizi pubblici locali a rete attraverso società per azioni (art. 7, comma 1); nonché l’obbligo, laddove la società per azioni sia a totale capitale pubblico, di rendere conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato (comma 3), di presentare un piano economico-finanziario relativo a tutta la durata dell’affidamento, sottoscritto da un istituto di credito (comma 4), di acquisire il parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 5).

E, affinché sia chiaro a tutti come l’anomalia referendaria vada definitivamente consegnata agli archivi, ecco ricomparire, dopo anni con cui si era tentato di nasconderla dentro la dicitura «oneri finanziari», l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (art. 25, comma 1) nella composizione della tariffa, nell’esatta dicitura che 26 milioni di cittadini avevano democraticamente abrogato.

Il disprezzo della volontà popolare e della democrazia non poteva essere meglio esternato.

Dopo aver annichilito il paese con la trappola-shock del debito pubblico ed averlo rinchiuso nella gabbia del pareggio di bilancio, del patto di stabilità e dei vincoli monetaristi, le grandi lobby finanziarie, grazie ai provvedimenti del governo Renzi, si apprestano ora ad espropriarlo dell’acqua, dei beni comuni e di tutto ciò che a tutti appartiene.

Alle donne e agli uomini che, in tutti questi anni, hanno detto chiaramente come l’acqua e i beni comuni siano garanzia di diritti universali, da sottrarre al mercato e da restituire alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, il compito di fermarli.

Perché, oggi più che mai, si scrive acqua, si legge democrazia.

Un saggio che relega ai margini della ricostruzione storiografica l’inedito meccanismo riformatore che ha visto nei decenni passati l’intreccio di lotte sociali, civili e un quadro parlamentare capace di accogliere, mediare e deliberare. "Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi"».

Il manifesto, 15 marzo 2016, con postilla

Guido Crainz è stato autore di una fortunata trilogia partita nel 1996 con la Storia del miracolo economico, proseguita con Il paese mancato, e conclusa infine nel 2013 con Il paese reale. Nell’insieme questi libri rappresentano la ricostruzione più ampia della storia repubblicana, ed hanno avuto un meritato successo di pubblico. Oggi Crainz propone un nuovo testo (Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Donzelli, pp. 387, euro 27) che in apparenza può sembrare – e in parte lo è davvero – un riassunto dei volumi precedenti. Ma solo in apparenza, perché accanto agli elementi di continuità emergono anche le differenze, nell’impostazione come nella trattazione di una materia così ampia.

Molti giudizi vengono riproposti, altri ripensati. Tutta la vicenda della «Prima Repubblica» appare inevitabilmente in una luce meno sinistra di quanto non apparisse al declinare della sua esperienza, e in questo gioca sicuramente un ruolo la prova non esaltante della Seconda Repubblica proclamata e poi forse mai decollata. Intervengono sfumature di giudizio per la verità molto selettive: giganteggia la figura di De Gasperi, interpretato in tutto e per tutto secondo il lascito interpretativo di Pietro Scoppola, si mantiene una vigile diffidenza nei confronti di Togliatti, del Pci e della Cgil.
Va segnalata anche – ed è un merito innegabile – la modifica di giudizi canonici su alcuni temi «caldi» della storia italiana. Cito per tutti la trattazione del tragico luglio 1960, che alla luce dei nuovi documenti consultati appare il frutto di una deliberata prova di forza voluta dal governo Tambroni, contro la stessa disposizione del Msi, che suggeriva un divieto governativo per uscire dall’impasse in cui si era cacciato.

Ma va sottolineata anche l’accentuazione di alcune caratteristiche originali già proprie della impostazione che Crainz ha dato alla sua opera. Non più solo costume, cinema, musica, già ampiamente presenti nei volumi precedenti: ora entrano nella narrazione anche design, moda, architettura, pubblicità, stili di vita. È una storia della società intesa nell’accezione più vasta e moderna oggi praticata.

L’insufficienza della politica

Il sacrificio inevitabile che questa disposizione comporta è il deperimento della storia politica, non più centrale nella trattazione, assieme alla marginalità, talvolta quasi occasionale, della dimensione internazionale dei problemi. È un tipo di storia alla quale probabilmente dovremo abituarci, perché consunzione prima e poi morte apparente della politica avranno le loro ricadute anche nella gerarchia degli avvenimenti fatti oggetto di storia.

Per la verità qui la politica, ridotta a termini molto più concisi del consueto, riaffiora spesso come evocazione costante di un limite che sembra accompagnare tutta la storia repubblicana: formule come «politica distante dalla società», «incapace di comprenderne i mutamenti», si trovano nell’arco molto ampio che va dalla fondazione della Repubblica al suo apogeo che precede il crollo; e poi nella seconda parte «la politica incapace di riformarsi» viene assunta come elemento fondativo del declino inarrestabile del paese nel suo complesso. L’insufficienza della politica, il venir meno ai suoi compiti, la sua colpevole inadeguatezza: finiscono per risultare questi gli unici elementi di continuità che nel lungo periodo tengono assieme una storia fatta di passaggi a volte tumultuosi e di una vicenda che vede mutare tutto, e talora molto in fretta.

Se per epoche ormai lontane della storia unitaria disponiamo di trattazioni consolidate e valutazioni che nel tempo si sono fatte sempre meno controversistiche (si pensi all’Italia post-risorgimentale, ma anche allo stesso fascismo), la storia repubblicana (e soprattutto nei suoi ripensamenti compiuti «da sinistra») continua a presentare caratteristiche del tutto particolari, che rinviano a una lontana tradizione che va da Alfredo Oriani a Piero Gobetti e oltre: storia anche e soprattutto di ciò che l’Italia avrebbe potuto essere e non è stata, del lungo capitolo di «occasioni mancate» che nella coscienza retrospettiva degli italiani sembrano connotare la storia nazionale. Un titolo come Il paese mancato rendeva bene questa disposizione di fondo.

Col che non si vuol dire assolutamente che le alternative nella storia non contino e non vadano tenute in considerazione, laddove siano state effettivamente operanti e presenti nella consapevolezza dei contemporanei, che praticarono indubbiamente scelte che vanno valutate nel quadro di rapporti di forza all’epoca dislocati. È rischioso però che finiscano per divenire asse centrale di un’interpretazione complessiva nel lungo periodo.

E inoltre non può sovrapporsi alla storia reale l’arrière-pensée dello storico formulato a grande distanza dagli eventi. Due esempi di questo procedimento si trovano concentrati al termine della trattazione del «lungo Sessantotto» italiano, dove una delle critiche (che è in larga misura anche autocritica generazionale da parte di Crainz) rivolte alla politica nata a sinistra del Pci consiste nel rilevare che «svanì anche la possibilità di una alternativa laica e moderna alle “due chiese” dominanti, quella cattolica e quella comunista: ci si limitò a erigere all’ombra di quest’ultima, e in polemica con essa, un microscopico edificio molto composito (segue elenco dei gruppi extraparlamentari) destinato a crollare di lì a poco».

Questa alternativa però era totalmente impensabile nella cultura di quel tempo, e sembra più che altro la proiezione retrospettiva di quella koiné tardoazionista che è divenuto l’approdo più diffuso di gran parte della generazione che un tempo si sentiva rivoluzionaria. Come anche è singolare l’accusa ai movimenti giovanili di non essere stati capaci di costruire «nuove regole» al posto di quelle che venivano contestate e abbattute: compito storico che – al di là dell’ossessione tutta recente per le «regole» – non poteva certamente venire attribuito a movimenti di contestazione, ma è addebito che andrebbe rivolto alle classi dirigenti.
Il «mancamento» del paese interviene, secondo una opinione in realtà già largamente diffusa, nel 1964: in quella data il centrosinistra appena nato rinuncerebbe ai suoi propositi riformatori e si adagerebbe in una routine priva di slanci, incapace di governare i mutamenti della società.

La svolta degli anni Novanta

Il lettore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un lungo piano inclinato che porta inesorabilmente alla miseria dell’oggi. Eppure si sta parlando di quello che rimane indubbiamente nella storia degli italiani il periodo di maggiore sviluppo e maggiore benessere mai vissuto da chi ha abitato la penisola.

Nel corso del primo trentennio repubblicano si ebbe la rottura di quadri plurisecolari della società italiana, e nel giro di pochi anni l’Italia si trasformò da paese prevalentemente contadino in paese prevalentemente operaio, mentre già al termine degli anni Sessanta si scopriva un paese con prevalenza del settore terziario: uno sconvolgimento di portata enorme che mutò condizioni di vita, culture, consuetudini, aspirazioni e visioni del futuro. In quegli anni giunsero a maturazione conquiste sociali conseguite a prezzo di grandi e lunghe lotte, come pure diritti civili e di libertà fino ad allora impensabili, nel quadro di una democrazia parlamentare e costituzionale spesso minacciata e talvolta rimessa in discussione, ma che riuscì a vivere e radicarsi a lungo, fino alla svolta distruttiva degli anni Novanta.

Nel discorrere di tutto il capitolo delle riforme in Italia forse, di fronte a un fenomeno dalla durata così rilevante, bisognerebbe riconoscere che vi è stato un particolare meccanismo riformatore fondato sull’intreccio di lotte sociali e civili (e di iniziativa politica) che modificavano i rapporti di forza e trovavano una democrazia parlamentare disposta ad ascoltare, mediare e deliberare: qualcosa che abbiamo perso nell’ultimo ventennio e che probabilmente rimpiangeremo a lungo.

Nel libro non si nega certo che siano stati conseguiti risultati di portata storica, ma tutte le grandi riforme – dall’istituzione dell’ordinamento regionale al Servizio sanitario nazionale – appaiono come inquinate dalla politica, che le trasforma in fattore di spreco e clientelismo anziché elemento di progresso democratico e civile. Sono denunce che nel tempo per la verità si infittiscono, e che alla fine degli anni Ottanta si sommeranno all’indignazione per la corruzione sistematica di un quadro politico raffigurato ormai come un freno allo sviluppo di una società civile laboriosa e virtuosa. La «questione morale» evocata da Berlinguer e da molti altri verrà vissuta in maniera molto diversa dalle molte Italie non comunicanti che ormai sono maturate e si fronteggeranno nel bipolarismo coatto degli anni successivi.

Non morirà di morte naturale il quadro politico della Prima Repubblica: e qui, più che alla magistratura tante volte invocata o denigrata, bisogna pensare a quel vero e proprio «plebiscito contro il sistema proporzionale» operato per via referendaria, sostenuto da un’imponente campagna di stampa nutrita di antipolitica, antiparlamentarismo, massicce dosi di qualunquismo spicciolo che sfuggirono allora all’intellettualità tardoazionista ma si riveleranno nettamente prevalenti nel lungo periodo.

Siamo di fronte del resto, come Crainz rileva fin dall’avvio degli anni Ottanta, a un popolo la cui struttura e composizione sembra sfuggire all’analisi, malgrado le mutevoli e a volte immaginifiche metafore del Censis: molti decenni dopo il quadro non è mutato, anzi il mistero si può ritenere ancora più fitto.

Un renzismo pensoso

Crainz arriva nella trattazione fino all’attualità più stretta – rischio che forse sarebbe stato prudente evitare – e offre conclusioni che potremmo definire di «renzismo pensoso», approvando rottamazione e sfida alla vecchia politica da parte di Matteo Renzi, legge sul lavoro, riforma elettorale e superamento del bicameralismo, così come la contrapposizione alle organizzazioni sindacali, «simulacri sbiaditi di quel che erano state in passato, prive di quella capacità di misurarsi con gli interessi generali che era stata la forza del sindacalismo italiano». Ma con molti dubbi sulla capacità di invertire il declino nazionale, di rinnovare la politica anche attraverso un processo di promozione e selezione di «un ceto dirigente all’altezza dei compiti».

Che non si vede in realtà da dove possa scaturire dopo aver ultimato la distruzione della rappresentanza politica, a cui si è aggiunto anche l’azzeramento di corpi intermedi un tempo serbatoio di stimoli e di quadri, e una volta compreso in maniera fin troppo evidente che non esiste una società civile incontaminata contrapposta a una politica corrotta: un lungo «autoinganno» che fu all’origine della Seconda Repubblica e che oggi non appare riproponibile.
Nell’introdurre gli avvenimenti che portano alla «frana» (come viene definito il crollo della Prima Repubblica) Crainz era partito da un’intuizione giusta: se si vogliono comprendere i reali condizionamenti internazionali che rendono possibile quello sbocco occorre guardare non alla caduta del muro di Berlino ma a Maastricht. Un condizionamento stringente di cui si colgono però solo gli elementi «virtuosi», quelli che ci costringono a «fare i conti con noi stessi», metter ordine nei conti pubblici, acquisire comportamenti austeri rispetto allo scialo degli anni precedenti.

Gli storici del futuro probabilmente si chiederanno come un grande paese industriale abbia potuto, praticamente senza una vera discussione, sottoporsi a un meccanismo con ogni evidenza destinato a impoverirlo e a tagliare alla radice le basi della sua crescita. E forse i «vincoli esterni» invocati dalle classi dirigenti per abbattere le conquiste repubblicane somiglieranno a quella chiamata degli eserciti stranieri voluta tanti secoli addietro dai maggiorenti locali per abbattere le libertà italiane in costruzione.

postilla


Sia l'autore del libro sia il recensore, che giustamente critica alcuni aspetti della trattazione di Crainz, sembrano dimenticare come sul rovesciamento della stagione delle "grandi riforme" abbia inciso la campagna di terrorismo di Stato iniziata con la seria di atti dinamitardi iniziata all'indomani dello sciopero generale nazionale del novembre 1969,
e proseguita con la miriade di assassinii e stragi delle mafie e dei terrorismi di "destra" e di"'sinistra" proseguiti per più di un decennio.
«La foto della piccola

Bayan nata in un campo di confine sta lì a ricordarci l'allargamento necessario della cittadinanza europea, come la foto del piccolo Aylan sta lì a ricordarci quale perdita di umanità comporta restringerla con i muri, i fili spinati e le forze dell’ordine». Internazionale, 14 marzo 2016

Un bambino di nome Aylan è morto sulla spiaggia di Bodrum lo scorso agosto. Una bambina di nome Bayan è nata pochi giorni fa nel campo profughi di Idomeni. Le rispettive fotografie sono già passate alla storia come simboli quintessenziali della condizione straziante in cui versano i migranti e della condizione penosa in cui versa la cosiddetta Unione europea, che sulle politiche per i migranti non cessa di disunirsi.

Della prima foto, lo ricorderete, si disse e si scrisse tutto e il contrario di tutto: che squarciava un brandello di realtà e che era abuso di minore, che scuoteva le coscienze e che era sciacallaggio mediatico, che forniva alibi alle nostre colpe e che poteva indurci a riscattarle, che alimentava la catena mediatica del voyeurismo e che la spezzava. Aveva ragione chi l’aveva scattata e chi l’aveva divulgata: quella foto aveva la forza dell’unicità e del perturbante, e fu capace di spostare la percezione dei migranti, da una massa indistinta e aliena alla singolarità delle vite innocenti spezzate; rimbalzò sulle decisioni politiche di Angela Merkel, mosse file di cittadini austriaci ad accogliere i profughi alla frontiera.

Della secondo foto, nessuno ha messo in dubbio la legittimità: è una nascita, non una morte; apre la speranza, non stende la cappa del lutto; celebra la vita, pur nelle condizioni di degrado estremo di un campo pieno di fango e di fame. Ma questa seconda foto non riscatta la prima: la raddoppia. L’una e l’altra, insieme, ci obbligano a pensare un impensato, il cambiamento della condizione umana che si sta verificando ai confini fra l’umanità che è legittimata a esistere e quella che non lo è.

Che cosa succede a una civiltà quando i due eventi decisivi della condizione umana, la nascita e la morte, accadono nella cornice di una condizione destinata da quella stessa civiltà a essere meno che umana, sub-umana, dis-umana? Quali corde profonde di empatia toccano, o dovrebbero toccare, quelle foto? Quali amputazioni provocano, se quelle corde non arrivano a toccarle? Quali confini mostrano, e quali spezzano? Il corpo del piccolo Aylan fu riportato dal padre nella sua terra d’origine per essere seppellito e compianto. La neonata di Idomeni a quale terra appartiene? Dov’è nata, in quale terra potrà tornare se e quando avrà desiderio di ritrovare la sua origine? Quale ius soli o quale ius sanguinis ne regolerà l’attribuzione sociale? Sulla sua carta d’identità ci sarà scritto che è nata a Idomeni, con la numerazione della tenda al posto della via e del numero civico?

Sui confini europei si combatte, oggi, una guerra di sfondamento che ha i caratteri di una mutazione della specie: non ne usciremo come eravamo, ne usciremo – se ne usciremo – inevitabilmente cambiati, alterati, letteralmente, da popolazioni che ci ostiniamo a considerare altre da noi e a volere allontanare, o appunto confinare, recintare, mettere al bando nei campi. Ma se il bando, gesto istitutivo dello stato d’eccezione, colpisce gli adulti, nulla può sulla nascita. Si nasce anche in un campo, si viene al mondo violando qualunque bando. Questa nascita dunque si fa beffa dei confini, e ne mostra non la potenza ma la porosità: l’umano spunta, imprevisto, proprio laddove lo si vorrebbe tener fuori. La vita si prende la rivincita sul suo controllo biopolitico, e l’esistenza si mostra nella sua eccedenza rispetto alla cittadinanza.

Etienne Balibar ha scritto qualche tempo fa che i migranti sono il motore dell’allargamento reale dell’Europa, quello che si produce da sé senza aspettare di essere sancito dai trattati, e la base impellente dell’allargamento necessario della cittadinanza europea. La foto della piccola nata in un campo di confine sta lì a ricordarcelo, come la foto del piccolo Aylan sta lì a ricordarci quale perdita di umanità comporta restringerla con i muri, i fili spinati e le forze dell’ordine. Le foto di altri bambini, militanti precoci di una guerra che li trascina in prima linea, ce li mostrano tutti con un cartello in mano: “open the border”, c’è scritto sopra.


Una donna lava una bambina appena nata nel campo di Idomeni, al confine tra la Grecia e la Macedonia, il 6 marzo 2016. (Iker Pastor, Anadolu Agency/Getty Images)

L'analisi sferzante e sarcastica che D'Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al

Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce ... (continua la lettura)

L'analisi sferzante e sarcastica che D'Alema ha fatto del suo partito, nella nota intervista al Corriere, seguita da tanto rumore, colpisce più per l'autorevolezza del vecchio dirigente e per il campo da cui proviene, che per la sua originalità. Non pochi commentatori avevano già mostrato per tempo che cosa fosse diventato il PD di Renzi. Non lo dico per sminuire l'efficacia politica di quel messaggio, utile quanto meno per svegliare tanta parte del popolo della sinistra (forse anche qualche vecchio intellettuale) che crede ancora di appartenere al partito che fu di Berlinguer. Ma lo sottolineo per più sostanziali ragioni.

Intanto la mossa tattica nasconde una grave insidia. Sarebbe un errore non vedere le complicazioni che una scissione del PD, capeggiata da D'Alema, creerebbe al nascente soggetto politico della sinistra. La tentazione di dar vita a una riedizione del centro-sinistra diventerebbe così forte da esercitare un irresistibile potere di attrazione su alcuni dei protagonisti oggi al lavoro, disarticolando l'intero progetto. E' un timore che non nasce certo dalla pretesa settaria di costruire in purezza un partito privo di contaminazioni con la realtà e con la storia. Ma che al contrario è fondato sull'analisi storica. Il bisogno drammatico del nostro Paese è oggi la costruzione di un partito di sinistra, che abbia intelligenza del tempo presente, radicamento nella società, progetto e visione. Non di una formula di alleanza per vincere le elezioni.

Occorrerebbe notare che mai è venuta dai dirigenti del PD (e delle sue precedenti incarnazioni) una seria autocritica delle scelte compiute dal questa mutevole formazione negli ultimi 30 anni, mai un serio sforzo di ricostruzione storica per comprendere in profondità quel che era avvenuto nei rapporti tra il partito e la classe operaia italiana, le grandi masse popolari, le figure intellettuali, un tempo forza e punto di riferimento del vecchio PCI. Allorché gli intellettuali concorrevano allo sforzo di comprendere un mondo che si aveva l'ambizione di trasformare, e non servivano per vincere dei turni elettorali.

Senza questa riflessione storica l'avvento di Renzi appare come un caso fortuito, ed è invece la continuazione coerente di un percorso. Il jobs act del presente governo conclude un itinerario avviato nel 1997 con la prima riforma del lavoro firmata da un ministro di centro-sinistra. La “buona scuola” e l'emarginazione dell' Università, pur con tutti i distinguo necessari, continua sulla scia delle riforme avviate da Luigi Berlinguer, ed è continuata senza soluzioni di continuità tra governi di centro-destra e di centro-sinistra. La filosofia della contrattazione programmata, quella politica che ha dato mano libera ai costruttori di devastare senza vincoli le nostre città, di cementificare il territorio, è stata accettata di fatto da tutti i governi nazionali degli ultimi 30 anni e ora viene rinvigorita dal cosiddetto “sblocca Italia”. E si potrebbe continuare.

In realtà è mancata e manca, anche in chi critica Renzi, non solo la capacità di guardare dentro la natura del riformismo del centro-sinistra, ma di vedere a quali imperiosi interessi dell'epoca esso di fatto ha finito col rispondere. Perché dopo 1989 nulla è più stato come prima. Il tracollo dell'URSS non ha messo all'angolo solo i vecchi partiti comunisti, ha colpito anche la socialdemocrazia europea. Il potere del capitalismo occidentale, rivitalizzato dai governi della Thatcher e di Reagan, e coadiuvato dalla nuova intellettualità neoliberista, ha affondato la sua critica demolitrice anche contro la burocratizzazione del welfare, la rigidità corporativa dei sindacati, il crescente peso fiscale dello Stato: tutte costruzioni, in buona parte, della sinistra europea del dopoguerra. Debolezze che racchiudevano tuttavia conquiste e diritti.

E questo bisogna proprio dirselo: la sinistra, tutte le sinistre maggioritarie europee, hanno accettato quella critica, l'hanno fatta propria. Se non si comprende tale passaggio si capisce ben poco della storia europea degli ultimi decenni. Dopotutto, di che stupirsi? Le teorie neoliberistiche non prospettavano una società pauperistica. Al contrario, esse promettevano una straordinaria ripresa dello sviluppo, cioé del processo di accumulazione capitalistica, sol che la macchina economica fosse stata liberata da “lacci e laccioli”. Maggiore produzione di ricchezza che si sarebbe ripartita automaticamente fra tutti.

Nessuna meraviglia, dunque, se, in seguito all'accettazione di tale lettura, i vecchi partiti popolari si son dovuti muovere in uno spazio ristretto e in un'unica direzione: indietreggiare, indietreggiare lentamente, lasciare sempre più libertà ai gruppi industriali e finanziari e nel frattempo gestire presso i ceti popolari il processo di riduzione progressiva del welfare. Una ritirata, diventata sempre più ardua quando gli effetti della globalizzazione si sono manifestati in tutto la loro pienezza. Allorché le imprese occidentali delocalizzate hanno messo in concorrenza i salari operai del Bangladesh con quelli di Stoccarda e di Torino.

La costituzione dell'UE poteva essere un'occasione per battere nuove strade. Qualcuno si ricorda della promessa di costruire una “economia sociale di mercato”? Com'è noto, né gli ex comunisti italiani, né gli altri partiti della sinistra europea sono stati in grado di incidere sulla filosofia neoliberistica dei trattati su cui si veniva costruendo l'Unione, sulla fragilità costitutiva dell'euro, sull'architettura complessiva dei poteri, alcuni dei quali, come la BCE, sottratti a ogni controllo democratico.

Ebbene, la vicenda di questi ultimi 30 anni trova pochi storici dentro il vecchio schieramento della sinistra perché il tentativo riformatore, compiuto nel cono d'ombra del nuovo potere del capitale, è fallito. E' morto con la Grande Crisi esplosa nel 2008. Sia il progetto neoliberista di un Nuovo Ordine mondiale dello sviluppo, che il tentativo di una sua gestione riformista, sono caduti insieme. E tale verità trova nuove verifiche nel presente. Mentre la BCE inonda di denaro le banche del continente, la disoccupazione resta fuori controllo, i ceti medi si assottigliano, si espandono le aree di povertà, le diseguaglianze si fanno più aspre, si riduce il welfare, si restringono gli spazi della democrazia, il lavoro si compra ormai con un voucher come un viaggio ai tropici.... Ebbene, nonostante questo debordante potere del capitale (o esattamente per questo?) l'agognata crescita non riparte. Il capitalismo pare una balena spiaggiata nelle secche delle sue iniquità.

Dunque, un nuovo soggetto politico, che realisticamente si deve muovere su un terreno riformatore, non può prescindere da una rilettura radicalmente classista della storia recente del mondo. Occorre porre al centro, come ha ricordato Gallino, la consapevolezza che il capitale sta muovendo guerra al lavoro e alle sue conquiste storiche. E tale presa d'atto non può venire da una riedizione del centro-sinistra e dal ripescaggio dei suoi vecchi protagonisti. Il tentativo in corso di cambiar strada deve avere l'ambizione di lasciarsi alle spalle il vecchio industrialismo sviluppista, unico orizzonte culturale degli uomini e delle donne di quella pur illustre tradizione. Non può non nutrirsi delle nuove culture ecologiche, di un ripensamento radicale delle forme della produzione industriale e della durata del lavoro, di una nuova attenzione ai caratteri del nostro territorio, al destino del bene comune delle città e al loro carattere ecosistemico, ai limiti che il riscaldamento climatico pone nell'uso delle risorse, a un nuovo immaginario - che è un salto di civiltà - in cui il rapporto uomo natura sia dominato dalla cura e non più dallo spirito di predazione.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

L'ennesima volta che dobbiamo esclamare: "che abbiamo combattuto a fare?" Forse solo per arrivare a comprendere che gli italiani, se lo sopportano, sono come li vuole Renzi.

Il Fatto quotidiano, 13 marzo 2016

Quanto contano i 26 milioni di italiani che nel lontano giugno del 2011 votarono “sì” ai due referendum sull’acqua pubblica? Poco o niente. Da pochi giorni questa è non solo la realtà, ma anche la risposta ufficiale del governo Renzi: la gestione dei servizi idrici non deve essere pubblica, ma di mercato. Al di là di ogni altra considerazione, non un buon viatico per il referendum sulle trivelle che si celebra ad aprile. Ecco la storia dell’acqua.

Dalle urne al no di Renzi in quasi cinque anni

Nel 2011 i cittadini italiani dissero che andava abrogato il decreto Ronchi, che obbligava gli enti locali a mettere a gara anche la distribuzione dell’acqua nelle case, e che andava cancellata la voce della bolletta che garantiva “adeguata remunerazione del capitale investito dai gestori”. Gli italiani dissero in sostanza che quel servizio non andava messo sul mercato, ma gestito dal pubblico senza fini di lucro. In quasi cinque anni quel referendum non ha avuto alcun esito: le bollette sono cambiate solo in superficie e non esiste una legge che obblighi i Comuni a “ripubblicizzare” il servizio.

Ora però, alla Camera, hanno cominciato a discutere un ddl di iniziativa popolare che risale al 2007: lo presentarono i movimenti per l’acqua pubblica e in questa legislatura “aggiustato
” da un intergruppo parlamentare in cui figurano deputati di Pd, Sel e Movimento 5 Stelle, partiti che appoggiarono il referendum. Federica Daga (M5S) è la prima firmataria di una legge che qualifica l’acqua come “diritto umano” e, come tale, garantisce a tutti una fornitura minima di 50 litri al giorno pagata, se serve, dalla fiscalità generale. Il cuore del ddl è l’articolo 6: prescrive l’affidamento del servizio idrico solo a enti di diritto pubblico pienamente controllati dallo Stato (niente Spa pubblico-privato), gli enti hanno un anno per adeguarsi.

Il problema è che la legge, ora che si comincia a votare per portarla in Aula, a qualcuno non va più bene: martedì 8 marzo i resoconti di Montecitorio danno conto dell’esistenza di due emendamenti di Enrico Borghi e Piergiorgio Carrescia (deputati Pd come gli altri firmatari che chiedono di “sopprimere i mere” l’articolo 6, cioè il cuore della legge. Il 9 marzo, poi, il relatore Massimiliano Manfredi (Pd) “esprime parere favorevole sugli identici emendamenti Borghi e Carrescia”. La sottosegretaria Silvia Velo, a nome del governo, “concorda”. L’esecutivo, insomma, vuole cancellare l’articolo centrale della legge, quello che invera la volontà di 26 milioni di italiani (oltre la metà degli aventi diritto): martedì è il giorno della verità in commissione.

Il problema della legge: coperture poco serie

Va detto che il ddl Daga non è senza macchie. Il punto più critico è l’articolo 12, dove si parla di soldi (che pure servono per cacciare i privati e mettere a posto la rete). Sono nero su bianco coperture da anime belle : 1 miliardo l’anno dagli F35; risparmi dell’evasione fiscale (2 miliardi); aumento della tassa sulle transazioni finanziarie e un paio di tasse di scopo su prodotti inquinanti. Quanto al “Fondo nazionale per la ripubblicizzazione” cioè i soldi da dare subito ai privati per cacciarli si citano anticipazioni di Cassa depositi e prestiti non quantificate. Questa vaghezza ha spinto anche il Servizio Studi della Camera a chiedere correttivi e “norme coerenti coi principi di contabilità pubblica”.

Il problema vero, in termini di fondi, sono gli investimenti sulla rete: in generale quella italiana ha un tasso di dispersione del 37%, mancano impianti di depurazione e fognari, si fa poca manutenzione. L’Autorità per l’energia ha calcolato i soldi necessari in 65 miliardi in 30 anni, ovviamente con spese più ingenti all’inizio.

Dentro il modello economico Ue, però, l’Italia non può fare investimenti così importanti. Per questo si “vende” l’acqua ai privati, che poi però gli investimenti non li fanno: secondo lo stesso governo, dal 2006 i privati hanno pagato solo l’11% dei fondi investiti nel settore idrico, il resto sono soldi pubblici. Pure il caso di Napoli, unica grande città ad aver rispettato l’esito del referendum, non propaganda le virtù del mercato: la società Abc ha chiuso il 2015 in utile per 8 milioni nonostante tariffe tra le più basse d’Italia (ora però ha il problema che la Regione di De Luca ha fatto una pessima legge sul settore idrico).

I piani di Palazzo Chigi e la truffa del diritto Ue

L’appoggio del governo alla cancellazione della volontà popolare è un fatto nuovo, ma non inimmaginabile dati i precedenti. La stessa responsabile “acqua” del ministero dell’Ambiente, Gaia Checcucci, ha sostenuto a Presadiretta che “il referendum ha abrogato il decreto Ronchi e ora è quindi in vigore il quadro normativo comunitario, che consente dunque la gestione privata, mista o pubblica”. Insomma, come se in 26 milioni non avessero parlato.

Nella pratica, Renzi lavora contro il referendum fin dallo “Sblocca Italia” del 2014, che indica l’obiettivo della sua azione nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multiutility capaci di competere all’estero. A livello normativo, tra l’altro, la cosa viene incentivata grazie alla previsione che “gestore unico” (obbligatorio per ogni ambito territoriale) divenga chi ha già in mano il servizio “per almeno il 25 % della popolazione” (ridono A2A, Iren, Hera, Acea, etc).

Si passa poi alla Legge di Stabilità che incentiva i Comuni a privatizzare i servizi pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno. Ora un decreto attuativo della riforma Madia della P.A. oltre a spingere sulle solite fusioni in poche grandi realtà cancella anche l’altro referendum, quello sulla tariffa: si dovrà tener conto della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. E tanti saluti ai 26 milioni.

Vogliono nuovi investimenti. Più soldi per fare che cosa: Armamenti? Barriere contro i profughi? LaRepubblica, 13 marzo 2016

«Crescita, crescita e crescita », attacca Matteo Renzi nel chiuso del vertice dei leader del Partito socialista europeo a Parigi. Una ricetta che all’Eliseo viene ormai riconosciuta come l’unica in grado di salvare l’Unione. «Serve un’Europa più politica», affermerà alla fine dei lavori il padrone di casa François Hollande, riferendosi a economia ed emergenza migranti. E implicitamente sul banco degli imputati finiscono le politiche di Angela Merkel, assente in quanto cristiano- democratica: nessuno la attacca frontalmente, resta un alleato prezioso, ma oggi che la Cancelliera sta vivendo la stagione più delicata della sua carriera per l’emergenza rifugiati, i socialisti affilano le armi nel tentativo di dare una spallata alle politiche di austerità imposte dai falchi di Berlino negli anni della crisi.

«Stiamo cercando di trasformare l’Europa», affermerà Renzi nel cortile dell’Eliseo a ora di pranzo, quando i lavori sono appena terminati, «ma non è possibile fare un Consiglio europeo ogni 15 giorni, così diamo l’idea di non saper governare processi epocali come quelli migratori». Hollande rilancia invece alcune idee italiane come la necessità di istituire «un bilancio e un governo dell’eurozona».

Proprio Hollande e Renzi nel chiuso dell’Eliseo si spartiscono i ruoli: il primo fa il discorso introduttivo, il secondo parla subito dopo per tracciare le linee della discussione. Renzi chiede «un’iniziativa dei socialisti e democratici europei che solleciti investimenti e flessibilità». In sostanza il premier, poi appoggiato dagli altri, vuole che gli sconti sul taglio del deficit utili a tagliare le tasse e a lanciare la crescita valgano ogni anno e senza limiti quantitativi togliendo le briglie alla flessibilità imposte dall’Eurogruppo, il tavolo dei ministri finanziari dominato da Schaeuble e dall’olandese Dijsselbloem. Entrambi finiti nel mirino dei leader socialisti con frasi di questo genere: «Basta con i loro attacchi, la flessibilità non può essere messa in discussione, tuttalpiù se ne parli per ampliarla».

Tutti hanno reso omaggio alla nuova manovra di Draghi, concordando però che ora servono politiche per la crescita anche a Bruxelles. Renzi ha sottolineato che l’austerità non funziona nemmeno politicamente perché «i governi rigoristi sono caduti come in un domino: come minimo porta sfortuna e dà fiato al populismo ». E così il maltese Muscat, da molti considerato figura ideale alla successione del traballante Tusk alla guida del Consiglio europeo nel 2017, fa gioco di sponda con Renzi e Hollande: «Dovremmo preparare una piattaforma di riforme dei progressisti su economia, energia e libertà civili». Si decide di darsi un nuovo appuntamento a luglio a Roma, dopo il referendum inglese sulla Brexit, per lanciare un vero piano per cambiare l’Europa. Per questa ragione ieri i leader del Pse non hanno dato cifre e struttura delle idee, ma emerge la volontà di chiedere più soldi ed estensione per tre anni del piano Juncker sugli investimenti e soprattutto di permettere ai governi di spendere per la crescita o sfilando dal Patto di Stabilità gli investimenti virtuosi oppure finanziandoli con gli Eurobond. Così come un piano per l’occupazione giovanile da 20 miliardi.

Nel mirino dei socialisti anche l’accordo con la Turchia in via di perfezionamento per chiudere la rotta dell’Egeo. Renzi, Hollande e Mogherini (che parla severamente di «criticità») sono contrari a chiudere un occhio sui diritti umani e sulla libertà di stampa per siglare l’intesa con Erdogan, quanto mai vitale per la Merkel. Il premier francese invoca apertamente «nessuna concessione ad Ankara in materia di diritti umani o sui criteri di liberalizzazione dei visti». Critiche dirette alla Cancelliera, poi, sulla decisione di sdoganare domenica scorsa le nuove richieste della Turchia in una cena con il premier Davutoglu alla vigilia del summit tra il premier turco e gli europei. Tutti si ribellano duramente quando Faymann afferma che «l’Austria non vuole più fungere da anticamera, se non si controllano le frontiere esterne io rimetto i confini interni».

Se sui migranti restano differenze, e il vertice dei Ventotto della prossima settimana a Bruxelles si annuncia quanto mai complicato, sulla svolta economica ormai i socialisti sono pronti, attendono che si attenui l’emergenza rifugiati e il referendum britannico. E un buon segno è anche il fatto che Hollande — la Francia è storicamente contraria a cedere sovranità — abbia parlato di «Europa a due velocità», un’eurozona che si stacca dagli altri per andare avanti nell’integrazione politica. Così come piace l’avvicinamento al Pse di Tsipras. Tanto che Renzi salutando l’Eliseo ha sentenziato: «Sono contento e ottimista, i socialisti e democratici di tutta Europa hanno dato un segnale».

FIRMA L’APPELLO PER DIRE NO

ALLE RIFORME CHE RIDUCONO LE DEMOCRAZIA


Manca ormai solo il voto della Camera ad aprile per l’approvazione di una revisione costituzionale che riduce il Senato a un’assemblea non eletta dai cittadini e sottrae poteri alle Regioni per consegnarli al governo, mentre scompaiono le Province. Potevano essere trovate altre soluzioni, equilibrate, di modifica dell’assetto istituzionale, ascoltando le osservazioni, le proposte, le critiche emerse perfino nel seno della maggioranza. Si è preferito forzare la mano creando un confuso pasticcio istituzionale, non privo di seri pericoli. La revisione sarà oggetto di referendum popolare nel prossimo autunno, ma la conoscenza in proposito è scarsissima.

I cittadini, cui secondo Costituzione appartiene la sovranità, non sono mai stati coinvolti nella discussione. Domina la scena la voce del governo che ha voluto e dettato al Parlamento questadeformazione della Costituzione, che viene descritta come passo decisivo per la semplificazione dell’attività legislativa e per il risparmio sui costi della politica: il risparmio è tutto da dimostrare e la semplificazione non ci sarà. Avremo invece la moltiplicazione dei procedimenti legislativi e la proliferazione di conflitti di competenza tra Camera e nuovo Senato, tra Stato e Regioni.

Il risultato è prevedibile: sono ridotte le autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente dal Parlamento al governo, in contraddizione con il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e per di più il governo non sarà più l’espressione di una maggioranza del Paese. Già l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale definita Porcellum. Ancora di più in futuro: con la nuova legge elettorale (c.d. Italicum) – risultato diforzature parlamentari e di voti di fiducia – una minoranza, grazie ad un abnorme premio di maggioranza e al ballottaggio, si impadronirà alla Camera di 340 seggi su 630.

Ridotto a un’ombra il Senato, il Presidente del consiglio avrà ildominio incontrastato sui deputati in pratica da lui stesso nominati. Gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm) ne usciranno ridimensionati, o peggio subalterni. Se questa revisione costituzionale sarà definitivamente approvata la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ne risulterà stravolta in profondità. E’ gravissimo che un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Corte abbia sconvolto il patto costituzionale che sorregge la vita politica e sociale del nostro paese. Nel deserto della comunicazione pubblica e con la Rai sempre più nelle mani del governo,chiediamo a tutte le persone di cultura e di scienza di esprimersi in un vasto dibattito pubblico, anzitutto per informare e poi per invitare i cittadini a partecipare in tutte le forme possibili per ottenere i referendum, firmando la richiesta, e per bocciare con il voto nei referendum queste pessime leggi.

Sentiamo forte e irrinunciabile il compito di costruire e diffondere conoscenza per giungere al voto con una piena consapevolezza popolare, prima nel referendum sulla Costituzione e poi nei referendum abrogativi sulla legge elettorale. Per ottenere questi referendum sulla Costituzione e sulla legge elettoraleoccorrono almeno 500.000 firme, per questo dal prossimo aprile vi invitiamo a sostenere pienamente questo impegno. Facciamo appello a tutte le persone di buona volontà affinché diano il loro contributo creativo a questo essenziale dovere civico.

CLICCA QUI PER FIRMARE LA PETIZIONE SULLA PIATTAFORMA CHANGE.ORG

Ecco i primi firmatari:

Nicola Acocella, Marco Albeltaro, Vittorio Angiolini, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Michele Bacci, Andrea Bajani, Laura Barile, Carlo Bertelli, Francesco Bilancia, Franco Bile, Sofia Boesch, Ginevra Bompiani, Sandra Bonsanti, Mario Bova, Giuseppe Bozzi, Alberto Bradanini, Alberto Burgio, Maria Agostina Cabiddu, Giuseppe Campione, Luciano Canfora, Paolo Caretti, Lorenza Carlassare, Loris Caruso, Riccardo Chieppa, Luigi Ciotti, Pasquale Colella, Daria Colombo, Michele Conforti, Fernanda Contri, Girolamo Cotroneo, Nicola D’Angelo, Claudio De Fiores, Claudio Della Valle, Ida Dominijanni, Angelo D’Orsi, Roberto Einaudi, Vittorio Emiliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Vincenzo Ferrari, Maria Luisa Forenza, Patrizia Fregonese, Mino Gabriele, Alberto Gajano, Giuseppe Rocco Gembillo, Roberto Giannarelli, Paul Ginsborg, Antonio Giuliano, Fabio Grossi, Riccardo Guastini, Monica Guerritore, Elvira Guida, Leo Gullotta, Alexander Hobel, Elena Lattanzi, Paolo Leon, Antonio Lettieri, Rosetta Loy, Paolo Maddalena, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Maria Mantello, Ivano Marescotti, Annibale Marini, Anna Marson, Federico Martino, Enzo Marzo, Citto Maselli, Stefano Merlini, Gian Giacomo Migone, Giuliano Montaldo, Tomaso Montanari, Paolo Napolitano, Giorgio Nebbia, Guido Neppi Modona, Diego Novelli, Piergiorgio Odifreddi, Massimo Oldoni, Moni Ovadia, Alessandro Pace, Valentino Pace, Antonio Padellaro, Giovanni Palombarini, Giorgio Parisi, Gianfranco Pasquino, Valerio Pocar, Daniela Poggi, Michele Prospero, Alfonso Quaranta, Antonella Ranaldi, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Giuseppe Ugo Rescigno, Marco Revelli, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Gennaro Sasso, Vincenzo Scalisi, Giacomo Scarpelli, Silvia Scola, Giuseppe Sergi, Tullio Seppilli, Toni Servillo, Salvatore Settis, Armando Spataro, Mario Tiberi, Alessandro Torre, Nicola Tranfaglia, Marco Travaglio, Nadia Urbinati, Gianni Vattimo, Daniele Vicari, Massimo Villone, Maurizio Viroli, Mauro Volpi, Roberto Zaccaria, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanotelli.

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