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«Gli uffici legislativi delle due ministre scrissero la norma in contatto costante con Eni, Shell e Total».

Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016 (m.p.r.)

Potenza. Il concetto - non letterale suona così: «Mandatemi solo gli scritti e stop con gli incontri». L’autore della mail è Roberto Cerreto, capo di Gabinetto del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Il via vai di bozze, correzioni, proposte, valutazioni sull’emendamento è incessante. E così, se non siamo dinanzi a una dettatura, poco ci manca. Siamo a dicembre 2014. L’emendamento che serve alla joint venture di compagnie petrolifere interessate al Tempa Rossa - Total, Shell e Mitsui - ha già subìto un inciampo poche settimane prima. Avrebbe potuto vedere la luce nel decreto Sblocca Italia. Ma non è andata come auspicavano le compagnie. E neanche come desiderava Gianluca Gemelli, compagno di Federica Guidi che, secondo l’accusa, stava realizzando, spendendo il ruolo dell’ex ministra, il reato di traffico di influenza illecita per incassare, attraverso la Total, un subappalto da 2,5 milioni di euro.

Negli stessi giorni in cui Cerreto chiede di ridurre gli appuntamenti personali, che si sono fatti sempre più frequenti, c’è un altro capo di Gabinetto impegnato a gestire i rapporti con le compagnie: si chiama Vito Cozzoli. È il braccio destro del ministro Guidi. Fino al caso Tempa Rossa e ai fibrillanti giorni di fine 2014, le compagnie petrolifere, per gestire i propri interessi, erano abituati a confrontarsi con l’uomo più competente per materia, ovvero Franco Terlizzese: è il direttore generale per le risorse minerarie ed energetiche. Ma evidentemente è necessario rapportarsi meglio con la sponda più politica del ministero: il capo di Gabinetto Cozzoli. E così la traiettoria cambia, le compagnie iniziano a discutere, oltre che il braccio destro della Boschi, anche con l’omologo della Guidi.
È vero ciò che dice il premier Matteo Renzi che ieri, intervistato da Lucia Annunziata a In 1/2 ora, ha confermato quanto anticipato ieri dal Fatto: «Quell’emendamento l’ho voluto io»: fu scritto inizialmente dal suo ufficio legislativo. Ma è anche vero che, nel dicembre 2014, dopo la “bocciatura”nello Sblocca Italia, il politico più ricercato dalle compagnie è un altro: Maria Elena Boschi. Il motivo è semplice: le lobbies petrolifere, proprio per l’inciampo subìto in prima battuta, hanno compreso che è necessario curare un aspetto che, prima di allora, non avevano valorizzato adeguatamente: il rapporto con il Parlamento.
È questo il momento in cui Boschi inizia a essere “corteggiata” dalla diplomazia internazionale, incluso l’ambasciatore inglese, come lei stessa ha confermato, che la segue con attenzione, nonostante debba confrontarsi con l’inglese incerto della giovane ministra. Non è un caso che la stessa Guidi, intercettata con il suo compagno, alla vigilia dell’emendamento nella legge di stabilità commenti: “Se è d’accordo Maria Elena...”. L’“accordo”di Maria Elena è ritenuto fondamentale, proprio per i “rapporti con il Parlamento”, principalmente dalle lobby petrolifere: è lei il cavallo vincente per non ripetere il fiasco di pochi mesi prima, quando l’emendamento “ideato” da Renzi, non è riuscito a transitare nello Sblocca Italia. I timori delle compagnie sono tutti concentrati sul ruolo che svolgerà l’Eni sulla partita esportazione che Total, Shell e Mitsui si stanno giocando per far partire il petrolio da Taranto.
La joint venture - raccontano al Fatto fonti qualificate - diffidano così tanto che non coinvolgono nell’azione lobbistica l’Assomineraria che, secondo loro, è ostaggio Eni. Nel frattempo si individuano le scrivanie dove far pervenire modifiche all’emendamento, idee di sub emendamenti, correzioni alle correzioni delle correzioni. Tra queste scrivanie, la più importante, è quella del capo di Gabinetto della Boschi, Cerreto che con Cristiano Ceresani, all’ufficio legislativo, deve rendere digeribile il seguente concetto: se le autorità locali - ovvero Regione Puglia e Comune di Taranto - non sono d’accordo con il progetto di costruire una banchina nel porto, che consenta alle compagnie di esportare il petrolio, nei fatti il governo può intervenire per sbloccare la situazione.

Il problema della joint venture infatti è superare l’avversità dei pugliesi al progetto. Le compagnie sono certe che, grazie all’apporto della Boschi, si potrà riuscire dove prima, con l’emendamento “targato” Renzi, non si era riusciti. Il loro interesse è esportare. Punto. Il petrolio del Tempa Rossa non è quindi destinato ai consumi interni. L’Eni non dovrà neanche utilizzare le sue, peraltro datate, raffinerie: il processo avverrà all’estero. L’unico beneficio che resterebbe in Italia sono le royalty - piuttosto esigue - per l’estrazione. E ovviamente i posti di lavoro. La pressione delle compagnie è elementare: se strozzi il progetto dell’esportazione, diminuisco la produzione, l’Italia perde royalty e posti di lavoro. In cambio Renzi, Boschi e Guidi, decidono di offrire alla joint venture una città come Taranto. Negandole la possibilità di decidere.

L'Italia sta velocemente diventando una penisola da cui andare via per vivere meno infelici. E poi tornare quando la distruzione à completata, come archeologi. articoli di Alessandro Gilioli e di Ferruccio di Bortoli,

l'Espresso e Corriere della Sera 30 e 31 marzo 2012

L'Espresso, 29 marzo 2016
FOIA: TRASPARENZA SÌ, PURCHÉ OPACA
di Alessandro Gilio
Il decreto Madia sull’accesso agli atti dello Stato è una beffa. E un 
arrocco della politica nei suoi segreti. Adesso c’è un mese per cambiarlo
All'articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta». Sembra uno scherzo, invece è il decreto legislativo “sulla trasparenza”, all’italiana. Che prevede appunto il silenzio-diniego: cioè consente allo Stato di non rispondere ai cittadini che vogliono avere accesso ai dati della pubblica amministrazione, senza fornire alcuna motivazione e senza alcuna sanzione per il proprio rifiuto. Ma non è finita: subito dopo, nella norma si aggiunge che non c’è alcuna chance di ottenere risposta se la domanda può essere intesa come relativa a «sicurezza pubblica e nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, interessi economici o commerciali di una persona fisica o giuridica» e molte altre eccezioni la cui vaghezza tiene il più ampio possibile l’ambito dei “non se ne parla”. Ed è ovviamente la pubblica amministrazione a decidere se questa attinenza c’è o no.

Doveva essere il Freedom Information Act italiano, cioè la norma per dare ai cittadini il “diritto di sapere”: quali immobili possiede un Comune, ad esempio, e a chi li affitta a quali prezzi; o quanto è costato ai contribuenti il viaggio di un ministro su un “aereo blu” o il ricevimento per l’inaugurazione di un cantiere. Ma anche quali sono stati i criteri di assegnazione di un appalto e quali i tempi per la sua realizzazione; quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua di una città; come sono stati spesi gli investimenti promessi dai politici nelle loro dichiarazioni; per quali motivi e con quali compensi è stata assegnata una consulenza a spese dei cittadini; chi si è intascato gli orologi regalati da un governo straniero durante un incontro di Stato; chi ha deciso di velare le statue a Roma durante la visita di un leader estero. E così via.


L'ILLUSIONE DELO STATO TRASPARENTE
di Ferruccio de Bortoli


Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, peccato che le eccezioni siano davvero tante
Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene.

Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nelmare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione.

Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».

I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.

Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa.
«Premi. Il riconoscimento a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, da parte del settimanale

Fortune. Ma tali riconoscimenti devono essere accompagnati da un po’ di risorse pubbliche». Il manifesto, 2 aprile 2016 (p.d.)

Il riconoscimento a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, daparte del settimanale Fortune, quale personaggio fra i più influenti del mondo,è un gesto paradossale di nobile generosità. Paradossale perché Mimmo è uomo dinessun potere, persona normale di grande coraggio e altruismo, alle prese con iproblemi di uno dei tanti paesi poveri della Calabria. Ma dopo Wim Wenders, checon il film volo ha reso universale la vicenda di Riace, un’altra autorità,nel nostro tempo atroce e spietata, esalta la potenza simbolica dell’umanasolidarietà che può dischiudersi tra i poveri.
E non è solo Riace, è anche Caulonia di Ilario Ammendola,e Lampedusa di Giusi Nicolini, cui Gianfranco Rosi ha dedicato il filmFuocoamare, appena premiato con l’Orso d’oro a Berlino. Ma tali riconoscimentinon devono esaurirsi nell’autocompiacimento. Sono segnali da raccogliere conl’iniziativa politica. Essi indicano alle migliaia dei sindaci italiani chevedono di anno in anno spopolarsi e decadere i propri comuni, spesso borghi disingolare bellezza, la possibilità di una rinascita delle loro terre, di farrivivere economie e luoghi, di far ritornare i bambini, con le loro grida, aspezzare il silenzio dei pochi vecchi che prendono il sole in attesa dellamorte. Certo, ci vuole un po’ di iniziativa, occorre individuare le terre chesi possono far coltivare, le botteghe che si possono riaprire, le case e gliedifici che si possono riparare e riabitare.
Certo ci vogliono un po’ di risorse pubbliche, niente dieccezionale, come è accaduto nel caso di Riace e Caulonia. Ma sarebbe forseoggi l’investimento pubblico più carico di potenza politica. Esso indicherebbeche i giovani disperati fuggiti dalle guerre possono diventare i nuovicittadini di un Paese solidale, che operano per ricrearsi una vita e insieme perrealizzare un grande progetto: far rivivere l’Italia interna che sta morendo.Ma perché, nessun leader, a sinistra, prova intestarsi una simile battaglia?
Nuova tappa della follia suicida dei governi europei

. Il manifesto, 3 aprile 2016 (p.d.)

Ogni rotta di fuga va chiusa, i confini blindati, anche con l’aiuto dell’esercito. Ormai ogni giorno il governo austriaco annuncia misure nuove sempre più restrittive contro il diritto di fuga e di asilo, a tutto campo. Le ultime sull’onda della conferenza dei ministri della difesa dell’Europa centrale, orientale e sudorientale (Cedc) che si è svolta a Vienna venerdì. Assenti anche stavolta Germania e Grecia, pare per propria scelta. In cambio c’erano i Paesi cosiddetti Visigrad, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria quelli che avevano rifiutato e bloccato ogni piano di ripartizione europea dei rifugiati. A questa conferenza invece l’accordo si è trovato: certo, si tratta di mandare soldati ai confini esterni dell’Ue «visto che Frontex non ce la fa» creando una nuova «mission civile e militare», ecco la proposta della conferenza, da mandare ora al confine greco ma anche in altri posti a secondo dove si sposta l’afflusso di profughi.

È quanto i convenuti hanno scritto in una lettera indirizzata a Federica Mogherini. Intanto, «visto che i confini esterni non vengono efficientemente tutelati», l’Austria agisce di nuovo da sola, «a breve metterà in sicurezza i suoi confini», ha detto la ministra degli interni Johanna Mikl-Leitner del partito popolare (Oevp) al quotidiano tedesco Die Welt. Concetto ribadito con determinazione anche dal ministro della difesa Hans Peter Doskozil, socialdemocratico (Spoe) al Muenchner Merkur, annunciando massicci controlli al Brennero con l’intervento di soldati. Priorità massima è «garantire stabilità e sicurezza» come se le masse di disperati che arrivano ai confini fossero un pericolo.

Colpisce la mutazione di Doskozil, ex funzionario di polizia che in autunno al confine tra Austria e Ungheria mostrò un forte impegno umanitario verso i profughi, da nuovo ministro della difesa (da due mesi) è divenuto hardliner di spicco assumendo posizioni che i socialdemocratici fino a tre mesi fa avevano sempre rifiutati. «I cittadini di certo capiranno, se ci saranno code», commentano Mikl Leitner e Doskozil in piena sintonia in riferimento all’intenso flusso di turisti sull’asse del Brennero. Il governo austriaco è convinto che con l’accordo con la Turchia si intensificherà la presenza di migranti sulla rotta mediterranea. «Sappiamo che nei prossimi giorni il tempo migliorerà e che centinaia di migliaia di persone si metteranno in cammino», dice Mikl-Leitner. «In Turchia al confine con la Grecia aspettano 700.000 persone, a Istanbul ci sono 400.000 persone pronte a mettersi in cammino verso la Bulgheria».

Non deve ripetersi quanto accaduto nel 2015, quando circa un milione di profughi attraversavano i confini austriaci , e circa 90 mila chiesero asilo sul posto, ribadisce il governo austriaco che per raggiungere lo scopo aveva fissato per questo anno un tetto massimo di accoglienza di 37.500 rifugiati. Un tetto che gli stessi giuristi commissionati dal governo hanno dichiarato come incostituzionale e violazione della convenzione europea dei diritti umani. Nel frattempo però blindata la rotta balcanica e inviando truppe al Brennero il problema giuridico del tetto massimo non si porrà più, perché non potrà più entrare nessuno. A pensare solo pochi mesi fa il cancelliere austriaco Werner Faymann, socialdemocratico, accusò Victor Orban di vicinanza al nazismo per la sua chiusura verso i rifugiati. «A chi soffre e fugge da situazioni disumane dobbiamo aprire i confini», disse. Un forte movimento civile esemplare sostenne e praticò la cultura dell’accoglienza. Metà gennaio la svolta di 360 gradi di Faymann arreso alla linea dei popolari.

«Spiace per Matteo Renzi ma da questo punto di vista in Italia non è cambiato proprio niente: la politica non riesce a darsi né un limite né un’etica, se non quando incappa, e meno male che ci incappa, nelle indagini della magistratura». I

nternazionale, 1 aprile 2016

Con noi le cose cambiano. Noi siamo diversi dal passato. La ministra Federica Guidi non ha fatto nessun illecito, ha fatto solo una telefonata inopportuna ma si è dimessa, a differenza della ministra Cancellieri sotto il governo Monti: segno che in Italia qualcosa è cambiato”. Matteo Renzi dixit, dagli Stati Uniti dove oggi si è occupato di Libia ma fino a ieri sproloquiava, guarda un po’, di politica energetica. Altro che abilità comunicativa: sono parole che lasciano allibiti.

Una telefonata inopportuna: starebbe qui il nocciolo delle dimissioni della ministra dello sviluppo economico? E se sta qui, perché allora accettarle in fretta e furia, prima dei tg delle 20 di giovedì perché tanto quello che conta è sempre e solo l’audience? Informare il proprio compagno, dirigente Total, che grazie a uno dei soliti blitz parlamentari del governo l’affare che gli garantirà carriera e subappalti sta per realizzarsi significa solo fare una telefonata inopportuna? O significa fare a lui e alla sua lobby di riferimento – l’Eni guarda caso, la stessa che sta dettando la politica italiana nei confronti dell’Egitto di Al Sisi – un gran favore, abusando del proprio ruolo di potere? Non c’è “nessun illecito” in quella telefonata e in quell’abuso? Nell’esercizio del potere è tutto lecito se non è penalmente sanzionato, anche quello che va eclatantemente sotto le rubriche del familismo, del clientelismo e del conflitto d’interessi? Spiace per Matteo Renzi ma da questo punto di vista in Italia non è cambiato proprio niente: la politica non riesce a darsi né un limite né un’etica, se non quando incappa, e meno male che ci incappa, nelle indagini della magistratura.

Qualcosa è cambiato, invece, grazie alla tinteggiatura rosa del governo. Le ministre sono schiave delle lobby quanto i ministri, pari e patta, però leggere di un signore che scodinzola con i suoi capi esibendo le news che gli arrivano da una fidanzata più potente di lui è una bella soddisfazione. I pm lo chiamano “traffico di influenze illecite”, perché la legge Severino punisce con un paio d’anni di galera chi ricava o promette denaro e altri vantaggi sfruttando le proprie relazioni con un pubblico ufficiale o un incaricato di servizio pubblico, ma ammettiamolo: meglio così di quando le mazzette e i subappalti erano solo gli uomini di casa a procurarli. Ringraziamo la ministra Guidi per questo significativo riscatto del secondo sesso.

E passiamo alla sostanza politica che c’è sotto quella “telefonata inopportuna”, e su cui non è possibile glissare. Renzi infatti non glissa, anzi rivendica: quell’emendamento che sbloccava l’affare Tempa Rossa “era sacrosanto”. Portava sviluppo e posti di lavoro. Sono gli stessi argomenti che il premier sbandiera a sostegno delle trivelle, e qui di nuovo qualcosa in Italia è cambiato, ma in peggio, perché da decenni non si sentiva, nel campo che si vorrebbe di centrosinistra, una scotomizzazione così netta delle ragioni dell’impresa e dell’occupazione da una parte e dell’ambiente dall’altra. Renzi rinfaccia un giorno sì e l’altro pure a Bersani di non aver vinto le elezioni, ma farebbe bene a ricordarsi che lui e il Partito democratico stanno comunque governando sulla base della mezza vittoria del centrosinistra del 2013, e che quella mezza vittoria fu ottenuta sulla base di un programma che in materia di politica dell’energia e dell’ambiente diceva il contrario esatto di quello che lui sta facendo oggi.

Infine ma non ultimo. L’emendamento salva-Eni, salva-Total e salva-fidanzato della ministra era stato bocciato il 17 ottobre 2014 nel dibattito parlamentare sul decreto sblocca-Italia, per essere riproposto il 17 dicembre, Maria Elena Boschi consenziente, all’interno di un maxi-emendamento del governo alla legge di stabilità. Un percorso che è un mirabile concentrato dell’arte di governo di Renzi e dei suoi, Boschi in primis, un’arte fatta di voti di fiducia, maxi decreti, maxi emendamenti e canguri, che ha ridotto il parlamento a nulla più che un ufficio notarile dei voleri del Capo. Ed è solo l’antipasto del menù che ci aspetta qualora la riforma costituzionale Boschi-Renzi diventasse realtà. Non si tratta di aprire gli occhi solo sul referendum anti-trivelle. Si tratta di spalancarli anche sul referendum costituzionale. Se questo fosse l’effetto, perfino le dimissioni di una ministra incapace di distinguere l’interesse pubblico da quello del suo compagno non sarebbero state vane.

Non è facile dissentire da questo papa. Eppure, a volte è necessario farlo: per esempio, a proposito di laicità dello stato.

La Repubblica, 31 marzo 2016

Da cristiano, prima ancora che da cittadino, sono stato profondamente colpito da un passaggio dell’incalzante meditazione con cui papa Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo. Con una scelta davvero molto forte, il pontefice ha incluso tra i peccati devastanti di un’umanità che torna a crocifiggere Cristo (stragi, terrorismo, vendita di armi, pedofilia, corruzione, distruzione dell’ambiente...) anche un’opinione: «O Croce di Cristo – ha detto Francesco – ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista, o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato ».

Se non è mai facile, per un cristiano, dissentire dal papa, lo è ancora di meno di fronte a questo papa: così evidentemente profetico, ed evangelico. D’altra parte, è difficile non interrogarsi sulle conseguenze di questa fortissima – per quanto implicita – riaffermazione della necessità di una società cristiana, e addirittura di uno Stato cristiano.

Perché, naturalmente, la presenza del crocifisso nelle aule pubbliche italiane è regolata dallo Stato, per legge. Per le scuole essa fu prescritta dalla legge Casati (promulgata nel Regno di Sardegna nel 1859, e poi estesa all’Italia unita), e poi fu duramente ribadita (a colpi di circolari, decreti e ordinanze) durante il fascismo. Dopo che la revisione del Concordato del 1984 aveva esplicitamente recepito la svolta costituzionale per cui il cattolicesimo non è più religione di Stato, è sorto un forte dibattito pubblico (ripercorribile in Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Einaudi 2011) sull’opportunità di rimuovere i crocifissi dalle aule statali. I vari tentativi di intraprendere, a questo fine, la via giudiziaria si sono fermati di fronte a una sentenza della Corte di Strasburgo del marzo 2011, che – ribaltando una sua altra sentenza – ha stabilito che il crocifisso non è, in Italia, un simbolo religioso attivo, ma un elemento culturale e identitario “passivo”, e come tale incapace di agire sulla coscienza degli alunni. Mentre, in Italia, la Conferenza episcopale esultava, il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, osservò che «dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto». Da cristiano formatosi sui testi di don Lorenzo Milani – che tolse il crocifisso dall’aula della sua scuola – mi trovai perfettamente d’accordo con quel giudizio: perché profondamente convinto della non passività del crocifisso.

Da cittadino dell’Europa dilaniata dalle bombe di Parigi e Bruxelles mi chiedo oggi se non abbiamo nuove ragioni per essere in disaccordo con quella sentenza – e con il papa. Combattiamo la mostruosità di un sedicente Stato Islamico: dove ad essere mostruosa è la pretesa di essere uno Stato, ma anche quella di essere islamico. Ed è l’unione delle due cose, cioè la mescolanza tra Stato e religione, a ripugnarci profondamente. Non è forse questo un buon motivo per essere più radicalmente fedeli alle nostre convinzioni, quelle su cui si basa questa ripugnanza? Non è forse il momento in cui i cristiani d’occidente ribadiscano con forza che la laicità dello Stato, la neutralità religiosa dello spazio pubblico e un rispetto incondizionato per le minoranze religiose non sono altrettante “paganità laiciste”, ma valori non sradicabili dalla nostra identità di cittadini? Lungi dall’essere un cedimento, una simile scelta sarebbe la più ferma delle risposte: non accettiamo il ruolo dei crociati. Da cristiano credo che Gesù ci abbia insegnato l’uguaglianza più radicale. Ma da cittadino italiano credo nell’articolo 3 della Costituzione, che ci invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono un’uguaglianza sostanziale. E credo che, facendo questa distinzione, si obbedisca anche al precetto evangelico che obbliga «a dare a Cesare, quel che è di Cesare». Come scriveva Mario Gozzini nel 1988, “la fede cristiana non ha bisogno di orpelli statali per essere testimoniata come fermento che rende più umano il tessuto sociale”.

Naturalmente questo non significa affatto ridurre la fede ad una dimensione privata: «Che la religione nelle società democratiche e laiche debba avere una rilevanza pubblica, per me è del tutto pacifico» (così Luigi Manconi nel suo recentissimo, e bellissimo, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, Minimum fax 2016). Ma la rilevanza pubblica è ben altra cosa dall’imposizione attraverso le leggi dello Stato: ed è precisamente in questo che i criteri e i valori in cui ci riconosciamo sono diversi da quelli di chi sta seminando la morte nelle strade dell’Europa.

Nelle classi dei miei figli (scuola primaria pubblica, centro di Firenze) ci sono diversi bambini musulmani: che non hanno una moschea in cui pregare (finora il Comune e la Curia hanno remato contro), ma ogni mattina trovano un crocifisso nella loro aula scolastica. Se vogliamo lavorare all’Italia in cui questi bambini saranno tutti egualmente cittadini, dobbiamo lasciarci alle spalle il retaggio non certo del cristianesimo, ma della legge Casati. Il modo più carico di futuro per reagire al terrore è costruire una società più inclusiva: una comunità civile che sappia essere davvero di tutti. Un’Italia in cui chi è arrivato all’ultima ora abbia gli stessi diritti di chi c’è fin dall’inizio: come dice la Costituzione (e come dice il Vangelo).

L'introduzione dell'autore a una suggestiva raccolta degli scritti dell'autore sui grandi temi e sui processi strutturali dal cui esito dipendono i nostri destini. Molti testi sono già su

eddyburg, ma leggerli nel loro insieme rivela un disegno strategico inedito.

GuidoViale, Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti, prefazione di don Virginio Colmegna, NdA press

In questo libro si dicono e ribadiscono poche cose, ma molto importanti: che il flusso dei profughi e dei migranti che raggiungono l’Europa affrontando prove e pericoli inaccettabili non si fermerà e non può essere fermato; che il loro numero aumenterà per anni e che è destinato a cambiare l’assetto della società europea prima ancora delle sue politiche meschine e devastanti.

Fermarli o ricacciarli da dove sono partiti è un progetto criminale che non ha alcuna possibilità di essere realizzato: non esistono politiche di respingimento praticabili di fronte a una pressione di queste dimensioni. Ma è un progetto che ha l’effetto di promuovere ferocia e mobilitare consenso intorno ai suoi sostenitori; di trasformare in tempi rapidi l’Europa in uno stato di polizia; di impregnare di razzismo la sua cultura e i suoi assetti sociali. L’avanzata di queste spinte è sotto gli occhi di tutti, ma, come ha detto in un’intervista il premio Nobel Elfriede Jellineck, trattando profughi e migranti come feccia ci trasformiamo in feccia noi.

A questa deriva razzista e totalitaria non esistono alternative fondate sulla continuità, sul business as usual (il cuore dell’attuale politica europea, che è solo ed esclusivamente business). Per anni la governance dell’Unione Europea si è occupata di finanza, di bilanci degli Stati membri, di privatizzazioni, di tagli della spesa pubblica, pensando che in questo si risolvessero i compiti della politica. Intanto ai suoi confini - e ormai anche lontano da quei confini - si stava accumulando, tra indifferenza e complicità, ma non senza interventi diretti di alcuni dei suoi Stati membri, un contesto di conflitti armati e di guerre di tutti contro tutti che di anno in anno diventava più inestricabile.

Ma anche un contesto di miseria e di insostenibilità ambientale e sociale. Guerre e miseria che sono all’origine di quei flussi di profughi che ora l’Europa non sa come affrontare. Come non sa come affrontare con un proposta di ampio respiro il caos che li ha generati, ma che ora sta erodendo i suoi stessi confini e penetrando in forme incontrollabili, soprattutto con il terrorismo, ma anche con una inesorabile crescita del rancore sociale, nel suo stesso cuore.

E quei bacini sono la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione, ma soprattutto il disprezzo. Più passa il tempo e la situazione interna e internazionale si aggrava e più emerge con chiarezza che le soluzioni prospettate a grandi linee dall’approccio al problema delineato nelle pagine che seguono non hanno alternative se non l’accettazione di uno stato di guerra “infinita”, cioè che non avrà mai fine e in tutto il mondo, come la voleva Geroge W. Bush.

Una guerra in cui sarà sempre meno chiaro chi combatte contro chi e per che cosa. Ma anche l’accettazione di un contesto di disciplinamento sempre più autoritario e razzista all’interno (un nuovo fascismo) che faccia piazza pulita di tutte le garanzie democratiche e di tutte le tutele sociali conquistate in quasi due secoli di lotte. L’Europa ha bisogno di quei profughi e di quei migranti.

Di qui al 2050 l’Europa, senza immigrazione, avrà perso circa 100 milioni di abitanti, un quinto della sua popolazione attuale, al ritmo di 3 milioni all’anno. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi e le persone in età lavorativa sempre meno. Il che vuol dire un peso insopportabile su chi lavora e una drammatica stagnazione economica (l’esatto contrario di una “decrescita felice”).

Per colmare quel vuoto demografico l’Europa dovrebbe accogliere, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali.

Va ricordato che tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, oltre al Regno Unito, pur in un contesto di crescita demografica autoctona, avevano assorbito 20 milioni di profughi e immigrati: circa 10 milioni dall’Est e altri 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa, dal Maghreb e dal subcontinente indiano.

D’altronde il maggior dinamismo dell’economia statunitense degli ultimi decenni è riconducibile, più che alle politiche economiche adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale, tutti o quasi illegali, ma tollerati sia a destra che a sinistra.

La minaccia di alcuni dei suoi Stati membri, un contesto di conflitti armati e di guerre di tutti contro tutti che di anno in anno diventava più inestricabile. Ma anche un contesto di miseria e di insostenibilità ambientale e sociale. Guerre e miseria che sono all’origine di quei flussi di profughi che ora l’Europa non sa come affrontare. Come non sa come affrontare con un proposta di ampio respiro il caos che li ha generati, ma che ora sta erodendo i suoi stessi confini e penetrando in forme incontrollabili, soprattutto con il terrorismo, ma anche con una inesorabile crescita del rancore sociale, nel suo stesso cuore.

L’unica alternativa a quella deriva è un impegno generale di accoglienza e di inclusione che non discrimini tra profughi, migranti e cittadini europei in difficoltà: nessuno deve poter pensare che a chi viene da lontano vengano dedicate più risorse e più attenzioni che a chi è sempre stato qui o è qui da tempo. E viceversa. Quel piano deve mettere in grado di accedere a una nuova e autentica cittadinanza, garantendo a tutti casa, lavoro, reddito, istruzione, protezione sanitaria e sicurezza. L’Europa ha le risorse per varare e sostenere un progetto del genere, che d’altronde è ciò che ci vuole per avviare concretamente una conversione ecologica indispensabile per fermare la corsa a quel disastro climatico irreversibile contro cui si sarebbero dovute prendere - e non si è fatto - delle decisioni drastiche e radicali al vertice di Parigi Cop21.

Profughi e migranti hanno di fatto reso i confini dell’Europa assai più ampi di quelli al di là dei quali si vorrebbe respingere i nuovi arrivati. Accogliendoli come cittadini dell’Europa, si possono creare anche, paese per paese, le basi per costruire un’alternativa sociale e politica a cui possano fare riferimento coloro che sono rimasti nelle loro comunità di provenienza e che hanno bisogno soprattutto di questo riferimento per riaprire una prospettiva di riconquista dei loro territori alla pace e alla democrazia.

Anche nei confronti del terrorismo, non basta l’azione di polizia e di intelligence; e meno che mai funzionano le guerre, che non fanno che perpetuare e accrescere il caos. Bisogna prosciugare i bacini sociali e culturali, ma anche emotivi, da cui il terrorismo attinge i suoi un sovraffollamento dei paesi dell’Unione Europea è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide. L’alta finanza e il big business che oggi dominano l’economia mondiale non hanno bisogno di tutta la manodopera di cui si alimentava il sistema industriale fordista. Se si rende necessario, la vanno a cercare in paesi dove costa meno, trasferendo là le attività che controllano; per questo considerano l’arrivo di profughi e di nuovi migranti più dal lato dei costi, per la spesa pubblica che vogliono comunque ridurre, che da quello dei possibili vantaggi che, sul lungo periodo, sono soprattutto nostri e dei nostri figli.

Ci aspettano tempi bui e proprio per questo è necessario come non mai raccogliere le idee intorno a un nucleo forte, capace di delineare una prospettiva di riscatto per tutti gli attori coinvolti in questa corsa verso il baratro. Per questo una parte del libro è dedicata alla conversione ambientale e cerca di spiegare come in essa si possa trovare non solo l’unico modo per fermare la deriva climatica che sta portando il nostro pianeta verso condizioni di invivibilità per tutti, ma anche la chiave per affrontare sia gli oneri connessi all’accoglienza di un numero così alto di profughi, sia la crisi sistemica che sta trascinando l’Europa nella stagnazione economica e verso diseguaglianze sociali insostenibili. Senza un capacità di rinnovare in modo radicale il nostro approccio ai problemi politici e sociali del nostro tempo non c’è alcuna possibilità di attraversare questa notte che si fa sempre più buia. Questo rende ancora più attuale, per il futuro dell’Europa, del mondo, delle nostre vite e di coloro che verranno dopo di noi, la prospettiva di una conversione ecologica.

Domanda modestamente antinazionalista: aver pagato 150mila euro alle famiglie dei due pescatori indiani crivellati dai colpi di mitra dei due signori Girone e Latorre è prezzo sufficiente per consentire allo Stato cui appartengono di difenderli come "eroi"?

La Repubblica, 31 marzo 2016

Un altro no. L’apertura dell’arbitrato internazionale dell’Aja su chi debba celebrare il processo ai marò per l’uccisione di due pescatori indiani è l’ennesima delusione per Roma, che alla richiesta di concedere anche a Salvatore Girone di lasciare Delhi in attesa degli sviluppi dell’arbitrato si è vista allegare l’opposizione formale dell’India. Il dibattimento prosegue oggi e ci vorrà un mese perché il Tribunale dell’Aja decida se consentire o meno il rientro, ma la speranza italiana che la richiesta fosse avallata dal silenzio assenso dell’India si è subito dissolta.

Il rientro anticipato di Girone «fino alla decisione finale» dell’arbitrato sulla competenza giuridica, attesa non prima di tre anni, ricomporrebbe una vicenda che, al di là della questione giudiziaria, è ormai estremamente scomoda per entrambi i paesi. Visto che la decisione spetta all’Aja, la soluzione sarebbe a costo zero: nessuno smacco per l’India e via libera alla ricomposizione dei rapporti incrinati. Proprio ieri, tra l’altro, il dossier “marò” è finito di traverso sul tavolo del vertice Ue-India convocato a Bruxelles con un’agenda fitta di accordi politici ed economici. La conferenza stampa congiunta di fine giornata del premier Narendra Modi, dei presidenti di Consiglio e Commissione Ue Donald Tusk e Jean Claude Juncker e dell’Alto rappresentante Federica Mogherini è saltata per evitare domande (e risposte) scomode. Ma dietro le quinte il disgelo è in corso, al di là delle schermaglie all’Aja: «Entrambe le parti si impegnano a trovare una soluzione », è scritto nelle conclusioni.

La posizione italiana espressa ieri mattina in aula dall’ambasciatore Francesco Azzarello era chiara: l’arbitrato «potrebbe durare almeno 3 o 4 anni» durante i quali Girone rischia di rimanere «detenuto a Delhi, senza alcun capo d’accusa per un totale di sette o otto anni. Un essere umano non può essere usato come garanzia della condotta di uno Stato». E visto che «abbiamo già preso l’impegno di rispettare qualsiasi decisione di questo Tribunale», che senso avrebbe accanirsi in attesa che inizi il processo vero e proprio?

La replica è una doccia fredda: la richiesta italiana è «inammissibile» perché «c’è il rischio che Girone non ritorni in India nel caso venisse riconosciuta a Delhi la giurisdizione. Non è in prigione. Vive bene nella residenza dell’ambasciatore italiano a Delhi e la sua famiglia può rendergli visita ». Insomma, per l’India sono «condizioni ragionevoli» in proporzione alla gravità delle accuse. Tant’è, la partita è in corso: l’eventuale rientro di Girone disinnescherebbe anche la miccia del rientro del collega Latorre, che a fine mese - senza proroghe - dovrebbe tornare in India costringendo l’Italia a una scomodissima resa o a una pericolosa rottura. La soluzione? Sembra averla voluta indicare proprio Delhi: «Sarebbero necessarie assicurazioni» sul rientro di Girone. Quelle arrivate fino a oggi «sono insufficienti».

Non vogliono comprendere che l'esodo è inarrestabile. Così, invece di attrezzare il resto del mondo a ospitare gli esuli e creare vie protette d'accesso, aumentano la repressione e incrementano la rabbia degli esclusi. Poi fingono di combattere il terrorismo che hanno alimentato: tanto, pagheranno gli innocenti.

LaRepubblica, 31 marzo 2016

DIFFICILE non vedere una forzatura nell’arrivo di Fayez el Serraj con i suoi ministri a Tripoli. Il premier guida un governo di unità nazionale che però di unitario ha ben poco. È sgradito alla fazione tripolina di ispirazione islamista, guidata da Khalifa Ghweil, che nei giorni scorsi aveva imposto la chiusura dello spazio aereo proprio per impedire l’atterraggio di Serraj. È ben lontano dall’ottenere il sostegno del Parlamento di Tobruk, anche se un centinaio di deputati sarebbero disposti a sostenerlo. In altre parole, sembra essere solo un governo voluto se non imposto dalle Nazioni Unite. E adesso la sua presenza pone domande e apre scenari di soluzione non facile.

LE OPERAZIONI MILITARI
La missione navale europea battezzata Sophia (inizialmente chiamata Eunavfor Med) prevede che le forze delle nazioni Ue intervengano nelle acque territoriali libiche (fase 2B) e poi anche sul terreno (fase 3) per contrastare gli scafisti e il traffico di esseri umani, a patto però che ci sia «il consenso dello Stato straniero interessato», o una richiesta delle Nazioni Unite. I governi europei sono propensi a richiedere che siano presenti entrambe le condizioni e in questo momento una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dia il via libera non sembra fuori portata. Ora dunque si pone un problema di altro genere: da chi deve essere “riconosciuto” il governo perché sia rappresentativo del paese costiero? Un riconoscimento dell’Onu di fatto metterebbe tutto il potere decisionale sulla missione europea nelle mani del Consiglio di Sicurezza.

LA NUOVA MISSIONE
Il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite darebbe al governo di Serraj un ruolo che va molto al di là del consenso e delle effettive capacità di controllo nel suo paese: la missione internazionale da mesi allo studio e le sue modalità dovrebbero essere concordate appunto con l’esecutivo appena arrivato. Ma per le nazioni disponibili a fare la propria parte, la debolezza del governo sul terreno è un problema serio. In teoria, il via libera dell’Onu apre la strada ad accordi che potrebbero portare anche a richieste di aiuti militari in tempi molto brevi, e soprattutto molto prima di una effettiva stabilizzazione della Libia.

LE NAZIONI EUROPEE
Gran Bretagna, Germania e Francia, paesi interessati ad arginare il flusso di immigrati irregolari e disponibili a far parte della missione, sembrano al momento tutt’altro che entusiaste dell’idea di una escalation dell’impegno, nonostante la “tirata d’orecchi” ricevuta nelle scorse settimane da Barack Obama. La situazione di disaccordo sul terreno, con la presenza di duecentomila miliziani armati divisi fra le diverse fazioni e l’ombra dei cinquemila fondamentalisti dell’Is che cercano di guadagnare terreno, lascia intuire che l’ipotesi di operazioni militari brevi e decisive debba lasciare spazio alle prospettive di un intervento lungo e costoso, in termini economici ma soprattutto di vite umane. Il governo Cameron, criticato ferocemente in questi giorni per il ruolo avuto da Londra nella deposizione di Gheddafi, per ora si limita a «non negare» che istruttori britannici sono già presenti in terra libica e a mandare l’incrociatore Enterprise per contrastare l’azione degli scafisti, dando disponibilità all’invio di motovedette della Guardia costiera ed elicotteri. Anche Berlino ha spedito i suoi tecnici per dare assistenza, ma fermandoli in Tunisia.

L’ITALIA
L’entusiasmo con cui il governo si è proposto alla guida di una missione internazionale sembra del tutto tramontato. La Farnesina sottolinea che bisogna offrire ai libici l’opportunità di costruire una pace, ampliando la base del consenso al governo Serraj, purché questo avvenga in tempi ragionevoli. Palazzo Chigi sembra disponibile solo a fornire assetti tecnologici (cioè sostanzialmente cacciabombardieri e droni da usare contro il sedicente Stato islamico), oltre a un numero limitato di truppe speciali. L’idea dello sbarco di un contingente numeroso non è presa in considerazione. Con i ricordi del passato coloniale, una presenza italiana troppo rilevante potrebbe avere l’effetto di far aderire anche le milizie “laiche” al fronte jihadista. Il problema è che gli Stati Uniti premono perché l’Italia dia seguito ai suoi proclami. E adesso persino una think tank come la Brookings ricorda all’Italia, con un report appena pubblicato, che è suo interesse contrastare l’influenza dell’Is in territorio libico.

Dopo l’ultimo depistaggio servito da Ghaffar, la famiglia Regeni trova il coraggio di parlare e avverte: "Il 5 aprile ci aspettiamo un gesto forte dal governo italiano". Senza sviluppi "mostreremo le immagini di nostro figlio torturato, come altri egiziani". Luigi Manconi: "L’Egitto va dichiarato Paese non sicuro, e l’ambasciatore richiamato"». Il manifesto, 30 marzo 2016

Quando nella notte tra il 24 e il 25 marzo hanno appreso che «la più cupa delle previsioni si era puntualmente avverata», e che l’ennesimo, incredibile depistaggio era stato servito «su un vassoio d’argento», assunto come «verità» ufficiale direttamente dal ministro dell’Interno egiziano Ghaffar, la famiglia Regeni ha deciso di fare il passo che non aveva mai fatto finora. Di presentarsi in pubblico con lo striscione giallo di Amnesty «Verità per Giulio Regeni» e parlare direttamente ai giornalisti, senza più la mediazione del governo Renzi, pur pagandone un prezzo altissimo. «Rinnoviamo il nostro dolore» che però a questo punto è «un dolore necessario», anche perché «ciò che è successo a Giulio in Egitto non è un caso isolato».

Paola Deffendi ha «bloccato le lacrime» e con lucidità, insieme al marito Claudio Regeni, racconta del figlio e di quella verità che «pressioni» esterne vorrebbero silenziare. Lo fanno rivolgendosi ai media di mezzo mondo convocati nella sala Nassirya del Senato, insieme al presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, alla loro avvocata Alessandra Ballerini e al portavoce di Amnesty international Italia Riccardo Noury.

L’impressione è che confidino ancora nelle istituzioni italiane, in particolare nella procura di Roma, e nella loro capacità di ottenere una reale collaborazione da parte delle autorità cairote, ma che pongano un limite alla paziente ed estenuante attesa. Quando tra pochi giorni gli inquirenti dei due Paesi si incontreranno di nuovo a Roma, «cosa porteranno gli egiziani?», chiede Paola Deffendi. I documenti che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aspetta da un paio di mesi – richiesta rinnovata anche dall’avvocata Ballerini e dal collega egiziano, in modo da aumentare la pressione – o una nuova versione-farsa? «Se il 5 aprile sarà una giornata vuota, confidiamo in una risposta forte del nostro Governo. Forte, ma molto forte. È dal 25 gennaio che attendiamo una risposta su Giulio».

Altrimenti, spiegano i Regeni, si spingeranno sulla stessa strada intrapresa da Ilaria Cucchi e mostreranno al mondo le foto del corpo martoriato del giovane ricercatore. «Se non l’abbiamo fatto finora – aggiunge l’avv. Ballerini – è solo perché la mobilitazione e la protesta generale hanno fatto fare un mezzo passo indietro all’Egitto».

Esporranno le foto di Giulio torturato «come un partigiano dai nazifascisti», solo che «lui non era un giornalista e non era una spia, era solo un ragazzo che studiava». «Torturato come un egiziano», massacrato perché «forse le idee di mio figlio non piacevano».

Mostreranno non più quel «bel viso sempre sorridente, con uno sguardo e una postura aperta», come era aperta la sua mente, ma l’immagine dell’obitorio, come è stato «restituito dall’Egitto», di quell’uomo «completamente diverso» sul quale «si era riversato tutto il male del mondo», «e noi ci chiediamo ancora perché». Di quel «viso che era diventato piccolo piccolo», nel quale «l’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui, ma proprio l’unica, è stata la punta del naso».

Un particolare che fa impressione, ma non è l’unico. Paola Deffendi racconta infatti che non furono loro ad effettuare il riconoscimento di Giulio all’obitorio del Cairo, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità e dai media di entrambi i Paesi finora. Non lo videro prima che i medici egiziani effettuassero l’autopsia, ma solo quando il corpo rientrò a Roma per il secondo esame. «In Egitto ci avevano consigliato di non vederlo, e noi avevamo anche accettato, perché eravamo talmente fuori, credetemi, da pensare che forse sì, era meglio ricordarlo come era prima».

Non solo. La scomparsa di Giulio non venne pubblicizzata, come accade di solito e come avrebbero voluto fare i suoi amici convinti che avrebbero potuto salvarlo con la campagna «Where is Giulio?» lanciata e immediatamente interrotta, perché nel Paese di Al Sisi, “amico” di Matteo Renzi, «ci hanno spiegato – ha ribadito l’avvocata Ballerini – che c’è una procedura informale diversa per i cittadini italiani», anche per fare in modo che un eventuale «fermo si possa trasformare in arresto formale». In sostanza, fin dal primo momento si agì sotto l’impulso di forti pressioni, anche se probabilmente in buona fede, almeno da parte italiana.

Ieri pomeriggio, prima della conferenza stampa, i Regeni hanno proceduto, presso la procura di Roma, al riconoscimento degli oggetti fatti rinvenire in uno dei covi dei presunti “banditi” uccisi dalle forze dell’ordine egiziane e fotografati dal ministero degli Interni di Ghaffar. «Tranne i documenti e forse uno dei due portafogli, nessuno di quegli oggetti che servivano a costruire un’immagine ignobile di Giulio, appartiene a lui», riferisce l’avvocata Ballerini.

D’altronde, anche se Giulio viveva da anni lontano da casa, «avevamo un rapporto strettissimo, profondo, una relazione simile a quella che hanno gli aborigeni a distanza», racconta ancora la madre. Per questo «sappiamo che Giulio non lavorava né ha mai prestato i suoi studi ai servizi segreti», anche «con tutto il rispetto per il ruolo dell’intelligence». «Non aveva un conto corrente da spia e conduceva una vita molto sobria. Sul suo conto c’erano 850 euro, e tanti ce ne sono ancora. Nessun prelievo successivo a quello del 15 gennaio». Il che mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la pista della banda che rapinava stranieri non sta in piedi.

È vero invece che «in Egitto nel 2015 ci sono stati 1676 casi di tortura di cui 500 terminati con la morte del torturato, e nei primi due mesi del 2016 sono già 88 le persone torturate di cui 8 morti», riferisce Noury.

E allora, il 5 aprile la famiglia Regeni non si aspetta «proprio la verità» ma neppure un’altra giornata persa. A questo punto non è escluso che la campagna «Verità per Giulio Regeni» sposi la proposta lanciata ieri dal senatore Luigi Manconi, secondo il quale il governo dovrebbe «porre la questione del richiamo – non del ritiro – del nostro ambasciatore per consultazioni. Un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese considera il caso discriminante per mantenere buone relazioni con il Cairo». «Penso sia necessario considerare la revisione delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Paesi – ha aggiunto Manconi – mettendo in conto l’urgenza e l’ineludibilità di altri atti concreti da parte dell’Unità di crisi della Farnesina, che sulla scorta di quanto accaduto dovrebbe dichiarare l’Egitto Paese non sicuro».

Giulio Regeni non c’è più, lui che, come dice in conclusione sua madre, «avrebbe potuto dare una mano al mondo». «Però – aggiunge Paola Deffendi – ora noi siamo qui a parlare di tortura e a parlare di Egitto, e prima non se ne parlava». L’ultima domanda la pone lei: quello di Al Sisi «è un Paese sicuro?».

La conferenza stampa

Il racconto di un'esperienza nuova di governo di una città. Allora cambiare è davvero possibile, per le persone. Anticipazione di un libro su Ada Colau che uscirà a breve per edizioni Alegre a firma sempre dei medesimi autori. nuovAtlantide, online, 26 marzo 2016.

A Barcellona l’attuale sindaca, ex occupante di case e proveniente dai movimenti sociali, sta attuando un reale cambiamento rompendo la dicotomia pubblico/privato – aprendo al “comune” – e sperimentando nuove forme di partecipazione. Senza tessere di partito, figlia degli Indignados, si pensa per lei già ad un ruolo oltre la Catalogna. E molti, in Italia, guardano con interesse al suo modello.

Al primissimo incontro erano pochi, seduti in circolo con le sedie. Eppure andavano ripetendo: “Dobbiamo vincere le elezioni”. L’ambizione, la vocazione maggioritaria, l’idea di raggiungere il governo. Tre pilastri fondamentali, dalla genesi di Barcelona en Comù, la lista che ha vinto le elezioni comunali a Barcellona nel maggio del 2015. Un progetto nato con un altro nome, Guanyem Barcelona – che significa “vinciamo, conquistiamo Barcellona” – e che è stato voluto fortemente da Ada Colau. La pasionaria degli Indignados.

L’ex occupante di case, 42 anni, sposata con l’economista Adrià Alemany e madre di un figlio di 5 anni, si è formata da noi: una breve parentesi Erasmus a Milano. Con il movimento No Global ha iniziato la sua militanza a tempo pieno e, dopo il G8 di Genova 2001, si è fatta promotrice a Barcellona dei primi cortei pacifisti contro le guerre preventive di Bush. Quel popolo arcobaleno che il New York Times etichettò nel 2003 come la seconda superpotenza al mondo, dopo gli Usa. È fronteggiando il dramma abitativo e, nel 2009, con la nascita della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH, Piattaforma delle vittime dei mutui) che diventa una leader di movimento conosciuta tanto da essere considerata dalle istituzioni “un soggetto pericoloso”.

Tra febbraio e marzo del 2014, Colau e le poche persone che erano al suo fianco organizzano degli incontri a porte chiuse. Si partecipa solo su invito. Venti, massimo trenta persone che aumenteranno con il passare delle settimane. Non saranno mai più di una cinquantina. Qualcuno, a sentire le loro conversazioni, li avrebbe presi per pazzi quando, in un numero esiguo e senza soldi, blateravano di governare la seconda città della Spagna e invece la storia ci racconterà altro.

Un gruppo ristretto formato essenzialmente da Ada Colau e dal suo nucleo duro, persone di fiducia da sempre, capitanato dal compagno Adrià Alemany e da Gerardo Pisarello, Jaume Asens e Gala Pin, tutti e tre attualmente assessori nella giunta comunale di Barcelona en Comú. Un nucleo duro che proviene dalle lotte sociali, dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) e dall’Observatori DESC, che sta per Osservatorio sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. E che poco a poco va allargandosi, includendo altre persone strettamente vincolate ai movimenti e alcune persone di prestigio legate al mondo universitario.

In tutta questa fase, i partiti non sono invitati e stanno a guardare, interessati, ma anche scettici. Sanno che devono contare sui movimenti dopo l’esplosione degli Indignados; sono coscienti che si devono trovare punti di incontro, allo stesso tempo sono gelosi della propria autonomia. “Non ci interessa unire la sinistra né creare sommatorie tra soggetti, ma creare qualcosa di nuovo e diverso”, afferma il gruppo di Colau che controllerà sempre la situazione, gelosa di non farsi scippare il progetto. Ma le riunioni sono vere: si parla, si discute animatamente, ci si confronta.

Tutti d’accordo nel dire che il percorso politico dovesse nascere dal basso rompendo il sistema partitico esistente, ormai in crisi, e rinnovando le modalità autorappresentative e minoritarie dei movimenti classici: “La logica movimentista e attivista, con le sue pratiche e il suo linguaggio, è fine a se stessa ed è necessario superarla, aprirsi alla società e intercettare tutti i cittadini colpiti dalla crisi. E, soprattutto, avere l’ambizione di vincere e porsi la questione di voler governare” affermavano all’unisono. Una campagna elettorale travolgente che ha visto la partecipazione di migliaia di persone. Un programma scritto nelle piazze attraverso affollate assemblee nei quartieri e l’utilizzo della Rete. Vera esperienza di tecno-politica. E senza alcun grande finanziatore alle spalle, né le tanto odiate banche: trasparenza e crowdfunding. Una proposta radicale, a leggere il programma.

Il 13 giugno 2015, un anno dopo, Ada Colau, attivista sociale ed ex occupante di case, diventava la nuova sindaca. La piazza Sant Jaume, davanti all’Ayuntamiento, era gremita e festante. “Non lasciatemi sola. Il futuro di Barcellona è nelle vostre mani”, le sue prime parole. Dai movimenti alle istituzioni. Il giorno successivo bloccava da primo cittadino uno sfratto opponendo resistenza passiva alle forze dell’ordine. Dopo otto mesi la ritroviamo nei quartieri più poveri della città, nelle assemblee territoriali, per ascoltare le richieste e confrontarsi direttamente coi cittadini. Un rapporto costante con le persone: “Mi interessa unire la gente, l’importante è condividere obiettivi e metodi per raggiungerli” va ripetendo Colau, da un barrio all’altro.

Democrazia, trasparenza e diritti sono i pilastri del cambiamento coi quali ha vinto le elezioni amministrative con la sua Barcelona en Comú, una lista civica nata dal basso e sostenuta da movimenti, in primis, e dai partiti come Podemos, gli ecosocialisti di Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), i comunisti di Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), il piccolo Procés Constituent e i verdi di Equo.

Non un’operazione politicista né una mera sommatoria, ma una “convergenza tra diversi”, un processo costruito orizzontalmente secondo il criterio una testa un voto. Un’intuizione che parte da lontano, partorita già nella primavera del 2014 da alcuni attivisti sociali e pensatori. Tra questi il politologo Joan Subirats: “In Spagna c’è stato un grande ciclo di mobilitazione che ha modificato lo scenario del Paese – afferma lo studioso – Barcelona en Comú non sarebbe esistita senza il 15M perché ha a che vedere con un cambiamento della coscienza politica e della mentalità, soprattutto con un fenomeno di politicizzazione della società. Nel biennio 2011-2013 gli Indignados sono riusciti ad identificare la natura del problema in PP e PSOE i quali, pur differendo su alcune questioni valoriali, negli anni hanno applicato le medesime politiche di austerity e i criteri imposti dall’Europa”.

Così la grande rabbia, quel “non ci rappresentano” che porterà a chiedere democrazia reale e la rottura dello storico bipartitismo iberico. Barcelona en Comú intravede lo spazio politico e si pone il problema del governo, da subito. “Fin dal primo incontro – ricorda Subirats – ci siamo dati l’obiettivo di vincere, non ci interessava l’ennesimo partito di sinistra del 6-7 per cento ma prendere il potere a Barcellona. Bisognava occuparsi delle istituzioni e recuperarle per metterle al servizio della gente e aggiornare il sistema democratico”. La divisione non è più tra destra e sinistra ma tra basso contro alto. Un progetto ambizioso. E nuovo.

L’Italia era vista come un modello. Il nome Barcelona en Comú è figlio del movimento referendario per l’acqua pubblica che ha sancito il trionfo del comune come categoria per spezzare la dicotomia privato/pubblico. E poi l’esperienza arancione dei sindaci Doria, Pisapia, Zedda e De Magistris. Ora, in realtà, sono in contatto soltanto con il primo cittadino di Napoli.

Alle elezioni del 2015 l’occasione per unire le realtà sociali della città: associazioni, comitati, reti territoriali e singoli cittadini. In tale processo, aperto, i partiti assumono un ruolo secondario: su 11 eletti in consiglio 6 provengono dalla società civile, 5 dai partiti (1 da Podemos, 3 da ICV, 1 da EUiA).

L’analisi elettorale evidenzia come Barcelona en Comú ottenga un “voto di classe”, ovvero vette di consenso alte soprattutto nei quartieri abbandonati e degradati di Barcellona.

La candidatura di Colau è, infatti, prima in sei dei dieci municipi della città (Nou Barris, Sant Martí, Sant Andreu, Horta-Guinardó, Sants-Montjuic e Ciutat Vella), quelli che hanno il reddito più basso. A Nou Barris, dove Convergència i Unió (CiU), partito catalanista di destra che ha governato la città nell’ultima legislatura, non raccoglie nemmeno il 10%, Barcelona en Comú raggiunge il 33,8%. A Ciutat Vella il 35,3%, a Sant Martí il 29,4%. Sono i quartieri più colpiti dalla crisi e dove più si è lavorato, non solo durante la campagna elettorale, ma dall’estate precedente, con assemblee, incontri, riunioni. Un lavoro sul territorio, costante e continuo, che ha dato i suoi frutti. Riavvicinare le persone alla politica, renderle partecipi, farle decidere su tutto. E il calo dell’astensionismo è evidente proprio qui: a Sant Andreu, Sant Martí, Nou Barris e Horta-Guinardó la partecipazione è aumentata dell’8 e del 9% rispetto al 2011, più che in altri quartieri.

Ma quello per Barcelona en Comú è stato anche un voto generazionale. Tra i giovani Ada Colau sbaraglia gli avversari. Gli under 25, ossia i figli della crisi e degli Indignados, non hanno avuto dubbi quando sono andati a votare. Lo hanno fatto maggioritariamente per la lista guidata dall’ex portavoce della PAH, che nel 2011 era nelle piazze occupate. Ma anche la lost generation dei trentenni, con lauree, master e dottorati ma senza la prospettiva di trovare un posto di lavoro, come mai in passato ha votato in massa per Barcelona en Comú. Questi sono alcuni degli elementi che hanno permesso il successo alle elezioni comunali del 24 maggio 2015.

Anche il ruolo decisivo di Colau è innegabile. La portavoce degli ultimi. La donna che da anni si batte per la democrazia e i diritti sociali. La leader storica della PAH. Il valore aggiunto. Qualcuno già ipotizza per lei un futuro come leader nazionale. Non a caso, già si sta adoperando per andare oltre il municipio di Barcellona perché, in alcuni ambiti, le decisioni vengono stabilite a livelli più alti. “Noi ad esempio ci siamo dichiarati ‘Barcellona città libera dal TTIP’, il trattato di libero commercio, perché pensiamo che sia un attentato alla nostra sovranità. Ne va della nostra democrazia. In Europa dobbiamo costruire alleanze a partire dai movimenti, dalle persone, dai municipi e dalle città, bisogna ricostruire un’altra Europa, quella reale, contro quella dei tecnocrati e dell’austerity”.

Per tale motivo ha firmato l’appello sul Piano B, e la democratizzazione dell’Europa, di Yanis Varoufakis, e siglato un accordo tra il Comune catalano e quelli di Lampedusa e Lesbo per dare una risposta alla crisi dei rifugiati. Spyros Galinos, sindaco dell’isola greca, e Giuseppina Nicolini, sindaca di Lampedusa si sono incontrati a Barcellona con Colau lo scorso 15 marzo. Nicolini è stata insignita anche del Premio per la Pace assegnato dall’Associazione delle Nazioni Unite in Spagna e dalla Provincia di Barcellona. “L’accordo UE-Turchia è immorale e illegale – le parole di Colau –. L’Europa sta sbagliando, il governo spagnolo sta sbagliando ed è complice della morte e la sofferenza di migliaia di persone”.

Secondo l’accordo, Barcellona offrirà appoggio tecnico, logistico, economico e anche politico affinché “si senta la voce delle città che vogliono che il Mediterraneo sia uno spazio comune di cultura, arte e scienze e non un enorme cimitero”, come ha dichiarato Colau. Il Comune catalano manderà a Lampedusa e a Lesbo esperti nei servizi di accoglienza ai migranti per dare inizio non a “un’alleanza paternalista o assistenziale, ma a un’alleanza tra città che non si rassegnano a un’Europa disumanizzata”.

La sindaca di Barcellona ha affermato che “gli Stati europei non si sono dimostrati all’altezza e non hanno applicato il diritto d’asilo, mentre i cittadini, le città e i popoli europei sì che sono stati all’altezza e hanno saputo dare una risposta non solo etica e politica, ma anche materiale e pratica” alla crisi dei rifugiati, ricordando che a Barcellona oltre 4 mila persone hanno offerto ospitalità nelle proprie case nei mesi scorsi.

Il governo spagnolo non sta dando nessuna risposta: finora sono solo 18 i rifugiati accolti. “Barcellona ha fatto tutto il possibile, ma non è sufficiente”, ha ricordato ancora Colau. “Abbiamo incrementato i fondi di cooperazione, abbiamo dichiarato Barcellona “Città rifugio”, abbiamo creato un mail del Comune per raccogliere le offerte di aiuto dei cittadini, abbiamo lanciato un bollettino a cui si sono iscritte oltre 3 mila persone”. Ora sono stati approvati altri fondi di 200.000 euro da destinarsi alle organizzazioni umanitarie che operano nelle zone colpite dalla crisi dei rifugiati. E Barcellona, oltre che con Lesbo e Lampedusa, collaborerà anche con Madrid, Atene, Amsterdam e Helsinki per formare un gruppo di lavoro su strategie di integrazione di rifugiati e migranti.

Adesso comunque arrivano, per lei, le prime difficoltà, un conto è l’opposizione di piazza un altro governare una città stritolata dai vincoli imposti da quest’Europea. Cosa ancor più difficile quando si governa in minoranza: Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41, e la maggioranza in Consiglio è di 21.

Non mancano le prime difficoltà con Colau che, qualche settimana fa, ha dovuto fronteggiare un tumulto, lo sciopero degli impiegati del servizio pubblico. Il programma è in effetti impegnativo. “I movimenti sociali devono rimanere autonomi e credo che il conflitto sia il perno di una democrazia – sentenzia Colau -. Bisogna essere ambiziosi e utopici per realizzare il cambiamento, è necessario avere ideali per riuscire a fare il massimo possibile”. Barcelona en Comú, un’esperienza che in Italia si studia e ammira, a sinistra. E pensare che una volta erano gli spagnoli che guardavano noi.

* questo testo è un’anticipazione di un libro su Ada Colau che uscirà a breve per edizioni Alegre a firma sempre dei medesimi autori

Riflessione sulla difficoltà di fare seriamente politica quando l'irrazionalità e la somma dei fanatismi si sono impossessati del campo e una sinistra unita non c'è. Il manifesto, 27 marzo 2016

Più passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle donne e agli uomini le cui vite sono state cancellate come fossero cose, sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o appena filtrati al suo interno, che ne avranno – ne hanno già! – la vita sconvolta. E con loro i 20 milioni di musulmani che abitano le città d’Europa, a cui con voci sempre più sguaiate si chiede di negare status di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite di coloro nel nome del cui dio dice di combattere).

Dovrebbero essere loro, migranti vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza strategica) c’illuminasse. Quelli più interessati, in nome della tutela del proprio «stile di vita», a disseccare questa radice velenosa dell’odio da cui hanno tutto da perdere.

Così come, simmetricamente, dovrebbe essere chiaro che i migliori alleati dei nostri nemici, quelli che ne moltiplicano le potenzialità di reclutamento e ne consolidano l’illusoria identità non sono tanto, o comunque non sono solo, i «loro» imam radicali, i predicatori di banlieu facilmente controllabili anche dal più scalcinato servizio d’intelligence, ma i «nostri» seminatori d’odio. Quelli della guerra santa simmetrica e reciproca. Sono loro a precostituire nell’immaginario collettivo le condizioni per la crescita esponenziale di Daesh come materializzazione della guerra. A costituirne le basi psicologiche per l’arruolamento.

Se è vero che la «guerra» in corso è, soprattutto e in primo luogo, una guerra di «narrative» (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in rapporto alla forza d’attrazione di un «racconto».

E se il «racconto» del nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra preventiva con i seguaci dell’unico e vero dio – retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica -, allora ogni parola di guerra pronunciata dal nostro campo, tanto più se non sostenuta da azioni conseguenti ed efficaci (e come potrebbero esserlo oggi?), è manna dal cielo per quell’identità ostile. Ne fornisce la materia prima di cui strutturarsi e consolidarsi.

Non per nulla Daesh usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo stesso potrebbe fare con quelli di Matteo Salvini. E di Marine LePen. O dei variopinti demagoghi populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla retorica degli «stivali sul terreno» rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate di un Hollande in stile guerriero nonostante se stesso.

Sono loro oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo dirlo con chiarezza.

Sono loro i ghost writer della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno – nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale – i materiali linguistici per la trama di una storia infinita e sempre uguale, che batte sempre sullo stesso tasto: la distruzione dell’Altro. E che prima o poi quel vaso di Pandora che ha riempito di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di «vertigine».

Torna in mente un vecchio saggio di Roger Caillois, scritto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, intitolato appunto Vertiges, dove s’intendeva con quel termine l’irresistibile attrazione per cui «l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione stessa del proprio annientamento» che «lo priva del potere di dire di no». È lo stesso istinto autodistruttivo per cui l’insetto è attratto dalla fiamma che lo ridurrà in cenere, l’uccello dallo sguardo del serpente che lo divorerà. E l’uomo dalla fascinazione del vuoto… La forza cieca della sorte per il giocatore coattivo. L’inaccessibile impassibilità della femme fatale per l’innamorato senza speranza, nel campo dei comportamenti individuali. Per le società, invece, la Guerra.

Il punto zero dell’esistenza in cui ciò che si considera inevitabile trova infine compimento nel trionfo del nulla. In ogni caso il denominatore comune della vertigine è innanzitutto la distruzione dell’autonomia: una «fatale paralisi» di fronte alla sollecitazione dell’abisso. E l’antidoto – risorsa rara – è una volontà capace di restare «padrona di sé», conservando «l’indipendenza, l’energia e l’iniziativa». Cioè quello che dovrebbe essere la Politica (il condizionale è d’obbligo), quando fosse capace di rimanere fedele al proprio profilo più nobile: la vocazione a perseguire il «bene comune», per arduo che ciò sia.

Per questo noi de l’Altra Europa con Tsipras abbiamo messo al centro della nostra recente assemblea nazionale a Milano la riflessione su cosa voglia dire «fare politica in tempi difficili». Che non sono i tempi in cui l’avversario contro cui lottiamo è infinitamente più forte di noi, a questo siamo in fondo abituati da sempre. Ma quelli in cui il quadro politico e sociale – persino culturale, e potremmo dire ‘antropologico’ – in cui ci muoviamo si decompone e si sfarina. Quando i fronti lungo i quali si definiscono gli amici e i nemici mutano rapidamente, si spezzano e ricompongono, e la nostra stessa comunità rischia di decomporsi e sfarinarsi, i rapporti di fiducia di logorarsi e spezzarsi, e si stenta a vedere gli alleati e i compagni di strada. Quando si finisce per non riconoscersi più… l’un l’altro!

Sono i tempi in cui si passa da una situazione che Gramsci avrebbe chiamato di «guerra di posizione» – in cui si confrontano blocchi ancora strutturati (neoliberismo contro resistenza sociale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia – a una di «guerra manovrata» o «di movimento» in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità di pensiero.

In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni ’40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno dell’odio tra i popoli, ricordava come, un tempo, Atene avesse saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, «rompere solennemente con quella tradizione che metteva le nazioni le une contro le altre» perché nessuno potesse accusarla di preferire «gli interessi di Atene al diritto altrui» («Nella lotta contro Filippo avrebbe avuto le mani pulite»). E avesse così proposto «ai forti, agli audaci, agli austeri di unirsi su tutta la terra per instaurare il loro governo sulla moltitudine dei soddisfatti e dei mediocri».

Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di quella rinascita. Un solo vuoto: l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente.

per la democrazia, e alla scarsa attenzione al problema da parte della sinistra. Rifondazione.it newsletter, 24marzo 2016)


Sonosolita dire da un po’ che se il femminismo non cerca trova altri punti di partenza, non può resistere alla recente, non ancora del tutto consolidata,vittoria del Patriarcato; ma che ciò non blocca la crisi capitalistica, la qualeanzi, con l’appoggio del “patriarcato gentile” va sempre più non già verso l’uscitadalla crisi, con una nuova gloriosa socialdemocrazia, detta pure“riformismo”, bensì a capofitto nella barbarie che ha il nome proprio di“guerra”.
Vogliocercare di spiegarmi bene: che cosa sia il patriarcato è noto e qui non ho da inventare nulla. Che il patriarcato stia vincendo si vede dall’ininterrottoe non risolutivo dominio della finanza in economia. Che la sua incipiente“vittoria” sia una sciagura, si vede dalle vicende greche; dallaperdita di significato della parola “classe”; dalla trasformazionedel sindacato in corporazione (cioè dal “progresso” verso il Feudalesimo!), dall’emergere di una emancipazione ottusamentemimetica, che produce persino le ragazze “bulle”, nonché le ministre adoranti, come quelle del governo Renzi o le parlamentari come la Moretti chesvolgono benissimo la parte di altoparlante del “capo”. E mi spiace molto didover mettere in elenco pure la vicesegretaria nazionale del Pd, che è una donnaintelligente, la quale non può non capire quel che fa.
Citroviamo dunque in una fase - che non credo sarà lunga, ma non è nemmeno un attimo fuggente - di regresso e di caduta. Da qualche tempo, sia purein modo apparentemente casuale emergenziale e non organizzato, nè analizzato a dovere, si palesano alcune “maglie rotte” nella rete della barbarie del capitalismoin crisi strutturale globale e -credo- finale (crisi, non crollo). Mentre ciòsuccede, sembra che ciò che viene chiamato “sinistra” non se ne accorga nemmeno, non ne abbia coscienza e provi a fare del riformismo,senza nemmeno riuscire, proprio nei paesi dove la socialdemocrazia europeafu più gloriosa e consolidata, a contenere le crescenti spinte razziste, guerrafondaiee neocolonialiste, cioè fascisteggianti.
Collocoqui il fenomeno che chiamo “patriarcato gentile”, cioè quello “di sinistra”, che usa persino a volte il linguaggio inclusivo, dice “ministra” o“sindaca”, che non dice più “porca Eva”, anzi persino avanza analisisulla “democrazia imperfetta per le donne”. Qui è il possibile aggancio nuovo. Prendo in considerazione una dichiarazionedelle N.U. (da alcuni decenni si chiamano Nazioni Unite e non più ONU) fontenon sospetta di posizione preconcetta progressista, ma abbastanza attendibile,che suona: “Le donne sono ormai stabilmente la maggioranza della popolazionedel pianeta e di ogni paese che lo compone e occupano ovunque gli stratipiù modesti”. Se volessi tradurre subito in politichese sinistrese direi:dunque noi donne siamo il nuovo proletariato mondiale o almeno la sua stabilemaggioranza.

Milimito ad osservare che se le donne sono ormai la stabile maggioranza della popolazione,“una democrazia imperfetta per le donne” è “una democrazia imperfetta” e basta. Toccherebbe a tutte e tutti rispondere correttamenteal conseguente “che fare?” A destra si accetta sia pure di malavogliae col contagocce di mollare un po’ di potere (bisogna dire che socialmente la destrane ha di più e il sacrificio é minore). Ma a “sinistra” il niente. Nonsono disposta a considerare “sinistra” una cosa così. Ripartiamoin ogni circostanza col ricordare che noi siamo la maggioranza e che chi non loriconosce, non può di conseguenza dichiararsi se non conservatoreo addirittura reazionario. E avanti tutta!

Se i governi di «quell’Europa senz’anima che tanto ha fatto per spianare la strada ai terroristi» fornendo loro carburante ideologico e carburante finanziario cambiasse strada la guerra potrebbe essere vinta, magari contro gli interessi di chi la guerra la vuole per rafforzare il proprio potere interno. Il Fatto quotidiano, 24 marzo 2016

Amaramente paradossale risulta la circostanza che l’ultimo bersaglio dell’Isis sia costituito da Bruxelles, capitale di quell’Europa senz’anima che tanto ha fatto per spianare la strada ai terroristi, fornendo loro carburante ideologico con le sue guerre d’aggressione ma anche carburante finanziario. Da questo secondo punto di vista risulta ancora più amaramente paradossale la circostanza che i terroristi abbiano compiuto questa nuova strage proprio all’indomani dell’accordo raggiunto con uno Stato, la Turchia, in cui sono stati recentemente arrestati due importanti giornalisti proprio per aver messo sotto accusa legami e sostegni fra il regime di Erdogan e i tagliagole.

Quanti dei tre miliardi che l’Europa tremebonda si accinge a regalare al Sultano nella speranza, del tutto infondata, che la salvi dal “flagello” dei profughi da essa stessa provocati, finiranno nelle tasche dei terroristi? Quante delle armi e degli esplosivi che le avide industrie degli armamenti europei riversano negli arsenali delle tirannie del Golfo non vengono poi destinati ai terroristi? Peraltro, come acutamente sostenuto da David Graeber sul Guardian, la Turchia si applica sistematicamente da tempo a smantellare, mediante da ultimo il ricorso anche a gas venefici, le sole forze realmente intenzionate e capaci di combattere il terrorismo sul terreno, come hanno ampiamente dimostrato a Kobane ed altrove, e cioè le combattive milizie popolari kurde del PKK, del’YPG e dell’YPJ.

E l’Europa assiste senza battere ciglio, anzi appoggia il Sultano in ogni sua mossa. Questa Europa non è solo codarda, ma anche autolesionista. O meglio, si può a questo punto anche dubitare che sia interesse e volontà di governi sempre più screditati proteggere le vite dei propri cittadini. Si può ipotizzare che qualcuno abbia pensato che, in fondo, il clima di panico instaurato dalle organizzazioni terroristiche possa essere utilizzato per far digerire all’opinione pubblica qualsiasi misura antipopolare.

Da che mondo è mondo lo stato di guerra mette a tacere ogni opposizione e sempre più si parla, anche se a sproposito, di guerra. Fatto sta che gli attentati di Bruxelles e prima ancora quelli di Parigi, hanno dimostrato la totale assenza di una politica della sicurezza da parte di agenzie pure strapagate ma piene a quanto pare di incompetenti e cialtroni. Eppure non mancano, in Italia e altrove, professionalità di alto livello nel settore. Ma è probabile che i mediocri governanti del continente in crisi preferiscano affidarsi a loro pari, anziché dare fiducia e spazio alle persone capaci e intelligenti.

È sotto gli occhi di tutti quello che Alberto Negri, sul Sole24 Ore, definisce il fallimento dell’intelligence europea. Non si può non essere d’accordo con lui quando afferma che la guerra al terrorismo lanciata da Bush junior ha moltiplicato i gruppi terroristici e che “la ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord.

Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero”. Aggiungerei che questa guerra intelligente va fatta con le armi dell’informazione e dell’acquisizione del consenso, ma per vincerla nulla di meglio che inondare di denaro, armi e sostegno politico, i padrini dell’Isis, mentre assistono silenziosi e complici al massacro di chi contro l’Isis si è battuto e continua a battersi con onore e con successo. Occorre quindi rivedere a fondo la politica estera e quella interna dell’Unione. Va attuato, e sarebbe ora, un effettivo coordinamento delle agenzie di sicurezza che, oltre che inefficaci e poco disposte a collaborare fra di loro, si mostrano in alcuni casi scarsamente trasparenti.

Il coordinamento delle iniziative sulla sicurezza, peraltro, accogliendo l’auspicio di Putin, va realizzato anche in sede internazionale. Va inoltre realizzato un capillare controllo del territorio in collaborazione con le organizzazioni sociali, anche e soprattutto quelle delle immigrati, il che richiede un approccio nuovo al tema delicato e cruciale dell’integrazione, respingendo ogni tentazione di indulgere alla “guerra fra le civiltà”, che costituisce il regalo più ambito per i terroristi. Per dirla con Tommaso Di Francesco sul manifesto: “Si ferma lo Stato islamico solo togliendogli da sotto i piedi il terreno fertile della guerra e dell’odio”. dobbiamo trasformare l’Europa e sottrarla all’attuale cricca

La Repubblica, 24 marzo 2016 (m.p.r.)

Lesbo. «Benvenuto in Europa. Si tolga le stringhe delle scarpe e ce le consegni. Ci dia anche cintura e telefonino, per ora teniamo tutto noi. Declini le generalità, prenda le impronte digitali e poi si accomodi là». Dentro una baracca di poche decine di metri quadri, chiusa a chiave dall’esterno, assieme ad altri trenta compagni di sventura (compresa una anziana in carrozzella), circondata da reti metalliche e filo spinato e guardata a vista dalla polizia 24 ore su 24. Qassem, siriano di 39 anni scappato due settimane fa da Homs, si aspettava un’accoglienza diversa. «È Lesbo, vero? Ce l’ho fatta! » ha sussurrato all’alba sul molo di Mytilene a volontari e giornalisti quando è sbarcato in tuta rossa e infradito dalla guardacoste Andromeda che l’aveva intercettato su un gommone a trecento metri dalla costa. «Vado a Moria, faccio i documenti e poi parto per Atene», ha salutato con un sorriso mentre la polizia lo caricava a forza sul pullman.

Nessuno, purtroppo, ha fatto in tempo ad aggiornarlo sulle novità. Ue e Turchia hanno stretto un patto di ferro per alzare in questo braccio d’Egeo un muro anti-migranti. Lesbo, l’isola candidata al Nobel della pace, il paradiso dei volontari lodato da Angelina Jolie, è diventata un inferno da cui persino Unhcr e Medici senza frontiere (Msf) preferiscono scappare. E il campo di Moria (un «centro d’accoglienza chiuso», l’ha ribattezzato con un ossimoro involontario la Ue) «si è trasformato in una prigione per mille persone - dicono le due organizzazioni – dove noi da domenica non lavoriamo più».
«L’accordo con Ankara - ha messo nero su bianco Msf - potrebbe dar luogo a deportazioni ingiuste e disumane e noi non vogliamo esserne complici». E Qassem, che l’ha capito, ha affidato il racconto della sua delusione e del suo brusco impatto con l’Europa a un foglietto in stampatello girato a uno dei pochi osservatori umanitari rimasti nella mini - Guantanamo della Ue.
«Qui il mondo è cambiato in 72 ore - spiega sconsolato Michele Telaro, responsabile dei 180 uomini di Msf al lavoro sull’isola - Fino a domenica scorsa il campo era solo una tappa lungo il viaggio della speranza dei migranti. Si arrivava, si affrontavano le procedure di riconoscimento e si otteneva il documento provvisorio con cui, pagando i 50 euro del traghetto per Atene, si continuava la fuga da guerra e miseria». Ora Moria è diventata il capolinea di questo esodo biblico (un milione gli arrivi a Lesbo da inizio 2015, 4.219 i morti in mare). I 5mila profughi bloccati qui prima del D-Day del 20 marzo, il giorno in cui è entrato in vigore il patto con Ankara, sono stati trasferiti ad Atene. I mille arrivati da allora sono finiti sotto chiave nelle baracche del campo. «Spaventati e senza certezze sul futuro - dice Telaro - visto che nessuno qui, nemmeno noi e i legali, ha capito cosa prevede l’intesa con Erdogan». Unica certezza: il 4 aprile partiranno i respingimenti. «E se mi mettono su una nave per rimandarmi in Turchia, giuro che mi butto in mare», dice Yassim Al-Kufhir, ingegnere pakistano ospite di Afghan Hill, il campo gestito dai volontari a due passi Moria.
Spiros Gallinos, sindaco di Mytilene, è su tutte le furie: «È una situazione kafkiana - dice allargando le braccia - L’Europa ha fatto melina per un anno e mezzo, nascondendo la testa sotto la sabbia. Poi ci ha imposto in 24 ore una decisione senza istruzioni per l’uso». L’assurdo, aggiunge in camera caritatis, è che se parli con Bruxelles sono tutti contenti del successo dell’intesa. Chi puntava a fermare gli sbarchi - fregandosene dei dettagli umanitari – può in effetti fregarsi le mani. Salvagenti arancioni, casse d’acqua e coperte termiche ammucchiate sotto le tamerici della spiaggia a sud dell’aeroporto sono inutilizzati da tre giorni. «Fino a domenica qui sbarcavano almeno sei gommoni a notte - racconta Josè Alvarez, pompiere di Siviglia della Ong Proem-Aid che ha fatto l’alba scrutando l’orizzonte con il cannocchiale - Ora, zero. I gatti sono partiti a caccia dei topi». Tradotto: i guardiacoste greci e turchi e le navi Frontex - latitanti negli ultimi due anni – si sono svegliati e hanno alzato un muro invalicabile. Chi prova a passare viene bloccato e riportato a Dikili sull’altra sponda o nella prigione di Moria.
Isaac Perry, 23enne studente australiano che ha interrotto il sabbatico in Italia per venire a distribuire cibo ai profughi con la Starfish Foundation, ha una sua idea. «Le navi schierate, le incertezze sulle regole per i respingimenti e la metamorfosi di Moria hanno un senso chiaro: spaventare chi vuol tentare la sorte e sfidare lo stesso l’Egeo. I migranti leggono Facebook, il tam-tam funziona. E se non ne arrivano più è colpa (o merito, dipende da come la vedi) di questo terrorismo mediatico». Il risultato però «è che a Lesbo, dove fino a pochi giorni fa ero la persona più felice del mondo, adesso mi sembra di vivere un incubo».
Il suo timore è quello di tutti. Senza regole scritte e con l’esame delle richieste d’asilo ridotto a una farsa («mancano norme, avvocati e interpreti» dice Telaro), i respingimenti in Turchia rischiano di diventare una tragedia umanitaria per tutti, siriani compresi. «Ogni essere umano ha una sua storia - dice Lucia Mayer, 28enne infermiera di Zurigo arrivata qui con papà, mamma e marito - Al pronto soccorso di Afghan Hill ho curata decine di persone con il corpo coperto di cicatrici per la sola colpa di essere cristiani. Come si fa a rimandarli nell’inferno da cui sono venuti? E come si fa a sostenere che la Turchia è un paese sicuro?». Domande che la Ue - alle prese con bombe, populismi e un pugno di elezioni delicatissime - preferisce forse non farsi.

«Un tempo l’Italia aveva conoscenze sul MO che oggi tornerebbero estremamente utili. Ripartire da Nicola Calipari per sconfiggere il Califfo». Ma il lettore non cada in errore; l'autrice non parla solo di "servizi segreti", ma soprattutto di "intelligenza". Il manifesto, 24 marzo 2016, con postilla.

Prima al Qaeda, che continua a colpire in Africa, e ora lo Stato islamico di al Baghdadi in Europa. Il terrorismo è un’arma non convenzionale e non può essere sconfitta con bombardamenti o con i droni, anche i più sofisticati. Quando a colpire sono i terroristi della porta accanto e basta un taxista attento a segnalare un covo, che le forze di sicurezza belghe non avevano individuato, sorgono interrogativi tremendamente inquietanti. L’hanno detto tutti: la sicurezza belga è un colabrodo, peccato che Bruxelles ospiti, tra l’altro, la sede della Commissione europea e della Nato, obiettivi strategici quanto simbolici.

Per combattere il terrorismo non bastano nemmeno le forze di sicurezza, anche le più preparate non lo sono per far fronte a questo tipo di arma destabilizzante. Occorre una strategia fondata su una conoscenza approfondita dell’ideologia che costituisce il supporto ideale e la base di reclutamento e finanziamento dei terroristi. Un’ideologia che sublima il martirio come passaggio a una vita celeste fatta di godimenti terreni. È una logica che sfugge a una cultura materialistica, ma che attrae anche molti occidentali in cerca di valori non effimeri.

Chi può supplire a questa carenza di conoscenze interne a quel mondo? Solo un’intelligence che abbia come obiettivo quello di raccogliere informazioni non per giustificare un intervento militare o compiacere un governante ma per essere al servizio della sicurezza dei cittadini e dello stato.
La parte politica alla quale appartengo è sempre stata diffidente quando non ostile ai servizi segreti per il ruolo che hanno avuto nel nostro paese e che spesso ancora hanno.

Tuttavia c’è stata una parentesi nella nostra (nella mia) storia che ci ha fatto ricredere almeno sul ruolo di alcuni di loro: Nicola Calipari è stato fondamentale per la mia salvezza e quella di altri ostaggi, perché conosceva il terreno, sapeva come e con chi trattare, era consapevole che senza la conoscenza dell’intelligence non ci può essere una strategia politica.

Questa posizione va contro la logica dei fondamentalisti, dei guerrafondai, dei mercanti d’armi e di coloro che non sono interessati alla soluzione dei conflitti se non quando garantiscono il soddisfacimento dei loro interessi. E gli interessi dei vari paesi europei spesso non coincidono e per questo non sono d’accordo sull’avere un sistema di intelligence europeo. Ognuno vuole coltivare il proprio orticello e/o la ex-colonia, conquistare nuove riserve di materie prime o espandere il proprio mercato.

È un caso che Nicola Calipari sia stato assassinato dalle truppe americane e che la sua squadra – quella dei cosiddetti «calipariani» – sia stata messa fuori gioco? Eppure l’Italia aveva maturato in quel periodo una conoscenza del Medio Oriente che oggi sarebbe estremamente importante per agire politicamente e non solo militarmente su uno scenario che è molto vicino a noi. Lampedusa è più vicina alla Libia che all’Italia.

E questo ci riporta alla questione dei profughi. In questo caso forse non si tratta solo di ignoranza ma di malafede dei governanti europei: come si possono consegnare i profughi che fuggono dalla guerra e dal terrore imposto dal Califfato a un governo fondamentalista come quello di Erdogan che ha sostenuto (e sostiene) i loro carnefici. Erdogan che bombarda i kurdi del Rojava, donne e uomini che difendono un modello di società laico e democratico, gli unici in grado di contrastare lo Stato islamico sul terreno militare pur non disponendo di armi sofisticate.

Invece di aiutare i kurdi a ricostruire le città distrutte dai jihadisti l’Unione europea affida 6 miliardi di euro alla Turchia per sbarazzarsi dei profughi. Con gli stessi soldi quanti rifugiati avremmo potuto accogliere, inserire in Europa?

Certo sarebbero venute meno le speculazioni che si fanno magari in vista delle elezioni. Soprattutto da parte di chi accomuna i profughi (le prime vittime del terrorismo) ai kamikaze. Ma Bruxelles, se ancora ce ne fosse stato bisogno, ha dimostrato che i terroristi sono tra di noi. E non sono i più emarginati, disagiati, maltrattati. Al contrario: sono preparati e dispongono dei mezzi per farci saltare per aria.

postilla

Sgrena scrive, tra le molte altre cose sagge: «O
ccorre una strategia fondata su una conoscenza approfondita dell’ideologia che costituisce il supporto ideale e la base di reclutamento e finanziamento dei terroristi. Un’ideologia che sublima il martirio come passaggio a una vita celeste fatta di godimenti terreni. È una logica che sfugge a una cultura materialistica, ma che attrae anche molti occidentali in cerca di valori non effimeri». Questo è il punto, che alla maggior parte dei commentatori è del tutto sfuggito. I difensori delle magnifiche sorti e progressive dell'ideologia del neoliberismo dovrebbero cominciare a domandarsi quali "valori", quali ideali, quali speranza infine - in una visione di lunga gittata della propria vita- hanno e possono avere i coetanei degli assassini di Parigi e di Bruxelles? I sapienti della Mont Pelerin Society non hanno prodotto danni giganteschi solo sul terreno dell'economia e della società, ma anche, e profondissimi, su quello della vita interiore, della "ideologia".

Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2016 (m.p.r)

Rino Formica, non è uno storico girotondino. Né tantomeno un grillino. Viene dalla Prima Repubblica, in cui è stato ministro socialista nel Psi di Bettino Craxi. Scolpì finanche una frase che ci trasciniamo da decenni: «La politica è sangue e merda». Sin dall’inizio è stato tra i più acuti e autorevoli critici del renzismo. In una conversazione con il , bollò l’inciucio del Nazareno tra Berlusconi e Renzi come il «nuovo patto scellerato Bierre». Nel frattempo, l’ex Cavaliere si è sfilato, almeno ufficialmente, ma l’impianto è rimasto, con il Partito della nazione che include Alfano e Verdini. Quando Stampa e Repubblica hanno annunciato la fusione dei rispettivi gruppi editoriali (l’ex Fiat e De Benedetti), Formica ha parlato di «pensiero unico della nazione» in una lettera al Foglio, tra gli house organ del renzismo.
Lei ha scritto che Stampubblica incarna la linea di tutte le inconsolabili vedove della Repubblica dei partiti.
Il mio ragionamento è semplice. Questi di oggi all’opera sono i residui dei vecchi partiti, che coltivano però una contraddizione nostalgica.

Quale?
Nutrono il ricordo di quando il sistema aveva un suo equilibrio, secondo una logica di stabilità.
Poi che è successo?
Il sistema è crollato e loro non hanno saputo dare un ordine razionale nuovo.
Così nasce il pensiero unico del partito della nazione.
Meglio dire il pensiero unico del partito unico. È una svolta che contiene una novità, da guardare con attenzione perché riguarda le analogie con le esperienze autoritarie del Novecento.
Il secolo dei totalitarismi, da noi il fascismo.
Vede, nella Prima Repubblica i partiti rappresentavano la trama democratica del sistema statuale. Poi c’è stata una lunga trasformazione, con la tendenza dei partiti di massa a identificarsi nello Stato.
I partiti-Stato.
Oggi è l’opposto. C’è lo Stato che tende a farsi partito. Questa è la svolta. Ed era già accaduto con Mussolini. Da qui l’esigenza di controllare di riportare tutto all’unicità.
Di nuovo: partito unico, pensiero unico.
Lo Stato che si fa partito ha bisogno di questa fusione tra Stampa e Repubblica, favorita dai deficit di bilancio dell’informazione; ha bisogno di mettere Carrai ai Servizi segreti. Tutto è funzionale a questa idea. Se esistesse ancora l’Iri avremmo anche il controllo del potere economico, oggi privato e dissestato. Un nuovo autoritarismo. Io non sono un complottista, ma l’Italia è un terreno di sperimentazione per molti “maghi”che girano indisturbati per il mondo.
Un laboratorio avviato con Renzi, prima con il patto del Nazareno poi con Alfano e Verdini. L’impianto è identico. Da quando c’è lui è un crescendo perché Renzi è un senza dio. Il premier ha un profondo disprezzo per il suo partito, figuriamoci per gli altri. Da sindaco d’Italia sta trasformando l’istituzione nel nuovo Stato-partito.
Al punto da dire che sta con Alfano e Verdini perché il suo partito ha perso le elezioni nel 2013. Una frase sgrammaticata, da molti punti di vista. Guardi che i più preoccupati dovrebbero essere Alfano e Verdini.
Perché?
La frase di Renzi è chiara. Significa: «C’ho i servi che mi offre il mercato». Ho detto servi, non alleati. Questa è la condizione dei due.
Però insieme hanno cambiato la Costituzione.
Per Renzi non è una riforma, ma un gesto di forza da mettere sul tavolo. Non gliene fotte nulla di quello che contiene. Osservi la disinvoltura con cui il ministro Boschi si è dichiarata a favore della democrazia presidenziale, proprio mentre è in atto l’ultimo passaggio di una riforma basata comunque sul parlamentarismo. Per loro la Costituzione è solo carta straccia.
Lei voterà No al referendum d’autunno.
Voterò No, ma con motivazioni diverse da quanti lo faranno nel nome della Costituzione più bella del mondo. Io voterò No per dire Sì a un’assemblea costituente che riformi davvero la Carta, in linea con i mutamenti del nostro tempo.

«L’Europa dovrebbe decidere che cosa proporre ai musulmani, se ostilità etnica o collaborazione politica per costruire insieme un percorso di libertà. Tutto questo appare oggi toppo complicato, troppo impegnativo. Più facile gridare ‘siamo in guerra’ e incrociare le dita, sapendo bene che la prospettiva più ovvia è l’attesa della prossima strage».

Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2016 (m.p.r.)

«Siamo in guerra», come sosteneva ieri mattina Manuel Valls dando il primo colpo al tamtam delle dichiarazioni forti che rimbomberanno stamane nelle prime pagine? Le apparenze non smentiscono il primo ministro francese. Le scene stralunate dei massacri di Bruxelles ricordano troppo le città siriane bombardate. E i terroristi hanno confermato un’efficacia militare così devastante da sbriciolare un'illusione durata appena tre giorni: la cattura e il pentimento di Salah Abdeslam, ricercato per gli attentati di Parigi del novembre scorso, non ha impedito all’Isis di colpire l’Europa nel suo cuore politico, a due passi dai palazzi dell’Unione, insomma in uno dei luoghi più sorvegliati del continente.

Eppure mai come in questi momenti sarebbe necessario un linguaggio limpido: e quel «siamo in guerra» non gli appartiene. La formula piace molto, anche per la capacità di evocare l’attacco asimmetrico che ci muove un quasi-Stato, il Califfato, costringendo una capitale europea a tapparsi in casa. Ma è opaca, ambigua. Non è chiaro dove conduca. Essendo la guerra l’unica condizione nella quale una democrazia liberale può limitare lo stato di diritto, quel «siamo in guerra» potrebbe alludere alla necessità di leggi d’emergenza, la strada già imboccata dal governo francese. Ma è perlomeno dubbio che questa soluzione aiuti, anzi può risultare perfino controproducente se si traduce in condotte autoritarie della polizia.

Oppure «siamo in guerra» vuole incitarci ad attaccare l’Isis nei suoi territori, la Libia, il Siria. La soluzione militare. Che ha una sua legittimità (chi la nega vada a negoziare la mitica soluzione politica con il Califfo, e se riporta indietro la testa ci dica com’è andata). Ma al momento sconta la mancanza di una strategia, senza la quale andremmo diritti incontro ad una sconfitta. Quel che è peggio il «siamo in guerra» lascia nel vago chi sia esattamente il nemico. L’Isis, certo.

Però in Italia importanti giornali scrivono normalmente che non vi è reale differenza tra Isis e islam moderato, che insomma se gratti il musulmano, qualsiasi musulmano, trovi il terrorista. Altri media non arrivano a tanto ma sposano una tesi, il conflitto tra civiltà (chiodo fisso di Valls), che inevitabilmente oppone un ‘noi’ ad un ‘loro’ onnicomprensivo, trincea nella quale ogni islam risulta adiacente all’Isis. Altri ancora pretendono che ciascun islamico abiuri pubblicamente l’Isis, richiesta di per sé insultante. Il risultato di queste animosità variamente vestite è di rafforzare in alcuni musulmani la convinzione che l’Italia e l’Europa ‘cristiana’ non potranno mai essere la loro patria.

E qui siamo alla questione cruciale affiorata negli ultimi mesi: la neutralità di segmenti della popolazione musulmana in Europa. I jihadisti dell’Isis sono pochissimi, rispetto ai 17 milioni di musulmani che vivono dentro i confini dell’Unione europea. Ma hanno potuto nascondersi in quartieri a maggioranza araba di Bruxelles o di Parigi perché nessuno li ha denunciati. Renzi ieri ha chiamato questo atteggiamento ‘omertà’, altri potrebbero chiamarlo estraneità, e forse entrambe le definizioni sono pertinenti.

C’è una estraneità reattiva che potrebbe essere vinta e convinta con politiche inclusive; ma c’è anche un’omertà ideologica, prodotta dalla predicazione islamica che incita alla separatezza e ad evitare il contagio culturale con gli infedeli. Il paradosso è che i maggiori finanziatori e sponsor di questo islam omertoso e anti-occidentale sono Paesi che normalmente definiamo ‘filo-occidentali’, a cominciare dalle petro-monarchie del Golfo, nostri ottimi partner commerciali.

FOorse quel lessico è datato. Forse all’Europa sarebbe necessario un linguaggio più nitido, per riflettere su se stessa e sul rapporto irrisolto con le società musulmane. Il massacro di Bruxelles e l’affannoso ‘che fare?’ che trascina incitano ad andare in una direzione nuova. È evidente che l’Unione potrà venire a capo dell’Isis soltanto se comincerà a costruire una politica estera grossomodo comune, un passo necessario sia per unificare i servizi di intelligence sia per dotarsi di una strategia con cui affrontare il Califfato. Ma in questo caso l’Europa dovrebbe riuscire a pensare se stessa - identità e prospettive - e di conseguenza decidere che cosa proporre ai musulmani, se ostilità etnica o collaborazione politica per costruire insieme un percorso di libertà. Tutto questo appare oggi toppo complicato, troppo ambizioso, troppo impegnativo. Più facile gridare ‘siamo in guerra’ e incrociare le dita, sapendo bene che la prospettiva più ovvia è l’attesa della prossima strage.

L'ONU resta una istituzione molto più seria dell'Europa dei governi. Loro hanno compreso subito, come tutte le persone ragionevoli, che proseguire nella politica dei respingimenti, e per di più affidarla all'incredibile Erdogan era ed è una follia. E si comportano di conseguenza.

Il manifesto, 23 marzo 2016

L’accordo tra Unione europea e Turchia ha trasformato gli hotspot sulle isole greche in centri di detenzione per migranti, cosa che rende impossibile mantenere una presenza attiva al loro interno. Con queste motivazioni ieri l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ha annunciato la decisione di sospendere alcune delle attività svolte nelle strutture dove da domenica scorsa, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo con Ankara, vengono ammassati uomini, donne e bambini in arrivo dalla Turchia.

Ad annunciare la decisione, che suona come una sconfessione del patto voluto a tutti i costi da Bruxelles a spese di quanti fuggono dalla guerra e dai tagliagole di Daesh, è stata ieri da Ginevra la portavoce dell’organizzazione Melissa Fleming, spiegando che ormai i centri si sono trasformati in prigioni per i migranti. Non si tratta però di un abbandono. Le attività sospese riguardano il trasporto dei profughi da e per gli hotspot e, in alcuni casi, la distribuzione di coperte e vestiti, ma il personale Onu resterà per vigilare sul rispetto dei diritti dei rifugiati e per fornire loro informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo.

L’annuncio potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. Dopo l’Unhcr, anche Save the Children, organizzazione che si occupa della tutela dei minori, ha infatti reso noto di voler riconsiderare il lavoro svolto negli hotspot mentre già lunedì l’Ofra, l’ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi, unico organismo autorizzato a riconoscere per la Francia lo status di rifugiato, aveva fatto sapere che non parteciperà all’applicazione dell’accordo siglato con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan.
Salutato come un successo meno di una settimana fa, il patto con Ankara rischia adesso di trasformarsi nell’ennesima dimostrazione dell’incapacità dell’Europa e dei suoi leader. Anche se è presto per tracciare dei bilanci, gli sbarchi di profughi sulle isole greche non sono diminuiti: 1.662 da domenica, 934 dei quali a Lesbo (242 ieri) e 830 a Chio. Tutte persone di fronte alle quali i funzionari greci, che stando a quanto stabilito dall’accordo dovrebbero esaminare in pochi giorni le richiesto di asilo, non sanno come comportarsi rallentando così le procedure. Per sbloccare la situazione Frontex ha chiesto agli stati europei di inviare personale in aiuto a quello greco. Almeno 1.500 poliziotti e 50 esperti in riammissioni e rimpatri, ma si tratta di numeri del tutto insufficienti.

A pagare le conseguenze di questa situazione sono ovviamente i migranti. Se gli sbarchi continueranno con il ritmo di questi giorni si rischia il sovraffollamento degli hotspot con conseguenze facilmente immaginabili. E non bisognerà neanche aspettare tanto. Nell’hotspot di Chios, ad esempio, che ha una capacità d 1.100 posti, ci sono già 1.050 persone. E la stessa cosa potrebbe accadere presto anche a Lesbo, Samos e Leros, le tre isole dove si trovano gli altri hotspot greci (il quinto, a Kos, ancora non è stato aperto). E’ chiaro che in queste condizioni garantire ai migranti non solo il rispetto dei loro diritti, ma almeno un trattamento decente diventa un’impresa.

Ma non è tutto. Lo stesso scopo per cui Bruxelles è scesa a patti con Ankara, cioè mettere fine agli arrivi in Europa, potrebbe non essere raggiunto. Ad affermarlo è un’analisi condotta dall’European policy center, tra i principali think tank di Bruxelles, secondo la quale bloccare la via dell’Egeo non farà altro che spingere i migranti nelle mani dei trafficanti. L’Epc punta il dito soprattutto contro il principio cosiddetto dell’«uno a uno», secondo il quale per ogni siriano rimandato in Turchia perché entrato in Europa in maniera irregolare, un altro siriano viene mandato dalla Turchia in Europa. «C’è una forte probabilità – scrive infatti l’Epc – che il ritorno dei migranti irregolari verso la Turchia e l’attuazione dello schema uno a uno motiverà migranti e trafficanti a utilizzare altre vie possibili». Quattro le nuove rotte possibili: dalla Turchia verso la Bulgaria, dalla Libia all’Italia, dall’Albania all’Italia e, infine, dal Marocco fino in Spagna. Rotte ancora più pericolose della traversata del mar Egeo, dove solo quest’anno hanno perso la vita 488 migranti. E gestite dalle organizzazioni criminali, a ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia di Bruxelles quando afferma di voler togliere i profughi dalle mani dei trafficanti di uomini.

Il rischio è che alla paura che annebbia la ragione si continui a rispondere con atti e politiche che accrescano il gigantesco giacimento di rabbia da cui nasce il terrorismo. È necessario invertire la rotta nei rapporti tra l'Europa e il resto del mondo. Il manifesto, 23 marzo 2016

Il cordoglio e la pietà per le vittime degli attentati di Bruxelles dovrebbero renderci più umani e non più feroci nell’affrontare il vero conflitto con cui dobbiamo misurarci se vogliamo prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista: quel conflitto verso i profughi che rende l’Europa così fragile e debole. L’urgenza di difenderci non deve farci dimenticare che il terrorismo non si combatte con la guerra, che é ciò che lo ha prima covato e poi nutrito nel corso degli ultimi anni.

Né con lo Stato di polizia, che non fa che promuoverlo, e meno che mai con la “caccia allo straniero”; bensì combattendo le discriminazioni e il disprezzo di cui si alimenta il rancore che di cui si alimenta il terrorismo. Per questo non c’è niente che metta in forse la convivenza in Europa quanto il cinismo e la ferocia con cui i suoi governi trattano i profughi che si presentano alle sue porte per sottrarsi al terrore che rende impraticabili tutti quei paesi – e non solo la Siria – da cui cercano di fuggire.

Quello che si è aperto, soprattutto nell’area che abbraccia Europa, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, è uno scontro intorno al riconoscimento di un diritto ovvio, perché “naturale” nel senso più banale del termine, ma ostico e difficile da accettare.

L’asilo, la protezione internazionale accordata ai profughi e normata dalla convenzione di Ginevra, era stato concepito finora, più che come un diritto, come una concessione delle democrazie liberali a chi fuggiva per sottrarsi a una dittatura e poi, per estensione, a una guerra civile. Ma oggi quelli con cui l’Europa e gli Stati che per ragioni geografiche o storiche gravitano intorno al Mediterraneo si confrontano sono esodi di massa in cui i fattori guerra e dittatura si mescolano inestricabilmente con quelli ambientali e climatici. Tanto che all’origine di molti dei conflitti armati in corso – compreso quello in Siria – non è difficile riconoscere un deterioramento ambientale provocato dallo sfruttamento incontrollato di risorse locali, ma, sempre più spesso, dai cambiamenti climatici in atto. Questo rende priva di fondamento la distinzione tra profughi di guerra, da accogliere, e migranti economici, da rimpatriare.

In un modo o nell’altro, sono ormai tutti profughi ambientali – una figura non contemplata dalle convenzioni sulla protezione internazionale – ma la cui presenza sarà centrale nel contesto sociale e politico dei decenni a venire.

Quello scontro tra chi rivendica un diritto “naturale” alla vita e chi glielo vuole negare si ripercuote, all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in un conflitto sempre più acceso e centrale – tanto da far passare in second’ordine tutti gli altri, o da subordinarne ad esso le manifestazioni – tra chi si schiera a favore dell’accoglienza e chi si mobilita per sostenere i respingimenti. Ai due poli di questi schieramenti, che stanno facendo piazza pulita della configurazione tradizionale dei partiti e delle forze politiche, troviamo da un lato una folta schiera di volontari, delle più varie estrazioni sociali e anche politiche o religiose, che si adoperano in mille modi per assistere e accogliere i profughi. Dall’altro degli squadristi impegnati in assalti ai siti dove i rifugiati vengono spesso solo “immagazzinati”.

Ma intorno a questi squadristi si sta creando un cordone di condivisione e di aggregazioni politiche di stampo nazionalista (o “sovranista”) e, in buona misura, razzista, in netta avanzata ovunque. Mentre la simpatia che suscita l’azione dei volontari stenta – per usare un eufemismo – a farsi strada sia in termini di appoggio politico che come “comune sentire”. Anche perché le soluzioni prospettate dalla destra sono semplici, spicce e non affrontano le loro inevitabili conseguenze: una stretta, non solo politica, ma anche economica e sociale, sui diritti di tutti, una guerra che trasforma in nemici tutti coloro che oggi cercano e non trovano salvezza in Europa, una serie infinita di stragi in terra e in mare che finirà per configurarsi come un vero sterminio; mentre la scelta di accogliere, al di là delle emozioni immediate che suscita la vista di tanta miseria, è complicata, richiede programmi, ragionamenti, svolte e impegni radicali.

Da tempo i governi europei si sono in gran parte lanciati all’inseguimento delle forze di destra. Una rincorsa vana, perché quegli argomenti li sanno usare meglio le forze apertamente razziste. Ma soprattutto perché sono incapaci di fare i conti con la dimensione effettiva del problema e delle misure necessarie per farvi fronte: rinuncia all’austerity, alla contrazione di spesa pubblica e welfare, a quella precarizzazione del lavoro che ha creato milioni di disoccupati, e un impegno effettivo nella conversione ecologica, unico modo, peraltro, per creare milioni di nuovi posti di lavoro utili a tutti. Quella incapacità li sospinge così verso politiche sempre più feroci e antipopolari, come gli hot spot, il filo spinato, la guerra in Libia o l’indecente accordo con la Turchia, insensato e suicida quanto cinico e spietato. Che però ha fatto contenti tutti i governanti, che possono così aspettare qualche mese, fino a una nuova resa dei conti, per ammettere che non sanno che cosa fare; compreso Renzi, che si è improvvisamente fatto paladino di un’Europa più “umana”, ma che ha chiesto subito l’estensione di quell’accordo alle altre situazioni su cui verranno deviate le prossime ondate di profughi.

Sostenitori e nemici dell’accoglienza, si ritrovano, tanto tra le forze di sinistra e di centro quanto nel mondo cristiano e soprattutto in quello cattolico, che si questo tema rischia una frattura storica e persino tra molte persone di destra (tra cui c’è ancora qualche emulo di Perlasca). È una contrapposizione che lavora alla dissoluzione degli schieramenti e dei rituali politici tradizionali, ma anche a un riposizionamento di classi e forze sociali, verso le quali c’è bisogno di un approccio politico nuovo, prammatico, non rituale né “ideologico” senza il quale la vittoria delle destre e del razzismo è scontata.

Oggi non è più possibile “fare politica”, lavorare alla ricostituzione di un fronte sociale che faccia valere gli interessi delle classi e dei cittadini sfruttati e oppressi, senza individuare nelle varie forme di volontariato, nelle loro pratiche, nelle loro necessità, nelle loro iniziative e, soprattutto, nei legami che riescono a creare con la nazione dei profughi un riferimento irrinunciabile per ogni possibile ricomposizione delle forze che vogliono un’altra Europa perché vogliono un’altra società.

«». Il manifesto
È quasi impossibile dar conto di un convegno durato tre giorni (sei sessioni, due eventi pubblici, decine di relatori). Un centinaio di partecipanti, un terzo stranieri, promosso da Syriza, dal Partito della sinistra europea, da Transform e dalla «Fondazione Pulanzas»: «Alleanza contro l’austerità e per la democrazia in Europa». Non i soliti esperti delle oscure cose europee, o, almeno, non solo, anche non pochi accademici e però poco accademici.

Uno soprattutto, fantastico, dell’orribile Ungheria, che ha detto fra l’altro: «non serve un piano per i profughi, serve un piano per la pace e dubito che la Turchia stia lavorando per questo». C’erano – dicevo – politici di primo piano : da Alexis Tsipras al suo vice primo ministro Dragasakis e parecchi altri sottosegretari per parte greca; Marisa Matias, che era stata la candidata alla presidenza della Repubblica per il Bloque de Isquerda, ora alle prese con la inedita esperienza di essere nella maggioranza governativa del Portogallo; Tania Gonzalez Penas, la più votata di Podemos alle ultime elezioni di Spagna dove, invece, un governo non si riesce a fare (e per questo Iglesias non è potuto venire di persona e ha mandato un lungo e caloroso saluto) ; Gregor Gisy, spiritoso come sempre, e Gaby Zimmer, presidente del Gue al Parlamento Europeo, per la Linke; Declan Kearney, l’assai euforico presidente del Sin Fein, oggi un ragguardevole partito parlamentare, e io faccio tutt’ora fatica a stabilire un legame, pur strettissimo, fra il partito di oggi, e gli armatissimi militanti dell’Ira che nei primissimi mesi di vita del intervistai in una rocambolesca gita attraverso l’Irlanda, paese raggiunto grazie al fatto che, avendo vinto un biglietto d’aereo a una gara di sci, il giornale aveva potuto permettersi il viaggio; infine la tradizione, Pierre Laurent, segretario del Pcf, e una novità, il messaggio di Geremy Corbin, inatteso sorprendente leader del Partito Laburista.

Ad alto livello – e anche questa è una novità – parecchi esponenti dei partiti Verdi tedesco, austriaco, danese, e un paio di rappresentanti della sinistra del Psf, che, sebbene si noti poco di questi tempi nella Francia di Hollande, all’ultimo congresso di quel partito aveva preso ben il 40% e insiste per un fronte comune con le forze raccolte nel Gue. Insomma: la nostra sinistra si rinnova, e si allarga. Ancora poco all’est, che pure era questa volta finalmente presente, almeno con qualche associazione o intellettuale.

Con commozione ho riabbracciato Jan Kavan, ben conosciuto da tutti i pacifisti degli anni ’80, perché era il nostro riferimento in Cecoslovacchia, uno dei pochi che pur essendo dissidente non invocava l’intervento della Nato, ma si batteva come noi per un’Europa fuori dai blocchi e perciò venivamo indicati dalla Cia come agenti del Kgb e dal Kgb come agenti della Cia. Caduto il Muro, Jan divenne persino ministro, ma per poco: dissentiva anche dal nuovo regime anticomunista. Con qualche ragione.

E poi c’erano i sindacati: folta e autorevole la partecipazione italiana, della Fiom e della Cgil, le Commissioni Obreras, la Cgt francese e la Confederazione belga. Anche su questo tema, una discussione concreta, per affrontare l’offensiva in atto ovunque contro il sindacato (e dunque per smantellare un caposaldo del modello europeo) impegnandosi non solo a difendersi ma a conquistare diritti che nell’Unione europea non sono mai stati riconosciuti, né ci si è mai veramente battuti per avere: per cominciare il diritto a convocare scioperi transfrontalieri da parte delle Confederazioni europee relegate al ruolo di uffici studi più che a quello di strumenti di lotta.

Il tema sindacato in Grecia è un dente che duole: la Gsee, dei lavoratori del settore privato, è egemonizzato dal Pasok e dal Kke (il partito comunista ) è in queste stesse ore, riunito a Congresso a Rodi, è in subbuglio perché questi due partiti si sono alleati per escludere i rappresentanti di Siryza e della destra dagli organismi dirigenti, provocando contestazioni e anche ricorsi. Anche la Adedy, il sindacato del settore pubblico, è controllato dalla vecchia burocrazia del Pasok. Difficile superare questa debolezza storica in una situazione in cui il governo Tsipras è costretto dal Memorandum a tagliare il welfare, sebbene con più equità possibile. I rappresentanti del sindacato dei lavoratori del porto del Pireo sono presenti: in grande sofferenza per via delle conseguenze indotte dalla “imposta” privatizzazione in corso.

Il clima sociale è teso in Grecia e sarebbe ingenuo aspettarsi che così non fosse. Ne abbiamo avuto la prova anche al convegno dove ha fatto irruzione un drappello di ragazzi con uno striscione polemico. Parlano arrabbiati, non avranno la pensione, nessuna prospettiva di vita. Anche il tema immigrazione è causa di turbamento: il governo ha firmato l’orribile accordo europeo e lo stesso Tsipras ci spiega che, altrimenti, gli avrebbero scaricato migliaia e migliaia di rifugiati in Grecia, dove è facilissimo approdare, e dove però non c’è, nelle condizioni attuali, la possibilità di poterli integrare.

Ho sottolineato il livello e la pluralità della partecipazione perché è l’indice di due cose importanti: finalmente c’è davvero interesse per le cose europee, fino ad oggi normalmente oggetto di incontri distratti, come del resto tutti quelli promossi dai fantomatici partiti europei di ogni colore, quelli di cui a suo tempo Willy Brandt diceva che erano il luogo migliore per andar a leggere i propri giornali. Il livello del dibattito non formale – sugli immigrati, sulla svolta ecologica, sull’economia – ha dimostrato che finalmente la sinistra ha cominciato a occuparsi d’Europa sul serio. Merito della crisi, certamente, che ha imposto il tema; ma anche di Syriza, che in questo ultimo anno ha reso l’Unione Europea un campo di battaglia e non più il titolo di qualche seminario.

In secondo luogo emerge anche che “qualcosa a sinistra si muove”: con tutti i limiti che restano oggi un soggetto di sinistra a livello europeo comincia a vedersi. Anche la sinistra italiana era ben rappresentata: oltre all’Arci, Sisel, i comitati Tsipras, Rifondazione Comunista. Potremmo dire: troppi. E infatti, come in ogni occasione, gli italiani sono sempre tanti, ma non hanno diritto di figurare al tavolo maggiore, cui hanno accesso solo i paesi dove a sinistra c’è un solo, indiscusso partito di sinistra. Che da noi ancora non c’è (per questo è così importante il processo costituente avviato con Cosmopolitica).

Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza” l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza»La Repubblica, 22 marzo 2016

La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.

Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.

Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?

È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).

Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».

Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.

Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.

Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.

La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni.

Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».

IL LIBRO

Il costituzionalista riluttante ( Einaudi, a cura Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, pagg. 489, euro 35) è una raccolta di saggi dedicata alla riflessione intellettuale di Gustavo Zagrebelsky, in tutte le sue articolazioni: dalla democrazia alla giustizia. Tra i numerosi contributi ci sono quelli di Ezio Mauro, Enzo Bianchi, Luciano Canfora, Carlo Petrini, Nadia Urbinati. Questo è un estratto del saggio di Vito Mancuso

Silvia Truzzi intervista Luciana Castellina: «Dagli attacchi alla Meloni e alla sua gravidanza,a quelli della Bedori. Eppure siamo alsettantesimo dal suffragio universale. Oggi il problema è un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa». Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2016

Abbiamo rincorso Luciana Castellina per gli aeroporti di Roma, Atene e Parigi. Alla fine l’abbiamo trovata Oltralpe, a casa di Ginevra Bompiani, scrittrice ed editrice di Nottetempo. Parliamo di donne e politica nella settimana della polemica su Giorgia Meloni, candidata sindaco in dolce attesa.
Cosa pensa della decisione di candidarsi nonostante la gravidanza? E delle reazioni maschili?
Non mi è piaciuto affatto che a criticare la Meloni per la sua scelta sono stati solo gli uomini: che stiano zitti. Sa perché le donne non si sono azzardate a dire nulla? Perché sanno che è una decisione personalissima. Sono tante le donne che fanno figli e continuano a lavorare. Abbiamo ministri, in tutti i Paesi, che hanno avuto bimbi durante il loro mandato. Fare il sindaco è un lavoro impegnativo ma non credo non si possa avere il tempo di allattare! Io con la Meloni ce l’ho per ragioni molto più serie, perché è una fascista, è sguaiata e ha posizioni politiche per me inaccettabili
Interviene Ginevra Bompiani: “È una furbetta la Meloni, altroché. A me non piace affatto. Sta usando strumentalmente la gravidanza per avere consenso. Basta vedere co-me e dove l’ha annunciata: dal palco del Family day”.

In tanti han
no criticato
l’annuncio
 fatto in quel
 contesto: non
 si può dire “proteggiamo i bambini” e poi utilizzarli o dare l’impressione di farlo. La stessa Meloni all’inizio aveva indicato nella gravidanza un ostacolo alla candidatura.
Sull’annuncio al Family day ono perfettamente d’accordo con Ginevra: mi ha dato molto fastidio. Ma la scelta di candidarsi resta sua. Io ho lavorato fino al momento del parto e non avrei accettato da nessuno imposizioni in questo senso.

Patrizia Bedori, rinunciando a correre per Palazzo Marino a Milano, ha detto di essere stata insultata perché non avvenente. Stessa cosa pare essere capitata alla segretaria di un circolo Pd di Bologna. Per anni si è detto che Berlusconi candidava solo belle ragazze, ma qui parliamo di mondi che dovrebbero avere tutt’altra cultura. Questo modo di guardare le donne ha contagiato un po’ tutti?
Ma certo che il contagio c’è stato: una bella ragazza ha più chance perché non importa quello che pensa o quello che sa, importa che sia carina. La Bedori ha ragione da vendere. È un insulto a tutte le donne. A nessuno viene mai in mente di dire che questo o quel politico è brutto: e dire che di Adoni ce ne sono pochi, sono quasi tutti bruttissimi.

L’obiezione che potrebbero fare a lei è: “Facile dirlo da parte di una donna straordinariamente bella”.
Mi offenderebbe terribilmente se qualcuno mi dicese che ho fatto o scritto delle buone cose perché avevo le gambe dritte. E ribadisco: mai che si pensi a queste sciocchezze per i maschi.

Quest’anno ricorrono i settant’anni del suffragio universale. Lei non ha votato al Referendum del ‘46, ma si ricorderà certamente il clima di quel momento storico. Il bilancio che ne fa dopo tanti decenni?
Mi ricordo l’emozione di mia nonna. Per lei era un fatto rivoluzionario, sconvolgente. Per mia madre già meno: faceva coincidere questa cosa con la caduta del Fascismo. Allora ci fu un acceso dibattito all’interno del Pci. Tanti dicevano “per carità, le donne vanno in chiesa a confessarsi e i preti le faranno votare per la Dc. Perderemmo un sacco di voti”. Poi arrivò Togliatti che disse: “Ma che siete matti? È molto più importante che le donne possano votare, che diventino soggetti consapevoli della vita sociale”. Fu una vera battaglia. Questo per dire che nel ’46 perfino nel Partito comunista il suffragio universale era in discussione. La battaglia delle donne è una delle poche che abbiamo vinto: oggi non potremmo mai dire a una ragazza che ha meno diritti di un ragazzo.

Sulle quote rosa le posizioni sono molto diverse anche tra le stesse donne. C’è chi dice: è un modo per ghettizzarci e “Non mi sento rappresentata da una donna solo perché è donna”. Ma l’obiezione è ragionevole: se non colmiamo questo divario “ex legge” le cose resteranno così per sempre. Lei, che è stata parlamentare sia a Roma che a Strasburgo, quale posizione sposa?
L’idea stessa che sia una quota minoritaria e non al 50 per cento è un modo per rendere legale l’inferiorità delle donne: lo trovo molto umiliante. Ciò detto, ci sono momenti in cui si fanno anche battaglie tattiche. E siccome i simboli contano molto, vedere un po’ di donne nei cda di importanti società aiuta l’immaginario. E di questo c’è bisogno. Dunque vanno bene le quota rosa, provvisoriamente, ma sempre continuando a dire che la quota resta minoritaria.

Il governo Renzi è stato inaugurato all’insegna della parità: otto ministri, otto ministre. Basta?
Il punto che interessa le donne è che i governi facciano scelte che tengano conto delle caratteristiche e delle necessita delle donne nell’organizzazione sociale, soprattutto nel mondo del lavoro. Una donna che entra in un’organizzazione completamente basata sulla cultura maschile non serve a nulla. Però resta l’importanza del simbolo.

La presidente della Camera insiste molto sulla questione linguistica. L’anno scorso, in occasione dell’otto marzo, Laura Boldrini scrisse una lettera ai parlamentari chiedendo che negli interventi in aula le cariche e i ruoli istituzionali venissero richiamati nelle forme corrette, secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono. Lei cosa ne pensa?
Io faccio parte di una generazione per cui non è naturale declinare le parole al femminile. Ma è colpa mia. Torniamo al valore simbolico delle cose: pensi a quanto è stato importante negli Stati Uniti che si cominciassero a vedere facce nere in posti di potere e nelle istituzioni. La stessa cosa vale per gli interventi della Boldrini sull’immagine della donna nelle pubblicità: fateci vedere qualche maschio che fa il bucato, lava i piatti e serve a tavola.

Qual è stata la battaglia più importante vinta dalle donne in questi settant’anni?
Capire che il nostro scopo non doveva essere diventare come gli uomini. Sembra una banalità, ma per arrivarci io ci ho messo un sacco di tempo. Ho vissuto a lungo come una frustrazione il fatto di essere donna. Come una specie di handicap. C’era, da parte degli uomini, una diffidenza preconcetta che oggi in larga parte non c’è più. Era il riflesso del nostro sentirci inferiori. Ora il problema non è più questo. Ma un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa. Mi colpisce sempre la percentuale delle donne manager: quelle che hanno figli sono il 35% contro il 95% dei loro colleghi maschi. Come dire: si può accedere a posizioni importanti, ma rinunciando a qualcosa d’importantissimo.

«La politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

«In un mondo ideale, un partito che invita gli elettori ad astenersi dal votare al referendum sulle trivelle sarebbe una vergogna. Ma visto il degrado politico e morale del Pd, nemico dei beni comuni, la cosa non mi sorprende». Ugo Mattei, docente di diritto internazionale comparato all’Hastings College of the Law dell’Università della California, è stato sei anni fa tra i promotori delle consultazioni popolari in favore dell’a cqua pubblica. «Il 17 aprile - spiega - dobbiamo votare perché la politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta».

Dal Pd “inutile” il referendum...
Allora tanto per cominciare potevano accorparlo alle amministrative, così avremmo risparmiato 400 milioni di euro. Più che inutile, lo definirei dannoso per i poteri forti, ossia le compagnie che hanno le concessioni. Dato che ora la legge non permette più nuovi permessi entro le 12 miglia marine, è stato fatto loro un regalino, estendendo la durata di quelli già in essere anche dopo la scadenza, fino a quando è conveniente.
Quindi qual è il rischio in caso non si raggiungesse il quorum o vincesse il No?
Le compagnie potranno tenere i siti inoperativi fino a quando il prezzo del petrolio tornerà a salire: in quel momento riprenderanno le estrazioni e ci guadagneranno un bel po’. Votando Sì, abbiamo l’opportunità di stabilire che dopo la scadenza dei permessi, le estrazioni devono bloccarsi. Le sembra inutile togliere questo regalino?
Come farlo capire ai cittadini, con tutta questa propaganda per l’astensione?
Una battaglia disperata. Questo referendum non è stato chiesto con la raccolta firme, che avrebbe creato interesse al tema tra la società civile. Gli argomenti per il Sì sono forti, il governo lo sa e per questo ci ha lasciato poco tempo per la campagna di informazione.
Qualcuno potrebbe farsi scoraggiare dal fatto che poi la politica potrebbe comunque disattendere l’esito referendario?
Questo è il punto più importante di tutti. Il referendum sull’acqua pubblica ha avuto un risultato straordinario. Se avessimo perso quella battaglia, avremmo assistito a una privatizzazione del valore di 200 miliardi di euro, più grande di quella fatta negli anni Novanta. Non mi pare che si sia ottenuto poco.
In questi giorni, però, è in atto un tentativo di tradire quel risultato.
La proposta di legge di cui parliamo è di iniziativa parlamentare, non passerà mai, sono pronto a scommetterci. E il fatto che sia venuto fuori quel tentativo è positivo: ha dato lo spunto per tornare a parlare di beni comuni e quindi di referendum, aiutando i movimenti per il Sì per l’appuntamento del 17 aprile.
Tuttavia, stanno tornando i sostenitori della privatizzazione, con il solito argomento secondo il quale il pubblico non ha le risorse per gli investimenti...
Quello che è mancato dopo le consultazioni del 2011 è stata la piena ripubblicizzazione del servizio idrico. Noi per “pubblico” non intendiamo il vecchio metodo burocratico, corrotto e in mano alla politica. Intendiamo la nascita di istituzioni trasparenti, partecipate e con progetti di lungo periodo. Gli investimenti potrebbero anche avere una quota privata, ma di certo devono essere slegati dalla logica del profitto.
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