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Medici senza frontiere denuncia le vergognose azioni compiute dalla polizia di frontiera macedone.

Il manifesto, 13 aprile 2016 (p.d.)

Bossoli di candelotti lacrimogeni sono stati trovati nell'erba davanti alla frontiera di Idomeni tra Grecia e Macedoni: sono le prove che la polizia di frontiera macedone, contrariamente a quanto continua a dire il governo di Skopje, domenica ha sparato contro un gruppo di migranti e richiedenti asilo che cercava di forzare il blocco in vigore da febbraio scorso. «Hanno sparato ad altezza bambino», ha confermato ieri da Roma anche il presidente di Medici senza Frontiere Loris De Filippi.

Il coordinatore greco di Msf Achilleas Tzemos ha denunciato già lunedì mattina l’uso di lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la piccola folla di migranti che tentava di superare la frontiera chiusa unilateralmente dalle autorità macedoni. Tre persone, ha detto Tzemos, hanno avuto bisogno di essere ospedalizzate ma le ong – Msf e anche Save the Children – hanno soccorso 200 persone intossicate e curato una trentina di feriti – 37 secondo il conto finale fatto ieri da De Filippi – tra i quali tre bambini sotto i dieci anni.

Il premier greco Alexis Tsipras ha accusato le autorità della ex repubblica macedone di aver deciso un’azione di forza «vergognosa» con gas e proiettili di gomma contro donne, bambini e comunque persone «che non rappresentavano alcuna minaccia all’ordine pubblico». E di "vergogna per la cultura europea", ha parlato l’Alto commissariato Onu per i rifugiati Unhcr.

I migranti accampati alla frontiera di Idomeni sono ormai oltre 12 mila. Da mesi vivono nelle tende piantate sui binari ferroviari o nei vagoni arrugginiti dei treni merci in attesa di un lasciapassare verso il nord-Europa che sembra disposto ad accoglierli. Ieri però, dopo i violenti scontri di domenica, circa 700 di loro hanno accettato di trasferirsi nei centri d’accoglienza greci del Pireo e di Skaramagas, riempiendo sette autobus messi a loro disposizione dal governo di Atene, anche se per loro è un po’ come aver estratto la carta del Gioco dell’Oca “torna indietro un giro”. Sono le regole del protocollo europeo Dublino III ha condannare i richiedenti asilo a questo percorso ad ostacoli per evitare di rimanere intrappolati nel primo paese europeo dove vengono registrati, in questo caso la Grecia, quando solo grazie alla registrazione possono accedere a un minimo di servizi di accoglienza.

A Idomeni invece non hanno né acqua, né luce e soltanto le ong come Msf e Save the Children cercano di fornire qualche aiuto medico e umanitario. Ci si nutre di speranza, a Idomeni, ma sta finendo anche quella. Domenica circa 3mila persone si sono messe in marcia verso i fili spinati e circa 250 hanno tentato di oltrepassarla.

Skopje si è lamentata che la polizia greca non ha mosso un dito quando è iniziata una sassaiola contro le guardie di frontiera macedoni ed è stato trascinato un vagone ferroviario verso la barriera. In realtà dopo che la portavoce del governo greco Olga Gerovasili lunedì ha parlato di "stranieri irresponsabili" che fomentavano incidenti dando volantini, sono stati fermati e identificati 17 tra volontari e manifestanti (tedeschi, austriaci, svedesi e portoghesi, due greci, un palestinese residente in Grecia e un siriano), tutti rilasciati ieri tranne un tedesco trovato in possesso di un coltello. Il governo di Atene comunque intende sgombrare almeno parte della tendopoli di Idomeni nelle prossime settimane.

«Il manifesto, 13 aprile 2016

«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma arbitrio del più forte).

Oggi un Governo non legittimato da un voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47 articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il Presidente del Consiglio).

Vorrei mostrare perché questo enorme furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura da anni.

«Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio 2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).

Questo cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto delle nostre vite. Un mercato a cui non c’è alternativa: There Is No Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.

La genesi ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi “padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta (e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale) sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte prima della Carta costituzionale».

È un testo cruciale per comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art. 9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale».

Questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali. In quegli stessi giorni del giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano l’eco di un importante documento della grande banca d’affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche»….

È impressionante notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace».

Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».

E la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo, correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce, poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi deboli» rispetto ai Parlamenti. E, d’altra parte, la verticalizzazione autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager…

È questo il paradossale cuore del progetto: costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014). È questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra».

« La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti». Ecco le quattro spine mortali del fiore avvelenato che Renzi (e chi gli sta dietro) vuole imporre alla nostra Repubblica.

Corriere della sera,

Chi l’avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum ) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle) armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova.

Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito.Al referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi . La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l’angolo non c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle.

Sarebbe stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine. Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo «nel dettaglio», come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su Federalismi.it .

Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più. Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente.

Ma intanto ecco l’elenco degli esami. Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state?

Secondo: l’efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L’ iter legis , per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?

Terzo: le garanzie. Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca spiega le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato. Ma sta di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient . Con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum ), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi. In compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali. Ma il compenso compensa lo scompenso?
Quarto: la partecipazione. Quali strumenti di decisione e di controllo restano in tasca ai cittadini? E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca? Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum. Però i regolamenti parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari, però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e d’indirizzo). Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22 anni (la legge sui referendum è del 1970). Dunque è questione d’ottimismo, di fiducia. E voi, siete ottimisti o pessimisti?

Come un sasso o come un fiore. Storie di rifugiati e progetti di vita", a cura di Bee, Bortolazzi, Carlot, Pizzo, Terreri, Sinopia Libri (Venezia 2016)

Sette storie di viaggio, di dolore e di speranza. Sette vite che non si arrendono, che mettono in gioco saperi, impegno e futuro, contro le paure e le ostilità di un mondo difficile. Questo libro nasce dall’incontro - pressocché quotidiano - tra un gruppo di rifugiati titolari di protezione internazionale e operatori ed esperti dell’Associazione Microfinanza e Sviluppo; un lavoro durato due anni, con l’obiettivo in buona parte riuscito di rendere quelle persone economicamente autonome. Un lavoro duro, considerato a tratti impossibile perché costellato di resistenze che, alla prova dei fatti, si sono dimostrate piú culturali che fisiche, piú istituzionali che economiche. Accanto all’azione “concreta” di educazione finanziaria e di accompagnamento all’avvio d’impresa, è nato un spazio di ascolto delle biografie delle persone rifugiate con cui l’Associazione lavorava.

Questo libro non ha la presunzione di proporsi come un capitolo aggiuntivo alla ricca e feconda tradizione di studi accademici e specialistici sull'argomento. Se il suo nucleo è costituito dalle storie che esso raccoglie, prive di altro filtro che non sia la precauzione dell’anonimato a protezione della vita presente dei narratori, il suo proposito si lascia osservare in virtú dell’urgenza di alcune domande che le storie stesse sollecitano.

Come rovesciare il problema chiuso, dominato dai poli del “loro” sradicamento e della “nostra” ostilità - e dello scontro sul modello culturale che esso comporta - nel tema aperto delle prospettive di scambio, di mescidazione e d’impresa nei comuni territori di vita e di lavoro? Come rendere evidente e operativo il fatto che vi è un valore in sé nelle esperienze che ci vengono raccontate, che questo valore umano è intrinsecamente ricco sul piano sociale ed economico, e che il viaggio “da un mondo all’altro” porta con sé saperi, relazioni, idee preziose per il nostro comune domani? Come apprendere, insieme, a trasformare la potenza dell’“aperto” che le instabilità globali impongono, in un orizzonte di pace, di benessere e di autentica sicurezza? Come ascoltare, capire, progettare le dinamiche di connessione e innovazione nascoste nei giacimenti imprenditivi che migranti e rifugiati portano con sé e tra noi?

Se a tali domande, le storie racchiuse in questo libro e i lavori di analisi che le accompagnano avranno saputo dare rilievo, il proposito dei loro estensori potrà dirsi parzialmente realizzato. Poiché esse non sono rivolte a un’indistinta platea ma ci interrogano tutti, uno per uno, e interrogano con particolare urgenza quei soggetti - il mondo delle istituzioni, della politica e dell'impresa - che possiedono i mezzi per tradurle in risposte efficaci.

La corruzione non è un dato esclusivo dell'Italia, ma «l’etica pubblica ha conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale.

Il manifesto, 12 aprile 2016

Ho letto le osservazioni critiche di Alfio Mastropaolo riguardanti un mio articolo sulla corruzione e su esse, per motivi di chiarezza, vorrei rapidamente tornare.

Non ho sostenuto che l’Italia sia un caso «unico», quasi che altrove la corruzione fosse sconosciuta. Ho cercato di segnalare, anche con qualche rinvio a fatti accaduti in paesi a noi comparabili, come l’etica pubblica abbia conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale.

Oltre a molti libri «di battaglia», esiste da tempo una buona letteratura che, sia pure con accenti diversi, dà solide basi a questa constatazione, fornendo elementi precisi per spiegare una persistenza e una continuità nel tempo, incarnate talora addirittura dalle medesime persone, che hanno prodotto una proterva «controetica», esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari (con quelle che sono state chiamate assoluzioni «sociologiche» dei corrotti).

Sono stati così generati non solo comportamenti amministrativi sempre più diffusi e addirittura interventi legislativi, ma un vero e proprio «indirizzo politico», che viene rivelato dalla continua cascata di documenti ufficiali che quantificano non solo singoli casi di corruzione, ma la corruzione strutturale di interi «comparti», dagli appalti pubblici alla sanità.

Tutto questo non ha corrispondenza in Francia, Germania, Regno Unito e in altri paesi che ci precedono nella graduatoria di Transparency International, che non sopravvaluto (non l’ho citata), ma che ha sicuramente qualche significato informativo.

Certo, tutto questo rimanda alle ragioni sociali del fenomeno, ha uno sfondo e un denominatore comuni da ritrovare nella esasperazione della logica del profitto e di una finanziarizzazione che davvero ha fatto del denaro la misura di tutte le cose. Ma, come si diceva un tempo, fatta questa constatazione occorre una «analisi differenziata». E questa ci farebbe scoprire, senza troppa fatica, che proprio i «riti di espiazione», ai quali Mastropaolo rimanda, rivelano situazioni assai diverse a seconda che riguardino casi individuali o interi ceti o strutture.

Non è che l’Italia li celebri in modo più vistoso. E’ proprio la loro dimensione sociale a rivelare una qualità assai diversa del fenomeno, dalla quale non si può prescindere se si vuole avviare una efficace strategia di contrasto.

Accentuando, per visibili ragioni polemiche, la portata della corruzione italiana, intendevo mettere l’accento su patologie istituzionali, non certificare la scomparsa delle persone oneste, o la totale perdita del senso dello Stato (anche se poi, quando si vuole ritrovarlo nelle istituzioni si finisce troppo spesso nel citare la Banca d’Italia). Non caso prendevo le mosse dalla «controsocietà degli onesti» di Italo Calvino.

Aggiungo che le concrete proposte di Mastropaolo sono tutte condivisibili, e su tutte in vari tempi mi sono espresso o direttamente impegnato. Non hanno dato finora frutti. E questo vuol dire che bisogna lavorare per una cultura che rimuova questo ostacolo.Il terreno è quello dell’etica civile. Se poi questo produce l’accusa di moralismo, che sia benvenuta.

Nell'icona una protesta contro la corruzione in Turchia

«L’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità». La Repubblica, 12 aprile 2016


Una volta, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato preciso dai loro elettori, scattava il “referendum”: i delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche, portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure.
Assente nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale, con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema generale di democrazia rappresentativa.

Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare «i limiti dei partiti» dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare «la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare». E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale il referendum inquieta il potere costituito, settant’anni fa come oggi: «Il referendum - disse - si basa proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento».

Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore di non essere soltanto un “designatore” ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare nel modo che ritiene giusto ma «si deve votare perché partecipare al voto significa essere pienamente cittadini», anzi «fa parte della carta d’identità del buon cittadino».

Il potere dunque deve imparare, settant’anni dopo, che il «buon cittadino» è tale quando va alle urne per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere- abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale così com’è stato concepito.

Non c’è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo dall’altro.

La risposta su questo punto non può che essere radicale, assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento costituzionale: il referendum è programmaticamente - si potrebbe dire istituzionalmente - un elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente «perché il suo scopo è proprio questo», nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione «la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà politica del popolo». D’altra parte, almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge.

Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.

Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema.

Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica, come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza delle premesse su cui sono nate.

Col referendum NoTRIV, si apre la stagione dei referendum. I quesiti contro le norme dell’Italicum, Buona Scuola, Sblocca Italia e Jobs Act. La raccolta delle firme continua oggi e durerà fino a luglio. E' il rilancio di una nuova stagione referendaria , l'estrema difesa della democrazia. Il manifesto, 11 aprile 2016

Undici quesiti referendari per una nuova stagione della democrazia. Frutto di percorsi eterogenei destinati a incontrarsi come affluenti nello stesso fiume, ieri è iniziata la raccolta firme per abrogare le principali leggi del governo Renzi nella primavera del 2017. Ci sono due quesiti sull’Italicum; tre sul Jobs Act; quattro sulla Buona Scuola e due sullo Sblocca Italia. A una settimana dal referendum NoTriv del 17 aprile e a sei mesi da quello costituzionale, movimenti sindacati e associazioni già rilanciano la battaglia a tutto campo contro Renzi e il Pd.

Italicum da abolire
Abolire il voto bloccato ai capolista, le candidature plurime, insieme al premio di maggioranza e al ballottaggio senza soglia. Questi i contenuti dei due quesiti sulla legge elettorale, il cosiddetto «Italicum». «Due meccanismi – sostiene il comitato promotore presieduto da Stefano Rodotà e Massimo Villone – che stravolgono i principi costituzionali del voto libero e uguale e della rappresentanza democratica, il cui carattere fondante per la democrazia la Corte costituzionale aveva già sottolineato nella dichiarazione di illegittimità del Porcellum, con la sentenza n. 1/2014». La raccolta delle firme è partita ieri in tutta Italia. Tra gli altri, ieri hanno firmato il sindaco di Napoli De Magistris e il segretario Fiom Landini (a Venezia).
«Alleanza sociale duratura»
Cinquecentomila firme entro il prossimo 9 luglio. L’obiettivo del comitato promotore dei «referendum sociali» è abrogare nella primavera 2017 alcune norme decisive delle altre leggi promulgate dal governo Renzi: Buona Scuola e Sblocca Italia, su tutte. La raccolta delle firme è iniziata ieri nelle principali città e proseguirà oggi. Sulla scuola, comitati, sindacati e studenti hanno presentato quattro quesiti contro i poteri del preside-manager di scegliere i docenti da «premiare»; il comitato di valutazione del merito; i finanziamenti privati alle singole scuole (school bonus) e l’alternanza scuola-lavoro.
Poi ci sono i due quesiti ambientalisti: il primo intende impedire il ricorso a future trivellazioni petrolifere sia in terra che in mare (anche oltre le 12 miglia), il secondo è contro l’articolo 35 dello Sblocca Italia che «porterà a costruire 15 inceneritori e altre discariche per un giro di affari pari a oltre 4 miliardi di euro» afferma Massimo Piras portavoce del comitato «Sì Blocca Inceneritori» che sostiene la campagna insieme a «Stop devastazioni».
Accanto ai moduli per i referendum, fino a giugno ci sarà la petizione ai presidenti delle camere presentata dal Forum dei movimenti per l’acqua contro la legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione Madia. Il testo tra l’altro rilancia la privatizzazione dei servizi pubblici e delle partecipate. La petizione, ricorda Paolo Carsetti del Forum dell’Acqua, chiede il ripristino della versione originale della legge per la ripubblicizzazione del servizio idrico e di inserire il diritto all’acqua nella Carta costituzionale
«L’ampiezza delle questioni sociali, costituzionali e lavorative affrontata dai quesiti di questa nuova stagione referendaria attesta la gravità dell’attacco portato dal governo Renzi alla democrazia – afferma Marina Boscaino dei comitati Lip scuola – I referendum sono l’occasione per un popolo di risvegliarsi, maturare un interesse collettivo e ricostruiremo la democrazia». «Dovremo portare a votare il 51% degli italiani e costruire una duratura alleanza sociale – sostiene Piero Bernocchi dei Cobas – Quello tra sindacati, movimenti e politica è un rapporto complicato e contraddittorio. Nel prossimo anno e mezzo dovremo intrecciare le lotte e imparare a convivere. Trovare un equilibrio è fondamentale, procedere separati significa perdere».
Per Eugenio Ghignoni (Flc-Cgil) il comitato promotore agirà come una «rete di solidarietà organizzativa». Ciò permetterà di votare distintamente i quesiti, rispettando le diversità di opinione su alcuni temi (ad esempio, le trivelle e gli inceneritori), non perdendo di vista l’obiettivo finale: la raccolta delle firme e il quorum.
Anna Fedeli, segretaria nazionale Flc-Cgil, sottolinea il nesso tra il referendum contro la «Buona scuola» e i quesiti abrogativi del Jobs Act presentati separatamente dalla Cgil: «Il nesso tra lavoro e conoscenza è il risultato delle battaglie civili del Dopoguerra. Riprenderlo significa ridare fiducia alla scuola e garantire ai docenti la libertà di insegnamento e agli studenti quella di apprendimento». Ieri è inoltre partita in 50 città la raccolta delle firme per la legge d’iniziativa popolare per il diritto allo studio universitario, sostenuta dalla campagna «All In». «La battaglia ambientale aperta dal referendum del 17 aprile contro le trivelle è centrale per la nuova stagione referendaria che ci aspetta» sostiene Danilo Lampis (studenti Uds).
«Al centro il lavoro»
Oltre mille le iniziative organizzare ieri dalla Cgil a sostegno dei tre quesiti referendari contro la cancellazione dell’articolo 18 e per il reintegro dei lavoratori, l’abolizione dei voucher e le norme che limitano la responsabilità solidale negli appalti. Corso Italia ha organizzato centinaia di banchetti da Nord a Sud per raccogliere le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla «carta dei diritti universali del lavoro». È una stagione molto importante per noi – ha precisato il segretario generale Susanna Camusso a piazza San Babila a Milano – Sono importanti le firme ma anche aprire una nuova stagione di discussione su cos’è oggi il lavoro. Vogliamo che il paese torni a mettere al centro il lavoro, la politica economica e l’inclusione sociale, le uniche ricette per uscire dalla stagnazione in cui ci troviamo»
C
Nell'intervista a Liana Milella il presidente dell'ANM, Piercamillo Davigo, racconta come servirà la Giustizia difendendo il principio liberale della divisione tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), almeno per quanto riguarda quest'ultimo.

La Repubblica, 10 febbraio 2016, con postilla

Volto pallidissimo per tutto il giorno. Pier Camillo Davigo, il dottor Sottile di Mani pulite confessa: «Mi sveglio sempre alle 4 per scrivere le sentenze. Ho provato a piantarle, ma non crescono da sole...».

Comincia la guerra con Renzi?«Non commento perché non ho ancora potuto parlare con la giunta».

Però Giulia Bongiorno twitta “caro Renzi quanto mi ricordi Berlusconi con questo terrore per le intercettazioni”. Ce ne sono troppe in giro, a partire da quelle di Potenza?
«Glielo ripeto, non ho ancora consultato la giunta, ma posso ripetere ciò che dico da molto tempo: la pubblicazione di intercettazioni davvero non pertinenti è già vietata dalla legge penale quantomeno dal reato di diffamazione. Se non rientrano in quel reato o sono pertinenti oppure si tratta di fatti che attengono all’operato di un pubblico ufficiale. Nel qual caso la pubblicazione è lecita».

Da oltre vent’anni però la politica chiede una nuova legge per limitare magistrati e giornalisti sulle intercettazioni. È necessaria?
«Se si ritiene che le pene per la diffamazione non siano adeguate, basta aumentare quelle. Il resto è superfluo».

Ma è possibile che per legge si decida che cosa si può pubblicare oppure no, dove passa il limite tra la prova di un reato e la violazione della privacy?
«Ci sono limiti ovvi che la legge pone alla pubblicazione di notizie. Nessun giornalista pubblicherebbe mai i codici di lancio delle testate nucleari anche se ne venisse in possesso, perché le pene sono severissime. Ma dipende sempre dai valori che si devono tutelare».

Diventa presidente una figura come la sua, importante per la storia delle indagini italiane. Il suo passato condizionerà il suo incarico?
«Ovviamente tutti facciamo tesoro delle nostre esperienze, ma il presidente dell’Anm non è un uomo solo al comando».

Lei ha fama di “duro”. Sarà così intransigente, dottor Davigo, anche da domani?«Non si tratta di essere intransigenti, ma di avere chiari i principi. “Sia il vostro dire sì sì, no, no. Il di più viene dal maligno” così è scritto nel Vangelo».

Renzi e quella frase, “brr...che paura”, perché ha detto subito pubblicamente che non le è piaciuta? Per accattivarsi i suoi colleghi?
«Perché è la verità, quella frase non mi era piaciuta».

Come giudica un governo che fa la responsabilità civile, taglia le ferie e l’età pensionabile praticamente senza contraddittorio?
«Possiamo dire poco dialogante?».

Nel merito era d’accordo o no?
«No. Nessun datore di lavoro ridurrebbe le ferie ai dipendenti senza dialogare. È stata gabellata come un rimedio a problemi giudiziari che hanno tutt’altra causa la legge sulla responsabilità civile, che non serve a prevenire errori e comunque ci costa poco più di quello che pagavano prima di assicurazione, ma fa credere che gli errori possano dipendere soprattutto da negligenze e non da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi. La riduzione brusca dell’età pensionabile senza assicurare la copertura dei posti che si rendevano vacanti ha aumentato ulteriormente la scopertura di organico dei magistrati».

La corruzione, l’evasione fiscale, i condoni. Finora il governo ha fatto una lotta seria?
«La legge di iniziativa governativa che ha aumentato le pene per alcuni reati contro la pubblica amministrazione e introdotto una riduzione di pena per chi collabora è meglio di niente, ma per fronteggiare reati così gravi e così diffusi ci vogliono strumenti molto più efficaci, ad esempio le operazioni sotto copertura. Negli Usa mi sono sentire chiedere: ma in Italia fate le indagini sulla corruzione? Ho risposto che cercavamo di farle. Mi è stato obiettato che erano indagini troppo difficili. Mi sono stupito e ho chiesto se loro lasciassero rubare. Mi è stato detto che loro facevano il “test di integrità”. Dopo ogni elezione mandavano agenti di polizia sotto copertura ad offrire denaro agli eletti. Quelli che lo accettavano venivano arrestati. Mi hanno detto che così, ad ogni elezione, ripulivano la classe politica».

Perché in Italia invece non si approva subito?
«Questo bisogna chiederlo a chi è contrario ».

Il Pd stava con voi toghe, vi ha portato in molti in Parlamento, adesso invece vi attacca. La politica è comunque insofferente ai controlli?
«La domanda è faziosa. Ci sono stati magistrati eletti sia per il centrosinistra che per il centrodestra. La mia personale opinione è che i magistrati farebbero bene a non fare mai politica».

Renzi dice che lui non è Berlusconi perché non fa le leggi per bloccare i suoi processi. Però da quando è esplosa Potenza non fa che criticare i magistrati. Qual è l’effetto?
«A titolo personale dico che tra gli applausi e i fischi ho sempre preferito i fischi, tengono alta la soglia critica e aiutano a sbagliare di meno».

Orlando non è polemico come Renzi. Comincerà a parlare con lui?
«È tradizione che ogni nuova giunta esecutiva centrale chieda di essere ricevuta dal ministro della Giustizia. Io rispetto le tradizioni».

Durante la sua campagna elettorale per Autonomia e indipendenza, la sua corrente, aveva annunciato che l’Anm avrebbe controllato il Csm soprattutto per le nomine criticando quelle cosiddette a pacchetto. Comincerà a controllare quella di Milano?
«Tanto per cominciare quella di Milano deve ancora avvenire e non è a pacchetto, almeno che io sappia. Il problema delle nomine a pacchetto è che può accadere che l’unanimità non significhi il riconoscimento di meriti, ma sancisca una spartizione. E questo non credo sia ciò che i magistrati si attendono».

postilla

La difesa dell'autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri due è particolarmente importante per la sopravvivenza di una democrazia (sia pure imperfetta, quale la nostra) in una fase disgraziata quale quella che stiamo vivendo. Oggi infatti dei tre poteri dello Stato l'esecutivo (= Governo) ha asservito il legislativo (= Parlamento) Per di più l'esecutivo è diventato l'anello di congiunzione dei poteri statali con la catena di comando che ha al suo vertice i complessi multinazionali delle aziende capitalistiche.

la complicità oggettiva con gli assassini dei governi della parte del mondo che si spaccia per garante di libertà, democrazia, giustizia. Chi incanalerà la rabbia?

La Repubblica, 10 aprile 2016
Follow the money. L’omicidio di Giulio Regeni non fa eccezione. Basta seguire i soldi per capire la delicatezza (qualcuno dice la timidezza) con cui Roma ha gestito finora il caso con l’Egitto. Il ritiro dell’ambasciatore del Cairo — mossa dall’alto valore simbolico ma dagli scarsi contenuti pecuniari — «è solo l’inizio» ha dichiarato il governo. «Nei prossimi giorni lavoreremo a misure immediate e proporzionali» alla reticenza di giudici e investigatori di Abdel Fattah Al Sisi, ha promesso il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Sanzioni economiche e l’inserimento del paese nella black list delle nazioni a rischio su tutte, due mosse che mettono a rischio la fiorentissima intesa commerciale bilaterale: l’Italia è il secondo partner dell’Egitto dopo la Germania. Gli affari tra le due sponde del Mediterraneo valgono 5 miliardi l’anno. In ballo ci sono investimenti superiori ai 10 miliardi già assegnati alle imprese di casa nostra grazie al legame privilegiato costruito con l’esecutivo del Cairo, dove Matteo Renzi è stato il primo premier occidentale a recarsi in visita dopo la vittoria di Al Sisi alle presidenziali.


GLI SCAMBI COMMERCIALI
La crisi diplomatica tra i due paesi ha fatto finora, economicamente parlando, pochissimi danni. Gli unici affari finiti in stand-by sono quelli (molto virtuali) messi sul tavolo dai 60 imprenditori impegnati nella missione sul Nilo con l’ex ministro Federica Guidi lo scorso 3 febbraio, giorno in cui è stato trovato il corpo del ricercatore. Per il resto “business as usual”, tutto è andato avanti come prima. Nel 2015 Roma ha esportato verso l’Egitto beni per 2,89 miliardi, il 6,6% in più dell’anno precedente, con la meccanica (oltre 900 milioni) in testa a tutti, davanti a metallurgia e chimica. Il vero Eldorado per l’Italia Spa è rappresentato però dai progetti di sviluppo infrastrutturali varati dal Cairo: c’è da concludere il raddoppio del Canale di Suez, da aprire sei nuovi porti e quattro stadi, da ricostruire un intero mega-quartiere nella capitale; ci sono 4 miliardi per l’edilizia e 1,7 miliardi per creare il polo industriale del Triangolo d’oro, 6mila kmq tra Fena, Safaga ed El-Quseir, il cui master-plan è stato affidato, gli amici sono amici, a una controllata dell’italianissima Rina.

GLI AFFARI DELL’ENI
Pecunia, come tradizione, non olet. E quasi tutto il mondo si è messo in fila per questi appalti in cui le aziende italiane — in caso di rappresaglie commerciali contro Al Sisi — rischiano di partire con l’handicap, se non addirittura di rimanere inchiodate ai blocchi di partenza. A dormire sonni agitati sono però anche le imprese tricolori — oltre 700 tra cui quasi tutti i big — che sotto le Piramidi lavorano da decenni o che hanno già monetizzato il flirt, oggi appassito, con Al Sisi. L’Eni, ovviamente, fa la parte del leone. Il cane a sei zampe ha interessi in Egitto per 14 miliardi di euro circa. Un tesoretto destinato a crescere visti i guai della Libia e l’asse geopolitico Israele-Egitto- Grecia-Cipro (con l’Italia a fare da convitato di pietra) sulle ricerche di idrocarburi nell’area. Cinque miliardi sono stanziati solo per il giacimento di gas Zohr, il più grande del Mediterraneo, con un potenziale di gas pari a 850 miliardi di metri cubi. Negli ultimi tre anni, inoltre, Eni ha raddoppiato la produzione nelle concessioni del Western Desert e di Abu Rudeis nel Golfo di Suez.

BANCHE E CEMENTO
In scia all’Eni però si muovono molte altre realtà tricolori. Ci sono presenze storiche come Pirelli, in Egitto dal ’90 e Intesa-SanPaolo — proprietaria dal 2006 di AlexBank. Italcementi è socia del primo produttore del settore e sta lavorando a un impianto eolico a Hurghada e Cementir (Caltagirone) ha una forte posizione. Al Cairo hanno interessi Edison (2 mld di investimenti), la Gemmo che lavora all’aeroporto, Danieli, fresca di un nuovo appalto da 70 milioni e la Tecnimont impegnata nella costruzione di un impianto per fertilizzanti dal valore superiore ai 520 milioni. L’arrivo di Al Sisi ha sbloccato però parecchi affari in più. La scorsa primavera sono stati finalizzati in un unico bilaterale accordi per 8,5 miliardi: Technip si è aggiudicata per 3 miliardi lavori su due raffineria (Assiut e Midor), Ansaldo ha ricevuto commesse dall’Enel locale, la stessa Edison si è garantita nuove forniture, Megacell un contratto sui pannelli solari. Gli affari sono affari. E in fondo tra le vittime delle sanzioni contro il Cairo ci potrebbero essere persino gli accordi di cooperazione tecnico militare tra i due paesi. Un capitolo che prevede tra l’altro la fornitura dall’Italia di ricambi per 1,6 miliardi ai jet F-16 dell’aviazione egiziana. Usati solo, prevede l’intesa, “per attività addestrative”.

L'Italia di Renzi e la Francia di Hollande unite nell'appoggio al massacratore di Giulio Regeni e chiunque minacci di svelare il carattere repressivo del loro sanguinario compare d'affari egiziano. Chi da questi affaci ci erde lo sappiamo: Mazzeo ci ricorda chi ci guadagna. Contropiano.org, 9 aprile .2016

“Non siamo disposti adaccettare verità distorte e di comodo e se non ci sarà un cambio di marcia daparte degli inquirenti e delle autorità dell’Egitto, il governo potrà ricorrerea misure immediate e proporzionate”. Il 5 aprile 2016, intervenendo al Senatosul caso di Giulio Regeni, barbaramente torturato e ucciso al Cairo il 25 gennaio,il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha promesso il massimo sforzo per farluce sui mandanti e gli esecutori dell’omicidio del nostro giovaneconnazionale. Dopo il rifiuto degli inquirenti egiziani di consegnare i tabulatidi una decine di utenze telefoniche, il premier Renzi ha richiamato in Italia l’ambasciatoreal Cairo, Maurizio Massari. Per tanti analisti, il governo – stavolta – sembravoler fare sul serio.

Peccato però che ad oggi non esista atto concreto cherimetta in discussione la consolidata partnership politico-militare-industrialetra Italia ed Egitto o quantomeno congeli i trasferimenti di sistemi d’armapesanti e leggeri alle forze armate e di polizia del sanguinario regime diAl-Sisi. Al contrario, nelle stesse ore in cui il ministro Gentiloni faceva lasua minacciosa sortita in Parlamento, un’azienda leader nel settoreaerospaziale controllata in parte dalla holding Finmeccanica, Thales Alenia Space,annunciava la firma di un contatto di 600 milioni di euro per la fornitura di unsistema di telecomunicazione militare satellitare al governo egiziano.
L’accordo è stato raggiunto nel corso della recente visita al Cairo delpresidente Francois Hollande, sicuramente uno dei più accreditati sostenitoriinternazionali dei dittatori d’Egitto. Oltre al satellite co-prodotto da Italiae Francia, Hollande si è impegnato a fornire ai militari egizianicacciabombardieri e unità navali. In particolare, i cantieri francesi DCNSconsegneranno nel 2017 una corvetta tipo “Gowind 2500” a cui seguiranno altretre unità dello stesso tipo prodotte nei cantieri egiziani di Alessandria trail 2018 e il 2019.
La commessa ha un valore superiore al miliardo di euro, acui si aggiungeranno altri 3-400 milioni per la fornitura dei sistemi da combattimentoche in buona parte saranno prodotti da imprese controllate interamente oparzialmente dal colosso Finmeccanica. Le quattro corvette “Gowind” sarannoarmate infatti con cannoni 76/62 Super Rapido di Oto Melara (società diFinmeccanica S.p.A. con stabilimenti a Brescia e La Spezia), missili antinaveMM 40 Block 3 Exocet e VL MICA di produzione MBDA (Matra BAEDynamics Alenia),il maggior consorzio europeo nel settore missilistico, controllato per il 75%da Aibus e BAE System e per il restante 25% da Finmeccanica. Alla marinamilitare egiziana è giunta pure una fregata multiruolo tipo FREMM realizzatanei cantieri navali del gruppo DCNS. Anche in questo caso molti dei sistemi dicombattimento parleranno italiano. La nuova fregata sarà armata con i cannonida 76 millimetri Super Rapido di Oto Melara, con i missili antiaerei superficie/ariaAster 15 di Eurosam (un consorzio europeo formato da MBDA e Thales), con quellida crociera Scalp Naval e antinave Exocet MM40 (di produzione MBDA) e con isiluri anti-sommergibili MU90 (prodotti dal consorzio Eurotorp, costituitodalle società Thales e DCNS e dalla Wass di Livorno del gruppo Finmeccanica).
Proprio grazie alle commesse missilistiche per la fregata FREMM all’Egitto eper i cacciabombardieri Rafale che la Francia fornirà al regime del Qatar, ilconsorzio MBDA - Matra BAE Dynamics Alenia ha registrato nel 2015 un fatturatorecord di 5,2 miliardi di euro. Nel 2013, un’altra importante azienda delgruppo Finmeccanica, AgustaWestland, si assicurò un contratto di 17,3 milionidi dollari per la manutenzione e l’assistenza al parco elicotteri delle forzearmate egiziane. A fine 2012, sempre AgustaWestland consegnò all’Egitto dueelicotteri AW139 in configurazione ricerca e soccorso (SAR) e trasporto truppe,armamenti e materiali. Il contratto, per un valore di 37,8 milioni di dollari,fu sottoscritto con U.S. Army Aviation and Missile Command (AMCOM), il comandoaereo e missilistico dell’esercito Usa che trasferì poi alle autorità egizianei due mezzi italiani attraverso il programma Foreign Military Sales (FMS). AdAgustaWestland furono pure assegnate le attività addestrative dei piloti e delpersonale di terra e la fornitura delle attrezzature e dei ricambi necessariper la messa in servizio degli elicotteri. Nel dicembre 2010, anche l’aziendaDRS Technologies, con sede e stabilimenti negli Stati Uniti d’America mainteramente controllata da Finmeccanica, firmò con l’esercito Usa un contrattodi 65,7 milioni di dollari per consegnare alle forze armate egiziane veicoli,sistemi di sorveglianza e altre apparecchiature elettroniche.
“L’Italia èl’unico paese dell’Unione europea che, dalla presa del potere del generaleal-Sisi, ha inviato armi utilizzabili per la repressione interna nonostante la sospensionedelle licenze di esportazione verso l’Egitto decretata nell’agosto del 2013 dalConsiglio dell’Unione europea”, denunciano laRete italiana per il disarmo el’Osservatorio permanente armi leggere (Opal) di Brescia. “Nel 2014 l’Italia hafornito alle forze di polizia egiziane 30.000 pistole, prodotte nel bresciano enel 2015 di 3.661 fucili, per la maggior parte prodotti da un’azienda inprovincia di Urbino. Nel 2012 il valore delle esportazioni di armi italianeall’Egitto ha raggiunto i 28 milioni di euro e ha riguardato fucili d’assalto elanciagranate della Beretta, munizioni della Fiocchi, blindati della Iveco diTorino e apparecchiature specializzate per l’addestramento militare”.
Sempresecondo i ricercatori della Rete per il disarmo e di Opal, nel 2011 il governoitaliano autorizzò l’esportazione alle forze armate egiziane di 14.730 colpi completiper carri armati a cui si aggiunsero l’anno successivo 692 colpi con spolettapiù altri 673, tutti prodotti da Simmel Difesa di Colleferro, Roma. Sempre nel2011, fu autorizzata l’esportazione di 355 componenti per la centrale di tiroSkyguardper missili Sparrow/Aspide a cui sono seguiti, nel 2012, altre 1.000 componentiper la stessa centrale di tiro prodotta dalla Rheinmetall Italia Spa di Roma.Quello stesso anno il governo italiano autorizzò pure l’esportazione di 55 veicoliblindati Lizard prodotti dalla società Iveco, attrezzature del cannone navale 76/62Super Rapido di Oto Melara e apparecchiature elettroniche e software di SelexElsag (oggi Selex ES), altra azienda del gruppo Finmeccanica. http://antoniomazzeoblog.blogspot.it

«Il manifesto, 9 aprile 2016

Stefano Rodotà è una delle - poche - figure di riferimento di quella che potremmo definire la pubblica opinione democratica. È apparsa ieri su la Repubblica una sua drammatica denuncia sullo stato della moralità pubblica nel nostro paese. È uno stato disastroso. Ciclicamente, possiamo aggiungere, divampano fiammate moralizzatrici e innovatrici, ma subito si estinguono senza effetti di rilievo. Il confine tra moralizzatori e corrotti è permeabile.

Lo si è visto nel caso dell’antimafia – e non c’è segmento della vita pubblica che sfugga. Rodotà ha ragione. Ma quando si osserva un fenomeno così vasto e pervasivo, se si vuole provare a curarlo, bisogna anzitutto intendere le ragioni. Che sono sociali. Ne culturali, né individuali. Secondo Rodotà, l’Italia è un caso unico. In altri paesi per minime manchevolezze si è estromessi dalla vita pubblica. E pertanto il livello di moralità pubblica è ben più elevato. Mi permetto di dissentire. Altrove vigono regole diverse.

In America ad esempio i finanziamenti privati alla politica sono pienamente legittimi. Il più accreditato concorrente alla candidatura democratica è una signora che è stata a lungo a libro paga delle maggiori istituzioni finanziarie del paese. Il predecessore di Obama ha destabilizzato il Medio Oriente, e ormai anche l’Europa, a servizio della Halliburton e dei petrolieri texani.

In secondo luogo, gli scandali non difettano neanche altrove: in Francia, in Inghilterra, in Germania, dove restò impigliato perfino Kohl, senza perdere tuttavia l’etichetta di padre della patria. È forte dunque il sospetto che altrove si faccia solo meno clamore, mentre di quando in quando si celebra un rassicurante rito d’espiazione, con la conseguente fuoruscita del personaggio coinvolto. In Italia, secondo Rodotà, si esibisce invece la più spudorata indifferenza, malgrado il frastuono che certe vicende suscitano. In realtà, anche l’Italia celebra i suoi bravi riti di espiazione. Li celebra solo in maniera più vistosa. Tangentopoli e il collasso della cosiddetta prima Repubblica fu uno di essi. Il tramonto, sanguinoso, del berlusconismo, di cui l’ascesa di Renzi è stato lo scampanio, al momento, conclusivo, è stato un altro. In ambo i casi è stata licenziata tutta una classe politica, i cui misfatti hanno pagato, a altissimo costo, gli italiani, ovviamente i più indifesi. Quale delle due liturgie è preferibile? La scelta è ardua. E assai meglio sarebbe curare il male.

E qui bisogna chiamare in causa le società in cui viviamo e i principi che le reggono. Anzi il loro principio fondamentale, che è l’acquisizione – privata – di profitti, economici o di potere. Perché se l’economia è fondata sulla privatizzazione del profitto economico, la politica democratica si basa sulla concorrenza per il potere tra imprese politiche, tra cui spiccano i partiti, a cui se ne affiancano molte altre.

Si può ricercare il potere per nobilissimi motivi. Per far valere, ad esempio, i bisogni dei deboli e degli emarginati. Sono, questi ultimi, bisogni vastissimi. Ma sono pur sempre gli interessi di una parte a spese di un’altra.

Cosa impedisce che in economia e in politica l’interesse privato instauri il duraturo predominio di alcuni a spese dei più? Sicuramente le norme che regolano la concorrenza - in politica la costituzione in primo luogo - le quali, a conti fatti sono quel po’ di interesse generale su cui tutti concordano. Solo che poi viene il problema di chi fa valere le regole. Un po’ le fa valere la concorrenza stessa. In particolare la concorrenza tra politica elettiva, il cui interesse “privato” sono i cittadini, e l’economia, che rappresenta tutt’altri interessi. Un po’ le fanno valere una serie di istituzioni che si identificano con l’interesse generale. Un grande sociologo ha usato la formula dell'”interesse del disinteresse” in riferimento a quelle istituzioni, e quegli uomini, che si sentono obbligati a essere disinteressate, che si pongono al di sopra delle parti, che si identificano con l’interesse generale, o, per usare una parola grossa, con lo Stato. E che per questo ottengono importanti riconoscimenti simbolici. La magistratura è tra queste istituzioni. Ma vi rientrano pure le burocrazie pubbliche, le autorità indipendenti, le corti costituzionali.

Il congegno, va da sé, è complesso e delicato e i suoi ingranaggi non sempre funzionano a dovere. In Italia, ad esempio, lo Stato ha sempre manifestato parecchie manchevolezze. Per qualche ragione, non si è riusciti a trasmettere ai suoi addetti una dose sufficiente di “senso dello Stato”. Non esageriamo. Nella storia d’Italia non sono mancati servitori dello Stato di altissima qualità, istituzioni devote all’interesse generale. La Banca d’Italia, per fare un solo esempio, ha a lungo goduto di altissima reputazione. Quello che però accade attualmente è che su uno Stato non saldissimo si è abbattuta la tempesta del neoliberalismo, che ha posto sopra ogni cosa l’interesse privato, con la politica (e gli affari) a profittarne per allargare la loro influenza. Anche qui un solo esempio.

Un corpo pubblico di elevata professionalità erano fino a non molto tempo fa i segretari generali dei comuni. Erano un principio di contrasto, di tutela della legalità, opposto ai sindaci e alla politica. Oggi i segretari se li nominano i sindaci a loro misura, invocando la preminenza della politica elettiva e il principio di efficienza. I funzionari devono rispondere del loro operato alla cosiddetta utenza, non già sottomettersi a quell’obsoleto impiccio che è la legge.

Nell’Italia d’oggi lo Stato non c’è. C’è una pletora di agenzie, che si fanno la guerra, che si incrociano variamente con la politica elettiva e con i potentati economici. Capita pure altrove, ma in Italia forse un po’ di più. Se però non c’è senso dello Stato tra gli addetti allo Stato, come può esserci attenzione alla moralità pubblica in tutti gli altri luoghi della vita associata? A dire il vero, c’è n’è, ma va scemando sempre più.

L’altro contrappeso a saltare è la separazione tra politica e economia. Al tempo dei partiti di massa ci si teneva parecchio. Fanfani volle che le imprese pubbliche uscissero da Confindustria. Più tardi il meccanismo è degenerato. Anziché ripristinarlo, dagli anni ’70, gli intrecci si sono moltiplicati, fino alle indecorose ammucchiate berlusconiane. Mentre Renzi ha nominato Guidi addirittura ministro delle attività produttive e Poletti ministro del lavoro. Dopo che Colanino Jr. è stato a lungo responsabile economico del Pd. Capita altrove anche questo, ma dappertutto fa danno.

Come se ne esce? Forse non se ne esce, perché siamo andati troppo oltre. Forse aiuterebbe una seria legge sul conflitto di interessi. Non fosse che di leggi davvero serie non ce n’è da nessuna parte. Forse però qualcosa si potrebbe fare per ripristinare il senso dello Stato, anzitutto rivalutando simbolicamente i suoi addetti, rispettandoli – altra cosa dalle sbrigative misure introdotte dal ministro Madia –, curandone la professionalità, reclutandoli tramite rigorosi concorsi, investendo davvero nel sistema universitario nazionale, anziché mettere stupidamente in concorrenza gli atenei. Così come potrebbe aiutare la scuola. Il corpo insegnante ha illustri tradizioni, malgrado il poco conto in cui spesso lo si è tenuto. Chi meglio potrebbe contribuire a sviluppare affezione per la moralità pubblica?

Niente di tutto questo accadrà. Purtroppo, malgrado le accorate parole di Rodotà, la situazione promette solo di peggiorare. Servirebbe forse un moto della pubblica opinione, dove la domanda di moralità non difetta. Ma a condizione che rifugga il moralismo alla Grillo e che piuttosto torni a incontrarsi con la critica sociale.

Corriere della sera, 9 aprile 2016
NEW YORK L’invito con il timbro della Pontificia accademia delle scienze sociali è stato spedito a un solo politico americano. Non al presidente e Premio Nobel Barack Obama. Non a Hillary Clinton, la candidata democratica favorita per la presidenza. E neanche a Ted Cruz, il repubblicano che sta conducendo una campagna tutta «Bibbia e Costituzione». L’ospite in arrivo dagli Stati Uniti sarà Bernie Sanders, outsider assoluto delle primarie, il senatore «socialista» ed egualitario del Vermont sospinto dall’entusiasmo dell’America più giovane.

Il 15 aprile Sanders sospenderà i comizi nello Stato di New York, dove si vota il 19 aprile, e prenderà parte al convegno di riflessione sull’enciclica di Giovanni Paolo II, «Centesimus Annus» di cui cade il venticinquesimo anniversario.

Secondo il racconto di un funzionario anonimo del Vaticano, riportato dall’agenzia Bloomberg , Sanders avrebbe fatto il possibile per essere invitato. Gli osservatori più maligni hanno subito richiamato il caso dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, accorso a Filadelfia nel settembre 2015 per presenziare a un incontro con il Pontefice. «Non l’ho invitato io», precisò in quell’occasione papa Francesco.

Ma monsignor Sanchez Sorondo, Cancelliere (una specie di direttore generale) della Pontificia Accademia ha chiarito di essere stato lui a sollecitare la partecipazione del senatore americano, spiegando anche perché: «Mi è sembrato che Sanders avesse un reale interesse nello studio dei documenti scritti dal Papa. Non ho visto altri candidati citare il Papa nella loro campagna. Non so se siano interessati a questi scritti». Monsignor Sorondo, argentino come Bergoglio, con un esercizio di carità, sorvola sullo scontro tra Donald Trump e il pontefice del 18 febbraio scorso, su muri e migranti. Eppure quello resta un passaggio chiave per ricostruire un’operazione che non si esaurisce con Sanders.

Non è ancora chiaro se, alla fine, il Papa riceverà il settantaquattrenne senatore. E in questo caso non è neanche rilevante che Sanders sia di confessione ebraica. Bisogna, invece, fare grande attenzione a come sarà composta la platea. Ci saranno il presidente della Bolivia, Evo Morales, e quello dell’Ecuador, Rafael Correa. Inoltre il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga dell’Honduras e il professor Jeffrey Sachs, ascoltato consigliere di Bergoglio per la stesura dell’enciclica «Laudato si» su ecologia e sviluppo economico, pubblicata nel giugno del 2015. In quei giorni l’ambientalista Obama commentò con grande trasporto l’opera papale. Poi ci fu la visita di Francesco alla Casa Bianca e l’intesa con il presidente apparve solida.

Adesso, però, la Pontificia Accademia presta attenzione a ciò che si muove oltre Obama, mettendo insieme esperienze di governo e correnti di pensiero tra le più radicali. Giusto un anno fa, nel Vertice delle Americhe a Panama, Morales e Correa si produssero in un’aspra requisitoria contro il modello economico Usa, davanti a Obama, impassibile. E Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University, è punto di riferimento fondamentale per studiare i limiti del capitalismo: povertà, polarizzazione sociale, inquinamento.

In questo contesto, oggettivamente, sarebbe difficile immaginare un altro politico americano diverso da Sanders. Forse è esagerato pensare che stia nascendo una specie di «Internazionale Bergoglio», un’alleanza politico-culturale nel segno del riequilibrio sociale. Quello della Pontificia Accademia resta un seminario di riflessione. Tuttavia la nuova Chiesa Cattolica guidata dal pastore argentino lavora per diffondere con sempre maggiore forza la richiesta di grandi cambiamenti nelle politiche economiche e sociali. È la ricerca di un’egemonia nella «ragion pratica», nella concretezza, con uno scarto rispetto alla tradizione, come si può leggere anche nel libro in uscita di Manlio Graziano, professore alla Sorbonne di Parigi, In Rome we trust (editore Il Mulino) sui rapporti tra Usa e Santa Sede.

Sanders ha colto per primo questo cambio di passo: «L’imperativo morale che il Papa sta portando nella discussione è assolutamente straordinario ed è assolutamente ciò di cui il mondo ha bisogno. Questi temi non sono stati affrontati per anni». Per lui un posto in prima fila nel parterre di Francesco.

«Anche se il conduttore dice di aver incalzato Riina con le domande evidentemente non è riuscito a ottenere risposte che non fossero quelle prevedibili di un mafioso figlio di un mafioso, portatore di un codice di omertà che ha dato un’eccezionale prova di forza».

La Repubblica, 8 aprile 2016 (m.p.r.)

Roma. «Immagino gli applausi dei mafiosi per la fermezza dimostrata in tv dal figlio di Riina...». Sono 48 ore di collera mista ad amarezza quelle del presidente del Senato Piero Grasso. Proprio lui, il giudice che ha motivato le condanne del maxi processo a Cosa nostra, lui ex procuratore Antimafia, ma soprattutto il magistrato che Totò Riina avrebbe voluto far saltare in aria nel ‘93, con il tritolo piazzato in un tombino, mentre andava a trovare la madre.

Grasso esterna la sua sorpresa in privato e in pubblico. Mercoledì sera, quando torna a casa da una cena al Quirinale e la moglie Maria prova a insistere per vedere l’intervista. Avendo letto le anticipazioni lui ribadisce il no perché «conoscendo la mentalità di quel mondo che ho combattuto per tutta la vita già mi immagino come andrà a finire, si risolverà in una prova di forza in cui a vincere sarà il codice dell’omertà e del rispetto mafioso».
Ieri di buon ora guarda i giornali che confermano le sue più amare previsioni. Legge e rilegge la frase di Riina junior, «la mafia può essere tutto e niente», sbotta: «Mi sembra di risentire i vecchi boss di 50 anni fa che alla domanda se la mafia esiste rispondevano “se esiste l’antimafia esisterà pure la mafia...”». Ironizza ancora con Maria su Riina che firma la liberatoria non prima dell’intervista, come invece fanno fare sempre a lui, ma solo dopo averla riascoltata. «Sarei curioso di sapere con chi, oltre all’editore, l’ha rivista. Con l’avvocato o con qualche consigliori?».
Alla Luiss, davanti ai ragazzi che lo hanno invitato a tenere una lezione sulla mafia e affollano l’aula magna, Grasso pone interrogativi pesanti alla Rai: «Eludendo le domande su mafia, stragi, vittime, il figlio di Riina ha cercato di umanizzare la figura di suo padre e di banalizzare il male immenso della mafia. Ha raccontato che Totò Riina gli ha trasmesso il rispetto della famiglia. Parole vecchie di 30 o 40 anni fa. Che contributo ha dato per conoscere la mafia? Meritava davvero la ribalta della rete principale del servizio pubblico?».
È il dubbio che lo assilla: «È giusto provare a fare l’intervista, ma se il figlio del boss non va un millimetro oltre l’apologia del padre, allora bisogna valutare che farne». Buttarla via o renderne pubblica una parte? È stupito per il comportamento di Vespa: «La Rai ha sempre trattato con responsabilità e senso civico questi temi. Io stesso sono stato invitato tante volte a parlare di mafia e antimafia, mi stupisce un errore di questa portata». Ancora: «Non si può banalizzare la mafia, non ci si deve prestare ad operazioni commerciali e culturali di questo tipo». Dice no a una puntata riparatoria che «metterebbe sullo stesso piano la mafia e lo Stato».
Quando i ragazzi della Luiss, tra cui Angelino Molinaro che presiede l’Associazione degli studenti ed è figlio di un collaboratore di giustizia, lo tempestano di domande, Grasso pronuncia il suo verdetto: «Anche se il conduttore dice di aver incalzato Riina con le domande evidentemente non è riuscito a ottenere risposte che non fossero quelle prevedibili di un mafioso figlio di un mafioso, portatore di un codice di omertà che ha dato un’eccezionale prova di forza, difendendo strenuamente gli aspetti umani di quel padre che è, e deve passare alla storia, come un mostro sanguinario ».
«La nostra Costituzione punto di riferimento costante anche per ritrovare quella virtù che vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza». La Repubblica, 8 aprile 2016 (c.m.c.)

Per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione" bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde. Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”. Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.

Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari). Comincia stabilendo che "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi". Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore". Parola, quest'ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule "non vi è nulla di penalmente rilevante", "non è stata violata alcuna norma amministrativa". Si cancella così la parte più significativa dell'articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.

Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un "valore aggiunto", che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all'interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l'onore rileva verso l'esterno, " n'agit qu'en vue du public ", mentre "la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza".

Ma da anni si è allargata un'area dove i "servitori dello Stato" si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d'essere della politica e dell'amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell'articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l'impunità, e si ripresenta la concezione "di una classe politica che si sente intoccabile", come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l'effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all'interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo "così fan tutti" che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti. Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell'uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l'incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l'elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).

Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare. In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la "constitutional morality".

In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella "controsocietà degli onesti" alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L'accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell'einaudiano "conoscere per deliberare", ma anche dell'ancor più attuale "conoscere per controllare", ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la "democrazia di appropriazione" spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull'accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v'è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti. Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull'accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d'Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.

Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l'amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: "Ah, dice, ma non sono in triplice copia!"». Non basta più l'evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.

I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all'italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d'interesse, evasione fiscale, collusioni d'ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l'uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l'attacco alla magistratura e l'esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull'etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l'attingere i nuovi "salvatori della patria" proprio dalla magistratura, così ritenuta l'unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all'esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.

L'articolo di Piero Bevilacqua su sinistra e ambiente, e in particolare la sua osservazione sul carattere industrialista e "sviluppista" dell'Unione sovietica mi induce a una riflessione su un punto che mi sembra oggi particolarmente rilevante per comprendere "dove dirigere" le nostre energie e le nostre speranze.

Non sono un esperto della letteratura marxiana e marxista, ma mi sembra di poter affermare che nella pratica delle politiche d'ispirazione marxista si sia via via trascurata una delle componenti del pensiero del sociologo di Treviri: cioè l'esigenza di "uscire dal sistema capitalistico". Porsi l'obiettivo di soddisfare questa esigenza avrebbe significato impegnarsi a pensare e a costruire un sistema economico del tutto diverso da quello inventato, e poi via via trasformato, nel mondo occidentale.

La sinistra novecentesca ha dimenticato, questa esigenza, sia nei paesi occidentali sia ad Est (con pochissime eccezioni, tra cui l'Enrico Berlinguer del "compromesso storico"). Ad Occidente, e in particolare in Europa, le classi lavoratrici, a partire dal proletariato operaio, hanno lottato vigorosamente per ottenere una parte della ricchezza prodotta maggiore di quella che le classi dominanti erano disposte a concedere. Ne hanno beneficiato i popoli dei paesi in cui la sinistra sindacale o politica guadagnava posizioni di potere (e ne hanno sofferto i popoli delle regioni del mondo in cui i capitalisti "esportavano le contraddizioni" sostituendo lo sfruttamento delle risorse altrui al minor sfruttamento dei "loro" proletari.)

Là dove è andato al potere il "marxismo incarnato" - come osserva Bevilacqua - è stato "svilupppista": ha costruito forme del sistema capitalistico dell'economia diverse da quelle occidentali per un solo aspetto essenziale (la proprietà dei mezzi di produzione è passata dai privati allo Stato), ma non è uscito dalla logica di quel sistema.

Che ciò sia accaduto è stato certamente decisivo per le sorti del pianeta, poiché ha consentito di costruire l'Urss, e quindi quella realtà statuale senza la quale le democrazie liberali dell'Occidente non avrebbero vinto la mostruosa macchina totalitaria dell'Asse Berlino-Roma-Tokio e il mondo sarebbe stato dominato dal nazifascismo (ricordiamolo il prossimo 25 aprile).

Ma la tensione a immaginare e costruire un sistema economico non più basato sulla riduzione del lavoro a merce si era spenta, prima ancora di essere seppellita sotto le macerie del Muro di Berlino Riemerge oggi, al cospetto di una crisi del capitalismo che appare più grave delle altre. Speriamo che trovi le teste e le braccia per affermarsi. Senza dimenticare che Proteo ha grandi capacità di trasformarsi rimanendo uguale a se stesso, e che finché il sistema capitalistico sopravvive dovremo ricordare con Bertold Brecht che il ventre che generò il nazismo è ancora fertile.

«Il lavoro sta tornando ad essere semplicemente fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica. Ricostruire una cultura riformatrice dovrà comportare la ricomposizione del legame tra lavoro e diritti, affinché i molti non siano preda della propaganda nazionalista».

La Repubblica, 6 aprile 2016 (m.p.r.)

Il declino del riformismo sociale, scrive Ezio Mauro, è il segnale di una crisi ben più vasta che coinvolge lo stato democratico. Un declino che ha coinciso con l’emergere di fattori di mutamento profondi per la trasformazione dei rapporti politici connessi al lavoro: il declino del compromesso tra capitalismo e democrazia (per la trasformazione del primo da industriale a finanziario) e l’apertura dei confini simbolizzata dalla fine della Guerra fredda.

Le frontiere hanno consentito il riformismo sociale e la costruzione delle democrazie. In sostanza hanno reso possibile il compromesso tra capitalismo e democrazia, per cui chi possedeva i mezzi di produzione ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni erano prese contando i voti di tutti. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi devastante del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale che, invece di assistere i poveri, li impiegava o li trasformava in forza lavoro. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche. Questo generò incremento della domanda e ripresa dell’occupazione: come disse il presidente francese Léon Blum, l’investimento nel lavoro è un investimento nella democrazia. È questo il senso dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che presume confini nazionali e il controllo di entrata della forza lavoro, una politica che i Trattati di Roma (1957) hanno esteso al territorio dell’Unione, la nuova dimensione geografica alla quale venne esteso il diritto di circolazione dei lavoratori e dei beni.
L’esito di quel compromesso novecentesco fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: non una massa di disperati che la propaganda nazionalistica poteva manovrare, ma forze sociali organizzate in partiti che si incaricavano di essere rappresentativi di interessi sociali che la crescita economica consentiva di moderare e di disporre al compromesso. L’esito di questo bilanciamento delle popolazioni e degli interessi fu che l’allocazione delle risorse economiche - dal lavoro ai beni primari, fino ai servizi - venne gestita dalle forze politiche, mentre le classi sociali rinunciavano a fare da sole. La politica acquistò autorità e autorevolezza.
Il legame tra lavoro e politica, tra confini e potere di trattativa sui salari e sui diritti, si è allentato con il declino del mondo diviso, con la fine della Guerra fredda. L’apertura globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno insieme e si riflettono nel declino del riformismo sociale, che non può contare solo sulla buona volontà. La politica senza una condizione sociale di riferimento non è da sola capace di far rivivere il riformismo. Il secondo Dopoguerra è nato su fondamenti molto strutturati, tanto a livello nazionale che a livello internazionale. La divisione Est e Ovest si rifletteva in due modelli di democrazia alla base dei quali vi era comunque il lavoro: la democrazia “borghese” da un lato e quella socialista dall’altro. Nel primo caso, quello che ci interessa e che è sopravvissuto più a lungo, la difesa di diritti sociali aveva il compito di neutralizzare il peso delle diseguaglianze nel potere di prendere le decisioni politiche: dando a tutti i cittadini alcune opportunità di base, come sanità e scuola pubblica, lo stato democratico poteva garantire l’inclusione di tutti a egual titolo, lavoratori e capitalisti.
Nei paesi occidentali, la sfida lanciata dal mondo sovietico ha funzionato da deterrente per contenere le diseguaglianze con la messa in cantiere di uno stato sociale che doveva provare al mondo socialista di riuscire a coniugare le libertà economiche con la libertà politica e il benessere diffuso. La ricostruzione del Dopoguerra aveva del resto aperto grandi possibilità di crescita economica senza bisogno di uscire dai confini per trovare manodopera a basso costo. Sui confini tra Est e Ovest si è costruita la cultura dei diritti sociali e la filosofia lavorista, l’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica associata avrebbe potuto renderlo condizione di emancipazione. Le politiche di piena occupazione e l’espansione dei diritti hanno marciato insieme, in un mondo che aveva confini.
Questo scenario è radicalmente cambiato con la mondializzazione dei mercati e come conseguenza il lavoro sta tornando poco a poco ad essere semplicemente fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica. Ricostruire una cultura riformatrice dovrà comportare la ricomposizione del legame tra lavoro e diritti, affinché i molti non siano preda della propaganda nazionalista, affinché la prospettiva di vita che le democrazie offrono sia comparabilmente migliore di quella che le sirene xenofobiche promettono. È quindi sulla capacità della politica di ricatturare il lavoro che si gioca il futuro delle nostre democrazie.

La Repubblica, 6 aprile 2016 (m.p.r.)

Roma. Adesso l’Italia alza il tiro sul caso del brutale omicidio di Giulio Regeni: «Se non ci sarà un cambio di marcia - scandisce in Parlamento il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni - il governo è pronto a reagire adottando misure immediate e proporzionate». Il capo della Farnesina mette sul tavolo ritorsioni diplomatiche e commerciali, insomma. E rafforza l’affondo con una promessa: «Per ragioni di Stato non permetteremo che venga calpestata la dignità dell’Italia». Parole che fanno infuriare il Cairo, infiammando la vigilia già tesa della missione degli inquirenti egiziani a Roma. Già oggi atterreranno nella Capitale, pronti a incontrare tra giovedì e venerdì il procuratore Giuseppe Pignatone.

In Senato prima, alla Camera poi, Gentiloni mette in fila concetti poco diplomatici. «Il dossier inviato in Italia ai primi di marzo era carente - accusa il ministro nelle sedi istituzionali - e mancava dei dati relativi al traffico del telefono di Regeni e al video della metropolitana del Cairo». Da qui la richiesta di chiarezza, scandita in modo ruvido: «È per ragione di Stato che pretendiamo la verità, è per ragione di Stato che non accetteremo una verità fabbricata ad arte. Ora è importante che il Parlamento faccia sentire la sua voce unitaria». Più tardi, sui social network, interviene anche il premier Matteo Renzi: «La dignità della famiglia Regeni ha dato una gigantesca lezione al mondo. Noi ci fermeremo solo davanti alla verità vera. Pensiamo e speriamo che l’Egitto possa collaborare con i nostri magistrati».
L’appuntamento decisivo si terrà dunque a Roma, teatro dei briefing tra la delegazione egiziana e Pignatone. «E potrebbero essere incontri decisivi per le indagini», auspica Gentiloni. Resta però, palpabile, la tensione tra i due Paesi. «Ci asteniamo dal commentare le dichiarazioni di Gentiloni - fanno sapere dal ministero degli esteri egiziano - che complicano ancora di più la situazione». Poco dopo tocca direttamente al presidente Al Sisi raffreddare gli animi dei diplomatici. Prima rassicurando Roma sulla «determinazione dell’Egitto a continuare la piena cooperazione con assoluta trasparenza», poi esprimendo fiducia sul fatto che le parti saranno capaci di «trattare con saggezza questi incidenti individuali e di superarli senza impatti negativi».

«Con l’introduzione della cosiddetta autorizzazione unica, le società estrattive non sarebbero state costrette a pagare alla Regione e agli enti locali le compensazioni ambientali necessarie». Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano: Renzi non può dare la colpa alle Regioni e accusarle di essere d'ostacolo alle strutture strategiche italiane “di pubblica utilità”, non può accusare le amministrazioni di bloccare opere pubbliche che danno lavoro e favoriscono lo sviluppo economico. Non può farlo perché, almeno nel caso di Tempa Rossa e dell’adeguamento delle strutture della raffineria di Taranto per lo stoccaggio del greggio proveniente dalla Basilicata, non è vero.


Il ruolo della Regione
«Ti hanno detto male, Matteo, se ti hanno riferito che la Regione Puglia si opponeva a Tempa Rossa - ha detto il governatore pugliese nel suo intervento in Direzione Pd, lunedì pomeriggio - la Puglia quel progetto lo ha approvato». In effetti, è stato autorizzato nel 2011, rispettivamente con l'esito positivo della Valutazione d'impatto ambientale (la cosiddetta Via) e con quello dell'Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia). Perché allora la necessità dell'emendamento sblocca Tempa Rossa inserito nella legge di Stabilità, che rende strategiche tutte le opere connesse all’attività estrattiva come gasdotti, porti, siti di stoccaggio?
L'interesse delle aziende
Una delle risposte è che sia per evitargli problemi con gli enti locali e altre spese. Il governatore della Puglia lo spiega alla fine dell'incontro: Renzi lo ha fatto perché così le società (con l’introduzione della cosiddetta Autorizzazione unica) non sarebbero state costrette a pagare alla Regione e agli enti locali le compensazioni ambientali necessarie quando si realizzano infrastrutture di elevato impatto ambientale, come oleodotti o impianti di stoccaggio. Compensazioni che la Regione discute con le aziende coinvolte e che gli permette o di ottenere in cambio servizi e nuove opere, o di mettere da parte soldi per far fronte a eventuali incidenti come contrappeso del rischio e dell’eventuale inquinamento.
Compensazioni
Nel 2011, ad esempio, la Regione Puglia - a quel tempo governata da Nichi Vendola - aveva elaborato una proposta di deliberazione che prevedeva, come contrappasso, compensazioni per l'inquinamento dovuto al traffico navale, per il rischio di inquinamento delle coste circostanti “a forte vocazione turistica ed elevato pregio ambientale” in caso di incidenti di navigazione o avarie. Inoltre, si proponeva un potenziamento nel vicino Parco delle Gravine con la realizzazione, a carico di Eni, di impianti fotovoltaici (con devoluzione in conto energia) su ospedali, università e centri di ricerca della Regione. Un dialogo che quando un'opera diventa strategica, come è successo nel caso degli oleodotti e degli impianti di stoccaggio grazie all’emendamento Guidi, non è più necessario perché decide tutto il governo. Le aziende possono fare ciò che vogliono senza dover trattare con le Regioni.
L'Ilva
A ostacolare il progetto di adeguamento delle raffinerie di Taranto, tra il 2011 e il 2014, in realtà è stato il timore che al disastro ambientale dell ’Ilva si sommasse Tempa Rossa. La pressione e lo scontento dei cittadini e degli ambientalisti ha reso cauti gli enti locali, tanto che a settembre del 2014, la Regione Puglia chiede il riesame del parere di Via sul progetto Tempa Rossa, su suggerimento dell'Arpa, l'Agenzia Regionale di Protezione Ambientale, che riteneva non fosse stato elaborato tenendo conto della vicinanza con l’Ilva.
Le opportunità
Quelle per il territorio, secondo i dati della stessa Total, sono molto limitate. Le royalty per la Regione (tra le più basse del mondo e in Europa) provenienti dai pozzi Tempa Rossa, a regime sarebbero pari a 180 milioni di euro all’anno. Dato calcolato su un prezzo medio di 100 dollari a barile. Oggi, che il petrolio è sui 37-38 dollari, spiegano i Verdi, si scende a 68 milioni l’anno. E quanto incassa la Total? Con un investimento di 1,6 miliardi di euro, prende un miliardo di euro all’anno a prezzo di barile. E va in profitto nel giro di due anni mentre in Basilicata diminuisce il numero di residenti nelle città delle trivelle e il comparto agricolo si riduce (dati Corte dei conti 2014).

la Repubblica e il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016 (m.p.r.)

La Repubblica

DA PUTIN A RE E POLITICI
ECCO I SEGRETI DI PANAMA PARADISO FISCALE PER I
di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti
La più grande fuga di notizie finanziarie mai avvenuta. Milioni di pagine di documenti che raccontano quarant’anni di affari offshore per conto di capi di governo e politici di tutto il mondo, imprenditori, personaggi dello sport e star dello spettacolo. Tutto parte dallo studio legale Mossack Fonseca, con base a Panama city, nel cuore di uno dei più efficienti paradisi fiscali del mondo, finora impenetrabile. Grazie a un informatore, i giornalisti del quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e poi dell’Icij (International consortium of investigative journalists) hanno avuto accesso a un enorme archivio di carte segrete.

Nei documenti, analizzati in esclusiva per l’Italia da l’Espresso, compare una cerchia di uomini molto vicini al presidente russo Vladimir Putin. E troviamo pure il padre, deceduto nel 2010, del primo ministro britannico David Cameron, proprio lui che è da anni impegnato in una crociata contro i paradisi fiscali. Poi c’è il presidente ucraino Petro Poroshenko. Lo staff del leader di Kiev ha precisato che le tre holding registrate tra le Isole Vergini e Cipro «non hanno nulla a che fare con l’attività politica». Nel caso di Putin, le carte di Panama documentano dozzine di transazioni riservate, riconducibili a persone o società legate al leader russo, per un totale di circa due miliardi di dollari.
L’attuale presidente dell’Argentina, l’imprenditore Mauricio Macri, risulta amministratore di una società alle Bahamas. Contattato dall’Icij, un suo portavoce ha risposto che quella offshore faceva capo alla famiglia di Macri, non a lui personalmente. Anche il calciatore Lionel Messi, già sotto inchiesta in Spagna per evasione fiscale, si è rivolto allo studio Mossack Fonseca per creare una offshore. E nelle carte spunta pure il nome dell’attore Jackie Chan, con sei società.
Nell’immenso archivio panamense, come rivela il sito de l’Espresso, compaiono circa 800 nominativi italiani, tra cui Luca Cordero di Montezemolo, l’ex pilota di formula Uno, Jarno Trulli e due grandi banche come Unicredit e Ubi. Del resto, l’archivio segreto evidenzia che alcuni colossi finanziari globali sono coinvolti nella creazione di offshore al servizio di migliaia di clienti: si tratta di oltre 15 mila società anonime, collegate a istituti di credito come la svizzera Ubs e la britannica Hsbc.
La banca dati svela anche patrimoni segreti di altri potenti del mondo. La famiglia del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha usato società di Panama per nascondere partecipazioni in miniere d’oro. I figli del premier pakistano, Nawaz Sharif, hanno comprato palazzi a Londra. E in Cina almeno otto tra ex e attuali componenti del comitato centrale del Partito comunista dispongono di società in paradisi fiscali: tra loro c’è il cognato del presidente Xi Jinping. Tramite lo studio Mossack Fonseca, sono state create anche le offshore a cui sono intestati gli yacht del re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud, e del sovrano del Marocco, Mohammed VI. E c’è il cugino del dittatore siriano Bashar Assard, spesso indicato come “il cassiere del regime”.
L’inchiesta giornalistica è durata più di un anno, da quando 11,5 milioni di file panamensi sono stati recapitati alla Suddeutsche Zeitung, che tramite Icij li ha poi condivisi con 100 testate rappresentate da 378 giornalisti di un’ottantina di Paesi. Sullo stesso archivio sono già al lavoro anche le autorità fiscali della Germania, mentre il fisco Usa e inglese potrebbero presto acquisirli. I documenti riguardano oltre 200 mila società con sede in 21 paradisi fiscali, dai Caraibi a Cipro. Mai prima d’ora una simile mole di dati riservati era stata messa a disposizione della pubblica opinione e degli inquirenti.
I file descrivono operazioni che vanno dal 1977 alla fine del 2015. E illuminano per la prima volta la gestione di enormi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale. Soldi legittimi se dichiarati all’Erario, ma che spesso vengono nascosti perché frutto di reati come evasione fiscale o corruzione.
In una risposta scritta alle domande dell’Icij, lo studio Mossack Fonseca ha affermato di «non aver mai agevolato o promosso operazioni illegali» Ramon Fonseca, uno dei due soci fondatori, intervistato da una tv panamense, ha precisato che lo studio «non ha responsabilità per ciò che i clienti fanno con le loro offshore», così come una casa automobilistica non ha colpe «se la macchina viene usata per fare una rapina».
Il Fatto Quotidiano
COSÌ I RICCHI DEL MONDO NASCONDONO I LORO MILIARDI
di Leonardo Coen

Altro che Spotlight, il film sullo scandalo dei preti pedofili di Boston. Siamo di fronte al Watergate dell’evasione mondiale. I giornalisti investigativi del consorzio americano Icij (cui aderisce, in Italia, l’Espresso), grazie ad una “gola profonda” - almeno, questa la versione ufficiale - hanno avuto la possibilità di consultare 11 milioni e mezzo di file su 200mila società offshore basate principalmente a Panama. Dove i potenti del mondo, i loro familiari e migliaia di vip hanno nascosto i loro soldi. Nomi come Putin. Come Cameron. Come i leader cinesi. Come Messi. Come l’attore di Hong-Kong, Jakie Chan. Come tanti italiani: per esempio, Luca Cordero di Montezemolo. L’ex pilota di Formula1, Jarno Trulli. O l’imprenditore Giuseppe Donaldo Nicosia, latitante, coinvolto in un’inchiesta per truffa con Marcello Dell’Utri: gli italiani coinvolti nel giro sarebbero circa 800.

I documenti riguardano operazioni effettuate dal 1977 alla fine del 2015. È probabilmente la fuga di notizie più clamorosa nella storia della finanza, o meglio dell’evasione, se, come pare, le banche e gli studi legali che hanno usufruito dei servizi offerti dall’offshore Panama “non avrebbero seguito le norme che permettono di individuare i clienti coinvolti in attività illegali”. Tutto nasce, sempre che questa sia la storia vera, da qualcuno che può accedere all’archivio dati dello studio legale Mossack Fonseca che ha base a Panama City, uno dei paradisi fiscali più efficienti e discreti del mondo, nonostante di recente ci siano state pressioni da parte Usa perché le cose cambino come è successo per la Svizzera.
Questo Mister X, un anno fa, decide di spedire al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitunguna la prima dose di file. Il giornale è nel circuito dell’Icij. Farne parte, significa condividerne gli scoop. Contemporaneamente, vengono avvisate le autorità fiscali di vari Paesi, a cominciare ovviamente da Germania e Usa, dove ha sede il consorzio dei giornalisti 007. Si decide di procedere, per il momento, in assoluto riserbo. Tant’è che i file sono aggiornati al mese di dicembre 2015, segno che Mister X non era stato ancora individuato. In realtà, Panama è il centro di smistamento dei miliardi imboscati: sinora, sono stati individuati 21 paradisi fiscali sparpagliati per mezzo globo, dai “classici”delle isole caraibiche, sino a Cipro - meta preferita dei russi - per arrivare in Nevada, spina nel fianco del moralismo a stelle e strisce.
I modi per celare i quattrini sono tra i più fantasiosi: trust e fondazioni (che a loro volta possono godere di altri vantaggi fiscali), più le solite società che rimandano ad altre società, in un gioco di scatole cinesi gestite con codici e password in continuo aggiornamento. Soldi, specie quelli infrattati dai politici, significano corruzione, furto, collusione col crimine organizzato. Sono 15.300 le sigle di comodo costituite dalle banche (colossi come la svizzera Ubs - amata da Gelli - e la britannica Hsbc). Ci sono società offshore che conducono al cerchio magico del Cremlino, agli uomini cioè di Putin, altre che portano al suo nemico, il presidente ucraino Petro Poroshenko (compreso il padre), a dimostrazione che pecunia non olet mai e non ha frontiere, quando si tratta di sottrarlo al fisco. Che dire allora di David Cameron, che a parole lancia una crociata politica contro l’evasione e poi nei fatti. Una nota meritano i fondatori dell’ineffabile studio legale Mossack-Fonseca, approdati a Panama alla fine del 1975. Juergen Mossack, origini tedesche, venne col padre, ex SS. Ramon Fonseca, invece, è divenuto famoso come scrittore e per anni è stato nel salotto buono del potere, in qualità di consigliere della presidenza. A marzo, quando l’Icij è uscita allo scoperto, ha capito che non poteva più mantenere quell’incarico e si è messo in aspettativa.


Gli effetti degli incentivi a pioggia e la droga dei bonus di Renzi. Uno studio di Marta Fana e Michele Raitano su

Etica ed EconomiaIl manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Cari e inutili. Sono gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato con i quali il governo Renzi ha pensato, inutilmente, di aumentare l’occupazione. In una nuova analisi sui costi e i benefici di questa dispendiossisima misura, pubblicata online sul «Menabò» di Etica ed Economia, da Marta Fana e Michele Raitano emerge una nuova stima sul costo lordo per il bilancio pubblico nel triennio 2015-2017 che oscillerà, a seconda delle ipotesi, tra i 22,6 e i 14 miliardi. Non più dunque 11,8 miliardi ma undici in più nel caso in cui i contratti attivati nel 2015 dureranno 36 mesi, l’intero periodo della corresponsione dell’«esonero» contributivo alle imprese. Fana e Raitano formulano un secondo scenario più realistico, sulla base dei dati del ministero del Lavoro riguardanti i contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato tra il 2012 e il 2014 e cessati entro il terzo anno.

Fana e Raitano formulano un secondo scenario più realistico, sulla base dei dati del ministero del Lavoro riguardanti la durata dei contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato tra il 2012 e il 2014 e cessati entro il terzo anno. Nello specifico, il 13% dei contratti trasformati cessano mediamente entro il primo anno, il 17,7% entro il secondo, il 10,3% entro il terzo anno. Quindi in base all’evidenza storica il 41% dei contratti trasformati dura meno di 3 anni. Scadenza naturale perché, al 37esimo mese ci sarebbe l’obbligo di assumere il lavoratore, come stabilito da una direttiva europea, sostanzialmente neutralizzata dal «decreto Poletti» sui contratti a termine approvato prima del Jobs Act. Gli studiosi delineano anche un terzo scenario e avanzano l’ipotesi per cui il 20% delle assunzioni a tempo indeterminato duri 18 mesi, mentre il restante 80% raggiunga i 36 mesi. In questo caso l’onere lordo per le casse dello Stato sarebbe pari a 14,6 miliardi.

Una prospettiva che conferma la stima avanzata dai consulenti del lavoro secondo i quali mancano all’appello 3 miliardi. Il governo sarebbe paradossalmente vittima del suo successo: ha generato una richiesta di lavoro a termine finanziato dai contribuenti che non riesce a coprire. È tuttavia probabile che, al termine del triennio, l’impatto degli incentivi sul bilancio pubblico sarà inferiore visto che i contratti sono precari e prevedono una retribuzione al lavoratore inferiore alla media. Inoltre, a partire dal 2016, lo sgravio è diminuito da 8.060 a 3.250 euro per ogni assunzione a tempo indeterminato o trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. La nuova decontribuzione durerà 24 mesi e non 36 mesi. Una decisione necessaria anche per diminuire l’impatto degli incentivi sul bilancio.

Arriviamo ai risultati conosciuti della politica dei bonus sull’occupazione. Deludenti. Nel ricco dossier su «Etica ed Economia» si ripercorre il fallimento del Jobs Act, al netto della propaganda renziana finita anche sugli autobus delle principali città italiane in vista delle elezioni amministrative. Per l’Istat, nel 2015, i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato sono aumentati di 114 mila unità circa rispetto al 2014. Parliamo di meno dell’8% dei contratti finanziati dal governo. Prospettiva confermata dal bollettino di Bankitalia a gennaio: nel prossimo triennio, gli sgravi contributivi genereranno una nuova occupazione pari a circa 0,3 punti percentuali.

Undici miliardi di euro potrebbero portare a questo risultato a dir poco modesto. In questo scenario, il «contratto a tutele crescenti», pilastro del Jobs Act, contribuirà solo per l’1 per cento sull’occupazione complessiva. Tutto il resto lo faranno gli incentivi. Nel 2015, ricordano Fana e Raitano, i contratti che hanno beneficiato degli sgravi – incluse le trasformazioni dei rapporti a termine che sono la maggioranza e riguardano gli over 50 più dei giovani – sono 1.547.935 di cui solo un quarto (379.243) a dicembre 2015, quando le imprese hanno fatto una corsa per accaparrarsi il bonus renziano. Non è ancora chiaro quali saranno gli effetti della «droga» usata dal governo per gonfiare il mercato del lavoro quando gli incentivi si esauriranno. Quello che, al momento si sa, che ogni occupato in più costerà al contribuente tra i 25 mila e i 50 mila euro. Queste persone rischiano di tornare disoccupate nel 2018.

«Gli economisti che progettano sgravi e incentivi hanno una visione “naive” dell’impresa e una concezione dell’economia superata» si legge in una notadel dossier online. Le politiche degli incentivi, quelli a pioggia e quelli condizionati ai nuovi assunti, non funzionano. Renzi sta disperdendo preziose risorse pubbliche per un generico sostegno alla domanda aggregata. «Questa è una politica di stampo vetero-keynesiano». Anche Michele Tiraboschi, alla guida di Adapt, converge sulla stessa valutazione: «Il Jobs Act è il più costoso dei flop» ha scritto ieri sul bollettino del centro studi.

«In un editoriale il direttore del quotidiano pro-governativo paragona il ricercatore italiano a Said, la cui morte per mano della polizia ha dato il via alle proteste contro Mubarak. Ancora in silenzio il parlamento». Il manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Giulio come Khaled: il doloroso parallelo tra i due 28enni, massacrati dalla brutalità del regime egiziano, lo aveva ricordato la madre del giovane egiziano, Layla. In un video messaggio alla madre di Regeni, Paola Deffendi, ha fatto suo il dolore per il ricercatore italiano e ringraziato per l’attenzione che la famiglia ha attirato sui casi di migliaia di egiziani scomparsi nel silenzio. Oggi quel parallelo lo vede anche la voce del governo egiziano, il quotidiano al-Ahram. In un editoriale di domenica, il direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam avverte del pericolo che Il Cairo corre, molto simile a quello che sei anni fa portò alla caduta di Mubarak: il caso Regeni ha le stesse potenzialità distruttive per il governo egiziano del caso di Khaled Said.

Nel giugno 2010 il giovane era stato pestato a morte ad Alessandria dalla polizia. La foto del suo corpo martoriato è stata resa pubblica, visualizzazione fisica dell’atrocità del regime (esattamente come la famiglia Regeni ha promesso di fare se la verità non verrà a galla) ed è diventata il simbolo della rabbia del popolo egiziano, di attivisti e giovani che hanno lanciato campagne online e per le strade. Un’escalation che sei mesi dopo ha trovato il suo sbocco in Piazza Tahrir. Per questo Khaled è considerato il primo martire della rivoluzione, il sasso che ha generato la valanga sotto cui è sparito Mubarak.
Abdel-Hadi Allam ne è convinto: il "sasso" Regeni, scomparso proprio nell’anniversario della rivoluzione, può avere lo stesso effetto sul presidente-golpista al-Sisi. Domenica ha avvertito i vertici dello Stato, colpevoli di non aver afferrato la gravità della situazione: «Il caso di Said non andò come molti all’epoca si aspettavano - scrive il direttore di al-Ahram, nominanato dall’esecutivo come i predecessori - La storia naive sulla morte di Regeni ha danneggiato l’Egitto all’esterno e all’interno e ha offerto la giustificazione per paragonare quello che avviene oggi nel paese con quello che avveniva prima del 25 gennaio 2011».
Un regime dittatoriale, uno Stato di polizia che al-Ahram - il più diffuso quotidiano della regione - dalle sue colonne descrive con prudenza: riporta notizie di sparizioni e torture (soprattutto nel corso dell’ultimo anno, pubblicando reportage sulle condizioni delle carceri e le campagne degli attivisti anti-governativi) ma le controbilancia con le voci governative che negano una repressione che è strutturale, istituzionalizzata. Stavolta però si gioca fuori casa: annunciate i risultati dell’inchiesta con trasparenza, scrive Abdel-Hadi Allam, o metterete in serio pericolo le relazioni con l’Italia, il cui governo ha dimostrato dalla prima ora l’apprezzamento per la piega presa dal Cairo di al-Sisi.
Il fatto che simili parole - «ricerca della verità», «storia naive» – siano pronunciate da un giornale di proprietà dello Stato lascia il re nudo: «Alcuni funzionari che non capiscono il valore della verità pongono lo Stato egiziano in una situazione imbarazzante ed estremamente grave. Chiediamo allo Stato di affrontare il caso con la massima serietà e portare di fronte alla giustizia i colpevoli. Quelli che non colgono il pericolo per le relazioni tra Egitto e Italia stanno spingendo verso una rottura dei rapporti diplomatici».
Il governo non pare avere il polso della situazione, con un’opinione pubblica ormai ampiamente schierata contro le posizioni dei vertici. Che continuano a rilasciare dichiarazioni per poi rimangiarsele. La strategia del "avete capito male", però, non dà i risultati sperati. Dopo giorni di rimpalli tra Ministeri degli Esteri e degli Interni, domenica a negare di aver mai attribuito la responsabilità della morte di Giulio alla fantomatica banda criminale è stato lo stesso dicastero responsabile della polizia. Quel Ministero degli Interni che aveva pubblicato le foto di un vassoio d’argento con su i documenti di Regeni, dicendo di averli trovati in casa della sorella del capo banda, Tareq Abdel Fattah, domenica ha negato durante la trasmissione tv al-Haya al Youm di aver mai detto che la gang avesse ucciso il giovane.
La televisione resta il luogo preferito per esporre teorie e opinioni. Come successo in passato, c’è chi torna sulla versione del complotto internazionale ordito dai Fratelli Musulmani: Rifaat el-Said, esponente del Partito dell’Unione di Sinistra, sul canale Al-Assema ha "identificato" Regeni come «agente di un apparato italiano» e posto il dubbio che la Fratellanza «possa essersi infiltrata negli apparati egiziani per mettere l’Egitto in crisi». Resta ancora in silenzio il parlamento, ora su indicazione del presidente della Camera dei Rappresentanti: ieri Ali Abdel Aal ha ordinato ai parlamentari di non trattare il caso Regeni durante le sedute pubbliche.
«Vista da quassù l’Unione Europea non è mai sembrata tanto fragile, esposta alla minaccia di un infarto nel sistema di libertà materiali che restano il suo più grande successo e la sua legittimazione».

Corriere della Sera, 4 Aprile 2016 (m.p.r.).

A quasi 1.400 metri di altezza, il varco di frontiera del Brennero non è mai apparso un ingranaggio così delicato. Un controllo di pochi secondi sui mezzi che varcano la frontiera fra Italia e Austria può produrre un ingorgo infernale. Da metà aprile questo ingranaggio da oltre tremila veicoli l’ora in viaggio da Sud a Nord sembra destinato a incepparsi a causa dei controlli di Vienna contro l’ingresso di profughi e migranti. Scontri fra centri sociali e polizia austriaca.

Una donna con una pettorina gialla, la sua voce coperta dal frastuono del traffico, fa segno di non fermarsi. Bisogna correre, ogni secondo perduto in questo luogo è pericoloso. A quasi 1.400 metri di altezza fra le cime imbiancate dalla neve ritardataria di quest’anno, il varco di frontiera del Brennero non è mai apparso un ingranaggio così delicato. E vista da quassù l’Unione Europea non è mai sembrata tanto fragile, esposta alla minaccia di un infarto nel sistema di libertà materiali che restano il suo più grande successo e la sua legittimazione.

Un controllo di pochi secondi su ciascuno dei mezzi che varcano la frontiera fra l’Italia e l’Austria, moltiplicato per la dimensione del commercio fra le maggiori economie manifatturiere d’Europa, può produrre un ingorgo infernale. La donna in piedi sulla linea di frontiera porta sulla pettorina gialla la scritta «Ödw Security», un’azienda viennese che a contratto fornisce sistemi di sicurezza e vigilanza privata al servizio delle autorità austriache. Varcato il confine, superata la prima galleria, i Tir provenienti dall’Italia sono tenuti a uscire dall’autostrada A22 verso uno spiazzo sulla destra: in quel percorso viaggiano a velocità ridotta per poche centinaia di metri sotto gli occhi della donna in pettorina gialla, ma in pochi vengono realmente fermati. Funziona così, per il momento.

Da metà aprile questo ingranaggio da oltre tremila veicoli l’ora in viaggio da Sud a Nord, quasi uno al secondo, sembra destinato a incepparsi. A Vienna il governo di grande coalizione fra socialdemocratici e popolari e il governatore del Tirolo, Günther Platter, hanno annunciato che il confine con l’Italia verrà gestito un po’ come Vienna ha già fatto con i Paesi dei Balcani: barriere e verifiche capillari. L’insistenza con la quale questa promessa torna ormai ogni giorno è tale che non resterebbe molto della credibilità del governo, se il progetto venisse ancora una volta rinviato. Il 24 aprile gli austriaci vanno alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali e il candidato della Fpoe, il partito nazionalista anti-migranti, per ora è così forte nei sondaggi da poter tenere fuori dal ballottaggio tanto i popolari che i socialdemocratici. Il margine di manovra del premier Werner Faymann non è mai stato così limitato, dopo che l’anno scorso quasi 700 mila stranieri hanno attraversato il suo piccolo Paese e 200 mila sono rimasti.

Non che i timori degli austriaci per i prossimi mesi siano infondati. Da Roma il ministero dell’Interno, informalmente, stima che dalla tarda primavera ogni giorno cercheranno di varcare questo confine fra 2.500 e 3.000 stranieri senza permesso. E nelle riunioni riservate con i responsabili italiani dello snodo del Brennero, i rappresentanti austriaci hanno già illustrato le contromisure che pensano di far scattare al più tardi il 20 aprile: per le auto un vero e proprio posto di frontiera edificato in mezzo all’autostrada, con tanto di casamatta all’uscita della prima galleria in territorio austriaco; per il trasporto pesante, lo spiazzo a destra dove oggi si muove da sola l’addetta in pettorina gialla.

L’attrezzatura c’è già ed è in funzione: lungo la deviazione è stato montato uno scanner termico in grado di segnalare il calore del corpo di eventuali clandestini nascosti nei container. Un sistema simile funziona anche a Calais. Sul Brennero per il momento i controlli stanno procedendo a campione, in attesa di espandersi fra qualche settimana.

Il solo dettaglio che né il governo austriaco né quello italiano sono in grado di fornire riguarda le conseguenze per quella che fino ieri è stata la vita di milioni di europei. Anche solo un controllo di pochi secondi su ciascun mezzo di trasporto può renderla impossibile. Dal Brennero passano 40 mila mezzi al giorno in momenti normali, il doppio nelle fasi di grande traffico. Questa è l’arteria lungo la quale corre la gran parte dei 50 miliardi di euro di export italiano verso la Germania, il principale cliente del Paese. Fra le 5 di mattina e le 10 di sera di una giornata tranquilla attraversa questa frontiera da Sud un Tir ogni sette secondi e anche un minimo intralcio può allungare code di molti chilometri.

L’algebra del commercio nel cuore d’Europa sembra dunque del tutto incompatibile con i numeri dei sondaggi politici austriaci. Elmar Morandell, il titolare di una ditta di autotrasporto di Bolzano, stima che un’ora passata in più da un camionista sulla strada verso la Germania porti almeno 280 euro di oneri supplementari. La chiusura prevista da Vienna può costare almeno un milione di euro al giorno all’intero made in Italy, se i tempi di trasporto fra il Veneto e la Baviera si allungassero anche solo di mezz’ora per ogni convoglio.

Del resto, nessuno ha mai costruito l’Unione Europea e la sua moneta nell’idea di farle passare in uno scanner termico.

«Tra i membri del comitato sulla sicurezza ambientale sulle licenze offshore spunta la Marina militare. Incaricato ne è addirittura il sottocapo di Stato maggiore. Cosa ci fa un simile alto papavero in una struttura con compiti assolutamente civili».

Il manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Il mare non bagna Tempa Rossa, il pozzo di coltivazione che sorge nell’alta Valle del Sauro, in Basilicata, ma tanti altri pozzi dello stesso tipo potrebbero sorgere all’orizzonte. La legge che dovrebbe vegliare sul non ripetersi di gravi danni ambientali in relazione all’estrazione di idrocarburi a mare esiste da appena sette mesi ed è stata fortemente voluta dall’Europa. Ma gli ambientalisti contestano il modo con cui il governo Renzi, con legge delega, ha recepito la direttiva europea nel settembre scorso.

La legge è nata per tutelare il mare da gravi rischi ambientali, ma nella sua traduzione italiana risulta incongruente con le indicazioni europee, viziata di conflitto di interessi, inficiata da un indebito interventismo del ministero dello Sviluppo economico fino alla scorsa settimana guidato da Federica Guidi, con tutte le sue relazioni familiari e politiche, tanto da sollevare pesanti interrogativi alla luce dell’ingerenza della lobby petrolifera che l’inchiesta della procura di Potenza sta iniziando a delineare.

Legambiente ha già avviato le procedure per impugnare la normativa per il rilascio di nuove licenze (la numero 145/2015) in sede comunitaria e sta valutando se presentare anche un ricorso all’Alta corte per incostituzionalità. Andiamo per gradi.

All’inizio fu il disastro della piattaforma offshore della Bp nel Golfo del Messico, una catastrofe che mise il mondo in allarme e non solo dal punto di vista dei possibili danni all’ambiente ma anche sui costi delle bonifiche e sulla capacità degli Stati di farli pagare alle compagnie estrattive. Era il 2010, la Commissione Ue impiegò tre anni per redigere una direttiva severa in materia per tutti i mari, ampiamente trivellati ormai, che circondano il vecchio continente.

Mentre in Italia le lobby estrattive scalpitavano, a cominciare dai francesi del consorzio Vega, per riprendere e in modo massiccio le trivellazioni offshore anche davanti alle nostre coste così parche di giacimenti di una certa consistenza. Ma con un piatto ricco di agevolazioni statali all’investimento privato nel settore.

E la normativa alla fine è arrivata, redatta dal governo, delegato dal Parlamento, con largo anticipo sul termine ultimo fissato dall’Europa al prossimo 19 luglio. Ma del tutto stravolta rispetto alla prescrizione fondamentale della direttiva 30/2013, che era quella di assicurare l’indipendenza dell’autorità di controllo sulla solidità gestionale, tecnica e finanziaria degli operatori, autorità che non avrebbe dovuto confondersi con l’ente statale erogatore della licenza di estrazione (l’articolo 3 della direttiva per una volta obbliga tutti gli Stati Ue, esplicitamente, a evitare «conflitti d’interessi»).

Invece l’articolo 8 della legge di recepimento italiana istituisce come autorità di controllo un fantomatico comitato che ha persino sede presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise), lo stesso ministero responsabile della concessione delle licenze, che ne fa anche parte ai massimi livelli, e risulta dunque controllore di se stesso. Non solo.

Come per magia tra i membri del comitato sulla sicurezza ambientale sulle licenze offshore spunta, a fianco di capitanerie di porto e guardia costiera, la Marina militare. Incaricato ne è addirittura il sottocapo di Stato maggiore. Cosa ci fa un simile alto papavero in una struttura con compiti assolutamente civili e casomai ispettivi? Un’anomalia a livello europeo, dove nessun altro stato ha fatto una scelta tanto bizzarra. In Senato infatti la scelta è stata aspramente contestata nel parere della commissione mista Ambiente-Industria.

«Sappiamo ancora poco dell’inchiesta potentina - dice Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente - ma le intercettazioni e il coinvolgimento del capo di Stato maggiore della Marina De Giorgi fanno sorgere il sospetto che continui a esserci una forte pressione anche sulla legislazione da parte dell’industria estrattiva. Attendiamo gli sviluppi e maggiori informazioni ma è chiaro che questi possibili legami riaprono il dibattito anche su questa legge».

Un'analisi lucidissima ed impietosa del nostro premier e di ciò che svela la sua comunicazione, pronunciata da un prestigioso intellettuale che ci osserva dall'altra parte dell'Atlantico. La voce di New York, online, 31 marzo 2016 (m.p.g.)

Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.

Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.

Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.

Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa.

In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.

Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.

Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzatura, teorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile.

Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo.
Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.

P.S. È giusto precisare che ad accorgersi della gaffe di Renzi non furono gli argentini e neppure El País bensì Miru e Sten sul canale YouTube “Mia sorella”. Solo dopo la loro segnalazione i giornali di tutto il mondo diedero risalto alla superficialità del premier italiano.

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