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». Il manifesto, 28aprile 2016 (c.m.c.)

Ci risiamo, per l’ennesima volta. La Grecia stretta in un angolo, con le richieste dei falchi – ad iniziare dall’Fmi e da Schauble – che non si accontentano e chiedono continuamente tagli, in un eterno presente che pare impossibile lasciarsi alle spalle. Nel ben noto gioco di ruoli, questa volta la parte del cattivo la sta giocando il Fondo monetario internazionale, che richiede l’approvazione, da parte del parlamento greco, di misure preventive per un ammontare di 3,6 miliardi di euro. Dovrebbero entrare in vigore nel caso i tagli accettati sinora da Atene si dovessero dimostrare troppo «buoni», non abbastanza efficaci.

E ovviamente si sono subito posti due problemi, uno di natura formale ed uno assolutamente pratico. Da una parte, la legislazione ellenica non prevede che il parlamento possa legiferare su misure «eventualmente applicabili in futuro», ma solo su questioni di natura certa. Anche perché, rispetto alle clausole di salvaguardia italiane c’è una sostanziale differenza: nel caso del governo Tsipras, non gli si permette di includere le misure «di garanzia» all’interno di una finanziaria, ma si chiede una legge ad hoc.

In più, dal punto di vista dei cittadini, tartassati da cinque anni di austerità senza limiti, queste nuove misure richieste dal Fondo monetario – se dovessero venire applicate – porterebbero a nuovi tagli di stipendi e pensioni per una percentuale intorno all’8% del loro ammontare totale, e all’ulteriore innalzamento delle aliquote Iva. Obbligando a chiudere, per esempio, anche le case editrici che finora erano riuscite, tra mille sacrifici, a resistere alla crisi. Il governo di Syriza propone un meccanismo che controbilanci automaticamente eventuali minori introiti per le casse dello Stato, ma chiede di salvaguardare le classi sociali più deboli e di non dover presentare in parlamento, ovviamente, la legge richiesta dai creditori.

Il premier Alexis Tsipras, constatato che le trattative con i creditori si sono arenate, ha chiesto la convocazione di un vertice europeo straordinario per discutere della situazione e riuscire a trovare una via d’uscita politica. La decisione definitiva al riguardo dovrebbe essere presa oggi, ma la posizione del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, non sembra delle più incoraggianti: i suoi collaboratori hanno lasciato trapelare che la soluzione deve essere trovata solo ed esclusivamente all’interno dell’Eurogruppo. Quello in programma per oggi, ovviamente, è stato annullato e l’ulteriore perdita di tempo può andare solo a discapito della Grecia.

Il presidente del gruppo dei socialisti e democratici all’Europarlamento, Gianni Pittella, si è schierato apertamente a favore di Atene, chiedendo di non strangolare la Grecia, e di non chiederle di adottare misure supplementari. Lo stesso Juncker, secondo la stampa greca, parlando al collegio dei Commissari, sembra aver definito irragionevoli e anticostituzionali le misure ex ante, richieste alla Grecia.

Pare essere una prima presa di posizione contro l’asse del rigore assoluto, quella costruita da Berlino e dall’Fmi con sede a Washington. Ma è chiaro che a questo punto sono più che necessari degli interventi chiari, di sostegno energico e visibile, sia da Parigi che da Roma, se si vuole sperare ancora che qualcosa possa cambiare. Altrimenti, entro fine maggio Atene potrebbe avere nuovamente problemi di liquidità e il pagamento di pensioni e stipendi sarebbe ancora una volta a rischio, come avvenne nel giugno del 2015.

Non bisogna essere particolarmente malevoli per ricordare che proprio poche settimane fa, WikiLeaks aveva diffuso il contenuto di una lunga teleconferenza tra Poul Thomsen, a capo del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, la rigidissima Delia Velculescu – che lo rappresenta ai colloqui con il governo greco – e un’altra responsabile dell’Fmi. Nel colloquio in questione si faceva chiaramente riferimento alla possibilità di portare nuovamente il paese al collasso economico, viste anche le resistenze del governo di Syriza ad accettare i diktat neoliberistici.

Tutto ciò, in un paese che continua ad ospitare più di 50.000 migranti e profughi arrivati negli ultimi mesi, sopportando un peso pratico ed economico enorme. E che malgrado le difficoltà non ha chiuso le proprie frontiere, come ha fatto, invece, l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia e sta minacciando di fare, ora, anche l’Austria. Atene spera che si esca dall’impasse, per arrivare alla conclusione della trattativa e passare, così, alla delicatissima fase che dovrà riguardare l’alleggerimento del debito pubblico greco. Più i giorni e le settimane passano a vuoto, e più l’economia greca non riuscirà a riprendersi, con il solito circolo vizioso: consumi al minimo, alta disoccupazione, minori entrate per lo Stato e richiesta di ulteriori tagli dai creditori.

I falchi del rigore sembrano non aver imparato assolutamente nulla in tutti questi anni. E forse non hanno neanche capito la cosa più importante: che in Grecia, per loro, non ci sono comode alternative politiche. Un eventuale governo conservatore, o anche di larghe intese, non riuscirebbe mai a portare avanti i nuovi piani lacrime e sangue voluti da Fmi e ultraliberisti.

«Con l’aumento dei flussi scatta lo stato d’emergenza che bloccherà gli arrivi e rispedirà i profughi nei Paesi confinantiIl manifesto, 28aprile 2016 (c.m.c.)

Davanti al parlamento austriaco bambole stese per terra, simboleggiano le tante donne, uomini e bambini che la fortezza Europa ogni giorno condanna a morire. Le hanno portate lì insieme a bandiere rosse la Vsstöe e JG, le due maggiori organizzazioni giovanili socialiste furiose col loro partito, ultima di una valanghe di proteste contro il giro di vita del diritto d’asilo.

A Salisburgo gli attivisti del coordinamento per i diritti umani diritto si sono stesi sulla riva del fiume Salzach, ciascuno sotto un lenzuolo bianco. «Più si blinda, più morti si producono». Ma la logica del muro e della presunta emergenza immigrati non si ferma. Ieri sera il parlamento austriaco ha approvato il discusso pacchetto di emendamenti del diritto d’asilo. Durante le votazioni dalla galleria sono volati migliaia di volantini degli studenti del Vsstöe: «Non passate sopra i cadaveri, non è questo che vi farà rimanere a galla». La legge è passato con i voti dei partiti della coalizione di governo, socialdemocratici Spoe e popolari (Oevp) e il minuscolo Team Stronach. Verdi , Neos e quattro parlamentari Spoe contrari.

La xenofoba Fpoe che queste nuove misure ha sempre volute e propugnate, non contenta ha votato contro. Evidentemente ha già spostato la barra più in avanti. «E’ una legge placebo che ha solo un nuovo abito, a leggi già esistenti sono state aggiunte modifiche minimali» ha accusato Gernot Darmann del partito di H.C. Strache e della nuova star Norbert Hofer. Già adesso l’Austria sarebbe circondata da paesi terzi sicuri e quindi secondo le regole europee non avrebbe nessun obbligo di trattare domande d’asilo, ha ribadito il deputato di estrema destra. Cosa è cambiato? Intanto la nuova legge introduce l’asilo a tempo, che sarà dunque di tre anni e non più illimitato.

Dopo tre anni le condizioni del paese di provenienza verranno verificate per decidere se le ragioni d’asilo sussistono ancora. Può quindi scadere o a questo punto diventare illimitato. Una misura molto criticato dall’AMS, ufficio di collocamento lavoro perché mette una forte ipoteca sui programmi di integrazione e formazione appositamente approntati per il collocamento di rifugiati. Più difficile anche il ricongiungimento familiare, chi ha solo un permesso umanitario deve aspettare addirittura tre anni, e avere condizioni economiche adatte a mantenere la famiglia. Ma la parte più grave del pacchetto è il decreto che autorizza il governo di proclamare lo stato di emergenza per la ‘tutela della sicurezza e l’ordine pubblico’, una condizione particolare che permette di aggirare il diritto d’asilo.

Così un rifugiato che si presentasse al confine austriaco potrà essere respinto e rimandato indietro. Solo chi ce lo fa a trovarsi dentro il paese potrà chiedere asilo, cosa sempre più difficile visto i muri che crescono dal Brennero fino al confine orientale con la Ungheria. «Bisogna avere una visione complessiva del problema, voi lo riducete alla costruzione dei muri» ha detto Eva Glawischnig capogruppo dei Verdi accusando l’abolizione di fatto del diritto d’asilo e la violazione della costituzione «che non reggerà davanti alla Corte costituzionale».

Le forti critiche che hanno accompagnato l’iter della legge «Faymann sei Orban» si è beccato il cancelliere al congresso Spoe di Vienna, hanno costretto il governo di attenuarne alcuni aspetti, soprattutto anche la valenza temporale dell’emergenza, limitata a 6 mesi, prolungabile fino a due anni. Lo stato di emergenza però non c’è lo ha ammesso persino il cancelliere Faymann, si tratta di una misura preventiva, come quella della costruzione dei muri ai confini, nel caso si verificasse un afflusso eccezionale, perché non si ripeta l’esperienza dell’anno scorso quando decine di migliaia di rifugiati passavano i confini, incontrollati. Mesi di grazia. In quell’occasione ha dichiarato Norbert Hofer possibile futuro presidente dell’Austria lui avrebbe dimissionato il governo perché non ha tutelato gli austriaci.
Più di cinquanta grandi organizzazioni chiamate ad esaminarla hanno espresso un giudizio negativo sulla legge, dall’Unhcr alla conferenza dei vescovi, alla camera degli avvocati, l’istituto Ludwig Boltzmann per i diritti umani molte regioni e città, intere università oltre alla vasta galassia di associazioni e Ong. Unico giudizio positivo è venuto inaspettatamente dall’Oegb, la centrale sindacale austriaca e dalla camera del lavoro.
«Gli attacchi ai giudici sono elementi costitutivi di una riscrittura della democrazia che vuole accentrare i poteri nell’esecutivo».

Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2016 (p.d.)

Non c’è nulla di stupefacente nell’attacco che ancora una volta viene lanciato, dal governo e da un gran numero di politici, alla magistratura italiana e in particolare alle parole di Piercamillo Davigo. Né il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati dovrebbe preoccuparsene oltre misura: il suo compito è di rappresentare il potere giudiziario, quindi di dare a tale rappresentanza una voce, che per forza di cose non si esprime solo nelle sentenze.

Non c'è nulla di stupefacente perché l’invettiva del presidente del Consiglio contro “25 anni di autentica barbarie legata al giustizialismo”, così come l’appello dell’ex presidente Napolitano a una riforma delle intercettazioni e a una “cooperazione” tra giustizia e politica che metta fine a presenti e passati conflitti, non sono affermazioni che cadono dal cielo. Sono gli elementi costitutivi di una riscrittura della democrazia costituzionale che sta avvenendo in numerosi Stati dell’Unione europea, che in Italia è perseguita da decenni e che non si limita a circoscrivere e svuotare l’indipendenza del potere giudiziario. L’obiettivo che si persegue,in questi Stati e nelle stesse istituzioni europee, è di accentrare i poteri nell’esecutivo e di declassare ogni potere suscettibile di frenare l’estensione dell’autorità centrale. Di qui il depotenziamento più o meno subdolo dei poteri giudiziari, di quelli parlamentari, e al tempo stesso di una serie di organi intermedi: sindacati, partiti, organizzazioni imprenditoriali e professionali, enti locali sovracomunali come le province.

Giuseppe de Rita ha descritto molto bene quel che si vuole ottenere attraverso simili esautoramenti con leggi e riforme costituzionali: “I politici, che hanno voluto la disintermediazione, si trovano circondati, premuti, circuiti, qualche volta addirittura ricattati, da gruppetti (da ‘quartierini’) di un avventuroso lobbismo” (Corriere dellaSera, 14.4.16).Le istituzioni europee tendono a favorire quest’accentramento e questa disintermediazione anche a livello comunitario. Nella famosa lettera cheTrichet eDraghi spedirono al governo italiano nel 2011, non si esitò ad attribuire alla Bce un compito costituente che nessuno le ha mai conferito e si chiese proprio questo: una riforma costituzionale he iscrivesse il Fiscal Compact nella nostra Carta e “abolisse o fondesse alcuni strati amministrativi intermedi come le Province”.

Non a caso Jürgen Habermas denuncia il degrado democratico dell’Unione europea, dandogli il nome di “federalismo degli esecutivi”.

Parlare di conflitto giustizia-politica fa dunque tutt’uno con il referendum sulla riforma costituzionale, con la diminuita rappresentanza locale del futuro Senato e con la più generale offensiva contro gli organi intermedi della società. L’oscuro oggetto del disgusto provato da molti politici non è il conflitto, da abolire in nome della “cooperazione”, ma la dialettica stessa tra i poteri e la loro netta separazione. È il motivo per cui mi preoccuperei anch’io,come Davigo, se tale conflitto non esistesse. Non mi stupisce nemmeno che le sue parole siano manipolate e deturpate, in modo tale che i cittadini possano meglio confondersi quando lo sentono parlare e non comprendere i suoi argomenti. Si dice ad esempio che il presidente dell’Anm ha denunciato i politici corrotti per poi “frenare”e far marcia indietro: cosa palesemente falsa, perché ovviamente le sue parole erano rivolte ai “politici che rubano”. Se avesse voluto accusare tutti, anche i politici onesti,davvero non ci sarebbe più bisogno d’indagini e processi.

Indagini e processi sono utili proprio perché mostrano che esiste una differenza tra chi ruba e chi no. In un certo senso, si fa giustizia per proteggere l’innocenza. Idem per gli altri argomenti discussi in questi giorni:tra cui le intercettazioni e la presunzione di innocenza.

Intercettazioni. Dovrebbe essere noto a chi governa e a chi riforma la giustizia italiana che esiste una vasta giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in difesa della libertà di stampa, e che il giornalista ha il diritto di pubblicare notizie se le ritiene non solo penalmente, ma anche moralmente rilevanti. Il dibattito italiano è inoltre incredibilmente vecchio in materia. Si accusa continuamente il “circo mediatico-giudiziario", fingendo di ignorare fenomeni come quelli dei whistle blower (ostinatamente chiamati talpe o spie sui nostri giornali) o di Wikileaks. A ciò si aggiunga che in Italia già esistono norme sulla diffamazione e la violazione della privacy.

Presunzione d’innocenza.Viene continuamente e giustamente invocata, ma nell’esclusiva speranza che il politico condannato in primo grado sia prosciolto nel secondo o nel terzo, magari tramite la prescrizione. I tre gradi di giudizio sono un’anomalia tutta italiana, che naturalmente facilita le prescrizioni facili. Il politico condannato in primo grado dovrebbe lasciare le cariche che ricopre sin da quando è sospettato di non adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore (art. 54 della Costituzione). Tantopiù deve farlo se condannato in primo grado.

Se così stanno le cose, sarebbe l’ora di rivolgere l’accusa di giustizialismo ad altri soggetti, sempre che si abbia a cuore l’uso della logica nell’informazione dei cittadini. I veri “giustizialisti” sono i politici specializzati nel lamentare il conflitto con la giustizia. Sono loro a far dipendere le proprie carriere, le proprie cariche, il proprio potere da tutti e tre i gradi di giudizio. Sono loro ad affidare ai magistrati e alle sentenze la selezione delle classi dirigenti. Non sarebbe male se ci spiegassero come mai, a questo punto, se ne dolgano tanto.

Il manifesto, 27 aprile 2016 (p.d.)

Diecimila minorenni. Se ne sono perse le tracce sul territorio europeo negli ultimi due anni e molti potrebbero essere finiti nelle mani di organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione. La notizia sembrerebbe inverosimile se i soggetti in questione non fossero migranti, categoria sistematicamente privata di alcuni dei diritti umani più basilari, anche dopo l’arrivo sui territori Ue.
A lanciare l’allarme sui bambini scomparsi è stata l’Europol, l’organismo di polizia a livello comunitario, che precisa che in Italia sarebbero 5mila. La questione è stata discussa giovedì scorso al Parlamento europeo durante una riunione della Commissione per le libertà civili a Bruxelles.

L’Europa si trova a far fronte a un’ondata di rifugiati senza precedenti nella sua storia recente e l’attuale impasse politica rischia di aggravare la situazione dei gruppi di migranti più vulnerabili, ovvero i più giovani. Oltre allo stress psicologico causato dalla separazione dalla propria famiglia, che avviene nel Paese di origine o in maniera accidentale nei luoghi di transito affollati come le frontiere o le stazioni ferroviarie, i bambini sono una categoria particolarmente a rischio di abusi in quanto vengono considerati dai trafficanti come veri e propri oggetti da smerciare sui mercati mondiali.

Tuttavia, non è solo il caso a far cadere i minori nelle mani dei criminali. Le condizioni di vita degradanti nei centri di accoglienza, la lunghezza insopportabile del processo burocratico per l’assegnazione dell’asilo e l’impossibilità di raggiungere il Paese europeo prescelto sono tutte ragioni che influiscono sulla scelta di molti giovani migranti di tentare la sorte e fuggire. La realtà è che esistono pochi dati certi riguardanti il destino di chi sceglie di seguire questa via. L’Ong per i diritti dei minori Save the Children stima che i bambini scomparsi in Europa siano addirittura 20mila, il doppio di quanto affermato dall’Europol.

Secondo i dati pubblicati dall’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 35% dei migranti arrivati nei territori dell’Unione Europea a partire dal primo gennaio 2016 è minorenne. Tra questi ci sono molti giovani che viaggiano senza un accompagnatore che si prenda cura di loro. Basti pensare che nel solo 2015 sono state oltre 85mila le richieste di asilo sporte da minorenni non accompagnati, una cifra triplicata rispetto al 2014. E se da un lato crescono in maniera esponenziale le cifre relative agli arrivi dei rifugiati in Europa, dall’altro aumenta anche il ricavo delle organizzazioni criminali specializzate nelle tratta di esseri umani.

L’Europol stima che il traffico di migranti clandestini abbia fruttato tra i 3 e i 6 miliardi di euro nel solo 2015. Un profitto destinato a «raddoppiare o a triplicare se la crisi dovesse proseguire nel 2016», veniva scritto in un rapporto ufficiale Europol pubblicato pochi mesi fa.

Un giro di vite contro gli scafisti e i criminali che gestiscono in maniera illegale i flussi di migranti è fondamentale, ha affermato davanti agli eurodeputati Dietrich Neumann, responsabile dei servizi corporate dell’Europol, poiché le organizzazioni che portano i migranti in Europa sono le stesse responsabili per la tratta degli esseri umani nei territori Ue. Nel database dell’agenzia finalizzata a combattere il crimine all’interno dell’Unione Europea ci sono oltre 40mila sospetti, di 100 nazionalità diverse. Tuttavia, le risorse attuali non bastano per combattere quello che, dati alla mano, è il mercato criminale con la maggiore crescita in Europa.

Non esiste ancora una proposta legislativa a livello comunitario per tentare di arginare questo fenomeno. L’incontro di giovedì scorso è servito anche a sondare il terreno per quanto riguarda le misure che possono essere adottate. Il democristiano olandese Jeroen Lenaers ha proposto di iniziare a registrare in maniera sistematica anche i migranti al di sotto dei 14 anni, cosa che al momento non avviene in Europa. Secondo Lenaers, in questo modo si eviterebbe che i minori possano scomparire del tutto dai radar dei Paesi membri dell’Ue.

Diverso invece l’approccio di Barbara Spinelli che ha puntato il dito contro i governi responsabili di trattamenti disumani nei confronti dei migranti, fattore che spinge sempre più giovani a una fuga disperata dai centri di accoglienza. In particolare, secondo Spinelli, la mancanza di cibo distribuito ai bambini è uno dei dati più preoccupanti. «A Chios a bambini di 6 mesi vengono dati 100 millilitri di latte al giorno» ha spiegato Spinelli, chiedendosi «se non sia il caso di considerare la riduzione drastica del latte dato a un neonato come una forma di tortura perseguibile come tale».

Anche Laura Ferrara, eurodeputata del Movimento 5 Stelle, ha espresso un parere critico nei confronti delle condizioni di vita nei centri di accoglienza per migranti. Secondo Ferrara, la mancanza di tutori volontari e la conseguente nomina del gestore del centro stesso come tutore temporaneo delinea un chiaro conflitto di interessi. D’altro canto, riferisce l’eurodeputata pentastellata, ci sono casi in cui un singolo tutore volontario è responsabile allo stesso tempo per 70 minori non accompagnati, il che rende «umanamente impossibile» riuscire a seguire con la dovuta attenzione ogni bambino.

Secondo numerose Ong che lavorano in questo campo, la creazione di una normativa europea comune servirebbe a permettere la condivisione delle informazioni riguardanti i minori scomparsi, consentendo dunque di allargare la ricerca di un giovane migrante scomparso a più Paesi.

Al momento invece la risoluzione del problema grava sui singoli governi, che raramente scelgono di unire i loro sforzi. Ad oggi, quindi, la certezza è una sola: l’Europa non è in grado di dire cosa sia successo a queste migliaia di bambini scomparsi sul suo territorio.

«Lo stato di salute dell’ambientalismo "altro", quello che mescola questioni sociali, di classe ed ecologiche, raccontato dal direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del Royal Institute of Technology di Stoccolma. E il libro di Ramachandra Guha

"Ambientalismi. Una storia globale dei movimenti", uscito per Linaria, che descrive gli scenari delle lotte». Il manifesto, 27 aprile 2016 (c.m.c.)

Tra il referendum fallito, lo sversamento di petrolio a Genova e l’assalto contro l’acqua pubblica, possiamo dire che non c’è da stare allegri sullo stato dell’ambiente e dell’ambientalismo in Italia. Non che questa sia una notizia: l’ambientalismo è sempre stato piuttosto debole e minoritario nel Paese. Tuttavia, la difficoltà di praticare quella che è stata definita una single issue politics, ossia un’opzione politica concentrata su una singola questione, come ad esempio quella ecologica, non è necessariamente una grana, ma al contrario può rivelarsi una opportunità. Coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale, politicizzare l’ambiente e i suoi saperi, andare oltre la narrativa della tecnologia buona che risolve i problemi e del capitalismo verde sono le fondamenta di un ambientalismo «altro» che mischia la questione ecologica e quella sociale, nella consapevolezza che, per dirla con Naomi Klein, solo una rivoluzione ci potrà salvare.

Hobby e pregiudizi
Qualche settimana fa Berta Caceres è stata assassinata in Honduras. La maggior parte della stampa italiana non ci ha fatto troppo caso, meno che mai il governo. Per la verità non abbiamo avuto neppure grandi manifestazioni di piazza. L’omicidio di Caceres non è una eccezione: dal 2002 si conta che quasi mille attivisti sono stati assassinati. Le biografie di attiviste e attivisti come Berta provano che l’ambientalismo non è affatto un hobby per signore benestanti e appassionati delle gite fuori porta. Studiosi come Rob Nixon, Joan Martinez Alier e Ramachandra Guha hanno dimostrato che il paradigma sociologico secondo il quale solo i ricchi possono permettersi il lusso di essere «ambientalisti» è in realtà una comoda retorica che serve a nascondere e minare il potenziale rivoluzionario delle coalizioni rosso-verdi.

L’idea che solo chi ha la pancia piena possa occuparsi del superfluo implica che l’ambiente sia «il superfluo», l’altrove dove spendere il weekend o le vacanze. Invece, in molti luoghi comunità indigene e gruppi subalterni si oppongono alla distruzione ambientale per difendere non una qualche natura incontaminata, ma i loro stessi mezzi di sussistenza. L’ambientalismo dei poveri fa parte di una vasta area di movimenti ecologici non mainstream come quello per la giustizia ambientale, il working class environmentalism e l’ambientalismo subalterno studiati, tra gli altri, da Robert Bullard, Stefania Barca e Laura Pulido. L’assunto di base di questo ambientalismo altro è che i poveri, le minoranze etniche, le donne, i soggetti più deboli pagano un prezzo più alto in termini di contaminazione e di esposizione ai rischi per la salute.

L’environmental justice movement (Ejm) non è particolarmente noto in Italia sia dal punto di vista storico che teorico; in altri termini, si conosce poco della sua vicenda e anche delle innovazioni teoriche che ha introdotto. In estrema sintesi, l’Ejm è nato dentro le comunità afro-americane come reazione a quello che è stato definito razzismo ambientale, ovvero la sistematica selezione di comunità nere, o comunque subalterne, per la localizzazione di infrastrutture dannose per la salute e l’ambiente – e le cose, ovviamente, sono collegate. A cominciare dalla battaglia contro una immane discarica di rifiuti tossici nella comunità nera di Afton in North Carolina negli anni Ottanta, negli Usa è maturato un movimento ambientalista subalterno che ha cambiato per sempre il volto dell’ambientalismo.

Nel 1991 si teneva a Washington DC il primo summit dell’Ejm che produceva un dirompente manifesto nel quale si sistematizzavano i principi del nuovo movimento, che intanto aveva chiamato in causa le associazioni ambientaliste mainstream con una lettera che non risparmiava critiche al razzismo e classismo di quel tipo di concezione della natura. Per uno studioso italiano, seppure emigrato da tempo come il sottoscritto, colpisce il protagonismo delle università e di singoli accademici nella nascita e sviluppo dell’Ejm. A volte sembra più semplice essere «radical» nel cuore dell’impero che non nelle sue tristi periferie.

No Tav e priorità
Non c’è dubbio che negli ultimi anni le lotte per la giustizia ambientale in Italia si siano moltiplicate in una miriade di vertenze territoriali. Un prezioso punto di partenza è l’Atlante dei conflitti ambientali in Italia prodotto dal Centro di documentazione omonimo, che restituisce un quadro dinamico proprio di quelle battaglie dal basso che hanno ridisegnato la cultura e la pratica dell’ecologismo militante. Ripensare quei tanti movimenti come esperienze di lotta per la giustizia ambientale significa fornire un armamentario teorico di critica e mobilitazione e provare a cercare un minimo comune denominatore che possa superare la frammentazione che caratterizza questa stagione di ribellioni.

Il movimento No Tav, ad esempio, è forse una delle esperienze di ambientalismo popolare più longeva e radicata. In Val di Susa si contesta un modello di sviluppo basato sulla velocità delle merci, una idea gerarchica degli spazi che collega solo i centri principali, si difende il paesaggio e la salute delle persone, si contesta la stessa utilità di quell’opera e si propongono lavori pubblici alternativi, basati su valori e priorità diverse. Che la Val di Susa sia piuttosto allergica a chiusure Nimby (la sindrome «non nel mio giardino») lo si registra facilmente considerando la centralità del movimento No Tav in tutti i tentativi di costruire una rete nazionale di solidarietà con tutte le realtà in lotta.

In Campania comunità marginali, con un basso reddito, già duramente provate da problemi ambientali e sociali sono diventate le discariche legali e illegali della metropoli tanto nazionale – il polo industriale del Nord – che regionale – Napoli. Queste comunità hanno dovuto opporsi sia al piano governativo-imprenditoriale di gestione dei rifiuti, contestando la logica dell’inceneritore e delle megadiscariche, sia al costante tentativo di silenziamento del lento biocidio effettuato attraverso lo sversamento di rifiuti tossici nella regione. Anzi la categoria stessa di biocidio è il frutto originale di una elaborazione collettiva delle compagne e dei compagni dei movimenti campani. È grazie all’attivismo di quei comitati che oggi l’attenzione dell’opinione pubblica è finalmente passata dalla questione dei rifiuti solidi urbani alla ben più complessa vicenda di quelli tossici che chiama in causa l’intero sistema produttivo e di controllo del paese.

L’agorà partenopea
Ai primi di marzo proprio un gruppo di ricerca internazionale sulla ecologia politica insieme a realtà di lotta come il centro sociale Insurgentia ha promosso a Napoli una agorà dei movimenti per la giustizia ambientale: una cinquantina di rappresentanti di gruppi impegnati in diverse vertenze territoriali si sono confrontati tra loro e con ricercatori per condividere pratiche di lotta e proposte. All’agorà hanno partecipato anche due rappresentanti del movimento curdo che hanno illustrato l’esperienza ecosocialista nella pratica dei cantoni liberati e nell’elaborazione teorica di Ocalan. Una partecipazione quella curda frutto di una ormai consolidata relazione tra una parte importante dei movimenti campani con le organizzazioni curde, che ha portato l’amministrazione De Magistris a concedere la cittadinanza onoraria a Ocalan.

Ovviamente non avendo incendiato nessuna automobile, l’agorà napoletana non è riuscita a bucare il muro di gomma del sistema dell’informazione. È tempo che un nuovo spettro si riprenda le strade. E chi deve averne paura, che ne abbia.

Il manifesto, 27 aprile 2016 (p.d.)

Presso la stazione ferroviaria di Liverpool Street, nell’East End londinese, da qualche anno sorge un piccolo memoriale in bronzo dell’artista Frank Meisler: cinque figure di bimbi con rispettivi bagagli, appena scesi dal treno e in attesa di qualcuno che li accolga. Sono i bambini del Kindertransport, il programma di evacuazione nel Regno Unito dei figli di famiglie ebree vittime della Shoah provenienti dal Reich organizzato da Sir Nicholas Swinton, lo Schindler britannico.
Tra loro vi era un piccolo cecoslovacco di 6 anni, Alfred Dubs. Che oggi è un Lord laburista responsabile delle politiche d’immigrazione e che si è fatto promotore di un emendamento all’Immigration bill discusso ai Comuni lunedì. L’emendamento, bipartisan e votato dalla camera alta, avrebbe costretto il governo a farsi carico di 3000 bambini siriani non accompagnati sparsi per i campi profughi d’Europa. Ma è stato sconfitto per un pugno di voti, 294 a 276, dopo una giornata di forti pressioni disciplinari esercitate dai capigruppo tory per sedare fastidiosi sussulti d’umanità nei deputati le cui coscienze rifiutavano di ammutolire in nome della realpolitik: in molti, piuttosto che votare contro il proprio partito, si sono astenuti.

La giustificazione del governo e dal ministro dell’interno Theresa May, è ormai ben nota ed è la medesima addotta per accelerare l’abbandono dell’operazione di soccorso nel Mediterraneo Mare Nostrum: entrambe avrebbero incoraggiato il cosiddetto «fattore di attrazione» (pull factor) alle percentuali di persone che scelgono di intraprendere il proprio viaggio verso una vita più umana. Ma arriva dopo una serie di contorsioni sull’argomento, tra cui l’annuncio, la scorsa settimana, che il governo avrebbe accolto 3000 bambini provenienti da campi profughi in Medio Oriente e non in Europa, nel tentativo, evidentemente poi riuscito, di dare un contentino alle coscienze più lacerate tra le sue file.

James Brokenshire, ministro per la sicurezza e l’immigrazione, ha detto che ogni risposta alla crisi «deve fare attenzione a non creare inavvertitamente una situazione in cui le famiglie trovino vantaggioso mandare avanti i bambini da soli o nelle mani di trafficanti, mettendo le loro vite a repentaglio tentando rischiose traversate via mare verso l’Europa.»

Alla fine solo 5 deputati conservatori hanno votato a favore, tra cui Geoffrey Cox, Tania Mathias e Stephen Philips. Per far passare il diniego, il governo ha fatto ricorso a quella che i detrattori hanno definito una «tattica disperata», la norma detta del financial privilege, che consente alla camera dei comuni di “disobbedire” alle prescrizioni dei Lords qualora un emendamento venga ritenuto economicamente oneroso per il cittadino.

Dunque più di settant’anni dopo aver dato una luminosa lezione al mondo in accoglienza e umanità, e di fronte alla crisi umanitaria più grave proprio dalla seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna decide di fare il contrario: sbatte la porta in faccia a 3000 di quei 10000 bambini identificati dall’Europol come dispersi nel vecchio continente durante la fuga dagli orrori della guerra in casa propria e che già sono (o rischiano di diventare) vittime di abuso di sostanze, lavoro minorile e violenze sessuali. E per farlo, imbocca senza imbarazzo un pertugio costituzionale abbastanza meschino.

Immediata e sdegnata la reazione delle Ong e di alcuni deputati Labour e Libdem propugnatori dell’emendamento: l’esito della votazione è stato accolto con una gragnuola di «vergogna» dai banchi dell’opposizione. Per Kirsty McNeill, di Save the Children, il voto è stato «profondamente deludente», il ministro-ombra per l’immigrazione, il laburista Keir Starmer, ha promesso battaglia: «Non possiamo voltare le spalle a questi vulnerabili bambini in Europa: la storia ci giudicherà per questo. La lotta continua» ha detto ai microfoni di Bbc Radio 4.

Se al posto del governo che nel 1939 decise di dare asilo ai bambini in fuga dalla delirante violenza del terzo Reich ci fosse stato quello guidato da David Cameron, Lord Dubs non sarebbe fra noi. Forte anche di questa consapevolezza il peer laburista ha riproposto ieri l’emendamento alla camera dei Lords – dove il governo è in minoranza – in una versione più soft, senza specificare la soglia dei 3000. Il secondo tentativo è stato approvato con una maggioranza schiacciante di 107, e alcuni deputati Tory potrebbero ora approvarlo nel prossimo passaggio ai Comuni.

Una accurata analisi geopolitica, da parte di Lucio Caracciolo, della complessa situazione in cui si trova la Libia. «Soldi, non i soldati, decideranno il futuro di quel vasto spazio che una volta si chiamava Libia».

La Repubblica, 27 aprile 2016 (c.m.c.)

I soldi, non i soldati, decideranno il futuro di quel vasto spazio che una volta si chiamava Libia. E dove Fayez Al Serraj, ingegnere e politico tripolino selezionato dalla diplomazia onusiana per il suo poco ingombrante profilo a capeggiare il governo di conciliazione nazionale, sta tentando di rincollare i mille frammenti del puzzle esploso dopo la liquidazione di Gheddafi, nel 2011. Impresa quasi disperata, certo. Ma che appare l’ultima carta giocabile prima della definitiva disintegrazione del territorio, alla mercé di trafficanti, milizie e terroristi. Scenario ideale per lo Stato Islamico.

Mentre per l’Italia significherebbe confinare permanentemente a Sud con una terra di nessuno, proprio mentre i nostri partner nordici minacciano di chiuderci i valichi alpini. Un imbottigliamento geopolitico micidiale. Il successo di Serraj dipenderà dalla sua capacità di evitare che alla frammentazione territoriale segua il collasso economico. Dunque il caos totale. La Libia di Gheddafi ha fondato la sua relativa prosperità su due fattori: la ricchezza energetica e la scarsità di popolazione (attualmente stimata in cinque milioni di anime). Ciò permetteva al Colonnello di godere di un diffuso consenso, grazie alla redistribuzione, per quanto ineguale, della rendita petrolifera. E di mantenere sul proprio territorio oltre due milioni di immigrati africani, adibiti a mansioni poco attraenti per i libici.

Qualsiasi governo intenda reggere una Libia riunita, o parte di essa, deve disporre di tale rendita. Ma oggi la produzione dai campi petroliferi tripolitani e cirenaici è ridotta a circa 300 mila barili/giorno. Insieme al crollo del prezzo del greggio, questo significa che entro massimo due anni la Banca Centrale libica non avrà più i soldi per pagare gli impiegati pubblici — ovvero la maggioranza della forza lavoro locale. E soprattutto, il governo non disporrà delle risorse sufficienti per continuare a pagare le milizie che lo tengono in piedi. A quel punto, come scrive l’analista Mattia Toaldo su Die Zeit, il rischio sarebbe di riprodurre uno scenario iracheno, «quando nel 2003 centinaia di migliaia di soldati di Saddam si trovarono senza impiego, e nel giro di pochi anni si trasformarono da militari laici in combattenti dello Stato Islamico».

Ricomporre l’integrità statuale della Libia — invenzione dei colonizzatori italiani — è probabilmente utopico. Ma almeno in Tripolitania e in alcuni insediamenti del Sud-Ovest il governo Serraj, asserragliato a Tripoli, può contare sul sostegno delle principali milizie. In particolare nell’ex capitale e a Misurata — città di antica vocazione commerciale, che dispone delle brigate più efficienti in teatro. Ovviamente non si tratta di scelta ideologica ma economica: finché i miliziani incassano il soldo dal governo, bene. Un minuto dopo, gli stessi fedelissimi potrebbero assaltare le sedi delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali. A protezione di queste ultime dovrebbe essere presto schierato un contingente straniero di circa duecento uomini, di cui una cinquantina italiani. Meno plausibile la protezione internazionale dei pozzi petroliferi, che comunque dipenderà dall’improbabile richiesta esplicita del governo di Tripoli.

Fino a che punto Serraj è davvero appoggiato da europei e americani? Alla prima domanda la risposta non è univoca. L’Italia è fermamente schierata con il governo di conciliazione nazionale. L’America lo sostiene, ma senza spendersi troppo. La Gran Bretagna è impegnata con i suoi esistenziali problemi domestici e comunque è interessata soprattutto alla Cirenaica. La Francia oscilla fra le dichiarazioni di appoggio al governo tripolino e il concreto sostegno che sue unità ombra stanno offrendo al grande rivale di Serraj, il generale Khalifa Haftar. Dalla sua roccaforte di Tobruk, costui si rifiuta di scendere a patti con il rivale tripolino. Punta anzi, grazie al sostegno degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, a partire alla conquista di tutta la Cirenaica, a cominciare dai pozzi petroliferi. Come per Serraj, anche per Haftar il futuro dipende dalla conquista dei “suoi” campi petroliferi e dall’esportazione del “suo” greggio attraverso un ente petrolifero parallelo. Solo così potrebbe costruire uno Stato cirenaico, di fatto un protettorato egiziano-emiratino.

In queste ore Tobruk sta infatti cercando di esportare illegalmente 650 mila barili di greggio, ma al tanker Distya Ameya, battente bandiera indiana, è stato vietato di attraccare a Malta. Quando il denaro non si ottiene nello scambio contro merci, c’è solo un’alternativa: produrlo. Haftar è in trattative con i russi per stampare pseudo-dinari libici, creando una sua valuta parallela, con gli immaginabili rischi di inflazione.

Quanto a Serraj, il suo percorso richiede abilità di alta acrobazia. Non può infatti fare a meno del pur labile supporto euro- americano e di alcuni Paesi della regione. Ma non può nemmeno troppo esibirlo. Come il suo sfortunato predecessore Ali Zeidan (2012-14), esita a richiedere formalmente l’aiuto militare internazionale perché teme di essere bollato quale fantoccio dell’Occidente. Il quale secondo le locali teorie del complotto lo avrebbe scelto unicamente per farsene legittimare l’ennesima spedizione neocoloniale “stivali per terra”.

La sua prossima mossa, d’intesa con alcune diplomazie europee e con l’inviato dell’Onu Martin Kobler, potrebbe essere quindi di portare a Gadames, presso la frontiera con Algeria e Tunisia, almeno una quota rilevante del parlamento riconosciuto, oggi bloccato a Tobruk da Haftar, per esserne battezzato come legittimo esecutivo. Altrimenti, il fallimento sarebbe dietro l’angolo. E con esso svanirebbero le residue speranze di stabilizzare l’ex Libia.

. Il manifesto, 27 aprile 2016

È sicuro ormai che l’Europa è solo all’inizio di un processo di decomposizione politica. I segnali si moltiplicano. La vittoria dell’estrema destra in Austria, la crisi polacca, il regime di Orbán, l’affermazione dell’AdP in Germania, la chiusura delle frontiere, il referendum sul Brexit. Ma il voto con cui la Camera dei comuni inglese ha rifiutato di accogliere i 3000 bambini di Calais è qualcosa di molto più profondo e sinistro di una crisi politica continentale. È, come hanno notato i critici della decisione, di qualcosa di vergognoso.

Perché in gioco, oltre al destino migliaia di orfani, c’è un confine che le cosiddette democrazie occidentali non dovrebbero, almeno ufficialmente, varcare: il senso minimo di umanità, quello che per gli apologeti distinguerebbe la «civile» Europa dagli altri mondi.

Oddio, anche sequestrare beni ai profughi, come fanno la Danimarca e altri stati della Ue, è vergognoso, proprio come lasciarli alla deriva a Idomeni e Lesbo, o dare un po’di quattrini a Erdogan perché non ce ne mandi altri. Ma i bambini non dovrebbero essere sacri, nell’Europa cristiana, cattolica, anglicana o luterana che sia? Con il voto alla Camera dei comuni, la risposta è stata semplicemente «No!» D’altra parte, i leader della Afd tedesca non hanno forse dichiarato che è legittimo sparare ai profughi che attraversano illegalmente i confini, anche quando sono donne e bambini? Certo, i conservatori inglesi a parole non arrivano a tanto. Ma il risultato non è molto diverso.

Che fine faranno i bambini che il socialista Hollande fa marcire a Calais, tra assalti xenofobi e manganellate? Nessuno lo sa e a nessuno interessa.

La motivazione del voto inglese è sublime nella sua ipocrisia squisitamente british. Noi non li accogliamo, per dissuadere altri profughi dal chiedere asilo in Inghilterra. Con la stessa scusa, le navi militari inglesi non soccorrono più la carrette del mare dei migranti nel Mediterraneo. Ora, immaginiamo dei bambini che scampano alla morte in Siria e poi ai naufragi nell’Egeo o nel canale di Sicilia. Ebbene, qualcuno pensa che si faranno dissuadere dal passare in Europa, e magari dal raggiungere dei parenti in Inghilterra, pensando al voto della Camera dei comuni? Quando la Svizzera respinse i profughi ebrei che scappavano dalla Germania con la motivazione che «la barca piena», si macchiò della stessa vergogna, ma con meno ipocrisia.

Noi europei, dopo la Shoah, non dovremmo sorprenderci più di nulla. E nemmeno pensare che, con la sconfitta del nazismo e del fascismo, siamo al sicuro dagli stermini di massa. Migranti e profughi muoiono a migliaia per raggiungere le nostre terre benedette dalla ricchezza.

Dopo un po’ di lacrimucce sui bambini annegati sulle spiagge greche e turche, ecco che prendiamo a calci quelli che non sono annegati, o semplicemente ne ignoriamo l’esistenza. Noi europei, così civili e democratici, stiamo gettando le premesse di nuovi stermini, magari per omissione, disattenzione o idiozia. Ma per le vittime non fa nessuna differenza.

Moriamo prima, viviamo peggio. Grazie Mount Pelerin Society, grazie austerity dell' UE, e grazie soprattutto a te, Matteo Renzi. Il manifesto, 27 aprile 2016

Rapporto salute. Per la prima volta nella storia d'Italia sta calando l'aspettativa di vita degli italiani, un fatto quasi inedito nel mondo occidentale. Questa è la diagnosi del rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all'Università Cattolica di Roma. I motivi? Scarsa prevenzione e tagli della spesa sanitaria. "Siamo il fanalino di coda della prevenzione nel mondo e questo ha un peso", spiega il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Walter Ricciardi

Si muore di più. Ci si cura di meno. I motivi? Scarsa prevenzione, calo delle vaccinazioni, pochi screening oncologici e soprattutto diminuzione della spesa sanitaria. “Abbiamo avuto la più grande epidemia di mortalità della storia dall’Unità d’Italia: i 54 mila decessi in più nel 2015 rispetto all’anno precedente sono dovuti sicuramente alla popolazione vecchia, ma anche all’influenza e alle sue complicanze, e ai servizi che non riescono più a dare risposte ai cittadini. Ci sono parti del paese in cui i cittadini fanno fatica ad accedervi”.

La diagnosi del presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Walter Ricciardi, orienta la lettura del fittissimo rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all’Università Cattolica di Roma. Davanti a quest’ammassarsi di tombe e di nuovi malati, bisognerebbe almeno avere la lucidità di comprendere che le minori risorse destinate al Sistema sanitario nazionale, e la conseguente incapacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, non c’entrano nulla con l’ineluttabilità della morte ma fanno parte di una precisa strategia politica che risponde a una logica di profitto, e apre enormi spazi al settore sanitario privato.

Per la prima volta nella storia d’Italia sta calando l’aspettativa di vita degli italiani, un fenomeno che ha pochissimi precedenti nel mondo occidentale. Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è stata di 80,1 anni e per le donne di 84,7 (tre mesi in meno rispetto al 2014). E le differenze registrate nei territori sono scandalose. «Oggi i cittadini di Campania e Sicilia - spiega Ricciardi - hanno un’aspettativa di vita di quattro anni in meno rispetto a chi vive nelle Marche o in Trentino. Abbiamo perso in quindici anni i vantaggi acquisiti in quaranta. E se è vero che l’Italia ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, questo vale solo per una minoranza di italiani». Potrebbe andare diversamente? Difficile se l’Italia, come dice il rapporto, è il paese europeo che oggi spende meno per la prevenzione, e se la spesa sanitaria continuerà a diminuire come già accade dal 2010.

Le conseguenze e lo stato di salute degli italiani del resto sono state fotografate anche da un recente rapporto dell’Ocse secondo cui il 7,1% degli italiani (più di 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, le liste d’attesa troppo lunghe oppure l’ospedale troppo lontano. Il dato raddoppia nel caso in cui gli intervistati appartengano al 20% della popolazione più povera. Inoltre, segnala l’Ocse, ticket cari e liste d’attesa, spingono molti italiani a farsi curare nel privato.

I numerosi elementi di criticità sottolineati da Walter Ricciardi sono piuttosto sconfortanti. La spesa sanitaria pubblica è passata dai 112,5 miliardi di euro del 2010 ai 110,5 del 2014, una contrazione che è servita a contenere i deficit regionali ma ha coinciso con il blocco o la riduzione del personale sanitario (e dei consumi). Il dato di 1.817 euro di spesa sanitaria pro capite dice che l’Italia è tra i paesi he spendono meno. Nell’ultimo anno, per esempio, il Canada ha speso il doppio, la Germania il 68% in più e la Finlandia il 35%. Sembra che ci sia poco altro da spolpare. Nel 2014 la dotazione di posti letto negli ospedali era di 3,04 per 1000 abitanti per la componente “acuti” e di 0,58 per 1000 per post-acuzie, lungodegenze e riabilitazioni: sono valori già inferiori agli standard normativi. Anche la spesa per il personale, in rapporto alla popolazione, è diminuita del 4,4% nel triennio 2010-2013. “Il fattore preoccupante – spiega Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni – è che i tagli di personale operati nel corso degli ultimi anni potrebbero produrre degli effetti sull’erogazione e sulla qualità dell’assistenza, e in maniera differenziata nelle diverse aree del paese” (nel 2013 sono state assunte 85,6 persone ogni 100 pensionati).

La scarsità dell’investimento nella prevenzione provoca morti: l’Italia destina solo il 4,1% della spesa sanitaria totale all’attività di prevenzione, una quota che ci colloca tra gli ultimi trenta dell’area Ocse. Risultato: è in aumento l’incidenza di alcune patologie tumorali prevenibili. «Siamo il fanalino di coda nella prevenzione nel mondo, e questo ha un peso». Un altro capitolo con risvolti anche drammatici riguarda le vaccinazioni, in particolare l’antinfluenzale per gli over 65: dal 2003 al 2015 la copertura è passata dal 63,4 al 49%, un calo preoccupante che allontana l’Italia dal livello minimo del piano nazionale che indica una percentuale al 75%. Detto questo, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha avuto una idea geniale: «Nel nostro paese dobbiamo tornare a investire nella prevenzione primaria e secondaria, la prevenzione è una cosa alla quale le Regioni, tutte, devono prestare il massimo dell’impegno e dell’attenzione». Il ministro ha anche invitato gli italiani a seguire uno stile di vita corretto.

Gli italiani sono messi così così. I fumatori sono in calo: nel 2010 fumava il 22,8% della popolazione, nel 2013 il 20,9%. I consumi di alcol, invece, sono in leggera crescita. Con calma, stiamo diventando più sportivi: nel 2014 il 28% della popolazione ha dichiarato di svolgere un’attività di tipo amatoriale (passeggiate, corsa, bici, nuoto). I consumi alimentari non sono proprio da popolazione ben educata: nel periodo 2001-2014 la persone in sovrappeso sono passate dal 33,9 al 36,2% (più magri al nord, più in carne al sud). Ma è un altro tipo di consumo che meriterebbe di essere approfondito con dati non solo di natura statistica: gli antidepressivi in Italia sono sempre in aumento. Tecnicamente - ma il dato non può che essere sottostimato considerando che l’automedicazione è prassi - su 1000 abitanti si registrano 39,30 dosi di ansiolitici o antidepressivi. Sono in leggero aumento anche i suicidi (7,99 casi su 100 mila nel 2011-2012). Un’altra spia che dice che il sistema non funziona - non solo sanitario.

Riferimenti
Che cos'è la Mount Pelerin Society: il potente gruppo di pensatori e altri personaggi influenti che costruì l'ideologia del neoliberalismo ("neoliberism") che da decenni domina il mondo. Guardate, per esempio, l'informazione neutrale di Wikipedia. Per una più realistica lettura critica leggete, di David Harvey, Breve storia del neoliberismo

La follia inumana dei respingimenti selezionati sulla base delle origini o delle ragioni dell'esodo, l'illusione di poter erigere barriere più alte dall'oceano della disperazione che avanza,. la necessità di un impegno più vasto da parte di chi ragiona.

Il manifesto, 26 aprile 2016

La prevedibile avanzata della destra nelle elezioni presidenziali austriache, in gran parte ascrivibile a una diffusa e fomentata fobia per i profughi, dovrebbe indurci a una riflessione.

Primo, il loro arrivo è inarrestabile e destinato a crescere per decenni. Secondo, spacca la società tra chi vuole respingerli e chi accoglierli lungo una faglia profonda che non coincide con i confini tra partiti, culture politiche e classi sociali, ma le attraversa. Terzo, mette in conflitto tra loro gli Stati membri dell’Unione europea trascinandola verso la dissoluzione. Quarto, taglia la regione che gravita intorno all’Europa tra chi rivendica il più elementare dei diritti umani, quello alla vita, che il paese da cui proviene non garantisce più, e chi glielo sta negando.

Di fronte a questi fatti occorrerebbe però farsi due ordini di domande che l’establishment che governa l’Unione europea non sembra porsi.

Innanzitutto, chi sono quei profughi, che cosa cercano, da dove vengono, che cosa li ha fatti fuggire dalle loro terre? Che cosa succederà se continuiamo a cercare di respingerli? E che cosa si deve fare se invece vogliamo accoglierli?

L’establishment cerca di nascondere l’incapacità di confrontarsi con queste domande dietro alla distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, contando di potersi sbarazzare della maggior parte di loro. Una “selezione” (di cupa memoria) effettuata distinguendo i rispettivi paesi di origine tra Stati insicuri, perché in guerra, e Stati sicuri, da cui non avrebbero il diritto di fuggire.

Ma nessuno degli Stati da cui proviene la maggior parte di quei profughi è sicuro: sono tutti attraversati da conflitti armati o preda di feroci dittature. Territori diventati invivibili per le devastazioni prodotte dalla guerra, o dallo sfruttamento inconsulto delle risorse, o da un disastro ambientale, o dai cambiamenti climatici che in Africa e Medio oriente fanno sentire i loro effetti molto più che da noi.

Guerre, conflitti armati, dittature e crisi ambientali si intrecciano; sono il deterioramento o il saccheggio delle risorse locali, in larga parte riconducibili all’operato di imprese occidentali o delle economie emergenti, ad aver scatenato quei conflitti, tenuto in piedi quelle dittature, provocato quella fuga. Per questo, in realtà, sono tutti profughi ambientali: una categoria destinata a dominare il panorama geopolitico dei prossimi decenni anche se che le convenzioni internazionali non la contemplano.

E’ ciò di cui non tengono conto i fautori del respingimento, oggi in grande avanzata in tutta Europa, anche perché le forze di governo dell’Unione ne fanno proprie le pretese per cercare di trattenere i loro elettori: l’indecente accordo con la Turchia ne è un esempio; la barriera al Brennero un altro. Dimostrando di non sapere che cosa fare per governare il problema non fanno che alimentare la paura tra gli elettori; il che li spinge ad accrescere le misure liberticide in una spirale senza fine. Ma in che condizione precipiterà l’Europa se continuerà a cercare di respingere verso i paesi di origine o di transito, cioè verso guerre, fame e feroci dittature, chi cerca di varcare i suoi confini?

Si renderà responsabile di uno sterminio – in mare, nei deserti o nelle prigioni di quei dittatori – di centinaia di migliaia e – chissà? – milioni di esseri umani. Nessuno potrà più dire “io non sapevo”, come al tempo dei nazisti: quelle cose la televisione ce le porta in casa tutti i giorni, anche se non nella dimensione e con la crudeltà con cui vengono perpetrate. I paesi che circondano l’Europa si trasformeranno così in teatri permanenti di guerra in cui per noi europei, in pace o in armi, sarà sempre più difficile andare. Altro che turismo, sviluppo economico, cooperazione internazionale e “aiutiamoli a casa loro”! L’Europa sarà sempre di più una fortezza protetta dal filo spinato, dove si finirà per sparare per difendere i confini: non solo quelli “esterni”, ma anche quelli tra Stato e Stato, perché le “infiltrazioni” avverranno comunque; e in massa.

Per gestire un regime di guerra continua, non contro un esercito, ma contro un popolo di disperati che cerca solo di salvarsi, i governi europei diventeranno sempre più autoritari e antidemocratici, impediranno con forza ogni contestazione e si metteranno in guerra anche con quella parte della propria popolazione – gli immigrati di prima, seconda e terza generazione – tra le cui fila crescerà il rancore di cui si alimenta il terrorismo. Con una popolazione destinata a invecchiare senza ricambio e senza incontri e scambi fecondi con altre culture, l’Europa si condanna così al declino politico, culturale ed economico: negando a figli e nipoti quel magro “benessere” che oggi pensa di difendere.

Certo, anche accogliere non è facile. Non basta la dedizione di decine di migliaia di volontari contro il feroce sfruttamento dei migranti da parte delle tante organizzazioni criminali a cui il governo italiano ha consegnato la loro gestione. Quei volontari sono l’avanguardia senza voce, perché coperta da quella cinica e roboante dei fautori dei respingimenti, di uno schieramento sociale alternativo che può contar già oggi su diversi milioni di sostenitori e migliaia di intellettuali, artisti e operatori cui non è stata ancora offerta la possibilità di tradurre il loro sentire in proposte politiche di ampio respiro.

Ma quelle proposte ci sono ed emergono sempre più in documenti che circolano da tempo in Europa: sono il rigetto delle politiche mortifere di austerity, la rivendicazione di un taglio agli artigli della finanza, il progetto di una svolta radicale verso la sostenibilità ambientale: energia, agricoltura, gestione delle risorse, edilizia, mobilità, istruzione. Sono i campi di una conversione ecologica in grado di creare lavoro vero, le cui finalità possano essere condivise liberamente e il cui carico venga redistributivo tra tutti coloro, sia disoccupati e occupati europei che profughi in arrivo, che vogliono contribuire a rendere l’Europa più accogliente e vivibile.

E’ una svolta che richiede di impegnarsi fin d’ora non solo nella sua progettazione, ma anche nella sua articolazione in mille iniziative locali, cominciando a verificarne la fattibilità, mobilitando le risorse offerte sia dal conflitto che dalla partecipazione, e coinvolgendo, possibilmente, i poteri locali. Ed è anche l’unica politica praticabile per promuovere la pacificazione nei paesi di provenienza dei profughi e una loro libera circolazione per renderli protagonisti una vera cooperazione internazionale dal basso. Contro chi fa del respingimento la sua bandiera occorre portare l’accoglienza al centro di uno schieramento sociale e politico alternativo che faccia appello sia alla ragione che al cuore. Non è un problema tra gli altri; è il centro dello scontro in atto.

Gli alleati dell'Italia di Renzi, dell'Eni e dei fabbricanti di armi continuano la loro truce opera. Il popolo si ribella . E continuano le tremule rimostranze dei nostro governo. Articoli di Fabio Scuto e Giuliano Foschini. La Repubblica, 26 aprile 2016




MASSACRATO UN ALTRO ATTIVISTA
“TORTURATO DALLAPOLIZIA”
PRESENTATRICE INSULTA REGENI
di Giuliano Foschini
Lo hanno scaricato in una strada in mezzo al deserto, all’ingresso del Cairo. Aveva il corpo martoriato da torture, bastonate e, forse, scariche elettriche. Era stato arrestato 24 ore prima, tra il 22 e il 23 aprile, in uno dei blitz per prevenire le manifestazioni di ieri. Ora è in terapia intensiva in un ospedale della capitale: è ancora in pericolo di vita ma dovrebbe farcela. Il finale, per fortuna, è l’unico pezzo che non rende la storia di Khaled Abdel Rahman, giovane attivista di Alessandria, identica a quella di Giulio Regeni. Secondo quanto denunciano infatti la sorella del ragazzo e alcune Ong il ragazzo sarebbe stato preso nei giorni scorsi, torturato e poi abbandonato quasi morto con segni evidenti di tortura su tutto il corpo. «Ne ha ovunque — ha raccontato la sorella- e ci sono segni sui genitali di scariche elettriche».

Il caso di Khaled sarebbe l’ennesimo, secondo quanto denunciano le associazioni che seguono la vicenda dei desaparecidos egiziani, che si è verificato in questi mesi, a riprova che la morte di Giulio non è stato un fatto isolato. Non è un caso che ieri tra le persone arrestate ci sia anche Ahmed Abdallah, il direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’associazione che aveva e sta seguendo direttamente il caso di Giulio e quello degli altri ragazzi spariti nel nulla o uccisi in circostanze tutte ancora da chiarire. E’ stata fermata poi anche Basma Mostafa, la giornalista che aveva intervistato i familiari dei banditi uccisi nel conflitto a fuoco con la polizia, che accusavano gli agenti di aver portato e fatto ritrovare a casa loro i documenti di Giulio. La polizia ha poi denunciato la Reuters per lo scoop sull’arresto di Regeni, con il capo dell’agenzia internazionale di stampa che avrebbe dovuto lasciare il Cairo. Insomma, una situazione sempre più tesa che conferma il nervosismo delle autorità egiziane attorno al caso Regeni: Giulio sta diventando un simbolo anche in Egitto, nelle manifestazioni di ieri così come nei giorni scorsi decine di persone brandivano la sua fotografia come un vessillo di libertà contro il regime di Al Sisi. «Ed è per questo che a lui che dedico il mio 25 aprile» ha detto ieri Roberto Saviano.

Eppure nelle scorse ore erano arrivate, seppur timide, aperture agli investigatori italiani che hanno fatto ben sperare in tema di collaborazione. Gli egiziani hanno inviato qualche nuovo documento, ed è possibile che nelle prossime ore possano arrivare i primi tabulati richiesti dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Sergio Colaiocco che stanno conducendo le indagini. In settimana, su iniziativa egiziana, erano ripresi i contatti per riattivare i canali di cooperazione proprio dopo la nostra nuova rogatoria anche sulla base di un protocollo, firmato dalla Direzione nazionale antimafia in tema di sbarchi e traffico di persone, che assicura la piena reciprocità nelle indagini tra i due paesi. Ed, effettivamente, gli investigatori italiani hanno messo a disposizione tutto quello he c’era da mettere. Con il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari l’Italia aveva voluto lanciare un segnale chiaro che, però, fino a questo momento non aveva avuto alcun atto conseguente da parte dal Cairo. Al contrario, come ha dimostrato la scenetta della giornalista egiziana che ieri ha insultato in diretta Giulio (“Regeni? Un complotto. Che andasse al diavolo”), o le inchieste sui desaprecidos italiani (l’elenco degli scomparsi di Chi l’ha visto) condotte dai giornali governativi egiziani, si stava andando verso lo scontro totale. Ora, questa apertura. Che, visti i precedenti, potrebbe però avere il solito rumore della presa in giro.
BLINDATI, ARMI E AGENTISEGRETI
TRA I MANIFESTANTI BRACCATI
MA LA PIAZZA GRIDA: “AL SISI VIA”
di Fabio Scuto
“Le forze del male”, come il Feldmaresciallo Abel Fattah Al Sisi definisce i suoi oppositori, scompaiono dai marciapiedi intorno a Piazza Tahrir in un batter di ciglio. Le strade del centro pullulano di soldati, poliziotti, agenti in divisa e mukhabarat, uomini dei Servizi. Basta un sospetto e si finisce isolati dai passanti, spinti contro un muro. Poi un pullmino bianco accosta al marciapiedi, apre le porte scorrevoli e si finisce così inghiottiti da uno dei tanti apparati di sicurezza che il regime egiziano si è dato per dare la caccia ogni tipo di opposizione e restare in piedi. Scene simili a quelle di tre mesi fa, il 25 gennaio scorso quando anche Giulio Regeni fu “inghiottito” da una retata a strascico con il tragico esito che tutti conosciamo. Che ieri si è ripetuta per decine di volte nel centro del Cairo, dove il via vai abituale ieri era sostituito dagli agenti in borghese e il rumore dei clacson dal gracchiare delle radio appese alla cintura.
La polizia ha chiuso “per motivi di sicurezza” tutte le strade che portano alla sede del sindacato dei giornalisti. Via Abdel Khalek Tharwat, dove c’è lo stabile che lo ospita, è stata sbarrata con recinzioni in acciaio e presidiata dalle forze di sicurezza. L’esercito ha schierato mezzi blindati a Piazza Tahrir, epicentro delle proteste che nel 2011 portarono alla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak, e in altri punti nevralgici della città. Il ministro dell’Interno, Magdy Abdel Ghafar aveva, dagli schermi della tv, ammonito i manifestanti dallo scendere in piazza, «non abbiamo dato alcun permesso per le manifestazioni di oggi e non permetteremo la violazione della legge in nessun caso. Le forze di sicurezza non consentiranno alcun attentato alla sicurezza della nazione».
In realtà i sostenitori di Al Sisi - qualche migliaio - hanno avuto la possibilità di entrare a Piazza Tahrir sventolando bandiere egiziane e cantando le lodi del Feldmaresciallo mentre nel cielo sfrecciavano i caccia.

Nel centro della capitale due settimane fa c’erano già state le prime proteste contro la “svendita” di due isolette sul Mar Rosso ai sauditi, intesa che ha risvegliato l’opposizione e l’ha spinta a scendere in piazza, unita nel voler usare come bandiera il nazionalismo ma sostanzialmente divisa in tante, troppe, anime come dimostra l’elenco eterogeneo dei fermati e le centinaia di sparizioni forzate segnalate negli ultimi quattro giorni.

L’Egitto di Al Sisi dice che le isolette Tiran e Sanafir, al largo del Sinai, appartengono all’Arabia Saudita, che le mise sotto protezione del Cairo nel 1950 perché temeva che Israele se ne potesse impadronire. Una “contesa” che ha aspettato 66 anni per trovare una soluzione (che fra l’altro soddisfa anche Israele). L’annuncio del “passaggio” è arrivato durante la “storica” visita - due settimane fa - dal monarca saudita, re Salman, che ha annunciato un pacchetto multi-miliardario di aiuti e investimenti, alimentando così i sospetti che le isole siano state vendute. «L’Egitto ha bisogno che la verità sia rivelata alla sua gente: attraverso il dialogo, non l’oppressione, con i documenti, le prove e le mappe, non con incursioni della sicurezza e arresti arbitrari » ha scritto l’editorialista Abdullah el-Sinnawy ieri sul quotidiano al-Shorouk. Al-Sisi insiste però sul fatto che l’Egitto non ha restituito un «pollice del suo territorio » e ha chiesto che la gente smetta di parlare di “svendita”. Ma è indubbio che il leader egiziano – due anni dopo aver preso il potere rovesciando il presidente islamista Mohammed Morsi – stia perdendo parte del consenso che aveva raccolto dal 2014 e anche settori della società che avevano premuto per una sua discesa in campo oggi si trovano su posizioni molto diverse. Le aspettative di un maggiore benessere si sono dissolte, il terrorismo islamico ha reso deserte le spiagge del Mar Rosso dopo la bomba sul jet dei turisti russi a Sharm el Sheikh. Se l’economia è in serie difficoltà, il rapimento, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni all’inizio di quest’anno hanno avvelenato i rapporti con l’Italia, uno dei più convinti sostenitori di Al Sisi nell’Ue e primo partner commerciale europeo.

Nel pomeriggio l’attenzione si è spostata a Giza, distretto dell’area metropolitana del Cairo sulla sponda occidentale del Nilo. Qui, come spiega un collega del quotidiano Al Masry Al Youm, la security ha ricevuto l’ordine di arrestare «qualsiasi manifestante». Infatti alle cinque sulla Mesaha Square, nel quartiere impiegatizio di Dokki dove fra l’altro abitava Giulio Regeni, non appena duecento persone si sono ritrovate e hanno iniziato a gridare slogan tipo “Pane, Libertà e Isole” e “Al Sisi Vattene” è intervenuta la polizia sparando gas lacrimogeni e pallottole di gomma. I manifestanti sono fuggiti nelle strade vicine per poi disperdersi. In meno di un’ora 23 arresti, decine di fermati. Ma a Dokki è successo anche qualcosa di “particolare”. Temendo un’altra ondata di disordini, dopo anni di turbolenze, molti residenti e negozianti si sono mostrati ostili verso i manifestanti. Dai balconi molti abitanti gridavano “traditori” ai dimostranti riuniti sotto in piazza, altri hanno cominciato a lanciare secchiate d’acqua, mentre la polizia si portava via sui suoi pullmini bianchi 4 giornalisti stranieri, incurante di permessi e accrediti stampa. Il giornalista, specie se straniero, nell’Egitto di Al Sisi è una categoria assimilabile al nemico.


GAS LACRIMOGENI SUGLI OPPOSITORI
OLTRE CENTOARRESTI
di Fabio Scuto


Vietate le proteste contro la cessione di due isole ai sauditi. Fermati 35 giornalisti: 10 restano in carcere
IL CAIRO. Un’ondata di arresti soprattutto al Cairo, caccia aperta non solo agli oppositori ma a tutti coloro che con una telecamera o un cellulare hanno cercato di riprendere le proteste nella capitale egiziana. Tutte le città d’Egitto ieri erano blindate fin dalle prime ore del mattino. Auto, camion e mezzi blindati di polizia e dell’esercito schierati a presidio dei luoghi simbolo, come piazza Tahrir al Cairo, migliaia di agenti per bloccare le manifestazioni annunciate dai gruppi di opposizione al presidente Abdel Fatah Al Sisi. Le proteste — subito vietate — erano contro la cessione delle due isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Incidenti, gas lacrimogeni e un centinaio di fermati solo nella capitale.

Il centro del Cairo è stato completamente isolato dal resto della città, alcune strade come quella che ospita il sindacato dei giornalisti — uno degli organismi di punta contro la repressione del regime — è stata chiusa con paratie d’acciaio. Chiunque ha cercato di avvicinarsi è stato fermato. Qui è finita in manette Basma Mustafa, la collega che intervistò per prima i familiari dei “presunti assassini” di Giulio Regeni uccisi tutti però in uno scontro a fuoco con la polizia. E poi ancora i colleghi Mohamed al Sawi, Mohamed al Shama e Mustafa Reda. Fra i fermati una decina di attivisti del Partito socialdemocratico egiziano, qualcuno del Movimento 6 aprile. Di prima mattina, era stato arrestato anche Ahmed Abdallah, capo della Commissione egiziana per i diritti e libertà, organizzazione che documenta le sparizioni forzate nel Paese. Altre decine di fermati, poi rilasciati a Dokki nel pomeriggio, dove un’altra protesta di 200 persone è “fallita” per l’intervento della polizia con gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Il sindacato dei giornalisti ha denunciato l’arresto di 35 colleghi, 25 dei quali poi rilasciati in serata. ( f. s.)

«Se la Costituzione non è più sentita come l’asse della nostra morale politica è perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, priva di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente – e infatti non è – più protagonista, chiusa come è nelle angustie dell’ “io”, sempre più disabituata a declinare il “noi”».

Il manifesto, 26aprile 2016 (c.m.c.)

La memoria – diceva Primo Levi – è sempre a rischio. Anche questo 25 aprile l’ha confermato: neppure un accenno alla pur fondamentale ricorrenza su la Repubblica di ieri; milioni di austriaci – per i quali un qualche ricordo sulla fine del nazifascismo dovrebbe esser restato – che allegramente votano per una sua nuova edizione. Certo, è vero, ogni volta che arriva il 25 aprile prima di decidersi ad andare alla manifestazione dell’Anpi, ci si chiede: ma serve? Sì, serve. Ma sapendo che anche la memoria è soggetta alla storia, le cose si ricordano a seconda dei tempi, non perché si relativizzino, ma perché il tempo aiuta a capirne aspetti prima rimasti in ombra.

La forza degli eventi si misura d’altronde proprio su quanto continuino o meno a produrre attualità. Il 25 aprile è uno degli eventi mai rimasto materia immobile; in questo 2016 credo a tutti sia evidente che la data è caldissima. Non perché ci siano i fascisti alle porte – ci mancherebbe ! – ma perché in questi anni si è guastato il mondo in un modo così plateale che a tutti ci spaventa e a tanti ha fatto perdere la fiducia di poterlo riparare.

Per questo ricordare la Resistenza ci aiuta. Perché si trattò di un’avventura al limite dell’impossibile, un azzardo senza precedenti e perciò torna a dirci che si può sempre osare se c’è uno scatto di soggettività. Quando dico che fu un evento straordinario non penso solo al dato militare. Penso alla cosa gigantesca che fra il ’43 e il ’45 si riuscì a fare: dare all’Italia – che non l’aveva avuto mai – uno stato che tutti sentissero legittimo.

L’Italia, come si sa, uno Stato legittimato a livello di massa, davvero popolare, non l’aveva avuto mai: non col Risorgimento, che fu eroico ma elitario; non con i governi del Regno dopo l’Unità, che mai conquistarono il cuore degli operai e contadini su cui i loro prefetti spararono massicciamente e disinvoltamente per poi mandarli a morire a centinaia di migliaia in una guerra che non era la loro. Poi venne il fascismo. Per questo la resistenza italiana è stata così speciale. Non c’era, dietro, uno stato da reinsediare, si trattava di reinventarsene uno nuovo: uno finalmente decente e democratico.

Ce l’abbiamo fatta non solo perché il fattore militare e quello strettamente politico – l’accordo fra i partiti antifascisti – non esaurirono la vicenda resistenziale. Ci fu, e fu decisiva, quella che un grande storico, comandante della Brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò “società partigiana”, un espressione con cui volle indicare l’autorganizzazione del territorio, l’assunzione – grazie ad uno scatto di soggettività popolare e di massa – di una responsabilità collettiva per rispondere alle esigenze non solo delle proprie famiglie ma della comunità tutta. Fu il “noi” che prevalse sul’ “io”. L’antifascismo, inteso come sostanza penetrata nel senso comune, ha in Italia questa radice: l’esperienza, autonoma e diretta, di sentirsi tutti – “attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane” come scrisse Calamandrei – fino in fondo protagonisti della costruzione di un nuovo stato, finalmente davvero patria.

Se abbiano questa Costituzione è perché essa è il riflesso, l’incarnazione di questa presa di coscienza. Che non a caso avverte che ogni cittadino non ha solo diritti e garanzie individuali, ma soprattutto quel diritto politico fondamentale che incarna la democrazia: di contribuire a determinare le scelte del paese.

Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta accadendo, a me sembra che la crisi della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice dei partiti che l’avevano sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto politico sociale che con la Resistenza ne aveva costituito il contesto. Se la Costituzione non è più sentita come l’asse della nostra morale politica è perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, priva di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente – e infatti non è – più protagonista, chiusa come è nelle angustie dell’ “io”, sempre più disabituata a declinare il “noi”. Se lasciamo passare questa trasformazione senza reagire, la celebrazione del 25 aprile diventerà davvero solo retorica. Voglio dire che per celebrare bene occorre ritrovare quella voglia, quell’impegno, quella fantasia della fondazione della Repubblica.

Questa nostra festa si chiama “della liberazione”, e non della “libertà” come qualche anno fa aveva furbescamente suggerito Berlusconi, perché la nostra parola dà conto di un processo storico, ci sollecita a dire chi la libertà ce l’aveva tolta e contro chi abbiamo dovuto combattere per recuperarla. La memoria che la celebrazione del 25 aprile rievoca ci ricorda che non ci siamo liberati dai tedeschi – come si trattasse di un conflitto fra Germania e Italia – ma dal fascismo, che fu anche italiano e non un fenomeno un po’ ridicolo fatto di parate e divise col fez, ma violenza antipopolare. E infatti cominciò con l’aggressione alle sedi sindacali, alle organizzazioni popolari comuniste socialiste cattoliche.

Le celebrazioni servono a aprire gli occhi, grazie alla memoria che sollecitano, sulla emarginazione dalla nostra Repubblica del suo contenuto antifascista, che ne è la sostanza. Serve a richiamarci alla urgenza di un impegno a ricostituire la società partigiana; e cioè a riassumere la responsabilità della nostra comunità, a rimettere il noi al posto dell’io.

Sapendo che il noi oggi si è dilatato. Non è più quello di chi vive all’ombra del nostro campanile e nemmeno entro i nostri confini. Il mondo è ormai entrato nel nostro quotidiano, lo straniero – e con lui la politica estera un tempo affidata agli specialisti – lo incontriamo al supermarket, nella scuola dei nostri figli, nelle immagini dei disperati che approdano alle nostre coste o affogano nei nostri mari. La loro libertà vale la nostra, la nostra senza la loro non ha più senso. Per questo è giusto festeggiare il 25 aprile con immigrati e palestinesi, così come con chi è ancora vittima dell’antisemitismo. Non è un debordare dal tema “Liberazione”, vuol solo dire sentirsi parte della condizione delle vittime e al tempo stesso responsabili della loro sofferenza.

Il comandante Rendina, che dell’Anpi di Roma è stato presidente, diceva che la memoria “serve a riattivare il circuito delle ragioni che ci spingono a continuare la battaglia per un mondo migliore”. Di riattivare questo circuito oggi c’è estremo bisogno, per ritrovare fiducia nella politica, e cioè nel fare collettivo di ogni cittadino, politica come esercizio di cittadinanza attiva, riconquista della soggettività che l’antipolitica ha annegato. Contro questa minaccia alla democrazia non serve prendere le armi come nel ’43, serve però ricostruire relazioni, liberarsi dalle paure, guardare all’altro che ormai popola le nostre contrade per assumere insieme le responsabilità che ci toccano. Tornare a sentirci, e a diventare davvero, protagonisti.

«Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte».

Internazionale.it, 24 aprile 2016 (c.m.c.)

Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo.

Nell’ultimo decennio c’era sempre almeno lo strascico di qualche polemica: gli ultimi acciaccati neofascisti che avevano un rigurgito di esibita insofferenza, o un Silvio Berlusconi presidente del consiglio che non partecipava alle celebrazioni ufficiali e proponeva di chiamarla festa della libertà.

L’anno scorso, forse con l’urgenza dell’anniversario a cifra tonda, il governo aveva lanciato una discutibilissima campagna con l’hashtag #ilcoraggiodi che sovrapponeva gli eventi della lotta partigiana con le imprese di Alex Zanardi o Samantha Cristoforetti in un guazzabuglio ideologico quasi grottesco. Quest’anno praticamente nulla: se cercate 25 aprile su Google, sui social network si parla molto del rischio meteo che rovinerà il ponte a un sacco di italiani. La preoccupazione di un piccolo e bellissimo libro di Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia (riedito l’anno scorso) è una profezia più che avverata:

«È ulteriormente aumentato il disinteresse intorno alla Resistenza, un fuggi-fuggi impressionante, inimmaginabile una decina di anni fa, per quanto già fosse chiaro allora quanta indifferenza si nascondesse dietro l’indignazione. I giovani hanno continuato a darsela a gambe, gli storici pure (poche, ancorché lodevoli le eccezioni). La maggior parte degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.»

Allarmati dalle forme più o meno striscianti di strumentalizzazione (la famosa affermazione di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”, datata 1996 e tutto il fumus che ne è scaturito) non ci si è accorti di come la crisi della democrazia stesse trascinando con sé anche i dibattiti intorno ai temi ideali. La crisi dell’antifascismo di cui scriveva Sergio Luzzatto in un libro del 2004 era una crisi ancora intellettuale; lo storico riconosceva nell’aria i segnali sempre più scuri: un forte vento di revisionismo e la nuvola plumbea della cosiddetta memoria condivisa. Oggi questo dibattito storico si è rivelato per quel che era: il prodromo di una rimozione, la tempesta perfetta tutta in un bicchier d’acqua molto torbida, la condizione per una neutralizzazione così efficace da non essere nemmeno una mancanza avvertita.

Il rischio della morte dei testimoni diretti che David Bidussa evidenziava per le vittime dell’Olocausto in Dopo l’ultimo testimone (libro del 2009) è una catastrofe avvenuta senza troppo clamore per quello che riguarda i partigiani.
Chi parla più di resistenza, liberazione, antifascismo? Marzabotto o Stazzema sono nomi che alla maggior parte delle persone non evoca davvero più nulla, ma si può dire quasi lo stesso persino delle Fosse Ardeatine o di Cefalonia.

Del resto molto pochi sembrano sentire su di sé il compito di riflettere sulla memoria dell’evento centrale per la costruzione della nostra identità italiana e di elaborarne ogni volta la storia. Da quei “ragazzi di Salò” in poi buona parte della fiction che la Rai ha prodotto sugli anni dal 1943 al 1945 ha ridotto quella che Claudio Pavone ha raccontato come guerra civile e conflitto morale a una dimensione di feuilleton (Il graffio della tigre), di thriller semi-revisionista (Il sangue dei vinti), di melodramma revisionista tout-court (Il cuore nel pozzo). Vicende di singoli vittime della storia, o al massimo – davvero il migliore dei casi – esaltazione di alcuni eroi, i carabinieri in genere (Salvo d’acquisto, I martiri di Fiesole).

La dimensione popolare è praticamente scomparsa, così come come l’ambizione di indagare un grande momento di tensione, rinascita, conflitto morale. La questione dell’emancipazione sociale un fantasma, quella della coscienza politica nemmeno a parlarne. Affermare il ruolo centrale dei comunisti in tutta la guerra di liberazione e nel processo costituzionale oggi sembrerebbe un azzardo, così come è impensabile parlare pubblicamente di violenza giusta.

E anche nella scuola – l’ultimo alibi per chi non sente su di sé la responsabilità di questa indifferenza conclamata – far conoscere la resistenza è faticosissimo, un compito spesso lasciato alla buona volontà dei singoli presidi o dei singoli insegnanti, che devono ricominciare ogni volta da capo: a ribadire la differenza cruciale tra riconoscere le ragioni dei repubblichini e dargli dignità storica, a legare la storia della guerra di liberazione all’antifascismo precedente e a quello successivo, a indicare nella guerra partigiana le tracce ideali di quella che sarà la scrittura della costituzione, eccetera.

Pochi giorni fa è stato pubblicato un importante accordo siglato dal ministero dell’istruzione con l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, per cui nella settimana dal 25 al 30 aprile dovrebbero svolgersi lezioni e attività didattiche sulle questioni della resistenza. Ma quante scuole hanno accolto questo progetto? Chi sono gli esperti invitati a parlare? Come si svolgeranno queste lezioni? Quanto spazio gli sarà dato? E, soprattutto, sarà una sperimentazione che si replicherà negli anni prossimi?

Perché parlare e riflettere sulla resistenza non si deve ridurre, come spesso avviene, a quella specie di elemosina educativa che chiamiamo sensibilizzazione. L’esperienza dei partigiani, di tutti quelli che hanno dato vita all’antifascismo, ha un carattere pedagogico, paradigmatico, di educazione alla vita, che corrisponde perfettamente a quell’esemplarità che in filigrana possiamo leggere nella costituzione italiana. Conoscere la resistenza soprattutto per un ragazzo non è soltanto entrare in rapporto con la storia del proprio paese a partire dal suo nucleo fondante, ma è anche la possibilità di immaginare la possibilità che le cose, la società che c’è intorno a lui, il suo futuro cambi a partire dalle sue scelte, dal suo scegliersi la parte.

I più bei romanzi sulla resistenza hanno come protagonisti dei ragazzi e hanno come centro narrativo proprio questo percorso imprevedibile lungo il confine che in realtà è un fossato che passa tra il lasciare che le cose accadano e fare di tutto perché cambino. Ci sono due passaggi del Partigiano Johnny che mi sono particolarmente cari, e sono tra quelli in cui Johnny parla proprio di questo confine, e della bellezza di questo salto possibile.

«Johnny camminava, gli occhi fissi alla geniale silhouette di Tito, ma in realtà chiuso. Pensava a se stesso, al suo grado di sopravvivenza intellettuale gli parve di pericolare su un abisso quando, ad un text, constatò non ricordare nulla degli aoristi.

– Tutto questo finirà, ed io dovrò rimettermi da capo col greco, non potrò mai fare a meno del greco per tutta la vita… La cosa era orribilmente noiosa, da sentirmi d’ora la nausea della lontana fatica. Forse era meglio morire partigiani: incredibile, si trattava di una vera e propria sistemazione borghese. Tutto questo finirà…

ed allora decise di goderne, di quel marciare, nell’aria algida, con un’arma al braccio quel sole vittorioso, verso il delizioso paese del prelievo tabacchi. E si trovò a recitare: ‘Sumer’s icumen…’ a voce involontariamente intellegibile, sicché Tito si voltò intrigato e interessato: delizioso l’incrociarsi delle sue ciglia delinquenziali, e rivoltando avanti affondò nella neve inavvistata.

(…)
Partì verso la cresta. Le nove batterono crepuscolarmente a campanile ed egli controllò il suo orologio. Era ora ad un punto di femminea sottigliezza, ma duro come il ferro, il cinghietto di cuoio stava cadendo a pezzi. Lo strappò e fece scivolare l’orologio nel taschino sul fra le pieghe del suo fazzoletto azzurro. Quell’orologio aveva marcato le sue ore coscienti: l’aveva sbirciato mentre Monti parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma, Baudelaire, l’aveva al polso quando il capitano Vargiu aveva annunciato il 25 luglio, Johnny l’aveva consultato aspettando il ragazzo romano col vestito borghese qualche giorno dopo l’armistizio. Scosse la testa: passato e presente erano totalmente, incredibili. E un richiamo gli folgorò la testa: Johnny qual è l’aoristo di lambano?»

Buona festa della liberazione a tutti, pensate che è la vostra festa.

«La scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore».

Il manifesto, 24 aprile 2016

Chi si ricorda più del 25 aprile? A settantuno anni dal giorno della Liberazione è lecito porsi questo interrogativo. Beninteso, non alludiamo al fatto in sé della conclusione della lotta di liberazione – anche se nella memoria della mia generazione quello fu comunque un giorno di festa e sarebbe anche opportuno che molti o pochi di noi ne rievocassimo le atmosfere e gli accadimenti -, ma più in generale al senso di quella conclusione, in una parola allo spirito del ‘45.

A guardare a ritroso i settanta e più anni trascorsi sembrano una distanza di tempo ultrasecolare se consideriamo la lontananza della realtà di oggi da quell’evento.

Contro la registrazione burocratica del 25 aprile come festa nazionale ci piacerebbe evocarlo come un momento sempre presente di esercizio della sovranità popolare. Perché la scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore. Questa riflessione ci è suggerita dalle vicende di questa nostra democrazia repubblicana che, seguendo un processo peraltro non soltanto italiano, ma generalizzabile a livello europeo (se non mondiale), tende a restringere sempre più lo spazio di autonomia e di sovranità degli individui e dei corpi sociali e con ciò anche la consapevolezza che essi potessero avere del loro ruolo in una società democratica. Complici la minaccia del terrorismo islamico, i problemi immani che derivano dalle migrazioni dell’ultimo decennio, le persistenti crisi economiche legate a un modello di sviluppo destinate a perpetuare diseguaglianze e ingiustizie, si riaffacciano dappertutto le tentazioni a rafforzare il potere esecutivo e a rigettare al margine le istanze di democratizzazione e di partecipazione.

Il processo di svilimento dei partiti politici e di svigorimento degli stessi sindacati, che avrebbero dovuto rappresentare la palestra della democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, ha aperto un vuoto e fa da sfondo a questa invasione del potere esecutivo. Nella cultura politica del nostro Paese lo spirito del ’45 non si è mai riflesso interamente, è penetrato a intermittenza, con qualche fiammata che non è riuscita a interrompere la continuità di un mediocre barcamenarsi in una perpetua navigazione a vista. Anche per questo alla classe dirigente dell’antifascismo storico, che rimane pur sempre quanto di meglio il Paese ha espresso, non ha fatto seguito la formazione di una classe dirigente degna di questo nome. La sua mediocrità è sotto gli occhi di tutti e, a differenza che in altri contesti europei, le sue insufficienze non sono state e non sono compensate neppure da un ceto amministrativo di provata capacità tecnico-gestionale e di assoluta probità. La corruzione in cui affonda il Paese non è l’ultimo dei fattori che espropria i cittadini della possibilità della partecipazione alla cosa pubblica come contributo a livello individuale dell’esercizio della sovranità.

Le utopie del ’45, il rinnovamento politico e morale all’interno e il sogno degli Stati Uniti d’Europa sul piano internazionale, si scontrano oggi con il rozzo empirismo di mestieranti della politica e il riemergere di anacronistici quanto feroci e aggressivi egoismi nazionali.

Le aspettative del ’45 hanno avuto breve durata. Nello spazio di due anni lo spirito di conservazione, la nostalgia del quieto vivere, e l’eterna paura del salto nel buio hanno frenato e affossato sul nascere le speranze e le istanze del rinnovamento. Il 18 aprile del 1948 non è stato soltanto la sconfitta elettorale della sinistra, è stato il rifiuto a lungo termine delle aperture del ’45.

Non è certamente un caso che nel momento in cui si pone mano ad una pur necessaria revisione della Costituzione, che di per sé rimane l’espressione della stagione di rinnovamento aperta dalla Liberazione, non si è trovata strada migliore che proporre il pasticcio di una riforma costituzionale che, unita a un sistema elettorale truffaldino, intacca seriamente il principio della rappresentanza e di fatto limita il ruolo stesso del Parlamento.

Richiamare lo spirito del ’45 non vuole essere espressione di una improbabile nostalgia; vorrebbe essere un incoraggiamento a tornare a pensare fuori dalla contingenza immediata con una visuale di tempi lunghi, recuperando un patrimonio ideale che non è affatto spento. Contro la retorica della memoria ci piacerebbe che questa memoria fosse rivissuta nella pratica.

Perchè il ricordo della Resistenza da cui nacquero la Repubblica italiana e la sua Costituzione non sia pura retorica, o disarmata nostalgia, pubblichiamo questa lettera scritta da un ragazzo d'allora, fucilato dai fascisti a 19 anni. Sono parole che rivolge ai ragazzi (e agli adulti) di oggi

Era un ragazzo di 19 anni quando fu fucilato. Studente, dopo l'8 settembre 1943 aderisce alla Resistenza. Dal febbraio 1944 riceve numerosi incarichi di collegamento tra i Comitati di liberazione nazionale di Parma e di Carrara . Collabora per l'organizzazione dei renitenti alla leva e con gli ufficiali alleati evasi sulle colline tosco emiliane. Arrestato più volte, torturato e più volte evaso è fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Tra un arresto e un altro scrive questa lettera: una riflessione profonda, valida oggi più che mai.

Cari Amici,

vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti".
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell'opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo; insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L'egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?

Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l'amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell'ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L'egoismo, dicevamo, l'interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l'ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l'idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credere nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria, della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.

Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.

Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Il giorno dell'esecuzione scrive quest'ultima lettera

C

arissima mamma, ti chiedo scusa di averti fatto soffrire. Io sto benissimo e sono tranquillo come ti diranno questi cari Bassi. Sono molto buoni. Non mi rincresce quello che succede: è quanto ho rischiato e mi è andata male. Io spero che i tempi migliori verranno e spero...Sono interrotto dai Bassi che piangono. Io non ne sento il bisogno, riesco a non pensare al vostro dolore e sono molto tranquillo. Ringrazio tutti quelli che hanno fatto qualcosa per me. Soprattutto tu sai chi. E penso sempre al caro lontano: non riesco a scrivere molte cose. Perdonatemi. Ti abbraccio con tutta l'anima

Riferimenti

Abbiamo tratto le lettere da: Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Giulio Einaudi editore, 1961. Su Giacomo Ulivi vedi anche Michela Cerocchi, La giovinezza tenace. I luoghi e le parole di Giacomo Ulivi. Per una biografia vedi sul sito dell'ANPI, e precisamente qui

AntonioGramsci
Odio gli indifferenti
Odio gli indifferenti. Credo chevivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non esserecittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, èvigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
Sandro PertiniMessaggio di fine anno agli Italiani,
1979
Dietro ogni articolodella Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamodifenderla, costi quel che costi.

Gianni Rodari
Compagni fratelli Cervi
1955
Sette fratelli comesette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi:
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.

Salvador Allende
1973

È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo,apparterrà ai lavoratori. L'umanità avanza verso la conquista di una vitamigliore.
Viva ilCile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e hola certezza che il mio sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, per lomeno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia eil tradimento.

W.G. Sebald
Gli emigrati (tit. orig. Die Ausgewanderten, 1994)

Distruggete anche l’ultima cosa, ma non il ricordo.
Martin Niemöller
Bertold Brecht
1931
Prima di tutto vennero a prenderegli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavanoantipatici.
Poi vennero a prendere gliomosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché nonero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno aprotestare.

La "deforma" della Costituzione di Matteo Renzi e dei suoi complici altolocati corona il sogno della peggiore destra democristiana della nostra storia. Twittare Avanti e marciare all'indietro, questo è il passo del renzismo.

Il manifesto, 24 aprile 2016
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).

Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).

Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.

Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».

L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.

La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.

Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.

Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.

La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ’45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.

C

«Non sono manifestazioni rituali quelle che l'Anpi sta organizzando per domani in tutta Italia».

Il manifesto, 24 aprile 2016

Anche l’Anpi, di solito prudente, sottolinea che questo 25 aprile non è solo una festa. Le tragedie non sono da tenere vive solo nella memoria e non basta la retorica degli orrori che si possono ripetere, perché il 71esimo anniversario della Liberazione «cade in un complesso di vicende europee che riporta l’orologio della storia in un tempo dove la civiltà e le pratiche democratiche erano pesantemente oscurate». Dunque non sono manifestazioni rituali quelle che l’associazione dei partigiani sta organizzando per domani in tutta Italia. Come non è rituale la denuncia dei «movimenti di chiara marca neonazista e neofascista che arrivano fin dentro i governi». Non è questa «la società che sognavano i combattenti per la libertà», scrive l’Anpi riferendosi ai profughi in fuga da guerre e fame respinti dall’Europa.

A Milano, dove si terrà la manifestazione nazionale (da Porta Venezia, ore 14), risulta evidente l’urgenza di far vivere questo 25 aprire non limitandosi a commemorare il passato. Lo si intuisce a partire dal palco di piazza Duomo, che ospiterà Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, l’autorità che più di ogni altra sente la vertigine della fine dell’Europa come era stata immaginata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Il suo grido di dolore è inascoltato (sul palco è previsto anche un intervento del sindaco Pisapia e del presidente nazionale dell’Anpi Smuraglia). La stessa tensione a ragionare sul presente si respirerà anche lungo il corteo che sempre dà spazio a chiunque lo voglia attraversare – fascisti esclusi – e che questa volta si caratterizza con alcuni spezzoni di “movimento” significativi. Il primo è dedicato alle “nuove resistenze” e vedrà la partecipazione della comunità curda e palestinese. Il secondo marcia in sintonia con la campagna “Stop war not people” che da settimane lavora per unire pezzi di movimento e portare in piazza alcune comunità straniere. Infine, fino a notte, la rete Partigiani in Ogni Quartiere organizza il festival delle culture antifasciste (da ieri a lunedì a Trenno).

Corteo anche a Roma, con partenza alle 10 dal Colosseo e arrivo a Porta San Paolo, dove interverranno alcuni partigiani e Luciana Castellina. Nel pomeriggio una delegazione si recherà a Ostia per rendere omaggio a Pier Paolo Pasolini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invece, ha deciso di celebrare la Liberazione a Varallo, nel cuore della Val Sesia (Piemonte), una delle zone a più alta densità partigiana d’Italia. Salvo poi dedicarla ai marò. [incredibile]

ppello firmato anche da 11 ex presidenti della Corte costituzionale in vista del referendum di ottobre Nel mirino la pluralità di iter legislativi “con rischi di incertezze e conflitti”».

La Repubblica, 24 aprile 2016 (c.m.c.)

Cinquantasei giuristi hanno pubblicato un documento di critica alla riforma costituzionale in vista del referendum confermativo di ottobre, quello su cui Matteo Renzi ha deciso di giocarsi la permanenza a Palazzo Chigi. «Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo - scrivono i firmatari, tra cui costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Antonio Baldassarre, Lorenza Carlassare, Ugo De Siervo -. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto in una potenziale fonte di nuove disfunzioni e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione».

MAGGIORANZA ONDEGGIANTE
La prima preoccupazione riguarda il modo con cui la riforma è stata approvata, «da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche». Un timore aggravato dal fatto che l’approvazione del referendum è diventata dirimente per la permanenza in carica del governo. «La Costituzione, e così la sua riforma - si legge nel documento - sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso».

SENATO DEBOLE
Secondo i firmatari l’obiettivo, «largamente condivisibile », di superare il bicameralismo perfetto è stato perseguito «in modo incoerente e sbagliato». Così, dare alla sola Camera la possibilità di votare la fiducia al governo e creare un Senato di 100 eletti (consiglieri regionali e sindaci oltre ai 5 scelti dal capo dello Stato) altererebbe gli equilibri creando una seconda Camera debole, che non ha «poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni».

RISCHIO DI CONFLITTI
I molti procedimenti legislativi differenziati, a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, daranno vita - per chi ha steso il documento - a incertezze e conflitti.

REGIONI MENO AUTONOME
Alle Regioni, dicono i 56 giuristi, verrebbe tolto «quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali)».

COSTI DELLA RAPPRESENTANZA
«Il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche - si legge nel testo - ma di equilibrio fra organi diversi e di potenziamento delle rappresentanze elettive ». Vengono perciò criticate l’abolizione delle province (sarebbe stata meglio una razionalizzazione) e del Cnel.

Il documento si conclude ricordando alcuni lati positivi, come la restrizione della possibilità del governo di emanare decreti legge e i tempi certi per alcuni progetti legislativi. Esprime però un’ultima preoccupazione: un referendum confermativo con un solo quesito, sì o no. Secondo i firmatari, dovrebbero invece esserci più domande sui grandi temi della riforma.

Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2016 (p.d.)

All’indomani della sua intervista a Otto e mezzo, a stupire Nicola Gratteri, neo procuratore di Catanzaro, è che tra tutte le sue dichiarazioni solo una sia stata ripresa dai principali quotidiani: “È vero, ho detto che Davigo ha sbagliato, ma nella forma, non nella sostanza. Piercamillo è un provocatore intelligente, brillante, perbene e indipendente. Uno dei pochissimi che può permettersi di parlare. Provocatore nel senso che vuole smuoverci dall’apatia, aprire il dibattito sulle falle del sistema. Quando dico che ha sbagliato a generalizzare, intendo che ha dato modo a chi vuole parlar d’altro di attaccarlo, anziché rispondere nel merito. A ogni modo non ha bisogno di difensori, vista la sua storia professionale”.

Quindi concorda con Davigo sul fatto che, rispetto a Tangentopoli, la corruzione in politica non è diminuita?
La situazione è molto più grave rispetto a 20 anni fa, come documentano diverse indagini degli ultimi anni. C’è stato un abbassamento dell’etica e in parallelo una sempre maggiore legittimazione delle mafie, che danno risposte più credibili della politica.

Com’è cambiato il rapporto mafia-politica?

Ormai sono i politici a cercare i mafiosi, non viceversa. I candidati alle Politiche, Regionali e Comunali vanno dal capo mafia a chiedere i voti. Solo nella Locride le ultimi indagini han detto questo e altro.

La sua commissione ha depositato 16 mesi fa le proposte per far funzionare la giustizia. Dove sono adesso?

La relazione si trova a Palazzo Chigi ed è stata anche inviata, su richiesta della presidente Bindi, alla commissione Antimafia. Quasi tutti i parlamentari ne hanno copia. Qualcosa, come il processo a distanza, è stato approvato alla Camera e aspetta di passare al Senato. Si discute anche dell’Agenzia dei beni confiscati. Ora è sotto esame l’ordinamento penitenziario, anche se stanno scrivendo l’esatto opposto di quel che abbiamo suggerito noi (volevamo la sostanziale abolizione del Dap per dare più poteri alla polizia penitenziaria, in nome di una maggior trasparenza). A occhio, han recepito circa il 5% del nostro lavoro.

Ma non è stato Renzi a volere questa task force?

Io mi aspettavo, o quantomeno sognavo che almeno parte delle riforme che Renzi mi ha chiesto passasse per decreto. Come quella più urgente, che dovrebbe essere meno controversa, per abbattere tempi costi del processo penale.

Invece nulla. Perché?

Abbattere i tempi del processo significa non arrivare alla prescrizione, specie per i reati ordinari, i tre quarti dei quali oggi non fanno in tempo ad arrivare in Cassazione. Rimettere in piedi un sistema efficiente è fondamentale anche per la lotta alla mafia. Se risolvi il problema di una truffa, magari l’imprenditore prende fiducia e la volta dopo ha il coraggio di denunciare un’estorsione. Forse, per questo tema così delicato, Renzi non ha i numeri in Parlamento. Queste riforme toccano centri di potere: se implementate, manderebbero in galera molti colletti bianchi.

Renzi ha ceduto pure a Napolitano, che non la voleva ministro della Giustizia.

Quella faccenda è andata ogni oltre previsione. Il veto c’è stato solo su di me, ma le ragioni non sta a me commentarle. È una domanda per l’ex capo dello Stato.

La sua commissione ha lavorato gratis per 6 mesi. Perché Renzi ve l’ha chiesto, se sapeva che avrebbe ignorato le vostre proposte?

Perché all’inizio era fortemente conscio della necessità di queste riforme. Quando ne parlavamo era entusiasta.

E adesso?
Non so. Una volta consegnato tutto, il mio compito è finito. E francamente questa situazione m’imbarazza: non sta a me convincerli a portare avanti un lavoro chiesto da loro.

I casi giudiziari che hanno investito la Guidi e indirettamente la Boschi gli avranno tolto un po’di entusiasmo.
Non dispero. Il lavoro resta attuale, non è superato. Il problema sono i centri di potere interni al Parlamento che non vogliono cambiare le cose.

Eppure il premier accusa solo i magistrati: “25 anni di barbarie giustizialista”.

I magistrati non sono marziani, sono il prodotto di questa società. La quasi totalità è perbene, onesta, preparata. Ma è ovvio che capita anche a noi di sbagliare, come al medico o all’avvocato. Solo che certi errori sono molto gravi, perché incidono sulla libertà delle persone. Abusi ce ne sono stati, ma han riguardato una minoranza della magistratura. E ricordo che, se sono venuti fuori certi “comportamenti” di magistrati infedeli, è perché altri magistrati li hanno indagati, rinviati a giudizio e in certi casi arrestati.

Renzi attacca i giudici, accetta i veti di Napolitano sul Guardasigilli e subisce un Parlamento che lavora per bloccare la giustizia. A un certo punto lei riconoscerà una responsabilità anche al premier o gli darà per sempre il beneficio del dubbio?

Io racconto la storia, le valutazioni fatele voi. Il mio dispiacere sta nella consapevolezza che molte di queste riforme sono determinanti.

Riforme - 416 bis e ter e autoriciclaggio - che ha sostenuto al Csm che la valutava per la Procura di Milano.

Urgenti e fondamentali. Basterebbe la volontà politica.

Cosa deve pensare un cittadino di questi paradossi?

Lo so, la gente percepisce questa situazione e si pone delle domande, ma non spetta a me puntare il dito. Io faccio il magistrato, non il politico.

Ma non si arrabbia mai?

Io ho l’entusiasmo di un trentenne, ma quando ti scontri e vedi il mondo, capisci che oltre a un certo punto non si può andare. Fare il Masaniello non serve. Perché poi ti etichettano come un pazzo - è successo a molti - e quello che vuoi comunicare non viene più preso sul serio. Io posso solo continuare a lavorare, adesso ho la Procura di Catanzaro a cui pensare. Ma, di fronte alle polemiche degli ultimi giorni, la risposta saggia sarebbe discutere. L’approccio campanilistico della politica è sbagliato. La guerra non possiamo permettercela. Renzi dovrebbe cogliere l’occasione per discutere dei grandi problemi della giustizia, per aprire un dialogo con i magistrati in appositi incontri di studio. Invece pare ci sia una gara ad avvelenare il clima. E sono certo che non era questo l’intento di Davigo.
Ecco svelato dal nuovo presidente del Consiglio nazionale della ricerche, recentemente nominato da Renzi, il principio morale sul quale si basa la politica renzista: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici».

La Repubblica, blog Articolo 9", 24 aprile 2016

Qual è il rapporto tra renzismo ed etica?

La risposta a questa domanda spacca il Paese in due: gli antirenziani pensano che quel rapporto sia per lo meno ambiguo; i renziani pensano che la domanda sia mal posta, irrilevante, o maliziosa.

«L'Italia è ferma da anni. Siamo convinti di ciò che stiamo facendo e non ci fermeremo davanti a chi dice sempre e solo no. La musica con noi è cambiata», dice Renzi. E aggiunge: «Sbloccare l'Italia dalla burocrazia, dalle risorse ferme negli angoli del bilancio, della paura degli amministratori e dei dirigenti, dalle incertezze del governo centrale: questo l'obiettivo che ci eravamo dati due anni fa e che continuiamo ad avere in testa».

È la filosofia dello Sblocca Italia, che permette di ‘fare’ abbattendo drasticamente i controlli su come si ‘fa’. E questo è il punto: perchè non c'è dubbio che il Paese debba ripartire, ma il sospetto è che si vogliano invece far ripartire solo gli affari di una cerchia di amici. Modello Tempa Rossa, insomma.

Quando fu approvato, la Banca d’Italia fece notare, in un’audizione formale alla Camera, che «il disegno di legge Sblocca Italia fa ricorso, per accelerare la realizzazione di infrastrutture, a deroghe alla disciplina ordinaria che possono comportare rischi in termini di costi e tempi di esecuzione delle opere, nonché di vulnerabilità alla corruzione». A queste obiezioni la risposta è stato il solito mantra: «non ci fermeremo davanti a chi dice sempre e solo no». E quando le inchieste di Potenza sul petrolio hanno dato ragione a Bankitalia, Renzi ha insistito: «Siamo governo che sblocca le opere, se è reato io l'ho commesso».

Che questo venga ripetuto dai ministri, dal partito, dai commentatori allineati: ebbene, lo si può capire. Ma quando arriva a dirlo il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche appena nominato dal governo: beh, significa che la classe dirigente italiana, adusa da secoli a servire, ha ormai metabolizzato fino in fondo il linguaggio dei nuovi padroni. E, come sempre succede in questi casi, il cortigiano ultimo arrivato è maldestramente esplicito, e finisce col dire a chiare lettere ciò che invece si dovrebbe solo sottintendere: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». Il dono della chiarezza, finalmente: come sottolinea Enzo Boschi, in un ritratto al vetriolo del collega scienziato.

Ecco svelata la visione delle cose che sorregge lo Sblocca Italia e alimenta la sua retorica: una visione secondo la quale finora l’Italia sarebbe stata frenata non dalla corruzione, ma dall’etica. Un’analisi curiosa, per un Paese che, nelle classifiche sulla corruzione, sta fuori di ogni media europea, e anzi è messo peggio di Namibia o Ghana.

Ma nulla: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». Che lo dica colui che presiede anche la commissione per l’etica della ricerca è un segnale drammatico per la comunità scientifica italiana: ma soprattutto è preoccupante il fatto che (quasi) nessuno trovi mostruose queste parole, mentre contemporaneamente fanno scandalo quelle normalissime del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo.

Silenzio: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». L’obiettivo è raggiungere la Somalia e la Corea del Nord, che guidano la classifica dei paesi più corrotti. Niente paura: se non disturbiamo i manovratori, ce la faremo.

Intervista di Aldo Cazzullo a Piercamillo Davigo. « Nel 1994 con Tangentopoli erano crollati cinque partiti. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».

Corriere della Sera, 22 aprile 2016 (m.p.r.)

Piercamillo Davigo - consigliere presso la Cassazione, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati - 24 anni fa era nel pool di Mani Pulite.

Dottor Davigo, com’è cambiata l’Italia da allora?
«Con i colleghi stracciammo il velo dell’ipocrisia. E questo ha peggiorato le cose».

Vale a dire?
«La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nella Prima Repubblica se non altro si riconosceva la superiorità della virtù. Quando Tanassi fu arrestato e parlò di “delitto politico”, io non capivo cosa dicesse. Poi ho realizzato che forse intendeva dire: “È un delitto politico perché vado in galera solo io”. Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose; perché quando le sappiamo partono i processi».

E partì Mani Pulite.
«Dopo l’arresto di Mario Chiesa, Craxi disse che a Milano non un solo dirigente del Psi era stato condannato con sentenza definitiva, fino al “mariuolo”. Nessuno esplose in una fragorosa risata. Il velo dell’ipocrisia teneva ancora».

E ora?
«Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti».

«Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Lo disse davvero?
«Certo. In un contesto preciso. Ma mi citano fuori contesto per farmi passare per matto».

Qual era il contesto?
«Appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano. Prenda la Metropolitana Milanese. Costruita da imprese associate, con una capogruppo che raccoglieva il denaro da tutte le aziende e lo versava a un politico che lo divideva tra tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Di giorno fingevano di litigare; la notte rubavano insieme».

Voi però l’opposizione non l’avete colpita.
Davigo si inalbera: «Non è vero! Questa è una leggenda diffusa ad arte per screditarci! Io stesso condussi una perquisizione a Botteghe Oscure!».

Ma Forlani si dimise, Craxi morì ad Hammamet. Occhetto e D’Alema restarono al loro posto.
«Forlani fece una figuraccia al processo Enimont. Su Craxi si trovarono le prove, infatti fu condannato. Su altri non trovammo le prove. Il Pci era finanziato dalle coop in modo dichiarato e quindi legittimo. Ma a Milano, dove partecipavano alla spartizione delle tangenti, abbiamo mandato sotto processo diversi dirigenti comunisti».

Il Paese era con voi.
«Gli italiani non hanno mai avuto una grande considerazione di sé: siamo gli unici a dire di noi stessi cose terribili nell’inno nazionale, “calpesti”, “derisi”, “divisi”. All’epoca sembrò che tutto potesse cambiare. Ricordo un’intervista ai volontari che friggevano le salamelle alla festa dell’Unità; erano i primi a volere in galera i dirigenti che li avevano traditi. Ma cominciò presto il coro opposto: “E gli altri, perché non li avete presi?”».

Oggi la situazione è come allora?
«È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: “Qui non si fa la battaglia contro le mosche?”. “L’abbiamo fatta - risponde il podestà -. Solo che hanno vinto le mosche”. Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti».

Davvero pensa questo del nostro Paese?
«È il rimprovero che mi fece Vladimiro Zagrebelski. Al Csm erano ospiti 35 magistrati francesi, che mi chiesero di Tangentopoli. Risposi che nel 1994 erano crollati cinque partiti, tra cui quello di maggioranza relativa e tre che avevano più di cent’anni. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre zebre erano diventate più veloci. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».

Fu Berlusconi a fermarvi?
«Cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un po’ genuflessi sì».

Ad esempio?
«La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla».

Con Renzi come va?
«Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?».

Renzi ricorda spesso di aver aumentato le pene e di conseguenza la prescrizione per i corrotti.
«Ma prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta. Lo diceva anche Cantone; anche se ora ha smesso di dirlo».

Perché Cantone ha smesso di dirlo?
«Lo capisco. E non aggiungo altro».

Quindi si ruba più di prima?
«Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata».

Com’è la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati?
«L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano».

Renzi viene paragonato ora a Craxi, ora a Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Non mi piacciono i paragoni».

E del caso Guidi cosa pensa?
Davigo sorride: «Non ne parlo perché se capita a me in Cassazione poi mi ricusano».

«Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni». Autentica anche questa?
«Sì. Ma non è una mia opinione; è un dato oggettivo. L’Italia è il Paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione. Ed è il Paese della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, della sacra corona; e della corruzione diffusa. Certo che servono nuove carceri. Con le frontiere ormai evanescenti, i Paesi con una repressione penale più forte esportano crimine; quelli con una repressione penale più debole lo importano».

L’Italia lo importa.
«Una volta a San Vittore trovai un borseggiatore cileno. Era stato arrestato quattro volte in un mese. Mi accolse con un sorriso: “Che bel Paese, l’Italia!”. Prima era stato arrestato a Ottawa ed era stato in galera due anni».

In Italia ci sono troppi avvocati?
«In una riunione europea degli Ordini professionali il presidente di turno ha detto che nell’Ue ci sono quasi 900 mila avvocati; e un terzo sono italiani. I più interessati al numero chiuso a giurisprudenza dovrebbero essere gli avvocati; se non altro per tutelare i loro redditi».

E ci sono troppi pochi magistrati?

«Ne mancano un migliaio. Ma non è un mestiere facile: ogni anno facciamo un concorso con 20 mila domande per 350 posti, e non riusciamo ad assegnarli tutti. Non è che ci sono pochi magistrati; è che ci sono troppi processi».

Come ridurli?
«In Italia tutte le condanne a pene da eseguire vengono appellate; in Francia solo il 40%. Sa perché? Perché in Francia si può emettere in appello una condanna più severa rispetto al primo grado. Facciamo così anche in Italia, e vedrà come si decongestionano le corti d’appello».

Ci sono troppi magistrati in politica?
«Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza; e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici».

establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”?». Micromega-online, 23 aprile 2016

Pessimo, pessimo, pessimo Cantone (inteso come Raffaele Cantone, il magistrato di renziana predilezione, investito dal premier del cruciale incarico di presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione”) che ha lanciato un’intemerata contro Piercamillo Davigo al grido di «dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione». E pessimissimo Giovanni Legnini, plurisenatore Pd e plurisottosegretario, fortissimamente voluto da Renzi alla vicetesta del Consiglio superiore della Magistratura (a presiederlo, di diritto ma di fatto solo in circostanze eccezionali, è il Presidente della Repubblica) che ha bollato le parole di Davigo con un «rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno».

Quali parole false, diffamatorie, oscene, violente aveva infatti pronunciato l’ex magistrato di Mani pulite, da qualche giorno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, da giustificare questo corale stracciarsi di vesti istituzionale?

Piercamillo Davigo aveva in realtà pronunciato un’ovvietà: «la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi». Qualsiasi persona sensata, in qualsiasi democrazia, una frase del genere la sottoscrive, e se non la pronuncia è perché considera che vada da sé. Una classe dirigente, quando delinque, certamente e incontrovertibilmente fa più danni del ladro di polli, dello scippatore, e perfino del rapinatore di banca.

Cantone pensa che invece una classe dirigente, quando delinque, faccia danni meno gravi? Non risulta lo abbia mai detto o scritto, anzi, e se davvero lo pensasse sarebbe opportuno che lasciasse il suo incarico per manifesta incompatibilità. Ma che lo pensi è una ipotetica di terzo tipo.

Perché allora gli viene in mente di tradurre automaticamente la frase inoppugnabile e priva di equivoci di Davigo in un “la classe dirigente è tutta corrotta” che Davigo non ha mai pronunciato e anzi in un quarto di secolo di notorietà ha sempre combattuto? La risposta standard di Davigo, quando un politico o un giornalista polemizzava con lui chiedendogli perché ritenesse che tutti nella classe dirigente fossero corrotti è sempre stato: «lei è corrotto? No. Io neppure, come vede è falso che tutti siano corrotti. Lo sono molti politici, ma si tratta di un’affermazione ben diversa e purtroppo suffragata da molte indagini e sentenze».

Eppure alle orecchie di Cantone, dire che “una classe politica quando delinque …” e che “tutto è corruzione” hanno suonato come frasi sinonime. Perché attribuire a Davigo quello che non ha detto, e che anzi nella sua intera carriera ha sempre rifiutato? Forse Cantone, dal suo osservatorio, trova quotidianamente fin troppi sintomi che gli fanno temere che la quasi totalità della classe dirigente sia corrotta, e inconsciamente gli viene perciò da assimilare le due affermazioni? Altra spiegazione non vedo.

In che senso l’ovvietà pronunciata da Davigo (e per la quale è agevole rintracciare una panoplia di analoghe affermazioni nei classici del pensiero e della politica democratica) rischi di alimentare un conflitto di cui il Paese non ha proprio bisogno risulta ancor più misterioso. Un danno micidiale per il paese sono i politici che rubano e gli imprenditori corruttori o corrotti, non i magistrati che li scoprono. Un danno micidiale per il paese sono governo e parlamentari che non fanno leggi più efficaci per contrastare il multiforme ingegno dei crimini di establishment e si muovono anzi in direzione opposta, rendendone più agevole l’impunità, non i magistrati (o qualsiasi altro cittadino) che richiamino all’ovvio della convivenza democratica.

Quando però una verità ovvia e banale scatena lo scandalo diventa doveroso capire il perché di una reazione che dal punto di vista logico è palesemente assurda. Perché l’establishment, quasi interamente, si indigna contro un’ovvia verità, che cioè “la classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi”? La risposta la sanno anche i sassi: i padroni della politica e della finanza vogliono opacità anziché trasparenza, non vogliono controlli di legalità (cioè una magistratura che possa davvero indagare autonomamente) ma mani libere, benché Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, ormai quasi tre secoli fa, abbia cominciato a teorizzare la divisione dei poteri proprio a partire dalla consapevolezza che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente.

Perciò, o ci mobilitiamo noi cittadini a difesa dell’autonomia dei magistrati, o Renzi nei prossimi mesi distruggerà dalle fondamenta la possibilità di ogni azione efficace di contrasto ai crimini di establishment, hybris di corruzione in primis.

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