loader
menu
© 2025 Eddyburg

La Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, piegandoli alla sua volontà. Così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.». Il manifesto, 13 maggio 2016

Messina è la tredicesima città italiana per abitanti, la terza città metropolitana della Sicilia, una città con una grande storia alle spalle che sta morendo a fuoco lento per via del Presidente del Collegio dei Revisori Conti, dottore Dario Zaccone, che da cinque mesi blocca la giunta Accorinti, impedendogli di approvare il bilancio previsionale 2015. Per capire come stanno le cose dobbiamo fare un passo indietro.

Renato Accorinti è stato eletto sindaco della città di Messina nel giugno del 2013 dopo uno spareggio con Felice Calabrò, esponente del Pd sostenuto dall’ex onorevole Francantonio Genovese.

Al primo turno Accorinti, uno dei leader del movimento No Ponte e del movimento non violento italiano, aveva ottenuto il 23 per cento dei voti scavalcando il rappresentante di Forza Italia, l’on Garofalo, ma la sua lista «Cambiamo Messina dal basso» aveva ottenuto solo il 9% e quattro consiglieri. Calabrò che al primo turno aveva ottenuto il 49,9 per cento dei voti e non era stato eletto per soli 60 voti andò baldanzoso al ballottaggio, ma perse nettamente. Questa anomalia si è tradotta in un Consiglio comunale dove la giunta Accorinti poteva contare solo su 4 consiglieri su 40, con una parte consistente dei consiglieri legata strettamente al grande capo Francantonio Genovese, finito agli arresti domiciliari per essersi appropriato di oltre 800mila euro di corsi professionali finanziati dalla Ue, e oggi colpito da un altro capo d’imputazione per aver portato in Svizzera capitali per 16 milioni di euro.

Il 19 dicembre scorso, Genovese appena uscito dagli arresti domiciliari ed in attesa del processo, convoca una assemblea all’Hotel Royal per festeggiare il suo passaggio dal Pd a Forza Italia, partito al quale immediatamente aderiscono 11 consiglieri comunali Pd su 14, facendo così diventare Fi il primo partito del Consiglio Comunale di Messina ed il Pd l’ultimo o quasi. Non solo. Dal ritorno sulla scena di Genovese cambia tutto il panorama politico messinese e, soprattutto, cambia l’atteggiamento di Dario Zaccone, commercialista e consulente di alcune imprese che fanno capo all’impero di Francantonio Genovese, uno degli uomini più ricchi della Sicilia.

Da quel momento, Zaccone che negli anni precedenti aveva dimostrato di svolgere tranquillamente il suo mestiere, cambia registro e adotta una strategia di logoramento della giunta Accorinti: dal 9 dicembre ad oggi la giunta Accorinti ha approvato sette, dicasi 7 volte, il bilancio previsionale 2015 e regolarmente Zaccone ha espresso parere negativo. Per chi si intende anche un po’ di bilanci sa che approvare oggi un bilancio preventivo 2015 è un gioco da ragazzi. Nel senso che non c’è più nulla da «prevedere» e che, non trattandosi di un consuntivo dove possono sorgere problemi con i residui, si tratta di elencare le spese fatte. Semplice. Lo capirebbe anche un bambino, ma non avviene.

Nel frattempo viene arrestato Paolo David, già capogruppo Pd ed oggi Forza Italia, per voto di scambio mafioso e i consiglieri comunali tremano nuovamente. Come era successo nello scorso mese di novembre quando ricevettero un avviso di garanzia 23 consiglieri comunali per quello che fu chiamato lo scandalo di «gettonopoli», ovvero dei Consiglieri comunali che si prendevano un gettone di presenza senza partecipare ai lavori delle Commissioni, ma ponendo solo la firma.

Sono gli stessi Consiglieri che qualche giorno prima stavano raccogliendo le firme per sfiduciare Renato Accorinti che sembra sia nato sotto una buona stella perché ogni volta che sembra pronta la sfiducia succede qualcosa che la blocca. Ma, nulla può fare un’amministrazione dalle mani pulite quando il potere usa gli strumenti della burocrazia per distruggerti. E Zaccone è in buona compagnia: anche la Corte dei Conti ha chiesto il default del Comune, malgrado sia stato presentato da tempo al Ministero un Piano di rientro dal debito enorme (circa 500 milioni) accumulato dalle precedenti amministrazioni, comprese quelle di Genovese sindaco e successivamente del suo delfino Buzzanca. Una Corte dei Conti che già nell’aprile del 2014 dichiarava il Comune in pre-dissesto finanziario e stabiliva quali voci di spesa fossero ammissibili e quali non lo fossero (in primis la cultura e la promozione turistica). Un abuso di potere incredibile. Tu, Corte Conti puoi chiedermi di non sforare il tetto della spesa, ma non come devo spendere a casa mia. È come se una banca a cui chiedi un prestito ti imponga una lista della spesa, di ciò che puoi comprare o meno.

Così si affossa la democrazia che nei Comuni trova le sue fondamenta. Se la Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, non solo la Grecia, e piegandoli alla sua volontà, così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.

«L'allarme del politologo Colin Crouch autore del libro "Postdemocrazia" in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate: governi svuotati di potere e significato. Per evitare che la globalizzazione sia guidata da un'oligarchia delle multinazionali "serve più Europa e meno nazionalismo"». Intervista di Giuliano Balestreri. Huffington Post, 13 maggio 2016

MILANO - Governi svuotati di potere e significato. La democrazia che cede il passo all'oligarchia delle multinazionali. Addio alle politiche social-democratiche che hanno fatto la storia dell'Europa per lasciar spazio al neo liberismo. E' l'epilogo temuto da Colin Crouch sociologo e politologo britannico celebre per aver coniato il termine "postdemocrazia" nell'omonimo libro in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate. In Italia per partecipare al Festival "Fare la pace" di Bergamo fino a 15 maggio, Crouch punta il dito con il Ttip, il trattato transatlantico di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, che "servirebbe ad aumentare le tutele di consumatori, ma invece viene usato solo per ridurle". E critica l'Unione europea perché "ha dimenticato l'eredità delle Commissioni Delors e Prodi fondate sul compromesso tra liberismo e socialdemocrazia per interessarsi solo al liberismo. Siamo caduti in una trappola da cui non riusciamo a uscire".
Più che vittima di una trappola, il Vecchio continente sembra stretto tra due idee antitetiche di Europa. Non crede?
No, siamo davvero in trappola. Da un lato siamo consapevoli dei cambiamenti che porta la globalizzazione e delle necessità di avere un'Unione europea capace di affermarsi ai massimi livelli dove vengono prese le principali decisioni economiche; dall'altro abbiamo bisogno di una politica più vicina alla vita quotidiana. Bruxelles dovrebbe convivere con istituzioni vicine alle persone: le decisioni devono essere prese a livelli diversi a seconda degli argomenti. Il rischio che corriamo è quello di pensare che il nazionalismo rafforzi la democrazia.
Il referendum su Brexit, il prossimo 23 giugno, metterà alla prova le due idee di Europa.
L'appartenenza alla nazione rimane tra le poche identità, che legano la gente al mondo politico. E in un mondo pieno di rischi internazionali - dalla globalizzazione economica, che sembra minacciare il lavoro, all'immigrazione fino al terrorismo islamico - c'è la forte tentazione di vedere la nazione come una fortezza. Il referendum britannico darà ai cittadini la possibilità di concentrare tutte queste ansie su un bersaglio singolo: l'Unione europea. Una tentazione che si scontra con la paura di un futuro totalmente incerto, dicendo addio a tutti i nostri rapporti economici degli ultimi 40 anni. Sarà una battaglia tra due paure: quella di un mondo incontrollabile contro quella di un isolamento totale.
Come si sconfigge la paura?
Con un'Europa più intensa. Delors e Prodi lo avevano capito: bisogna legare in maniera indissolubile i livelli più alti a quelli più bassi. Bisogna riscoprire le politiche regionali, aumentando il loro peso. La Scozia è un caso emblematico: vogliono più autonomia a livello locale, ma sono molto legati all'Unione europea per mantenere un ruolo di peso a livello globale. L'Europa non è una tecnocrazia apolitica, ma rischia di diventarlo se ripensiamo rapidamente il ruolo delle istituzioni.
Gli anni dell'austerity hanno contribuito ad allontanare Bruxelles dai cittadini.
Sì, perché sono stati anni persi a consumare tutta l'energia nel tagliare la spesa e a fare attenzione ai bilanci. Invece, sarebbero serviti a fare altre cose.
Per esempio il Ttip?
Anche. Il Trattato transatlantico di libero scambio serve davvero, ma solo se ci permette di aumentare gli standard di sicurezza. Per il momento, invece, le discussioni vertono solo sul come ridurre gli standard: anche perché un mondo con standard di sicurezza più alti ad ogni livello sarebbe un mondo più caro. E gli americani non possono accettarlo. Però gli europei sbagliano a pensare di essere gli unici a garantire la piena tutela dei consumatori e dei cittadini. In alcuni campi è certamente vero, ma sul fronte bancario la realtà è diametralmente opposta: siamo noi che dovremmo imitare i loro standard. E comunque anche negli Stati Uniti crescono le resistenze con la diffidenza ad aprire il loro mercato agli europei.
A preoccupare i cittadini sono soprattutto le clausole Isds che permettono alle aziende di citare per danni gli Stati che con le loro norme mettano a repentaglio i loro profitti.
E' vero, sono la cosa più pericolosa del trattato. La clausola più antidemocratica. Certo oggi già esistono, ma gli Stati sono liberi di scegliere se riconoscere il diritto alle aziende o meno, con il Ttip diventerebbe invece una regola vincolante per tutti. Il meccanismo di citare in giudizio gli Stati che promulgassero leggi contrarie agli interessi delle aziende era nato per attirare risorse finanziarie nei paesi in via di sviluppo: le multinazionali chiedevano garanzie prima di investire negli Stati a rischio temendo che un cambio di repentino di governo le avrebbe danneggiate. Insomma, il principio era in qualche modo positivo, era un incentivo alla stabilità, ma lentamente il sistema di è esteso fino all'Europa. Basti pensare alla svedese Vattenfall che ha chiesto miliardi di danni alla Germania dopo la decisione - in seguito alla tragedia di Fukushima - chi chiudere le centrali nucleari. Il Ttip in questo senso sarebbe un disastro, il mercato entrerebbe direttamente nelle politiche sociali dei governi che non potrebbe più tornare indietro.
In questo modo il potere sarebbe trasferito alla multinazionali?
Sì, sarebbe il punto finale della post democrazia. Un mondo nel quale le istituzioni tradizionali continuano a esistere, ma si svuotano di significato e la politica non è più in grado di incidere. Per fortuna non siamo ancora a questo punto, ma la strada che abbiamo imboccato è proprio quella. E il Ttip darebbe un'accelerata in questa direzione.
Anche per questo le trattative per il Ttip stanno sollevando proteste in tutta Europa.
E' vero, le resistenze sono molte: i cittadini stanno prendendo coscienza di questa rischio, ma l'atteggiamento dei manifestanti è ambiguo, si uniscono le proteste di sinistre a quelle della destra nazionalista. Bisogna fare attenzione, perché la difesa delle democrazione non passa per più sovranità. I movimenti nazionalisti cavalcano solo i diasgi della popolazione, dalla paura dell'immigrazione alle paure per l'occupazione.
Come si fa?
I governi devono uscire dalla trappola dei debiti, insomma credo che serva una certa austerità, ma diversa da quella applicata in Europa. Serve un cambiamento di direzione delle politiche sociali che oggi hanno strutture non sono adatte: le pensioni sono troppo generose, mentre mancano le risorse per la formazione e l'istruzione. Abbiamo bisogno di un grande compromesso a livello europeo per incentivare i paesi a usare i soldi in modo migliore. Il caso della Grecia è emblematico: riceve critiche per come usa le sue finanze, ma non è chiaro quali siano le cose giuste da fare. Un tempo l'Europa mediava tra liberismo e democrazia sociale, ora la palla è in mano solo ai primi, senza alcun compromesso.
Renzi si scontra spesso con le politiche europee. Come lo giudica?
Ho casa in Umbria, ma non conosco abbastanza bene la sua politica, di certo vuole essere
il Tony Blair d'Italia solo che il suo governo arriva in un momento in cui non c'è molto spazio di manovra proprio per colpa dell'austerity. Per fare riforme profonde bisogna sempre poter offrire qualcosa di nuovo e allettante, non vedo cosa si possa fare in questo momento.

Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)

All’epoca del Terzo Reich era l’avveniristico aeroporto della Germania nazista. Ai tempi della guerra fredda il “pilone” del ponte aereo americano che piegò l’assedio dei russi a Berlino. Nell’era di Angela Merkel, l’ex aeroporto di Tempelhof è il più grande centro-profughi della capitale.

Un edificio (a forma di mezzaluna) comunque contemporaneo e di rappresentanza: della «politica di benvenuto» del governo; della gestione sussidiaria del flusso dei migranti, esattamente come in Italia; dei limiti strutturali nell’accoglienza senza l’integrazione.

Quattro hangar dismessi “arredati” con letti a castello e pareti mobili dall’esercito tedesco. Da ottobre sono affidati a Tamaja, un’azienda privata. Gestisce la vita quotidiana di 1.461 rifugiati siriani, iracheni, afghani e bosniaci con il futuro organizzato quanto incerto. Loro sono più che disponibili (ma fuori dal “recinto”) a raccontare il passato.

«La via dei Balcani? È chiusa ma se si hanno le conoscenze giuste si passa dappertutto. Basta pagare. Finora ho speso quasi 7.000 euro per attraversare i confini» racconta Hekmat, 25 anni, libanese. «La mafia turca controlla e gestisce tutto. La polizia di Erdogan si gira dall’altra parte. Sono complici: in queste condizioni denunciare è impossibile oltre che pericoloso». Poi mostra le carte con i timbri del Landesamt für Gesundheit und Soziales (Lageso), l’ufficio sociale dello Stato di Berlino che si occupa dell’emergenza profughi. Sono quattro fogli zeppi di numeri e tabelle: certificano il canone di affitto “calmierato” (393 euro a persona al mese) e la garanzia di pagamento del Land. Ma non è sufficiente. «Quando rispondiamo agli annunci immobiliari, chiedono subito la nazionalità. E appena scoprono che non siamo tedeschi, la conversazione finisce. “Ci dispiace: preferiamo affittare ai locali” è la risposta ormai scontata».

Così la possibilità di alloggio al di fuori degli hangar di Tempelhof resta davvero sulla carta. Proprio come il lavoro, bandito per i primi sei mesi di permanenza a Berlino: un miraggio anche dopo. «Bisogna saper parlare almeno un po’ tedesco. Per questo frequentiamo il corso d’integrazione» riassume allargando le braccia un egiziano 40enne che ne dimostra dieci in più. Ha superato mezza dozzina di frontiere per raggiungere prima la Grecia e quindi la Germania, risalendo a tappe l’Italia, eppure fatica a oltrepassare i confini dell’inflessibile burocrazia della Bundesrepublik. «Non capisco qual è il problema: invece di darci 100 euro al mese per piccole spese personali potrebbero permetterci di lavorare. Sarebbe meglio per tutti» ragiona a voce alta. Mentre corre il paragone con i greci «più poveri dei tedeschi, ma meno complicati e sempre pronti a dare una mano».

Non è passato per il “muro” di Idomeni sul confine macedone né ha assistito alle “esercitazioni” dell’esercito di Tsipras nel cielo del campo-profughi. Per lui esiste solo Patrasso, «dove ci sono le navi che portano in Puglia». Da lì ha raggiunto Amburgo in quattro giorni, alla ricerca dell’unico contatto tedesco per finire a Tempelhof insieme a siriani, iracheni, afghani.

«Ci hanno messo tutti insieme. Uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Dormiamo in “stanze” di circa 15 metri quadrati: 12 persone a modulo. Le donne single stanno insieme alle famiglie» aggiunge un altro rifugiato che si definisce semplicemente “arabo”. Il suo viaggio è durato 14 giorni: dal Nord Africa alla Turchia, dalla Grecia all’Ungheria, dall’Austria alla Germania.

«Al confine con la Baviera sono salito a bordo dei bus che ci ha mandato… Angela Merkel». Non è esattamente così, ma il nome della cancelliera è davvero l’unica parola in grado di strappare un mezzo sorriso. «È una grande donna» scandice Hekmat che battezza Mutti «il capo dell’Europa».

Tuttavia la politica delle porte aperte a Tempelhof vale solo previa prenotazione. «Scaricando i moduli di Tamaja da Internet» fanno sapere ai check-point che filtrano gli ingressi agli hangar. Non sono ammesse visite a sorpresa né lo scatto di fotografie alla porta d’entrata. «Motivi di sicurezza» taglia corto la security in formato bodyguard. Controlla il via-vai degli ospiti che devono esibire l’unico documento riconosciuto, una tessera magnetica con foto fornita a ogni profugo.

E i custodi dell’aeroporto non perdono di vista un attimo anche chi prova ad aggirare la “dogana” passando per le due piste in disuso, confondendosi tra skater, pattinatori, ciclisti e runner. La privacy degli ospiti è garantita pure all’esterno: davanti ai vecchi gate dell’aeroporto un muro di transenne fa il paio con la rete di recinzione distante 200 metri dall’edificio.

Così per sapere cosa succede a Tempelhof non resta che affidarsi (e fidarsi) della legenda fornita da Tamaja. L’hangar n.1 ospita il «centro medico» gestito dal personale dell’ospedale Vivantes. Nei giorni dispari è attiva la clinica pediatrica, mentre il servizio di ginecologia viene assicurato dai dottori del San Giuseppe. Le emergenze sono gestite dal servizio «H24» affidato ai volontari del Johanniter: un dottore, un mediatore e due paramedici sono il “pronto soccorso”.

Scuola, istruzione, educazione dei bambini competono a Tamaja, alla filiale tedesca di Save the Children e al circolo giovanile Cabuwazi con sede a Kreuzberg. Poi ci sono gli assistenti sociali (uno per hangar) e il «servizio di orientamento» burocratico (dalle informazioni sul permesso di soggiorno temporaneo all’assistenza nella procedura di richiesta dell’asilo). Le associazioni Daf e Startcon curano i corsi di lingua con la supervisione dei docenti della Volkshochschule (la scuola di lingua statale) e di German Now, mentre a coordinare le attività didattiche ci pensano i consulenti dell’associazione Trialog.

A Tempelhof c’è anche l’ufficio-reclami: aperto dalle 19 alle 21, ufficialmente per vagliare i «suggerimenti» anonimi degli ospiti da imbucare negli appositi box di colore verde. Si aggiunge il supporto della galassia di associazioni e volontari con sede nel quartiere: da Tempelhof Hilft a Thf Welcome, fino alle parrocchie e alle moschee. Mediatori fondamentali, quasi quanto i traduttori.

«All’inizio la security non parlava una parola di arabo, poi hanno assunto personale bilingue. Da allora va un po’ meglio: almeno adesso capiamo cosa dicono» spiega un rifugiato siriano. Poco distante sette afghani si riposano sul ciglio dell’aiuola davanti all’hangar 3. Parlano persiano eccetto l’unico pashtun del gruppo che comunque si adatta alla conversazione in farsi.

Tuttavia è in perfetto inglese (con accento britannico) che uno traduce l’Odissea che li ha portati a Berlino: «Siamo scappati da Kabul. In Afghanistan la guerra continua come prima, anche se ora dicono che è tutto sotto controllo. L’unica differenza è che il presidente Karzaj, più corrotto dei talebani, è amico di Usa e Europa. Siamo venuti in Germania perché è l’unico Paese che non ci ha chiuso le porte». I persiani apprezzano l’ospitalità tedesca, ma sono consapevoli che il futuro è più che incerto.

«Siamo qui già da sei mesi: per ora non ci sono possibilità di lavoro. L’unica novità è stata il trasferimento di hangar: quello dove dormivamo prima era da ristrutturare».

Intanto fuori da Tempelhof spuntano i primi bambini che tornano da scuola accompagnati dai genitori. Una mamma con l’hijab spinge il passeggino lungo il marciapiede che costeggia la strada principale. Un bimbo sorveglia il fratellino che gattona tra cemento e erba. Altri ospiti si mettono in coda davanti all’ascensore esterno che conduce alla stazione della metropolitana di Platz der Luftbrücke dove ha sede, tra l’altro, la centrale di Polizia del Land di Berlino.

Per ora, si godono l’unica libertà conquistata. Quella di movimento.

Ecco un'intervista (e un libro) che dovrebbero essere letti da chiunque voglia comportarsi da cittadino democratico, impegnato a salvare la nostra democrazia dall'ulteriore decadenza nel referendum del prossimo ottobre.

Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2016 (p.d.)

A guardarlo, il libro del professor Settis, mette di buon umore. E non solo perché s'intitola Costituzione!, con quel punto esclamativo che sembra un’esortazione. Poi c’è il sottotitolo: “Perché attuarla è meglio che modificarla”. Dentro i contributi –raccolti e aggiornati –che negli anni sono apparsi sui giornali o pronunciati in eventi pubblici e che parlano di lavoro, salute, scuola, paesaggio: beni comuni e diritti a cui l’operare dello Stato dovrebbe orientarsi. Ma non accade, “perché i governi hanno smontato lo Stato”.
Professore, partiamo dal sottotitolo: attuarla.
Chi insiste nel ripetere che la Costituzione va cambiata sostenendo che la prima parte non si tocca, non dice mai cosa di quella prima parte è realmente attuato. L’articolo 32, sul diritto alla salute, è attuato o no? Da quando, con la riforma del Titolo V, il sistema sanitario è organizzato su base regionale, come risulta da un’inchiesta del Corriere, la vita media degli italiani sta calando. Mi piacerebbe che chi dice di voler cambiare la Carta, s’impegnasse anche ad applicare le molte parti rimaste inattuate.
I riformatori risponderebbero che il nuovo sistema corregge i danni del federalismo, facendo tornare molte materie alla competenza del legislatore nazionale.
Sulla riforma del titolo V del 2001 –di cui mi sono occupato in particolar modo per quanto attiene alla tutela del paesaggio –sono sempre stato critico. Questa parte del ddl Boschi – senza entrare nel merito di com’è fatta, cioè malissimo – ha una qualche ragione d’essere. L’attuazione dell’art. 32 non dipende solo dal federalismo. Il problema sono i continui tagli e l’imposizione di ticket che sembra no portarci lentamente verso un sistema di sanità privata. Mentre gli Usa di Obama cercano di imitare noi, noi cerchiamo di imitare Reagan.
Il premier l’ha messa sul personale: si vota o con lui o contro di lui.
Non bisogna cadere nella trappola del referendum-plebiscito. La vera ragione per cui essere contrari è che la riforma intacca un terzo del testo costituzionale, diminuendo il prestigio del presidente della Repubblica – attraverso un meccanismo di elezione ridicolo – e il peso del Parlamento. Con un Senato, non più eletto dal popolo, ridotto a un dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali. Il principio della sovranità popolare viene indebolito. Non ho alcun dubbio che siamo solo all’inizio di un percorso...
Infatti lei parla di un “assalto alla Carta”, che parte ben prima del governo Renzi.
C’è una convergenza tra il famoso reportdi JP Morgan del 2013 che punta il dito contro le Costituzioni del Sud Europa “troppo influenzate da idee socialiste”e l’agire dei governi, in particolare mi riferisco al documento Letta: Renzi è stato più cauto. È il segno di una mentalità che si è fatta strada nei circoli della finanza internazionale e delle élite politiche europee, penso alla Commissione e alla Banca centrale, che vuole imporre un ultraliberismo che viene spacciato per nuovo. Ma a me risulta che il thatcherismo non sia proprio un modello nuovo.
Quando si occupa della riforma dell’articolo 81 – con l'introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – parla di un precetto seguito dal governo Monti che la Carta nega: la priorità dell’economia sui diritti.
In quel momento anch’io ho sottovalutato l’impatto della riforma. Ma quella è stata una specie di prova generale della maggioranza delle larghe intese: un progetto molto chiaro del presidente Napolitano per modificare la Costituzione senza bisogno di un referendum. Il principio che sta dietro all’articolo 81 è lo stesso che alberga a Taranto, dove il diritto alla salute viene scambiato con il diritto al lavoro. Certi temi non si affrontano perché l’economia ne risente. Ma sono i cittadini a rimetterci. Farò un paragone che può sembrare improprio: perché sul caso Regeni l’Italia ha solo finto di fare la voce grossa? Perché dietro ci sono interessi economici. Questo per dire che i diritti di una persona o della persona vengono schiacciati in nome dell’economia che dovrebbe salvare il Paese, nonostante la lunga stagnazione e la disoccupazione giovanile al 38%.
In più punti del libro sottolinea la sospetta confusione, anche lessicale, della riforma: come se fosse scritta per non essere capita.
Lo sforzo che ho fatto in questo volume è stato articolare il ragionamento sulla riforma, affrontandone via via i temi nello specifico. Perciò ho inserito una corposa appendice con tutte le riforme costituzionali state fatte fino ad oggi, compresa l’ultima. L’articolo 70 – che prima contava 4 parole e ora 434 – è fatto per non essere capito, per confondere le idee e tenere i cittadini lontano dalla Costituzione. Dicono che il bicameralismo produce solo danni: avrebbero fatto miglior figura a cancellare il Senato. Non è vero, tra l’altro, che il bicameralismo è stato abolito. Per quanto riguarda la cosiddetta semplificazione, ci sono almeno 23 fattispecie di leggi che devono passare per il Senato. Ecco perché nella lettera dei costituzionalisti – 11 dei quali presidenti emeriti della Consulta – si dice chiaramente che la riforma non funzionerà. Succederà che si farà ancor più ricorso ai decreti legge del governo, delegittimando ulteriormente il Parlamento. Quindi l’esecutivo – per evitare che il Paese si fermi – diventerà ancora più potente perché, come si usa dire, “non c'è alternativa”.
Renzi ha parlato di “archeologi travestiti da costituzionalisti”. Forse pensava a lei...
Non desidero interloquire a questi livelli. Si deve parlare del merito della riforma, che è ciò che interessa ai cittadini. Sulla rottamazione mi permetto di osservare che Renzi ha fatto il patto del Nazareno con Berlusconi, che non è proprio un giovanotto. Come del resto Verdini. I vecchi vanno bene se sono amici suoi. Ma dal premier voglio sapere, punto per punto, come cambierà la nostra democrazia.
«Beni comuni . Una cosa accomuna cambiamenti climatici e profughi: questi non sono "migranti economici" da "rimpatriare" in una "patria" che non hanno più. Sono tutti profughi ambientali».

Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)

«Sia le politiche climatiche che le politiche migratorie sono beni pubblici comuni, e per essere più efficaci possibile hanno bisogno di risorse comuni». Con queste parole, che concludono un articolo su Affari e finanza (Repubblica, 2.5), Guntram Wolff, direttore del Bruegel Institut, propone di finanziare con una tassa sulle emissioni carboniche oltre alla conversione energetica anche «controlli comuni alle frontiere e politiche migratorie»: una versione “allargata” della proposta del ministro tedesco Shaeuble di finanziare la sorveglianza delle frontiere con una tassa sulla benzina.

Sotto la voce «sorveglianza delle frontiere» entrambi intendono le barriere che hanno bloccato i profughi lungo la rotta balcanica. Ma un flusso, o una parte di esso, tornerà a imboccare la via del Mediterraneo, dove il filo spinato non serve; per fermarli occorre mobilitare una flotta e fare la guerra agli scafisti. Per politiche migratorie intendono invece accordi come quello indecente con la Turchia (sei miliardi) estesi, come propone Renzi, ai paesi dell’Africa da cui partono quei flussi o che ne vengono attraversati. Quei paesi sono tanti e molto più poveri della Turchia; perciò servirebbero molti più miliardi per convincere i rispettivi governi a riprendersi quei “loro” profughi in fuga per salvare la pelle: ribattezzati però “migranti economici” per negar loro il diritto alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra. L’offerta di un miliardo e otto fatta lo scorso novembre al vertice di Malta era stata non solo respinta, ma anche sbeffeggiata.

È per questo, e per quel “bene pubblico comune” che sono le politiche migratorie, cioè per tener lontani i profughi, che occorrerebbe mobilitare le risorse, che non ci sono, destinate alla lotta contro i cambiamenti climatici. Proposta grottesca, se non contenesse un fondo di verità: una cosa che accomuna cambiamenti climatici e profughi infatti c’è: questi non sono “migranti economici” da “rimpatriare” in una “patria” che non hanno più; sono tutti profughi ambientali, cacciati dalla devastazione prodotta innanzitutto, ma non solo, da cambiamenti climatici ormai in pieno corso e da guerre generate da quella devastazione.

E non solo in Siria; con diverse modalità, sono in corso o in incubazione anche in tanti paesi di origine di quei flussi: per accaparrarsi o difendere con le armi risorse sempre più scarse; l’avanzo di quello che le multinazionali occidentali o cinesi lasciano alle popolazioni locali. Il disastro in Siria anticipa un destino comune: «Considerata la terribile siccità che l’ha preceduta, nel futuro prossimo la guerra civile e internazionale in corso in Siria sarà definita ‘la prima guerra figlia del cambiamento climatico’ – scrive l’economista cileno Andrea Rodrigo Rivas su L’altra pagina, aprile 2016 – Prima dello scoppio della guerra, e molto prima della comparsa dell’Isis, la Siria ha attraversato la peggiore siccità prolungata da quando ebbe inizio la civiltà agricola nella Mezzaluna fertile…una siccità devastante che ha trasformato in deserto il 60% del suo territorio. La rovina delle colture e la morte della maggior parte dell’allevamento hanno ridotto sul lastrico milioni di contadini costretti a emigrare verso le città, alla ricerca di un lavoro…

Così, nelle città siriane, crebbero velocemente occupazioni illegali, sovrappopolazione, mancanza di infrastrutture, disoccupazione e delinquenza… Anche nel Sahel – continua Rivas – siccità, degrado dell’habitat e negligenza dei governi sono all’origine della violenza armata. Le siccità prima avvenivano ogni 10 anni, ora ogni 2… Nel lago Ciad, principale bacino idrico del continente Africano, tra il 1963 e il 1998 l’acqua è diminuita del 95 per cento. È una delle principali ragioni della povertà nel nord della Nigeria e dell’auge di Boko Haram… La Siria e il Mali – conclude – sono un anticipo di ciò che probabilmente avverrà su una scala molto maggiore nel corso di questo secolo».

Questo ci dovrebbe indurre a guardare meglio le tante barriere anti-profughi – fisiche, politiche, amministrative e militari – ormai al centro dello scontro politico in Europa: non sono un espediente temporaneo per far fronte a un’emergenza che l’Europa non era preparata ad affrontare. Sono, consapevoli o meno che ne siano i suoi promotori di destra o estrema destra, ma anche delle maggioranze al governo che si accodano alle loro pretese nella speranza di non perdere elettori, la risposta che l’Europa (ma anche gli Stati Uniti, l’Australia o il Giappone) dà ai problemi creati dai cambiamenti climatici. Non una lotta con il tempo per cambiare sistema energetico e modello economico, ma la chiusura nei propri confini come in una fortezza assediata; lasciando che i paesi al di fuori vadano in malora; e contando su quelle barriere per proteggerci dal loro contagio.

È l’inizio di una difesa armata dei confini che alimenterà guerre sempre più feroci sia al di là di essi che al loro interno: una previsione che il Pentagono aveva già fatto oltre dieci anni fa. Ma a questa “politica estera” fallimentare (i cambiamenti climatici non si fermano con filo spinato e Hot spot e meno che mai con le guerre: colpiranno sempre di più anche l’Europa) corrisponderà una “politica interna” altrettanto feroce e vessatoria: non solo contro l’”invasione” dei profughi, ma anche contro i cittadini europei. T

utti, ad eccezione di quell’1 o 10% che dai disastri economici o ambientali trae crescenti benefici. Non importa se a vincere le elezioni sarà Angela Merkel o l’AfD, o se a governare l’Austria siano Socialdemocratici e Popolari o Norbert Hofer, se poi le politiche verso i profughi sono le stesse. A quelle politiche corrisponderà sempre di più un “tallone di ferro” sui cittadini europei. Anche la costituzione di Renzi, consapevole o meno che ne sia, serve a predisporre le basi di governi autoritari e feroci necessari per gestire un paese-fortezza, dove non ci sarà più posto per quel nostro stile di vita “non negoziabile”. Perché un paese-fortezza è condannato irrevocabilmente al declino economico, alla sclerosi culturale e all’invecchiamento, soprattutto in Europa. E in queste condizioni non si realizzerà né si promuoverà mai quella conversione ecologica indispensabile per evitare che tutto il pianeta precipiti in un completo disastro.

Ma l’Italia ha un problema in più: protesa come un ponte in mezzo al Mediterraneo, è esposta al ruolo di ultimo avamposto dei flussi provenienti dall’Africa e dal Medioriente, come succede oggi a Libia e Turchia, assai più che a restare membro a tutti gli effetti della fortezza Europa. I cui veri confini sono ormai al Brennero, al Gottardo e a Ventimiglia, o a Idumeni, molto più di quanto possano essere negli Hot spot di Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo o Lesbo. Infatti i respingimenti dei cosiddetti migranti economici sono lasciati a Italia e Grecia; la distribuzione delle “quote””di profughi tra i paesi membri non funziona e già si parla di “compensare” la loro mancata ricezione con un’indennità economica da corrispondere allo Stato che dovrà farsene carico. Proprio come con la Turchia.

Una ragione in più per riconoscere nelle politiche verso i profughi l’orizzonte entro cui si misureranno, in Italia e in Europa, la lotta politica e il conflitto sociale dei prossimi decenni. L’Italia affronta già oggi la questione mettendo per strada – e affidando alle mafie – migliaia di profughi a cui non viene riconosciuta la protezione e alimentando così un giustificato allarme su cui ingrassano i Salvini. Per combattere questa prospettiva occorre opporsi ai respingimenti, promuovere una svolta politica radicale il cui nucleo forte non può essere costituito che dalle reti già oggi impegnate nell’accoglienza e nell’inserimento sociale dei profughi. Sono loro il vero antagonista delle politiche di respingimento e di tutto ciò che ne segue: l’avanguardia di un fronte sociale completamente nuovo che intorno a questo impegno deve saper costruire il progetto di una società dell’accoglienza per tutti: profughi e cittadini europei. In cui conversione ecologica, per fermare i cambiamenti climatici, e cooperazione internazionale, per aiutare i nuovi arrivati a farsi protagonisti della rinascita dei loro paesi di origine e, insieme a noi, di tutta l’Europa, trovino un punto di sutura autentico tra «politiche climatiche e politiche migratorie».

Si estende l'esperienza coraggiosa e lungimirante nata del Mezzogiorno. «Una rete dell’accoglienza ai profughi promossa dai comuni in prima linea. Che hanno firmato un patto di reciproca assistenza».

La Repubblica, 13 maggio 2016

Damien Careme è arrivato a Lampedusa con un cd pieno di filmati. A Giusi Nicolini e ad Enrico Ioculano, a Spyros Galinos e Ada Colau, collegati in videoconferenza, ha mostrato come ha fatto a rendere dignitosa la vita nel campo di rifugiati di Calais. E sul molo Favaloro, dalla gente di Lampedusa, impegnata proprio quella notte nell’assistenza a 120 migranti appena sbarcati, ha “imparato” come si fa il primo soccorso.

Lampedusa, Pozzallo, Riace, Ventimiglia, Calais, Lesbo, Barcellona. Eccola la rete dell’accoglienza dei sindaci di frontiera, un patto di reciproca assistenza siglato dai primi cittadini delle zone di confine come risposta di chi lavora nella difficile trincea di questa migrazione epocale all’Europa che alza i muri. Un patto che verrà rilanciato oggi a Pozzallo dal Festival Sabir sulle migrazioni che si concluderà domenica con una grande marcia per dire “no ai muri, sì all’accoglienza”.

La “rete” lanciata da Lampedusa conta già più adesioni di quel che si pensava. «Basta pensare che tra i firmatari del patto c’è anche Barcellona — dice Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa — Anche se in Spagna non stanno affrontando la nostra emergenza, hanno ugualmente deciso di stanziare un contributo di 300 mila euro per le Ong che lavorano da noi. E hanno dato la disponibilità a mandare esperti di ambiente a Lesbo per aiutare nello smaltimento della enorme quantità di rifiuti lasciati dalle centinaia di sbarchi degli ultimi mesi».

La prima e la seconda accoglienza, due realtà difficili al momento non comunicanti in Italia. È anche sul meccanismo di redistribuzione dei migranti che i primi cittadini in trincea vogliono incidere. A Ventimiglia, dove la tensione si è finalmente allentata dopo mesi in cui centinaia di migranti in condizioni drammatiche hanno vissuto accampati per strada o sugli scogli, il sindaco Ioculano dice: «Noi vogliamo essere riconosciuti come interlocutori privilegiati dalle istituzioni. Faccio un esempio. I prefetti convocano ai tavoli i sindaci dei capoluoghi. Ma loro cosa ne sanno? Una gestione a monte dei flussi e un impegno diretto delle amministrazioni locali per la distribuzione dei migranti è fondamentale. Non è possibile che, solo perché ai bandi delle prefetture risponde questo o quell’altro, ci siano comuni che non ospitano nessuno e comuni con troppi migranti ». A Riace, ad esempio, i migranti non sbarcano ma si fermano. E il sindaco Mimmo Lucano che Fortune ha incluso tra i 50 uomini più potenti del mondo, spiega: «L’Europa si esprime a parole. Per noi parlano le realtà che abbiamo costruito. E dimostrano che scegliere le ragioni dell’umanità è più gratificante ma anche più conveniente. Io l’ho fatto da questo luogo semi abbandonato da cui tutti andavano via e che ora ha ritrovato la speranza disintegrando le barriere dell’odio e del pregiudizio».

Nella rete i sindaci sperano molto anche per risolvere il problema dei minori non accompagnati. «A Pozzallo non abbiamo più dove metterli — dice Luigi Ammatuna — potremmo redigere una mappa delle disponibilità e garantire loro una sistemazione adeguata».

«Una Costituzione che promette di non fare troppi danni solo a patto che una maggioranza specifica governi è una costituzione per il presente, non per il futuro, e quindi è improvvida».

Libertaegiustizia.it, 11 maggio 2016 (m.p.r.)

Il clima che i proponenti della riforma costituzionale, Renzi e Boschi, stanno premeditatamente creando ha davvero ben poco a che fare con la politica costituzionale. La Costituzione è diventata, a questo punto e per loro espresso proposito, un oggetto di contenzioso politico, proprio come un programma elettorale: di costituzionale non vi è nulla. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

E fa davvero stupire il più sprovveduto osservatore leggere le opinioni di stimati articolisti, giornalisti, e intellettuali: tutti loro “bevono” (per usare un verbo che piaceva a Piero Gobetti) l’espediente retorico del plebiscito: non c’è alternativa. La catena di idee è questa: poiché non ci possiamo permettere, come Paese, di avere una crisi di governo, e siccome Renzi la scatenerebbe se perdesse il plebiscito, non abbiamo alternativa se non votare come lui vuole, anche perché non c’è altro politico disponibile in questo momento a parte Renzi: quindi turarsi il naso e votare. La nuova Costituzione è brutta, può essere pericolosa perché non ci tutela da cattive maggioranze, eppure per “spirito di responsabilità” la si deve votare. La responsabilità è invocata per l’oggi e verso l’oggi, non per e verso il paese.

La retorica del catastrofismo ha fatto breccia nel cervello degli intellettuali, che mostrano così la labilità della razionalità e dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che davvero nessuno può dirsi “intellettuale” in una democrazia, perché tutti lo sono poiché indistintamente di tutti sono queste emozioni così poco razionali.

Ma appunto per questo, appunto perché i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che può generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum. Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte “per i demoni non per gli angeli”. E come per il ‘Peter sobrio’, che scrive le regole pensando a se stesso quando potrebbe essere ubriaco, queste carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quando e se tenuto da mani sconsiderate. Una Costituzione che promette di non fare troppi danni solo a patto che una maggioranza specifica governi è una costituzione per il presente, non per il futuro (o per un presente corto rispetto al futuro lungo, secondo cui dovrebbe essere pensata la vita di una Costituzione), e quindi è improvvida. E allora, come si può coerentemente e razionalmente sostenere che, sì, questo nuovo Senato è pasticciato, e forse necessiterà di ritocchi in corso d’opera, e però deve essere approvato? Perché, sapendo che ha questi problemi, non si è provveduto a superarli prima di giungere alla sua approvazione? Non è irrazionale questo comportamento?

La campagna referendaria che ci attende sarà in molta parte all’insegna dell’odio verso i sostenitori del No - l’unico modo per sfuggire alle obiezioni, per non rispondere nel merito, per non dar conto di questa irrazionalità. E’ a questo che ci si deve preparare - a un parlare senza dialogo e senza discussione; a un parlare su binari paralleli per convertire i propri e condannare al rogo mediatico gli altri. Alla fine, quale che sia l’esito, l’Italia sarà una società molto divisa. La Costituzione, la grammatica comune, sarà essa stessa la causa della divisione. Anche in questo vi è una sovrabbondanza di irrazionalità.

«La nomina del pur stimato ex console di Gerusalemme, Giampaolo Cantini sortisce l’effetto di una nuova, tranquillizzante disponibilità al compromesso e apertura di credito ad Al Sisi. Con risvolti, temiamo, anche sulle pur limitate indagini».

Il manifesto, 12 maggio 2016 (m.p.r.)

Non appare proprio come un normale avvicendamento diplomatico la scelta di «promuovere» Maurizio Massari alla prestigiosa e importante sede di Bruxelles al posto di Carlo Calenda nominato nelle stesse ore ministro dello sviluppo. Né convincono le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi che indicando nel nome di Gianpaolo Contini il nuovo ambasciatore al Cairo, evidentemente avveduto sui sospetti che la scelta avrebbe potuto suscitare, ha dichiarato: «Allo stesso tempo, per evitare che la sede del Cairo rimanga anche simbolicamente senza ambasciatore, considerando la situazione particolare - anche se oggi registriamo le dichiarazioni del procuratore capo Pignatone, a cui siamo totalmente affidati per le indagini - per evitare anche un solo giorno di mancanza di ambasciatore abbiamo individuato in Giampaolo Cantini, grande esperto di Nord-Africa, il nuovo ambasciatore in Egitto».

Una lunga e affannosa dichiarazione dalla quale trapelano troppe ambiguità. La più evidente è che proprio nel momento peggiore per la verità su Giulio Regeni, l’ambasciatore Massari, testimone e protagonista fin dalle prime ore del caso, viene praticamente allontanato ancora di più dalla scena politica di questo delitto di Stato.

Massari era stato giustamente richiamato in Italia «per consultazioni» l’8 aprile scorso, come risposta tardiva ma corretta all’atteggiamento arrogante del regime egiziano e dello stesso presidente golpista Al Sisi. Lo stesso per il quale Renzi si è speso in questi ultimi due anni in elogi, trattative e sdoganamenti. Ripetutamente le autorità del Cairo, dal ministero degli interni a quello degli esteri ai media legati al potere, hanno insabbiato, depistato, infangato con menzogne il nome di Giulio Regeni. Ribadendo a più riprese la bugia che di «caso isolato» si trattava, mentre siamo di fronte ad un regime che si regge su una violenza sistematica fatta di sparizioni forzate, arresti prolungati, torture e uccisioni di oppositori e attivisti. È stato recentemente incarcerato, non a caso, anche Ahmed Abdallah attivista dei diritti umani e consulente egiziano della famiglia Regeni: deve essere subito liberato.

È poi a dir poco limitato se non miope, attribuire valore salvifico alle indagini della procura italiana, che insiste a dire che le indagini «le fanno gli egiziani», e che già si è trovata di fronte allo smacco del «niente» portato a Roma dagli investigatori del Cairo, e che rincorre al Cairo verbalizzazioni, ipotetici tabulati e celle telefoniche, pezzi di carta. Nell’affannosa quanto improbabile ricerca della verità dalle sole indagini delle polizie e dei magistrati, viste le ripetute bugie e i depistaggi anche sanguinosi come l’uccisione di cinque «malviventi» presunti responsabili del sequestro di Giulio Regeni. Con le sole indagini, spesso impedite e contradditorie, non si arriverà, temiamo, da nessuna parte. Aspettando nuovi documenti, nuove «scoperte d’Egitto» si sta probabilmente solo preparando una verità se non di comodo, sicuramente di serie B e con tanti capri espiatori.

C’è invece un’altra verità, politica, che era e resta da perseguire. Vale a dire rispondere all’interrogativo su chi aveva interesse a sequestrare, torturare e uccidere Giulio Regeni che ricercava sulla natura dei nuovi sindacati egiziani e le loro difficili attività dopo il golpe militare dell’estate 2013. E da questo punto di vista il testimone Maurizio Massari era decisivo. Fu infatti lui nella notte della scoperta del corpo trucidato di Giulio Regeni ad intervenire subito, a non accontentarsi della versione delle autorità egiziane, a intuire la tragedia che si era consumata, ad informare la ministra Guidi in missione d’affari che interrogò su questo lo stesso presidente Al Sisi. È sempre lui il depositario di un interrogativo fin qui rimasto senza risposta: chi decise un silenzio lungo i sei giorni del sequestro verso l’opinione pubblica e i media italiani non informati della sparizione di Giulio Regeni, certo ucciso come gli attivisti egiziani, ma cittadino italiano a tutti gli effetti?

È solo una delle tante domande rimaste inevase. Ora il cosiddetto avvicendamento sposta Massari nel cuore di altre dinamiche internazionali. E la nomina del pur stimato ex console di Gerusalemme, Giampaolo Cantini - a suo tempo avvicendato poco diplomaticamente pure lui dall’ex ministro Terzi - sortisce l’effetto di una nuova, tranquillizzante disponibilità al compromesso e apertura di credito ad Al Sisi. Con risvolti, temiamo, anche sulle pur limitate indagini. Resta da vedere se anche Cantini risulterà ancora «richiamato a Roma per consultazioni», lasciando cioè ancora vacante la sede del Cairo di fronte alla non collaborazione egiziana, oppure se sarà rispedito subito al suo ruolo diplomatico al Cairo. Se così fosse non si tratterebbe come qualcuno incosapevolmente scrive di uno «sblocco dello stallo con gli egiziani che ormai rischiava di diventare una partita infinita». Ma della vittoria della diplomazia del silenzio.

Ecco perché la magistratura (il potere giudiziario) ha non solo il diritto, ma il dovere di esprimersi sulle azioni del potere legislativo e di quello esecutivo. Ed ecco anche, in filigrana, perché a Matteo Renzi non è bastato assorbire il legislativo nell'esecutivo (il Parlamento nel Governo) ma vuole papparsi anche il giudiziario, cioè la Magistratura). Micromega, 11 maggio 2016

Proprio per evitare che la promessa costituzionale restasse un libro dei sogni e per impedire che il pendolo della storia tornasse indietro a causa delle pulsioni autoritarie della parte più retriva della classe dirigente e del ritardo culturale delle masse, i padri costituenti concepirono nella seconda parte della Costituzione una complessa architettura istituzionale di impianto antioligarchico basata sulla centralità del Parlamento e sul reciproco bilanciamento dei poteri".Il procuratore di Palermo dissente dal vicepresidente del Csm Legnini: "I magistrati possono partecipare al referendum".

"Se non capisci come funziona il gioco grande... sarai giocato". Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, toga famosa per le sue indagini sulla mafia, è convinto che i magistrati "debbano" esprimersi sul referendum non solo perché "è un nostro diritto", ma per la futura valenza che la riforma comporta.

Il vice presidente del Csm Legnini (e altri con lui) dice che i magistrati non devono impegnarsi nella campagna referendaria perché finirebbero nella contesa politica. Che ne pensa?

Mi permetto di dissentire. Forse a tanti non è sufficientemente chiaro quale sia la reale posta in gioco che travalica di molto la mera contingenza politica. A mio parere siamo dinanzi a uno spartiacque storico tra un prima e un dopo nel modo di essere dello Stato, della società e dello stesso ruolo della magistratura. Nulla è destinato a essere come prima".

Cosa potrebbe cambiare nel futuro rispetto al passato?
A proposito del passato mi consenta di partire da una testimonianza personale. Tanti anni fa ho deciso di lasciare il mio lavoro di dirigente della Banca d'Italia e di entrare in magistratura perché ero innamorato della promessa-scommessa contenuta nella Costituzione del 1948 alla quale ho giurato fedeltà.

E quale sarebbe questa "promessa-scommessa?
Quella scritta nell'articolo 3 di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese". Era uno straordinario programma di lotta alle ingiustizie e un invito a innamorarsi del destino degli altri. La Repubblica si impegnava a porre fine a una secolare storia nazionale che Sciascia e Salvemini avevano definito "di servi e padroni" perché sino ad allora intessuta di disuguaglianze e sopraffazioni che avevano avuto il loro acme nel fascismo e nella disfatta della seconda guerra mondiale".

Sì, però l'attuale riforma costituzionale si occupa solo della seconda parte della Costituzione e lascia intatta la prima sui diritti. Cosa la turba lo stesso?

La seconda parte è strettamente funzionale alla prima.

E perché tutto questo coinvolgerebbe le toghe? Realizzare la promessa non era compito della politica?"All'interno di questo disegno veniva affidato alla magistratura il ruolo strategico di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo.

Un'affermazione forte... Ma di quale vigilanza parla?"I giudici, tra più interpretazioni possibili della legge ordinaria, devono privilegiare quella conforme alla Costituzione e, se ciò non è possibile, devono "processare la legge", cioè sottoporla al vaglio della Consulta. La magistratura italiana quindi è una "magistratura costituzionale" e, in quanto tale, la sua fedeltà alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria. È una rivoluzione copernicana del rapporto tra politica e legge di tale portata che a tutt'oggi non è stata ancora metabolizzata da buona parte della classe politica che continua a lamentare che la magistratura intralcia la governabilità sovrapponendosi alla volontà del Parlamento.

Con la riforma Renzi questo equilibrio potrebbe saltare?

Alcune parti di questa riforma si iscrivono in un trend più complesso. Oggi tutto ciò rischia di restare solo una storia terminale della prima Repubblica, perché quello che Giovanni Falcone chiamava "il gioco grande", si è riavviato su basi completamente nuove. Alla fine del secolo scorso, a seguito di fenomeni di portata storica e mondiale, sono completamente mutati i rapporti di forza sociali macrosistemici che furono alla base del compromesso liberal-democratico trasfuso nella Costituzione del 1948. Lo scioglimento del coatto matrimonio di interessi tra liberismo e democrazia ha messo in libertà gli "animal spirits" del primo che ha individuato nelle Costituzioni post fasciste del centro Europa una camicia di forza di cui liberarsi.

Un attimo: cosa si sarebbe rimesso in moto?

Si è avviato un complesso e sofisticato processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere che si declina a livello sovranazionale e nazionale lungo due direttrici. La prima è quella di sovrapporre i principi cardini del liberismo a quelli costituzionali trasfondendo i primi in trattati internazionali e trasferendoli poi nelle costituzioni nazionali. Esempio tipico è l'articolo 81 della Costituzione che imponendo l'obbligo del pareggio di bilancio impedisce il finanziamento in deficit dello Stato sociale e trasforma i diritti assoluti sanciti nella prima parte della Costituzione in diritti relativi, cioè subordinati a discrezionali politiche di bilancio imposte da organi sovranazionali spesso di tipo informale e privi di legittimazione democratica. La seconda direttrice consiste nel trasferimento dei centri decisionali strategici negli esecutivi nazionali incardinati ad esecutivi sovranazionali, declassando i Parlamenti a organi di ratifica delle decisioni governative e sganciandoli dai territori tramite la selezione del personale parlamentare per cooptazione elitaria grazie a leggi elettorali ad hoc. Il gioco dialettico tra maggioranza- minoranza viene disinnescato grazie a premi di maggioranza tali da condannare le forze di opposizione all'impotenza.

Questo è uno scenario politico. Perché ciò dovrebbe interessare la magistratura?
Se muta la Costituzione, cioè la Supernorma che condiziona tutte le altre, rischia di cambiare di riflesso anche la giurisdizione. La magistratura già oggi è sempre più spesso chiamata a farsi carico della cosiddetta legalità sostenibile, cioè della subordinazione dei diritti alle esigenze dei mercati, e quindi delle forze che governano i mercati. L'articolo 81 della Costituzione ha costituzionalizzato il principio della legalità sostenibile che si avvia a divenire una norma di sistema baricentrica del processo di ricostituzionalizzazione in corso. La conformazione culturale della magistratura al nuovo corso potrà essere agevolata dalla possibilità di minoranze, trasformate artificialmente in maggioranze grazie al combinato disposto dell'Italicum e di alcune delle nuove norme costituzionali, di selezionare i giudici della Consulta e la componente laica del Csm.

Cosa direbbe a un giovane magistrato oggi indeciso se impegnarsi nella campagna referendaria?

Che se non capisci come funziona il gioco grande, sarai giocato. Da amministratore di giustizia rischi di trasformarti inconsapevolmente in amministratore di ingiustizia.

«Il sindaco di Livorno, per fare chiarezza sul collasso della municipalizzata dei rifiuti, decide di portare i libri in tribunale. Poco dopo anche per lui scatta l’avviso di garanzia. Eppure qual è il compito dell’amministratore pubblico se non provare a risolvere i problemi della collettività?».

Lavoce.info, 10 maggio 2016 (m.p.r.)

La pessima prassi di nascondere i “piccoli” problemi…

Vita dura quella dell’amministratore della cosa pubblica. Ne sa qualcosa il sindaco di Livorno, che dopo aver cercato di fare chiarezza sul collasso di un’impresa pubblica (la municipalizzata dei rifiuti dello stesso comune, rovinata da anni di mala gestione) e dopo avere fatto un atto di estremo coraggio (portare i libri in tribunale) è rimasto coinvolto dallo scandalo che lui stesso aveva sollevato.
Vita dura davvero. E vale la pena di ricostruirne i passaggi.

Anno 2014. Dopo settanta anni di indiscussa amministrazione di sinistra (dal Pci al Pd, dal 1944 nessun sindaco livornese ha avuto un’estrazione diversa) viene eletto sindaco Filippo Nogarin, del Movimento 5 Stelle. Forse i livornesi si sono accorti che “qualcosa” non andava? Non lo so. Ma da allora - tra i tanti problemi sul tappeto - il neo sindaco si trova ad affrontare il tema della locale azienda dei rifiuti (Aamps), al 100 per cento del comune. E qui, le cose che non andavano erano tante.
È almeno dal 2010 che il margine operativo dell’impresa non è superiore agli ammortamenti: in cinque anni, oltre 7,3 milioni di perdite a livello di risultato operativo netto (i bilanci sono sul sito del comune). Tanto che nel 2013 una verifica da parte del ministero dell’Economia aveva denunciato una decina di “non conformità”, alcune decisamente gravissime. Come si legge, per esempio, nello stesso bilancio dell’impresa, “non puntuale riscossione della tariffa di igiene Ambientale; squilibrio tendenziale fra costi della produzione e ricavi; eccessivo ricorso all’indebitamento verso istituti bancari”.
Ciononostante, nella primavera 2014 gli amministratori chiudono “tranquillamente” il bilancio del 2013 facendo apparire utili minimi ma superiori allo zero e parlando più in generale di “un risultato positivo (…) che ci fa ben sperare per il futuro”. Decisione coraggiosa, di fronte di una relazione del collegio sindacale (l’organo di controllo) il quale concludeva, con insolita franchezza, che il “progetto di bilancio al 31/12/2013 non è stato redatto con chiarezza e non rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato economico di Aamps”.

… fin quando i problemi stessi non siano troppo grandi

Dopo qualche settimana si insedia la nuova amministrazione, che deve decidere cosa fare dei problemi che fino allora erano finiti sotto il tappeto. Il risultato è che il bilancio di fine 2014 fa segnare quasi 12 milioni di perdita, con debiti a breve verso le banche saliti da 4 a 12,5 milioni. Una situazione in gran parte dovuta alla necessità di accantonare somme ingenti per crediti vecchi ormai di fatto inesigibili: le tariffe “di igiene ambientale” che le precedenti amministrazioni mantenevano a bilancio quasi si trattasse di crediti di imminente incasso.

Anche questo è stato un bilancio molto sofferto, approvato a fine ottobre (cinque mesi oltre il normale), di nuovo con il parere negativo dei sindaci, che sollevano forti dubbi sulla “continuità aziendale”. A fine 2015 la nuova amministrazione deve quindi portare i libri in tribunale; preferisce tentare altre strade, ma – anche mancandole le risorse – il 25 febbraio 2016 viene presentata domanda di ammissione al concordato preventivo, ciò che il tribunale concede il 5 marzo.

Un concordato con poca concordia

Il concordato ha tante conseguenze. Citiamone due per tutte, giusto per chiarire i risvolti economici e politici della cosa. La prima è che l’impresa può sospendere il pagamento degli interessi alle banche. A cominciare dal Monte dei Paschi, che a quanto pare riceveva da questa fonte quasi un milione all’anno. La seconda conseguenza è che di fatto tutti i contratti dell’azienda vengono ora passati al setaccio, con prospettive tutte da verificare per artigiani e cooperative locali. E lo scontento monta su diversi fronti…

Purtroppo, nel gennaio di quest’anno la società (non ancora in concordato, ma sicuramente in situazione delicatissima) decide di stabilizzare una trentina di precari, assumendoli a tempo indeterminato. Atto opportuno? Sicuramente no. Atto dovuto? Forse. Ora, arriva l’avviso di garanzia, forse legittimo, per carità, ma almeno altrettanto paradossale. Il provvedimento finisce infatti per coinvolgere proprio la persona che questo bubbone lo ha fatto scoppiare. La polemica politica non mi interessa; se però il sindaco avesse continuato a nascondere le magagne sotto il tappeto, ora probabilmente staremmo parlando di altro.
Chiunque abbia un ruolo amministrativo e provi a prendersi responsabilità “vere” è avvisato. Il coraggio - almeno per ora - non paga. Ma, d’altra parte, se fai l’amministratore pubblico senza provare a risolvere i problemi della tua collettività, a cosa servi?

. Altraeconomia, 11 maggio 2016, con postilla

“Con questa puntata ci siamo impegnati […] ad immaginare come trasformare una calamità in un vantaggio per il richiedente asilo, per noi e per l’Europa. Un progetto concreto, anche severo, pensiamo di civiltà e soprattutto realizzabile”. Con queste parole la giornalista Milena Gabanelli ha lanciato domenica 8 maggio il servizio della trasmissione Report su Rai3 intitolato “La via d’uscita” e dedicato a frontiere, immigrazione e accoglienza. Una puntata che ha destato non poche perplessità tra gli addetti ai lavori, in particolare per la "soluzione" immaginata e riproposta di un'accoglienza centralizzata in 400 caserme (ospedali o resort) di 200mila persone, ben lontana dalle pratiche virtuose di modelli "diffusi".

Il progetto “concreto” avrebbe dovuto riguardare il nostro Paese e il modello di gestione-accoglienza dei richiedenti asilo, ritenuto incapace di garantire standard di efficienza. Dal momento che “non abbiamo alternative perché attorno a noi tutto è chiuso -ha spiegato Gabanelli- proviamo a rigirarla, facciamola noi l’accoglienza, gestione pubblica, l’Europa ci paga e poi ogni Paese si prende la sua quota, già formata e identificata”. Per “chiuso” s’intende il contesto europeo, valico del Brennero compreso, come fa notare durante la trasmissione il segretario provinciale del sindacato di polizia COISP. La fonte prescelta però è la stessa sigla che non più tardi di un mese fa aveva spacciato un naufragio per un complotto, oltre ad essersi resa protagonista di picchetti vergognosi organizzati a Genova contro la memoria di Carlo Giuliani o manifestazioni sotto l’ufficio di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo ucciso a Ferrara da alcuni poliziotti nel settembre 2005.

Al di là delle fonti, la questione di Report è spiccia: “Dove metterli (i migranti, ndr)?”. Per rendere appetibile la ricetta di un’Italia “hotspot” comunitario, la trasmissione ha mescolato ingredienti risolutivi: i siti ideali dove stoccare la merce saranno “resort […] confiscati alla mafia, ex ospedali, e […] l’immenso patrimonio delle caserme”, che del resto in Italia sono “centinaia”.

“Ipotizzando l’accoglienza di circa 200mila persone l’anno, occorre identificare 400 luoghi”. Calcoli alla mano, sempre secondo la redazione di Report, la svolta accogliente si costruirebbe in buona parte su quattrocento caserme (e ospedali e resort), oggi dismesse e domani già adibite a efficaci contenitori di 500 persone in media. Quando Gabanelli illustra l’idea in studio, parte una simulazione al computer delle stanze riadattate dei centri militari. Qui i letti a castello, qui i bagni separati, qui i banchi di scuola d’italiano dove poter insegnare i valori della “democrazia europea”.

Al capitolo “personale”, Report ipotizza l’assunzione “a tempo pieno” di 25mila tra “insegnanti, formatori, psicologi” per un costo annuo di 750 milioni di euro. 30mila euro lordi a testa all’interno di un’organizzazione capace di assicurare risultati nel campo della “maggiore percezione di sicurezza” e “maggiore disponibilità sociale”.

Ma il vero punto debole della proposta centralizzata di Report sta nel fatto che durante la trasmissione non è mai stata citata la gestione pubblica dell’accoglienza che nel nostro Paese già esiste dal 2002 e che si fonda sul protagonismo degli enti locali: si tratta del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) che dipende dal Viminale e che nel 2014 ha garantito oltre 20mila posti grazie al coinvolgimento di 381 enti locali, in buona parte Comuni, accogliendo così 22.961 migranti.

Lo SPRAR è l’alternativa diffusa all’approccio emergenziale e centralizzato che fa capo alle prefetture, e che ancora oggi caratterizza il modello italiano nel 72% dei casi, come ha fotografato anche il ministero dell’Interno nel “Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia” dell’ottobre 2015.

Anche Silvia Turelli, operatrice della cooperativa K-PAX Onlus di Breno (BS) al centro di un lungimirante progetto di accoglienza diffusa in Valle Camonica, è rimasta perplessa dall’opzione “caserme”. “L’ipotesi che grandi concentrazioni di persone possano assicurare sicurezza e integrazione non è assolutamente percorribile ed è già stata smentita dai fatti -afferma-. Com’è possibile creare interazione, non dico integrazione, collocando insieme 300 o 1.000 persone in una caserma? Se la soluzione fosse temporanea, al massimo per due settimane, e limitata all’esecuzione di fotosegnalamento e a un primo screening sanitario in vista di una ricollocazione sul territorio, allora avrebbe un senso. Ma trattenere 500 persone in un unico centro per minimo sei mesi sarebbe un errore”.

Il disinteresse di Report per il modello SPRAR è condiviso da buona parte degli enti locali del Paese, visto che nell’ultimo bando per l’assegnazione di posti e progetti non si è raggiunta la quota necessaria, mandandolo così praticamente deserto. “Ma la debolezza politica dell’accoglienza non è un buon motivo per abbandonare un modello come lo SPRAR che comporta una spesa contenuta e offre servizi assolutamente competitivi ed efficienti”, spiega Turelli. Nel 2015, il ministero dell’Interno ha stimato una spesa complessiva del sistema di accoglienza di 1.162 milioni di euro, 242,5 dei quali in capo allo SPRAR, con un “costo medio pro-capite giornaliero” identico alle strutture temporanee ma oneri di rendicontazione dei servizi erogati (assistenza legale, sanitaria e così via) ben più stringenti di quelli imposti ai gestori individuati con bando prefettizio.

“Il punto è che in Italia non c’è mai stata una reale politica dell’integrazione - riflette Turel i- e non affrontare la questione significa continuare a isolare le persone, limitarne la presenza, come se si dovessero scongiurare contatti tra mondi separati”. L’esempio di Breno e di K-PAX dimostra che il modello diffuso in piccoli appartamenti in grado di ospitare fino a cinque migranti funziona. “La forza sta nell’estrema flessibilità della gestione e nel coinvolgimento pieno delle persone, che è l’esatto contrario dell’aula fissa o lo spazio dei laboratori ripetuti ciclicamente. Nel nostro caso lo sforzo è stato quello di adattarsi alle esigenze dei migranti”. Uno sforzo condotto non soltanto da “insegnanti, formatori, psicologi” ma anche da mediatori culturali e operatori legali.

Ma l'ossessione del "dove metterli?" ha portato Report ha commettere un altro errore. A proposito dei richiedenti protezione, infatti, Gabanelli ha affermato che “In Italia, fino ad oggi sono arrivati perlopiù sub sahariani, che non fuggono da Paesi in guerra ma magari da guerriglie e quindi bisogna valutare caso per caso, per stabilire chi è richiedente asilo, chi ha diritto all’asilo e chi no e ci mettiamo fino a due anni”. Ma questa è la regola, la traduzione normativa di principi racchiusi in trattati e accordi internazionali sui rifugiati (come la Convenzione di Ginevra del 1951). A nessuno spetta formalmente una valutazione complessiva e sommaria a seconda del passaporto. Tutti, cittadini siriani o “sub-sahariani”, hanno dunque diritto all'esame individuale della loro richiesta di protezione. E tutti, salvo eccezioni (disciplinate ad esempio nel Dl 142/2015), hanno il diritto di ricorrere a un giudice terzo in caso di diniego opposto dalla commissione territoriale.

postilla

Davvero incredibile. Una persona come Gabanelli, una trasmissione come Report, che cadono in questa trappola. Per comprendere qual'è la soluzione non inumana del problema dei "migranti" ( noi preferuamo dire dell'"Esodo del XXI secolo") basterebbe leggere il bellissimo libretto (piccolo di dimensioni, ma grande di contenuto) di Guido Viale, Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti. Oppure guardare su eddyburg i nomerosissimi articoli raccolti sull'argomento.
Ancora di più stupisce che Gabanelli e
Report condividano la convinzione turco-tedesca che chi fugge dalla miseria creata dalle guerre e dalle devastazioni ambientali, prodotte largamente dal Primo mondo, abbiano meno diritti umani degli altri. Non c'è bisogno di essere Guido Viale o Stefano Rodotà, o papa Francesco per comprenderlo. Veramente il danno prodotto dal neocolonialismo dell'attuale fase del capitalismo è profondo, e sara duro estirparlo.

PIl manifesto, 11 maggio 2016

A sentire Renzi nell’ultima direzione Pd, sul referendum costituzionale è guerra totale. Chiama Il partito alle armi, e propone una moratoria. Fino al voto sulla riforma tutti insieme appassionatamente. Il minuto dopo si scateni pure l’inferno, e si vada alla conta. Un principio di affanno? Timore che i guai giudiziari del Pd appannino l’appeal populistico del leader? Sull’attacco alla magistratura, avviato in stile berlusconiano, è sceso un improvviso silenzio. Che non potrà essere rotto perché i magistrati – com’è nel loro pieno diritto – si esprimono sulla riforma.

Ma rimane grande l’arroganza dell’occupante di Palazzo Chigi: un Renzi vale una Costituzione. Se volete Renzi, dovete volere anche la Costituzione di Renzi. È l’offerta speciale di autunno: due al prezzo di uno. La battuta della Boschi su Casa Pound non merita l’onore di una citazione. E l’esangue minoranza Pd perde un’occasione, e si allinea. Lo scambio è con il congresso, cui – prevedibilmente – seguirà la pulizia etnica dei dissenzienti, salvo pochi esponenti più rappresentativi da imbalsamare a scopo di studio come esemplari di una specie estinta.

Per il resto, siamo all’archeologia costituzionale.

Secondo il dizionario, l’archeologia “mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso la scavo e lo studio della varia documentazione”. Cosa troviamo nell’antica civiltà dell’Assemblea Costituente?

Anzitutto, un Governo che si tiene da parte. Nella Costituente i banchi dell’esecutivo rimasero vuoti. De Gasperi prese la parola per la prima volta sulla nuova Costituzione, come componente dell’Assemblea e non come Presidente del consiglio, il 25 marzo del 1947, quasi scusandosi, per sostenere l’inserimento nella carta fondamentale del rapporto tra Stato e Chiesa cattolica. Il 22 dicembre 1947, giorno del voto finale, commentò che i membri del governo avevano con “un certo senso di invidia” osservato il nascere della Costituzione, “mentre noi, dalle esigenze di tutti i giorni, eravamo costretti ad occuparci dei piccoli particolari”. Il 13 dicembre 1947 Scelba, ministro dell’interno, precisò che il governo aveva presentato una proposta di legge elettorale al solo fine di facilitare il lavoro “senza che questo potesse minimamente significare né impegno del Governo di decidere su quel determinato progetto, né menomazione dell’autorità dell’Assemblea Costituente”. Dunque l’esecutivo non sarebbe intervenuto nel merito delle votazioni, rimettendosi in ogni caso all’Aula.

Inoltre, vediamo l’obiettivo di un testo condiviso nel suo complesso, pur nel dissenso su singoli punti anche rilevanti. Ad esempio, sulla Parte II della Costituzione le sinistre ebbero un atteggiamento critico: in specie, gli interventi di Nenni, 10 marzo, e Togliatti, 11 marzo 1947. Ma si pervenne a un consenso unitario per la volontà di dare al paese una Costituzione ampiamente condivisa. Era cruciale, disse Togliatti, trovare un terreno comune abbastanza solido per costruire una Costituzione, andando “al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare”. Tanto che, come affermò il 6 marzo 1947 Basso, se avvalendosi di “esigue maggioranze” qualcuno avesse voluto fare una Costituzione “di parte”, “avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione e il vento disperderà la vostra inutile fatica”. Non è in questione il dissenso, che anzi va lodato, come disse V.E. Orlando il 22 dicembre 1947 “come il mezzo più idoneo per scoprire la verità o per avvicinarci ad essa il più che sia possibile”. Il fine era quello di costruire una Costituzione “proporzionata al corpo sociale” come affermò La Pira l’11 marzo 1947: “sia nella prima parte, quando definisce i rapporti dei singoli con lo Stato, ed i rapporti dei singoli fra di loro, sia nella seconda parte, quando, mediante la. struttura dello Stato, esso dispone in modo che questi diritti abbiano la tutela ed abbiano le garanzie”.

Sulla composizione del Senato l’Assemblea discusse il 24 e 25 settembre, e ancora il 10 ottobre 1947. Furono respinte la composizione mista, e l’elezione di secondo grado. Su questa, il 24 settembre Laconi sottolineò il pericolo di “veder trasformato il Senato in una Camera che rappresenti unicamente, e nel modo più ristretto, degli interessi locali di piccoli gruppi configurati territorialmente e politicamente”. Mentre Nitti si scagliò contro l’elezione di secondo grado, meccanismo inquinato e inquinante, perché “il nostro Paese non ha ancora una struttura politica, dopo tante vicende, che assicuri contro le cattive influenze e contro la corruzione”.

Certo, il breve spazio di un articolo consente solo poche ed emblematiche citazioni. Ma bastano a dirci che i costituenti di oggi avrebbero tutto da imparare dal metodo, e più ampiamente dal modo di pensare, dei costituenti di ieri. Quelli operarono in un paese devastato dalla guerra, e pure vediamo che la civiltà antica batte la moderna, di molte lunghezze. Anche allora i professori erano in campo, e Nenni li ringraziava, il 10 marzo 1947, per aver contribuito “a mettere tutta l’assemblea in condizioni di discutere i problemi costituzionali, e a mettere il paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni “.

Altri tempi. Ma non ci spiace affatto la qualifica di archeologi costituzionali. Sempre che al duo Renzi-Boschi venga riconosciuta quella di tombaroli.

«Il Belpaese. L’incapacità di assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi sono i mali più evidenti della nostra società». Le tre tesi di J.M. Keynes e la loro utilità attuale». Il manifesto, 11 maggio 2016

Che cosa pensare di questo nostro povero paese, in cui soltanto pochi stanno bene? Eccone i tratti somatici: tre milioni di disoccupati; più di dieci di inattivi, di cui quasi due milioni perché “scoraggiati”; due milioni e mezzo di precari; quasi due milioni di lavoratori in nero; una evasione fiscale complessiva tra il 20 e il 30% del Pil; una distribuzione del reddito tale che l’1% della popolazione possiede oltre il 10% della ricchezza complessiva – mentre in sette milioni vivono in povertà.

L’Italia non rispetta dunque due dei “Principȋ fondamentali” della sua Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; né della Costituzione si rispetta l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Oltre i 75.000 euro di reddito, che è oggi il quinto e ultimo scaglione di reddito, l’aliquota IRPEF è invece ferma al 43%.

Che l’incapacità a assicurare la piena occupazione, e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi, siano i mali più evidenti della società economica nella quale viviamo, e mali destinati a aggravarsi se permane l’attuale processo di deflazione, l’aveva già capito J. M. Keynes; che ne aveva suggerito una terapia nelle Note conclusive sulla Filosofia sociale alla quale la Teoria generale potrebbe condurre (1936). Il disegno di Keynes è articolato in tre tesi.

La prima, a sua volta, è articolata in due punti:
È falsa la tesi ancora oggi corrente, secondo la quale l’accumulazione del capitale dipenderebbe dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio dei ricchi, la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolata. La propensione marginale al consumo dei ricchi è minore di quella dei poveri. Dunque una redistribuzione del reddito per via fiscale, dai ricchi ai poveri, farebbe aumentare la propensione media al consumo, dunque la domanda per consumi dunque gli investimenti dunque la domanda effettiva dunque il reddito nazionale dunque l’occupazione.

La seconda tesi di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta reddività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: “l’eutanasia del rentier” e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. L’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra, e oggi i tassi di interesse sono già bassi per effetto della politica monetaria perseguita dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia ciò ha colpito i piccoli redditieri ma non i grandi speculatori; e d’altra parte le banche non trasmettono alle imprese gli effetti di quella politica monetaria, poiché preferiscono il più tranquillo e redditizio acquisto di titoli di stato. Qui sarebbero possibili interventi del Governo, mentre per le grandi istituzioni finanziarie sarebbe necessaria una regolamentazione sovranazionale – va infatti ricordato che sia a livello nazionale sia a livello internazionale queste istituzioni costituiscono una sorta di “senato virtuale”; senato virtuale che è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). L’Italia ne sa qualcosa.

Terza tesi di Keynes, circa il ruolo dello Stato: «Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse. Sembra però improbabile che l’influenza della politica monetaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento: ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena». Nel caso dell’Italia questa tesi dovrebbe esser letta in questo modo: Non privatizzare le industrie pubbliche né sollecitare investimenti esteri, poiché questi non costituiscono ”investimenti” ma semplici trasferimenti di proprietà e dei profitti associati; e sottintendono la vergognosa convinzione che i privati, con qualsiasi passaporto, siano imprenditori migliori di quelli pubblici nazionali: questo è però un problema del nostro ceto dirigente.

Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Sono invece riforme possibili, ben fondate teoricamente e socialmente desiderabili: a differenza delle “riforme passive” di cui è fatta l’agenda di questo Governo (che tali si potrebbero definire per analogia con le “rivoluzioni passive” di Cuoco e Gramsci). Sotto a tutte le decisioni di politica economica c’è una qualche teoria economica e dunque una qualche filosofia sociale.

Quale sia la teoria economica e la filosofia sociale che ispirano il nostro Governo non è chiaro, tuttavia esso sembra credere ancora alla vecchia teoria neoclassica, fondata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, teoria che per un aumento dell’occupazione indica come necessaria e sufficiente una riduzione del costo del lavoro; e la cui filosofia sociale è quella del “Laissez faire”: motto che risale a un incontro tra il ministro Colbert e un mercante di nome Legendre intorno al 1680: alla domanda di Colbert «Que faut-il faire pour vous aider?», la risposta di Legendre fu «Nous laisser faire!»: “Lasciate fare a noi mercanti!”.

Emergenza". La Repubblica, 10 maggio 2016 (c.m.c.)

Dimitar Josifov Pešev, uomo senza qualità e senza eroismi, politico di seconda fila in una piccola nazione (era vicepresidente del Parlamento bulgaro), aveva accettato senza obiezioni le leggi antisemite introdotte nel suo Paese, non aveva firmato proteste o manifesti. Ma quando, il 7 marzo 1943, apprese che stava per essere avviata la deportazione di 48 000 ebrei, che lui non aveva mai creduto possibile, scrisse al primo ministro denunciando il fatto, riuscì a ottenere la firma di altri 43 parlamentari, e suscitò uno scandalo che costringerà lolo zar di Bulgaria a resistere alle richieste dei nazisti.

Scriveva Pešev: «Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali».

Nessun ebreo sarà deportato dalla Bulgaria. La disubbidienza non basta, e la resistenza si deve trasformare in esemplarità: non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come, alienata da entità numinose e vaghe (il Capitale, la Tecnica, la Storia). Ciò che esiste sono singoli esemplari di umanità per il bene e per il male - Caracalla che estende la cittadinanza romana agli uomini liberi dell’Impero, Eichmann che organizza il traffico ferroviario verso i Lager, Kohl che decide che la Germania si faccia carico dei costi dell’unificazione. E tanti esempi che non sono consegnati alla storia, e che fanno parte del modo in cui ognuno agisce e pensa, spesso generando difficoltà agli psicoanalisti.

Tra i primi e i secondi ci sono storie intermedie, quelle degli uomini comuni come Pešev, un eroe alla Spielberg, come Schindler o il Donovan del Ponte delle spie. Il suo caso è l’esemplificazione del principio secondo cui lo statuto morale di una persona è determinato dal suo rapporto con norme che non sono morali ma pragmatiche e storiche, ed è in relazione a queste che bisogna impegnarsi moralmente. Ecco perché quelli come Pešev sono stati chiamati “Giusti”: non eroi ma persone normali che hanno scelto; è questo credo a introdurre la giustizia come responsabilità di fronte al mostrarsi del reale. Cercare invece la perfezione morale nella purezza delle proprie intenzioni, che hanno la disastrosa tendenza a trasformarsi in ideali, è confermare il detto secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E se ci fosse stato un Pešev in Italia, in Francia, in Polonia, in Olanda? E se Pešev fosse stato persuaso che la vera azione e la vera pietà sono quelle del pensiero? Se invece che una lettera al primo ministro avesse scritto un romanzo o annotato un pensiero in un moleskine, o su un quaderno nero à la Heidegger?

“Realismo” non significa semplicemente sostenere che esistono tavoli e sedie: questo lo sanno anche gli antirealisti, sebbene poi si ostinino a sostenere che non sono tavoli né sedie in sé ma tavoli e sedie per noi. Meno che mai vuol dire che accertare la realtà significhi accettarla, rinunciando alla trasformazione. È vero il contrario. La trasformazione, o la rivoluzione, è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte solo nel pensiero, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle. Pešev non era un ribelle di professione. Con la sua azione teoricamente semplice ma praticamente coraggiosa, ha provato il discontinuo: che la libertà esiste, e ha mostrato la possibilità dell’impossibile, la fattibilità reale di qualcosa che non ha ancora avuto luogo. Qualcosa che è “fuori dagli schemi”.

È importante che l’azione esemplare sia individuale. Non c’è bisogno di sviluppare un culto degli eroi alla Carlyle, imboccando la strada che porta al superuomo e alle fanfaronate di Zarathustra. Basta che l’azione sia espressione di un individuo prima che di un’idea e di un imperativo categorico — presentandosi come una infrazione delle regole, come una sorpresa affine al motto di spirito piuttosto che come l’attuazione di un programma: al limite (e può bastare e avanzare) come l’«avrei preferenza di no» di Bartleby lo scrivano.

È necessario emanciparsi? È giusto ribellarsi? Dipende. Guidare la moto senza casco è un atteggiamento ribellistico, e chi ha posteggiato l’auto in terza fila è anche lui a suo modo un ribelle, senza gli attributi di nobiltà feudale che Jünger attribuisce a questa parola. Quanto poi all’emancipazione, è anzitutto emancipazione dalla stupidità, ma ovviamente non basta.

Dopo aver pensato e ragionato, si prende comunque una decisione, che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta, perché, d’accordo con Kierkegaard, «l’istante della decisione è una follia»: è per l’appunto la sospensione del continuum dei ragionamenti, l’introduzione di un discontinuo. «Il mondo è fuori dai gangheri ( out of joint) », dice Amleto — e proprio perché è il mondo lì fuori a essere fuor di sesto che ho lo stimolo (che certo può essere sbagliato o catastrofico) a rimetterlo in sesto.

«» Ergo i magistrati, se vogliono, possono dire ciò che vogliono sul referendum sul quale si esprimeranno col voto. La Repubblica, (c.m.c.)

Caro direttore, alcune prese di posizione di magistrati sulla vicenda referendaria hanno dato l’avvio a un serrato dibattito, nel quale sono risuonati echi dell’annosa contrapposizione (c’è chi la chiama guerra) fra politica e magistratura. Per la verità, tranne pochi estemporanei pasdaran, nessuno fra gli esponenti politici intervenuti ha sostenuto che si debba vietare ai giudici di esprimere le proprie idee. Il richiamo, semmai, è alla categoria dell’”opportunità”: non è vietato esprimersi, ma è inopportuno, per esempio, che una corrente della magistratura si schieri apertamente per il “no” al referendum, o, peggio, che aderisca a questo o a quel comitato, ancorché animato da insigni esperti della materia.

L’opportunità sembra essere dunque l’ultima frontiera fra ciò che è consentito e non sarebbe illecito, ma, diciamo così, vivamente sconsigliato. La novità è che, di solito, l’opportunità viene invocata quando si verte in materia di valutazione strettamente politica, o per sottolineare aspetti “eccentrici” della vita privata dell’uomo pubblico, o per rimarcare condotte che potrebbero apparire pregiudizievoli all’immagine di questo o di quel magistrato, di questo o di quel politico.

Niente a che vedere con un referendum decisivo per il nostro destino comune di cittadini italiani: magistrati inclusi. Perché fra qualche mese andremo a votare per cambiare (o conservare) l’attuale Costituzione: ed è dunque sacrosanto che ciascuno esprima, attraverso il voto, il proprio gradimento o il proprio rifiuto. Ora, i magistrati, al pari dei professori, degli avvocati, dei tecnici, insomma, dispongono di un patrimonio di conoscenze specifiche che attribuisce alle loro prospettazioni un valore del tutto particolare.

E’, dunque, “opportuno” che facciano sentire la propria voce? Non sarebbe la prima volta. I giudici italiani furono attivi protagonisti nelle campagne referendarie del 2000 e del 2006, anche allora schierandosi. Affermarono, in passato, idee dissonanti con quelle delle maggioranze di centro-destra. Nessuno ritenne “inopportuni” i loro interventi. Oggi dall’interno della magistratura si levano voci dissonanti con l’attuale maggioranza di centro-sinistra. Perché dovrebbero essere giudicate “inopportune”? La sensazione è che non l’opinione del singolo, non l’adesione di una corrente a un comitato siano in discussione, ma la persistenza di una disallineamento fra politiche legislative e alcuni settori della magistratura.

Se così fosse, l’opportunità sarebbe invocata invano.Non solo e non tanto perché alla fine decideranno i cittadini - e non certo una “corporazione” che conta meno di diecimila individui - ma per il semplice motivo che una perfetta sintonia fra politiche legislative e valutazioni della magistratura non è ipotizzabile, a meno di non voler riesumare l’antica pretesa del giudice “bocca della legge”: utopia giacobina che appartiene a epoche remote. La ragione è ben nota agli addetti ai lavori: giudicare significa necessariamente interpretare le leggi. Non fosse così, non ci sarebbe bisogno di una Corte Costituzionale che è chiamata a pronunciarsi proprio su questo, sulla corrispondenza della legge in concreto ai principi della Carta.

Che fra politica e magistratura esista un fisiologico disallineamento risulta confermato, in Italia, da esempi storici: il governo piemontese postunitario adottò le leggi Pica per la repressione del brigantaggio per vincere le resistenze di una magistratura sì di formazione borbonica, ma “inquinata” dai principi iluministici della rivoluzione napoletana del ’99; il Fascismo fu indotto a istituire tribunali speciali perchè quelli ordinari, “inquinati” dal liberalismo giolittiano, apparivano troppo blandi nella repressione degli avversari politici. E i primi governi post-fascisti, analogamente, si trovarono a dover dialettizzare con una magistratura fortemente “inquinata” dall’eredità della dittatura.

In questo quadro storico e culturale, dunque, non c’è niente di inopportuno nello schierarsi per il “sì” o per il “no”, e la stessa magistratura è divisa, non è quel monolite granitico che alcuni rappresentano. Ma l’invocata categoria dell’opportunità suggerisce altre riflessioni. “Opportunità” è un termine scivoloso, inafferrabile. Delinea una zona grigia disancorata da riferimenti precisi e - direbbero i giuristi - tipizzati. Una valutazione rimessa al discernimento del singolo, e nello stesso tempo potenzialmente soggetta a intervento censorio di organi di vigilanza e controllo.

Il rischio è che, in assenza di contorni nettamente delineati, si tramuti in un’arma da brandire contro le voci dissenzienti in quanto tali. O che il timore di essere giudicati “inopportuni” induca all’autocensura e al silenzio. Si finirebbe così per preferire, a una leale battaglia di idee professate a viso aperto, il mormorio livoroso delle segrete stanze. Si finirebbe per preferire a uomini orgogliosi delle proprie idee il trafficare di soggetti che millantano di non possedere alcuna idea.

Qualche giorno fa il Tribunale di Roma si è aperto a una folla di ragazzi a cui, insieme ad artisti, scrittori, giornalisti, molti magistrati hanno cercato di spiegare il senso profondo di parole abusate come “legalità”. E’ stato un momento di grande apertura. Ai ragazzi si è spiegato quanto sia importante lo spirito critico, quanto sia decisivo lottare contro il pregiudizio. Noi che c’eravamo siamo stati “inopportuni”? Secondo alcuni sì. Ma sicuramente non siamo stati opportunisti.

«Un mondo che ha fatto fuori muri e frontiere e adesso corre a costruirne di nuovi per sfuggire alla paura e all’insicurezza, i due grandi elettori del partito dell’antipolitica» "Password" il nuovo libro di Ilvo Diamanti

». La Repubblica, 10 maggio 2016 (c.m.c.)

S’intitola “Password” il nuovo libro di Ilvo Diamanti una sintesi delle passioni e delle divisioni che attraversano l’Italia di oggi, dove si salva solo il Papa.

Cercasi password per entrare nella testa di un’Italia sconnessa. Anche da se stessa. È quel che fa Ilvo Diamanti con il suo nuovo libro intitolato giustappunto Password. Renzi, la Juve e altre questioni italiane(Feltrinelli, pagg. 112, euro 10). È un compendio della crisi del paese in quaranta lemmi, da Anti-politica a Voto passando per Astensione, Destra, Etica, Giovani, Ripresa, Renzismo, Salute, Sinistra, Sud.

Una sintesi delle passioni, ossessioni, repulsioni, tentazioni, emozioni, elezioni che agitano le acque del nostro presente. E che il professor Diamanti sonda da anni, per questo giornale, nonché per trasmissioni televisive come Ballarò, restituendoci dimensioni, misure e numeri del nostro scontento.

Le password del libro sono le parole che affiorano dalle cifre, dalle statistiche, dai sondaggi formando una rete interpretativa che cattura l’immagine di un Belpaese in cerca di coordinate. Perché ha perso quelle tradizionali, ma non ne ha ancora inventate di nuove. Tanto è vero che continua a usare le parole di sempre, anche se il loro significato è cambiato sotto i nostri occhi di spettatori spaesati. Termini esausti che hanno sempre meno presa sulla realtà. Ecco perché tentiamo di rianimarli con prefissi e suffissi. Ante, post, anti, neo. Post-democrazia, antipolitica, non-partiti, post- comunisti, post-democristiani. E adesso post-berlusconiani.

Insomma le parole non riescono più ad agganciare quel pattinamento generale che trascina partiti e istituzioni, individui e collettività, fuori dai loro confini. Politici, territoriali, etici, ideologici. Anche opposizioni consolidate come destra/sinistra, o come Nord/Sud significano sempre meno in un mondo che ha fatto fuori muri e frontiere. E adesso corre a costruirne di nuovi per sfuggire alla paura e all’insicurezza, i due grandi elettori del partito dell’antipolitica. Che, secondo Diamanti, è il vero sentimento del tempo. Ecco perché l’astensione è diventata «il voto di chi non vota ».

E la maggioranza si affida al suo leader in una specie di face to face mediatico ed estatico. Da una parte una folla solitaria, che è quel che resta del popolo sovrano. Dall’altra un uomo solo al comando, il front- man che le dà “senso, rappresentazione e identità”. È il trionfo del pop, in politica come altrove. Perché se oggi tutto è pop — «i Festival, la cultura, la cronaca e perfino la criminalità » — è perché sono venuti meno i confini tra realtà e reality. Politica, spettacolo, tifo calcistico, tutto si fonde e confonde. In altre parole, siamo entrati nell’era del “politainment”, la politica-intrattenimento. Non a caso, nota l’autore, la passione identitaria che una volta si riversava sui partiti di massa, oggi si riversa sul calcio. Imitato a sua volta dalla politica che ne mutua linguaggi, slogan e atteggiamenti con un continuo feedback che produce un’escalation di aggressività e di volgarità.

Le ideologie sono finite, ma le divisioni si sono moltiplicate. In fondo, osserva giustamente Diamanti, la fede calcistica è più solida di quella politica. Si cambia partito ma non squadra. «L’elettore è mobile, il tifoso no». Forse anche per questo ci si accapiglia sul sistema elettorale come su un fuorigioco non visto o un rigore non concesso. L’autore fa notare che l’Italia è l’unico paese dove si discute più di regole elettorali che di risultati. Tra mattarellum, porcellum e italicum, conta più come farlo che con chi. Come scrivere un kamasutra senza partner.

A salvarsi dal naufragio generale è il Papa. Molto più amato della Chiesa stessa. Otto italiani su dieci hanno fiducia in lui. Francesco sì che è connesso. Forse perché, come ha detto nella “parabola del cellulare”, il suo telefonino ha sempre campo. Sfido io, l’operatore è Dio.

Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2016 (p.d.)

Un tempo volevano andare tutti in Italia. Ora il sogno, qui, è Raqqa. Cinque anni, e in Siria, 500mila morti dopo, la Tunisia è il solo paese della primavera araba in cui la rivoluzione non è deragliata. Gli islamisti di Ennahda sono al governo insieme ai laici di Nidaa Tounes, e nonostante un vicino difficile come la Libia, nonostante l’attentato al museo del Bardo e poi quello di Sousse, un anno fa, con cui i jihadisti hanno colpito il turismo, la prima fonte di reddito del paese, crollato dell’85 percento, ogni angolo qui ha ancora intatto tutto il suo fascino. La Tunisia ti ricorda molto l’Europa, è vivace, libera: è tutta un caffè all'aperto, i tavolini affollati fino a tardi. Ed è vero. Ma perché sono tutti disoccupati, qui.

Bilal ha 31 anni e una laurea in ingegneria, ma fa la guida ai turisti. E ha deciso di unirsi ai 6mila tunisini che si sono arruolati nell’ISIS. “Perché in apparenza io e te siamo simili, la vita, qui, è una vita normale. Ma osservami bene: non ho che una copia cinese di quello che hai tu. I jeans, il giubbotto di pelle... Tutto finto. Non è pelle, è plastica. Sembriamo simili, ma io torno a casa stasera, a un’ora da qui, in un posto che non è la Tunisia che conosci tu, la Tunisia è una fogna in cui non ho l’elettricità, non ho l’acqua calda, ho solo un materasso, per terra e delle coperte, e perché neppure ho un lavoro: è finto anche questo: e non solo perché sono un ingegnere, ma perché con quello che guadagno mi pago a stento i mezzi per venire qui. Torno a casa, la sera, e mi sento uno zero”. La Tunisia, per quelli come Bilal, non è stabile: è immobile. “Non ho nessuna prospettiva. Nel resto del mondo sei giovane e sei pieno di energie, di progetti. Avviare un’impresa, iscriverti a un dottorato. Cambiare città. O anche solo un viaggio. Ma io? Posso solo tornare qui, domani, e vivere un altro giorno identico a questo”.

Eppure Bilal è uno di quelli che ha creduto nella rivoluzione. Uno di quelli che alle manifestazioni, cinque anni fa, è stato in prima fila. “Ma abbiamo sbagliato. Abbiamo pensato che il nemico fosse Ben Ali. E invece avevamo contro tutto il mondo, perché quando una manciata di miliardari possiede la stessa ricchezza di metà della popolazione del pianeta, non è questione di Ben Ali e dei conti svizzeri di sua moglie:è questione che tutti voi dovete rinunciare a qualcosa. Ma non l’avevamo capito. Non avevamo capito che la battaglia non si poteva vincere solo in Tunisia, perché non riguardava solo la Tunisia”. Uno dei suoi amici è già in Siria. E un altro, in Siria, è già morto. Non hai paura? “No, sono già un po' morto”.

Non è difficile, qui, incontrare ragazzi così. Né raro. Non però dove è istintivo cercarli: non a Kairouan, per esempio, quarto centro sacro per l’Islam dopo la Mecca, la Medina e Gerusalemme. Nel 2012, 10mila salafiti hanno marciato per le sue strade chiedendo l’introduzione della sharia: ma Kairouan rimane una piccola, incantevole città di luce e colori chiari, gli archi in pietra, le finestre blu. Le lanterne in ferro battuto. A Kairouan si viene a bere l’acqua che si dice arrivi dalla stessa fonte della Mecca, ma soprattutto, si viene a comprare tappeti. Gli adepti dell’ISIS non si trovano qui, a meditare sul Corano, ma nelle sterminate, improvvisate periferie di Tunisi come Ettadhamen, in mezzo a quel 90 percento di tunisini che possiede solo il 20 percento della ricchezza del paese – in mezzo a distese di case scalcinate e nient’altro, costruite così, una dopo l'altra, senza un progetto, senza infrastrutture, spazi senza luoghi, polvere d’estate e fango d’i nverno. “Tranquilla, è una zona sicura: perché non c’è niente da rubare”, mi hanno detto al Café De Paris, in centro. L’ecstasy locale si chiama Equanil: è un antidepressivo. Se hai vent’anni e sei tunisino, non ti fai per sballarti, ma per dimenticare.

La scintilla, in questi mesi, è Kasserine, al confine con l’Algeria. Uno di quei posti in cui ti sbagli, e scambi il mercato per una discarica: a Kasserine non si vendono neppure cose cinesi, solo cose usate, dove le madri vendono i pupazzi dei figli appena crescono. La Tunisia non è Europa, qui, è Africa. Il 21 gennaio, all’ennesima domanda di lavoro respinta, Ridha Yahyaoui, 28 anni, si è arrampicato su un traliccio dell’elettricità e si è ucciso. Si è fulminato. Da allora cammini, a Kasserine, a Sfax, a Sousse, ovunque, nella medina di Tunisi, tra i turisti, e all’improvviso, vedi un ragazzo in bilico su un cornicione: e tutti, sotto, che cercano di fermarlo. Se hai vent’anni e sei tunisino, o muori jihadista o muori suicida. “Non è una questione di povertà, però, ma più esattamente, di frustrazione”, dice Kais Zriba, 24 anni, giornalista di Inkifada, la testata che in queste ore sta scavando nei Panama Papers. “In Tunisia, e non solo, tutto viene ridotto a uno scontro tra laici e islamisti. Ma lo scontro è sociale e generazionale. Rispetto a cinque anni fa, certo, abbiamo molta più libertà: ma è solo libertà di espressione, perché non abbiamo alcun potere. Siamo tagliati fuori dal governo. Dalle decisioni. In realtà qui lo scontro è tra inclusi e esclusi”.

In Tunisia Beji Caid Essebsi, il presidente, ha 90 anni, metà della popolazione meno di trenta. Ed è vero che Ben Ali è stato spedito in esilio in Arabia Saudita, ma il processo per i 335 morti dei 28 giorni della rivoluzione si è concluso con una semplice condanna per omicidio colposo dei vertici delle forze di sicurezza, tutti già scarcerati.

Ora poi, è stata approvata la cosiddetta legge di riconciliazione economica: un’amnistia generale per tutti i responsabili di reati finanziari. “Che invece è la vera emergenza”, dice Kais Zriba, “perché qui tutto funziona attraverso mazzette, clientele, parentele: e quindi si arricchiscono solo i già ricchi. La crescita non è crescita del benessere, ma delle disuguaglianze. Il problema vero, in Tunisia, non è che laici e islamisti sono incompatibili, al contrario: è che sono alleati. Sono uguali”.

Secondo le stime, la metà dei miliziani dell’ISIS, in Libia, arriva dalla Tunisia. “Se volete sconfiggere l’ISIS, ha più senso investire in Tunisia che bombardare la Libia”. Dei tanti tunisini che vogliono unirsi all’ISIS, quello che più colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento all’Islam. Alla religione. L’ISIS, qui, è quello che per altri è la Germania: un’opportunità di lavoro. La Tunisia, colonia francese, rimane un paese sostanzialmente laico. “Siamo finiti nel mirino dell’ISIS proprio perché siamo la prova che l’Islam è un’altra cosa”, dice Imen Ben-Mohamed, 31 anni, deputata di an-Nahda. Un partito di “demo-musulmani”, nella sua definizione, “come un tempo, da voi, i democristiani. Siamo stati protagonisti della battaglia per la democrazia”, dice – suo padre è un rifugiato: era un oppositore di Ben Ali, e fu costretto all’esilio. I primi di marzo, jihadisti infiltrati dalla Libia hanno assaltato la città di frontiera di Ben Guerdane, probabilmente più per crearsi una sorta di retrovia che per fondare una nuova provincia del califfato. Almeno per ora. Negli scontri sono morti 12 poliziotti, 7 civili e 43 jihadisti. “Ma sono stati i tunisini stessi, non solo i militari, a combattere e respingerli. Per questo è importante investire nella Tunisia: perché possiamo essere di esempio”.

Fino a oggi, il sostegno internazionale è stato più morale che materiale: il premio Nobel alla società civile, al cosiddetto Quartetto, i sindacati che hanno mediato tra laici e islamisti. A ottobre l’Unione Europea, primo partner commercialedella Tunisia, ha avviato negoziati per un'area di libero scambio. Ma sono negoziati che durano anni: l'unica misura concreta, davanti all'ondata di suicidi, è stata l’esenzione dal dazio per l'importazione di altre 35mila tonnellate di olio d'oliva. In realtà, più per rimediare al calo della produzione italiana, che per aiutare la Tunisia. “Non è che non ci siano progetti e risorse”, dice Damiano Duchemin, cooperante del GVC di Bologna. “Solo che magari l’obiettivo di fondo è più contrastare il terrorismo e l’immigrazione. La Tunisia non interessa in sé”. E in effetti anche i reportage, i libri, non sono molti, la Tunisia non fa notizia. Non ha il petrolio: è la sua fortuna e la sua condanna.

Chiedi cosa è cambiato, rispetto a cinque anni fa, e nessuno ha dubbi: la libertà, ti rispondono. “Siamo liberi di dire che è una vita del cazzo”. Sidi Bouzid è a 200 chilometri da Tunisi, ed è la città in cui tutto è iniziato. La città in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, 26 anni, siè cosparso di benzina e ucciso dopo la confisca del carretto di frutta e verdura con cui tirava a campare. Lavorava da quando aveva 10 anni. Il suo suicidio ha travolto Ben Ali e l’intero mondo arabo, e oggi la strada principale, qui, ha il suo nome. Ma è la sola differenza. “Si pensa che sia tutta colpa degli attentati, della crisi del turismo. E io per primo sono stato licenziato: ma per me non è cambiato niente”, mi dice un ragazzo che chiamerò Bilal: perché come l’altro Bilal, ha deciso di andare in Siria. Lavorava a Djerba. Come cameriere. Ma il turismo, qui, anche a pieno regime, è low cost, pacchetti tutto incluso, “e i profitti vanno ai proprietari dei resort, agli operatori internazionali e i loro soci locali. Ti pagano 400 dinari al mese per dieci ore al giorno sette giorni su sette, 200 euro, e solo per la stagione. Sei un servo. Della Tunisia, della tua vita, conoscono solo l’aeroporto”. E non è solo il turismo, in realtà. Tutta l’economia, qui, è a bassa qualifica e basso salario, al servizio di altri paesi. Assemblaggio, call center. Chi non studia ha il doppio di probabilità di trovare lavoro rispetto a chi studia.

Poi cammini sulla sabbia, lungo il mare di Zarzis, e trovi scarpe. Scarpe, e relitti di barca. Mohsen Lihidheb, il postino, ha percorso questa costa in bici per vent’anni. Su, fino a Djerba, e ritorno, ogni giorno. 150 chilometri. Ora la sua casa è il Museo della Memoria del Mare. Scaffali di spazzole, accendini, fotografie, documenti. Una cassetta di bottiglie con dentro messaggi, torce, lampade, confezioni di cioccolato, di medicine, banconote della Libia, del Senegal, del Mali. E poi scarpe. Decine e decine di scarpe, la suola sottile, tenuta insieme con lo spago. Non c'è una targhetta, una data, una descrizione: niente. D’altra parte, cosa si potrebbe scriverci? Sono vite di cui non è rimasto neppure un numero. Mohsen ti dice solo: le ossa le ho sepolte.

Zarzis non è uno dei nomi sui giornali di questi giorni. Lesbos, Calais, Idomeni. Keleti. I punti di partenza e approdo cambiano di settimana in settimana. “E tutti pensano che al fondo, il problema sia la Siria. Ma non si fugge solo dalla guerra, si fugge anche dal resto”, dice Mohsen –dal mondo nascosto tra le statistiche, o forse, dalle statistiche: in Tunisia l’economia ha un tasso di crescita del 3,5 percento, ma la disoccupazione è raddoppiata. “I giornalisti vengono e ripartono. La notizia è altrove. Promettono tutti di scrivere, fare, cambiare, ma poi spariscono. La Tunisia non interessa". A Zarzis tornano solo le scarpe.

Nazione del 12 febbraio 1965), la risposta di Milani ai cappellani militari (Rinascita, 8 ottobre 1965) ; la Lettera ai giudici del processo avviato dopo una denuncia per apologia di reato (p.22). (i.b.)

I CAPPELLANI MILITARI
E
L’OBIEZIONE DI COSCIENZA
La Nazione di Firenze del 12 febbraio 1965.


Nell'anniversario della Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l'Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno:
«I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell'associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d'Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà».
L'assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per tutti i caduti.

LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI TOSCANI

CHE HANNO SOTTOSCRITTO
IL COMUNICATO DELL’11 FEBBRAIO 1965
di Lorenzo Milani sac.


Rinascita, 8 ottobre 1965)

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore. SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi.

Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

L'idea di Patria

Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.

Articolo 11 «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...».A rticolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Le guerre dell'Italia, nella storia

Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici.

Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.
Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l'anno) l'esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all'obiezione che all'obbedienza.

L'obiezione di coscienza, nella storia

L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l'han conosciuta anche troppo. Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d'Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l'Europa è alle porte. La Costituzione è pronta a riceverla: «L'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie...». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

La guerra seguente 1866 fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.

Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant'è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia».

Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.

Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.
Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa? Idem per la guerra di Libia.

Poi siamo al '14. L'Italia aggredì l'Austria con cui questa volta era alleata. Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l'espressione non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).
Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).

Nel '36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l'infelice popolo spagnolo.
Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa.
Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l'obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo.
Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.
Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l'umanità si sia data. L'uno rappresenta il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L'altro il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d'ogni giustizia e d'ogni religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente). Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.
Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall'altra soldati che avevano obiettato.Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»? È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»?

Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.

Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. È proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti. In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l'eroismo patrimonio dei più? Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell'amore» allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.

LETTERA AI GIUDICI
Barbiana 18 ottobre 1965

Signori Giudici,
vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza. La malattia è l'unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l'accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini.

Una precisazione a proposito del difensore. Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d'ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo. Ho capito le sue ragioni e non ho insistito.

Un'altra precisazione a proposito della rivista che è coimputata per avermi gentilmente ospitato. Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 Febbraio. Solo successivamente (6 Marzo) l'ha ripubblicata Rinascita e poi altri giornali. È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista. Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomenti. Ma essa non meritava l'onore d'essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza. Il fatto non giova alla chiarezza cioè all'educazione dei giovani che guardano a questo processo.

Verrò ora ai motivi per cui ho sentito il dovere di scrivere la lettera incriminata. Ma vi occorrerà prima sapere come mai oltre che parroco io sia anche maestro. La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme.

Come maestro

Il motivo occasionale

Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un «Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana». Più tardi abbiamo saputo che già questa dizione è scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato. Il testo è infatti gratuitamente provocatorio. Basti pensare alla parola «espressione di viltà».

Il prof. Giorgio Peyrot dell'Università di Roma sta curando la raccolta di tutte le sentenze contro obiettori italiani. Mi dice che dalla liberazione in qua ne son state pronunciate più di 200. Di 186 ha notizia sicura, di 100 il testo. Mi assicura che in nessuna ha trovato la parola viltà o altra equivalente. In alcune anzi ha trovato espressioni di rispetto per la figura morale dell'imputato. Per esempio: «Da tutto il comportamento dell'imputato si deve ritenere che egli sia incorso nei rigori della legge per amor di fede» (2 sentenze del T.M.T. di Torino 19 Dicembre 1963 imputato Scherillo, 3 Giugno 1964 imputato Fiorenza). In tre sentenze del T.M.T. di Verona ha trovato il riconoscimento del motivo di particolare valore morale e sociale (19 Ottobre 1953 imputato Valente, 11 Gennaio 1957 imputato Perotto, 7 Maggio 1957 imputato Perotto). Allego il testo completo dei risultati della ricerca che il prof. Peyrot ha avuto la bontà di fare per me.

Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.

Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego». Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi. Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d'una «guerra giusta». D'una guerra cioè che fosse in regola con l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.

Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri:
Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio.
Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con «interviste» piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle «interviste» senza curarsi di controllarne la serietà.
Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965).
La nostra lettera è stata incriminata.
Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale.
Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione.
Un mio figliolo ha per professore di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato. Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile.
Non toccava a lui chiamare «vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore» quei 31 giovani.
I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui.
E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.

Il motivo profondo

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico.

Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall'altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre.
E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i «segni dei tempi», indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.
Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al progresso legislativo.

In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell'imputato e è scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto.

Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l'autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l'ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore. L'ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa. Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime! Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico. Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore.

Ma è poi reato?

Vi ho dunque dichiarato fin qui che se anche la lettera incriminata costituisse reato era mio dovere morale di maestro scriverla egualmente. Vi ho fatto notare che togliendomi questa libertà attentereste alla scuola cioè al progresso legislativo. Ma è poi reato?

L'Assemblea Costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola alla Carta Costituzionale «al fine di rendere consapevole la nuova generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali» (ordine del giorno approvato all'unanimità nella seduta dell'11 Dicembre 1947). Una di queste conquiste morali e sociali è l'articolo 11: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro.
È un invito a buttar tutto all'aria: all'aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora.

Mi scuserete se su questo punto mi devo dilungare, ma il Pubblico Ministero ha interpretato come apologia della disobbedienza una lettera che è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia. È dalla premessa di come si giudicano quelle guerre che segue se si dovrà o no obbedire nelle guerre future. Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano così bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano davvero: ci ingannavano perché erano a loro volta ingannati. Altri sapevano di ingannarci, ma avevano paura. I più erano forse solo dei superficiali. A sentir loro tutte le guerre erano «per la Patria».

Esaminiamo ora quattro tipi di guerra che «per la Patria» non erano.
I nostri maestri si dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante. In Italia fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913 ebbe diritto di voto il 23%, ma solo la metà lo seppe o lo volle usare. Dal '22 al '45 il certificato elettorale non arrivò più a nessuno, ma arrivarono a tutti le cartoline di chiamata per tre guerre spaventose. Oggi di diritto il suffragio è universale, ma la Costituzione (articolo 3) ci avvertiva nel '47 con sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell'articolo è lecito pensare (e io lo penso) che esso descriva una situazione non ancora superata.

Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran massa del popolo italiano, non è mai stata al potere. Allora l'esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta. Del resto ne porta ancora il marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 al mese per i figli dei ricchi e con 4.500 lire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un attendente figlio dei poveri. Allora l'esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza.

Del resto in quante guerre della storia gli eserciti han rappresentato la Patria? Forse quello che difese la Francia durante la Rivoluzione. Ma non certo quello di Napoleone in Russia.
Forse l'esercito inglese dopo Dunkerque. Ma non certo l'esercito inglese a Suez.
Forse l'esercito russo a Stalingrado. Ma non certo l'esercito russo in Polonia.
Forse l'esercito italiano al Piave. Ma non certo l'esercito italiano il 24 Maggio.

Ho a scuola esclusivamente figlioli di contadini e di operai. La luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici giorni fa, ma le cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio fin dal 1861.
Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi han sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte!) non gli interessi della Patria.

Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio. Ma se anche si dovesse concedere che si può dar la vita per l'idolo buono (la Patria), certo non si potrà concedere che si possa dar la vita per l'idolo cattivo (le speculazioni degli industriali). Dar la vita per nulla è peggio ancora.

I nostri maestri non ci dissero che nel '66 l'Austria ci aveva offerto il Veneto gratis. Cioè che quei morti erano morti senza scopo. Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo. Se ci avessero detto meno bugie avremmo intravisto com'è complessa la verità. Come anche quella guerra, come ogni guerra, era composita dell'entusiasmo eroico di alcuni, dello sdegno eroico di altri, della delinquenza di altri ancora. Lo dico perché alcuni mi accusan di aver mancato di rispetto ai caduti. Non è vero. Ho rispetto per quelle infelici vittime. Proprio per questo mi parrebbe di offenderle se lodassi chi le ha mandate a morire e poi si è messo in salvo. Per esempio quel re che scappò a Brindisi con Badoglio e molti generali e nella fretta si dimenticò perfino di lasciar gli ordini.

Del resto il rispetto per i morti non può farmi dimenticare i miei figlioli vivi. Io non voglio che essi facciano quella tragica fine. Se un giorno sapranno offrire la loro vita in sacrificio ne sarò orgoglioso, ma che sia per la causa di Dio e dei poveri, non per il signor Savoia o il signor Krupp.

Bisognerà ricordare anche le guerre per allargare i confini oltre il territorio nazionale. Ci sono ancora dei fascisti poveretti che mi scrivono lettere patetiche per dirmi che prima di pronunciare il nome santo di Battisti devo sciacquarmi la bocca. È perché i nostri maestri ce l'avevano presentato come un eroe fascista. Si erano dimenticati di dirci che era un socialista. Che se fosse stato vivo il 4 novembre quando gli italiani entrarono nel Sud Tirolo avrebbe obiettato. Non avrebbe mosso un passo di là da Salorno per lo stessissimo motivo per cui quattro anni prima aveva obiettato alla presenza degli austriaci di qua da Salorno e s'era buttato disertore, come dico appunto nella mia lettera.

«Riterremmo stoltezza vantar diritti su Merano e Bolzano» (Scritti politici di Cesare Battisti, vol. II, pag. 96-97). «Certi italiani confondono troppo facilmente il Tirolo col Trentino e con poca logica vogliono i confini d'Italia estesi fino al Brennero» (ivi). Sotto il fascismo la mistificazione fu scientificamente organizzata. E non solo sui libri, ma perfino sul paesaggio. L'Alto Adige, dove nessun soldato italiano era mai morto, ebbe tre cimiteri di guerra finti (Colle Isarco, Passo Resia, S. Candido) con caduti veri disseppelliti a Caporetto.

Parlo di confini per chi crede ancora, come credeva Battisti, che i confini debbano tagliare preciso tra nazione e nazione. Non certo per dar soddisfazione a quei nazisti da museo che sparano a carabinieri di 20 anni. In quanto a me, io ai miei ragazzi insegno che le frontiere son concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religiosa.

Ci presentavano l'Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l'Impero. I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti.

E dopo esser stato così volgarmente mistificato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l'obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l'obbedienza militare come ce la insegnavano allora? Perseguite i maestri che dicono ancora le bugie di allora, quelli che da allora a oggi non hanno più studiato né pensato, non me.
Abbiamo voluto scrivere questa lettera senza l'aiuto d'un giurista. Ma a scuola una copia dei Codici l'abbiamo.

Nel testo stesso dell'art. 40 c.p.m.p. e nella giurisprudenza all'art. 51 del c.p. abbiamo trovato che il soldato non deve obbedire quando l'atto comandato è manifestamente delittuoso. Che l'ordine deve avere un minimo d'apparenza di legittimità. Una sentenza del T.S.M. condanna un soldato che ha obbedito a un ordine di strage di civili (13-12-1949 imputato Strauch). Allora anche il Vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l'ora. Come potrebbe avere un minimo di parvenza di legittimità una decimazione, una rappresaglia su ostaggi, la deportazione degli ebrei, la tortura, una guerra coloniale? Oppure, può avere un minimo di parvenza di legittimità un atto condannato dagli accordi internazionali che l'Italia ha sottoscritto?

Il nostro Arcivescovo Card. Florit ha scritto che «è praticamente impossibile all'individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve» (Lettera al Clero 14-4-1965). Certo non voleva riferirsi all'ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che ricevette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di mirare anche agli ospedali (telegramma di Mussolini 28-3-1936). E neppure all'uso dei gas.

Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi. Il Protocollo di Ginevra del 17-5-1925 ratificato dall'Italia il 3-4-1928 fu violato dall'Italia per prima il 23-12-1935 sul Tacazzé. L'Enciclopedia Britannica lo dà per pacifico. Lo denunciano oramai anche i giornali cattolici (L'Avvenire d'Italia articoli di Angelo del Boca dal 13-5-1965 al 15-7-1965). Abbiamo letto i telegrammi di Mussolini a Graziani: «autorizzo impiego gas» (telegramma numero 12409 del 27-10-1935) di Mussolini a Badoglio: «rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie e su qualunque scala» (29-3-1936). Hailè Selassiè l'ha confermato autorevolmente e circostanziatamente (intervista per l'Espresso 29-9-1965 e sg.).

Quegli ufficiali e quei soldati obbedienti che buttavano barili d'iprite sono criminali di guerra e non son ancora stati processati. Son processato invece io perché ho scritto una lettera che molti considerano nobile (carissime fra le tante le lettere di affettuosa solidarietà delle Commissioni Interne delle principali fabbriche fiorentine, quelle dei dirigenti e attivisti della C.I.S.L. di Milano e della C.I.S.L. di Firenze e quella dei Valdesi).

Che idea si potranno fare i giovani di ciò che è crimine? Oggi poi le convenzioni internazionali son state accolte nella Costituzione (art. 10). Ai miei montanari insegno a avere più in onore la Costituzione e i patti che la loro Patria ha firmato che gli ordini opposti d'un generale. Io non li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciar vivo un bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti. Ricchi del buon senso dei poveri. Immuni da certe perversioni intellettuali di cui soffrono talvolta i figli della borghesia. Quelli per esempio che leggevano D'Annunzio e ci han regalato il fascismo e le sue guerre.

A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.

Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati.
E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora). (carteggio di Claude Eatherly e GŸnter Anders - Einaudi 1962).

Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio: «Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco». Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due. Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori. Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.

E così siamo giunti a quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.

C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.


Come sacerdote

Fin qui ho parlato come un cittadino e un maestro che crede con la sua scuola e la sua lettera di aver reso un servizio alla società civile, non di aver compiuto un reato.
Ma poniamo di nuovo che voi lo consideriate reato.
Quest'accusa se fatta a me solo e non anche a tutti i miei confratelli mette in dubbio la mia ortodossia di cattolico e di sacerdote. Sembrerà infatti che condanniate le idee personali di un prete strano. Ma io son parte viva della Chiesa anzi suo ministro. Se avessi detto cose estranee al suo insegnamento essa mi avrebbe condannato. Non l'ha fatto perché la mia lettera dice cose elementari di dottrina cristiana che tutti i preti insegnano da 2000 anni. Se ho commesso reato perseguiteci tutti.

Ho evitato apposta di parlare da non-violento. Personalmente lo sono. Ho tentato di educare i miei ragazzi così. Li ho indirizzati per quanto ho potuto verso i sindacati (le uniche organizzazioni che applichino su larga scala le tecniche non-violente). Ma la non-violenza non è ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa. Mentre la dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato lo è certamente.
Mi sarà facile dimostrarvi che nella mia lettera ho parlato da cattolico integrale, anzi spesso da cattolico conservatore.

Cominciamo dalla storia.
La storia d'Italia fino al 1929 nella mia lettera è identica a come la raccontavano i preti in seminario prima di quella data. Il mio vecchio parroco mi diceva che La Squilla, il giornale cattolico di Firenze, aveva in vetta e in fondo uno striscione nero. Portava il lutto del Risorgimento!
In quanto alla storia più recente cioè al giudizio sulle guerre fasciste, può anche darsi che qualche mio confratello sia intimamente un nostalgico, ma è notorio che la gran maggioranza dei preti sostiene un partito democratico che fu il principale autore della Costituzione (dunque anche della parola ripudia).

Veniamo alla dottrina.
La dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa, anzi glorificata, da tutta la Chiesa. Non andrò a cercare teologi moderni e difficili per dimostrarlo. Si può domandarlo a un bambino che si prepara alla Prima Comunione: «Se il padre o la madre comanda una cosa cattiva bisogna obbedirlo? I martiri disobbedirono alle leggi dello Stato. Fecero bene o male?».
C'è chi cita a sproposito il detto di S. Pietro: «Obbedite ai vostri superiori anche se son cattivi». Infatti. Non ha nessuna importanza se chi comanda è personalmente buono o cattivo. Delle sue azioni risponderà lui davanti a Dio. Ha però importanza se ci comanda cose buone o cattive perché delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio. Tant'è vero che Pietro scriveva quelle sagge raccomandazioni all'obbedienza dal carcere dove era chiuso per aver solennemente disobbedito.
Il Concilio di Trento è esplicito su questo punto (Catechismo III parte, IV precetto, 16¡ paragrafo): «Se le autorità politiche comanderanno qualcosa di iniquo non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato è riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino» cioè di disobbedire allo Stato!

Certi cattolici di estrema destra (forse gli stessi che mi hanno denunciato) ammirano la Mostra della Chiesa del Silenzio. Quella mostra è l'esaltazione di cittadini che per motivo di coscienza si ribellano allo Stato. Allora anche i miei superficialissimi accusatori la pensan come me. Hanno il solo difetto di ricordarsi di quella legge eterna quando lo Stato è comunista e le vittime son cattoliche e di dimenticarla nei casi (come in Spagna) dove lo Stato si dichiara cattolico e le vittime sono comuniste.
Son cose penose, ma le ho ricordate per mostrarvi che su questo punto l'arco dei cattolici che la pensano come me è completo.

Tutti sanno che la Chiesa onora i suoi martiri. Poco lontano dal vostro Tribunale essa ha eretto una basilica per onorare l'umile pescatore che ha pagato con la vita il contrasto fra la sua coscienza e l'ordinamento vigente. S. Pietro era un «cattivo cittadino». I vostri predecessori del Tribunale di Roma non ebbero tutti i torti a condannarlo.
Eppure essi non erano intolleranti verso le religioni. Avevano costruito a Roma i templi di tutti gli dei e avevano cura di offrir sacrifici ad ogni altare.
In una sola religione il loro profondo senso del diritto ravvisò un pericolo mortale per le loro istituzioni. Quella il cui primo comandamento dice: «Io sono un Dio geloso. Non avere altro Dio fuori che me».

A quei tempi pareva dunque inevitabile che i buoni ebrei e i buoni cristiani paressero cattivi cittadini.
Poi le leggi dello Stato progredirono. Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio. Così va diventando ogni giorno più facile per noi esser riconosciuti buoni cittadini. Ma è per coincidenza e non per sua natura che questo avviene. Non meravigliatevi dunque se ancora non possiamo obbedire tutte le leggi degli uomini. Miglioriamole ancora e un giorno le obbediremo tutte. Vi ho detto che come maestro civile sto dando una mano anch'io a migliorarle.

Perché io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d'occhio. Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l'assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l'inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti.
Tutto questo è un irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio. Già oggi la coincidenza è così grande che normalmente un buon cristiano può passare anche l'intera vita senza mai essere costretto dalla coscienza a violare una legge dello Stato.

Io per esempio fino a questo momento sono incensurato. E spero di esserlo anche alla fine di questo processo. È un augurio che faccio ai patrioti. Chissà come patirebbero se potessero leggere le tante lettere che ricevo dall'estero. Da paesi che non hanno il servizio di leva o riconoscono l'obiezione. Quelli che le scrivono sono convinti di scrivere a un paese di selvaggi. Qualcuno mi domanda quanto dovrà ancora stare in prigione il povero padre Balducci.

Dicevamo dunque che oggi le nostre due leggi quasi coincidono. Ci sono però dei casi eccezionali nei quali vige l'antica divergenza e l'antico comandamento della Chiesa di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.

Ho elencato nella lettera incriminata alcuni di questi casi. Posso aggiungere altre considerazioni. Cominciamo dall'obiezione di coscienza in senso stretto. Proprio in questi giorni ho avuto conforto dalla Chiesa anche su questo punto specifico. Il Concilio invita i legislatori a avere rispetto (respicere) per coloro i quali «o per testimoniare della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra». (Schema 13 paragrafo 101. Questo è il testo proposto dalla apposita Commissione la quale rispecchia tutte le correnti del Concilio. Ha quindi tutte le probabilità d'essere quello definitivo).
Quei 20 militari di Firenze han detto che l'obiettore è un vile. Io ho detto soltanto che forse è un profeta. Mi pare che i Vescovi stiano dicendo molto più di me.

Ricorderò altri tre fatti sintomatici.Nel '18 i seminaristi reduci di guerra, se vollero diventare preti, dovettero chiedere alla Santa Sede una sanatoria per le irregolarità canoniche in cui potevano essere incorsi nell'obbedire ai loro ufficiali. Nel '29 la Chiesa chiedeva allo Stato di dispensare i seminaristi, i preti, i vescovi dal servizio militare. Il canone 141 proibisce ai chierici di andare volontari a meno che lo facciano per sortirne prima (ut citius liberi evadant)! Chi disobbedisce è automaticamente ridotto allo stato laicale.

La Chiesa considera dunque a dir poco indecorosa per un sacerdote l'attività militare presa nel suo complesso. Con le sue ombre e le sue luci. Quella che lo Stato onora con medaglie e monumenti.
E infine affrontiamo il problema più cocente delle ultime guerre e di quelle future: l'uccisione dei civili.

La Chiesa non ha mai ammesso che in guerra fosse lecito uccidere civili, a meno che la cosa avvenisse incidentalmente cioè nel tentare di colpire un obiettivo militare. Ora abbiamo letto a scuola su segnalazione del Giorno un articolo del premio Nobel Max Born (Bullettin of the Atomic Scientists, aprile 1964).Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti «incidentalmente»). Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti «incidentalmente»).
In quella di Corea 84% civili 16% militari (si può ormai sostenere che i militari muoiono «incidentalmente»).Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d'oggi con l'unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari.

Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente (si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere. Gandhi l'aveva già capito quando ancora non si parlava di armi atomiche.«Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra» (Non-violence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. 1).

A questo punto mi domando se non sia accademia seguitare a discutere di guerra con termini che servivano già male per la seconda guerra mondiale. Eppure mi tocca parlare anche della guerra futura perché accusandomi di apologia di reato ci si riferisce appunto a quel che dovranno fare o non fare i nostri ragazzi domani. Ma nella guerra futura l'inadeguatezza dei termini della nostra teologia e della vostra legislazione è ancora più evidente.

È noto che l'unica «difesa» possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima dell'«aggressore». Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa.
Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua «difesa» spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergibili unici superstiti d'un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa.

Mi dispiace se il discorso prende un tono di fantascienza, ma Kennedy e Krusciov (i due artefici della distensione!) si sono lanciati l'un l'altro pubblicamente minacce del genere. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che questa guerra, se viene scatenata, diventerà sin dalla primissima ora una guerra termonucleare e una guerra mondiale. Ciò per noi è perfettamente ovvio» (lettera di Krusciov a B. Russell, 23-10-1962).

Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una «guerra giusta» né per la Chiesa né per la Costituzione.A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana.(Per esempio Linus Pauling premio Nobel per la chimica e per la pace).E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?

Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.

Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità.Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima.

Riferimenti

Tutti i testi testi sono tratti da dal sito: http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/sommario.htm. I sottotitoli dells seconda psrte sono di eddyburg

«Trovo grave che il governo Renzi ritenga un successo l’accordo UE con la Turchia. Un accordo abominevole (costato sei miliardi di euro!)». Le ragioni per cui «dobbiamo dire NO con forza al Migration Compact che verrà pagato da centinaia di migliaia di africani impoveriti. Non è questa la strada per risolvere il problema dei migranti». Il

Dialogo online, 8 maggio 2016

La proposta fatta dal governo Renzi alla Commissione Europea per risolvere il ‘problema’ dei migranti in arrivo dall’Africa, il cosidetto Migration Compact , è un brutto passo da parte dell’Italia. Infatti lo spirito del Migration Compact è lo stesso dell’accordo fatto dalla UE con la Turchia. Lo ha detto lo stesso nostro ministro degli esteri, Gentiloni, parlando a porte chiuse, alla Commissione Trilaterale (!): “Lo stesso impegno, profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, va ora usato sulla rotta del Mediterraneo centrale per chi arriva dalla Libia.”

Trovo grave che il governo Renzi ritenga un successo l’accordo UE con la Turchia. Un accordo abominevole(costato sei miliardi di euro!) che richiederà la ‘deportazione’ in Turchia di migliaia di migranti e profughi. E siccome le’deportazioni’ sono atti criminali, ritengo l’accordo fra UE e la Turchia un atto criminale. “I 28 paesi dell’Unione Europea hanno scritto con la Turchia -ha affermato giustamente Cristopher Hein, portavoce del Consiglio Italiano per i Rifugiati- una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei rifugiati.” Lasciamo alla Grecia la responsabilità di effettuare i rimpatri (impossibili!) in un paese, la Turchia, che non è il loro paese,che non li vuole e per di più, non ha risorse per integrarli.
Ora l’Italia vuole fare lo stesso con i paesi africani. Un primo tentativo del genere era stato fatto con il cosidetto “Processo di Khartoum” e con il vertice UE e i capi di Stato africani a La Valletta (Malta), lo scorso anno, promettendo ai paesi sub-sahariani un miliardo e mezzo di euro per trattenere i migranti nei loro paesi. Ma con ben pochi risultati.
Ora, dopo il ‘successo’ dell’accordo con la Turchia, l’Italia propone il Migration Compact con i paesi dell’Africa, dai quali provengono i migranti. Con quali strategie? Primo, la creazione di un Fondo europeo per gli investimenti nei paesi africani, stornando i soldi che oggi l’Europa destina all’ Africa per opere socialmente utili(Purtroppo ridotti al lumicino!) Secondo, la creazione di EU- Africa Bonds per aiutare i paesi africani a crescere e a innovarsi. (Ritorna il mantra di Salvini:”Aiutiamoli a casa loro”!) Mentre ai governi africani verrebbe chiesto “un efficace controllo delle frontiere, riduzione dei flussi migratori e cooperazione in materia di rimpatri/riammissioni.” (Purtoppo saranno i governi dittatoriali d’Africa a trarne profitto, e i popoli a pagarne le conseguenze!)
Purtroppo il Migration Compact sta ottenendo sempre più consensi a Bruxelles. La stessa Merkel nell’incontro con Renzi a Roma si è detta d’accordo con il piano, ma non è d’accordo con gli Euro-bonds. Mentre il vice di Juncker, Frans Timmermans si trova in sintonia con la proposta italiana. Se dopo lo scellerato accordo UE- Turchia , ora passerà l’accordo capestro con i paesi africani, l’Europa diventerà sempre più una fortezza protetta dal filo spinato, nella quale finiremo per sparare sia per difendere i confini esterni, ma anche quelli interni tra Stato e Stato, perché i migranti continueranno ad arrivare.
Naufraga così il Sogno europeo!
“L’accoglienza è un dovere dell’essere umano - ci ha ricordato Papa Francesco durante la sua profetica visita a Lesbo. La tragedia umanitaria, che si sta consumando sotto i nostri occhi, in parte l’abbiamo prodotta noi con l’indifferenza e con le guerre che ai nostri confini abbiamo concorso a fare esplodere con il traffico degli armamenti.”
Per questo dobbiamo dire NO con forza al Migration Compact che verrà pagato da centinaia di migliaia di africani impoveriti. Non è questa la strada per risolvere il problema dei migranti.
“Sogno un’Europa- ha detto il Papa ricevendo il Premio Carlo Magno il 6 giugno davanti alle massime autorità dell’Unione Europea-dove essere un migrante non è un delitto.”
«». La Repubblica, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

NEL GIORNO della festa della mamma è bene ricordare che le mamme italiane sono insieme tra le più denigrate per quanto succede ai loro figli (dall’accusa di mammismo che impedirebbe ai figli di diventare autonomi, a quella di narcisismo se appena distolgono lo sguardo da quello che viene loro assegnato come compito principale, se non esclusivo) e le meno sostenute nella vita quotidiana.

Il Rapporto di Save the Children reso pubblico qualche giorno fa — “Le Equilibriste, da scommessa a investimento: maternità in Italia” — riprende e allarga quanto era già emerso dal rapporto “Come cambia la vita delle donne”, una delle ultime fatiche curate per l’Istat da Linda Laura Sabbadini e dalle sue collaboratrici.

In Italia ci sono oltre 4 milioni e mezzo di donne che vivono con figli dagli 0 agli undici anni, ovvero con un’età che richiede ancora una forte intensità di cura e presenza. Sono le donne che fanno più fatica a stare nel mercato del lavoro proprio per il carico di lavoro non pagato e più in generale delle responsabilità di cura e supervisione genitoriale loro attribuite in modo quasi esclusivo. In tutte le fasce di età, e soprattutto tra i 30 e i 49 anni, infatti, il tasso di occupazione delle donne che vivono da sole è simile a quello degli uomini. Ma a differenza di quanto avviene ormai da decenni negli altri Paesi sviluppati, già il vivere in coppia provoca una diminuzione.

La diminuzione, quindi la distanza rispetto ad un tasso di occupazione maschile che non è certo tra i più alti in Europa e nell’Ocse diviene molto marcata quando si tratta di madri: 35 punti di differenza per le 25-29enni, 34 punti per le 30-34enni, in aumento per ogni figlio aggiuntivo.Simmetricamente, cresce il distacco dagli uomini, dai padri, nel carico di lavoro non pagato. Nelle coppie le donne fanno il 76,5% di tutto il lavoro famigliare, una percentuale di poco inferiore a quella rilevata nel 2003, senza molte differenze tra chi ha e chi non ha figli. Ciò significa che, a fronte dell’aumento del lavoro famigliare dovuto alla presenza di figli, una volta divenuti padri gli uomini, nel migliore dei casi, ne fanno qualche mezzora in più, ma non modificano la propria quota complessiva.

Ciò spiega il divergente comportamento di madri e padri nel mercato del lavoro, con conseguenze su redditi personali, carriere, contributi pensionistici e futuro ammontare delle pensioni, asimmetrie nei rischi economici e organizzativi in caso di rottura di coppia. Le madri separate e divorziate, infatti, da un lato sono a rischio di caduta in povertà, dall’altro devono essere disponibili a stare (o rientrare) nel mercato del lavoro in maggior misura di quelle ancora in coppia, nonostante debbano per lo più far fronte da sole, senza alcun contributo del padre, anche al lavoro familiare legato alla presenza dei figli.

Il tutto in una situazione in cui l’offerta di servizi per l’infanzia e di scuole a tempo pieno, già non generosissima e fortemente diseguale sul territorio nazionale, si è ridotta e/o è diventata più costosa, rendendone difficile l’accesso ai ceti più modesti e in cui la precarietà del lavoro rende particolarmente vulnerabili le madri.Si spiega così come mai l’Italia sia solo al 111 posto su 145 Paesi nel Rapporto globale sulla disparità di genere per quanto riguarda l’accesso al lavoro remunerato.

Naturalmente esistono forti differenze e diseguaglianze tra madri: tra chi ha una istruzione elevata (laurea) e chi una bassa (scuola dell’obbligo), tra chi vive nel Centro-Nord e chi vive nel Mezzogiorno. Secondo il Rapporto di Save the Children, tenendo conto di indicatori diversi (tassi di occupazione, servizi, divisione del lavoro famigliare), la regione più “amichevole verso le mamme” risulta essere il Trentino Alto Adige, seguito nell’ordine da Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Piemonte e poi dalle altre regioni del nord, che mostrano in generale condizioni più favorevoli alla maternità. In fondo alla classifica è la Calabria, preceduta di poco da altre regioni del Mezzogiorno come Puglia (16), Basilicata (17), Sicilia (18) e Campania (19).

Anche rispetto alla maternità, quindi, le disuguaglianze sociali e territoriali disegnano un’Italia in cui le chance di vita e i gradi di libertà nell’utilizzarle sono più accentuate di quanto non sarebbe accettabile in un Paese democratico. Non deve perciò stupire che oggi siano proprio le regioni meridionali, che tradizionalmente avevano tassi di fecondità più alti di quelli del Centro-Nord, a contribuire in maggior misura al bassissimo tasso di fecondità rilevato nel nostro Paese.

Per festeggiare davvero le mamme, più che una festa simbolica e zuccherosa una volta all’anno, occorrerebbe ampliare i loro gradi di libertà e non costringere le donne, specie quelle più svantaggiate, nella alternativa maternità o lavoro di sapore ottocentesco.

». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

L’articolo 9 della Costituzione afferma che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, dove il paesaggio e la storia rimandano a quegli esiti significativi e olistici dell’esistenza carichi più di significato che di qualità estetica. La cultura non si limita al bello.

Diffusa è l’idea che la cultura equivalga al bello e di qui il pensiero, ormai troppo fatto, della bellezza che salverà il mondo. Ma l’uomo si salva solo coltivando varie aiuole dell’orto, non una sola. Se ritorniamo ai Greci, troviamo una idea di cultura ampia che dovremmo fare nostra, quella del kalokagathos, cioè del bello unito al buono. Essa comprende corpi e spiriti eccellenti, istituzioni, costumi e leggi da preferire, le cose che rifulgono, insomma tutto ciò che s’impone nel continuum tra “significato” storico e “rappresentazione” estetica. Quanto lontano da questa idea di cultura è l’uomo d’oggi, unilateralmente disciplinare e maniacalmente economico, la cui umanità a brandelli invoca una rilegatura.

Da un punto di vista filosofico, il bene è il campo in cui fioriscono le idee morali e politiche che servono a governare la vita individuale, di gruppo e di comunità. I valori primi possono essere considerati singolarmente – pace, libertà, felicità, giustizia, amore, creatività – e nel loro confluire in quei paesaggi e sistemi d’idee che sono le civiltà. Riguardano temi sui quali i pensatori s’interrogano da millenni e che portano ogni giorno ciascuno di noi, anche se non ce ne accorgiamo, alla fortuna o alla rovina. Ecco perché è importante imparare, fin sui banchi di scuola, come essere curiosi di sé ma anche di amici, rivali e nemici, perché frammenti di verità si trovano anche nelle tasche altrui e i frammenti nella nostra tasca non bastano.

Esagerare un fine primo come la libertà oppure l’uguaglianza porta a trasformare un bene in un male, perché nell’uomo sempre fermentano più valori primi, tutti ugualmente necessari, che solo il buon senso consente in una qualche misura di combinare, anche quando contrastano fra loro. I disastri del ’900 provengono da esagerazioni sia dell’Illuminismo che del Romanticismo, entrambi in origine movimenti liberatori. Esiste un terreno comune umano di fini primi che riguarda alcuni valori morali accettati da gran parte degli uomini, non sempre e ovunque ma in grande parte dei tempi e dei luoghi. Si tratta di valori condivisi senza i quali le società non comunicherebbero, non si comprenderebbero e non si riprodurrebbero.

Terreno comune è distinguere il bene dal male, il vero dal falso e il giusto dall’ingiusto; perseguire bisogni basilari come cibo, riparo, sicurezza e appartenenza a un gruppo; raggiungere un minimo di libertà, felicità e sviluppo delle proprie potenzialità; concepire gli individui in relazione al loro ambiente maturale e culturale, etc. Si tratta dei limitati valori primi che sono dati, accettati, validi in sé e parte del mondo oggettivo; distinti da usanze e inclinazioni inventate e adottate che la storia mostra come numerosissime e diversissime.

Secondo una durevole e prevalente tradizione di pensiero gli uomini disporrebbero della conoscenza naturale innata di un certo numero di verità universali ed eterne quali l’esistenza di Dio, la conoscenza del bene e del male e del giusto e dell’ingiusto, l’obbligo di dire il vero, di restituire i prestiti, di mantenere le promesse e di seguire alcuni o tutti i comandamenti della Bibbia. Al contrario, secondo pensatori come Epicuro, Lucrezio, Vico, Herder, Hume e Marx, le suddette verità si sarebbero formate tramite evoluzione e sviluppo culturale, sarebbero cioè il risultato di effetti cumulativi, privi tuttavia di struttura e di scopo. Per questi pensatori la “natura umana” sarebbe si comune ma non fissa. È un atteggiamento che porta al pluralismo dei valori, ma non al relativismo, per il quale i fini primi sono soggettivi, arbitrari e infiniti, idea che i pluralisti rifiutano.

È comune pensare che i beni contrastino con i mali e si armonizzino invece tra loro; ma è una idea sbagliata. È doloroso prendere coscienza che i beni possano contrastare anche fra di loro. Ciò spiega perché sia così difficile agire moralmente e politicamente per il bene delle persone e comune. Quando si tratta di beni che configgono, la scelta si fa drammatica. Infatti è impossibile essere perfettamente liberi e perfettamente uguali, perfettamente giusti e perfettamente compassionevoli, perfettamente pianificati e perfettamente spontanei, perfettamente consapevoli e perfettamente felici; altrettanto impossibile è essere a un tempo lucidi e stupefatti, calmi e furiosi, leali e neutrali. Risulta pertanto incoerente qualsiasi idea di una armonia perfetta tra tutti i fini primi.

Ne consegue che l’attuazione totale e contemporanea di valori può rivelarsi impossibile quando sono tra loro incompatibili. Necessità e bisogni antinomici possono essere bilanciati ricorrendo, più che a una magica sintesi dialettica, a imperfette e provvisorie composizioni: ad esempio concedendo una dose di libertà e una dose di uguaglianza, in modo che nessuno dei due fini giunga a schiacciare l’altro. Altre volte un tale compromesso si rivela impossibile, come quando una comunità si propone di massimizzare un valore ritenuto preminente, per cui non dà spazio agli altri valori.

Ogni scelta comporta la perdita delle alternative scartate e nel caso di valori incompatibili, il sacrificio di un fine a favore di un altro, così che la commedia umana si converte sovente in un doloroso dilemma. Neppure è possibile gerarchizzare i valori primi, distinguere i più importanti dai meno importanti, perché manca un criterio valido per misurarli. Ne consegue che i valori primi sono incommensurabili e quindi tutti ugualmente necessari.

Sono da ritenere validi non solamente i fini che prediligiamo ma anche quelli che scartiamo o addirittura detestiamo. Se ci dotiamo dell’empatia che Vico e Herder insegnano, capiamo come, in condizioni storiche particolari, sia stato possibile scegliere e perseguire in maniera coerente e comprensibile scopi che non sentiamo più come nostri. Grazie all’immaginazione è dato intravedere cosa abbia significato essere un servo greco, un soldato romano, un martire cristiano, un giacobino, un ayatollah o un hippy americano: tutti modi di vivere che hanno avuto senso in altri tempi e luoghi. Penetriamo e comprendiamo gli eroi di Omero e Wagner, ma non condividiamo più i valori di Achille e Sigfrido, pur rientrando Iliade e Tetralogia nel nostro canone culturale. I missionari hanno potuto convertire gli Isolani delle Trobriand e i Pigmei dell’Africa, perché si appellavano a valori che anche gli altri intendevano.

Il fatto che tutto il mondo desideri visitare l’Italia rivela anch’esso l’esistenza di un terreno comune umano, cioè la possibilità di apprezzare una serie di civiltà anche se si appartiene a un diversissimo paesaggio di idee.I valori di una civiltà possono confliggere con i nostri eppure rientrare in quel genere di fini che immaginiamo perseguibili senza che smettano di apparirci umani. Sono fioriture che appartengono ad aiuole diverse e comprendere le aiuole lontane è diventato compito affrontabile solo a partire dello storicismo, che la cultura europea ha inventato nel XVIII secolo; una conquista che ancora non ha raggiunto numerose parti del globo, come ogni giorno è dato di constatare.

Capire quanto non condividiamo è divenuta una necessità imprescindibile anche nel nostro Paese. Dobbiamo preservare il nostro centro di gravità culturale e farlo conoscere e rispettare a chi viene da fuori, ma possiamo al tempo stesso esercitarci in idee e gusti di altri continenti. Capire falsi miti, fanatismi e estremismi non esclude che si possa combattere per difendere la forma di vita che preferiamo dal nemico che si proponesse di distruggerla. Valori comuni ed empatie fungono da ponte tra le culture nell’andirivieni ininterrotto tra limitati valori primi che uniscono e innumerevoli usanze che dividono.

Chi crede in un sistema unico e finalizzato di valori inalterabili, universali ed eterni, più che nel terreno comune umano che empiricamente è dato riscontrare, tende all’intolleranza verso quanto ritiene falso, perverso e deviato. È così accaduto che perfino l’illuminista Voltaire abbia dato del barbaro a Shakespeare. Lo storicismo, figlio del Romanticismo, impedisce ormai a noi simili pregiudizi, per cui possiamo essere legati al nostro paese e al tempo stesso sentirci parti di un unico Pianeta.

Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)

Quando si esalta un tiranno, magari per farci ricchi e convenienti affari, prima o poi va a finire male. Anzi malissimo. E’ capitato a Matteo Renzi con il generale presidente Al Sisi, ora capita a tutti i leader europei con il Sultano atlantico Erdogan che sta trasformando la Turchia in una buia prigione. Nascondendo il fatto che il presidente golpista egiziano aveva le mani sporche di sangue, il presidente del Consiglio italiano ha sdoganato Al Sisi per primo, la ha riempito di elogi pubblicamente, ha intessuto con lui una rapporto preferenziale perfino amicale.

Ora non sa che dire di fronte al fatto che quel regime depista e nasconde le prove sul delitto di Stato di Giulio Regeni, fa dire che quella del Cairo è su questo una «collaborazione inadeguata», mentre in Egitto infuriano repressione, sparizioni violente, arresti e condanne a morte. Tanto che è stato incarcerato anche Ahmed Abdallah, attivista dei diritti umani e consulente della famiglia Regeni.

Sul fronte turco, hai voglia a prendersela con le malefatte «ottomane» del presidente turco. Siamo noi che andiamo alla sua corte a prendere lezioni di umanità, democrazia e rispetto delle libertà. Così ha fatto Merkel che è corsa ad Ankara dopo avere accettato la messa sotto accusa in Germania del comico Jan Böhmermann che si era «permesso» una canzoncina satirica su Erdogan. Al quale abbiamo prima attribuito il compito, tramite la coalizione degli «Amici della Siria» di destabilizzare la Siria coinvolgendola direttamente nel sostegno in armi e addestramento a tutta la galassia degli insorti anche jihadisti, compresi Al Nusra (Al Qaeda) e Isis.

Operazione riuscita a metà – non completamente come in Libia – ma con la devastazione di un altro Stato in Medio Oriente, con costi umani e sociali da apocalisse. Poi, di fronte alla tragedia di decine di milioni di profughi in fuga da quella guerra che anche noi abbiamo attivato, riconosciamo sempre ad Erdogan con tanto di elargizione di ben 6 miliardi, il ruolo di salvatore dell’Europa perché si trasformerà per noi con abile maquillage in «posto sicuro» dove, a nostre spese, continuerà ad accogliere la marea di disperati. Tutto, insomma, purché non arrivino a casa nostra.

Nell’Unione europea che nessuno riconosce più e che, invece che madre – secondo l’auspicio di papa Francesco – sembra, attorno ad una moneta, una camera di tortura disseminata di ostacoli e muri. La vicenda è smaccatamente sotto gli occhi di tutti, al punto che emerge perfino la coda di paglia di Matteo Renzi che dichiara, tra un tweet e l’altro, di essere preoccupato per la bontà dell’accordo della Ue con Ankara. Ma quando l’ha sottoscritto ignorava forse quello che tutti sapevano?

E il Sultano turco che fa? A ventiquattrore dalla defenestrazione del «troppo filo-occidentale» premier Davutoglu, punta ad una nuova Costituzione più presidenziale e autoritaria. E, nello stesso giorno in cui i due giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuryet, il direttore Cam Dündar e il caporedattore Erdem Gül, vengono condannati a 5 anni di galera per violazione del segreto di Stato per avere documentato e denunciato traffici di armi con i jihadisti in Siria; e nelle stesse ore in cui davanti al tribunale di Istanbul proprio Dündar subisce un attentato a mano armata perché «traditore», ecco che Erdogan dichiara con durezza all’Europa che lui non cambia le leggi antiterrorismo. Le stesse che il Consiglio d’Europa accusa di essere lo strumento per «reprimere le attività della società civile, asfissiare il legittimo confronto politico e il giornalismo investigativo».

Perfino gli Stati uniti denunciano gli stessi argomenti . Mentre aumentano i processi per «insulto al presidente» e la Turchia ha il triste primato del maggior numero di giornalisti in carcere. E mentre i leader della sinistra kurda sono minacciati di morte e le città kurde sono investite da una violenza repressiva senza pari, bombardate e sotto coprifuoco, che qui da noi non fa nemmeno notizia.

Il grande scrittore Orhan Pamuk ha lanciato in questi giorni un doloroso quanto impotente grido d’allarme: «Salvate Istanbul, viviamo nella paura». Il fatto è che il Sultano, islamista moderato, è anche il baluardo sud dell’Alleanza atlantica che tace su ogni repressione dei diritti civili in Turchia. Se la Turchia fosse investita da una legittima rivolta democratica, L’Unione europea sarebbe persa.

Così Erdogan tiene in scacco le cancellerie del Vecchio continente. Si avvia infatti a gestire per noi in appalto in nuovi universi concentrazionari (cioè campi di concentramento) la disperazione dei profughi. Vale a dire la vergognosa arroganza della fortezza Europa. Davvero non c’è più bisogno che Ankara entri nell’Unione. È al nostro «livello», l’integrazione è realizzata: i veri turchi siamo noi.

«». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

Niente anemoni né garofani, niente orchidee né violette. La mimosa, piuttosto. A portata di mano – all’inizio di marzo – nei campi di tante contrade d’Italia, e a portata di portafoglio per i «compagni» anche meno danarosi... Nella tradizione orale del Partito comunista italiano, la scelta della mimosa quale simbolo dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è stata intestata a Teresa Mattei: già coraggiosa combattente partigiana nella Toscana dell’occupazione tedesca e presto, dopo le elezioni del 2 giugno 1946, il più giovane in assoluto fra i deputati dell’Assemblea costituente. Sarebbe stata lei, durante il primo inverno dopo la Liberazione, a guidare i dirigenti del Pci e le responsabili della neonata Udi (Unione Donne in Italia) verso un 8 marzo profumato di giallo.

L’aneddoto viene dato per buono da Chiara Valentini, nel felice ritratto di Mattei da lei abbozzato per un volume a più mani, Donne della Repubblica, appena uscito dal Mulino: libro di storia – quattordici profili biografici – attraverso cui il collettivo femminile Controparola ha voluto celebrare il settantesimo anniversario del voto alle donne. Libro talvolta un po’ incantato, per la tendenza di alcune autrici a sposare toto corde il punto di vista dei loro personaggi. Ma libro meritorio, se è vero che anche le maggiori «donne della Repubblica» restano oggi poco conosciute, mentre dovrebbero troneggiare nel Panteon novecentesco della storia d’Italia. Un’Italia che – guarda caso – ha saputo riconoscere i suoi founding fathers, non le sue founding mothers.

Lina Merlin (nata nel 1887), Camilla Ravera (1889), Teresa Noce (1900) ), Renata Viganò (1900), Ada Prospero Gobetti (1902), Nilde Iotti (1920), Teresa Mattei (1921), Marisa Ombra (1925), Tina Anselmi (1927): appartenevano a generazioni profondamente diverse, le più storicamente significative fra queste donne della Repubblica. Eppure, a guardarle l’una accanto all’altra, si notano in loro vari tratti comuni. Tutte o quasi tutte venivano dal Nord: per lo più dal Piemonte, altrimenti dal Veneto o dall’Emilia. Molte, in una prima fase della loro vita, erano state maestre o comunque insegnanti. Le più anziane avevano militato già nel Partito socialista di Filippo Turati, altre diventeranno comuniste soltanto negli anni Cinquanta, ma tutte si erano date un appuntamento – virtuale o reale – nell’Italia della Resistenza.

Seguire quattro di loro nell’aula di Montecitorio, deputate alla Costituente (e tre su quattro, Merlin, Iotti e Mattei, incluse nella Commissione dei 75 delegata a elaborare il progetto di Costituzione), equivale a toccare con mano una qualità propria della «Repubblica dei partiti»: la capacità di selezionare al meglio una classe dirigente. D’altra parte, le carriere politiche di donne come Merlin, Ravera e Mattei – carriere accidentate almeno quanto gloriose – illustrano la difficoltà di quei partiti, anche se di sinistra, nell’accettare pienamente il contributo di tali donne alla Costituzione e alla legislazione repubblicane. Attestano la ritrosia dei padri della patria a costruire un’Italia che davvero fosse nuova, oltreché nelle sue fondamenta istituzionali e valoriali, nella parità di statuto e di condizione fra i suoi uomini e le sue donne.

Si deve alla deputata socialista Merlin – passata poi alla storia per la legge contro le «case chiuse» – una formulazione decisiva della nostra Carta fondamentale: quella che, all’articolo 3, «senza distinzione di sesso» riconosce a tutti i cittadini l’eguaglianza di fronte alla legge e una pari dignità sociale. Si devono a deputate come la comunista Noce e a intellettuali militanti come l’azionista-comunista Gobetti i lenti ma sicuri progressi di una legislazione moderna sulla maternità. Si deve all’impegno ostinato di donne come Tina Anselmi l’evoluzione storica di una riottosa Democrazia cristiana, da partito-baluardo della «famiglia» a partito relativamente aperto verso la «questione femminile».

Quando pure il loro corpo fosse minato nella salute (così per Camilla Ravera, lungamente in carcere sotto il fascismo), queste donne della Repubblica sapevano tenere la schiena straordinariamente dritta. Ne fece esperienza il «compagno Ercoli», Palmiro Togliatti: cui Ravera non esitò a contrapporsi fin dagli anni Trenta, cioè nei tempi più grami (e più insidiosi) dell’ortodossia stalinista, e cui Mattei osò scrivere nel 1956, alla vigilia dell’VIII congresso del Pci: «Non possiamo accettare un processo allo stalinismo fatto dagli staliniani». A sua volta, il Psi avrebbe finito per vivere con disagio l’indipendenza politica e l’autonomia culturale di Merlin. Né si sarebbe svolta diversamente – in anni a noi più vicini – la vicenda dei rapporti fra Anselmi e quanto restava della Dc.

Al patriarcato della Repubblica, alcune di queste donne pagarono un prezzo altissimo anche in termini strettamente personali: nell’incontro-scontro fra la loro vita pubblica e la loro privata. Teresa Mattei e Marisa Ombra furono sospinte ai margini del Pci dalle loro relazioni con uomini già sposati, mentre Nilde Iotti – la compagna di Togliatti – dovette accettare l’«amara felicità» di un amore impossibile da vivere apertamente, il segretario del Pci restando ufficialmente coniugato con Rita Montagnana. Quanto a Teresa Noce, ripetutamente tradita dal marito Luigi Longo («Gallo» non solo in battaglia), apprese del suo proprio divorzio da un articolo del «Corriere della Sera». Falsificando carte e firme, Longo si era organizzato per divorziare da lei nell’aula compiacente di un tribunale di San Marino.

Non tutte le donne della Repubblica ebbero a fianco un marito come quello di Ada Prospero, il cui profilo è stato delicatamente tracciato – nel volume del Mulino – da Eliana Di Caro. Il 23 agosto 1919, Piero Gobetti aveva scritto in una pagina di diario: «Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei, forse il mio cuore sarebbe infranto».

Il manifesto, 8 maggio 2016 (p.d.)

La bella e partecipata manifestazione della coalizione Stop-Ttip di ieri a Roma è stata anzitutto un bel momento di democrazia in una vicenda, quella delle trattative sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, avvolte finora in un alone di riservatezza e opacità al dibattito pubblico. Se i documenti resi noti da Greenpeace Olanda – 13 dei 17 capitoli di testo «consolidato» – hanno contribuito a far circolare l’informazione su una trattativa che riguarda un’amplissima serie di materie rilevanti per l’economia, l’ambiente e la società, la manifestazione conclusa a piazza San Giovanni per opporsi al Ttip è, anzitutto, una richiesta di maggiore democrazia e trasparenza.

E, dunque, il contrario di quello che si capisce dai documenti che rappresentano lo stato della trattativa com’era a fine marzo. Su alcune materie come quelle ambientali, i negoziatori americani fanno più volte riferimento alla necessità di avere un parere dalle associazioni industriali, come quelle della chimica, tra le più interessate ad allentare le norme europee che sono ben più restrittive di quelle statunitensi. L’interesse dell’industria prima di tutto.

Il regolamento Reach, che come Greenpeace avremmo voluto ancora più severo, è stato più volte additato da parte americana come un inutile intralcio al commercio: in Europa le sostanze chimiche vietate sono oltre mille, negli Usa una manciata. L’obbligo di etichettatura per prodotti contenenti Ogm com’è noto è un altro esempio. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha messo da tempo in evidenza come il Ttip sia un modo per scavalcare le tutele europee per tutelare invece gli interessi di alcuni settori specifici dell’economia statunitense. L’agrochimica certamente è tra queste.

Il Presidente francese Hollande e il Cancelliere austriaco Faymann hanno rotto il fronte attaccando il Ttip. Oggi il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina ha ribadito che non si abbasseranno mai le tutele in campo agroalimentare. Sarebbe carino che oltre a queste rassicurazioni se ne trovasse traccia anche nei testi, mentre in 248 pagine, ad esempio, non si trova mai citato il principio di precauzione, principio basilare nella normativa europea.

Come Greenpeace non siamo contrari agli accordi commerciali, purché siano garantite certe condizioni. Se, ad esempio, si mettesse insieme la parte migliore della normativa statunitense – ad esempio sulle emissioni di mercurio dalle centrali a carbone, sulle emissioni delle auto, sui composti chimici nei giocattoli dei bambini – assieme alla parte migliore delle norme europee, il quadro del dibattito potrebbe cambiare. I testi del trattato mostrano, al contrario, che la spinta statunitense è tutta dalla parte opposta ed è molto determinata.

Ma, proprio in questi giorni, Hillary Clinton in corsa per le presidenziali, rispondendo per iscritto a un gruppo di sindacati e associazioni ambientaliste ha ribadito che «mi oppongo all’accordo sul Ttp (quello trans-pacifico, ndr), sia prima che dopo le elezioni». L’intero approccio degli Stati uniti agli accordi commerciali va ripensato, aggiunge la Clinton.

Credo che dovremmo dire la stessa cosa noi dal versante europeo. E, certo, concludere trattati commerciali con gli Usa mentre i principali candidati alla prossima presidenza li attaccano appare un tantino bizzarro.

Sarebbe ora di fermarsi e consentire un dibattito più ampio e partecipato su che tipo di regole vogliamo avere negli scambi commerciali con gli Usa, e che tipo di futuro desideriamo per la nostra società e la nostra economia. Ma non sembra che partecipazione e democrazia siano in cima alle priorità di chi spinge, come il governo Renzi, per il Ttip.

© 2025 Eddyburg