Il Manifesto, 20 maggio 2016 (p.d.)
Richieste di asilo esaminate in pochi minuti. Minori trattenuti illegalmente e migranti, tra i quali anche soggetti considerati vulnerabili, espulsi dal sistema di accoglienza e abbandonati al loro destino. Pensati per selezionare i migranti al loro arrivo in Italia, gli hotspot si sono trasformati velocemente in luoghi di produzione di illegalità e emarginazione. Da settembre a oggi, secondo quanto denunciato nel rapporto «Hotspot, il diritto negato» presentato ieri da Oxfam Italia, nelle sole strutture di Pozzallo e Lampedusa sarebbero state respinte più di 4.000 persone. In teoria una volta rigettata la richiesta di asilo dovrebbero lasciare l’Italia entro sette giorni, dopo aver raggiunto a proprie spese l’aeroporto romano di Fiumicino e aver acquistato un biglietto per il paese di origine. Ma senza soldi e soprattutto senza documenti validi né assistenza, rischiano di finire in mano alle organizzazioni criminali e di essere sfruttati come manodopera nei campi o, per quanto riguarda le donne, avviate alla prostituzione. «Queste persone non possono che andare a ingrossare le file degli irregolari, costrette in alloggi di fortuna e senza nessuna prospettiva», è scritto nel rapporto.
La creazione degli hotspot è prevista nell’agenzia europea sulle migrazioni del 13 maggio 2015, senza però un preciso quadro legale all’interno del quale queste strutture devono operare. Sulla carta le richieste di asilo dovrebbero essere esaminate nell’arco di pochi giorni, mentre i migranti economici, considerati irregolari, dovrebbero essere rimpatriati anche con la collaborazione di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Stando a quanto denuncia il rapporto, però, una fase delicata come l’interrogatorio dei migranti, dal quale dipende l’accettazione o meno della richiesta di asilo e quindi il loro futuro, avvererebbe in maniera a dir poco spiccia e soprattutto senza informare adeguatamente le persone dei loro diritti. «Nessun ente di tutela è presente in questa fase, non Unhcr, non Easo, nessuno che possa garantire in modo imparziale che la volontà dei migranti venga realmente compresa e correttamente registrata», prosegue Oxfam.
Nel rapporto vengono riportate anche alcune testimonianze di migranti. «Io avevo detto che ero scappato dal mio paese per gli scontri che ci sono…, c’è la guerra, volevano farmi combattere contro i miei connazionali», racconta ad esempio M., 23 anni, originario del Ghana. «Ma poi due giorni dopo mi hanno dato il foglio (il decreto di respingimento, nda) e via». Storia analoga anche quella di B., 22 anni, del Gambia. «Quando mi hanno intervistato io ho detto “Asylum! Asylum!”, l’ho detto lo giuro. Ma poi mi hanno messo con gli altri, nigeriani, del Togo del Mali e ci hanno dato il foglio».
«Gli avvocati non sono ammessi agli interrogatori, che avvengono solo con un interprete», spiega il direttore del programma Oxfam, Alessandro Bechini. «Sono gli stessi agenti di polizia a stabilire chi ha accesso e chi no alla protezione internazionale, una responsabilità che non spetta a loro». «La stessa distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici – aggiunge invece l’avvocato Paola Ottaviano, dell’associazione Borderline Sicilia – viene fatta in modo frettoloso e arbitrario, spesso per nazionalità».
Nel tentativo di mettere un argine a questa situazione Oxfam, insieme a Borderline Sicilia e alla Diaconia Valdese, ha dato vita al progetto OpenEurope che si propone di assistere quanti sono stati respinti. Dal 9 maggio un camper con a bordo un avvocato, un mediatore culturale e un operatore addetto all’accoglienza contatta i migranti aiutandoli a presentare il ricorso contro il decreto di respingimento e a preparare la richiesta di asilo, avviandoli verso le strutture di accoglienza. I soggetti più vulnerabili, come donne sole, incinte ma anche minori non accompagnati, disabili e persone con problemi psichici possono invece contare su un appartamento in provincia di Siracusa messo a disposizione dalla Diaconia Valdese.
La Repubblica.it, 19 maggio 2016 (p.d.)
Pubblicità regresso. Dopo lo spot della Telecom che, forse sensibile ai venti neoautoritari, esalta «la libertà di non dover più scegliere», arriva quello del cornetto Algida, che associa ai classici giochi da spiaggia una canzone che dice: «E ancora un'altra estate arriverà / E compreremo un altro esame all'università».
L’effetto del montaggio è un boomerang: cioè un ritratto grottesco dell’Italia, e della sua povera università, che è piena di difetti e certo non è esente da corruzioni, ma non è un suq.
E infatti in queste ore sta montando la reazione del mondo accademico. Il professor Claudio Della Volpe ha chiesto l’intervento dell’Autorità garante per la concorrenza: «che si usi come messaggio pubblicitario la vendita degli esami all’università è una cosa che come cittadino che insegna all’università e che non ha mai sognato di vendersi un esame mi sconcerta alquanto. Direi che la scelta è del tutto fuori luogo, e anche offensiva per chi fa il suo lavoro con passione e correttezza: la stragrande maggioranza». Alle proteste di un altro professore (Stefano Chimichi), il team italiano di Unilever ha risposto che «Al centro del nuovo spot di Cornetto Algida, sulle note di “Vorrei ma non posto”, sono protagonisti l’estate e i sentimenti di sempre, ma raccontati all’epoca dei social. La invitiamo ad ascoltare il pezzo nella sua interezza in modo da poter interpretare in maniera corretta il messaggio che viene raccontato: il testo vuole estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi, che non danno il giusto peso a diverse cose importanti della vita».
La multinazionale proprietaria di Algida si riferisce alla canzone di Fedez e J-Ax da cui è tratta la frase: ma è una risposta che non convince. Perché un conto è, appunto quella frase nel suo originario contesto testuale e visivo (il video è urticante e estremo), un conto è averla isolata, e montata sulle immagini convenzionali e dolciastre dello spot.
La vera domanda è: se davvero lo spot voleva «estremizzare e condannare la “deriva” delle abitudini di alcuni giovani di oggi» (secondo il singolare intento moralizzatore dichiarato della multinazionale dolciaria) perché allora non si è scelta, per esempio, quest’altra mirabile strofa: «E come faranno i figli a prenderci sul serio / con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook / Il papà che ogni weekend era ubriaco perso /E mamma che lanciava il reggiseno ad ogni concerto /Che abbiamo speso un patrimonio /Impazziti per la moda, Armani /L'iphone ha preso il posto di una parte del corpo /E infatti si fa gara a chi ce l'ha più grosso»?
Evidentemente i grandi brand del mercato sono intoccabili, mentre la molle università pubblica italiana può essere diffamata impunemente. Ma Unilever stia attenta: la ministraStefania Giannini ha appena annunciato che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d'istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un'impronta più pratica all'istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica».
Quando l’università sarà una cosa sola col mercato, allora anch’essa sarà intoccabile: e saranno tempi duri per chi vorrà trovare carne da cannone per il moralismo da spot.
I governi dell'ex sinistra europea punte avanzate nella lotta del neoliberalismo contro le classi lsvoratrici. la sinistra di popolo si unirà per combattere insieme Hollande e Renzi? Corrispondenza di Anna Maria Merlo da Parigi e commento di Ignazio Masulli. Il manifesto, 20 maggio 2016
LOI TRAVAIL:
LE MANIFESTAZIONI NON SI FERMANO
di Ann Maria Merlo
Francia. Ancora cortei, 400mila persone in piazza, malgrado le tensioni e il grave episodio della vigilia a Parigi contro una pattuglia della polizia. Valls ai sindacati: "interrogatevi sulla pertinenza" della protesta. Stato di emergenza votato fino a fine luglio
La Cgt propone una nuova giornata di protesta il 26 maggio, per aumentare la pressione e arrivare al ritiro della Loi Travail. Fo propende per una giornata di manifestazioni e di scioperi interprofessionali a giugno, quando il testo di legge arriverà in discussione al Senato (il 13, dove dovrebbe ritrovare la versione iniziale, quella prima della concertazione con la Cfdt, poiché qui è la destra ad avere la maggioranza). Ieri, secondo la Cgt in Francia sono scese in piazza almeno 400mila persone, numero in crescita rispetto a martedi’, primo appuntamento di protesta di questa settimana. Ieri, era la settima giornata di manifestazioni contro la riforma del lavoro in un po’ più di due mesi. I blocchi dei camionisti sono continuati, in particolare nell’ovest del paese, dove già alcune pompe di benzina sono a secco. Sciopero anche nelle ferrovie, seguito al 15% (secondo la direzione), a Orly è stato annullato circa il 15% dei voli. Il primo ministro, Manuel Valls, ha affermato ieri di essere “pronto a far levare i blocchi di porti, aeroporti e raffinerie”, minacciando l’invio della polizia. Valls ha messo in guardia i sindacati e chiesto loro di “interrogarsi sulla pertinenza” delle manifestazioni continue, dopo il grave episodio della vigilia, con l’aggressione di una pattuglia, dove c’erano due agenti, in Quai de Valmy, mentre c’era la manifestazione dei poliziotti contro l’”odio anti-flic”. Cinque persone erano ieri in stato di fermo, la Procura ha aperto un’inchiesta per “tentativo di omicidio volontario”. I sindacati rispondono che il governo vive “sulla luna”. Per Jean-Claude Mailly, segretario di Fo, basterebbe che il governo si mettesse a discutere, “ritirando i punti più controversi”, per far cessare le manifestazioni. Philippe Martinez, della Cgt, il progetto di legge “deve essere ritirato, la palla è ormai nel campo del governo”.
Malgrado le violenze della viglia, a Parigi, c’è stato un corteo consistente, 100mila persone per la Cgt, 13-14mila per la polizia. La presenza della polizia è stata massiccia, una sfilata di decine di camionette prima del passaggio del corteo, strade chiuse da barricate di protezione lungo il percorso, da Nation a place d’Italie. Sul boulevard de l’Hôpital e poi in place d’Italie e dintorni ci sono stati momenti di tensione, sempre in testa al corteo, dove si sono concentrati i giovani più radicali, con il volto coperto. Vetrine spaccate (soprattutto di agenzie bancarie), lanci di oggetti, replica con lacrimogeni e granate assordanti da parte delle polizia presente in forza, un elicottero ha seguito, come al solito, la manifestazione dal cielo. A Parigi, ci sono stati 9 fermi di persone accusate di avere armi improprie e di aver lanciato oggetti contro le forze dell’ordine. Il ricorso alla violenza è giustificato da questi giovani: “hanno avuto quello che meritano”, spiega uno studente, riferendosi sia al servizio d’ordine dei sindacati, accusato di essere un “collabo” della polizia che ai poliziotti. “Il popolo non fa che rispondere con un’eguale violenza”, aggiunge lo studente. Un manifestante più anziano, sempre nella parte calda del corteo, spiega: “c’è l’esasperazione per non essere ascoltati” dal governo, che continua a dire che le legge sarà varata al termine di un iter parlamentare a colpi di 49.3 (cioè senza voto). Dietro, hanno sfilato nella calma i sindacati, evocando a tratti lo “sciopero generale”. Tra gli slogan più gettonati: “legge del padronato, 49.3, non li vogliamo”, “Hollande, Valls, Medef, casseurs del sociale”. Il caso del Cpe di dieci anni fa, il contratto di primo impiego votato, pubblicato sul Journal Officiel ma poi annullato, viene evocato come un precedente da ripetere oggi.
Manifestazioni anche in molte altre città, Saint-Nazaire, Le Havre, Rennes, Bordeaux, Montpellier, Clermont-Ferrand, Lione, dove ci sono stati due fermi. 19 persone sono state fermate a Rennes, dopo un tentativo di vandalismo nella metropolitana. A Nantes, dove il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, aveva proibito la manifestazione, c’è stato un corteo improvvisato al grido: “stato d’emergenza, stato di polizia, non ci impediranno di manifestare”. Intanto, ieri l’Assemblea ha confermato il voto già avvenuto al Senato, che prolunga lo stato d’emergenza per altri due mesi, fino a fine luglio, per coprire l’Euro di calcio, che inizia il 10 giugno, e il Tour de France, due appuntamenti considerati a rischio. Effetto del terremoto politico in corso: il gruppo Verde non esiste più all’Assemblea, la frattura tra pro e contro il governo è consumata. Sei deputati di Europa Ecologia hanno abbandonato e sono entrati nel gruppo socialista, ma conserveranno l’indipendenza di voto.
LA TRASVERSALITÀ
E PIÙ FRONTI DI LOTTA
di Ignazio Masulli
La lezione francese - Nuit Debout. Precarietà e libertà di licenziare. Come in forme più gravi il Jobs act italiano e le leggi di Cameron
Il movimento di massa in atto da quasi due mesi in Francia ha varie cose da dirci. Com’è noto, il motivo iniziale e principale della protesta è una legge che riduce ulteriormente i diritti dei lavoratori e ne aumenta la precarietà. Il punto di maggior contrasto è costituito dalla decisa spinta che la «Loi Travail» vuol dare alla contrattazione aziendale.
Non diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei, in Francia quest’obbiettivo è stato perseguito anche in passato dal padronato, col deciso supporto dei governi di destra.
In particolare, la legge Fillon del 2004 stabiliva la possibilità di accordi aziendali stipulati in deroga a quanto previsto da quelli nazionali.
Ma, a questo proposito, occorre tener conto di due fattori. Il primo consiste nel fatto che il diritto del lavoro in Francia riconosce il principio per cui un accordo aziendale deve essere più favorevole ai lavoratori di quanto è previsto dal contratto nazionale di settore. E questo, a sua volta, non può essere meno favorevole del codice del lavoro. Sicché il tentativo di dare maggiore potere contrattuale ai datori di lavoro spostando il negoziato a livello aziendale va contro un principio non solo consolidato, ma giuridicamente formalizzato.
In secondo luogo, il tasso di sindacalizzazione, che oltralpe è piuttosto basso, trova compensazione nel fatto che circa il 90% dei lavoratori è tutelato dai contratti collettivi. Ed è quindi essenziale resistere su questo punto. A questo va aggiunto un altro motivo di resistenza dovuto a nuove misure che, con il falso obiettivo di favorire l’inserimento nel mercato del lavoro, obbligano di fatto chi è in difficoltà ad accettare occupazioni poco appetibili e mal retribuite.
I francesi, che hanno già sperimentato gli effetti della “Grenelle Insertion” voluta da Sarkozy nel 2008, sanno bene che le analoghe misure imposte ora dal governo pseudo-socialista di Valls peggioreranno la competizione al ribasso nel mercato del lavoro. Ancora una volta, il risultato non può che essere l’aumento della precarietà. Come non bastasse, la precarietà e mercificazione del lavoro, che ha già raggiunto punti limite, è addirittura generalizzata dal riconoscimento anche formale della libertà di licenziamento per motivi economici.
Il fatto che tutti e tre questi punti si riscontrino in forme anche più gravi nel Jobs Act italiano o negli ulteriori peggioramenti della legislazione sul lavoro varati da Cameron in Gran Bretagna, ma senza aver provocato reazioni massicce e persistenti come quelle cui stiamo assistendo in Francia pone alcuni interrogativi che meritano un’attenta riflessione.
Alla reazione contro la Loi Travail si sono aggiunti e intrecciati altri motivi di protesta, a cominciare da quello degli studenti. Anche loro contestano le politiche neoliberiste e i tagli allo Stato sociale che, oltre a sanità e pensioni, tornano a colpire la scuola pubblica. In secondo luogo, pure in Francia si assiste ad un crescente divario tra i livelli di formazione raggiunti e le tipologie occupazionali cui è possibile accedere. Il che si connette con le difficoltà che i giovani incontrano nella ricerca del primo impiego e la prospettiva sempre più incombente di doversi adattare a lavori precari e sottoremunerati.
Certo, anche in altri paesi europei non sono mancati cicli di lotte che hanno affiancato lavoratori e studenti. Ma non c’è dubbio che in Francia tale alleanza è stata più persistente e si è riproposta con forza anche in anni recenti. Non si può dimenticare che proprio la spinta radicale di giovani e studenti ha costretto il governo di destra di Jean- Pierre Raffarin a ritirare il suo disegno di legge sul lavoro del 2003. Lo stesso è accaduto nel 2006, quando la protesta congiunta di studenti, lavoratori e sindacati ha obbligato il primo ministro Dominique de Villepin a rinunciare alla proposta di un “contratto di primo impiego”.
Quest’alleanza si ripropone oggi in nuove forme nel movimento Nuit Debout e si allarga ulteriormente collegandosi ad altri movimenti ed obiettivi di lotta.
Va sottolineato che non si tratta di un mero affiancamento di più soggetti sociali in lotta con obiettivi diversi e che trovano una solidarietà più o meno congiunturale. Il fatto rilevante consiste nell’individuazione di un nemico comune da battere. E non v’è esitazione nel riconoscerlo nei potentati economici, finanziari, tecno-militari e politici che esercitano uno strapotere senza precedenti nella maniera più parziale ed irresponsabile.
Si tratta, quindi di una trasversalità che connette più fronti di lotta. V’è la piena consapevolezza che le ragioni di crisi economica, malessere sociale, peggioramento dei sistemi di vita che si percepiscono più da vicino dipendono dagli stessi interessi e scelte dei gruppi dominanti che causano disastri ambientali, provocano guerre unilaterali e avventuriste, chiudono le frontiere a rifugiati e profughi.
È questa la trasversalità autentica e più significativa. Né si può dire che la mira è troppo alta. Da un lato, essa è coerente con l’analisi. Dall’altro, l’esperienza storica c’insegna che non ci si può proporre obiettivi di cambiamento effettivo, anche a breve, se non iscrivendoli in una prospettiva di mutamento più ampia e a lungo termine.
L’altro punto di forza di Nuit Debout consiste nell’auto-organizzazione. Da essa dipende la capacità di rigenerarsi e di trovare gli elementi di orientamento e di rotta al proprio interno. Non a caso, v’è il dichiarato rifiuto di una guida eteronoma e l’attenta difesa della propria autonomia. Anche questo secondo aspetto contiene una sfida. L’auto-organizzazione, infatti, può mostrarsi efficace se si radica in ragioni profonde e tenaci di resistenza, se si nutre di una consapevolezza e volontà forte di cambiamento. A tali condizioni l’auto-organizzazione di un movimento può trovare anche forme nuove di consolidamento ed espressione politica.
Sono proprio questi due caratteri, della trasversalità e dell’auto-organizzazione, che consentono al movimento in atto in Francia di espandersi rapidamente e a macchia d’olio. Ed è su tali dinamiche e sulla loro capacità di dar corpo a nuove modalità di coalizione sociale ed azione politica che è utile riflettere da parte di quanti ritengono possibili risposte alternative alle tendenze di crisi del tardo capitalismo.
«Europa. La crisi economica prescinde dalla successiva esplosione migratoria che assume tratti senza precedenti e vanifica le politiche dell’ossimoro europeo, l’emergenza permanente».
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
Non dovrebbero esserci più dubbi sul fatto che l’Europa che abbiamo conosciuto e sognato non c’è più. Confini, filo spinato, respingimenti stanno dando l’impressione che la causa della crisi sia la recente esplosione dell’immigrazione. Ma non è così. Il principale fattore di crisi è precedente e riguarda l’evoluzione e la gestione dell’unificazione europea.
Il processo è stato sviluppato come un crescendo rossiniano. Si è partiti da un nucleo originario di pochissimi paesi con livelli di vita abbastanza simili, ci si è progressivamente allargati ad un’area crescente di paesi con livelli di vita sempre più differenziati. Se nell’Europa a sei il rapporto tra Pil per abitante del paese più povero (Italia) e Pil del paese più ricco era di 1 a 2,7, esso è diventato di 1 a 5 con l’ingresso di Spagna e Portogallo, poi di 1 a 12 nel 1995 (paese più povero la Lettonia) fino ad arrivare ad 1 a 20 nel 2007 (paese più povero la Bulgaria).
Il numero di paesi è cresciuto di cinque volte, le disuguaglianze interne di sette volte, le aspettative si sono sempre più divaricate: i paesi più ricchi contavano sui nuovi mercati di sbocco e su manodopera a costi più bassi, quelli più poveri su crescita e benessere a livelli “europei”.
Tutto questo allora non sembrava irrealistico perché, proprio fino al 2007, le economie crescevano: dal 2000 al 2007 i paesi del centro nord hanno visto crescere il reddito procapite del 12%, quelli del sud del 9%, quelli provenienti dall’est sovietico, che erano entrati con redditi di appena un quarto, sono crescite del 44%.
Il loro sogno, insomma sembrava potersi realizzare. Ma nel 2008 si è verificato un primo fattore imprevisto: è iniziata quella crisi che si trascina fino ad oggi e che in Europa si è tradotta in una stagnazione-recessione differenziata: la crescita dei paesi dell’est è crollata all’8%, quella del centro nord si è azzerata, i paesi del sud hanno perso addirittura l’11%. La crisi, così, ha vanificato i sogni ed aumentato le disuguaglianze.
Un fenomeno di questa portata avrebbe richiesto una politica economica solidale con un intervento pubblico consistente, si è fatta invece una politica di austerità e di egoismi nazionali. Da qui la rinascita di nazionalismi e populismi prima e la nascita di tre linee di frattura tra paesi ricchi del centro nord, paesi dell’area orientale e paesi del sud mediterraneo. La crisi economica è la prima frattura dell’Europa, è, quindi, un problema a sé che prescinde dall’esplosione delle migrazioni.
Queste sono sopraggiunte dopo, si sono inserite nelle linee di frattura ricordate, debbono, quindi, essere esaminate separatamente. La nuova grande migrazione del ventunesimo secolo riguarda ambedue i continenti più ricchi del mondo, quello americano e quello europeo. In questo scenario globale l’Europa è diventata la terra promessa per una lunghissima teoria di popoli che si snodano dall’Asia (Afghanistan, Pakistan…), attraversano tutto il medio oriente (Siria, Irak..) arrivano all’intero, immenso, continente africano.
Si tratta di una migrazione senza precedenti causata da fughe da guerre e da fame, incentivata dalla nuova conoscenza del mondo prodotta dalla rete, sostenuta da una nuova ed inattesa coscienza del diritto di emigrare e di essere accolti. Una nuova generazione di migranti, di diverse etnie e generazioni, unite da una nuova consapevolezza della loro condizione di vittime di politiche economiche e militari occidentali preme senza sosta ai confini del mondo sviluppato con una potenza quantitativa e qualitativa inarrestabili.
Questo fenomeno, in Europa, si somma alla crisi economica, ne accentua le linee di frattura e ci pone davanti ad drammatico bivio: cercare di giorno in giorno di arginarne gli effetti con politiche di emergenza permanente o prendere il toro per le corna ed impostare una strategia di lungo periodo adeguata alla gravità della situazione.
Partiamo intanto da una constatazione. L’esodo che stiamo vivendo presenta una differenza rispetto a quello del continente americano perché qui le conseguenze si scaricano tutte sull’Europa, ma le cause non sono generate dalla sola Europa. Le politiche di sfruttamento delle risorse, le guerre che hanno destabilizzato paesi ed intere aree, sono state promosse dagli Usa, accettate dall’Europa ed avallate dall’Onu ed hanno generato una nuova divisione del mondo. Se fino a pochi decenni fa si poteva parlare di “paesi sviluppati”, “paesi emergenti” e “paesi fermi” e si poteva ipotizzare una mobilità dei paesi da un gruppo all’altro, oggi ai tre gruppi citati se ne è aggiunto un altro, quello dei “paesi declinanti” come Siria ed Irak e questi nuovi blocchi appaiono come sclerotizzati ed immodificabili. La conseguenza è che i “paesi declinanti” ed i “paesi fermi” sanno di essere tagliati fuori e per sempre da ogni speranza di futuro.
Questa suddivisione appare inaccettabile in tempi di globalizzazione economica e delle informazioni ed è proprio la consapevolezza di essere tagliati fuori da ogni possibile futuro sviluppo che sta determinando i ritmi senza precedenti dell’esodo dal medio oriente e dall’Africa. Il problema tocca l’Europa, ma è di carattere globale.
Serve perciò una politica all’altezza dei tempi e delle dimensioni che si fondi su tre pilastri capaci di unificare le risposte all’emergenza a quelle più strutturali. Gestire i flussi distribuendoli tra paesi, riequilibrare le disuguaglianze tra aree, arrestare i focolai di guerre diffusi sono tre azioni che debbono far parte di un’unica strategia. Si tratta di un sogno, di un progetto utopistico, difficile? Si anzi difficilissimo ai limiti dell’impossibile.
Si tratta di un progetto che richiederebbe una sessione straordinaria dell’Europa prima e dell’Onu dopo che affronti il problema delle nuove migrazioni, che vari un grande piano euro mediterraneo di pacificazione, di riequilibrio e di sviluppo. Si tratta di realizzare ingenti investimenti e di trasferire risorse dai paesi più ricchi verso le aree ferme ed in declino. Si tratta, però, di cose che nessuno ci costringe oggi a fare. Possiamo continuare a trastullarci col nostro declinante benessere materiale, a resistere ed ostacolare gli arrivi, a palleggiarceli come merci infette che nessuno vuole, a spostare il problema sempre oltre e sempre dopo. Possiamo anche farlo fino a quando non esploderanno le nostre miserie culturali ed umane.
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
Dieci miliardi di euro investiti dall’Europa in sette paesi africani per fermare i flussi di migranti. Ma anche nuovi
hotspot – oltre ai cinque già esistenti – da aprire in Italia anche su strutture mobili e galleggianti, come navi e piattaforme. Si muove su queste due gambe la strategia messa a punto da Palazzo Chigi alla ricerca di una soluzione alla crisi dei migranti. Con il premier Matteo Renzi che chiede all’Europa di mettere fine a interventi
spot, come la costruzione di muri e recinzioni che non risolvono il dramma di chi è costretto a lasciare la propria terra a causa di una guerra o della miseria in cui vive, lasciando però allo stesso tempo il ministro degli Interni Angelino Alfano libero di ripetere (lo aveva già fatto il 27 aprile scorso) proposte scioccanti e dal sapore tutto elettorale come quella di identificare i migranti in mezzo al mare «senza far fuggire nessuno», ha detto ieri il ministro senza spiegare cosa accadrebbe a quanti non potessero presentare domanda di asilo.
La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano oggi nel nostro paese provengono da paesi del Nord Africa e dell’Africa occidentale. Ed è proprio a quel continente che il governo ha deciso di rivolgersi organizzando la prima conferenza ministeriale Italia-Africa, che ha riunito ieri a Roma i ministri degli Esteri di oltre 50 paesi. «Per ora non ci sono emergenze – ha detto il ministro Paolo Gentiloni introducendo i lavori – ma proprio per questo dobbiamo lavorare, adesso che abbiamo lo spazio e la possibilità, per mettere in campo una strategia prima che cominci una situazione di maggiore emergenza».
La strategia prescelta è quel migration compact già presentato poche settimane fa a Bruxelles e che prevede finanziamenti destinati a progetti di cooperazione utili a contenere le partenze. Per ora si parla di dieci miliardi di euro da investire in Tunisia, Senegal, Ghana, Niger, Egitto, Nigeria e Costa d’Avorio. E come primo passo, ieri l’Italia ha cancellato la parte di debito che il Ciad ha nei suoi confronti. «Paesi sicuri, destinatari dei rimpatri e con i quali si possono fare accordi bilaterali. Altro discorso sono i paesi in guerra, gli stati falliti. E con quelli è molto difficile avere rapporti di questo tipo», ha aggiunto Gentiloni.
Non si tratta, però, di un regalo, visto che anche i paesi beneficeranno dei finanziamenti europei dovranno fare la loro parte. In particolare quello che Roma – e presto l’Europa – chiede è un impegno nel rafforzare i controlli ai confini, maggiore cooperazione nei rimpatri degli irregolari e una gestione nei rispettivi territori dei flussi migratori, distinguendo così fin da subito tra richiedenti asilo e migranti economici. In pratica la riproposizione, seppure in termini diversi, dell’accordo siglato il 18 marzo scorso con la Turchia.
Oggi Renzi illustrerà il piano al premier olandese Mark Rutte, presidente di turno dell’Ue, in visita a Roma, e lunedì se ne parlerà al vertice dei ministri degli Esteri dei 28. Ma l’Italia chiederà al Consiglio europeo in programma a giugno di allestire un «piano operativo» e di «ampio respiro», in modo da poter partire quanto prima con dei progetti pilota. Non è a prima volta che l’Europa cerca di coinvolgere l’Africa nella gestione dei migranti. A novembre dell’anno scorso si tenne a La Valletta un vertice Ue-Unione africana proprio su questo tema, ma con scarso successo. Bruxelles mise sul piatto aiuti per 1,8 miliardi di euro per quei paesi disposti a collaborare per impedire le partenze, senza però ricevere le risposte sperate. Troppi pochi soldi (specie se paragonati ai 3 miliardi di euro destinati alla Turchia dei quali già si cominciava a parlare), ma soprattutto nessuna disponibilità ad aprire campi dove trattenere i migranti. L’esperienza ha spinto Roma a lavorare su un approccio diverso, che puntasse davvero allo sviluppo delle economie locali. Una scelta che sembra aver fatto breccia nei ministri riuniti a Roma. «Dobbiamo rafforzare il processo di industrializzazione in Africa e offrire opportunità di lavoro per dare uno sbocco ai giovani», ha commentato ieri la presidente dell’Unione africana, Nkosozana Damlini Zuma. «Se noi riuscissimo a valorizzare le nostre risorse naturali e minerali del 50 per cento potremmo creare ben 7 milioni di posti di lavoro ogni anno».
Oltre che per mettere fine agli sbarchi di migranti, la partita che sta giocando con l’Africa è fondamentale per Renzi anche per un altro motivo. L’Italia si è infatti candidata a un seggio come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il 2017/18. Si vota il 28 giugno e per essere eletti bisogna conquistare i due terzi dei voti dell’Assemblea generale. Chiaro, quindi, che per Renzi è fondamentale avere dalla propria parte se non tutti almeno la maggioranza dei 54 stati africani.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 (p.d.)
“Mi accorgo che i giornali sono tutti uguali”, diceva Nanni Moretti nel suo Aprile mentre incollava, una dopo l’altra, pagine di testate diverse fino a creare un “unico grande giornale”. Era l’inizio del ventennio berlusconiano, oggi molto è cambiato, ma in questi mesi si assiste a una coincidenza di tempi: mentre si avvicinano gli appuntamenti più rilevanti per la politica (il referendum costituzionale di ottobre, le prossime elezioni politiche), si sblocca il settore dell’editoria che all’improvviso inizia a reagire ai traumi della crisi con un processo di aggregazioni e concentrazioni. Che spinge i grandi gruppi più vicini all’orbita del governo renziano. Ecco la fotografia della rivoluzione in corso.
RCS. La cordata di Andrea Bonomi e dei soci storici (Mediobanca, Della Valle, Pirelli, UnipolSai) ha presentato un’offerta migliore di quella dell’editore puro Urbano Cairo, sostenuto da Intesa Sanpaolo. Bonomi ha un fondo di private equity, vuole fare soldi (e l’unico modo è facendo operazioni sulla parte sportiva, Gazzetta dello Sport e Marca), agli altri il Corriere serve per pesare politicamente. E Mediobanca, regista della cordata, vuole rimanere al centro di un sistema finanziario che vive di operazioni legate al settore pubblico e alle grandi imprese controllate dal governo. Per Palazzo Chigi un Corriere del la Sera così non sarà certo un problema (mentre quello attuale, che ha approfittato della frammentazione dell’azionariato per ritrovare indipendenza, è parecchio sofferto). La battaglia tra Cairo e gli altri si deciderà entro l’estate.
STAMPUBBLICA. A marzo, l’annuncio della fusione tra Gruppo Espresso (Repubblica, Espresso, giornali locali, radio) e Itedi (Stampa, Secolo XIX) ha messo le basi di un grande gruppo editoriale controllato dalla Cir dei De Benedetti e da Exor di John Elkann. Un grande gruppo con i conti in ordine,ma i cui soci hanno una lunga lista di interessi fuori dall’editoria che lambiscono la politica: la Cir ha appena venduto parte del suo business sanitario a F2i, fondo partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti, la Fiat che John Elkann presiede è parte integrante della proiezione internazionale di Matteo Renzi (che spesso si consulta con Carlo De Benedetti). Sorgenia, la società energetica che era controllata dalla Cir, è naufragata sotto il peso di scelte sbagliate e se la sono accollata le banche creditrici, a cominciare da Mps. Al presidente di Sorgenia, Chicco Testa, i renziani di governo avevano promesso il posto di ministro dello Sviluppo, ma ci sono state troppe polemiche. Il presidente del Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, non si è mai espresso pubblicamente sul referendum di ottobre, ma ha affidato il giornale a Mario Calabresi, già direttore di una Stampa molto renziana. A Repubblica ha confermato la stessa linea (in questi giorni però qualche spazio lo
hanno avuto anche i sostenitori del “no”).
CALTAGIRONE. Altro gruppo sano che ha interessi soprattutto nella politica romana: è sufficiente ricordare la campagna contro la candidata sindaco Virginia Raggi, M5S, appena ha provato ad avvicinarsi all’Acea, ex municipalizzata di cui il Gruppo Caltagirone è il primo azionista privato. Con il governo ha buoni rapporti, ma ha rifiutato di farsi carico del Corriere della Sera. Però ha deciso di uscire dalla Fieg, la federazione degli editori. Uno strappo che – temono i giornalisti – darà ancora più potere ai gruppi editoriali riducendo l’autonomia di chi scrive che potrebbe non avere più le tutele del contratto nazionale di categoria.
IL FOGLIO. A parte una piccola quota (pignorata dai giudici) in mano a Denis Verdini, il Foglioè passato per intero all’imprenditore immobiliare Valter Mainetti dopo che il finanziere Matteo Arpe ha deciso di non voler fare l’azionista di minoranza. Mainetti appoggia in pieno la linea renziana del direttore Claudio Cerasa, che ha appena lanciato una campagna per convincere l’ex editore Silvio Berlusconi (che aveva intestato il quotidiano alla ex moglie Veronica Lario) a sostenere il “Sì” al referendum di ottobre.
LIBERO. La famiglia Angelucci (vedi articolo a fianco) licenzia il direttore Maurizio Belpietro, che si congeda con un editoriale sull’importanza di votare “No” al referendum di ottobre. Al suo posto torna Vittorio Feltri, già schierato per il “Sì”.
IL SOLE 24 ORE. Da mesi i pezzi di Confindustria più contigui alla politica sono insofferenti ogni volta che il Sole 24 Ore, di cui sono editori, muove qualche critica al governo, con il direttore Roberto Napoletano. Nell’elezione del nuovo presidente Vincenzo Boccia sono state determinanti le imprese a controllo pubblico (renziano), in particolare l’Eni presieduto da Emma Marcegaglia. Da Radio 24, che fa parte del gruppo, il giornalista Oscar Giannino denuncia pressioni renziane di un governo “affamato di informazione”.
L’UNITÀ. Che come direttore resti Erasmo D’Angelis, già collaboratore di Renzi a Palazzo Chigi, o arrivi Riccardo Luna, altro consulente del premier sul digitale, il giornale non cambierà. La sua sostenibilità economica è a rischio (si parla di 250 mila euro di perdite al mese), ma almeno fino al referendum deve resistere in edicola, per diffondere l’interpretazione autentica del pensiero renziano. Poi si vedrà.
Il manifesto, 19 maggio 2016 (p.d.)
Siamo un gruppo di insegnanti del Liceo «Leonardo da Vinci» di Trento.
Da anni insieme ai nostri studenti ogni 27 gennaio siamo soliti commemorare, con un ricco programma di iniziative, la giornata della Memoria; da anni gruppi di nostri alunni partecipano ai viaggi del cosiddetto «treno della memoria» e più recentemente alcune nostre classi hanno avuto la possibilità di visitare le città bosniache martoriate dalla guerra; da anni, come avviene in molte altre scuole italiane, la maggior parte degli insegnanti trentini s’impegna a promuovere i valori della pace e della convivenza tra i popoli e le culture.
Anche per questo oggi più che mai, come uomini e donne, come cittadini e cittadine che portano la responsabilità di formare altri all’essere uomini ed all’essere donne e a vivere consapevolmente la propria cittadinanza, sentiamo il dovere di affermare con forza che è inutile celebrare Giornate della memoria, organizzare viaggi per non dimenticare, onorare con corone di fiori le decine di migliaia di migranti sepolti in mare se, poi, di fronte alla disperata richiesta di aiuto di chi non ha più niente l’unica risposta che sappiamo dare è la costruzione di muri!
Eppure non abbiamo nemmeno bisogno di immaginare le conseguenze della demonizzazione e dell’esclusione di chi è debole e diverso, perché l’abbiamo già vissute e ne trasmettiamo il ricordo alle nuove generazioni attraverso l’insegnamento della storia, della filosofia, della letteratura del secolo scorso.
Ci suonano dunque gratuitamente ipocrite le Convenzioni che pure sono state firmate, le Agenzie che pure sono state create; ci sembra indecoroso lo spettacolo che le istituzioni europee e i rappresentanti dei singoli stati nazionali dell’Unione stanno offrendo in questi mesi; ci sembra del tutto rimossa la nostra storia nazionale, che, da Sud a Nord, è storia passata di migrazione economica di povera gente ed è storia presente di migrazione economica di giovani diplomati, laureati, ricercatori; ci sembra infine tradito e vilipeso l’articolo 10 della nostra Costituzione che sancisce il diritto di asilo per lo straniero cui «sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».
Con questa lettera intendiamo esprimere in modo fermo il nostro dissenso nei confronti delle irresponsabili politiche migratorie europee. Troviamo poi semplicemente immorale il recente accordo stipulato con la Turchia, in nome del quale si riconsegnano donne, uomini e bambini ad un paese fino a ieri giustamente accusato di primeggiare in violazioni del diritto internazionale e della stessa Convenzione europea dei diritti umani ed oggi con incredibile cinismo riabilitato, al solo fine di liberarsi dell’impegno e della responsabilità dell’accoglienza. Ed ancora ci tocca vedere filo spinato e soldati in assetto di guerra a presidiare confini e centri di raccolta: immagini che pensavamo sepolte nel passato, masse di profughi accampate in condizioni disumane, come per esempio ad Idomeni, sul confine tra Grecia e Macedonia, o a Lesbo, dove persone giunte prive di tutto sono detenute al pari di criminali, perché certo un reato, e gravissimo, lo commettono ogni giorno ed è quello di voler vivere! Questa Europa non ci piace, non ci rappresenta, non la vogliamo (…). C’è un’Europa, invece, cui guardiamo con fierezza e commozione ed è quella che cerca di dare concreta attuazione ai principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che perdura e resiste in tantissimi suoi cittadini.
Noi, persone comuni, non ci rassegniamo a tacere ed a voce alta chiediamo che tutta l’Europa si faccia terra ospitale, capace di condurci tutti insieme lontano dalle strade buie del nostro recente passato, sognando e credendo possibili altri percorsi non ancora tracciati.
L’Europa che vogliamo è quella disposta a restituire questa umanità dolente alla vita. Una vita dignitosa.
In memoria di Giulio Regeni.
Allocati Valeria, Arman Enrico, Armani Sara, Bertoli Elena, Bertolini Giuliana, Callovi Loredana, Carapella Antonio, Conci Alberto, Corradini Manuela, D’Acunto Pietro, D’Alonzo Nicolino, De Tomas Francesca, Eghenter Novella, Flessati Sabrina, Gemmati Raffaella, Maiolino Francesco, Marchese Agata, Maroni Luisa, Mastropierro Francesca, Nicolini Lorena, Nicolini Nicoletta, Oss Giorgio, Pascotto Sabrina, Pasquali Antonella, Paternoster Stefano, Pellegrini Massimo, Perini Paola, Piombo Federica, Ricupati Vita, Romanato Roberta, Tecilla Melania, Tomasi Chiara
«Oggi a Napoli si discute di municipalismo. Barcellona, Madrid, sono laboratori dove sperimentare vie di uscita dalle politiche di austerità». Il manifesto
Non è facile per i movimenti sociali europei superare il trauma greco. Dopo l’irruzione sulla scena della forza democratica dell’«oxi», del rifiuto politicamente esplicito delle politiche di austerity, la sconfitta del governo greco nella sua sfida alla costituzione finanziaria dell’Europa aveva prodotto una evidente difficoltà a riarticolare un discorso europeo da parte dei movimenti sociali. Si intensificano, però, negli ultimi temi, iniziative di portata continentale che provano a rilanciare il discorso sulla trasformazione europea: iniziative di diversa impostazione, anche molto eterogenee tra loro, che però hanno in comune il tentativo di superare l’insufficienza dell’azione politica circoscritta agli ambiti delle sovranità nazionali.
Così sono nate diverse piattaforme europee che provano a connettere le dimensioni eterogenee dell’attivismo, dei soggetti politici organizzati, della produzione di opinione e di discorso. Alla democratizzazione complessiva delle istituzioni europee guarda l’iniziativa di DiEM25, nata dall’attivismo di Yanis Varoufakis: un articolato manifesto che sembra soprattutto mirare, al momento, alla produzione di opinione pubblica, attraverso campagne sulla trasparenza, su un nuovo assetto costituzionale, sulla libertà di circolazione.
Un partecipatissimo incontro a Madrid ha poi lanciato il progetto «Plan B», che guarda alla confluenza dei movimenti sociali, sindacali, politici su una piattaforma di critica radicale delle politiche di austerità e dell’impalcatura istituzionale dei trattati europei. Prosegue intanto l’azione di reti di movimento che avevano già da tempo assunto come prioritaria la dimensione europea, come Blockupy.
Esperienze municipaliste
Mentre si riapre la sperimentazione, attraverso queste reti europee, di cosa può essere oggi una «politica delle lotte» europee, un deciso segnale di innovazione politica in Europa sta provenendo dalle città. Il laboratorio costituito da Barcellona, Madrid, e altre città spagnole, ha avuto l’effetto di incoraggiare la sperimentazione politica di percorsi neomunicipalisti in diverse realtà. Percorsi anche qui eterogenei, che non possono essere ridotti ad un unico modello politico: ma che hanno tutti la caratteristica di rimettere al centro la riappropriazione della decisione democratica dal basso, insieme a un rilancio dei temi del diritto alla città, per provare a «mordere» con qualche efficacia i processi di trasformazione urbana dettati dai ritmi della rendita e della finanziarizzazione.
Si costruiscono reti di assemblee popolari e di quartiere, si sperimentano laboratori di innovazione cittadina, si riattiva, in questo contesto, la sperimentazione sugli usi politici, o «tecnopolitici», delle tecnologie della comunicazione: sono movimenti che attraversano la metropoli come complesso laboratorio della produzione.
Napoli ha vissuto in questi anni un’esperienza amministrativa certamente «anomala» rispetto alle politiche che hanno caratterizzato il governo delle grandi città italiane. La presenza di De Magistris, certo molto forte, e con tutti gli evidenti rischi di accentramento personalistico, è stata evidentemente un elemento di rottura deciso. Ma lo spazio dell’anomalia Napoli è stato animato soprattutto dall’azione di soggetti sociali, occupazioni, comitati, che hanno costituito una vera e propria progressiva «politicizzazione del sociale».
Su questa anomalia si è innestata la sperimentazione municipalista di «Massa critica»: una rete che si propone la diffusione delle assemblee popolari, degli strumenti di democrazia e di riappropriazione della decisione dal basso. L’obiettivo è cercare di produrre un nuovo modello di governo della città, in una progressiva riappropriazione e redistribuzione orizzontale delle funzioni politiche e di amministrazione.
Ambizione per niente modesta, tant’è che proprio dai partecipanti arriva spesso l’avvertimento alla cautela, a considerare gli esperimenti municipalisti come percorsi, proprio perché estremamente ambiziosi, ancora allo stato nascente, da non rinchiudere in formule definitive, e, tantomeno, da confondere con la ricostruzione di questo o quello spazio politico tradizionale.
Non è la ricostruzione di un’area, insomma, e neppure un esperimento di movimento, anche se la connessione con le mobilitazioni dei movimenti sociali è evidente: si tratta, al contrario, di ambire a un nuovo modello di relazione tra partecipazione, decisione e governo della metropoli.
Del resto il modello sembra attecchire anche in situazioni molto diverse: i percorsi romani, come #Romanonsivende e di #decidelacittà, hanno queste stesse caratteristiche di sperimentazione di produzione di nuove «istituzioni» – iniziale e «acerba» quanto si vuole, ma che certamente prova a installarsi su quel desiderio costituente di reinvenzione della democrazia che attraversa l’Europa dai movimenti del 2011 in poi , quei movimenti che non a caso hanno scelto l’occupazione permanente delle piazze come loro «luogo».
Anche alcuni esperimenti che hanno attraversato direttamente la dimensione elettorale, si pensi alla «coalizione civica» bolognese, hanno significativamente scelto di utilizzare modalità di costruzione che rispondono ai tratti di queste sperimentazioni municipali.
Uno spazio mediterraneo
Oggi pomeriggio a Napoli, a partire dalle 16.30, presso un luogo molto significativo come l’Asilo, una delle nuove «istituzioni dal basso» più durature, alcune organizzazioni e collettivi – Euronomade, «European Alternative», Act, «Massa Critica» e appunto l’Asilo – hanno organizzato un incontro che ha come intenzione quello di mettere in relazione la dimensione europea con quella degli esperimenti municipalisti: con l’intervento di uno dei promotori di Plan B, il deputato di Podemos Miguel Urbán, Enric Bárcena di Barcelona en Comú con i collegamenti con Toni Negri e Sandro Mezzadra, si cercherà di comprendere quale rapporto ci può essere tra i percorsi del diritto alla città e la creazione delle piattaforme di connessione europea, quale relazione si può istituire tra processi che hanno dimensioni spaziali e modalità politiche eterogenee, ma che insieme potrebbero costituire un piano diversificato e multilivello di creazione di un nuovo spazio politico.
«Oggi il capitale, col referendum costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti».
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 con postilla
La discussione sul referendum costituzionale che si celebrerà in autunno è iniziata. Sebbene si tratti indubbiamente dell’applicazione formale della trama di cui all’art. 148, l’illegittimità dichiarata della legge elettorale e l’Aventino delle opposizioni per respingere quanto elaborato da una maggioranza non eletta, mutano il senso di quanto sta avvenendo.
Più di un referendum con cui il popolo sovrano conferma un nuovo compromesso costituzionale fra i suoi rappresentanti in Parlamento, quello che sta andando in scena è un plebiscito muscolare con cui un gruppo di potere chiama il popolo a raccolta intorno al vitalismo (fare per fare) del proprio capo. Non un referendum costituente, ma un plebiscito politico intorno al mutamento formale di un documento, la Costituzione del ‘48, già nella prassi completamente svuotata di contenuto.
Difficile non accorgersi che in tutta Europa i Parlamenti da tempo non contano più nulla. Il potere legislativo si è concentrato progressivamente nelle mani dell’Esecutivo, secondo il modello della V Repubblica di De Gaulle. Senza modificare gli apparati formali, ovunque un uomo solo al comando risponde ai diktat del potere privato, ormai molto più forte di quello pubblico.
È futile dunque contrastare la riduzione del ruolo del Senato, quando né questo né la Camera svolgono oggi alcun ruolo legislativo, visto che tutte le leggi passano con il voto di fiducia. Di che riduzione stiamo parlando? Si può ridurre il nulla? In Italia oggi la sola fonte del diritto, inesistente quando negli Anni Ottanta ero studente in giurisprudenza, né prevista dalla Costituzione, è il Dpcm (Decreto presidente Consiglio dei ministri), un atto che non solo scavalca il legislativo ma pure la collegialità dell’esecutivo, nonché il tradizionale ruolo del Presidente del Consiglio come primus inter pares.
Dunque stiamo discutendo del nulla o meglio della simbologia del potere e del valore performativo delle parole. Secondo la strategia discorsiva del governo, chi sta col Sì è riformista vuole il cambiamento, il progresso, la modernità, il fare. Chi sta col No è conservatore, corporativo, perditempo, vecchio. Francamente, gran parte delle persone che danno immagine mediatica alla contrapposizione (i cosiddetti professoroni del No), confermano una impostazione spettacolare che culturalmente ha già vinto.
Non voglio negare che in Italia, come del resto in tutta Europa, sia in atto un momento Costituente. Voglio solo dire che esso sta altrove. Il Referendum sull’acqua del 2011 aveva concretizzato una spinta volta a invertire la rotta rispetto alla costituzione materiale neoliberale e ai suoi imperativi finanziari.
Il governo Monti fu la reazione del capitale a tale spinta. Iniziò, dopo la famosa lettera di Trichet e Draghi, un processo di ritrazione della democrazia che ha reso le stesse elezioni un rituale vuoto. Oggi il capitale, col Referendum Costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Negoziato in segreto, il Ttip infligge il colpo di grazia a ciò che resta della sovranità pubblica.
Il suo impatto costituente è la ristrutturazione, tramite il diritto, del rapporto fra capitale e lavoro. Gli Stati che intervengano a favore dei lavoratori, della salute e dell’ambiente, saranno considerati responsabili di un danno al capitale privato. Stuoli di avvocati ben pagati dalle corporation faranno causa agli Stati i quali dovranno guardarsi da qualunque intervento sul libero mercato (inclusa la tutela dello sciopero) che torna costituzionalizzato come valore trascendente. Altro che riforma del Senato!
postilla
Noi preferiamo sostenere che la battaglia è anche altrove e che bisogna vincerle entrambe, proprio perchè sono strettamente collegate, nei moventi, nelle conseguenze e negli attori. La riforma costituzionale che il referendum vuole cancellare non ha il suo veleno solo nella trasformazione del senato in un club, ma nel totale stravolgimento delle istituzioni: nella sostituzione della stato in un regime feudale. Certo è che la segretezza con la quale i governi hanno proceduto alla definizione del Ttip e la vergognosa disinformazione del sistema dei mass media (divenuta, almeno nel nostro paese, uno degli attori subalterni del nuovo capitalismo) rende necessario un impegno molto consistente nella lotta contro il Ttip.
Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016 (p.d.)
Il governo insiste a esercitare un ruolo preponderante nella campagna elettorale referendaria. Non a caso ha fortemente voluto queste modifiche della Costituzione e la nuova legge elettorale (Italicum) che sono due aspetti tra loro inscindibili. E non a caso l’approvazione in Parlamento di questi provvedimenti è stata ottenuta ricorrendo a vistose forzature regolamentari, voti di fiducia, ecc.
È la prima volta che il governo entra nelle modifiche costituzionali con tanta arroganza, iniziando di fatto a capovolgere quanto prevede la Costituzione che definisce con chiarezza l’Italia una repubblica parlamentare, quindi fondata sulla sovranità popolare e sul Parlamento che la rappresenta. Con questa pesante intromissione nelle modifiche della Costituzione inizia fin da ora ad essere il governo il vero asse portante dell’assetto istituzionale e in particolare lo è il capo del governo, in pratica un uomo solo al comando. Quanto sta avvenendo è l’anticipazione di cosa ci aspetta per l’effetto combinato della deformazione della Costituzione e della legge elettorale iper-maggioritaria (Italicum). Il governo insiste su questa strada entrando a gamba tesa nella campagna referendaria già iniziata (...).
Ora il governo lancia la raccolta delle firme sul referendum costituzionale. Lo fa perché ha capito che la raccolta che abbiamo iniziato, contro le modifiche costituzionali e per riportare l’Italicum, che assomiglia fin troppo al precedente Porcellum, nell’alveo della Costituzione, sono un punto forte di mobilitazione, di sensibilizzazione, al di là dell’obiettivo centrale di raccogliere le firme. Evidentemente Renzi e Boschi si stanno preoccupando e tentano una rincorsa promuovendo una loro raccolta di firme, cercando di rubare la scena a chi è contrario e approfittando del massiccio sostegno mediatico di cui godono. Comunque se il governo ci imita e favorisce la partecipazione a noi fa piacere perché lo sfregio più grave che si possa fare è tentare di cambiare la Carta sottobanco.
Da questa mobilitazione ispirata direttamente dal governo dobbiamo trarne anche noi, promotori dei referendum, delle precise conseguenze. Se qualcuno si illudeva che il governo avrebbe abbozzato, preparandosi ad accettare il giudizio degli elettori, ora dovrebbe avere capito che non sarà così. Del resto cosa potevamo aspettarci da un governo che ha caricato sull’esito del voto il ricatto delle sue dimissioni o, peggio ancora, del caos, con frasi degne di Luigi XIV? Stai sereno, si potrebbe rispondere al presidente del Consiglio: è solo democrazia.
Se il governo entra in campo pesantemente noi dobbiamo moltiplicare il nostro impegno, mobilitare tutte le energie disponibili per raccogliere le firme necessarie per i referendum, non solo per quello costituzionale, ma anche per i due sull’Italicum, per abolire il premio di maggioranza e restituire agli elettori il diritto di scegliere i loro eletti. Facciamo preoccupare il governo, raccogliamo le firme ora per avere una migliore campagna elettorale in ottobre, con l’obiettivo di vincere il referendum costituzionale votando un forte e secco No. Avanti tutta per raccogliere le firme, per fare iniziative, per spiegare e mobilitare le energie migliori del nostro paese e se questo darà un dispiacere a Renzi pazienza (...). Avanti tutta. Raccogliamo le firme e intensifichiamo la mobilitazio ne delle intelligenze. Battere questo tentativo di deformazione della Costituzione dipende anche da noi.
Comitati per il No

La Repubblica, 18 maggio 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, la riforma costituzionale Boschi non merita di essere confermata dal voto popolare. Non lo merita perché risente del vizio di origine, di essere stata il frutto di un’iniziativa governativa, e non parlamentare, come sarebbe stato corretto; di essere stata oggetto di un dibattito parlamentare fortemente condizionato dal governo come se si fosse trattato di una legge d’indirizzo politico di maggioranza; di essere stata approvata da un Parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, in base al quale era stato eletto. Il risultato della seconda deliberazione della Camera, indecoroso per una legge di revisione costituzionale, è stato il seguente: 361 voti favorevoli alla maggioranza, 7 contrari e 2 astenuti (su 630 deputati).
La riforma Boschi non merita di essere confermata dal popolo anche con riferimento ai suoi contenuti. Ne evidenzio alcuni.
1. Il Senato, oltre a cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica, verrebbe eletto dai consigli regionali, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo, non quindi direttamente dai cittadini, come invece previsto dalla Costituzione, secondo la quale «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione » (articolo 1). Con il che si è dimenticato dai riformatori che il voto dei cittadini costituisce «il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare » (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014): voto “diretto” quindi, e non “indiretto” per il tramite dei consigli regionali, perché la riforma Boschi né li qualifica né li disciplina come “grandi elettori”, come avviene in Francia con i 150mila cittadini eletti dal popolo perché a loro volta eleggano i 348 senatori.
2. Pur non essendo eletto dai cittadini, il Senato parteciperebbe alla funzione legislativa e di revisione costituzionale. Il che se da un lato sarebbe incostituzionale perché è essenziale che un organo legislativo sia direttamente legittimato dal popolo; dall’altro è inopportuno che siano i consigli regionali a eleggere i senatori, essendo noti i continui scandali della politica locale italiana.
3. Irrazionale è anche la differenza numerica dei deputati (630) rispetto ai senatori (100), che rende irrilevante la presenza del Senato — nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e dei componenti laici del Csm — a fronte della soverchiante rappresentanza della Camera. Parimenti irrazionale è il potere attribuito al Senato di eleggere due giudici costituzionali, mentre la Camera dei deputati ne eleggerebbe solo tre.
4. Ancorché le attribuzioni del Senato siano diminuite, esse sono ancora molte e gravose. Basterebbe ricordare, oltre alle competenze legislative ordinarie e costituzionali, la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni nonché la verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Ne segue che i 100 senatori non avrebbero tempo sufficiente per adempiere alle loro funzioni, dovendo svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. Se poi tali funzioni venissero esercitate dai senatori eletti negli stessi giorni, i soli a essere presenti sarebbe i cinque senatori “presidenziali”, mentre se si assentassero a giorni alterni, la media dei senatori presenti si aggirerebbe intorno a 50! Infine, ancorché non eletti dal popolo, godrebbero dell’insindacabilità e dell’immunità parlamentare, col rischio che il Senato divenga il refugium peccatorum.
5. Il costituzionalismo moderno ha sempre ritenuto essenziale la presenza di contropoteri. Mentre il Senato non costituirebbe più un contropotere “esterno” nei confronti della Camera, non sono stati previsti dei contropoteri “interni” alla Camera, quale, ad esempio, il potere d’inchiesta da parte della minoranza, come in Germania. Per la stessa ragione è criticabile che la disciplina dello “statuto delle opposizioni” venga demandata a un regolamento della Camera. Il quale, essendo approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti, si risolverebbe in un ulteriore privilegio per la maggioranza.
6. Il governo godrebbe dell’esclusiva fiducia della Camera dei deputati; eserciterebbe la funzione legislativa col Senato in un limitato, ma non scarso, numero di materie, mentre nelle restanti l’intervento del Senato sarebbe o eventuale o paritario rafforzato o non paritario o non paritario con esame obbligatorio, con potenziali conflitti tra le Camere. Dai due procedimenti legislativi esistenti si passerebbe agli otto o più procedimenti. Il che non costituisce una semplificazione.
7. Grazie all’Italicum che garantirebbe alla maggioranza 340 seggi alla Camera, e grazie al fatto che il presidente del Consiglio cumula la carica di segretario nazionale del Pd, il nostro ordinamento si orienterebbe verso un “premierato assoluto”, che condizionerebbe in negativo i poteri del presidente della Repubblica. Il governo avrebbe a disposizione i tradizionali poteri di decretazione d’urgenza e delegata, nonché la possibilità del voto a data certa. Al governo è stato garantito che i disegni di legge «ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo», vengano approvati dalla Camera entro settanta giorni. Il che è condivisibile, ma suscita il timore che il governo finisca per restringere ulteriormente lo spazio per le iniziative parlamentari, già limitate a meno del 20 per cento del tempo. Il che significherebbe la fine del Parlamento.
Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016 (p.d.)
A guardare bene il busto in gesso che i commercianti del quartiere gli hanno dedicato, custodito segretamente nell’androne di casa in Vico Santi Filippo e Giacomo, più che a Ciro l’Immortale assomiglia a un soldato di Allah. Inconfondibile barba e occhiali neri, Emanuele aveva il destino segnato: il boss Di Lauro come idolo e il primo arresto a 15 anni. Lui, nipote di un artigiano dei presepi, diceva di voler fare il giornalista. Con la “paranza di bambini” – sono di ieri gli ultimi 20 arresti della Procura Antimafia di Napoli che hanno colpito un altro pezzo del clan – Emanuele Sibillo era il Re di Forcella e del centro storico. È morto la scorsa estate, da latitante, colpito da un proiettile nel corso di una sparatoria contro i ribelli che non volevano piegare la testa. Aveva 19 anni.
Dice Roberto Saviano che l’accusa che lo ha ferito di più è quella di ispirare i giovani criminali. E in effetti c’è ancora chi, nel decennale di Gomorrae sulla scia del successo della serie tv, chiede allo scrittore di “passarsi una mano sulla coscienza”, perché “nella Napoli delle baby gang e delle sventagliate di kalashnikov contro le caserme dei carabinieri, nessuno può dirsi irresponsabile, neanche chi racconta storie, neanche i registi o gli sceneggiatori di fiction” (Marco Demarco, Corriere della Sera).
E mentre noi ci interroghia mo su quanto i ragazzi delle paranze siano gomorristi, più o meno affascinati dalla spettacolarizzazione della camorra, un esercito di sanguinosi “ribelli”cresce lontano dai nostri occhi. Nel ventre molle di Napoli esiste già una realtà che è oltre Gomorra. Un altro mondo – quello che con Michele Santoro racconteremo in un film documentario a cui stiamo lavorando – abitato da ragazzi giovanissimi meno vincenti di Ciro o Genny. Come i protagonisti della serie tv ce n’è uno su mille: gli altri sono destinati a Poggioreale o al cimitero.
Si uccidono tra loro – una strage che conta più di 50 morti, solo nell’ultimo anno e mezzo – per il controllo delle piazze di spaccio, assoldati per poche migliaia di euro. Con i denti marci e consumati dalla droga, crescono in bassi degradati, figli di parcheggiatori abusivi o di prostitute. Armati di calibro 9 e kalashnikov, avvertono che il mondo in cui vivono con l’obiettivo di diventare dei capi è rappresentato da Gomorra. E imitano quindi, è Saviano a dirlo al
Mattino, la loro rappresentazione, come per legittimarsi. I loro soprannomi ricordano i protagonisti della serie (O’Pop, o’Russ, Zecchetella, o’Malegno) ma si chiamano così più per farsi riconoscere, per sottrarsi a quell'invisibilità a cui la società li ha condannati. Basta osservare i loro profili Facebook. Sono pieni di citazioni di Scarface e persino di Che Guevara più che di Don Salvatore Conte.
Qualunque cosa sia romanticamente ribelle, violenta o contro, loro la seguono. Postano foto in cui mostrano armi e barbe che sembrano ammiccare a quelle dell’Isis. E proprio il fondamentalismo islamico, ha osservato per primo Isaia Sales, per loro che non sanno cosa sia Google, sembra essere l’esempio di una lotta violenta ed efferata contro l’ordine costituito.
Le strade dei Decumani a Napoli sono piene di scritte sui muri “F.S.”, Famiglia Sibillo. I 15enni della zona che passano il tempo senza andare a scuola non hanno come idolo Ciro di Gomorra ma si tatuano il numero 17 che, nel gergo in cui a ogni numero corrisponde una lettera dell’alfabeto,sta perla S di Sibillo. Segnano così sulla pelle l’appartenenza a Emanuele: “Ci dava i soldi per non fare i guai, ha portato in alto il nostro quartiere e ha scacciato il “tumore” ovvero il clan avverso, l’invasore.
Sulla banca Facebook di uno dei familiari di Sibillo è apparsa una foto di un bimbo che, per Carnevale, aveva chiesto di vestirsi da Emanuele. Qui non c’è fiction, o cortocircuito trarealtà e finzione. C’è l’ambizione a esistere, a riconoscersi, prima ancora che ad avere una carriera criminale. U n’ambizione condizionata dai social e dalla rete più che dalle serie (altro che Sky, a stento hanno la tv) o dai libri (7 su 10 hanno evaso l’obbligo scolastico e non sanno leggere). Accusare Gomorra di ispirare la paranza dei bambini è un gesto di superficialità e anche di omertà, per dirla con Saviano, e nasconde “il senso di colpa di chi sa di non aver mai preso una posizione forte per cambiare quelle vicende, di chi vuole che di certi argomenti non si discuta”. Come se questo bastasse a farli sparire, a cancellare un piccolo esercito di soldati che l’Italia non sa salvare o educare, e preferisce dimenticare. Almeno finché loro ce lo permetteranno, continuando a uccidersi solo tra loro, nei confini del loro “altro” Stato.

Mimesis. Il nichilismo di un mondo che fa della crescita infinita la sua religione. Il libro sarà presentato oggi al polo universitario Roma3. Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)
Si può narrare di tempi lontani e insieme parlare dello spazio e degli spazi che ci circondano? Si possono narrare le gesta concettuali di grandi pensatori del passato e scrivere un testo denso di implicazioni politiche, etiche ed ecologiche che investono profondamente il presente? Si può, oggi, fare filosofia pratica? Se una cosa ha insegnato il pensiero (non solo) francese del XX secolo è che non esiste un pensiero puro, privo di effetti nel presente; che ogni teoria è al contempo una pratica concreta che definisce limiti e contorni di visibilità e di azione, al di là delle buone intenzioni di chi produce pensiero.
Pensare significa produrre degli effetti e il presente è il suo spazio d’azione, il suo campo da gioco con i suoi pericoli e i suoi contrasti. E il libro di Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale (Mimesis, pp. 112, euro 18), è la narrazione di un pericoloso gioco di contrasti e dei suoi effetti nel nostro modo di percepire, di vivere e di rapportarci al nostro presente, alla nostra spazialità, ai nostri habitat e alle nostre storie. Il volume sarà presentato oggi all’università di Roma 3 da Ubaldo Fadini, Manlio Iofrida, Giacomo Marramao (ore 13).
La narrazione di un paradosso
Come ogni narrazione, anche questa ha dei personaggi. Il principale ha il nome di Occidente. Già il suo nome è un paradosso: è una definizione spaziale che, tuttavia, indica un destino temporale. Forse, la grande rivelazione dell’epoca globale consiste in questo: occidente ha perso qualsiasi riferimento spaziale, invadendo terre lontane, inglobando nel palcoscenico della Storia attori molteplici e differenti. La Storia (d’Occidente) non è affatto finita, prosegue, al contrario, ostentando una presunzione d’illimitato, spingendosi sempre oltre, nell’idiosincrasia della crescita infinita. Il personaggio di cui ci parla Righetti,Occidente, è ossessionato dall’invisibile, dal non ancora, dall’irraggiungibile e al contempo intimorito dal mutabile, dalla molteplicità, da ciò che sfugge ai suoi valori, alle sue fobie, ai suoi isterismi.
Righetti si muove all’interno di questa narrazione (che è, poi, la narrazione che il Logos fa di se stesso) con un intento, quanto meno, duplice e complementare. Da un lato, egli usa come filo conduttore la storicizzazione dello spazio (o degli spazi: urbani, visivi, naturali) legata ad una nevrotica necessità d’infinito che l’insonnia del pensiero alimenta dentro di sé: la combinazione mortifera di accumulo capitalistico e devastazione ambientale. Questo è il filo principale, l’obbiettivo positivamente determinato. Tuttavia, dall’altro lato, sembra voler lasciare la sensazione al lettore che quella non sia l’unica strada possibile, che non ci sia solo la Storia, quella fatta con la S maiuscola, dei grandi eventi e delle grandi opere; che nelle grandi trasformazioni, nelle rivoluzioni (politiche, sociali, tecnologiche, scientifiche) si aprano sempre spiragli e linee di fuga che fan sì che non esista solo la storia; che forse la geografia – e con essa gli spazi – sia possibile al di là del desiderio di conquista; che, nonostante la «Grande Storia», sia possibile costruire artigianalmente piccole storie minori, fatte di spazi di manovra, spazi d’azione, spazi di gioco che siano al di qua del tempo tiranno, che si ritrovino immerse nello spazio visibile, senza bisogno di un principio esterno che ne giustifichi l’esistenza (leggi eterne, della fisica come del padre). Sotto il tempo delle rivoluzioni perpetue (industriali, borghesi, civilizzatrici), si annidano spazi visibili. Bisogna però imparare a guardare.
Geografia del visibile
Pensare significa, dunque, produrre spazi di visibilità e di discernimento; pensare è un’azione concreta nel mondo e fa sì che si modifichi il modo in cui noi lo vediamo (con gli occhi del corpo e della mente). Ecco, allora, che il filo critico principale non è autoreferenziale, non basta a se stesso, non si accontenta di mostrare che ci sono stati degli errori di valutazione, ma ci invita, prima di tutto, a guardare il mondo in modo differente, a riappropriarci della nostra dimensione di soggetti corporei, di carne sangue e nervi che, in quanto tali, si muovono, agiscono e producono nello (e dello) spazio.
La temporalizzazione, nella sua visione dell’eterno progresso e della crescita infinita (a pieno discapito di rapporti improntati sulla reciprocità con la natura), ha fatto della produzione l’azione (di creazione e trasformazione della natura) di soggetti alienati dai propri spazi, esistenziali e di vita, nella perpetua volontà del lontano, dell’assenza, del mai-qui. Ma la produzione non è esente da luoghi e mondi (naturali e culturali) che sono sempre qui e ora. Ma questi essere qui ed ora non sono immediati, bisogna imparare a riconoscerli e a cercarli. Ed è proprio qui che il pensiero smette di essere critico, impegnandosi in un preciso compito etico-ecologico, in un gioco di produzione che non sia meramente economico-materialistico di sfruttamento delle nature (umane e non), ma di spazi di discernimento, di margini d’azione, di visibilità in una Storia che è sempre, prima di tutto e al di là di risvolti ideologicamente orientati, una geografia del visibile; in un apparire che basti a se stesso senza attendere l’instaurazione di regimi di senso trascendenti per acquisire il proprio valore, valore che si trova sempre al di qua di un principio di scambio o di uso, ma che investe i soggetti (umani e non) nel regime complesso della vita e dell’esistenza.
La critica ecologica del sottotitolo significa, in ultima istanza, scoprire e produrre quella gloria del visibile che non risiede nell’alto dei cieli, né nella pura teleologia della storia, ma è, al contrario, tutta da produrre a partire dal nostro presente e dalla nostra carne; per scoprire che la Storia non finirà tanto facilmente, ma, lontani dal pessimismo nichilistico del postmoderno, è ancora possibile immaginare che siamo, in fondo, più forti del nostro passato e che il futuro è sempre un’orizzonte del nostro presente.
Il futuro, allora, è possibile (nel bene, come nel male) soltanto a partire dalla nostra inerenza pratica e fattuale con il presente, che è sempre presenza – anche se, alle volte, è presenza dell’assenza.
«Pubblichiamo ampi stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum».
Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2016 (c.m.c.)
Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.
1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro).
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.
2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”.
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?
3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”.
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.
4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia .
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)
5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse .
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza).
Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.
6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”.
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)
7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)
8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.
9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti.
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.
10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato.
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)
11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”.
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.
12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla.
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)
13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)
14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così.
Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.
Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme.
Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi
Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più.
La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda.
In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.
Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà.
Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.
15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky.
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero.
Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante.
Il Fatto quotidiano, 17 maggio 2016
«Per arrivare in Europa, ogni migrante ha pagato fra i 3.200 e i 6.500 dollari alle organizzazioni criminali. Organizzazioni che sono una "multinazionale del crimine" che coinvolge uomini originari di più di 100 Paesi. Nessun legame sistematico fra terrorismo e migrazioni, ma cresce il rischio di foreign fighter di ritorno»
Il traffico di migranti vale fino a 6 miliardi di dollari e le persone che cercheranno di partire per raggiungere l’Unione europea aumenteranno ancora: solo dalla Libia si stimano 800mila in attesa di mettersi in viaggio. Sono questi i dati del rapporto di Interpol ed Europol del 17 maggio.
Il business dei migranti fa dei trafficanti di esseri umani una vera e propria multinazionale del crimine. Il bottino complessivo si aggira, solo per il 2015, fra i cinque e i sei miliardi di dollari. Per arrivare, in condizioni spesso disperate, in Europa, ogni migrante ha pagato fra i 3.200 e i 6.500 dollari alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di migranti. Che sono vulnerabili di sfruttamento sessuale o lavorativo, usati come mezzi per ripagare il loro debito con i trafficanti.
Traffico che coinvolge uomini originari di più di 100 paesi e può contare su una struttura formata da una serie di capi che coordinano le attività lungo le rotte migratorie, “manager” che gestiscono le attività sul posto attraverso contatti personali e facilitatori di più basso livello.
Da loro passa il 90% del flusso di migranti che provano ad entrare nel vecchio continente: è questo il “core business” della multinazionale dei trafficanti di uomini. Fatta, di solito, di gente con una storia criminale alle spalle. E se dai dati snocciolati da Interpol non emerge alcun legame sistematico fra il terrorismo e le migrazioni, il rapporto segnala un “rischio crescente” di foreign fighter che possono unirsi al flusso migratorio per rientrare nell’Unione Europea.
Le partenze dal Nord Africa, intanto, non accennano a fermarsi. La Guardia Costiera ha soccorso la scorsa notte, 40 miglia a nord delle coste libiche, 200 persone – tra loro 45 donne e 11 minori – che erano a bordo di un barcone diretto verso l’Italia. Ricevuto l’allarme, la centrale operativa di Roma della Guardia Costiera ha localizzato il natante ed ha inviato la propria nave Peluso in soccorso dei migranti.
A seguire i massmedia (con pochissime eccezioni) sembra che: 1. il referendum lo abbia convocato Renzi; 2. che l'oggetto del referendum sia la permanenza di questo governo; 3. che nessuno abbia aperto, da tempo, una campagna per bocciare la de-forma renziana. Ecco un’eccezione. Il manifesto
, 17 maggio 2016
Ma insomma, personalizza oppure no? Una volta dice che il referendum costituzionale sarà una sfida tra «l’Italia che vuole correre e quella ancorata al passato», che «se vince il no mi dimetto», che «il no si giustifica solo con l’odio nei miei confronti». Un’altra volta, per esempio ieri, Matteo Renzi spiega che «personalizzare il referendum non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del no». Ha cambiato strategia, si è reso conto che puntare tutto su di sé è controproducente, vuole dare ascolto alle inquietudini di Reichlin, forse di Napolitano e magari di Mattarella? No, Renzi è semplicemente in campagna elettorale. Dunque sostiene e sosterrà di tutto, facendo capriole e cercando di occupare ogni spazio dell’offerta politica. Ci riuscirà: tv e giornali non gli fanno notare le contraddizioni. In questo momento sono impegnati a lanciare con lui la raccolta di firme per il sì – comincia sabato – mentre non hanno ancora raccontato che la campagna del no è già partita da un mese.
L’identificazione tra il governo, anzi tra il presidente del Consiglio e la riforma costituzionale non è un’invenzione degli ultimi giorni. È il tratto originario del disegno di legge (Renzi-Boschi) che il governo ha scritto, emendato a palazzo Chigi, fatto approvare da senato e camera imponendo ritmi, trucchi e strappi ai regolamenti.
Presentandosi alle camere, il presidente del Consiglio aveva promesso la trasformazione del senato. Dunque ha ragione anche Boschi quando dice (personalizzando) che «non sarebbe serio tenere distinto il giudizio sulle riforme da quello sul governo». Ma in quel discorso Renzi aveva demolito il personale politico delle regioni: «È cambiato il clima per quello che è accaduto sui rimborsi elettorali». Pensava allora a un senato dei sindaci; rischiamo un senato di consiglieri regionali in gita a Roma.
Riportare la campagna elettorale al contenuto della riforma è faticoso, le pillole di «merito» dispensate da palazzo Chigi sono tutte avvelenate. «Se vince il sì, per fare le leggi e votare la fiducia sarà sufficiente il voto della camera come accade in tutte le democrazie», ha scritto ieri Renzi. Ma in Europa ci sono 13 paesi con un sistema parlamentare bicamerale, tra i quali Germania, Francia e Spagna. Bicamerale resterà anche il nostro: dopo la riforma ci saranno almeno sei diversi procedimenti legislativi, quattro dei quali passano per il senato. Non lo diciamo noi: lo ammette il governo nel volantino che ha prodotto per spiegare il nuovo articolo 70 della Costituzione. Prima era composto da 9 parole e adesso, per «semplificare», da 439.
Il Manifesto, 17 maggio 2016 (p.d.)
A Yasser un rene lo hanno preso al Cairo. In cambio ha avuto 3mila dollari, briciole per sopravvivere nella fuga dalla Siria in guerra. Era scappato poco prima da Homs, per ritrovarsi senza soldi in Egitto: «Non avevo denaro, non riuscivo a trovare un lavoro. La mia sola scelta era vendere il rene sinistro. La peggiore decisione della mia vita».
A raccogliere la storia di Yasser è il Syrian Independent Media Group (Simg), ombrello di agenzie indipendenti che raccontano la guerra civile siriana e i suoi effetti: le morti in mare, i bambini schiavi, le donne abusate. E il traffico di organi, un fenomeno che si diffonde pericolosamente sia in Siria che nei paesi di arrivo dei rifugiati. I profughi, disperati, vendono cornee e reni. Dietro stanno reti criminali che operano localmente per trasferire gli organi nel più vasto mercato mondiale.
Difficile dare numeri certi. Hussein Nofal, capo del dipartimento di medicina forense all’Università di Damasco, ci prova: 18-20mila siriani hanno venduto un organo negli ultimi quattro anni. La maggior parte di loro vive nei campi profughi in Libano e Turchia, nelle zone siriane di confine e nelle province di Aleppo e Idlib, dove il territorio è controllato dai gruppi islamisti. I prezzi, aggiunge Nofal, variano: se il rene viene venduto in Turchia, si riescono ad ottenere anche 10mila dollari; in Iraq non più di mille.
A volte è la capitale siriana il centro di smistamento: a Damasco non è raro trovare sui muri poster che invitano a donare organi per curare malati in fin di vita, riporta il Simg. La migliore delle coperture per il mercato nero, difficilmente tracciabile dalle autorità perché per la legge siriana la donazione di organi è del tutto legale. Succede, però, che i trafficanti vengano individuati: circa venti denunce sono finite davanti alle corti di Damasco negli ultimi anni, casi mai visti prima della guerra civile.
Ancora peggiore è la situazione dove non esiste più un’autorità riconosciuta, dove lo Stato si è eclissato: «Un dermatologo mi ha chiesto di vendere gli organi dei prigionieri pro-governativi a Idlib – racconta il dottor, Awran (il nome è inventato) – Diceva che tanto sarebbero stati comunque giustiziati». Il denaro ricavato dalla vendita, aggiunge il medico, sarebbero serviti all’acquisto di equipaggiamento medico e al sostegno dei gruppi armati di opposizione: «La zona in cui lavoravo era controllata dallo Stato Islamico. Lì ho visto molti cadaveri a cui mancavano gli organi interni, soprattutto il fegato e il rene sinistro. Una volta ne ho visto uno a cui mancava la vescica».
L’ennesimo dramma nel dramma: un popolo costretto alla diaspora, sfruttato da trafficanti di uomini e relegato nell’oblio dai governi occidentali. L’assenza di risorse per l’accoglienza e l’astrattezza di una soluzione politica che non sia schiava degli interessi esterni mettono i rifugiati all’angolo, obbligandoli a rischiare la vita e la dignità per sopravvivere alla miseria.
Eppure in Europa, dove le potenze internazionali si incontrano per discutere la questione siriana, non si parla della vita quotidiana dei rifugiati. Il negoziato di Ginevra, in teoria, dovrebbe ripartire dopo il 20 maggio ma le precondizioni continuano a pesare sul dialogo. Per smussarle oggi a Vienna si incontreranno i 17 paesi dell’International Syria Support Group. Capitanati da Stati Uniti e Russia, i governi europei, quelli del Golfo, la Turchia, l’Iran e la Cina sono chiamati a gettare le basi per cessate il fuoco più ampi e stabili e quindi per la discussione sulla transizione politica.
Gli ostacoli restano gli stessi – il futuro del presidente Assad e le opposizioni legittimate a prendere parte al negoziato – così come rimane uguale l’approccio occidentale alla conferenza di pace: dentro i salafiti di Ahrar al-Sham, alleati militari di al Qaeda, e fuori i kurdi di Rojava, di nuovo esclusi dal tavolo di Ginevra.
Dall'interno del PD una nobile lettera al direttore di
Repubblica, giustamente angosciata per l'inferno sociale verso il quale Matteo Renzi sta portando il paese, che improvvidamente gli è stato affidato. La Repubblica, 17 maggio 2016
Caro Direttore, mi pesa dirlo, ma non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale. Temo uno scontro inconcludente. Dico inconcludente nel senso che chiunque sia il vincitore di questo Referendum il Paese non riesca a uscire dalla sua crisi. Forse esagero ma mi chiedo se ci rendiamo conto del bisogno assoluto che ha questo paese, confuso, sfiduciato come non mai verso la classe dirigente, arrabbiato e impoverito, con divisioni al suo interno che stanno diventando feroci, il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”? Stiamo parlando di una riforma Costituzionale, cioè di uno strumento per lo “stare insieme” non per dividerci.
Figurarsi se io non vedo i vuoti e i pericoli di un “no”. Ma prima di votare io voglio capire bene di che cosa stiamo discutendo. Di una correzione matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a una dimensione regionale, con in più una serie di misure, alcune anche discutibili, ma nell’insieme accettabili? Oppure si tratta di un plebiscito popolare che Matteo Renzi chiede su se stesso? Sono due cose diverse, e molto diverse. Io non voglio una crisi di governo al buio e di Renzi apprezzo molte delle sue grandi doti. Ma considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti. Da un lato quello del Sì, cioè di chi “vuole bene all’Italia” e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono succeduti prima di questo (il discorso esaltato di Renzi a Firenze). Dall’altro lato il partito del No: il mondo dei conservatori, dei professori, dei gufi, dei nemici. Ma ci si rende conto delle conseguenze? Non credo che verrà il fascismo ma non aumenterà certo la governabilità.
Si dirà che quelle di Renzi sono solo parole. Ma, attenzione, le parole sono pietre, e così arrivano a un popolo che già crede poco alla politica come strumento per il “bene comune”. E vorrei rispondere a chi considera la mia distinzione così netta tra le vicende del governo e la funzione di una Costituzione un po’ ipocrita. Credo che sbagli. Se la Repubblica è arrivata sin qui è anche per quella “ipocrisia”. Ricordo la drammatica crisi del ’47: il viaggio di De Gasperi in America e, al suo ritorno, la cacciata dei comunisti dal governo. Si aprì una crisi feroce all’insegna della guerra fredda e ciò mentre l’elaborazione della Costituzione era ancora in corso, avviata nel quadro politico unitario precedente. Era una svolta quella che stava accadendo ed era forte la voglia di menar le mani, ma Togliatti non ebbe dubbi che dovevamo continuare a lavorare su quel testo tutti insieme. E così l’impresa fu portata a compimento. E non è vero che quella carta piaceva a tutti. Metà degli italiani aveva votato per la monarchia. Era chiaro però che si trattava di una “Casa di tutti”, concepita non per favorire un governo contro i suoi nemici.
Sento quindi il dovere di sollecitare un chiarimento serio sul perché di questo plebiscito e sul senso di questi diecimila comitati. E vorrei che una cosa fosse molto chiara. Non mi interessa affatto alimentare le vecchie dispute interne al Pd. Parla in me una grande preoccupazione sul “dove va l’Italia” (la sorte di Renzi davvero viene dopo). E ciò per tante ragioni interne e internazionali che non sto qui a elencare. Le quali ci dicono che l’Italia è a un passaggio cruciale della sua storia perché deve fronteggiare difficili sfide che mettono in discussione non tanto, cari “decisionisti”, i poteri del Capo del governo, quanto le ragioni dello “stare insieme degli italiani”. Dico degli italiani. È chiaro?
È così che io rivivo quello che fu lo sforzo di ricostruire una nazione. Era l’idea della Costituzione come il necessario strumento dello “stare insieme” degli italiani, di tutti gli italiani. E ciò per l’assillo che allora avevamo, che era quello di far fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il rischio incombente di una guerra civile interna, di una lacerazione tra Nord e Sud, tra monarchici e repubblicani, di una rivolta rabbiosa contro un padronato che si era arricchito servendo il fascismo. L’assillo nostro era: evitare di fare la fine della Grecia. Ricostruire. E perché ciò fu possibile? Perché De Gasperi rifiutò la spinta che veniva dal Vaticano, e da ambienti americani a mettere fuori legge i comunisti e perché Togliatti la prima cosa che disse al partito, al suo ritorno è che non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruire una classica democrazia parlamentare basata sul pluralismo dei partiti. Non una improbabile “nuova democrazia dei Cln” come tanti a sinistra chiedevano.
Sia dunque chiaro. Io ho condiviso, pur con qualche riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco perché non voglio plebisciti.
Il paese è in grave sofferenza perché ha perso troppi punti di riferimento. La “rottamazione” era in una certa misura necessaria. Ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale. Gli uomini saggi (se ancora ci sono) dovrebbero spiegare a Renzi perché è tempo di passare dell’Io al Noi.
Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016 (p.d.)
L'appello, stavolta, è diretto al presidente della Repubblica: è Sergio Mattarella che deve dire la sua contro quella “forma di pressione, per non dire ricatto” che sta portando avanti Matteo Renzi. A rivolgersi, “con rispetto”, al Quirinale “affinché dicesse al presidente del Consiglio che chi governa non può legare la sua sorte all'esito del referendum costituzionale”è il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky durante la presentazione del libro "Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla" di Salvatore Settis al Salone del libro di Torino.
Zagrebelsky lo fa perché con l'aut aut del capo del governo, che ha minacciato le dimissioni nel caso in cui la sua riforma fosse bocciata, “ci va di mezzo la democrazia”. Per spiegare questa forma di pressione, il giurista ricorda la frase attribuita a re Luigi XV di Francia, quel suo "Après nous, le déluge" che lascia intravedere drammatiche conseguenze in caso di sconfitta. Dopo di noi il diluvio, insiste il governo, sempre più intimorito dai sondaggi che non danno assolutamente per certa la vittoria del Sì.
Che il clima non sia dei più tranquilli, lo certifica il ministro dell’Interno Angelino Alfano: come per le prossime amministrative, pure ad ottobre - dice in un’intervista al quotidiano veronese L'Arena, sarebbe il caso di votare “anche il lunedì”. Obiettivo: aumentare l’affluenza, nonostante per il referendum costituzionale non sia previsto il quorum.
Il problema è il plebiscito, e all’appello di Zagrebelsky si unisce anche Settis: “Sarebbe opportuno che il capo dello Stato, nel pieno delle sue funzioni previste dalla Costituzione, ricordasse a Renzi che il referendum non è un plebiscito sul governo”. Tutto questo perché “invece di guardare al merito della questione, viene fatto intendere che se vince il no cade il governo e chissà che cosa succede ”. La Carta, prosegue il professore, “non prevede che all’esito di un referendum un presidente del Consiglio si debba dimettere”. Secondo Settis “se vincerà il no, e io so che è possibile, non si fermeranno”. Invece se vince il sì “sarà il trampolino di lancio per l’erosione di altri diritti”, come si è già tentato di fare in passato. “Le riforme di cui stiamo parlando oggi sono nella linea di Jp Morgan o del popolo?”, chiede Zagrebelsky a Settis, immaginando già la risposta. Così lo storico dell’arte ricorda il documento della banca americana del 28 maggio 2013 nel quale gli esperti dell’istituto d’affari criticavano i Paesi dell’Europa meridionale con parlamenti forti, governi deboli e molte tutele per i lavoratori. Tutti elementi che, secondo Jp Morgan, dovevano essere cambiati. A quel documento seguirono, due settimane dopo, le riforme proposte dall’ex premier Enrico Letta: “C’è una strana sintonia che va rilevata”, annota Settis.
E dire che l'incontro doveva avere un basso profilo. “In questo Salone del libro c’è un obbligo di correttezza - aveva premesso Zagrebelsky davanti a cinquecento persone arrivate ieri mattina -. Siamo in campagna elettorale e questo è un tema altamente politico. Dobbiamo fare un discorso di politica alta e dobbiamo fare attenzione a non
incappare nella scomunica”. L’intento si è infranto poco dopo, quando il giurista ripensa all’ultimo epiteto coniato da Renzi, quello sugli “archeologi travestiti da costituzionalisti” pronunciato la scorsa settimana alla direzione Pd per definire quelli che prima erano i “professoroni” e i “rosiconi”: “L’archeologia, checché ne dicano alcuni nostri governati, non è la ricerca di mucchi di pietre sotto la sabbia o di ossa. È la ricerca dell’arché, l’esplorazione delle fondamenta della nostra società”. Per questo lui è fiero del nuovo nomignolo: “Io mi onoro di essere della congregazione degli archeologi della Costituzione”.
Non tutti gli europei sono come i rappresentnti dei loro governi nell'Unione europe. «Parla l’assessore di Palermo: “Dalle cure mediche alla scuola, così mi occupo di loro ,Prendo in affido i migranti minorenni sono i miei 480 figli”».
La Repubblica, 16 maggio 2016
Qui la chiamano ormai la «Grande Madre». Lei, Agnese Ciulla, 44 anni, madre lo è davvero: di una bimba di 8 anni e un ragazzino di 14. Ma da tre anni, da quando il sindaco Leoluca Orlando l’ha nominata assessore alle Attività sociali, di figli ne ha tanti quanti il mare ne porta. Al momento sono 480, tutti minorenni e migranti che la procura le ha affidato nominandola tutore. Ovvero, la responsabile dei ragazzi al posto dei genitori: dall’iscrizione scolastica all’autorizzazione delle cure mediche è lei a occuparsene. L’11 maggio la Grande Madre è diventata nonna: la “figlia” Blessing, 16 anni, nigeriana, ha dato alla luce Sabina Pirit, concepita chissà dove al di là del Mediterraneo. La Grande Madre ieri mattina è corsa dalla nipotina ricoverata per precauzione in Neonatologia: «Che emozione vederla anche se soltanto da dietro un vetro».
Poi, nonostante la figlia, quella vera, reclamasse un po’ del suo tempo, è tornata per qualche ora in ufficio a firmare le centinaia di carte che l’attendevano: anche venerdì una nave ha scaricato al porto di Palermo il suo carico umano: 173 migranti, 15 minori.
Assessore Ciulla, 480 figli sono tanti. Cosa vuol dire per lei che madre lo è per davvero prendersi cura di loro?
«Significa ricacciare le lacrime ed essere concreti: ci sono le iscrizioni a scuola, le richiesta di asilo politico. Ma anche le malattie da curare. Dal 2012 ho assistito ad almeno 40 sbarchi. Comincio a occuparmi dei minori mentre sono ancora in viaggio. Il mio compito è trovare loro un tetto. Certo, quando li vedo sbarcare in fila indiana, i volti scavati, con il terrore negli occhi, mi si stringe il cuore».
Più di una volta al porto insieme ai ragazzi ha accolto anche le bare di chi durante la traversata non ce l’aveva fatta. Cosa ha provato?
«Orrore, ma soprattutto rabbia per una politica internazionale che alza muri invece di favorire la mobilità umana internazionale che è un diritto. Come stupirsi poi dei tanti minorenni che arrivano devastati sotto il profilo psicologico? Uno dei ragazzi sotto la mia tutela è stato ricoverato per mesi in un reparto di Neuropsichiatria infantile. I minori migranti che dipendono da me hanno quasi tutti tra i 15 e i 16 anni e sono stati strappati all’abbraccio delle famiglie».
Di ragazze madri come la giovane Blessing ce ne sono tante?
«No, Sabina Pirit è la prima neonata. Ma le ragazze eritree, somale e nigeriana che sbarcano in Sicilia sono sempre di più. E molte, che hanno subito violenza sessuale mentre erano in Libia, sono incinte».
Cosa fa in questi casi?
«Firmo l’autorizzazione per le interruzioni di gravidanza, l’ho già fatto quattro volte. Da tutrice, da donna e da madre».
Qual è stato il “figlio” che l’ha coinvolta di più?
«Tanti casi mi hanno emozionata. I., per esempio: arrivato dal Gambia, a Palermo abbiamo scoperto che aveva la leucemia. Sta ancora combattendo con la malattia. Molti ragazzi li vedo una volta sola, qualcuno mai. Ma la sera rimboccando le coperte ai miei figli, spero di avere dato a questi ragazzi almeno una possibilità”.
Cosa fa concretamente per aiutarli?
«Ci occupiamo della loro istruzione cercando di inserirli a scuola e comunque a tutti proviamo di insegnare bene l’italiano: abbiamo firmato una convenzione con l’Università. Poi gli uffici comunali predispongono un programma di formazione per ciascuno di loro”.
Ci sono storie a lieto fine?
«Sì, per fortuna. Come quella di Munir, tunisino: ha imparato il mestiere di meccanico e adesso che è diventato maggiorenne ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. S, invece, ha un futuro come mediatore culturale: è uno dei pochissimi che a Palermo parla la lingua dell’Africa occidentale, il mandingo. E poi c’è Junior, ivoriano, la sua storia è il sogno di molti: è diventato calciatore del Perugia. Vorrei davvero poter essere la madre che hanno dovuto lasciare, ma quasi 500 destini nelle mani di una persona sola — nonostante siano in tanti ad aiutarmi — sono troppi. Ecco perché, insieme al giudice tutelare, stiamo lavorando all’elenco dei tutori chiedendo la collaborazione di volontari».
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Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2016 (c.m.c.)
PER VOI CHE RAGIONATE
E NON PLEBISCITATE
C’E’ CHI CI METTE LA FACCIA,
NOI CI METTIAMO LA TESTA
“Noi crediamo profondamente in una democrazia così intesa, e noi ci batteremo per questa democrazia. Ma se altri gruppi avvalendosi, come dicevo in principio, di esigue ed effimere maggioranze, volessero far trionfare dei princìpi di parte, volessero darci una Costituzione che non rispecchiasse quella che è la profonda aspirazione della grande maggioranza degli italiani, che amano come noi la libertà e come noi amano la giustizia sociale, se volessero fare una Costituzione che fosse in un certo qual modo una Costituzione di parte, allora avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione ed il vento disperderà la vostra inutile fatica” (Lelio Basso, 6 marzo 1947, in Assemblea Costituente).
1. Il NO non significa immobilismo costituzionale. Non significa opposizione a qualsiasi riforma della Costituzione che sicuramente è una ottima costituzione. Ha obbligato con successo tutti gli attori politici a rispettarla. Ha fatto cambiare sia i comunisti sia i fascisti. Ha resistito alle spallate berlusconiane. Ha accompagnato la crescita dell’Italia da paese sconfitto, povero e semi-analfabeta a una delle otto potenze industriali del mondo. Non pochi esponenti del NO hanno combattuto molte battaglie riformiste e alcune le hanno vinte (legge elettorale, legge sui sindaci, abolizione di ministeri, eliminazione del finanziamento statale dei partiti).
Non pochi esponenti del NO desiderano riforme migliori e le hanno formulate. Le riforme del governo sono sbagliate nel metodo e nel merito. Non è indispensabile fare riforme condivise se si ha un progetto democratico e lo si argomenta in Parlamento e agli elettori. Non si debbono, però, fare riforme con accordi sottobanco, presentate come ultima spiaggia, imposte con ricatti, confuse e pasticciate. Noi non abbiamo cambiato idea. Riforme migliori sono possibili.
2. No, non è vero che la riforma del Senato nasce dalla necessita’ di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi. La riforma del Senato nasce con una motivazione che accarezza l’antipolitica “risparmiare soldi” (ma non sarà così che in minima parte) e perché la legge elettorale Porcellum ha prodotto due volte un Senato ingovernabile. Era sufficiente cambiare in meglio, non in un porcellinum, la legge elettorale. Il bicameralismo italiano ha sempre prodotto molte leggi, più dei bicameralismi differenziati di Germania e Gran Bretagna, più della Francia semipresidenziale e della Svezia monocamerale. Praticamente tutti i governi italiani sono sempre riusciti ad avere le leggi che volevano e, quando le loro maggioranze erano inquiete, divise e litigiose e i loro disegni di legge erano importanti e facevano parte dell’attuazione del programma di governo, ne ottenevano regolarmente l’approvazione in tempi brevi.
No, non è vero che il Senato era responsabile dei ritardi e delle lungaggini. Nessuno ha saputo portare esempi concreti a conferma di questa accusa perché non esistono. Napolitano, deputato di lungo corso, Presidente della Camera e poi Senatore a vita, dovrebbe saperlo meglio di altri. Piuttosto, il luogo dell’intoppo era proprio la Camera dei Deputati. Ritardi e lungaggini continueranno sia per le doppie letture eventuali sia per le prevedibili tensioni e conflitti fra senatori che vorranno affermare il loro ruolo e la loro rilevanza e deputati che vorranno imporre il loro volere di rappresentanti del popolo, ancorche’ nominati dai capipartito.
3. No, non è vero che gli esponenti del NO sono favorevoli al mantenimento del bicameralismo. Anzi, alcuni vorrebbero l’abolizione del Senato; altri ne vorrebbero una trasformazione profonda. La strada giusta era quella del modello Bundesrat, non quella del modello misto francese, peggiorato dalla assurda aggiunta di cinque senatori nominate dal Presidente della Repubblica (immaginiamo per presunti, difficilmente accertabili, meriti autonomisti, regionalisti, federalisti). Inopinatamente, a cento senatori variamente designati, nessuno eletto, si attribuisce addirittura il compito di eleggere due giudici costituzionali, mentre seicentotrenta deputati ne eleggeranno tre. E’ uno squilibrio intollerabile.
4. No, non è vero che e’ tutto da buttare. Alcuni di noi hanno proposto da tempo l’abolizione del CNEL. Questa abolizione dovrebbe essere spacchettata per consentire agli italiani di non fare, né a favore del “si’” ne’ a favore del “no”, di tutta l’erba un fascio. Però, no, non si può chiedere agli italiani di votare in blocco tutta la brutta riforma soltanto per eliminare il CNEL.
5. Alcuni di noi sono stati attivissimi referendari. Non se ne pentono anche perché possono rivendicare successi di qualche importanza. Abbiamo da tempo proposto una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi e l’introduzione di nuovi tipi di referendum e di nuove modalità di partecipazione dei cittadini. La riforma del governo non recepisce nulla di tutta questa vasta elaborazione. Si limita a piccoli palliativi probabilmente peggiorativi della situazione attuale. No, la riforma non è affatto interessata a predisporre canali e meccanismi per una più ampia e intensa partecipazione degli italiani tutti (anzi, abbiamo dovuto registrare con sconforto l’appello di Renzi all’astensione nel referendum sulle trivellazioni), ma in particolare di quelli più interessati alla politica.
6. No, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro. Il governo continuerà le sue propensioni alla decretazione per procurata urgenza. Impedirà con ripetute richieste di voti di fiducia persino ai suoi parlamentari di dissentire. Limitazioni dei decreti e delle richieste di fiducia dovevano, debbono costituire l’oggetto di riforme per un buongoverno. L’Italicum non selezionerà una classe politica migliore, ma consentirà ai capi dei partiti di premiare la fedeltà, che non fa quasi mai rima con capacità, e di punire i disobbedienti.
7. No, la riforma non interviene affatto sul governo e e sulle cause della sua presunta debolezza. Non tenta neppure minimamente di affrontare il problema di un eventuale cambiamento della forma di governo. Tardivi e impreparati commentatori hanno scoperto che il voto di sfiducia costruttivo esistente in Germania e importato dai Costituenti spagnoli è un potente strumento di stabilizzazione dei governi, anzi, dei loro capi. Hanno dimenticato di dire che: i) è un deterrente contro i facitori di crisi governative per interessi partigiani o personali (non sarebbe stato facile sostituire Letta con Renzi se fosse esistito il voto di sfiducia costruttivo); ii) si (deve) accompagna(re) a sistemi elettorali proporzionali non a sistemi elettorali, come l’Italicum, che insediano al governo il capo del partito che ha ottenuto più voti ed è stato ingrassato di seggi grazie al premio di maggioranza.
8. I sostenitori del NO vogliono sottolineare che la riforma costituzionale va letta, analizzata e bocciata insieme alla riforma del sistema elettorale. Infatti, l’Italicum squilibra tutto il sistema politico a favore del capo del governo. Toglie al Presidente della Repubblica il potere reale (non quello formale) di nominare il Presidente del Consiglio. Gli toglie anche, con buona pace di Scalfaro e di Napolitano che ne fecero uso efficace, il potere di non sciogliere il Parlamento, ovvero la Camera dei deputati, nella quale sarà la maggioranza di governo, ovvero il suo capo, a stabilire se, quando e come sciogliersi e comunicarlo al Presidente della Repubblica (magari dopo le 20.38 per non apparire nei telegiornali più visti).
9. No, quello che è stato malamente chiesto non è un referendum confermativo (aggettivo che non esiste da nessuna parte nella Costituzione italiana), ma un plebiscito sulla persona del capo del governo. Fin dall’inizio il capo del governo ha usato la clava delle riforme come strumento di una legittimazione elettorale di cui non dispone e di cui, dovrebbe sapere, neppure ha bisogno. Nelle democrazie parlamentari la legittimazione di ciascuno e di tutti i governi arriva dal voto di fiducia (o dal rapporto di fiducia) del Parlamento e se ne va formalmente o informalmente con la perdita di quella fiducia. Il capo del governo ha rilanciato. Vuole più della fiducia. Vuole l’acclamazione del popolo. Ci “ha messo la faccia”.
Noi ci mettiamo la testa: le nostre accertabili competenze, la nostra biografia personale e professionale, se del caso, anche l’esperienza che viene con l’età ben vissuta, sul referendum costituzionale (che doveva lasciare chiedere agli oppositori, referendum, semmai da definirsi oppositivo: si oppone alle riforme fatte, le vuole vanificare). Lo ha trasformato in un malposto giudizio sulla sua persona. Ne ha fatto un plebiscito accompagnato dal ricatto: “se perdo me ne vado”.
10. Le riforme costituzionali sono più importanti di qualsiasi governo. Durano di più. Se abborracciate senza visione, sono difficili da cambiare. Sono regole del gioco che influenzano tutti gli attori, generazioni di attori. Caduto un governo se ne fa un altro. La grande flessibilità e duttilità delle democrazie parlamentari non trasforma mai una crisi politica in una crisi istituzionale. Riforme costituzionali confuse e squilibratrici sono sempre l’anticamera di possibili distorsioni e stravolgimenti istituzionali. Il ricatto plebiscitario del Presidente del Consiglio va, molto serenamente e molto pacatamente, respinto.
Quello che sta passando non è affatto l’ultimo trenino delle riformette. Molti, purtroppo, non tutti, hanno imparato qualcosa in corso d’opera. Non è difficile fare nuovamente approvare l’abolizione del CNEL, e lo si può fare rapidamente. Non è difficile ritornare sulla riforma del Senato e abolirlo del tutto (ma allora attenzione alla legge elettorale) oppure trasformarlo in Bundesrat. Altre riforme verranno e hanno alte probabilità di essere preferibili e di gran lunga migliori del pasticciaccio brutto renzian-boschiano. No, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il NO chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte e da tempo scritte e disponibili.
Il manifesto, 14 maggio 2016
Nel corso del Novecento gran parte dell’attenzione degli studiosi era rivolta alla tendenziale distruzione delle economie precapitaliste, incorporandole nelle relazioni capitaliste della produzione. Il periodo post-1980 rende visibile un’altra variante di questa appropriazione attraverso l’incorporazione. È la distruzione non delle modalità pre-capitaliste, bensì di varie strutture capitaliste keynesiane con lo scopo di favorire l’affermarmazione di una nuova specie di capitalismo avanzato, che possiamo definire «estrattivo».
La crescente importanza dell’estrazione nel XXI secolo ha sostituito il consumo di massa come logica dominante di gran parte del XX secolo. Il consumo di massa mantiene la sua importanza, ma non è più un fenomeno capace di creare nuovi ordini sistemici, come è successo in gran parte del XX secolo, come testimonia la costruzione di vasti insediamenti residenziali suburbani, dove ogni famiglia acquistava di tutto e di più anche se, ad esempio, si poteva tosare l’erba solo una volta alla settimana.
Solo oggi, all’inizio del XXI secolo, questa logica organizzativa post-keynesiana affermatasi negli anni 1980 ha reso perfettamente leggibile la sua forma. In un mio volume precedente, The Global City (Le città globali, Utet) avevo documentato il fatto che stesse emergendo una nuova dinamica capitalista; e che una delle sue caratteristiche fosse l’indebolimento di quelle che all’epoca erano classi medie ancora prospere e in crescita. Sostenevo, cioè, che nelle grandi città (globali) stesse emergendo un nuovo ordine nella stratificazione sociale caratterizzato dalla crescita di classi medie ben pagate e, all’altro estremo, di una classe media impoverita.
Rispetto a quel periodo, il nuovo sistema economico ha favorito una forte polarizzazione alle estremità dello spettro sociale e un conseguente riduzione del «centro», elemento questo che ridotto enormemente la mobilità delle classi lavoratrici verso l’alto. All’epoca le mie conclusioni sono state respinte da molti studiosi: molti di coloro che analizzavano il capitalismo preferivano concentrarsi su una dimensione nazionale, mentre io vedevo nelle «città globali» come l’avanguardia di una nuova logica sistemica.
La stagione del debito
Questa emergente logica sistemica comporta, in termini drammatici, l’espulsione delle persone dai luoghi dove sono nati e la distruzione del capitalismo tradizionale allo scopo di soddisfare i bisogni, anche qui sistemici, dell’alta finanza e l’accesso delle imprese alle risorse naturali. Da sottolineare il fatto che le logiche tradizionali o familiari nell’estrazione di risorse per soddisfare i bisogni nazionali potrebbero comunque preparare il terreno per l’intensificazione sistemica del capitalismo «estrattivo».
Una possibile interpretazione del passaggio dal modello keynesiano a quello attuale è dunque concepirlo come il passaggio dal consumo di massa all’estrazione. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta i paesi poveri indebitati sono stati chiamati a versare una quota degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito contratto con organismi sovranazionali (il Fondo monetario internazionale) o imprese finanziarie. Questa quota era intorno al 20%: una percentuale molto più alta di quella richiesta in altri casi. Ad esempio, nel 1953 gli Alleati cancellarono l’80% dei debiti di guerra della Germania e pretesero solo il versamento del 3-5% degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito. E negli anni 1990, dopo la caduta dei loro regimi comunisti, chiesero solo l’8% ai paesi dell’Europa Centrale.
Esodi planetari
In contrasto con il progetto di sviluppo economico nell’Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, dagli anni 1980 l’obiettivo per quanto riguarda i paesi del Sud Globale era invece simile a un regime disciplinare volto all’estrazione delle ricchezza e delle risorse naturali anziché allo sviluppo. La dinamica riguardante il Sud globale aveva un primo momento, dove i paesi coinvolti erano costretti ad accettare i programmi di ristrutturazione e dei finanziamenti provenienti dal sistema internazionale, nonché, forse l’aspetto più importante, l’apertura delle loro economie alle imprese straniere per quanto riguarda le risorse naturali e la produzione di merci destinate al consumo locale. Una apertura che ha favorito lo sgretolamento dei settori nazionali del consumo in America Latina, Africa sub-sahariana e alcune parti dell’Asia.
Trascorsi 20 anni, è apparso chiaro come questo regime non abbia rispettato le componenti fondamentali necessarie per un sano sviluppo economico. Il risanamento del debito era infatti una priorità rispetto lo sviluppo di infrastrutture, sistema sanitario, formazione, tutti elementi necessari per il benessere della popolazione. Il predominio di questa logica «estrattiva» ha consolidato un un meccanismo teso a una trasformazione sistemica di quei paesi che andava ben oltre il pagamento del debito, dato che è stato un fattore chiave nella devastazione di vasti settori delle economie tradizionali, come la produzione su piccola scala, della distruzione di buona parte della borghesia nazionale e della piccola borghesia, del grave impoverimento della popolazione e, in molti casi, della diffusione della corruzione nell’amministrazione statale.
Accanto a ciò abbiamo assistito al fatto che i paesi dell’Opec (cioè i paesi produttori ed esportatori di petrolio) hanno deciso sin dagli anni Settanta di trasferire l’improvvisa ricchezza accumulata alle grandi banche occidentali: un fattore che ha costituito la condizione per promuovere i finanziamenti ai paesi del Sud Globale.
Le élites predatrici
Tra pagamento degli interessi e aggiustamenti strutturali questi paesi hanno ripagato più volte il loro debito, senza mai riuscire veramente a rimborsarlo, provocando il collasso di governi usciti dalle lotte per la liberazione nazionale degli anni Sessanta e Settanta. Il risanamento del debito è divenuto infatti uno degli strumenti chiave per spingere molti di questi governi verso un approccio neoliberale: diventare importatori e consumatori, anziché produttori. Nell’insieme, la massiccia espansione del settore minerario e di altri settori estrattivi e, in particolare, l’espropriazione dei terreni per l’agricoltura e, più recentemente, l’espropriazione delle acque per aziende come Nestlé e Coca Cola hanno prodotto «zone speciali» per l’estrazione e governi dominati da élite predatrici.
I piani di austerità attuati in gran parte del Nord Globale sono una sorta di equivalente sistemico di ciò che è accaduto al Sud. Alcuni esempi sono i tagli dei servizi pubblici, delle pensioni per i lavoratori, del sostegno ai poveri e i tagli, o l’aumento, dei prezzi in una serie di altri servizi pubblici. Assistiamo inoltre a innovazioni che mirano a estrarre tutto quanto possibile dal settore pubblico e dalle famiglie, comprese quelle povere. Un caso è la crisi dei mutui sub-prime iniziata nei primi anni 2000 ed esplosa nel 2007. Secondo la Federal Reserve statunitense, alla fine del 2014 avevano perso la casa oltre 14 milioni di famiglie, pari ad almeno 30 milioni di individui.
Possiamo quindi individuare una relazione tra capitalismo avanzato e tradizionale caratterizzata da dinamiche predatorie anziché da evoluzione, sviluppo o progresso. I modelli attuali qui brevemente descritti possono comportare l’impoverimento e l’espulsione di un numero sempre più alto di persone che cessano di costituire un «valore» come lavoratori e consumatori. Ma significa anche che le piccole borghesie tradizionali e le borghesie nazionali tradizionali cessano di avere un «valore».
Trafficanti di organi
I processi di trasformazione che rafforzano la base dell’attuale capitalismo avanzato sono quindi concentrati su «logiche estrattive» anziché sul consumo di massa. Il consumo di massa è ovviamente ancora importante, ma non è più la logica dominante, il che contribuisce anche a spiegare l’impoverimento delle classi medie e lavoratrici: il loro consumo conta molto meno per i settori dominanti di oggi. Di particolare importanza sono inoltre gli insiemi di particolari processi, istituzioni e logiche che vengono mobilitati in questa trasformazione/espansione/consolidamento sistemico.
Un modo per interpretare questi cambiamenti è vederli come l’espansione di una sorta di spazio operativo per il capitalismo avanzato che espelle le persone sia nel Sud che nel Nord globale incorporando territori per attività minerarie, l’espropriazione dei terreni e delle acque, la costruzione di nuove città.
Le economie devastate del Sud globale, vittime di un decennio di risanamento del debito, vengono ora incorporate nei circuiti del capitalismo avanzato attraverso l’acquisizione accelerata di milioni di ettari di terreno da parte d’investitori esteri per coltivare cibo ed estrarre acqua e minerali per i paesi che investono. Poco viene fatto per sviluppare le infrastrutture utili alla sopravvivenza delle popolazioni povere e a basso reddito. È un po’ come volere solo il corno del rinoceronte e gettare via il resto dell’animale, svalutarlo, indipendentemente dai vari utilizzi possibili. Oppure usare il corpo umano per coltivare determinati organi e non riconoscere alcun valore agli altri organi, per non parlare dell’intero essere umano, che può essere interamente eliminato.
Questo cambiamento sistemico segnala che il marcato aumento delle persone emarginate, povere, uccise da malattie curabili fa parte di questa nuova fase. Le caratteristiche fondamentali dell’accumulo primitivo ci sono, ma per vederle è essenziale andare oltre le logiche dell’estrazione e riconoscere la trasformazione sistemica come un fatto, con procedure e progetti in grado di cambiare il sistema – l’espulsione delle persone che ritrasforma lo spazio in territorio, con le sue varie potenzialità.
Si è aperto il cinque maggio il BergamoFestival «Fare la pace», che aveva come tema portante «Muri che si alzano, confini che si dissolvono». Pensata come un insieme nomade di incontri, l’iniziativa è scandita da discussioni sullo stato del mondo, ma anche di come i muri alzati possano coinvolgere non solo le frontiere nazionali, ma anche la realtà sociale. Il sei maggio la filosofa ungherese Agnes Heller ha parlato del «paradosso dello Stato-nazione europeo e dello straniero». Il 10, invece il padre gesuita francese Gaël Giraud è intervenuto su «La grande scommessa- Dare regole alla finanza per salvare il mondo». Oggi sarà la volta di Saskia Sassen, della quale pubblichiamo brani della sua relazione» che parlerà di «La solitudine dei numeri primi. La vita sulla terra ai tempi della globalizzazione». Colin Crouch interverrà invece su «Chi governa il mondo. La democrazia dopo la democrazia». Per tutte le informazioni:
Un'intelligente analisi dell'intellettuale dell'età renziana. «L’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano, la deve seguire».
CRS - Centro per la riforma dello Stato online, 30 aprile 2016
“Abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di super saggi, l’età media supera gli 81 anni”. E’ questo il principale argomento che Elisabetta Gualmini – classe 1968, docente di Scienza politica all’università di Bologna, ex presidente dell’Istituto Cattaneo, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, editorialista della Stampa nonché star prediletta dei talk show mattutini e serali – e Salvatore Vassallo – classe 1965, docente di Scienza politica a Bologna, vicedirettore del Cattaneo, ex prodian-parisian-veltroniano – sfoderano,
in un articolo a doppia firma sull’Unità del 27 aprile, contro il documento per il no al referendum sulla riforma costituzionale stilato, firmato e diffuso nei giorni scorsi da 56 autorevoli costituzionalisti (da Zagrebelsky a Onida, Casavola, Cheli, Carlassare, Manzella, Zaccaria, De Siervo e via dicendo). E tanto perché l’età non sembri un argomento troppo rozzo, la mettono in metafora: “Ci pare significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare”: criterio tanto più “stonato”, “di fronte a un paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere”. Siamo alle solite: con le ali di Renzi l’Italia vorrebbe tanto spiccare il volo, non fosse per parrucconi e gufi che glielo impediscono.
Ma procediamo. Secondo argomento. “A pensar male, il primo sottinteso [del testo dei costituzionalisti] pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-il-plebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa (sic) i tecnici e ancor di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia”.
Terzo argomento. “ [Nel documento dei 56] non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni…Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei”.
Fra il primo e il secondo argomento, a panino come l’opposizione nei Tg di regime, i due politologi entrano approssimativamente nel merito del documento dei costituzionalisti, a difesa della riforma Boschi. Ma con ogni evidenza il punto non è il merito, nemmeno per una alquanto ossessiva appassionata della materia come, per quel nulla che conta, la sottoscritta. C’è un livello infatti che viene prima perfino della Costituzione e di qualunque legge fondamentale, ed è il livello dello scambio fra i comuni parlanti e della produzione di senso comune che ne deriva. Quando si inquina o si frattura questo livello, non è in questione la Costituzione ma la qualità della convivenza. Ed è a questo livello che il testo della coppia Gualmini-Vassallo si colloca e va letto.
Nel suo blog sull’Espresso, Marco Damilano, a sua volta colpito dall’obliqua sintomaticità dell’articolo, lo interpreta come la prova provata dell’assenza di una nuova leva di intellettuali renziani: “intellettuali veri, capaci cioè di indicare un punto di vista non scontato, con un certo tasso di anticonformismo, con il gusto di restare fuori dalle curve, dalle tifoserie da social network, dal talk-show perenne”. Mi piacerebbe dargli ragione, ma non sono d’accordo. L’articolo in questione è al contrario la prova provata che questa nuova leva intellettuale renziana c’è ed è questa, nella sua desolante miseria.
I tre argomenti di cui sopra sono infatti una mirabile sintesi dei veleni che la cosiddetta narrazione renziana, in realtà una vera e propria ideologia, ha fin qui distillato e instillato nel senso comune. E si possono sintetizzare come segue.
Primo, la guerra generazionale come motore cinico della produzione di un consenso rancoroso. Com’era chiaro fin dall’inizio, in questione non è mai stata solo la “rottamazione” di un ceto politico usurato, bensì la produzione programmatica di barriere generazionali che legittimano politiche economiche devastanti per il legame sociale, mettendo continuamente in conflitto vecchi e giovani, pensionati (o pre-pensionati forzati o pensionandi) e precari a vita, occupati e disoccupati, titolari di diritti acquisiti e soggetti deprivati di ogni diritto. La produzione altrettanto sistematica di rancore nelle generazioni giovani verso quelle precedenti, unita alla instillazione di un senso di colpa connesso all’età nelle generazioni “decadenti”, è il collante sentimentale di queste barriere, che ostacolano la riorganizzazione del conflitto sociale su una base di classe o lungo altre frontiere antagonistiche sensate, e promuovono una competizione individuale generalizzata, legittimata come una lotta per la sopravvivenza che giustifica l’annichilimento altrui. Si tratta dunque di una precisa strategia neoliberale con risvolti di darwinismo sociale, coperta da un arrembaggio giovanilistico rottamatorio che in un paese come gli Stati uniti, sbandierato a proposito e a sproposito dai “nuovi intellettuali” come faro progressista, sarebbe accusato senza mezzi termini di age discrimination (e, per inciso, sbarrerebbe qualunque carriera accademica a chiunque se ne facesse portatore).
Secondo, la rivendicazione dell’anti-intellettualismo fascistoide già caratteristico del ventennio berlusconiano, ma oggi, se possibile, ancor più ostentato, e soprattutto più infondato di allora. La retorica è la stessa – il tycoon spregiudicato contro i “salotti buoni” del capitalismo allora, il “plebeo” contro i “professori al caviale” oggi -, ma a differenza di ieri, quando si appoggiava su un’impresa come quella berlusconiana che aveva effettivamente rivoluzionato i modi della produzione intellettuale, oggi non si basa su niente, se non su un’arroganza che non ha precedenti nemmeno nel ceto politico berlusconiano. Anche qui, nulla di innocente e nemmeno di innocuo: l’anti-intellettualismo di regime produce e promuove, con l’aiuto consistente ed entusiasta dei media di regime, un ceto intellettuale in parte nuovo, in parte riciclato dal ventennio precedente (vedi la mappa del management che conta nella Rai e in altri ruoli chiave dell’industria culturale disegnata il 27/4 sul Foglio da quell’altra musa ispiratrice del renzismo che è Claudio Cerasa per dimostrare come qualmente “Berlusconi, anno domini 2016, ha comunque vinto e sta vincendo alla grande”).
Terzo, l’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano Gualmini e Vassallo, la deve seguire. E qui lo studente di primo anno, che i due politologi invocano come bocciatore certo del documento dei 56, boccerebbe invece di sicuro loro. E farebbe bene.
fomentando e sfruttando le guerre altrui, e impoverisce le casse dello Stato per comprare a sua volta armi, lascia affondare nella miseria e nel degrado ospiti delle sue attività "umanitarie".
Il manifesto, 14 maggio 2016
Un hotspot per piccoli migranti. La fedeltà alle rigide regole imposte da Bruxelles e l’egoismo di alcune regioni possono portare anche a questo, un mega centro lungo la costa di Pozzallo, in provincia di Ragusa, occupato prevalentemente da minori non accompagnati. Giovani e giovanissimi che in questi giorni rappresentano la maggioranza della popolazione della struttura siciliana, 120 sugli attuali 140 migranti reclusi.
Provengono da Marocco e Egitto (una trentina di egiziani sono arrivati tutti con lo stesso barcone) ma anche da Eritrea, Mali, Somalia. Praticamente tutti hanno fatto richiesta di asilo e adesso aspettano di essere trasferiti. «Vivere in queste strutture non è facile, si possono passare intere giornate senza fare niente», spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di palazzo Madama al termine di un sopralluogo nell’ex centro di accoglienza. «Il problema è che manca un sistema centralizzato in grado di coordinare i posti liberi nelle strutture di accoglienza sul territorio nazionale. Molte regioni – prosegue Manconi – dicono di non avere posti liberi perché non vogliono accoglierli, di conseguenza invece di restare nell’
hotspot al massimo per 72 ore, come previsto, qualcuno ci resta anche quattro settimane». Servirebbe una banca dati centralizzata che raccogliesse le disponibilità delle strutture di seconda accoglienza per i minori. Invece non c’è e quindi tutto è affidato alla buona volontà delle prefetture, che in una sorta di autogestione si tengono in contatto aggiornandosi sui posti che si liberano in ogni regione.
Gli hotspot sono il prezzo imposto dall’Unione europea a Italia e Grecia per la crisi dei migranti degli ultimi due anni e mezzo. L’idea di creare nuove strutture dove contenere l’ondata di migranti in arrivo venne alla Francia l’anno scorso e fu subito fatta propria dai leader dei 28 paesi membri. Chi arriva in Italia viene identificato e selezionato, dividendo i migranti economici dai rifugiati. L’anno scorso a Pozzallo sono sbarcati in 15 mila, un decimo esatto del totale degli arrivi del 2015. Dal 1 gennaio al 12 maggio di quest’anno, invece, ci sono stati 17 sbarchi, per un totale di 5.221 migranti, 4.505 uomini, 716 donne, 878 minori non accompagnati e 150 accompagnati. La maggior parte proviene dalla Nigeria (929), Gambia (515) Senegal (438), Eritrea (434), Guinea (439), Mali (326) e Marocco (237).
Quello che era il centro di prima accoglienza il 19 gennaio di quest’anno è diventato il terzo hotspot italiano (su cinque). Viaggio di sola andata, probabilmente, visto che oggi appare davvero difficile un ritorno alle origini. E non senza problemi. A dicembre del 2015 Medici senza frontiere ha messo fine a ogni intervento nella struttura denunciando «le condizioni precarie e poco dignitose» in cui venivano accolti migranti e rifugiati dopo gli sbarchi. Il 27 aprile scorso un’altra organizzazione, Terre des Hommes, ha denunciato invece le condizioni di sovraffollamento del centro, tali da rendere «non possibile garantire un’attenzione specifica ai migranti più vulnerabili come mamme con bambini, donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati». E a marzo anche l’hotspot di Pozzallo, insieme a quelli d Lampedusa e Trapani, è finito in un dossier presentato al Senato da alcune associazioni riunite nel Tavolo nazionale asilo, tra cui Consiglio italiano rifugiati, Arci, Comunità di Sant’Egidio e Caritas, in cui si parla di «respingimenti arbitrari» e di «negazione dell’accesso alla procedura d’asilo e l’uso della forza per l’identificazione» delle persone.
In questi giorni nell’hotspot la situazione è decisamente più calma, anche se non mancano le proteste, che riguardano soprattutto il cibo e la mancanza di posti sufficienti ad accogliere donne immigrate, ma anche il timore di molti migranti di essere rispediti nei paesi di origine. «Noi vogliano restare qui», dicono i cartelli scritti a penna e mostrati alle telecamere da molti giovani insieme alle ciabatte rotte. «We want to learn», vogliamo imparare, ripetono affollandosi contro le sbarre di ferro che circondano il centro. Cosa particolarmente positiva è la presenza di molte organizzazione umanitarie: Unhcr, Save the Children, Oim e Terre des Hommes lavorano all’interno dell’hotspot, mentre Emergency interviene soprattutto al momento degli sbarchi. Molti migranti e rifugiati presentano i segni delle violenze subite durante il viaggio verso l’Europa, soprattutto in Libia durante le settimane passate in attesa dell’imbarco. E non mancano i casi di donne che denunciano agli operatori di essere state vittime di violenza sessuale da parte di trafficanti di uomini.
Nonostante sia una struttura chiusa, ai piccoli migranti viene concesso un permesso per uscire almeno per qualche ora. Verso sera è facile vederli mentre in gruppi fanno ritorno al centro. Prima di lasciarli entrare gli agenti e i militari che presidiano l’ingresso controllano i fogli identificativi rilasciati dalle prefetture e li perquisiscono. «Ma noi dall’Italia non vogliamo andarcene», fanno in tempo a ripetere prima che il cancello si chiuda alle loro spalle.