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Valls rifiuta il dialogo. "La Loi Travail è retrograda", per la competitività conta la qualità delle relazioni tra capitale e lavoro. I rischi del populismo». Il manifesto
Dominique Plihon è un economiste atterré, professore di economia finanziaria a Paris XIII e portavoce di Attac France.
Come interpreta la situazione, all’ottava giornata di manifestazioni, dopo ormai quasi tre mesi di lotte contro la Loi Travail? “E’ un importante conflitto, di grandi dimensioni e gravità. La Francia ne ha avuti altri, nel ’95, poi all’inizio degli anni 2000 e ogni volta hanno portato o al ritiro della legge contestata o a una crisi politica, a un cambiamento politico. Nel ’95 ci sono state elezioni e la sinistra è andata al potere”.
Ma adesso al potere c’è il Ps…
“Difatti, è una cosa gravissima, questo governo che si pretende di sinistra sta facendo una politica altrettanto dura di quella della destra. Non ha nessuna propensione al dialogo. Valls è maldestro, incapace di negoziare. Siamo di fronte a una politica di lotta di classe, c’è chiaramente uno scontro tra i lavoratori, la maggior parte dei lavoratori – anche se i sindacati sono divisi – e un governo alleato del padronato. La Loi Travail ha cristallizzato la situazione, ma c’erano già tensioni prima. Siamo di fronte a un importante cambiamento della logica delle relazioni tra capitale e lavoro, sul diritto dei lavoratori, sul ruolo dei sindacati”.
La Cfdt pero’ ha contribuito alla redazione della nuova versione della legge.
“Ci sono due visioni sindacali: la Cfdt considera che la versione attuale fa abbastanza passi avanti per accettarla, mentre la Cgt e Fo ritengono che i passi indietro sociali siano superiori a quelli avanti”.
Lei ha citato lotte del passato. Ma oggi con la mondializzazione in atto, non sarebbe necessario adeguare la legislazione?
“Credo che di fronte alla mondializzazione chi ha una visione molto conservatrice e reazionaria sulle relazioni capitale-lavoro sia il padronato. Oggi, un’efficacia massima, una maggiore competitività passano per una buona qualità delle relazioni capitale-lavoro e per il riconoscimento del ruolo dei lavoratori nelle imprese. Ma questo non è il caso oggi, il governo ha una concezione retrograda e il padronato francese è molto conservatore. La legge, sotto questo aspetto, è molto negativa”.
Tra un anno ci sono presidenziali e legislative. Non tutti sono in piazza, molti si lamentano degli effetti della protesta e delle manifestazioni. Questo movimento sociale non rischia di andare a vantaggio dell’estrema destra?
“C’è un vero rischio, considerevole, abbiamo appena visto i risultati elettorali in Austria. Ma questo è una ragione sufficiente per accettare una legge pericolosa per i lavoratori? La minaccia populista viene dall’insoddisfazione dei cittadini nei confronti della situazione attuale e della politica che viene attuata. Non c’è quindi ragione di accattare una legge non buona e non è neppure detto che, accettandola, si limiterebbe il rischio populista. La maggioranza dei cittadini è contro la riforma”.
Come vede una possibile via d’uscita?
“Probabilmente, ci saranno concessioni da parte del governo sull’articolo 2, il più pericoloso, che riduce il ruolo dei sindacati ed è un fattore potenziale di regressione dei diritti. Il Partito socialista è diviso, ci possono essere concessioni. La tattica del governo è di cercare di dividere i sindacati, puntando a che Fo accetti, per isolare la Cgt. E’ una tattica che puo’ avere successo a breve, ma negativa sul lungo periodo perché creerà una crisi permanente tra governo e Cgt. Un altro scenario possibile è che il movimento si amplifichi e il governo sia obbligato a cedere, portando a una crisi politica grave. Il governo non avrà più nessuna credibilità, il primo passo in questa direzione era stata la proposta di privazione della nazionalità per i bi-nazionali. Questa crisi puo’ essere pericolosa, il populismo puo’ approfittarne. C’è una grande incertezza politica.
Anche la destra, pero’, è divisa, farà quello che dice oggi nei programmi elettorali?
La dottrina economica del Fronte nazionale è poco realista, era un partito liberista ora è più interventista, possono aver successo perchè difendono una visione economica non ultraliberista. Ma ha poche possibilità di vincere. Forse mi sbaglio, sono troppo ottimista”.
La Repubblica, 27 maggio 2016
Profughi, debiti, disoccupazione: la crisi dell’Europa sembra non aver fine. Per una parte crescente della popolazione, la sola risposta leggibile è quella del ripiegamento nazionale: usciamo dall’Europa, torniamo allo Stato-nazione e tutto andrà meglio. Di fronte a questa promessa illusoria — ma che ha il merito della chiarezza — il campo progressista non fa che tergiversare: certo, la situazione non è brillante, ma bisogna persistere e attendere che le cose migliorino, e in ogni caso è impossibile cambiare le regole europee. Questa strategia mortifera non può durare. È venuto il momento che i Paesi più importanti della zona euro riprendano l’iniziativa e propongano la costituzione di un nocciolo duro in grado di prendere decisioni e rilanciare il nostro continente.
Bisogna cominciare facendo piazza pulita di quell’idea secondo cui lo stato dell’opinione pubblica impedirebbe di toccare i trattati europei: i cittadini detestano l’Europa attuale, quindi non cambiamo nulla. Il ragionamento è assurdo, e soprattutto falso. Per essere più preciso: rivedere l’insieme dei trattati conclusi dai 28 Paesi per istituire l’Unione Europea, in particolare in occasione del trattato di Lisbona del 2007, probabilmente è prematuro; il Regno Unito e la Polonia, per citarne solo due, hanno programmi che non sono i nostri. Ma questo non significa che si debba restare inoperosi: ci sono tutte le condizioni per concludere, parallelamente ai trattati esistenti, un nuovo trattato intergovernativo fra i Paesi della zona euro che lo desiderano.
La prova migliore è quello che è stato fatto nel 2011-2012. In pochi mesi, i Paesi dell’Eurozona negoziarono e ratificarono due trattati intergovernativi con pesantissime conseguenze sui bilanci pubblici: uno istituiva il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, un fondo provvisto di 700 miliardi di euro per venire in aiuto ai Paesi dell’Eurozona); l’altro, chiamato «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria », e volgarmente noto come
fiscal compact, fissava le nuove regole di bilancio e prevedeva sanzioni automatiche da applicare agli Stati membri.
Il problema è che questi due trattati sono serviti solo ad aggravare la recessione e la deriva tecnocratica dell’Europa. I Paesi che richiedono il sostegno del Mes devono firmare un «protocollo di intesa» con i rappresentanti della famigerata «trojka» (articolo 13 del trattato del Mes). In poche righe è stato concesso a un pugno di tecnocrati della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, a volte competenti e a volte molto meno, il potere di supervisionare la riforma dei sistemi sanitari, pensionistici, fiscali e così via di interi Paesi, il tutto nella quasi totale assenza di trasparenza e controllo democratico. Quanto al fiscal compact (articolo 3), fissa un obbiettivo assolutamente irrealistico di disavanzo strutturale massimo dello 0,5 per cento del Pil. Precisiamo che si tratta di un obbiettivo di disavanzo secondario, che quindi tiene conto anche degli interessi sul debito: quando i tassi di interesse risaliranno, significherà che per decenni tutti i Paesi che avranno accumulato debiti significativi in seguito alla crisi (cioè la quasi totalità dei Paesi della zona euro) dovranno mantenere un avanzo primario enorme, del 3-4 per cento del Pil.
Ci si dimentica, en passant, che l’Europa fu costruita negli anni Cinquanta proprio sulla cancellazione dei debiti passati (di cui beneficiò in particolare la Germania), e che furono quelle scelte politiche a consentire di investire nella crescita e nelle nuove generazioni.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo bell’edificio — Mes e fiscal compact — è sottoposto al controllo del consiglio dei ministri dell’Economia della zona euro, che si riunisce a porte chiuse e ci annuncia regolarmente, nel pieno della notte, di aver salvato l’Europa, salvo poi renderci conto, il giorno seguente, che i suoi membri non sanno neppure loro cosa hanno deciso. Bel successo per la democrazia europea del XXI secolo.
La soluzione è evidente: bisogna rimettere in cantiere quei due trattati e dotare la zona euro di istituzioni democratiche autentiche, in grado di prendere decisioni chiare a seguito di discussioni condotte alla luce del sole. L’opzione migliore sarebbe costituire una camera parlamentare dell’Eurozona, composta di rappresentanti dei Parlamenti nazionali, in proporzione alla popolazione di ciascun Paese e ai diversi gruppi politici. Questa camera dovrebbe deliberare su tutte le decisioni finanziarie riguardanti direttamente l’Eurozona, a cominciare dal Mes, il controllo dei disavanzi e la ristrutturazione dei debiti. Potrebbe votare anche un’imposta comune sulle società e un bilancio dell’Eurozona che consenta di investire nelle infrastrutture e nelle università.
Questo nocciolo duro europeo sarà aperto a tutti i Paesi, ma nessuno deve poter bloccare chi desidera avanzare più in fretta. Concretamente parlando, se la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, che rappresentano insieme più del 75 per cento della popolazione e del Pil della zona euro, pervengono a un accordo, questo nuovo trattato intergovernativo deve poter entrare in vigore.
In un primo momento, la Germania probabilmente avrà paura di essere messa in minoranza in questo Parlamento. Ma non potrà rifiutare apertamente la democrazia se non vuole correre il rischio di rafforzare in modo irrimediabile il campo anti-euro. Soprattutto, questo nuovo sistema rappresenta una proposta equilibrata: si apre la strada a cancellazioni del debito, ma nello stesso tempo si obbliga coloro che ne vogliono beneficiare — come la Grecia — a sottomettersi per il futuro alla legge della maggioranza. Un compromesso è a portata di mano, se solo si accetterà di mettere da parte conservatorismi ed egoismi nazionali.

«. Il manifesto
, 27 maggio 2016 (c.m.c.)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2016 (p.d.)
1. Perché raccogliere le firme, se il referendum è stato già chiesto dai parlamentari?
Non si può lasciare al Palazzo la scelta se votare su una vasta modifica della Costituzione, facendone un plebiscito Renzi sì-Renzi no. La richiesta dei cittadini corregge la torsione plebiscitaria, inaccettabile perché impedisce la discussione di merito su una modifica pessima e stravolgente, che va respinta a prescindere dalla sorte del governo.
2. Ma anche Renzi ha avviato la raccolta delle firme.
Lo ha fatto non per amore di democrazia, ma solo perché i sondaggi hanno dimostrato che la via del plebiscito personale era per lui pericolosa. È anche un tentativo di scippare la bandiera della raccolta firme ai sostenitori del no. Tutto deve essere nel nome del governo.
3. Finalmente si riesce dove tutti avevano fallito.
È decisivo il come. Un Parlamento illegittimo per l’incostituzionalità della legge elettorale, e una maggioranza raccogliticcia e occasionale, col sostegno decisivo dei voltagabbana, stravolgono la Costituzione nata dalla Resistenza. L’irrisione e gli insulti rivolti agli avversari vogliono nascondere l’incapacità di rispondere alle critiche.
4. La legge Renzi-Boschi riduce i costi della politica, cancellando le indennità per i senatori non elettivi.
Il risparmio è di spiccioli. La gran parte dei costi viene non dalle indennità, ma dalla gestione degli immobili, dai servizi, dal personale. Mentre anche il senatore non elettivo ha un costo per la trasferta e la permanenza a Roma, nonché per l’esercizio delle funzioni (segreteria, assistente parlamentare, etc). Risparmi con certezza maggiori si avrebbero – anche mantenendo il carattere elettivo – riducendo la Camera a 400 deputati, e il Senato a 200. Avremmo in totale 600 parlamentari, invece dei 730 che la legge Renzi-Boschi ci consegna.
5. I senatori eletti dai consigli regionali nel proprio ambito, insieme a un sindaco per ogni regione, rappresentano le istituzioni di autonomia. È la Camera delle Regioni, da tempo richiesta.
Falso. Un consigliere regionale è espressione di un territorio limitato e infraregionale, cui rimane legato per la sua carriera politica. Lo stesso vale per il sindaco-senatore. Avendo pochi senatori, ogni regione sarà rappresentata a macchia di leopardo. Pochi territori avranno voce nel Senato, e tutti gli altri non l’avranno. È la Camera dei localismi, non delle regioni.
6. Sarebbe stato meglio con l’elezione diretta?
Certo, perché i senatori eletti avrebbero dato rappresentanza a tutto il territorio regionale e a tutti i comuni. Una vera Camera delle regioni richiede l’elezione diretta, mentre l’elezione di secondo grado apre la via ai localismi e agli egoismi territoriali.
7. Il riconoscimento del seggio senatoriale può essere la via per creare un circuito di eccellenza nel ceto politico regionale e locale.
È vero piuttosto, al contrario, che si rischia un abbassamento della qualità nei massimi livelli di rappresentanza nazionale. Basta considerare le cronache di stampa e giudiziarie. Soprattutto perché ai consiglieri-senatori e ai sindaci-senatori si riconoscono le prerogative dei parlamentari quanto ad arresti, perquisizioni, intercettazioni. Un’inchiesta penale a loro carico può diventare molto difficile, o di fatto impossibile.
8. Ma le prerogative non riguardano le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, che rimangono senza copertura costituzionale.
E come si possono distinguere? Se il sindaco-senatore o il consigliere-senatore usa il proprio telefono nell’esercizio delle funzioni connesse alla carica locale diventa per questo intercettabile? E se tiene riunioni nella sua segreteria di senatore? Le attività di indagine verrebbero scoraggiate, o quanto meno gravemente impedite.
9. L’elezione diretta dei senatori è stata sostanzialmente recuperata nell’ultima stesura per le pressioni della minoranza Pd.
Falso. Rimane scritto che i senatori sono eletti dai consigli regionali tra i propri componenti. È stato solo aggiunto il principio che debba essere assicurata la conformità agli indirizzi espressi dagli elettori nel voto per il consiglio. Ma è tecnicamente impossibile. A 10 regioni e province (Valle d’Aosta, Bolzano, Trento, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata) spettano 2 seggi, e a Calabria e Sardegna ne spettano 3. Uno dei seggi è riservato a un sindaco. Come si può rispettare la volontà degli elettori quando il consiglio elegge un solo consigliere-senatore, o due?
10. Il principio della conformità al volere degli elettori è comunque stabilito.
Ma cosa la “conformità” significhi, come possa realizzarsi, e cosa accadrebbe nel caso non si realizzasse rimane oscuro. In ogni caso si rinvia a una successiva legge, che – vista l’impossibilità di risolvere il problema – potrebbe anche non venire mai. Una norma transitoria rimette in pieno la scelta ai consigli regionali.
11. Ma il Senato non elettivo serve a superare il bicameralismo paritario, fonte di continui e gravi ritardi.
Falso. Si poteva giungere a un identico bicameralismo differenziato lasciando la natura elettiva del Senato. In ogni caso, le statistiche parlamentari – disponibili sul sito del Senato – ci dicono che nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate all’approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Numeri, non chiacchiere.
12. Il bicameralismo differenziato semplifica comunque i processi decisionali e assicura maggiore rapidità.
Solo in apparenza. Negli art. 70 e 72 vigenti il procedimento legislativo è disciplinato con 198 parole. La legge Renzi-Boschi sostituisce i due articoli con 870 parole. Può mai essere una semplificazione? In realtà si moltiplicano i procedimenti legislativi diversificandoli in rapporto all’oggetto della legislazione. Ne vengono incertezze e potenziali conflitti tra le due camere, che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale.
13. Ma su molte materie la Camera ha l’ultima parola, e questo evita le “navette”.
Le navette prolungate, con reiterati passaggi tra le due Camere, sono in genere sintomo di difficoltà politiche nella maggioranza, che – se ci fossero – si manifesterebbero anche con una sola Camera. Mentre il Senato comunque partecipa paritariamente su materie di grande rilievo, come le riforme costituzionali. Con quale legittimazione sostanziale, data la sua composizione non elettiva?
14. La fiducia viene data dalla sola Camera e questo contribuisce alla stabilità.
Poco o nulla. Nell’intera storia repubblicana il diniego della fiducia ha fatto cadere soltanto due governi (i due Prodi). Lo stesso governo Renzi è nato con una manovra di palazzo volta all’omicidio politico di Letta. Senza quella manovra, Letta potrebbe essere ancora in carica dall’inizio della legislatura.
15. Il rapporto di fiducia verso la sola Camera rafforza la governabilità.
La governabilità dipende non dal numero delle Camere, ma dalla coesione della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza composita e frammentata non potrà mai produrre governabilità. È decisiva una buona legge elettorale, che componga in modo corretto i valori “governabilità”e“rappresentanza”.
16. Per questo l’Italicum è il giusto complemento alla riforma della Costituzione.
Niente affatto. L’Italicum riproduce i vizi del Porcellum già dichiarati costituzionalmente illegittimi: eccesso di disproporzionalità tra i voti e i seggi attribuiti con il premio di maggioranza, per di più dato a un singolo partito; lesione della libertà di voto dell’elettore per il voto bloccato sui capilista, che possono anche essere candidati in più collegi.
17. Ma l’Italicum prevede una soglia al 40%, superata la quale la lista ottiene 340 deputati, e il ballottaggio a due nel caso la soglia non venga raggiunta. Con il ballottaggio ci sarà comunque un vincitore che supera il 50%.
Al ballottaggio e al premio si accede senza alcuna soglia. Se nel ballottaggio un partito prendesse 2 voti e l’altro 1, il primo avrebbe comunque 340 seggi. Come col Porcellum è possibile che un singolo partito con pochi consensi nel Paese abbia in Parlamento una maggioranza blindata di 340 seggi, mentre tutti gli altri soggetti politici, che pure assommano nel totale maggiori consensi, si dividono i seggi rimanenti. Conseguenza: il voto dato alla lista vincente pesa sull’esito elettorale fino a 4 volte il voto per le altre liste. Un grave elemento di diseguaglianza tra gli elettori.
18. Un premio di maggioranza non è di per sé incostituzionale.
Ma è incostituzionale quello dell’Italicum. Già la soglia al 40% configura un premio di maggioranza enorme, con 340 deputati garantiti. Per di più, essendo sempre 340 i seggi assegnati alla lista vincente, il premio sarà maggiore per chi ha il 40% dei voti, minore per chi ha il 41%, e così via. Meno voti si prendono, più seggi aggiuntivi si ottengono con il premio. Un elemento di manifesta irrazionalità.
19. Ma l’Italicum garantisce che si sappia chi vince la sera del giorno in cui si vota. Un elemento di certezza.
Che nessun sistema elettorale potrà sempre e comunque assicurare. E in ogni caso la governabilità non si assicura dando un potere blindato con artifici aritmetici a chi ha una minoranza – anche ristretta – di consensi reali nel paese. Sarà pur sempre un governo al quale la parte prevalente del corpo elettorale ha negato adesione e sostegno.
20. Non è corretto censurare l’Italicum con l’argomento che apre la via all’uomo solo al comando.
Invece sì. L’Italicum prevede, come già il Porcellum, la figura del “capo”del partito. Il voto bloccato sui capilista e le candidature plurime per gli stessi capilista consentono al leader del partito di controllare in ampia misura la scelta dei parlamentari da eleggere, per la maggioranza blindata dal premio. La concentrazione del potere è indiscutibile.
21. Ma chi firma per il referendum abrogativo sull’Italicum vuole tornare al proporzionale puro di lista e preferenza, con tutti i rischi di ingovernabilità?
Niente affatto. Si vuole soltanto ristabilire una condizione politica non viziata da meccanismi elettorali costituzionalmente illegittimi. Si potrà allora scegliere – con corretta partecipazione democratica e piena rappresentanza politica – di quali riforme il paese ha bisogno, inclusa la scelta di una legge elettorale conforme a Costituzione.
22. È comunque eccessiva l’accusa di deriva autoritaria. Resta intatto il sistema di checks and balances.
Ma l’effetto sinergico della riduzione del numero dei senatori e il dominio sulla Camera assicurato dal premio rendono decisiva l’influenza della maggioranza di governo nell’elezione in seduta comune del capo dello Stato e dei membri del Csm, come anche per la Camera dei membri della Corte costituzionale o delle Autorità indipendenti.
23. Sono effetti bilanciati dal rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, ad esempio per l’iniziativa legislativa popolare.
Falso. Le firme richieste per la presentazione di una proposta di legge sono triplicate, da 50 a 150 mila. Le garanzie sono rinviate al Regolamento, e la maggioranza parlamentare rimane libera di rigettare o modificare la proposta. In altri ordinamenti, la proposta può andare all’approvazione per via referendaria, quanto meno nel caso di modifica o rigetto del Parlamento.
24. Ma il referendum abrogativo si rafforza per l’abbassamento del quorum di validità, fissato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera.
Solo nel caso che sia stato richiesto con ben 800.000 firme, tetto quasi impossibile da raggiungere in un tempo in cui i corpi intermedi – partiti, sindacati – sono indeboliti o sostanzialmente dissolti. E non si capisce perché un referendum debba avere un quorum più alto se richiesto da 500.000 cittadini e più basso se richiesto da 800.000.
25. Si prevedono i referendum propositivi e di indirizzo.
È fumo negli occhi. I referendum propositivi e di indirizzo sono solo menzionati a futura memoria nella legge Renzi-Boschi, che ne rinvia la disciplina a una successiva legge costituzionale. Tutto rimane da fare. Cosa impediva di introdurre fin da ora una disciplina compiuta? Un chiaro intento di non provvedere.
26. Si correggono gli errori fatti nella revisione del Titolo V approvata nel 2001.
Non si correggono gli errori vecchi facendone di nuovi e sostituendo alla frammentazione un neo-centralismo statalista. Ad esempio, non è accettabile che il governo passi sulla testa delle popolazioni locali nella gestione del territorio sotto l’etichetta di opere di interesse nazionale o simili. La vicenda trivelle deve insegnarci qualcosa.
27. Si semplifica il rapporto tra Stato e Regioni, che ha dato luogo a un enorme contenzioso davanti alla Corte costituzionale.
Ma non mancano contraddizioni e ambiguità,che possono tradursi in nuovo contenzioso. La soppressione della potestà concorrente in chiave di semplificazione del rapporto Stato-Regioni è ad esempio pubblicità ingannevole, perché si crea una nuova categoria di “disposizioni generali e comuni” che è difficile distinguere dalle leggi cornice della attuale potestà concorrente. E c’è anche un richiamo a “disposizioni di principio”.
28. Si rafforza lo Stato riportando a esso potestà legislative importanti.
La legge Renzi-Boschi riduce sostanzialmente lo spazio costituzionalmente riconosciuto alle autonomie. Alcuni profili potrebbero essere – se isolatamente considerati – apprezzabili. Ma il neo-centralismo statale è negativo in un contesto di complessiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica e di rappresentanza politica.
29. La de-costituzionalizzazione delle Province è un momento importante di semplificazione istituzionale.
Vale anche per le Province quanto detto per il neo-centralismo statale. Inoltre, sono un elemento marginale nell’impianto della legge Renzi-Boschi. Una parte persino non necessaria, come è provato dal fatto che la riforma delle Province è stata già da tempo avviata. Il punto dolente è il modo in cui si sta realizzando.
30. La soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) è positiva.
Vero, dal momento che il Cnel non esercita alcuna essenziale funzione politica o istituzionale. Ma la soppressione prende solo poche righe in una modifica della Costituzione per altro verso ampia e stravolgente. Bastava una leggina costituzionale mirata, che non avrebbe dato luogo a polemiche. La positività della soppressione non può certo bilanciare la valutazione negativa di tutto il resto.

« La Repubblica, 26 maggio 2016 (c.m.c.)
I Paesi europei stanno accettando e integrando i migranti nelle loro società. Dunque la mia domanda è: perché non più siriani? E, parimenti, perché non più iracheni, afgani o somali? È per una questione di razzismo? È perché si sospetta che siano un rischio per il terrorismo? Oppure non sono considerati del tutto capaci o qualificati? Queste sono domande a cui i leader europei devono iniziare a rispondere per poter superare l’emergenza profughi.
L’Europa è ben consapevole delle conseguenze a livello strutturale, con un drammatico declino demografico in Germania, Italia e Spagna, giusto per nominarne alcuni. Nel 2014, i Paesi europei hanno accolto e integrato con successo circa 2,3 milioni di profughi, riunendoli alle loro famiglie e offrendo permessi di lavoro e un’istruzione. In effetti, il Regno Unito è stato il Paese migliore nell’integrazione dei migranti, accogliendone 568.000 solo nel 2014, provenienti anche dagli Stati Uniti, dall’India, dalla Cina e dal Brasile. Ma quanti dalla Siria? Quasi nessuno. Persino il mio Paese, l’Italia, ha integrato più di 200.000 persone nel 2014. Eppure molti europei continuano a negare l’accoglienza a rifugiati e migranti causati dall’“emergenza” lungo i confini meridionali del continente.
Abbiamo bisogno di più immigrati, di tutti i tipi. Non di meno.
Una volta che i rifugiati raggiungono l’Europa, deve esserci una politica d’integrazione efficace che eviti errori passati. Bisogna investire negli alloggi, nell’educazione, nella formazione linguistica e professionale per evitare una futura alienazione o privazione. L’Europa non può permettersi di continuare il suo approccio scoordinato e miseramente inadeguato alla realtà dell’immigrazione. Il nostro fallimento nel gestire efficacemente l’ingresso e l’insediamento di rifugiati e migranti ha aggravato il problema, creando una grave crisi politica.
Nell’assenza di un piano generale per la gestione e la distribuzione dei richiedenti asilo, le nazioni europee sono andate nel panico. Molte di loro hanno installato rigidi controlli di frontiera, alla ricerca di capri espiatori.
La Grecia, che ha attraversato una lunga fase di tensione economica prima dell’attuale crisi, è stata presa di mira per aver fallito nell’identificazione e nell’alloggiamento dei rifugiati. È assurdo pretendere che il Paese si faccia carico di questo fardello da solo. L’Ue ha garantito 509 milioni di euro per il programma nazionale della Grecia (2014-2020), oltre a degli aiuti addizionali per un totale di 264 milioni, per aiutare il Paese a gestire l’afflusso di migranti. Tuttavia, alcuni stati membri non hanno pagato la loro parte. Questa mancanza di solidarietà sta aggravando la crisi e fa sì che la Grecia non abbia le risorse necessarie per identificare ogni migrante e per determinarne il diritto d’asilo. Questo processo d’identificazione richiede più operatori sociali, interpreti e giudici, che l’Europa ha promesso ma a cui non ha ancora provveduto.
Se è vero che c’è stata una mancanza di leadership in questa situazione, è altrettanto vero che alcuni interventi positivi sono stati fatti. Ad esempio, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha coraggiosamente aperto le porte ai rifugiati (o, per dirla con le sue stesse parole, si è semplicemente rifiutata di chiudere le porte). È stata accusata e criticata per “aver scelto i rifugiati”, favorendo in particolare quelli siriani per la loro tendenza a venire formati e istruiti meglio. Perlomeno ha mantenuto aperto il confine tedesco per identificare i nuovi arrivi, e vorrei incoraggiare altri stati dell’Unione Europea a seguire lo stesso esempio.
In Italia possiamo essere orgogliosi delle vite salvate grazie all’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo. Il programma ha salvato più di 140.000 persone in meno di un anno, prima che fosse ufficialmente chiuso alla fine del 2014. Stiamo continuando con le operazioni di ricerca e salvataggio su una scala molto più ridotta, grazie all’impegno della Guardia costiera italiana, delle associazioni di pescatori e delle Ong.
Una missione appropriata nel Mediterraneo dovrebbe comprendere un programma attivo di ricerca e salvataggio, seguendo il fortunato esempio di Mare Nostrum, al fine di affrontare i prossimi mesi e anni di questa crisi. Il pensiero di perdere vite in mare è assolutamente inaccettabile.
Le istituzioni europee hanno bisogno di migliorare le loro capacità di previsione per identificare i segnali d’allarme d’instabilità politica e di potenziali conflitti, e prendere iniziative adeguate per aiutare gli stati vulnerabili prima che un altro esodo di massa inizi. Un Paese a rischio è l’Algeria, caratterizzato da un conflitto sociale esteso, un sistema politico chiuso e una corruzione dilagante. Non c’è alcun successore vivente al presidente Abdelaziz Bouteflika. Considerando tutto il disordine in Libia e negli altri Paesi vicini, è lecito descrivere l’Algeria come una bomba pronta a esplodere. L’Europa non sta facendo abbastanza per prevedere e impedire un potenziale scoppio e le inevitabili conseguenze sulle migrazioni che ci sarebbero per il nostro continente.
Ci sono innumerevoli complicazioni riguardanti la crisi odierna, incluso le modalità di separazione dei rifugiati dai migranti economici. È una distinzione tanto importante quanto non sempre facile da fare. Prima di tutto, la maggior parte di queste persone arriva qui senza documenti. Uno potrebbe dire di provenire dall’Eritrea, per esempio, ma come si potrebbe stabilire se questo sia vero oppure no? In secondo luogo, come dovrebbe essere classificata questa persona, come un rifugiato o come un migrante economico? È indubbiamente molto difficile.
Possiamo costruire un sistema più razionale per affrontare le varie sfide, ma solo se prima plachiamo l’isterismo che sta colpendo l’Europa. Milioni di persone stanno sfuggendo alla guerra, alla repressione, alla tortura e alle minacce di morte. Prima di tutto, la politica dei profughi deve salvaguardare le vite umane.
È un problema globale e non limitato al Mediterraneo. Aiuta a riflettere sulle situazioni negli altri Paesi: la Tunisia ha accolto un milione di libici in una popolazione di circa undici milioni di abitanti; il Libano ha accolto più di un milione di siriani in una popolazione di circa quattro milioni di abitanti. Come può l’Europa non dimostrare lo stesso spirito generoso nel dare il benvenuto a coloro che fuggono da questi orrori?
«Nella civilissima Parma, un delitto particolarmente efferato che non sembra attirare i riflettori come altri casi simili. Forse perché la vittima è un ragazzo tunisino, torturato e ucciso per futili motivi da un commando che ha agito sotto la guida di due "insospettabili" cittadini italiani». Il manifesto, 25 maggio 2016
Nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi, una sorta di squadrone della morte, capeggiato da due individui di mezz’età, fa irruzione nel modesto appartamento di un uomo sui trent’anni. I sei, a volto scoperto, indossano guanti di lattice e sono armati di una mazza da baseball, una spranga di ferro, un martello, un tirapugni, una pinza a pappagallo, perfino un guanto in maglia d’acciaio. Non v’è dubbio alcuno, dunque, che intendano dare una lezione assai dura alla loro vittima.
Colto di sorpresa e abbandonato dall’amico ch’era in casa - forse fuggito in preda al panico alla vista dello squadrone - lo sventurato dapprima tenta di difendersi, poi soccombe alla violenza dei suoi carnefici. Così che questi, in specie i due capibanda, potranno svolgere con tutta calma l’opera di sevizie, torture, mutilazioni. Nonostante siano imbottiti, si dice, di una miscela di cocaina e alcool, eseguiranno il lavoro con meticolosità quasi scientifica: gli recidono un orecchio, gli strappano parte del naso e con la pinza gli tranciano di netto un mignolo e un alluce, che poi gettano nel lavandino.
Nella notte silenziosa del borgo risuonano le urla strazianti della vittima. Eppure per circa un’ora nessuno interviene a fermare il massacro. Infine, qualcuno dà l’allarme. Ma quando le forze dell’ordine si risolveranno a fare irruzione nell’appartamento sarà troppo tardi: il poveruomo è ormai morto. Martoriato, mutilato, dissanguato da emorragie interne ed esterne, ha patito una lunga agonia.
Ma dove diavolo siamo
Non siamo nel Cile di Pinochet o nell’Argentina di Videla, neppure nell’Egitto del generale al Sisi. Bensì, più modestamente, a Basilicagoiano, frazione di Montechiarugolo, a pochi chilometri dalla civilissima Parma, ove risiedono i due principali carnefici. Gli altri quattro della banda, operai romeni, sarebbero stati arruolati in funzione ausiliaria, per così dire. Anch’essi sono in carcere con l’imputazione di concorso in omicidio e le aggravanti della premeditazione e della crudeltà.
I due aguzzini - persone «assolutamente insospettabili», secondo le cronache locali - sono rei confessi ed è perciò che ci permettiamo di nominarli. L’uno, il 42enne Alessio Alberici, fermato la notte stessa del delitto, è un grafico e illustratore «ben noto a Parma». In quanto fumettista di un «noir d’atmosfera», lo ritroviamo, tramite la rete, tra gli ospiti «illustri» di una serata «dedicata al giallo e al mistero»: cosa che oggi suona come un terribile paradosso. L’altro, Luca Del Vasto, di 46 anni, l’ideatore della spedizione punitiva e il carnefice più spietato, è titolare di un’impresa di pulizie, ma anche gestore di un locale ben noto, il Buddha Bar di Sala Baganza: un dettaglio, anche questo, atrocemente beffardo, data l’inclinazione alla crudeltà e al sadismo di cui darà prova il barista “buddista”, che proprio all’interno di quel bar organizza il raid fatale in cui si distinguerà per le mutilazioni inflitte alla vittima.
Confinato nella cronaca locale
Nonostante questo caso non sia certo tra i più consueti e banali, è stato confinato nella cronaca locale. I maggiori quotidiani nazionali, che di solito non disdegnano la nera più truculenta, gli hanno dedicato solo alcuni pezzi nelle edizioni locali (parliamo delle versioni online). Eppure, non foss’altro che per l’efferatezza dell’assassinio, preceduto da sevizie e torture, esso presenta qualche analogia con l’omicidio di Luca Varani. E questo è stato oggetto non solo di lunghe serie di articoli di cronaca in giornali mainstream, ma anche di commenti e analisi.
Una delle ragioni di una tale sottovalutazione è facilmente intuibile. Gli ideatori e principali esecutori dell’atroce martirio avevano sì «piccoli precedenti per spaccio», ma, italiani e per di più parmigiani doc, erano considerati cittadini rispettabili. La vittima, invece, non era che un «extracomunitario»: Mohamed Habassi, di trentatre anni e cittadinanza tunisina, oltre tutto disoccupato.
Il rovesciamento dello schema privilegiato da buona parte dei media, che vuole le persone immigrate nel ruolo dei criminali, probabilmente non li ha incoraggiati a occuparsi di un tale delitto “anomalo”.
Quanto al movente, almeno quello confessato dai due aguzzini, non potrebbe essere più meschino: Mohamed non pagava la pigione dell’appartamento di proprietà della “convivente” di Del Vasto, a suo tempo preso in fitto dalla sua compagna, morta lo scorso agosto in un terribile incidente d’auto. Ma si sospetta che vi siano anche altri moventi.
Tra i posti migliori al mondo
Nel 2014 il quotidiano britannico The Telegraph ha classificato Parma al quarto posto tra i luoghi migliori al mondo per qualità della vita, sorvolando su scandali e corruzione. Comunque sia, la città del parmigiano e del Parmigianino, con la sua provincia, non ha certo portato fortuna a Mohamed, né alla sua compagna, postina di professione, lei stessa immigrata, sia pur da Trapani. E ha sorriso poco anche al loro bambino, che oggi ha sei anni: sopravvissuto all’incidente che è costato la vita alla madre, quindi gravemente scioccato, ormai orfano anche del padre, che amava molto e dal quale era altrettanto riamato.
Dopo la prima disgrazia, per decisione del tribunale, il piccolo Samir era stato dato in custodia al padre. E Mohamed, a sua volta, lo aveva affidato alle cure della nonna paterna, anche per sottrarlo a conflitti familiari e probabilmente in attesa di tornare lui stesso in patria. Il bimbo, dunque, non abita più a pochi chilometri da Parma, bensì in una località del governatorato di Tunisi. Se un giorno, divenuto adulto, fosse costretto a emigrare, chissà se aspirerebbe a tornare nella quarta città al mondo per qualità della vita.
Nonostante la vicenda di questa famiglia sia così coerentemente tragica da apparire letteraria, così struggente da non poter sollecitare altro se non commozione e pietas, e il delitto così mostruoso da lasciare attoniti, vi è chi non ha resistito alla tentazione di diffamare la vittima. L’autrice del primo articolo che Parma.repubblica.it ha dedicato al caso, invece d’interrogarsi sull’identità dei carnefici, scrive che «alcune risposte» sui «punti oscuri di questa vicenda (…) possono essere cercate nell’identità della vittima». Mohamed Habassi, infatti, «non era per nulla amato nel vicinato», cui «arrecava disturbo», tra l’altro ascoltando «musica ad alto volume». C’è da trasecolare. Se per Del Vasto è normale che non pagare la pigione possa essere punito con un tale martirio, le allusioni della giornalista rivelano nient’altro che pregiudizio verso la vittima e indulgenza verso i carnefici: Habassi se l’è cercata, in definitiva. Gli «extracomunitari» stiano attenti quando ascoltano musica: la loro vita vale così poco che rischiano d’essere suppliziati dai vicini.
Da parte del movimento antirazzista e della sinistra più “radicale”, nessuna protesta pubblica è intervenuta finora a bucare un così spesso muro di orrore, ma anche di pregiudizio e cinismo. Tuttavia, qualche piccolo barlume di solidarietà riesce a trapelare. Per esempio, alcune educatrici e altre persone che hanno conosciuto Samir in tempi migliori e lo hanno curato, protetto, amato, hanno pubblicato un appello su Parmatoday per sapere in che modo possano aiutare il bambino: «Caro piccolo, non ti dimentichiamo, ci stringiamo a te e combatteremo per un mondo in cui il denaro non valga più della vita, dell’amore, della cura verso i più deboli e i più piccoli».
Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2016, (p.d.)
Alessandro Pace ha un’agenda satura d’impegni: “Mi spiace, il tempo è scarso”. Il professore emerito di Diritto costituzionale presiede il Comitato per il No che intende bloccare la riforma della Carta. A ottobre ci sarà il referendum confermativo, ma la campagna elettorale è adesso. In piazza e sui media.
Professore, la presenza sui canali Rai del comitato la soddisfa?Mi fa una domanda ingenua, è retorica?
Anche retorica.Per la Rai siamo inesistenti. Io non mi sorprendo, non mi aspettavo trattamenti degni di un servizio pubblico aperto al dibattito. Ma la realtà supera le mie più fosche previsioni. Ho contato i secondi.
I secondi?Con i minuti facciamo troppo presto. Ascolti, le fornisco i dettagli. Il Tg3 mi ha intervistato per circa tre minuti, ma in onda sarà andato un pezzetto. Il programma Bianco e Nero su Radio1 mi ha interpellato per un paio di minuti o 120 secondi, scelga lei.
E il resto?A memoria ricordo Gaetano Azzariti a La7 da Lilli Gruber, e poi sempre a Otto e Mezzo nei prossimi giorni ci saranno altri esponenti. Ma noi parliamo di Rai, le nostre statistiche riguardano la Rai, esatto?
Sì, professore.Perché abbiamo capito che il tallone di Matteo Renzi è La7, l’unica rete che ospita le idee di chi non è schierato con il governo sul referendum. La7 fa servizio pubblico.
E che fa Viale Mazzini?Quello che fa da sempre: tutela gli interessi del governo. In questa circostanza – e mi stupisco ancora – con maggiore attenzione. Con Berlusconi c’era addirittura più spazio per le opposizioni. Oggi la situazione è peggiorata.
A chi vi appellate, come reag i te?Abbiamo scritto e riscritto al professore Angelo Cardani, il presidente dell’Autorità garante per le Comunicazioni.
Co s ’è accaduto?Niente.
Per voi il confronto pubblico fra le ragioni del sì e del no è impari?Ammetto che da un punto di vista oggettivo è una battaglia persa.
Perché, professore?In tv non compariamo e non abbiamo quattrini. Ho chiesto due pareri agli avvocati e sono riuscito a ricavare 30 mila euro dall’associazione “Salviamo la Costituzione”.
Allora è rassegnato?No, per carità. I ragazzi che incontriamo ai convegni ci trasmettono un’energia preziosa, proseguiamo con vigore, andiamo avanti. Abbiamo 285 comitati locali, l’11 e il 12 giugno lanceremo una manifestazione in cento e più città con la speranza di accelerare la raccolta delle firme. A Milano abbiamo riempito tre sale di Palazzo Marino, a Bergamo c’era gente in piedi, così pure alla Sapienza di Roma.
Ma chi se n’è accorto?Osservazione corretta: non c’era una telecamera.
E sui giornali va meglio?C’è chi ospita dei nostri interventi e chi osteggia il comitato per il no. Un cronista di un quotidiano nazionale ci ha definito “forza antisistema”. È una etichetta assurda, tremenda e, soprattutto, di una falsità eclatante. Noi difendiamo la Carta con passione, difendiamo i principi dell’articolo 138. Non possiamo tollerare degli insulti gratuiti.
L'assurda discriminazione tra chi fugge per la guerra e chi fugge per la miseria (entrambe provocate da noi), e la prospettiva di costruire campi che «sarebbero solo nuove città di disperati». LaRepubblica, 25 maggio 2016
Centri d’accoglienza aperti nel cuore dell’Africa. Rimpatri collettivi gestiti direttamente dall’Europa. Sono due i punti chiave su cui si gioca la partita del Migration compact. Il patto (proposto da Renzi il 15 aprile) prova a frenare i flussi, soprattutto africani, verso il Vecchio continente mettendo sul tavolo fino a 60miliardi di euro di investimenti. «L’iniziativa ha vari punti di forza — commenta Federico Soda, direttore dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel Mediterraneo (Oim) — dai finanziamenti ai paesi africani fino alla previsione di canali legali d’ingresso in Europa. I centri d’accoglienza in Africa invece ci preoccupano».
IL CAOS DEI RIMPATRI
Uno degli obiettivi è garantire il rimpatrio dei migranti economici. Nel 2015 gli stranieri che l’Italia ha rispedito a casa sono stati solo 3.688. Un flop figlio degli accordi di riammissione: i trattati con i quali gli Stati di provenienza si impegnano a riaccogliere i propri cittadini. Diciassette quelli stipulati dall’Ue. Per il resto ogni Stato fa da sé con accordi bilaterali. L’Italia ne ha pochi: i più importanti con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco. E senza accordi non ci sono rimpatri. La Grecia ne ha appena sottoscritto uno con la Turchia, la Spagna co l Marocco e la Francia con Camerun e Congo.
LA “DEBOLEZZA” ITALIANA
«I flussi non si fermano — avvertono dal Viminale — attendiamo tra oggi e domani oltre 3mila migranti». Non solo. Stando all’Oim, in Libia ce ne sono più di 700mila. Il nostro paese ha cominciato a stipulare accordi di riammissione nel 1996, ma non li ha con i principali paesi d’origine. Basta guardare le nazionalità: tra i 34.236 migranti arrivati via mare dal primo gennaio al 24 maggio 2016, il 14% si dichiara nigeriano, l’11% eritreo, seguono Gambia, Somalia, Costa d’Avorio, Guinea, Mali, Senegal, Sudan, Egitto. Insomma tra le prime dieci nazionalità, l’Italia vanta accordi di riammissione solo con due: Egitto e Nigeria.
IL SOCCORSO UE SULLE ESPULSIONI
Il Migration compact prevede che sia la Ue con la sua forza a trattare con gli Stati africani: finanziamenti in cambio di accordi di rimpatrio dei migranti. «Che sia l’Europa a trattare è un passo avanti — ragiona Soda — soprattutto per l’Italia, che sarà un po’ meno sola». Insomma via libera su questo punto. Non a caso sulla proposta italiana arriva anche il sostegno del direttore generale dell’Oim, William Swing.
I CENTRI D’ACCOGLIENZA
Altro cardine è l’apertura di centri di accoglienza, finanziati dall’Ue, nei paesi di transito, dove intercettare i flussi prima che arrivino in Europa. Qui si farebbe lo screening tra migranti economici e persone bisognose di protezione internazionale. Insomma, il viaggio dei rifugiati terminerà in questi centri e da lì si presenterà domanda d’asilo. «Questo piano ci preoccupa — sostiene Soda — chi gestirà i centri? Con quali standard? Di campi profughi in Africa già ce ne sono troppi. Perché aprirne altri? Il più grande del mondo è a Dadaab e il governo kenyano vorrebbe chiuderlo. La vera scommessa sono i reinsediamenti».
I RE-INSEDIAMENTI
Con i re-insediamenti i paesi Ue vanno a “prendersi” chi ha diritto all’asilo direttamente nei paesi d’origine o di transito e lo portano in sicurezza sul proprio territorio. Il reinsediamento, previsto dal Migration compact, è già nell’accordo Ue-Ankara: dal 4 aprile al 13 maggio 2016 sono 177 i siriani reinsediati dalla Turchia in altro Stato Ue. Ma per il resto il meccanismo non funziona. «Se si aprissero davvero nuovi campi nei paesi di transito africani — ragiona Soda — centinaia di migliaia di persone ci si ammasserebbero in poco tempo con la speranza di raggiungere l’Europa. Per gestirli e alleggerirli la Ue dovrebbe essere pronta a reinsediamenti di ampia scala. Se no, questi campi sarebbero solo nuove città di disperati».
Due tragedie si sovrappongono a Idomeni, carnefice l'UE: che strangola la Grecia e caccia gli esuli. «Evacuato il campo. Per migliaia di profughi svanisce il sogno di un’Europa senza confini. Le forze dell’ordine hanno circondato le tende e ordinato a tutti di salire sui pullman». Il manifesto, 25 maggio 2016
Cala il sipario sulla tendopoli di Idomeni. Laddove era tramontato il sogno di un’Europa senza confini, all’alba di ieri per i 10mila profughi rimasti intrappolati al confine con la Macedonia si è spenta l’ultima speranza di poter proseguire il loro cammino. Si torna indietro, verso la zona industriale di Sindos e Xaloxori vicino Salonicco per ora, dove alcuni ex capannoni industriali sono stati affittati e adibiti a centri di smistamento prima di procedere con il trasferimento graduale nei campi ufficiali gestiti dal Ministero dell’Interno.La capacità al momento è di 8mila posti, ci vorranno altri dieci giorni, dicono fonti governative.
Nessuna resistenza
Obiettivo primario: liberare la linea ferroviaria che collega la Grecia con il resto dell’Europa, bloccata da 66 giorni e ripristinata, verosimilmente, sabato prossimo. A tal fine, e in concomitanza con l’imminente avvio delle nuove procedure di pre-registrazione per la richiesta di asilo, già da un paio di settimane si era cominciato a persuadere i profughi affinché lasciassero volontariamente Idomeni.
Opera di convincimento intrapresa sia attraverso l’ausilio di traduttori e la messa a disposizione di un servizio di pullman diretti ai campi ufficiali, sia mediante la limitazione dell’accesso a solidali e volontari che portavano beni necessari. Le operazioni di ieri sono iniziate di buon ora e sono andate avanti per tutta la giornata. Un’evacuazione vera e propria più che uno sgombero violento, come aveva anticipato appena due giorni prima il rappresentante del Governo greco sulla questione profughi, Giorgos Kyritsis.
E così è stato. Alle 6 del mattino in venti minuti si è materializzato al campo di Idomeni un numero consistente di mezzi dell’esercito, assieme ad almeno 400 Mat, le squadre anti-sommossa greche. Si è cominciato dalla prima parte del campo.A mano a mano le forze dell’ordine hanno circondato gruppi di tende e ordinato a tutti di prendere le proprie cose e di salire sui pullman. Non vi è stata alcuna resistenza.
I metodi sono stati spicci, né violenti né accomodanti. In tenuta antisommossa, e con indosso le maschere anti-gas sebbene non ve ne sia stata necessità alcuna, la polizia non ha lasciato molte altre possibilità di scelta. Bisogna fare in fretta, vietato persino andare in bagno. Per tutta la giornata di ieri sull’autostrada verso Idomeni è stato un via vai continuo di pullman, molti dei quali, ironia della sorte, di proprietà della compagnia privata Crazy Holidays.
Ne sono giunti a decine, arrivati vuoti per poi uscire qualche ora dopo carichi di persone a bordo. Verso metà mattinata sono comparse anche le prime ruspe e qualche camion per portare via ciò che è rimasto dell’ex ultima frontiera europea: palate di terra, brandelli di tende, coperte, qualche masserizia e tutto ciò che è stato lasciato per la fretta. Eccezion fatta per i giornalisti della televisione pubblica greca Ert, che hanno trasmesso le informazioni in tempo reale dai loro canale, è stato impossibile entrare sia agli altri media sia alle Ong e ai volontari presenti nel campo negli ultimi mesi.
L’uscita dell’autostrada è rimasta presidiata da un paio di macchine della polizia, dal cielo rumoreggiava un solo elicottero. La visibilità delle forze dell’ordine è stata piuttosto discreta a conferma dell’intenzione di mantenere un basso profilo, almeno esternamente. Nessun posto di blocco e giusto qualche pattuglia lungo tutto il percorso che da Salonicco conduce Idomeni.
Scarni di parole, gli agenti posti allo svincolo del campo hanno invitato chi sopraggiungeva a rimanere sul ciglio dell’autostrada. A circa un chilometro e mezzo di distanza dal luogo dell’evacuazione sono stati lasciati corrispondenti e telecamere, per lo più puntate verso il vuoto.
Si comunica via telefono
L’unico intrattenimento è stato offerto dai clown volontari di The Flying Seagull Project, rimasti fuori anch’essi, che hanno improvvisato performance proprio davanti ai poliziotti attoniti. A chi cercava notizie non è rimasto altro che contare il numero dei pullman in entrata e in uscita e, di qui, azzardare una stima sui trasferimenti eseguiti. A metà giornata se ne sono contati 32, per un totale di circa 1500 persone. Le uniche notizie sull’andamento dell’evacuazione sono giunte via telefono ai pochi autorizzati ammessi, per lo più personale sanitario di Medici Senza Frontiere e di qualche Ong, e da chi era rimasto dentro sin da ieri per il timore di non poter più rientrare.
A evacuazione in corso, sono sbucati dalla boscaglia due siriani, sfuggiti al controllo della polizia. Prima di mettersi alla ricerca di un taxi che li portasse a Policastro, distante appena una decina di chilometri, hanno riferito di modi bruschi ma non brutali durante l’operazione di sgombero.
Il destino di chi è rimasto
Da fuori ci si interrogava intanto sul destino di chi è rimasto, su dove vengono portate le persone trasferite e di quali procedure seguiranno. Volontari e operatori di alcune Ong si sono precipitati nella zona industriale di Salonicco per verificare di persona sull’esito dei trasferimenti, sebbene l’acceso sia stato limitato per ragioni di sicurezza anche alle organizzazioni accreditate.
La televisione greca confermava nel frattempo i siti di destinazione individuati e, contestualmente, di un iniziale smistamento per nazionalità.
«Siamo arrivati come supporto e testimonianza alle porte di Idomeni e, successivamente, nei capannoni industriali dove sono stati portati i profughi. Siamo riusciti a entrare solo in due degli ex magazzini adibiti a centro di smistamento, uno con capienza di 400 e l’altro di 1000 persone», riferisce Alessandro Verona, coordinatore medico per Intersos, tra le organizzazioni umanitarie italiane operative in alcuni campi della Macedonia centrale.
«Per quello che abbiamo potuto vedere, entrambi i siti erano preparati e organizzati ai trasferimenti. I campi sono dotati di servizi base e, almeno in uno, anche di una postazione per la ricarica dei cellulari, segno che l’evacuazione era stata organizzata e non improvvisata. Abbiamo riscontrato molta stanchezza ma, tutto sommato, un’atmosfera tranquilla. Certo, lo sgombero di Idomeni non è la soluzione, così come non lo sono i campi profughi che rischiano di cronicizzare un’emergenza alla quale va trovata una soluzione di carattere politico a livello europeo».

«». Sbilanciamoci.info, 24 maggio 2016 (c.m.c.)
Partiamo da qui. La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano trasversalmente tutte le culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore.
Il razzismo attecchisce del resto facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici crisi in corso: quella economico-sociale (i cui effetti stentano a dissolversi), quella politica e quella internazionale. La tentazione di cercare un rifugio nell’egoismo, nella difesa del proprio particulare o, al più, di quello di una comunità locale o nazionale scelta per definire artificiosamente un’identità sociale di cui, evidentemente, si sente la mancanza, sta riemergendo in modo diffuso. Tanto che non solo un europarlamentare può permettersi di definire i rom come “la feccia della società” nel corso di una trasmissione televisiva popolare, ma viene sommerso dagli applausi di buona parte del pubblico presente in studio.
Gli attentati di Parigi e Bruxelles hanno gettato dunque legna su un fuoco d’intolleranza, di ostilità e di razzismo che non aveva alcun bisogno di essere alimentato. In questo clima si colloca la crisi umanitaria che dai lontani conflitti in Siria, Iraq, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Nigeria e Sudan (solo per citarne alcuni) conduce nelle città europee migliaia di uomini, donne e bambini, ammesso che riescano a evitare le navi militari e a superare i muri e i recinti di filo spinato che intenderebbero respingerli dalla Fortezza Europa.
Oggi l’attenzione è tutta rivolta alla Grecia (875mila persone accolte nel solo 2015), ma 153mila persone sono giunte nello stesso anno via mare in Italia (erano state più di 170mila nel 2014): più del doppio di quelle 62.692 persone che nel 2011 indussero il Governo Berlusconi a proclamare la cosiddetta “emergenza Nord-Africa”. Tra queste, 16.478 sono i minori e 12.360 i minori non accompagnati. Al 30 gennaio 2016 il sistema polimorfo di accoglienza pubblico aveva in carico 104.750 persone, in maggioranza ospitate nei Centri di Accoglienza Straordinari (che il Ministero dell’Interno definisce “strutture temporanee”, ma che tali non sono).
Il varo di un Piano Nazionale per la gestione dell’impatto migratorio, sancito in sede di Conferenza Unificata tra Stato-Regioni ed Enti locali nel 2014, il dibattito sviluppato in Parlamento e nel Consiglio Europeo sull’Agenda europea sulla migrazione e quello, molto spesso fazioso, dei media sui “costi dell’accoglienza” esacerbato dall’avvio dell’indagine “Mafia Capitale”, hanno ancora una volta sbilanciato l’attenzione, l’operato e le risorse pubbliche nazionali e comunitarie sul versante delle attività di gestione e controllo dei flussi migratori, di soccorso in mare e della prima accoglienza, continuando a lasciare in secondo piano gli interventi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa di quei 5 milioni di persone straniere (un milione di minori) che vivono ormai stabilmente nel nostro Paese.
Gli sforzi indubbiamente compiuti per rafforzare il sistema di accoglienza (da una capienza di circa 22mila posti nel 2013 si è passati ai più di 100mila attuali) hanno replicato alcune delle storture già presenti negli anni precedenti. Ad oggi la risposta istituzionale sembra priva di quella lungimiranza che sarebbe necessaria per gestire un fenomeno sociale, storico e strutturale che l’attuale crisi umanitaria ha reso più complesso da gestire.
«Sono convinto che più che attaccare l’Europa dall’esterno sia meglio restarci dentro, unirci agli altri gruppi di sinistra, Syriza, Podemos, alla sinistra francese, tedesca. E batterci per creare un’altra Europa più giusta». Intervista di Arianna Finos.
La Repubblica, 24 maggio 2016
Tra le ragioni dei “leave”, cioè di chi al referendum del 23 giugno voterà per la Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, c’è quella che restare nell’Ue significa fronteggiare la minaccia dell’invasione dei migranti. Contro quest’idea si scaglia, con forza, Ken Loach: «L’immigrazione è uno dei più problemi contemporanei più grandi. La Gran Bretagna di Tony Blair ha creato moltissimi rifugiati con la terribile, illegale guerra che ha fatto in Iraq insieme agli Stati Uniti. E’ iniziato tutto lì. Molta gente è stata costretta a lasciare il proprio paese e la grande instabilità economica ha causato migrazioni di persone che, se vivessero in una società più giusta e sicura, se ne starebbero a casa propria».
Alla festa sul lungomare dopo la vittoria della Palma d’oro per “I, Daniel Blake”, il regista di “Nuneaton”, 80 anni il 17 giugno, non ha smesso di spendersi per la politica che ama e la società debole che difende. Dice no a Brexit, perché sarebbe il rimedio peggiore. Bisogna lottare dall’interno, “per portare a sinistra l’Inghilterra e la stessa Europa”. Come lui la pensano 281 artisti britannici che hanno firmato un appello. «Questa Europa anti-debito e anti-migranti sta uccidendo solidarietà sociale, lavoro e ambiente. Uscirne, però, sarebbe solo l’ultimo errore».
Loach, la sua scelta di restare in Europa è dettata dalla necessità?«L’Unione europea sta facendo passi indietro, questo è un problema per tutti i britannici che stanno andando a votare. Per me, oggi, la Ue è un’organizzazione neoliberale. Subisce le pressioni delle grandi corporazioni, diminuisce le tutele per i lavoratori, attacca l’ambiente. Con il loro lavoro di “lobbing” le multinazionali perseguono i propri profitti eliminando ogni ostacolo. Interi paesi, come la Grecia e il Portogallo, vengono umiliati. Comprendo che per la sinistra sia difficile decidere: non vuole sostenere quell’organizzazione neoliberista che è oggi l’Unione, ma sono convinto che più che attaccare l’Europa dall’esterno sia meglio restarci dentro, unirci agli altri gruppi di sinistra, Syriza, Podemos, alla sinistra francese, tedesca. E batterci per creare un’altra Europa più giusta.È possibile e necessario».
Cosa potrebbe succedere in Gran Bretagna con la vittoria dei fautori dell’uscita dall’Ue?
«Il nostro governo si sposterebbe ancora più a destra. La destra estrema vuole la Brexit per aumentare il potere del mercato, la “deregulation”, le privatizzazioni ».
Anche in Gran Bretagna ci sono cittadini che fanno la fame, perdono la casa, la salute, la speranza. Il suo film “I, Daniel Blake” è un atto d’accusa al welfare britannico.
«Nel nostro paese la burocrazia statale è sempre più crudele, volutamente inefficiente. Si parla di austerità, semplicemente si vuole dare più potere alle multinazionali, rendere i lavoratori più vulnerabili».
È un ritorno all’epoca della Thatcher?
«Margareth Thatcher iniziò un percorso che ora David Cameron sta portando avanti. Quarant’anni dopo la Gran Bretagna è il paese in cui i precetti del neoliberismo sono applicati nel modo più aggressivo».
Lei ha molta fiducia nel leader laburista Jeremy Corbyn?
«Averlo alla guida del Partito laburista è la cosa migliore capitata al mio paese dal dopoguerra. Blair non era un uomo di sinistra, neppure Gordon Brown. La guerra imperialista in Iraq è una scelta di destra, come lo è dialogare con chi ragiona solo in termini di profitto. Corbyn, invece, capisce e difende i bisogni della classe operaia. Con lui potremo, finalmente, tentare di avere un vero partito di sinistra. Il Partito socialista europeo è passato alla destra, ora dobbiamo cogliere la possibilità di un cambiamento reale».
Il sindaco di Londra appena eletto, Sadiq Khan, lo sosterrà?
«L’elezione di Khan è stata una vittoria della sinistra. Ora il sindaco deve provare di esserlo, sostenendo Corbyn. Intanto è riuscito a liberarci di Boris Johnson».
“
Articoli di A. Fabozzi, A Burgio e M. Villone sulle mosse di Renzi. Ciò che stupisce di più non è il sempre più grossolano e protervo adoperare ghli strumenti ci ,enzogne, camuffamenti e svisamenti dellarealtà cpmiuti dal lesder delPD, ma il fatto che a molte brave persone ancora restino all'interno di quella formazione. Il
manifesto, 24 maggio 2016
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ROFESSORI PER IL SI,
ECCO IL LISTONE
di Andrea Fabozzi
«Riforme. 184 nomi favorevoli alla riforma costituzionale. Non tutti costituzionalisti, e neanche giuristi. Quel che conta è fare numero. Ma nemmeno loro se la sentono di difendere l’incrocio con l’Italicum»
Anche Renzi ha i suoi professori. È comparso ieri – sul sito della campagna governativa per il Sì al referendum costituzionale – un appello di docenti favorevoli alla riforma. È un contrappello e una prova di forza. Se infatti erano 56 i costituzionalisti raccolti da Onida e Cheli che un mese fa si sono pronunciati per il No, e sono una decina i costituzionalisti del comitato del No, quelli del Sì messi insieme dai professori Caravita, Ceccanti, Fusaro e Ciarlo sono ben 184. Non sono però tutti costituzionalisti, e nemmeno tutti giuristi: ci sono filosofi, storici, economisti, tributaristi, sociologi. Non sono neanche tutti professori ordinari, nell’elencone che chiama al sì ci sono diversi associati e ricercatori. Un buon segnale, dal punto di vista della partecipazione alla vita pubblica dei più giovani. Ma anche un’innovazione nel galateo universitario, in base al quale è generalmente ritenuto più corretto non far schierare i docenti che devono ancora superare un concorso. E che dunque saranno giudicati da accademici che hanno aderito all’una o all’altra cordata.
Buona parte delle firme di questo nuovo appello provengono da quelle raccolte già due mesi fa dal professor Caravita, costituzionalista della Sapienza di Roma, in calce a un appello che non si schierava ancora né per il Sì né per il No. Ma si presentava, allora, come un invito a non personalizzare la partita del referendum e a favorire «un voto informato e consapevole». La nuova lista dei professori per il Sì contiene nomi noti – Bassanini, Panebianco, Treu, Salvati, Tabellini – e si apre con la firma di Salvo Andò. Socialista, già ministro della difesa del governo Amato, compare come docente dell’università Kore di Enna, della quale è stato rettore, anche se le cronache raccontano di una sua estromissione (seguita dal commissariamento della fondazione).
Come tutti gli appelli, si legge più per le firme che per il testo. Che del resto è assai simile al contenuto dei documenti governativi. Ma è interessante il passaggio sulla nuova legge elettorale, che evidentemente anche i sostenitori del Sì fanno fatica a difendere. Si raccomanda infatti agli elettori di votare al referendum pensando solo alla riforma costituzionale e non all’Italicum, che in ogni caso sarà soggetto al vaglio della Corte costituzionale. E poi si truccano un po’ i conti, si dice che in fondo questa nuova legge maggioritaria concede al vincitore un vantaggio di soli 24 seggi. A prima vista una smentita totale dei tanti allarmi lanciati in questi mesi da chi vede nell’Italicum un sistema per blindare la maggioranza, alla quale vengono regalati 340 seggi. Il calcolo dei professori per il Sì è fatto immaginando che tutto il resto del parlamento, i 290 deputati residui – e dunque in ipotesi grillini, leghisti, sinistra radicale e berlusconiani – si comporti come un blocco unitario. E anche in questo caso, la differenza tra 340 seggi e 290 fa 50. Ma, ecco il sofisma, se 26 di questi senatori di maggioranza passassero a votare con l’opposizione, potrebbero rovesciare il governo. Dunque la maggioranza è di soli 24 deputati. Fuori dal sofisma, le simulazioni dimostrano che con l’Italicum chi vince al ballottaggio di un solo voto, anche avendo raccolto il 20% al primo turno, avrà circa 230 deputati in più rispetto al secondo partito.
Nel frattempo il governo è ancora impegnato nella sua polemica con L’Associazione nazionale partigiani, colpevole di aver deciso al congresso (300 voti contro 3 astenuti) di invitare a votare No al referendum. Come del resto aveva già fatto nel 2006, contro la riforma Bossi-Berlusconi (appoggiata invece da alcuni dei professori che oggi sono schierati per il Sì a Renzi), in quel caso senza polemiche. Dopo che la ministra Boschi ha spiegato in tv come riconoscere i «veri» partigiani (sono quelli schierati per la riforma, e ce ne sono), il presidente del Consiglio Renzi ha corretto il tiro: «Quella dell’Anpi è una posizione legittima, ci sono veri partigiani che voteranno Sì e che voteranno No e noi abbiamo rispetto per tutti». Segue un triste censimento di ex combattenti, tutti naturalmente assai anziani, schierati con l’una e con l’altra parte. Che raggiunge lo scopo: limitare l’impatto negativo della notizia che l’associazione più importante dei partigiani ha deciso, con una discussione e un voto, di bocciare la nuova Costituzione.
L’operazione non finisce qui, perché la propaganda del Pd ha arruolato con il Sì Pietro Ingrao – notoriamente favorevole al monocameralismo, ma in tempi di legge elettorale proporzionale – e Nilde Jotti – che una dirigente Pd ha recentemente rivisto nella figura della ministra Boschi: tra due giorni in un convegno a Piombino è in programma la reincarnazione. Alla propaganda ha replicato Celeste Ingrao, prima figlia di Pietro: «Gira una foto di papà con appiccicato sopra un grosso Sì e il simbolo del Pd, prendendo a pretesto frasi pronunciate in tutt’altro contesto e avendo in mente tutt’altra riforma. Se, come si usa dire ora, bisogna metterci la faccia, allora ci mettano la loro e quella dei loro ispiratori».
SE RENZI ALZA
LA BANDIERA DEL PCI
di Alberto Burgio
Se il buon giorno si vede dal mattino, l’avvio della campagna referendaria lascia prevedere cinque mesi di violenza verbale, di forzature, menzogne e abusi di potere di cui proprio non si sentiva il bisogno.
Non si era ancora spenta l’eco dei nuovi editti bulgari all’indirizzo di giornalisti non ossequiosi, che è scoppiata quest’altra penosa grana. Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao e Nilde Jotti variamente arruolati tra gli antesignani della «riforma» renziana. Non certo perché davvero lo si creda, che discorsi. Ma perché può servire, se non altro, a confondere le acque e le carte.
Naturalmente chi ha a cuore la buona memoria del Pci e dei suoi dirigenti storici ha subito reagito e puntualizzato. La questione potrebbe con ciò considerarsi chiusa, almeno in punto di diritto. Ma forse vale la pena di dedicare qualche minuto a quello che episodi del genere rivelano o confermano. E, appunto, fanno presagire.
In primo luogo, perché questa scelta, perché queste figure?
È ovvio che, chiamando in causa emblemi del «vecchio Pci», i propagandisti del Sì sperano di convincere l’ala sinistra dell’elettorato democratico, in sofferenza per lo sgangherato protagonismo renziano e per le politiche padronali del governo, oltre che per il merito di un pateracchio che minaccia di trasformare la repubblica parlamentare in un regime iper-presidenzialistico.
Si dirà: è la logica della propaganda. Vero. Ma c’è propaganda e propaganda, come c’è argomento e argomento. Questo uso della propaganda politica è odioso proprio perché, come si diceva, punta a disinformare e a fuorviare. Odioso, ma anche utile: una misura fedele di che cosa è diventata la politica oggi, nell’Italia del renzismo trionfante.
Si fa una cosa di destra, che più di destra non si può. Si pongono le premesse per una dittatura della premiership sfigurando la Costituzione e agganciandola a una legge elettorale che consegna i pieni poteri al Capo del partito di maggioranza relativa (una esigua minoranza del paese). Ma al tempo stesso la si camuffa da cosa di sinistra, per raggirare qualche milione di disinformati.
Di più. Mentre si medita di disegnare le istituzioni della Repubblica in forme consone allo strapotere delle oligarchie vicine al capo del governo, si agitano i volti di personaggi della storia repubblicana che incarnano valori antitetici. Il rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica. La concezione partecipata della democrazia. L’appartenenza alla storia e alla cultura di quel movimento operaio che si considera un’anticaglia e un fastidioso residuo del tempo che fu. Una perfetta vergogna.
Spiace in tutto questo soprattutto l’abuso dell’icona di Enrico Berlinguer, chiamata in causa direttamente dal presidente del consiglio, come già fece qualche tempo fa Veltroni, altro campione dell’americanismo italiota. Avesse se non altro buon gusto, Renzi non si sarebbe permesso di scomodare un uomo che mai avrebbe fatto del proprio partito una macchina da guerra contro il mondo del lavoro e contro il sindacato.
Ma si capisce, per chi vuole vincere a tutti i costi non è semplice resistere alla tentazione di sfruttare l’immagine di chi non può difendersi. Propaganda, sì: ma di infimo ordine. O piuttosto irrisione e presa in giro. Conforme, del resto, a tutto uno stile di governo.
Veniamo infine ai due argomenti che Renzi si è inventato per dare forza alle proprie esternazioni in giro per l’Italia.
Se prevale il No, sostiene, vince l’ingovernabilità e trionfano gli inciuci. Quindi oggi, visto che la bella «riforma» non è ancora in vigore, l’Italia non sarebbe governata? Per certi versi in effetti è così, dipende dall’idea che si ha del governo e del buongoverno. Ma evocare il caos si inscrive a pieno titolo nella categoria del terrorismo mediatico per la quale valgono le considerazioni precedenti.
Quanto agli inciuci, forse è questa l’unica punta di paradossale verità in questa fiera della mistificazione. Lui, che sistematicamente impone alle Camere la propria volontà grazie al soccorso verdiniano, sembra voler dire – o dire suo malgrado – che simili mezzi – simili inciuci, appunto – imperverseranno, finché siederà a Palazzo Chigi, a meno che non gli si consegnino tutte le chiavi del potere con la sua «riforma».
In altri termini: bisogna «dire sì», come ai bei tempi delle adunate oceaniche, giusto per rendere superfluo lo sconcio al quale siamo costretti ad assistere. Non per «cambiare verso», solo per dare al Capo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo.
La morale di questa storia è tutta politica, oltre che morale. Il renzismo si riduce a un binomio: strapotere delle lobbies e uso spregiudicato – compulsivo e mendace – della comunicazione (con la zelante complicità dei giornali «perbene»). Per i prossimi mesi questa miscela tossica minaccia di pervadere la sfera pubblica. Contrastarla sin d’ora – oltre che prepararsi a bocciare sonoramente la controriforma della Costituzione – è indispensabile per scongiurare l’inquinamento irreversibile della politica italiana.
ALL'ANPI LA RIFORMA NON PIACE
E RESISTE
di Massimo Villone
«Riforme. La scelta del No arriva dopo una discussione lunga e complessa, con un dibattito vissuto anche nella stagione congressuale. L’aggressione renziana è segno di difficoltà»
Adesso sappiamo che se vince il no nel referendum costituzionale se ne va anche la Boschi. Il piatto diventa davvero interessante: due al prezzo di uno.
Monta la preoccupazione a Palazzo Chigi. Si alzano i toni, si aggredisce chi non si allinea, si lancia la coscrizione obbligatoria di sostenitori non si sa quanto convinti. Da ultimo, 70 senatori scrivono all’Anpi una lettera aperta, affiancandosi alla frase della Boschi sui «veri partigiani» che votano sì. Non accade certo per caso: è una strategia di provocazione verso un’associazione che è ad un tempo un pezzo di storia del paese e un’icona della sinistra, e non prende ordini da nessuno.
Non sapevamo che ectoplasmi senatoriali fossero in grado di parlare. In realtà i senatori firmatari sono la prova che almeno per una parte Renzi ha avuto ragione. Se una rottamazione riesce, allora andava fatta, perché era meglio comunque liberarsi del fradicio su cui si è abbattuta. E i 70 senatori ne sono la prova. Come possono parlare all’Anpi di una democrazia piena ed efficace, quando hanno approvato una riforma costituzionale e una legge elettorale che la ridurrebbero a un teatrino di comparse pronte all’omaggio servile? Siamo lieti che i senatori protagonisti dello scempio siano rottamati e ancor più per il futuro rottamandi. D’altronde, su quale seguito e consenso popolare potrebbero più contare?
Ma proprio per questo siamo contrari al senato di Renzi, che lo vuole riempito di personaggi non migliori, ed anzi peggiori. Gli è sfuggito, nella foga del discorso a Bergamo, un richiamo alle mutande verdi comprate con i soldi pubblici. Peccato non abbia colto l’ironia: secondo la sua riforma proprio gli acquirenti delle mutande – come tutti ricordano, consiglieri regionali – sarebbero domani elevati alla dignità del seggio senatoriale. E avrebbero la copertura delle prerogative parlamentari anche per l’acquisto delle anzidette mutande.
La politica alla Renzi la conosciamo ancora prima del voto sulla riforma. È la junk politics – la politica spazzatura – tipica degli Stati uniti. La vediamo proprio in questi mesi di primarie per la presidenza. E l’atteggiamento e il linguaggio di Renzi e dei suoi sostenitori sono un buon esempio di “trumpismo” all’italiana. La stessa propensione all’invettiva, all’insulto, alla derisione quando non alla denigrazione dell’avversario. La stessa avversione per il ragionamento e il pensiero intelligente.
L’Anpi è giunta a definire l’atteggiamento sulla riforma e sui referendum attraverso un dibattito lungo e complesso. Un dibattito che è vissuto anche in una stagione congressuale. Le ragioni dei favorevoli e dei contrari hanno avuto modo di svolgersi in un confronto pienamente democratico, e la maggioranza favorevole a difendere la Costituzione è stata ampia. È confluita in essa la consapevolezza che un momento storico decisivo per l’Italia si è trasfuso nella Costituzione, che ha definito e definisce ancora oggi l’identità del paese, nei suoi elementi essenziali di paese moderno e democratico. La sgangherata legge Renzi-Boschi, unitamente all’altrettanto sgangherato Italicum, attacca quella identità. Ed è del tutto ovvio e naturale che una associazione come l’Anpi, per quel che è e quel che rappresenta, si schieri a difesa. L’Anpi, non i pochi pezzi di essa renziani a prescindere.
La frase della Boschi segnala la rabbia per la disobbedienza di chi si vorrebbe subordinato e servo. Noi siamo per l’Anpi che decide di resistere, come siamo per i magistrati che vogliono prendere posizione in difesa della Costituzione. E ancora siamo per i professori autorevoli che decidono di parlare contro le cattive riforme, senza farsi intimorire da quelli che si arruolano nelle truppe del premier nella qualità di giovani di belle speranze. A questi facciamo comunque i migliori auguri di successo per una brillante carriera. Ci permettiamo solo un consiglio: studino la vasta letteratura sulla intrinseca fragilità del potere personale, per dato genetico destinato a durare poco. Gli ultimi che pensavano di durare mille anni sono finiti male.
Renzi deve farsene una ragione. C’è un pezzo di Italia che la sua Costituzione proprio non la vuole. La legge Renzi-Boschi è il peggior prodotto che decenni di dibattiti abbiano mai visto, per il banale motivo che il manico non era buono. Si poteva fare meglio? Certamente, cambiando in profondità ma senza scivolare in una deriva di potere personale e cerchi magici. Gli atti parlamentari sono pieni di proposte. Si poteva con soluzioni efficaci e condivise risparmiare di più e mantenere il senato elettivo, superare il bicameralismo paritario, rafforzare l’istituzione parlamento, ampliare la partecipazione democratica, consolidare il sistema di checks and balances, riequilibrare il rapporto Stato-Regioni. Bastava leggere, ascoltare, riflettere.
Invece l’arroganza di Renzi ora ricatta e spacca il paese. E che gli varrebbe vincere il referendum per una manciata di voti? Ne uscirebbe comunque indebolito lui, e ancor più la sua costituzione. Per questo è nell’interesse del paese che perda. E se volesse rimanere in carica dopo la sconfitta del sì, non avremmo nulla in contrario. Gradiremmo solo che decidesse, da qui a ottobre, se vuole fare lo statista, o il faccendiere di Palazzo Chigi.
TComune.info, 23 maggio 2016L’era Thatcher comincia a declinare? Il consenso di cui godeva l’ideologia neoliberista negli anni Ottanta e Novanta entrò in crisi a Seattle nel 1999. Negli anni successivi al 2008 la fede nel Mercato è rapidamente crollata: oggi solo i lupi della classe finanziaria esaltano l’autoregolazione perfetta del capitalismo assoluto e solo gli imbecilli ci credono. Dopo il gigantesco intervento con cui i governi di tutto il mondo dopo il 2008 hanno gettato nella disperazione e nella miseria milioni di persone per salvare il sistema bancario, la maggioranza della popolazione sa che l’assolutismo finanziario è una trappola mortale anche se non sa come se ne possa uscire.
Poiché talvolta la disperazione sconvolge la ragione, ecco che forse inizia l’epoca Trump. Cerchiamo di descriverne le linee generali: il cervello sociale è stato sequestrato dall’astrazione tecno-finanziaria, e il corpo della società scollegato dal cervello si dibatte come un gigante idiota che mena colpi devastanti contro se stesso. Per analizzare il viluppo di ignoranza cinismo e irragionevolezza che sta emergendo, siamo costretti a usare una parola che fa orrore. Il concetto di «razza» è destituito di ogni fondamento scientifico, ciononostante nell’inconscio contemporaneo esplode con forza mitologica. Negli Stati Uniti d’America l’elezione di un presidente nero ha messo in moto da tempo nell’inconscio collettivo una reazione che oggi prende forma intorno alla figura di Donald Trump. Nei paesi occidentali sono all’opera le dinamiche dalle quali nel ventesimo secolo scaturì il fascismo, ma troppi aspetti del contesto tecnico, mediatico e produttivo sono mutati rispetto al Novecento perché la parola fascismo possa esprimere a pieno quel che sta accadendo. Può la parola «trumpismo» definire la tendenza che va emergendo a livello globale?
Nomen est omen: la parola «trump» in inglese significa diverse cose: briscola, carta vincente, e come verbo significa sconfiggere, travolgere, e anche ingannare. E per finire significa scoreggia, o peto se preferite. Credo che abbiamo trovato il modo per definire il fascismo che viene. Violenza, ossessione identitaria, razzismo e guerra, come il fascismo del secolo passato, moltiplicato però dalla potenza dei media. Ecco la carta vincente che sta travolgendo le difese della civiltà. Sarà una scoreggia che ci seppellirà?
L’era Trump è segnata da un ritorno della corporeità: una corporeità decerebrata. L’impoverimento della classe operaia bianca e l’impotenza della politica, insieme alla frustrazione del maschio bianco cui la birra ha gonfiato lo stomaco e stordito il cervello, hanno risvegliato il razzismo nascosto nel profondo del corpo idiota della popolazione occidentale. Il declino della razza bianca fu percepito da Arthur de Gobineau (autore dell’Essai sur l’inégalité des races humaines, 1855), come tendenza cui si doveva secondo lui reagire proteggendo la razza dei dominatori dall’assedio delle razze sottoposte al dominio del colonialismo.
Sulle tracce di Gobineau, nel secolo ventesimo il Nazionalsocialismo organizzò la paura aggressiva della razza bianca: l’attacco finanziario scatenato dalla Francia e dall’Inghilterra contro la Germania sconfitta aveva impoverito la classe operaia tedesca. Hitler si rivolse agli operai tedeschi immiseriti e disse loro: non appartenete a una classe sociale sfruttata, ma a una razza superiore che le razze inferiori stanno aggredendo. Gli ebrei sono i più pericolosi perché si sono infiltrati tra di noi e stanno erodendo dall’interno la superiore nostra civiltà, si sono impadroniti delle banche e le usano per rovinarci economicamente, poi apriranno la porta ai comunisti e ai negri. Sounds familiar? È quello che oggi sta ripetendo un fronte unito che va dal russo Putin al polacco Kazinski all’ungherese Orban all’italiano Salvini alla francese Le Penall’austriaco Hofer all’americano Donald Trump, discendente del Ku Klux Klan e truffatore miliardario.
Non sappiamo al momento se questo individuo sarà presidente della più grande potenza militare del pianeta, io tendo a pensare che non lo sarà. La persona che rappresenta la dittatura neoliberista è destinata forse a vincere le elezioni di novembre, ma questo non distruggerà la forza del gigante decerebrato. L’era della reazione bianca è cominciata da quando la classe operaia è stata sconfitta insieme all’internazionalismo e alla ragione umana.
Il globalismo liberista e l’anti-globalismo razzista sono i due attori della scena che si delinea all’orizzonte del nostro tempo. Il globalismo liberista ha generato le forze del trumpismo anti-globale, ma ora questi due attori divorziano in modo violento e tra loro si scatena una guerra. L’antiglobalismo trumpista (o nazismo della razza dominatrice) si nutre e si allea obiettivamente con il suo apparente nemico: il fascismo delle razze dominate, il terrorismo islamista, il nazionalismo castale induista, il narco-machismo messicano…
Esiste un terzo attore, capace di rappresentare l’autonomia della società e la forza progressiva dell’intelligenza? E come può manifestarsi, emergere, organizzarsi? Quale strategia possiamo elaborare per sopravvivere all’incombente guerra civile planetaria? Come possiamo prepararci al dopo?
Il terzo attore si è presentato sulla scena delle elezioni nord-americane. La schiacciante maggioranza dei ventenni – la prima generazione connettiva, coloro che hanno imparato più parole da una macchina che dalla mamma – ha votato per un vecchietto che si autodefinisce socialista e predica ai passeri che si fermano ad ascoltarlo prima di svolazzare.
Perché i ventenni staunitensi fanno questo? È chiaro che Sanders non sarà presidente degli Stati Uniti. Il capitalismo americano può tollerare un fascista scoreggione che mobilita gli operai bianchi sconfitti, ma non un socialista colto e gentile. Questo è chiaro. E allora perché i giovani votano per lui? Io credo che la motivazione di milioni di giovani che votano per Bernie sia prima di tutto etica ed estetica. A loro fanno pena, e anche un po’ ribrezzo, quei loro genitori cinquantenni che hanno vissuto la vita piegati dall’arrivismo, dalla competizione e dal cinismo. Non vogliono essere così. Non vinceranno queste elezioni ma nel prossimo decennio, mentre il mondo si fa sempre più scuro, diverranno i quadri della Silicon Valley globale, saranno i cervelli che muovono il mondo. E nel frattempo imparano l’amicizia tra ingegneri e poeti e si preparano a sabotare, smantellare e riprogrammare la macchina globale. Perché questo è il solo modo per liberare il mondo dalla violenza di Thatcher e di Trump.
Ammesso che fra dieci anni il mondo ci sia ancora.

La Repubblica
, 24 maggio 2016 (c.m.c.)
Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.
Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.
Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?
Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.
Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.
La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.
Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.
Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.
Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.
Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.
E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.
Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.

«Una bella sorpresa dalla vecchia Europa. La prima conclusione è che la cultura non è una merce e non si lascia per sempre vendere e comprare».Il manifesto
Sa il cielo se abbiamo bisogno di buone notizie, così tanto che quando arrivano si tende a non crederci. Invece è successo: dopo che l’estrema destra in crescita da tempo aveva stravinto il primo turno delle politiche, sembrava che si dovesse aggiungere l’Austria al novero dei paesi che in Europa virano verso la destra estrema, sia i democratici paesi del Nordeuropa sia i paesi dell’ex blocco sovietico. C’è ben poco di allegro, la situazione spinge ad abbandonare l’Europa a un destino regressivo verso le nazionalità, merce pericolosa che tende a degenerare in nazionalismo, localismo egoistico, razzismo.
I politologi faranno analisi più sofisticate analizzando i flussi elettorali impazziti e le giravolte di massa avvenute in poche settimane, ma noi intanto ci freghiamo le mani, tiriamo un sospiro di sollievo: e lasciateci essere per un momento umani e umane, prima di rimetterci la corazza austera e neutrale degli osservatori “scientifici” che non ci azzeccano mai.
Qualcosa deve essersi guastato negli strumenti conoscitivi dei quali ci serviamo, non ci avvisano per tempo, non ci indicano la direzione, non prevedono né sviluppi né cadute e dopo ricominciano a fare conti calcoli e sondaggi. Credo che il pasticcio politico nel quale stiamo dipenda in parte notevole dal fatto che quasi non c’è più la cultura politica, ma sondaggi e statistiche molto simili a quelle che servono ai mercati su che cosa vende e che cosa comprare.
La prima conclusione è che la cultura non è una merce e non si lascia per sempre vendere e comprare. E la prima conclusione attiva è che nella vecchia Europa girano semiclandestine a voce bassa, un po’ tristi e un po’ speranzose, un po’ avvilite e un po’ rivendicative cose avanzate dalle culture che poco tempo fa ancora la governavano, la mettevano in riga, segnavano i margini delle strade.
La bella sorpresa austriaca dunque ci dice che periodizzare col termine modernità giova poco e che spinge alla superficialità violenta del mercato. Non si tratta di riproporre il catechismo marxista e la rigidità del passato, però qualche ripasso contro l’ignoranza che cancella la memoria e azzera le lezioni della storia, se ce la facciamo, seno anche solo la cronaca.
Ad esempi Hollande non è molto credibile come uomo di sinistra limpida e contro il suo governo le lotte riprendono e durano, la situazione in Spagna è in movimento, la Grecia ripercorre testardamente il suo momento di epifania (rivelazione) e ci avverte che privato Pericle lo chiamava idiotes, cioè idiota e che il linguaggio pesa, le parole sono pietre diceva giustamente Primo Levi.
Conclusione (provvisoria): abbiamo perso, ci siamo lasciate derubare di una preziosa stagione prerivoluzionaria nel mitico ’68. Vi pare che possiamo ripetere quella enorme sciocchezza? Sarebbe da vergognarsi. Proviamo allora, almeno proviamo.
È un po' malvolentieri che pubblichiamo questo articolo, dato il rispetto che abbiamo per l'autore. Ma ci sembra utile farlo, aggiungendo, in calce la nostra opinione. Riassumibile in una frase: non è giusto essere equanimi tra il lupo e l'agnello. La Repubblica, 23 maggio 2016, con postilla
Si è colti da un forte senso di straniamento di fronte ad alcuni toni e accenti, sia pur marginali, del dibattito di questi giorni. Marginali, certo, ma da rimuovere al più presto dal percorso che attende il Paese sino al referendum sulle riforme costituzionali. Com’è possibile contendere su come voteranno, o come voterebbero, il prossimo ottobre coloro che hanno combattuto il fascismo e il nazismo più di settant’anni fa, in una Resistenza ampiamente plurale? È possibile dimenticare che proprio questa pluralità fu la forza di quel momento straordinario della nostra storia? Parteciparono anche i monarchici a quella stagione, e vi contribuirono in più forme anche molti che non voteranno poi per la Repubblica il 2 giugno del 1946: eppure l’Anpi, la principale Associazione nata da quella esperienza e impegnata a rinnovarne il messaggio, ha fatto una scelta netta e vincolante per il No nel referendum di ottobre.
Un referendum che riguarda — occorre ricordarlo — quella parte della Costituzione che attiene al funzionamento dello Stato, non ai principi fondativi. Forse la discussione doveva rimanere all’interno di quella Associazione ma non c’è da stupirsi troppo se sono fioccate le risposte polemiche di chi in quella riforma crede, come molti senatori del Pd. E certo il ministro Boschi poteva evitare di interpretare la volontà di “molti partigiani, quelli veri, quelli che hanno combattuto la Resistenza, non le generazioni successive”: non ne avvertivamo davvero il bisogno.
Sul versante opposto Giorgia Meloni candidata a sindaco di Roma per il centrodestra (per l’ala di destra del centrodestra, a voler essere precisi) - si impegna a dedicare una strada della Capitale a Giorgio Almirante in caso di vittoria: e costringe la comunità ebraica a ricordare il ruolo che egli svolse nel giornale-guida del razzismo italiano, “La difesa della razza”. Della esternazione elettorale di Giorgia Meloni non sarà lieto neppure Matteo Salvini, probabilmente: e figuriamoci il vecchio Bossi, che quando litigava con Berlusconi gli rimproverava lo “sdoganamento” degli eredi del fascismo (cosa pensi su questo Alfio Marchini non si sa, è impegnato ad evocare il Mussolini urbanista e alla titolazione delle strade non è ancora arrivato). Se questo è il clima possiamo attenderci di tutto: magari qualcuno domani trarrà dagli archivi degli anni settanta le denunce contro il “fucilatore Almirante”, con annessi bandi della Repubblica di Salò. Siamo un Paese davvero strano: troppo spesso immemore della propria storia e troppo spesso pronto a utilizzarla come una clava (e quasi sempre fuori luogo).
Per favore, ritorniamo all’impegno centrale che abbiamo di fronte: decidere se settant’anni dopo vogliamo o no riscrivere la seconda parte della Costituzione guardando al futuro. Riflettendo sulla crisi della nostra democrazia e al tempo stesso sui rischi possibili quando si mette mano a modifiche pur invocate da decenni. Quando si affrontano questioni segnalate già nel dibattito alla Costituente, non occorre neppur ricordare il Berlinguer del 1981 (ma magari neanche dimenticarlo, se appena è possibile). I nodi veri sono legati al difficile e incerto operare di meccanismi istituzionali inediti, o al nesso fra la riforma costituzionale e la legge elettorale (nodi meglio comprensibili, com’è ovvio, se si evitano le grida sulla Costituzione stracciata). Non pochi interventi di qualità stanno realmente andando in questa direzione, pur sostenendo tesi differenti: talora accentuando la contrapposizione e talora invece lavorando per renderla meno aspra, come osservava ieri su queste pagine Andrea Manzella. È l’unica strada possibile, e anche queste polemiche fuori stagione ci aiutano a ricordarlo. Ci segnalano l’urgenza di recuperare uno sguardo sul futuro e un senso comune di appartenenza. Uno “spirito costituente”, in altri termini: oggi il compito può apparire quasi impossibile, come ci ha ricordato Michele Serra con la sua amara (e purtroppo fondata) ironia, ma va perseguito con ogni forza.
postilla
Gettare secchi d’acqua su un incendio è certamente cosa buona e giusta, equa e salutare. Ma non ha altrettanti pregi mettere sullo stesso piano chi ha appiccato l’incendio e chi ne è vittima. Le critiche alla riforma costituzionale promossa da Matteo Renzi furono, dall’inizio e fino a oggi, tutt’altro che incendiarie: erano e sono puntuali analisi del merito. Ed essendo analisi serie, non osservano solo l’oggetto in sé (l’articolato della legge di modifica della Costituzione) ma il quadro complessivo nel quale esso si pone: sul piano dei contenuti (per esempio il rapporto con l'Italicum) e su quello delle procedure (per esempio il rapporto tra governo e parlamento, - e quel parlamento). Non è certo da Zagrebelsky o Azzariti, da Carlassara o Villone, da Rodotà o Pace, da Tocci o Ferrara, da Bonsanti o Urbinati che sono partiti gli schiaffi e gli insulti - e le plateali menzogne, come quella che sarebbe per merito di Matteo Renzi, e non per obbligo costituzionale, che si va al referendum. Quindi, per favore, non ci si sforzi di essere equanimi ad ogni costo, sfidando la verità e la giustizia - come ci sembra abbia fatto questa volta uno storico che fino a oggi abbiamo stimato molto.
Naturalmente non ci riferiamo alle critiche che vengono dalla destra. Ma ci vuole un bel coraggio a mettere il nome di Meloni apparentato a quelli che abbiamo allineato qui sopra, come fa Crainz. Così come ci sembra del tutto incomprensibile (se non segno di accecata faziosità) mettere a confronto la forte tensione unitaria che l'Anpi richiama come matrice della nostra vigente Costituzione, con le lacerazioni profonde - e il totalitarismo - che hanno contrassegnato tutta la vicenda della riforma renziana.
Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2016 (p.d.)
Quaranta anime sparse per la campagna del Mugello. La Chiesa e il cimitero. La parrocchia minuscola appoggiata sul monte Giovi a quasi 500 metri nel Comune di Vicchio. Né acqua, né luce. Per raggiungerla, una strada di sassi. Questa era Barbiana quel 7 dicembre del 1954 quando arrivò Don Lorenzo Milani mandato dalla curia Fiorentina per punizione.
Il prete-maestro che di sé diceva: “Non sono un sognatore e un politico:io sono un educatore di ragazzi vivi, e educo i miei ragazzi vivi a essere buoni figlioli, responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani”. In nove anni, fino a quando una leucemia lo ha strappato alla vita a soli 44 anni, ha trasformato Barbiana in cattedra della povertà.
Il suo pallino era l’istruzione, combattere l’analfabetismo dei figli dei poveri per renderli liberi. La prima pietra fu proprio la scuola. Tempo pieno dalle otto del mattino fino al calar del sole dove si faceva educazione “per tutti e partecipata da tutti per imparare la partecipazione attiva nella scuola, nella vita pubblica, nella politica, nel sindacato”.
Pastorale e filosofia. Un’esperienza rivoluzionaria che Don Milani descriverà nel libro Lettera a una professoressa.“Dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l’umanità va avanti”. E ancora: “Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola”.
Rivolgendosi ai suoi alunni diceva: “Voi non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttate come disperati sulle pagine dello sport. È il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”.
Appena arrivò disse: “Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori, perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette”. La cultura che “non è solo possedere la parola, esser messi in condizione di potersi esprimere, di poter mettere a disposizione di tutti quello che noi abbiamo ricevuto: è anche appartenere alla massa ed essere consapevoli di questa appartenenza”.
A parlardi di lui è Giancarlo Carotti, uno dei primi sei alunni che varcarono la soglia della scuola. Oggi settantunenne, padre di due figlie, nonno di tre nipoti, il quarto in arrivo, è stato per una vita operaio metalmeccanico e da pensionato torna a Barbiana per dedicarsi alla Fondazione. Qui in sei anni sono arrivate 850 scolaresche e ogni anno, percorrendo il Sentiero della Costituzione, salgono diecimilapersone. Una sorta di via crucis laica nel bosco con quarantacinque stazioni, ognuna è un articolo della Costituzione italiana illustrato con i disegni dei ragazzi di diverse scuole d’Italia. Un giorno un ragazzo di solida famiglia cattolica chiese a Don Milani: “Ma lei insegna anche a lui che è comunista e dichiarato nemico della Chiesa? Io gli insegno il bene –rispose – gli insegno a essere un uomo migliore e se poi continua a rimanere comunista, sarà un comunista migliore”.
Nato a Firenze il 6 settembre del 1895 da famiglia borghese, ha avuto con la mamma Alice Weiss, ebrea, un rapporto intenso. Quando andò per la prima volta a trovarlo a Barbiana informò i sei ragazzi della scuola che non era cristiana e che dovevano essere premurosi e tolleranti se non avesse compreso la loro esperienza: “Cerchiamo di aiutarla in tutto e di attenuare i suoi disagi, perché noi cristiani dobbiamo dimostrare di essere migliori”.
Giancarlo è stato uno dei primi due bambini ad incontrare Don Milani quando mise piede a Barbiana. Aveva 9 anni ed era il più grande di tre figli di genitori contadini, molto poveri. “Spiegò che era stato mandato all’esilio ecclesiastico perché il suo modo di essere prete era troppo avanti per i tempi ed era diventato un personaggio scomodo per le alte sfere della Chiesa. Questa sua sincerità conquistò tutti. La scuola partì con sei alunni che man mano divennero quarantadue. Noi eravamo figli di contadini poverissimi –continua Giancarlo –il nostro destino era segnato se non fosse capitato don Lorenzo a cambiarlo. Il suo pallino era insegnarci la padronanza della lingua italiana, della parola. Non ha mai preteso di modificare il mondo ma di portarci ad un certo livello culturale. Il metodo era completamente diverso da quello tradizionale, nella nostra scuola non c’erano pagelle, voti e nessuno veniva bocciato.
Io sono andato via da Barbiana nel giugno del ‘68, un anno dopo la morte di Don Lorenzo. Ho iniziato a lavorare a Sesto Fiorentino e ho girato mezzo mondo”. Alla domanda su cosa ha significato per lui Barbiana risponde di getto: “Io sono la scuola di Barbiana”. L’utopia di Don Milani vive ancora? “Certamente. Vive in papa Francesco che gli assomiglia tanto. Non a caso quando due anni fa ha ricevuto gli studenti ha citato solo Don Lorenzo come uno dei maggiori educatori italiani. E ‘tra parentesi prete’, così ha detto”. È rivoluzionario, basti pensare che “quando le classi erano divise in maschi e femmine a Barbiana le otto bambine sedevano sugli stessi nostri banchi e stiamo parlando di 60 anni fa. D’estate per approfondire la lingua, andavamo in Francia, in Inghilterra in autostop, zaino e tenda in spalle, e ragazze più piccole avevano solo tredici anni”.
Giancarlo, si è mai sentito una tuta blu diversa dalle altre? “No. Ma i miei compagni di lavoro lo scoprivano da soli. Don Lorenzo ci ha insegnato ad essere umili trasparenti e seri: “Vedrete – ci diceva – che la gente si accorgerà che siete diversi e verrà a chiedervi perché. Imparare ad imparare, quando uno ha imparato ad imparare, significa essere un gradino sopra gli altri”. Come imparare ad osare. Al cardinale di Palermo Ruffini, che non voleva che i giornalisti scrivessero della Spagna franchista, perché averla amica “potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo”, Don Milani rispose: “Compito d’ogni cristiano è quello di informare il proprio vescovo che sbaglia, anche a costo di essere perseguitato oppure esiliato in vetta al monte Giovi”.
I ragazzi di Barbiana sono sparsi per l’Italia: “Abbiamo anche idee diverse, così come voleva Don Milani. Avrebbe considerato un fallimento la ‘costruzione’ di quarantadue ‘lorenzini’, perché ognuno doveva pensare con la sua testa e possedere la capacità di confrontarsi con l’altro”.
Un educatore aperto alla diversità di opinioni, di culture di religioni. “A Barbiana invitava personaggi famosi di estrazione politica e religiosa diversa. Si mettevano a nostra disposizione e noi li bombardavamo di domande perché, come ci ripeteva sempre: non è il cartoncino che fa grande un uomo. Mi raccomando non vi fate imbavagliare dal numero dei cartoncini che hanno”.
Barbiana volutamente è rimasta un luogo poverissimo dove ancora si respira l’aria pulita di un riscatto sociale che non è morto ma tarda solo ad arrivare.
Riflessione sul binomio dittatura-schiavitù e sul suo opposto democrazia-libertà: «Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana». La Repubblica, 21 maggio 2016
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura-schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà».
Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica. La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù.
È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (
Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » ( Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
Trasparenza trasparente: «un codicillo inserito all’ultimo nel testo sull’accesso agli atti chiude un’altra porta».
Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2016 (p.d.)
Se l’incarico è gratis la trasparenza può attendere. Tempo tre mesi e a Palazzo Chigi arriverà il commissario per il digitale e l’innovazione Diego Piacenti, vicepresidente di Amazon, il colosso americano dell’e-commerce sotto accertamento fiscale per i profitti realizzati in Italia. Nel frattempo il governo ha varato un decreto sulla trasparenza della Pa digitale ispirato al Freedom information act (Foia), la legge che negli Stati Uniti da cinquant’anni garantisce l’accesso ad ogni informazione in possesso dello Stato. Ma di Mr. Amazon, applicando i nuovi obblighi in capo alle amministrazioni, non saranno pubblicati l’atto di nomina, il curriculum, la dichiarazione dei redditi, eventuali partecipazioni insomma tutto quello che serve a rilevare eventuali conflitti d’interesse.
Per averli bisognerà bussare a Palazzo Chigi, sempre che non ci siano “eccezioni”e cavilli con cui verranno negati. Tutta colpa di un codicillo in filato all’ultimo, in perfetto italian style, a un testo che era stato raddrizzato in corsa dopo molte critiche e viene ora salutato come un importante passo avanti sulla trasparenza. Quel neo rischia però di segnarne mezzo indietro e di spalancare praterie a chi vorrà approfittarne.
La breccia arriva all’articolo 14 della legge, quello che disciplina gli obblighi di pubblicazione per i titolari di “incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali”. Sotto questo cappello, nel testo licenziato, è spuntato un comma 1-bis che esenta dall’obbligo di pubblicazione gli incarichi conferiti dalle amministrazioni a titolo gratuito “ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. La portata dell’eccezione si coglie a pieno se messa in relazione con la famosa circolare Madia che a novembre ha esentato i pensionati dal divieto gli incarichi svolti a titolo gratuito riaprendo il vaso di Pandora delle consulenze. La ratio è la stessa: l’assenza di oneri per lo Stato come lasciapassare per nomine di qualunque tipo.
L’anno scorso Renzi, per dire, ha designato 7 consiglieri economici, tutti rigorosamente a titolo gratuito. Erano davvero il meglio su piazza? Non si sa, ma sono gratis e tanto basta. Filippo Sensi è il suo portavoce, quello che con abilità e imperio detta agenda e agenzie ai giornali. Le sue incursioni per orientare titoli e spifferi non sono sempre gradite. Ma nel 2014 aveva fatto il suo ingresso alla Pcdm, insieme ad altri 27 professionisti, tutti titolari d’incarico a titolo gratuito, e tanto bastava. Certo, l’anno dopo si è rifatto con uno stipendio da capogiro (170 mila euro lordi l’anno) che supera perfino quello del premier. Anche nella spartizione delle poltrone nel cda della Rai è esploso il caso, quando si è scoperto che quattro consiglieri su sette erano pensionati. E dunque o rinunciavano al posto o all’emolumento. A scendere anche ministeri, regioni e comuni hanno scoperto la manna del consulente pro-bono, quello che non guasta perché non costa.
E così le amministrazioni di ogni livello sono permeate di frotte d'incompetenti, parenti ed eterni imbucati in ogni dove. Una pletora di lavoratori che non guarda al vil denaro ma in cambio ottiene beni anche più preziosi: favori, protezioni, le famose “entrature” che a volte nella vita fanno la differenza. Così, come ha ricordato pochi mesi fa Michele Ainis, si svuota a cucchiaiate il principio che fonda la Repubblica sul lavoro. Il primo articolo della Costituzione diventa l’ultimo, perché tutto è lecito se non costa. A questo lasciapassare, per effetto del Foia all’italiana, si aggiunge ora la copertura per eventuali situazioni di incompatibilità, un male endemico degli incarichi di nomina politica. Sotto questo profilo la nuova legge peggiora la vecchia del 2012. Fa calare un velo proprio sugli incarichi che, in assenza di un compenso in denaro, meglio si prestano a contropartite poco chiare. E che al motto “più trasparenza” saranno meno tracciabili.
Il manifesto, 21 maggio 2016 (p.d.)
Il Presidente del Consiglio l’11 aprile scorso ha aperto la campagna elettorale sul referendum costituzionale annunciando che, per vincere, è disposto ad «usare anche argomenti demagogici». Un annuncio senza novità, la «demagogia», largamente coniugata alla forma «cialtronismo», è stata la cifra della sua comunicazione politica (propaganda) fin dai tempi della Leopolda.
Il «cialtronismo» è elemento fluidificante della «demagogia». In un contesto frutto di una coltivazione quasi trentennale di plebeismo, il «cialtronismo» può passare come aspetto disinvolto, popolare della comunicazione politica. Renzi può citare male e fuori contesto Chesterston, attribuire a Borges versi non suoi, attribuirsi una compartecipazione al traforo del Gottardo ignorandone persino la localizzazione (le televisioni svizzere si sono indignate e/o divertite; quelle italiane hanno sorvolato), ecc,.
E’ la continuità con Berlusconi, completa: ambedue demagoghi ed ignoranti, e di un’ignoranza di cui non hanno né coscienza né consapevolezza, hanno trasformato tale loro condizione in punto di forza. D’altra parte la «demagogia» si manifesta in maniera più persuasiva se può scaturire da una base «naturale». Sottovalutare le possibilità d’incidenza del connubio cialtronismo-demagogia nello scontro sul referendum costituzionale sarebbe un grave errore. Così come sarebbe un errore pensare al meccanismo propagandistico renziano solo come una sorta di fenomeno di superficie al di sotto della quale ci sarebbe il vuoto.
Al di sotto, invece, c’è una struttura materiale dura: la logica e la realtà evocate nel 2010 da Marchionne quando ha dichiarato: «Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa».
Nel tornante del secolo per Marchionne si è verificato il passaggio, a suo parere definitivo, tra la centralità del lavoro, la tensione verso l’uguaglianza, secondo Costituzione, alla riduzione dell’umana forza-lavoro a pura funzione del capitale. Renzi è totalmente interno a tale dimensione dei rapporti economico-sociali che reputa «naturali, esattamente come la sua antropologia culturale. Per questo, con tutta naturalità appunto, ringrazia ripetutamente il padrone globalizzato per la generosità con cui porta occupazione in Italia, mentre redarguisce severamente «certi sindacalisti» che, difendendo i diritti del lavoro, impediscono lo svolgimento della logica di mercato coincidente con la benevolenza padronale.
«Cevital…Merci», si può leggere in un manifesto apparso a Piombino, in una delle città italiane, cioè, dove per quasi un secolo la coscienza di classe è stata elemento essenziale della crescita civile. Cevital è la multinazionale del magnate algerino Issad Rebrab che investirà a Piombino nel settore siderurgico. Dunque un benefattore e bisogna ringraziarlo. Ed infatti, come è visibile in una foto celebrativa dell’evento, festeggiano il benefattore, eletto a «personaggio dell’anno 2015» da un giornale locale, i maggiorenti toscani del Pd, del governo nazionale e del territorio. Una posizione tanto più forte in quanto non frutto di quella che, del tutto impropriamente, viene chiamata «mutazione genetica» renziana.
Ricordiamo perfettamente Massimo D’Alema che nel luglio 2012, confrontandosi davanti a Montecitorio con un picchetto di operai Irisbus, diceva: «Non serve a nulla… tutto questo non serve a nulla … se lo mandiamo affanc…quello chiude e non lo vediamo più».
Ebbene la Costituzione, nello spirito e nella lettera, si pone in una dimensione antitetica rispetto al complesso dei rapporti sociali sotteso ai pronunciamenti di Renzi, D’Alema, e del ceto politico Pd di ogni livello. Del resto l’attacco alla Costituzione, il suo svuotamento, la sua continua manomissione proprio per questa sua incompatibilità con tutte le forme dell’ordo-liberalismo, non è certo cominciato con la riforma Boschi-Verdini, bensì con l’accettazione di fatto e di diritto (costituzionalizzazione del Fiscal compact) di un ordine europeo le cui normative confliggono con il documento fondante della Repubblica.
Si comprenderà, dunque, come la «ditta», ora «sinistra» Pd, che tale processo o ha promosso, o ha accettato, non possa ora opporvisi sulle questioni di fondo. I suoi residui esponenti se ne stanno nell’ombra e attendono (non si sa bene chi e che cosa) mentre pigolano sempre più piano.
Proprio nei giorni scorsi il neo ministro allo Sviluppo economico, fortemente voluto da Renzi, ha chiarito in maniera esemplare il nodo centrale della riforma Boschi-Verdini. Ha sostenuto che gli accordi di libero scambio Ttip e Ceta «sono fondamentali» (per chi?), per cui non si possono lasciare i parlamenti nazionali arbitri della loro approvazione. Dunque, ha concluso, «la governance deve essere ristrutturata sennò ammazzerà la nostra (?) politica commerciale» («Eunews» 13 maggio. I virgolettati sono nel testo).
La riforma costituzionale su cui voteremo a ottobre è tappa decisiva della ristrutturazione della governance su cui insistono da tempo i poteri dominanti internazionali. Renzi-Calenda dicono le stesse cose che un gigante della finanza globale come Jp Morgan Chase ha suggerito ai governi europei in un documento del 28 maggio 2013: liberatevi delle «Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione europea».
Questo è il punto centrale che demagogia e cialtronismo tenteranno di occultare. Questo è il punto centrale da rendere chiaro con tutti gli strumenti di demistificazione di demagogia e cialtronismo.
Un'argomentata critica alla recente lettera dell'autorevole militante della minornza del PD «La preoccupazione di fondo di Reichlin è salvaguardare l’unità del Partito democratico, offrendo una via di uscita alla minoranza. La Repubblica, 21 maggio 2016
Caro direttore, ho letto con attenzione il lungo ed argomentato intervento di Alfredo Reichlin pubblicato su Repubblica il 16 maggio. Sono abbastanza sicuro di averlo capito bene. Ci conosciamo da parecchi anni. Reichlin cerca di salvare da se stesso il presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd: un plebiscito potrebbe avere un effetto per lui disastroso, forse anche per il Paese (ma questo, presumo, gl’importi meno). Il suggerimento suo e forse di altri sembra avere sortito un effetto, immediato com’è nel suo stile, con l’improbabile argomento che sono gli oppositori della riforma costituzionale ad avere personalizzato il dissenso.
In realtà, da buoni professoroni, abbiamo ripetutamente e noiosamente spiegato che di regole si tratta, che non devono essere soggette a maggioranze di governo, oltretutto puntellate da abusi di voti di fiducia. Soprattutto, che esse non devono ledere alcuni principi costituzionali a fondamento della nostra democrazia: sovranità popolare, con il conseguente diritto dei cittadini ad esprimere la propria rappresentanza, governo a cui corrisponda un Parlamento altrettanto forte, separazione dei poteri, autonomie non improvvisate.
Non credo di sbagliarmi se affermo che la sua preoccupazione di fondo sia quella di salvaguardare l’unità del Partito Democratico, offrendo una via d’uscita alla sua minoranza dalle sue ambasce attuali. Ricorrendo ad un antico timore della tradizione comunista, che fedelmente rievoca, quella di una “spaccatura del Paese”, Reichlin propone un compromesso: il segretario rinunci ad una tattica referendaria legata alla sua persona e in cambio riceva il sostegno al Sì degli oppositori interni, paghi della soddisfazione di avere eliminato il bicameralismo paritario, non importa come, con che cosa e a quale prezzo; eventualmente pronti a pronunciare qualche penultimatum riguardo alla vigente legge elettorale.
In realtà si tratta di un compromesso illusorio, non soltanto per la mercurialità del presidente del Consiglio, appena dimostrata con il voltafaccia sul voto al lunedì: fatto apparentemente banale, ma che nasconde la rinuncia ad una partecipazione dei cittadini al voto che costituiva uno dei motivi di forza della democrazia italiana rispetto ad altre. O anche questo è populismo?
Tuttavia, vi è un altro fatto che mina alla radice la stabilità del compromesso — meglio sarebbe chiamarla tregua — interno al Pd che Reichlin propone. Vittorio Foa lo chiamava il silenzio dei comunisti rispetto alla revisione della loro pur grande storia che ha contribuito in maniera decisiva non solo a scrivere la Costituzione, oggi messa in discussione in alcuni suoi gangli vitali, ma a salvaguardare l’Italia dal cosiddetto socialismo reale e da forme involutive all’interno della Nato cui Washington sapeva ricorrere alla bisogna. Ricordo una riunione della direzione del Pds in cui Reichlin aveva il compito di spiegarci che dovevamo tutti diventare socialdemocratici. Dissi allora: «Sono d’accordo, ma forse non basta la relazione ad una riunione della direzione, nemmeno un libro di Massimo L. Salvadori che rivaluti l’ex ”rinnegato Kautsky”. La Seconda Internazionale ha una storia più lunga della Terza. Wigforss, Beveridge, Meidner, Brandt… Non serve Blair». Con un sorriso mi rispose: «Tu ci odi veramente». Ebbene non è così. E la sinistra non comunista, sia laica che cattolica, cui appartengo per cultura politica, deve chiedersi quanto in Italia abbia realizzato in nome della sua maggiore comprensione della storia occidentale.
Ma non voglio divagare più di tanto. Ciò che manca, e che ancora costituisce problema per la democrazia italiana, al di là di tutte le conclamate rottamazioni, è una comprensione critica dello stato del Paese e quale sia il compito di forze, per quanto diversificate, che ne vogliano salvaguardare la democrazia. Tutto ciò in un contesto mondiale in cui il predominio della finanza tende a sostituirsi alle istituzioni politiche e l’impoverimento dei ceti medi apre inquietanti prospettive. E in cui la Banca Morgan, dopo avere contribuito a consolidare il regime mussoliniano negli anni Venti, ancora una volta consiglia di ridurre la democrazia specie nei Paesi caratterizzati da costituzioni postfasciste.
No, stiamo al merito, come dice giustamente, e come sembra dire, almeno fino al prossimo sondaggio d’opinione, colui che — presume — ci salva da ulteriori disgrazie, conservando gelosamente quella coalizione corporativa, la classe dirigente italica, politica e non, di cui amministra temporaneamente gl’interessi. E se, così facendo, senza plebisciti favorevoli e contrari, si dovesse spaccare il Paese sulla base di un diverso giudizio sul ddl Boschi… è la democrazia, bellezza!
«Rapporto Istat 2016: l'Italia è il paese dove le diseguaglianze di classe sono cresciute di più al mondo dopo il Regno Unito. I giovani e i minori, schiacciati dal sistema della precarietà, sono senza giustizia».
Il manifesto, 21 maggio 2016 (p.d.)
Il paese dove le differenze di classe crescono e si rafforzano. È il ritratto che emerge dal rapporto annuale 2016 presentato ieri dal presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e in coincidenza del 90° anniversario dell’istituto nazionale di statistica. Tra il 1990 e il 2010 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate da 0,40 a 0,51 nell’indice Gini sui redditi individuali lordi da lavoro. È l’incremento più alto tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati.
Chi proviene da una famiglia con uno status alto – ha una casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitario – ha visto accrescere la distanza economica e sociale rispetto a chi proviene da famiglie di status basso: l’Italia è al 63%, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%). Primo in classifica è il Regno Unito con il 79%, il paese della rivoluzione thatcheriana che ha rafforzato a dismisura dagli anni Ottanta in poi le differenze di classe, come ha ricordato da ultimo Anthony Atkinson nel suo libro Diseguaglianza.
Dopo veniamo noi, sintomo che è avvenuta un’analoga rivoluzione che ha premiato un’elite a svantaggio dei molti. Parliamo di una realtà antecedente all’esplosione della crisi, ma dai dati dell’Istat emerge una il ritratto di un paese dove la povertà colpisce tre volte più al Sud che al Nord, mentre la spesa sociale che cresce meno che in altri paesi è la più inefficiente al mondo. Peggio dell’Italia fa la Grecia stritolata dai memorandum della Troika dal 2010 a oggi.
Lotta di classe dall’alto
I più danneggiati dalla guerra sociale in corso sono i minori che vivono nelle famiglie in cui il capofamiglia e disoccupato, precario o lavoratore part-time: la spesa pro capite per interventi destinati a famiglie e minori è scesa tra il 2011 e il 2012 da 117 a 113 euro, con differenze territoriali decisamente importanti, dai 237 euro dell’Emilia-Romagna ai 20 euro della Calabria. I minori sono i soggetti che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi in termini di povertà e deprivazione, scontando un peggioramento della loro condizione. Tra il 1997 e il 2011 l’incidenza della povertà relativa era al 12%. Nel 2014 ha raggiunto il 19%.
La forbice della diseguaglianza si allarga rispetto alle generazioni più anziane che nel 1997 presentavano un’incidenza di povertà di oltre 5 punti percentuali superiore a quella dei minori. Nel 2014 l’incidenza è diminuita del 10% rispetto ai più giovani. Questo significa due cose: gli effetti della contro-rivoluzione sono solo all’inizio: oggi producono precarietà di massa, domani porterà una povertà epocale tra gli attuali tredicenni. Secondo elemento: il paese è spaccato a più livelli, Sud contro Nord, tra le generazioni, tra i redditi e tra territori contigui.
Altro che «bamboccioni»
Dopo il calo del biennio 2013-2014, l’indicatore sulla «grave deprivazione materiale» si è stabilizzato all’11,5% nel 2015. Ma si mantiene su livelli alti per le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione. A livello strutturale, dunque, la tendenza è la stessa degli ultimi 25 anni. Senza contare che esiste un’ampia sfera di lavoro grigio o sommerso che deriva dalla somma di disoccupati e forze lavoro potenziali, ovvero le persone che vorrebbero lavorare ma che non trovano lavoro: 6,5 milioni nel 2015.
In questo quadro rientra la sotto-occupazione e il «disallineamento» tra le competenze e i lavori dei laureati. Uno su tre tra 15 e 34 anni è «sovraistruito» rispetto a quanto richiede il mercato. Uno su quattro è precario. A tre anni dalla laurea solo il 53,2% ha trovato un lavoro «ottimale». L’impossibilità di trovare un reddito dignitoso per sostenere un affitto, spinge 6 giovani su 10 a vivere con i genitori fino ai 34 anni. Oltre un quarto è disoccupati o inoccupato, e non cerca lavoro: 2,3 milioni. Altro che «bamboccioni». Il non lavoro, o il lavoro povero, non è una colpa, ma un problema politico.
Questa situazione coesiste con la diminuzione della disoccupazione di 203 mila unità, poco più di 3 milioni di persone (11,9%) e con la crescita di 186 mila occupati nel 2015. L’Istat, infatti, registra «un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro» nei prossimi anni. Nel 2025 il tasso di occupazione – in Italia tra i più bassi dei paesi Ocse (56,7%) – potrebbe restare «prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva». Per garantire un simile ampliamento serve una discontinuità radicale, superiore all’aumento occasionale, e di breve durata, prodotto dai costosi incentivi governativi per i neo-assunti del Jobs Act. Quello che sembra essere certo oggi è che il paese resterà fermo per altri quindici anni.
Bomba sociale
L’Italia è il paese più invecchiato al mondo. Prevalgono gli over 64, mentre le nascite sono al minimo storico. Sui 60,7 milioni di residenti, gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Insieme a Giappone e Germania, un altro primato. Le nuove generazioni di anziani vivono meglio del secolo scorso e dei loro genitori. Stili di vita salutari, un sistema previdenziale e sanitario migliore, nonostante i redditi bassi e i tagli e i disservizi della sanità pubblica. L’aspettativa di vita fino a 80 anni costituisce per i più giovani, figli e nipoti, un ammortizzatore sociale di ultima istanza, nella totale assenza di un moderno Welfare universalistico.
Questo è il regime biopolitico di sussistenza che dal pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015 permette ai «riformatori» di sperimentare le loro ricette sulla precarietà che oggi interessano due generazioni: i nati negli anni Settanta e quelli tra il 1981 e il 1995. In mancanza di una redistribuzione della ricchezza esistente, si distribuisce il reddito pensionistico. Un altro modo per aggravare le diseguaglianze strutturali nel paese. Chi è nato negli anni Ottanta, ha ricordato Boeri dell’Inps, lavorerà fino a 75 anni. Con ogni probabilità, non percepirà la pensione e non sosterrà i propri figli al posto del Welfare. È la bomba sociale a cui porterà il sistema della precarietà e il regime contributivo delle pensioni a partire dal 2032.
Rimedi sbagliati
Ai sostenitori della «staffetta generazionale» non piacerà questa tendenza del mercato del lavoro. A questa ipotesi, tornata di moda nel dibattito sulle pensioni e la «flessibilità in uscita», viene affidata la flebile speranza di sostituire i pensionati che accettano di decurtarsi l’assegno con giovani precari assunti con il Jobs Act.
Il confronto tra i 15-34enni occupati e i 54enni in pensione da non più di tre anni dimostra la difficile sostituibilità «posto per posto» tra anziani e giovani. Commercio, alberghi, ristoranti o servizi sono i settori dove questi ultimi sono occupati, con i voucher (+45% nel 2016) o a termine, le uscite non sono state rimpiazzate dalle entrate: dentro ci sono 319 mila, fuori 130 mila. Nella P.A. e nella scuola, ne sono usciti 125 mila, 37 mila sono entrati.
Esiste un blocco strutturale che impedisce la realizzabilità dell’ipotesi su cui si regge l’attuale dibattito tra sindacati e governo. Ma nessuno se ne rende conto. Apparentemente.
Il Manifesto, 20 maggio 2016 (p.d.)
No uno, bensì dieci. Sono i No pronunciati da Gianfranco Pasquino, Carlo Galli, Marco Valbruzzi e Maurizio Viroli nel loro documento-appello che boccia la «deforma» costituzionale voluta dal governo e smaschera luoghi comuni e falsità della retorica renziana.
A partire dal fatto che «no, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il No chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte da tempo scritte e disponibili».
O che «no, la riforma non interviene affatto sul governo e sulle cause della sua presunta «debolezza». O ancora che «no, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro». Argomenti proposti a «voi che ragionate e non plebiscitate», perché «c’è chi ci mette la faccia, noi ci mettiamo la testa».
Proprio per «metterci la testa», cioè per capire e informare, domani il Comitato per il No scende in piazza a Bologna e lo fa in grande stile con un importante momento pubblico di approfondimento ma anche di festa per la Costituzione.
A partire dalle ore 18, in piazza Santo Stefano, Francesco Di Matteo (Comitato Alessandro Baldini), Maurizio Landini (Fiom), Luigi Ferrajoli (Comitati Dossetti), Nadia Urbinati (Libertà e Giustizia) e Carlo Smuraglia (Anpi, quella stessa Anpi in questi giorni oggetto di feroci attacchi per essersi schierata «contro»), spiegheranno tutte le ragioni del no alla modifica del Senato e dei 47 articoli della Costituzione e alla legge elettorale Italicum.
Interventi che saranno intervallati da momenti di cultura e musica con Moni Ovadia (in video) che reciterà per la Costituzione, I Mulini a vento e il Quartetto Mozart. Un’occasione per fare il pieno di firme per i referendum, grazie alla presenza, per tutta la durata della manifestazione, di stand e banchetti.
Raccolta di firme che prosegue in tutta Italia con rinnovato entusiasmo, ora che dal Movimento 5 Stelle è arrivato un sostegno ufficiale, dopo un incontro dei parlamentari M5S con i rappresentanti del Comitato del No.
«Abbiamo avuto un proficuo scambio di idee e opinioni – hanno detto i parlamentari – Si converge sul fatto che in questa prima fase sia fondamentale spiegare ai cittadini cosa comprende la revisione costituzionale e la sua micidiale combinazione con la nuova legge elettorale». Per questo, nella reciproca autonomia, si organizzeranno iniziative comuni nei territori».
Prossime iniziative
Padova: oggi, banchetto di raccolta firme durante lo spettacolo di Dario Fo al Teatro Geox; domani ore 10-13 e 16-20 banchetti in Piazza delle Erbe e Canton del Gallo;
Milano: lunedì 23, dibattito con Gherardo Colombo, Antonio Lettieri, Antonio Pizzinato, Massimo Villone – ore 20,30, Salone Di Vittorio, Camera del Lavoro Cgil, Corso Porta Vittoria 43 (si potrà firmare per i referendum);
Cinisello Balsamo: domani, ore 10-12 banchetto al mercato di via Cilea; mercoledì 25, incontro pubblico con Marco Dal Toso (Giuristi Democratici), Luciano Belli Paci (avvocato), Silvia Truzzi (Fatto Quotidiano) – ore 20,45, Villa Ghirlanda Silva, via Frova 10;
Marzabotto: oggi, No e Sì a confronto, con Domenico Gallo e Stefano Ceccanti, ore 20,30, Casa della Cultura e della Memoria;
Cecina: oggi, ore 21, dibattito con Massimo Villone e raccolta firme, Comune Vecchio;
Opera: lunedì 23, serata di approfondimento con Vittorio Angiolini (costituzionalista), Aldo Giannuli (storico), Felice Besostri (avvocato costituzionalista) – ore 21, Centro Polifunzionale, via Cinque Giornate.
Tutti i futuri incontri pubblici organizzati dal Comitato per il No possono essere ricercati nei seguenti siti:
www.iovotono.it, cliccare la voce "iniziative" nel menu orizzontale riportato sotto la testata
www.referendumitalicum.it, cliccare sull'immagine del calendario nel menu verticale di sinistra
«il manifesto e Corriere della Sera
Il manifesto
IL COMPAGNO CHE ERA LIBERALE
di Andrea Colombo
Marco, che se ne è andato ieri stroncato non da uno ma da due cancri, perché l’uomo era così, eccessivo in tutto, suppliva da solo a un vuoto che ha segnato, sempre e solo nel male, la storia italiana: la mancanza di una destra liberale con la quale per la sinistra fosse possibile confrontarsi con reciproco vantaggio. Si parla di destra politica, perché l’albero genealogico della cultura nazionale invece qualche frutto d’oro su quel versante può vantarlo, e quei nomi che tornavano continuamente in ballo nei monologhi fluviali che Pannella aveva l’ardire di spacciare per interviste: da Benedetto Croce al tanto citato quanto disatteso Mario Pannunzio.
A lui, forse, la definizione sarebbe andata stretta, come qualsiasi etichetta avesse preteso di definire la sua personalità straripante. Pannella non si sentiva un uomo di destra e certo con la destra italiana aveva ben poco a che spartire. I radicali non hanno smesso di chiamarsi, tra loro, «compagni». E il «suo» Partito radicale discendeva direttamente dall’ala sinistra del partito originario, quello nato nel 1955 e che contava tra i suoi fondatori l’intera aristocrazia intellettuale del liberalesimo italiano. Pur diviso, quel gruppo di grandi intellettuali concordava nel vedere i «rossi» solo come un pericolo. Non la «Sinistra radicale» di Giacinto detto Marco, che al contrario spingeva per un’unione laica di tutte le forze di sinistra, comuniste, socialiste e liberali. Quando i fondatori abbandonarono il partito, a ereditarlo rimase solo la corrente di sinistra e il suo capo, dal 1963 segretario e padre padrone a vita dell’intero partito.
Nelle sue campagne Pannella era ossessivo e martellante, da giovane così come in tarda età. Ma c’era del metodo, e dell’intelligenza politica raffinata, nella sua ossessione. Per tutti gli anni ’60 caricò a testa bassa sul divorzio senza concedere un attimo di tregua, inventandosi espedienti comunicativi uno via l’altro, adoperando a man bassa l’alleanza con un giornale, Abc, dal quale ogni politico comme il faut si sarebbe tenuto lontanissimo per la tendenza a sciorinare tette abbondanti e mutandine succinte, ma che era in compenso popolarissimo.
Non si trattava però di un caso maniacale. Nell’Italia codina e baciapile di quegli anni, quando persino un galantuomo come il futuro presidente Scalfaro sbottava in pubblico a fronte di una scollatura esagerata e le Kessler rappresentavano la frontiera del proibito, Pannella aveva individuato nel divorzio la leva capace di forzare i limiti culturali di un Paese che di laico non aveva ancora nulla. Il seguito provò che aveva ragione.
Pannella era laico e a tratti, soprattutto a cavallo tra i ’60 e i ’70, anche «laicista», se non proprio mangiapreti. Quel lusso la cultura comunista, che le «masse cattoliche» le aveva ben presenti da molto prima che Berlinguer scrivesse su Rinascita di «compromesso storico», non poteva permetterselo. Il compito spettava a una destra liberale, democratica, laica, e in Italia a rappresentarla c’era quasi esclusivamente la torreggiante figura di Pannella. Ma senza quella spinta, la sua e spesso solo la sua, sarebbe stato impossibile arginare la tendenza del Pci a svendere il divorzio pur di non entrare in rotta di collisione con le masse cattoliche e con il partitone che le rappresentava.
Anche nella battaglia strenua, a volte epica, ingaggiata tra la seconda metà dei ’70 e l’intero decennio successivo, quella per i diritti e le garanzie contro le emergenze e le ingiustizie che venivano quotidianamente perpetrate in nome della giustizia, è tangibile, inconfondibile, un’impronta che risale più alla grande destra liberale che non alla sinistra. Non c’erano solo interessi di bottega dietro lo schieramento del Pci a favore dell’emergenza, allora. C’era anche un intero pensiero che, al fondo, considerava l’interesse di Stato infinitamente superiore alla difesa dei diritti, e che in nome di quell’interesse era pronto a violentare il diritto come avvenne il 7 aprile, o a far passare per matto un leader sequestrato pur sapendo di condannarlo così a morte.
Non è un caso che Pannella sia stato tra i pochissimi a opporsi a quella cultura guidata solo dalla miopia della ragion di Stato, di fronte alla quale capitolarono con scomposto entusiasmo anche tanti sedicenti liberali, Repubblica in testa. Per chi veniva dalla cultura crociana, inutile negarlo, stare dalla parte di Antigone era più facile che per chi arrivava da quella marxista, che si trattasse del terrorismo e Toni Negri o della camorra e di Enzo Tortora, vittima di un «effetto collaterale» della campagna contro le mafie fondata sui pentiti.
Per indole e carattere, per il suo istrionismo innato, Marco Pannella spettacolarizzava al massimo ogni campagna, e nell’uso della comunicazione era anche più astuto ed esperto di quanto apparisse. Così, le sue battaglie potevano sembrare, in superficie, venate da infatuazioni un po’ donchisciottesche per questa o quella causa. Invece erano sorrette da un impianto coerente e rigoroso. Quando muoveva contro la magistratura, il suo non era semplice garantismo: era la consapevolezza che negli ’80 un potere dello Stato aveva preso a invadere aree di altrui competenza, e che i risultati sarebbero stati comunque esiziali. Quando offriva spinelli in giro per le strade, non si trattava solo di una trovata libertaria, ma della coscienza di quanto l’intero impianto costituzionale fosse minato dal disattenderne i princìpi in materia di libertà individuali.
Nell’ultimo scorcio della prima Repubblica nessuno aveva denunciato l’occupazione dello Stato da parte dei partiti più del Partito radicale. Però, quando quel castello venne giù in pochi mesi come una torre di fiammiferi, Pannella non fu tra quelli che brindarono ebbri, a differenza di tanti che quel sistema lo avevano sin lì coperto e supportato senza vergogna. Marco credeva nella Costituzione come pochi. In nome della Costituzione aveva ingaggiato un duello durato 15 anni con l’amico Cossiga. Per difendere la Costituzione era stato il vero regista dell’elezione di Oscar Scalfaro. In quel tripudio che tintinnava di manette, nei giorni di tangentopoli, avvertiva un lezzo che con la Costituzione repubblicana aveva poco a che spartire.
Per noi di sinistra Marco Pannella è un caso unico. Siamo stati al suo fianco e lo abbiamo applaudito tante volte. Ce lo siamo trovati di fronte e ci ha fatto digrignare i denti in altrettante occasioni. E’ quello che capita con la miglior destra, anzi che capiterebbe se ci fosse: ringrazi il cielo perché esistono quando si tratta di diritti e libertà, ti tirano pazzo quando difendono il liberismo. Però sai che se in Italia ci fossero stati più uomini come Marco Pannella, oggi sarebbe un Paese migliore.
Il manifesto
CON PANNELLA UN INCONTRO-SCONTRO DURATO TUTTA LA VITA
di Luciana Castellina
Marco Pannella 1930-2016. Una vita politica insieme, ma io comunista, lui liberal democratico. La sua onestà, la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo

Credo di essere la persona ancora vivente che ha conosciuto da più tempo Marco Pannella, molti dei nostri amici coetanei essendo già passati altrove (sicuramente in paradiso), i più giovani non avendo avuto l’aspro privilegio di una amicizia/inimicizia lunga come la nostra, cominciata addirittura nell’anno accademico 1947/’48.
Ci siamo incontrati al primo anno della facoltà di giurisprudenza di quella che oggi viene chiamata La Sapienza, ma allora semplicemente Università di Roma, perchè a quei tempi ce n’era una sola e non occorreva specificare.
Era ancora piena di fascisti, anche piuttosto picchiatori, riuniti nel gruppo “Caravella”, e un bel po’ di cattolici molto moderati, capeggiati da Raniero La Valle (ora, più a sinistra di me, per fortuna).
Sia io che Marco eravamo dall’altra parte, laici e antifascisti: ma io ero già comunista, lui liberal-democratico.
Siamo restati così per tutta la vita.
Cominciammo subito come avversari: c’erano le prime elezioni per l’Interfacoltà, il parlamentino studentesco, e io concorrevo candidata insieme ad Enrico Manca, socialista (poi dirigente di primo piano del Psi e anche presidente della Rai), per la lista Cudi (centro universitario democratico italiano, in cui si identificava tutta la sinistra), lui per la lista cui aveva dato, come abitudine, un nome stravagante: “Il Ciuccio”. Che era però emanazione della già assai famosa Unione Goliardica, l’Ugi.
Di questa organizzazione Marco fu presidente per un decennio ed ebbe il merito di politicizzarla, sicché è proprio dalle sue fila che uscì negli anni ’60 quasi tutto il ceto dirigente laico della prima Repubblica (per il bene e per il male del paese). Anche noi comunisti finimmo per confluire nell’Ugi a metà degli anni ’50, quando la divisione del mondo, che dopo il 18 aprile ’48 ci aveva confinato nella parte esclusa, si frantumò e anche nelle Università diventammo normali. Vi entrai anche io, superando con qualche difficoltà l’odio che l’Ugi mi aveva lasciato al suo primo incontro importante: al primo congresso nazionale dell’Unuri (il parlamentino nazionale studentesco), quando osai prendere la parola e fui accolta da un coro maschile (di femmine non ce n’erano quasi) che mi gridò «passerella passerella». Intervenire per una donna era come fare lo streap tease, per fortuna avevo la pelle dura altrimenti non avrei più parlato per tutta la vita. Marco, comunque – sebbene presidente – con quelle schiamazzate non solo non c’entrava, ma fu proprio lui a redimere l’organizzazione e gliene rendiamo tutti merito.
Della questione femminile anzi si è per tutta la vita occupato molto, soprattutto da quando nacque il Partito radicale e all’orizzonte comparve Emma.
Proprio per via di divorzio e poi aborto ci siamo ritrovati con Marco, con cui posso dire di aver trascorso quasi l’intera vita fianco a fianco. Prima nelle battaglie universitarie, cui sia io che lui abbiamo partecipato in prima persona fino in tarda età, lui perché insostituibile leader dell’Ugi, io perché direttore di “Nuova Generazione”, cui, essendo il settimanale della federazione giovanile comunista, correva l’obbligo di seguire da vicino le vicende studentesche. In seguito, salvo una breve “vacanza” a cavallo fra i ’50 e i ’60 (quando Marco si trasferì a Parigi e molto e proficuamente si occupò di Algeria) per via, dell’esplodere della questione divorzio, quando i radicali furono la punta di diamante della battaglia a favore del primo progetto di legge firmato dall’onorevole socialista Loris Fortuna.
Combattemmo ancora una volta sullo stesso fronte, ma ancora una volta litigando. Io lavoravo a Botteghe Oscure nella sezione femminile con Nilde Jotti, impegnate a convincere un assai conservatore Pci che la questione era matura, e però ben convinte che se il diritto a rompere il matrimonio non fosse stato accompagnato da una riforma del codice familiare che riconoscesse alla donna qualche diritto (alla casa, al riconoscimento monetario del suo apporto all’economia domestica anche quando casalinga, ecc.) la eventuale vittoria sarebbe stata un disastro per la grande maggioranza.
Non fummo d’accordo neppure sull’aborto, per il quale, tuttavia, ci battemmo di nuovo insieme: i radicali volevano di più, noi del Manifesto-Pdup considerammo la legge ottenuta – la più avanzata di tutta Europa perché l’interruzione di maternità veniva mutualizzata e dunque garantiva le donne prive di mezzi finanziari – come qualcosa da difendere; e infatti così ci schierammo quando poi i clericali promossero il referendum per la sua abolizione.
Nel frattempo, nel 1976, eravamo entrati alla Camera dei Deputati: i radicali con 4 deputati, noi, con la lista di sinistra chiamata Democrazia Proletaria, con 6. Gruppi così minuscoli in parlamento non si erano ancora visti mai e non c’erano nemmeno i locali per alloggiarli. A lungo i funzionari cercarono di convincerci a stare tutti e 10 assieme: rifiutammo con decisione da ambo le parti e l’amministrazione di Montecitorio fu costretta ad erigere un muro divisorio in un ampio ambiente, sfrattando fra l’altro il povero Bozzi, a capo di uno storicissimo partito, quello Liberale, che però, in quella tornata di deputati ne aveva avuto solo 2.
(Battuta, credevamo definitivamente, la Legge Truffa del 1953, eravamo anni luce dall’ipotizzare che sarebbe un giorno arrivato l’Italicum a privare il paese dell’apporto di gente come noi).
Il periodo più aspro del mio rapporto con Marco Pannella ebbe inizio qualche anno più tardi, nel 1979, quando tutti e due ci ritrovammo nel primo Parlamento europeo eletto direttamente.
Anche se per cinque anni, per la prima volta, restammo nel medesimo gruppo. Che tuttavia, per prudenza e ben consapevoli delle nostre differenziate visioni del mondo, decidemmo di chiamare “Gruppo di coordinamento tecnico”. Per sottolineare che quanto ci univa era solo il bisogno, nel senso che il regolamento di Strasburgo non consentiva mini aggregazioni. Insieme anche ai nazionalisti fiamminghi, a Antoinette Spaak dissidente socialista belga e a un deputato irlandese vicino all’Ira, abbiamo attraversato la prima legislatura della nuova istituzione dividendoci su un sacco di cose: su Arafat, contro cui i radicali organizzarono picchetti quando per la prima volta venne al Parlamento europeo ospite del gruppo socialista; e poi sul voto per il riconoscimento dell’African National Congress di Nelson Mandela ( ancora in carcere). Ambedue le volte perché guerriglieri, in paesi – Israele e Africa del sud – dove c’era un bel parlamento.
Sono stati scontri aspri, così come quello sul finanziamento dei partiti e in contrasto con i sindacati, definiti “Trimurti”. Insomma, come avete capito da questo racconto: una vita assieme e però mai d’accordo. Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco. Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.
Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto. La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.
Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.
Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.
Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto.
Il manifesto
«PANNELLA, LO SCOMODO NECESSARIO»
intervista di Daniela Preziosi a Andrea Orlando
Il ministro della Giustizia: sembrava una provocazione e invece la sua intransigenza è stata sempre utile a non accontentarsi prima dell'obiettivo. Per i detenuti è stato un idolo: perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere: un’altra delle cose che ci ha insegnato
L’ultima volta che si sono visti è stato lo scorso 26 marzo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando era andato a trovare Marco Pannella da giorni «ristretto» per la malattia nella sua casa-studio di Roma. Era d’accordo con chi lo accudiva, ma all’insaputa del leone malato. La sorpresa, oltre alla visita del Guardasigilli, era la compagnia: Orlando era accompagnato da quattro detenuti del penitenziario romano di Rebibbia, due ragazze e due uomini, dal vicedirettore del carcere e dalla vicedirettrice del femminile.
C’è una bella foto che testimonia l’allegria di Pannella per quella visita «dei detenuti e dei detenenti, così aveva detto», ricorda Orlando, «me l’aveva proposta Rita Bernardini. Mancava poco a Pasqua, per la prima volta dopo molti anni Pannella non riusciva ad andare a visitare i detenuti durante le feste. E allora gliene abbiamo portato alcuni a casa. Lui parlava a fatica ma era stato illuminato da questa “splendida riunione”, così l’aveva chiamata. Aveva parlato di speranza in quel suo modo torrenziale, e in stretto dialetto abruzzese».
Ministro, chi era Pannella per lei quand’era un giovane militante della sinistra?
Vengo da una famiglia di comunisti che ha vissuto gli anni 70, quelli del terrorismo, della vicenda di Toni Negri (allora leader di Autonomia operaia, condannato per complicità con le Br, poi eletto con i radicali e rifugiato in Francia grazie all’immunità, ndr), che guardava i radicali magari come compagni di strada nelle battaglie per i diritti civili, ma per tutto il resto con enorme diffidenza, conseguenza anche delle loro provocazioni. Una diffidenza che spingeva a contrapporre in modo talvolta frontale diritti civili e sociali. Ho capito fino in fondo l’insufficienza di questa lettura quando ho cominciato a occuparmi di giustizia. Non solo perché il superamento di questa contrapposizione ha segnato tuta la sinistra storica, superando retaggi ideologici, ma anche perché abbiamo capito che il tema dei diritti è un tutt’uno nella trama della società.
Invece, da ministro, chi è stato per lei Pannella?
Prima da responsabile giustizia del Pd e poi da ministro ho apprezzato che i radicali, e Pannella innanzitutto, si sono seduti qualche volta dalla parte del torto, altre dalla parte della ragione, ma comunque non hanno mai scelto dove sedersi per ragioni di opportunismo. Perché ritengono che la loro missione sia rivendicare uno spazio di libertà anche dove si registrano alti tassi di conformismo, soprattutto nei tornanti importanti della nostra storia. Soprattutto dove ci sono quelli più difficili da difendere, le persone oggetto dello stigma sociale. Ho capito l’importanza del loro controcanto che si basa sul riconoscimento della dignità delle persone a prescindere dalla condizione e dal loro vissuto.
Da ministro ha avuto rapporti complicati con Pannella?
Quello che rende difficile il rapporto con i radicali, è il fatto che Pannella ha insegnato loro di rifiutare l’idea gradualistica. Ha sempre posto le questioni con intransigenza. Per me, che concepisco la politica invece come riforme e magari anche come piccoli passi successivi, avere a che fare con loro è sempre complicato: perché è difficile tenerli in squadra. Ma ho capito che segnare la posizione estrema è un modo per ricordare la direzione di marcia, per evitare che ci si accontenti del compromesso. Che è sempre necessario, ne sono convinto, ma non può mai essere considerato un punto di arrivo.
Poi però l’anno scorso lei fece un discorso inedito per un Guardasigilli, a proposito delle carceri che rischiano «di produrre crimine più che ridurlo». E lì Pannella le fece grandi complimenti.
Naturalmente poi i radicali mi hanno contestato per non aver tratto tutte le conseguenze della mia affermazione. Ma per me quella è stata una medaglia, tanto quanto gli obiettivi quantitativi raggiunti e i riconoscimenti internazionali del lavoro che abbiamo fatto. Vede, io vengo descritto come un politico prudente, cauto; e invece in quell’occasione aver incrociato il suo punto di vista è stata la conferma di aver posto una verità scomoda. Cosa che poi ho verificato concretamente nei mesi successivi.
Perché?
Perché parlare di carcere non porta consenso, non è glam, non dà ritorni di immagine in una società, la nostra, profondamente spaventata ed esposta agli imprenditori della paura. Senza nessuna ambizione eroica ho capito che quel riconoscimento era il segno che stavo provando a fare cose giuste. Governare non può essere solo ricerca di consenso facile ma anche farsi carico di persone che non hanno voce, possibilità di incidere, né forse rilevanza politica.
Subito dopo sono arrivate le critiche dei radicali, anche nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale.
(Sorride) È l’ineluttabile condizione di chi interloquisce con i radicali. All’inizio pensavo che non si facevano carico delle compatibilità, dei punti di partenza. Ma ora penso che la loro forza è quella di non farsi imprigionare dalle condizioni date, dal senso comune, dagli elementi di inerzia del sistema. Le loro polemiche, per quanto provocatorie, non sono mai fini a se stesse. Quel po’ che siamo riusciti a fare, che per me è molto, è anche frutto del loro stimolo.
Su alcuni aspetti della società italiana i radicali hanno ’fatto egemonia’, hanno vinto anzi convinto, come diceva Pannella: su aborto, divorzio, diritti civili. Sulla giustizia invece no: oggi il dibattito pubblico è spesso segnato da un profondo giustizialismo. Quella del garantismo è una battaglia che non hanno vinto, o ancora vinto?
È la battaglia più difficile in questo momento. La nostra è una società che resiste a riconoscere diritti che hanno un carattere così lontano dal senso comune. Ma il valore e la credibilità dei radicali sta proprio nel fatto che hanno saputo fare battaglie nella direzione dei tempi ma anche battaglie controvento con la stessa determinazione.
Anche lei frequenta spesso le carceri. Cos’era Pannella per i detenuti?
Un idolo. I quattro che gli ho portato a casa, in quella visita di marzo, erano emozionatissimi. Per venire hanno rinunciato al giorno di permesso. Ma Pannella è un idolo per tutto il mondo del carcere, la polizia penitenziaria, dottori, psicologi. Tutti, diceva lui, «condividono una comunità di destino». Ed è un idolo perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere. Un’altra delle cose che ci ha insegnato.
Marco Pannella lascia un’eredità, oppure un vuoto?
Entrambe le cose, perché mentre il riconoscimento di alcuni diritti, spinti dalla trasformazione della società, è un campo arato che continuerà a dare frutti, penso alla recente legge sulle unioni civili, sui diritti più scomodi, sulle battaglie meno corrispondenti al senso comune, quelle in contrasto con ogni demagogia, non vedo molte figure in grado di colmare quel vuoto e di portare le denunce e la testimonianza sino al punto in cui ha saputo portarle Marco Pannella
I CARTELLI E I DIGIUNI COSÌ USAVA IL CORPO
di Pierluigi Battista
Pannella sulla scena italiana era diverso da tutti gli altri. La sua irruenza ha demolito muri di diffidenza e imposto i diritti degli individui a Dc e Pci che li ignoravano
Il nome di Marco Pannella evoca tante conquiste, tante battaglie, tanti eccessi. Tante immagini, soprattutto, legate indissolubilmente a un leader politico che ha combattuto con il corpo, con l’immagine e la materialità del corpo, in quell’agone politico italiano che ai tempi della fragorosa irruzione pannelliana trattava il corpo come un fastidioso impaccio, qualcosa di cui diffidare nel dominio incontrastato del concettismo ideologico. Pannella entrò invece anima e corpo, letteralmente, nella scena politica italiana. Com’era diverso da tutti gli altri, quell’oratore sottile e allampanato, la chioma ancora più arruffata e candida nel contrasto con il maglione nero indossato alla maniera dell’esistenzialismo francese. Diverso con il cartello perennemente attaccato al collo nelle manifestazioni a favore del divorzio. Diverso nella sua scheletrica magrezza nel corso di qualche sciopero della fame e della sete. Diverso quando si faceva immortalare imbavagliato alle telecamere. Con la sigaretta sempre accesa, anche dopo l’operazione al cuore, già avanti con l’età. O quando si concedeva all’arresto della polizia durante qualche manifestazione di disobbedienza civile. Diverso quando passava il Natale e il Capodanno a battagliare per l’amnistia o in compagnia dei detenuti, per rivendicare il rispetto costituzionale della dignità degli individui, anche, anzi soprattutto di quelli che scontano la pena in carcere per i loro errori: «Nessuno tocchi Caino».
Marco Pannella ha commesso moltissimi errori, dettati da quella che con la terminologia cristiana si chiamerebbe superbia e da incontenibile autostima: se ne accorgeva anche lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso, orgoglioso com’era. Ma nel computo delle ragioni e dei torti, i primi hanno decisamente surclassato i secondi. Un eccesso di sospettosità lo portava a diffidare delle figure forti che dentro e fuori il Partito radicale, nella nuova guardia o tra gli amici fiancheggiatori, avrebbero potuto offuscarne la splendida solitudine. Si innamorava troppo spesso delle sue stesse parole, senza accorgersi delle modalità vagamente castriste verso cui lo portava la sua oratoria torrentizia. Talvolta non sapeva resistere al suo lato fortemente profetico ed ecumenico, piegando il Partito radicale a un ruolo di testimonianza un po’ sterile nella battaglia, in sé meritoria, contro la fame nel mondo. E non si accorse, attorno agli anni Novanta, del logoramento dell’istituto referendario, schiacciato da una proliferazione di quesiti non sempre sentiti dall’opinione pubblica, stressato da un abuso che alla fine ha portato allo svilimento del referendum stesso.
Ma gli errori costellano inevitabilmente ogni impresa politica che abbia il respiro e le ambizioni delle trasformazioni storiche. E nessun errore potrà offuscare la semplice, elementare constatazione: Pannella ha portato nel cuore della battaglia politica una bandiera sconosciuta prima, o silenziata, o messa ai margini, il vessillo dei diritti civili. Una dimensione estranea alla maggioranza delle culture politiche che si erano cimentate negli anni dell’allora giovane Italia repubblicana, in gran parte insensibili alle tematiche dell’individuo moderno, dell’individualismo, delle libertà individuali, ispirate a forme più o meno intransigenti di collettivismo, di comunitarismo, in cui il primato dello Stato, del pubblico, del partito, della storia, della classe, della chiesa erano dogmi di larghissimo uso.
Con la battaglia per il divorzio, Pannella contribuì a scardinare questo ordine di priorità. I «diritti» degli individui non erano contemplati dalla cultura di matrice cattolica che pure aveva una visione della «persona» che voleva sottrarla dalle spire soffocanti dello Stato. Non erano considerati dalla sinistra di cultura comunista, che li liquidava come superflui, emanazione di una sensibilità borghese estranea ai bisogni «popolari» (mica si divorziava, nelle famiglie della classe operaia!). E non avevano molto spazio nella sinistra di cultura socialista e laica, anche se i firmatari della legge sul divorzio erano in fondo un socialista, Fortuna, e un liberale, Baslini.
Ma Marco Pannella agitò le acque della politica italiana facendo dei diritti civili l’ariete che avrebbe demolito il muro di diffidenza nei confronti degli individui che di quei diritti erano i legittimi portatori. E fece irruzione nella politica italiana con un’irruenza che metteva in gioco ogni frammento della propria presenza pubblica. La sua battaglia per la «giustizia giusta», qualche anno dopo quella sul divorzio e sull’aborto, nel decennio degli Ottanta, quando l’Italia conobbe la mostruosa manipolazione giudiziaria ai danni di Enzo Tortora, fisicamente massacrato da un uso abnorme dei poteri di una magistratura appoggiata dal coro dei media, sfidò il conformismo, il quieto vivere, l’assuefazione di molti italiani alle iniquità di un sistema che non conosceva i contrappesi liberali del diritto e dell’equilibrio. E per fortuna Pannella e i Radicali trovarono in questa battaglia garantista e di civiltà l’appoggio incondizionato di una figura inquieta e irregolare come Leonardo Sciascia, che per questo subì il rito della scomunica da parte di una sinistra prigioniera delle sue ossessioni illiberali.
Anche per questo Marco Pannella fu molto diffamato dal coro dei conformisti e dei pasdaran dei poteri costituiti e delle ortodossie ideologiche che salutarono con entusiasmo l’incidente del Toni Negri che fuggì all’estero dopo essersi munito dell’immunità parlamentare con l’elezione nelle liste dei Radicali. Che si scandalizzarono quando Pannella, con un gusto del gesto imprudente che però faceva parte del suo bagaglio esistenziale e culturale, promosse l’ingresso della pornodiva Cicciolina nelle ingessatissime e perbeniste aule parlamentari. E che non capirono il Pannella che si rifiutava di adeguarsi al furore giustizialista che stava accompagnando la tempesta di Manipulite, quando il leader radicale prese provocatoriamente sotto la sua protezione il «Parlamento degli inquisiti» e si avvicinò al Bettino Craxi, suo vecchio compagno di battaglie universitarie, che in quegli anni stava conoscendo l’onta del linciaggio o dell’abbandono di chi era stato illuminato di luce riflessa all’epoca dei trionfi del Garofano craxiano.
Il Pannella che nella battaglia politica aveva messo tutto se stesso, a cominciare dal corpo continuamente traumatizzato dagli scioperi della fame, può essere ricordato come il campione dei diritti civili e del garantismo nell’Italia che si vorrebbe culla del diritto ma che invece dello Stato di diritto ha voluto scavare la tomba. Un leader ancorato nella sinistra ma che non ha mai sottaciuto i limiti e le meschinità della sinistra storica maggioritaria. Che ha intrattenuto rapporti tempestosi con i suoi stessi compagni, a cominciare da Emma Bonino al suo fianco da decenni, fino a essere accusato di essere un Crono avvezzo a divorare i suoi figli, uno dietro l’altro. Un leader che ha messo in gioco tutto, anche i rapporti personali, anche tutt’intera la sua umanità, il suo corpo, la sua icona, carnale e ascetica insieme. Fuori dagli schemi consolidati, sempre .
«TRA NOI NESSUNA CORSA A CONVERTIRCI MA VOLEVA TENERSI LA CROCE DI ROMERO»
intervista di Gian Guido Vecchi a Vincenzo Paglia
Città del Vaticano «Quando ha visto la mia croce pettorale, mi ha chiesto da dove veniva. Ho spiegato a Marco che era la croce dell’arcivescovo Óscar Romero, del quale avevo seguito come postulatore la causa di beatificazione. Gli raccontavo che Romero era stato ucciso perché si scagliava contro un’oligarchia oppressiva, per difendere i poveri, forte solo della sua parola e della radio che diffondeva i suoi messaggi, tanto che a volte gliela facevano saltare. E questa cosa lo entusiasmava, mi ha preso la croce, se la rigirava fra le mani, se l’è pure messa, non voleva più ridarmela...». L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la famiglia, sorride con un velo di mestizia. Con Pannella si sono parlati ancora la settimana scorsa, l’ultima volta che l’ha visto è stato mercoledì, in ospedale, «ma non ho potuto salutarlo ancora, era già sedato, ho detto una preghiera per lui».
Chissà che avrebbe detto...
«Ah, ma lui lo sapeva! Gliel’avevo detto: ti seguo con la preghiera, eh? E lui mi abbracciava. Eravamo amici. Non c’era, tra noi, una corsa a convertirci, ma ad approfondire la nostra amicizia rispettosa e fraterna. Noi siamo uno, mi ha detto, “siamo ecclesia!”. Ha voluto bere dal mio stesso bicchiere».
È vero che gli ha portato un messaggio del Papa?
«Aveva scritto una lettera a Francesco, mi ha chiesto di fargliela avere e l’ho portata al Santo Padre. Voleva sapesse che lo stimava molto: capisco e ammiro quello che Francesco sta facendo, diceva. Ne parlava spesso, come pure di Wojtyla. Nel giorno del compleanno di Marco, il Papa come risposta ha voluto mandargli in dono il suo libro sulla Misericordia e una medaglia che raffigurava la Madonna con Bambino. Li ho portati a casa sua, riferendogli le parole di Francesco: anche lui gli ha fatto sapere che lo apprezzava».
La sintonia sul tema delle carceri, l’impegno contro la fame o la pena di morte. Ma c’erano anche motivi di forte divisione, con la Chiesa, dall’aborto all’eutanasia, no?
«Certo, e ci siamo anche contrastati con franchezza, senza che questo incrinasse il nostro rapporto. Però, ultimamente, parlavamo d’altro. Mi aveva chiamato all’inizio di marzo, quando non poteva più uscire di casa: voglio parlare con te, mi ha detto. Da allora andavo a trovarlo più o meno ogni dieci giorni».
E di che parlavate?
«Ci sono cose tra amici che restano nella coscienza. Era interessato soprattutto ai temi spirituali. Ricordo quando il vento muoveva i rami, fuori dalla finestra, e lui esclamò: quello è lo spirito che agisce e muove la storia, è più forte di tutto!, e dobbiamo lasciarci guidare da questo soffio: vedi i gabbiani che volano? E continuava: se penso alla mia vita, ho lottato; la testimonianza è la nostra vera forza. Ecco, gli piaceva riflettere per ore di tutto questo... Con me amava parlare del Vangelo, delle parole di Gesù, della speranza».
Si definì «diversamente credente». Lei che ne dice?
«Talvolta mi diceva: credo sia il Vangelo la fonte che mi ispira e mi guida, del resto era un pilastro anche per Gandhi! Amava una frase di San Paolo, “spes contra spem”: di fronte alle manifestazioni di violenza e di crudeltà di questo mondo, ripeteva, credo che dobbiamo continuare a opporci anche contro ogni speranza, anzi dobbiamo essere speranza».
Personalità complessa...
«Su questo non c’è dubbio. Una volta, scherzando, gli ho detto: il tuo angelo è un po’ come San Marco, un leone! E lui: vero, io mi sento un leone! Non si rassegnava, non era rassegnato».
Poche settimane fa aveva detto: «Non ho paura di morire. E poi altri vent’anni così, sai che palle!». Avete parlato della morte?
«Non in astratto, ma rispetto all’amicizia. Noi siamo anziani, gli dicevo, ma io spero di restare tuo amico per sempre, anche se ci tocca morire ci dobbiamo ritrovare; e sono sicuro, caro Marco, che quando staremo davanti a Chi ci giudica, dalla folla si alzerà qualcuno di quei milioni di affamati che dicono: Marco ha lottato per noi! E questo ti varrà tanto. Lui mi abbracciava, a volte non finivamo di abbracciarci».
Pur nelle ovvie differenze, che cosa ha trovato di ammirevole nella vicenda politica di Marco Pannella?
«Lo spendere la vita negli ideali in cui ha creduto, senza fare di questi ideali un piedistallo per arricchirsi o avere un potere che non fosse quello della sua parola e delle sue idee. Credo sia questo che in lui ha apprezzato anche Francesco. Un uomo che è sempre stato ricco delle sue idee».