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Il manifesto, 2 giugno 2016 (p.d.)

Ad Idomeni non c’è più nessun dio. È zona sconsacrata. Nessuno può entrare. Un cimitero di tende e lamiere, raschiate dalle ruspe dello sgombero. Posti di blocco ovunque, la polizia presiede le strade, chiede i documenti, la nazionalità è fondamentale in questi casi. «Ma voi siete volontari?», è la domanda. Poi, lo sguardo fermo. «Cittadinanza italiana», si legge sulla carta d’identità.

«Volontari sicuramente – dice Francesco Scardaccione, barese, 23 anni – ma prima di tutto siamo attivisti provenienti da tutto il mondo, completamente autonomi, slegati dalle organizzazioni governative e dalle Ong…». Francesco è uno di quelli che ha visto intere famiglie sbarcare a Lesbo in fin di vita. Francesco è l’attivista che ha tirato su un forno con un gruppo di iraniani, dove si impastava il pane e la pizza. Francesco è uno dei tanti che ha vissuto per due mesi nel campo di Idomeni, i suoi vicini di tenda erano siriani. «Costruiamo insieme ai migranti la solidarietà, condividiamo mezzi, strumenti, problematiche e possibili soluzioni». Il mutuo soccorso, il piano è umanitario, l’esodo è costante e inarrestabile, «Scarpe rotte, pur bisogna andare, tutti insieme», indicando la Macedonia.

Nonostante lo sgombero, gli attivisti sono sempre qui. In centinaia infatti sono rimasti, a decine ne stanno arrivando, per monitorare la situazione, per denunciare «le condizioni indegne dei campi militari nei dintorni di Salonicco», per fare informazione. Il sito di Melting pot Europe sforna resoconti costanti, giornalieri, la pagina facebook di Communia.net carica le foto degli attivisti presenti, le immagini del calvario. Un mondo tranciato da muri e dalle bombe, spaccati generazionali e culturali a confronto. L’intento, mostrare le mistificazioni, rendere visibile ciò che è invisibile nella cortina di fumo e afa che circonda l’area che va da Policastro a Salonicco.

Curdi, siriani e iracheni, migliaia di persone sono state deportate in questi centri. Syndos Frakapor ad esempio, un ex magazzino, un hangar gigantesco e fatiscente, riconvertito a campo militare. Il distretto industriale di Salonicco attorno, fabbriche dismesse e abbandonate, le insigne rosicchiate dalla crisi economica che ha sconvolto la Grecia. 800, i curdi ammassati nella tendopoli. «Abbiamo poca acqua, il cibo scarseggia. Una ventina di bagni chimici per quanti ne siamo e nessuno viene a pulire da una settimana», racconta Imad, capelli bianchi, fuggito dalla Turchia di Erdogan, con il Buzouki sotto braccio.

Imad aveva stretto amicizia con Francesco al campo di Idomeni. Si abbracciano, rievocano aneddoti, si prendono in giro. Imad aveva impacchettato, inforcando due pezzi di legno e uno straccio incerato di una tenda devastata dalla pioggia e dal vento, un aquilone su cui avevo scritto «Rojava, Kurdistan». L’aquilone svettava sulla tendopoli, lo ricordano tutti. La polizia puntella i cancelli del campo, gli attivisti fanno foto, prendono appunti

«Se non ci fossero i volontari, saremmo invisibili, nessuno parlerebbe di noi, tutti ci dimenticherebbero – continua poi, sorridendo al flash delle foto – a Idomeni si stava meglio, facevamo le nostre cose, vivevamo!»

«Niente giornalisti», intima il militare all’entrata, quasi ad interrompere quel minimo di connubio umano raffazzonato in pochi minuti. «Il governo greco sembra che voglia nascondere l’emergenza umanitaria in un recinto di filo spinato e di ossequioso silenzio. Non è un caso che L’Europa abbia sbloccato la tranche da 11 miliardi lo stesso giorno in cui Idomeni veniva evacuata», dice Stefano, il quaderno in mano, trapiantato oramai in Grecia dalla lontana Bolzano, salutando Imad in lontananza. Azzittire, rendere invisibili, nascondere ovunque il tacito accordo con la Turchia. La firma è quella di Alexis Tsipras. I campi militari invece, 11 per l’esattezza, una corona di cemento e detenzione millantata ad asilo, alle porte della Macedonia, sono responsabilità della fortezza Europa.

«Quanto resti?» Abud, siriano di Damasco, mentre sorseggia un bicchiere di Chai.
«Non saprei dove andare», ironico, scrollando le spalle, Pigi, attivista italiano.

Eko station, un campo informale, occupato da migliaia di migranti, non autorizzato, una distesa di tende e tendoni sull’asfalto della stazione di rifornimento. «Non abbiamo accettato di entrare nei campi militari per paura che il mondo ci dimenticasse, aspettiamo…», dice Abud, accendendosi una sigaretta. A giorni è previsto lo sgombero di tutti i campi “illegali”. L’atmosfera è tesa. Più di quattro mila persone rischiano la prigionia e il rimpatrio forzato.

Qui però gli attivisti si fanno sentire, possono entrare. Camuffati dal circo mediatico in un problema da estirpare, ovunque invisibili, a gran voce, una trentina di italiani della staffetta #overthefortress ha installato una radio, con casse musica e microfoni. La frequenza è 95.00, Radio No Borders. I siriani cantano, ballano. Le persone si accalcano.

Abud studiava per diventare un veterinario e nel tempo libero si dilettava a strimpellare qualche canzone. Improvvisa, gorgheggiando, l’inno dell’esercito libero siriano. «Quando tornate, ve lo recito in italiano», con applauso finale, è ovvio.

«A Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre "piazze piene, urne vuote": il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».

Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

Roma. Alla vigilia del voto amministrativo e in attesa del «ponte» più lungo che ci porterà alle elezioni di domenica, anche Pietro Nenni sarebbe costretto a cambiare il suo slogan. Perché a Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre «piazze piene, urne vuote»: il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».

I segnali ci sono tutti, specie sotto il Campidoglio, dove lo tsunami di Mafia Capitale, la traumatica fine dell’esperienza del «marziano» Ignazio Marino, gli scontri nel Pd, la spaccatura nel centrodestra (fino a poche settimane fa erano ancora quattro i candidati in campo) producono due effetti: non solo il possibile «vento» a Cinque Stelle che spingerebbe Virginia Raggi, ma anche la difficoltà enorme — per tutti i partiti, ma soprattutto per i dem — di organizzare un evento, un comizio, persino una cena. A Milano, Napoli e Torino va un po’ meglio, ma le piazze del 2011, la «rivoluzione arancione» di Giuliano Pisapia e di Luigi de Magistris, i 40 mila di piazza del Duomo o le adunate a piazza del Plebiscito, sono un ricordo. Tutto è più soft, più circoscritto. Beppe Grillo diserterà piazza del Popolo dove chiude la Raggi (con Claudio Santamaria sul palco), Renzi si è «rinchiuso» ieri sera con Roberto Giachetti all’Auditorium della Conciliazione, Alfio Marchini si sposta sul litorale di Ostia, Giorgia Meloni e Stefano Fassina addirittura in periferia.

E, in queste settimane, trovare qualcuno disposto a partecipare ad eventi di vario tipo è stata un’impresa, prova ne sia che c’era molta più gente a piazza di Pietra alla presentazione del libro di Goffredo Bettini, vecchio «guru» del centrosinistra romano, che in certi comizi in giro per la città.

Dario Franceschini si è imbufalito per un appuntamento sulla cultura, in un cinema vicino al Parlamento, andato deserto. Lo stesso Giachetti, in un’altra occasione, era già in viaggio per Corviale (periferia estrema) quando lo hanno avvertito: «Non venire, non c’è nessuno». Il deputato dem Umberto Marroni, su WhatsApp , aveva creato un gruppo per pubblicizzare l’incontro dal titolo «Una stagione di riforme», il 31 maggio. Risposta, una sfilza di «ha abbandonato il gruppo», di proteste («mi avete fatto attaccare i manifesti e non mi avete neppure trovato il posto di lavoro promesso»), di «non partecipo, non mi scrivete più». E alla cena da Eataly , a «casa» di Oscar Farinetti, organizzata dalla civica di «Bobo», via mail era stato chiesto a tutti i candidati di portare «almeno venti persone»: i candidati, in tutto, sono circa 350, ma alla cena c’erano appena 150 persone.

Marchini, per evitare i flop, seleziona al massimo gli appuntamenti: poche (e mirate) manifestazioni, per il resto molto «porta a porta». Vale anche per Giorgia Meloni, che dopo il «lancio» della sua campagna elettorale sulla terrazza del Pincio torna domani a Tor Bella Monaca.

Non va molto meglio a Milano con Sala e Parisi che hanno scelto chiusure «minimal»: Parisi sarà a piazza Gae Aulenti, mentre Sala dalla Darsena dovrà spostarsi «causa maltempo» in un luogo chiuso. Ma anche qui conta il clima generale. All’Alcatraz, per il concerto della «Sinistra per Milano» con Vecchioni, Morgan e Rocco Tanica c’erano 300 spettatori. E l’8 maggio, quando Silvio Berlusconi era al Teatro Manzoni, dopo un po’ la gente ha cominciato ad andarsene: «C’è la festa della mamma». Scena simile è capitata a Maria Elena Boschi, alla Stazione Marittima di Napoli: a causa dei ritardi sul programma, i due pullman organizzati sono andati via proprio quando la ministra stava iniziando il suo discorso, lasciando Boschi con la sala semivuota. Un po’ meglio va a de Magistris, che tra cantanti (vedi Bennato ed altri), artisti, militanti, le sue uscite da capopolo (vedi quella su Renzi) riesce a «smuovere» un po’ di più le folle, ma anche a Napoli si tratta più di microeventi, qualche salotto buono, sale ristrette. E i Cinque Stelle? Anche per loro l’aria pare un po’ cambiata rispetto al passato. A Torino, per Luigi Di Maio, complice la pioggia, non c’era il pienone. Stessa cosa a Roma, quando la Raggi ha presentato i suoi candidati a Cinecittà, nella piazza del funerale di Vittorio Casamonica. Anche per l’attesa dei risultati la scelta di Virginia è molto «privata»: dentro M5s circola voce che, domenica sera, ci sarà una cena a casa di Di Maio oppure di Di Battista. E poi tutti al comitato elettorale della favorita alle elezioni romane, in un semplicissimo ufficio in zona Ostiense .

Il manifesto, 2 giugno 2016 (p.d.)

E se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati nell’intervista di ieri aRepubblica, rivelano una lungimiranza tale da proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di «accoglierli tutti», i richiedenti asilo e i migranti economici.

D’altra parte «Accogliamoli tutti» fu il titolo di una prima pagina del manifesto di qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un sottotitolo («Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati») che motivava la possibile combinazione virtuosa, in base a una sorta di «altruismo interessato», tra interessi dei residenti e interessi dei nuovi arrivati.

Non vogliamo, certo, attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di parlare in prima persona e con argomenti ben torniti le nostre convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e di cui mai usufruiranno sottoforma di pensioni, rappresentano «quasi un punto di Pil», offre un’indicazione preziosa.

In altre parole, l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a mostrarlo con inequivocabile evidenza.

Questo significa, forse, che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente, socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è insormontabile.

E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla Fortezza Europa – come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo scusa agli Amish veri) – bensì a una sorta di «cronicario Europa», senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo. Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo, gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila stranieri già regolarmente residenti.

Perché tutte queste cifre che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare sensibilmente quell’immagine di «emergenza epocale» costantemente evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna, accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di invasione.

Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e tantomeno profetica, pensiamo proprio che «accoglierli tutti» (o quasi) sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e moltiplicando quelle iniziative – oggi modeste nelle dimensioni, ma potenti per il messaggio trasmesso – capaci di realizzare canali legali e sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese.

D’altra parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti conflitti etnici e alla stessa dis-integrazione dell’Europa.

Richiede molto tempo e intelligenza politica e, soprattutto, la capacità di sottrarsi a quella sudditanza psicologica nei confronti degli imprenditori politici dell’intolleranza, che sembra paralizzare una parte estesa della classe politica. Sullo sfondo, un’antica lezione che – per quanto la storia l’abbia mille volte confermata – sembra, ancora una volta, restare inascoltata. Quando la sinistra fa la destra, è sempre la destra a vincere. Di fronte a una copia abborracciata è pressoché fatale che si finisca con lo scegliere l’originale.

«I diritti e i doveri scritti nel ’46 rappresentano le regole della coesione sociale». Scritti di Gianfranco Pasquino, Michele Ainis, Sabino Cassese, Guido Crainz.

La Nuova Venezia, la Repubblica, Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

La Nuova Venezia
ECCO PERCHÈ LA NOSTRA ITALIA
È UNA REPUBBLICA ESIGENTE
di Gianfranco Pasquino

Per nessuno scopo, analitico, interpretativo, propositivo, la Costituzione italiana può essere divisa nettamente in due parti: una attinente ai diritti (e doveri), l’altra all’ordinamento dello Stato. I principi ispiratori dei Costituenti e la loro visione complessiva informano chiaramente e coerentemente entrambe le parti. Tutte le componenti della Costituzione italiana si tengono insieme e segnalano che qualsiasi revisione, anche minima, deve essere valutata con riferimento al suo impatto complessivo. La tesi che argomento e svolgo nel libro La Costituzione in trenta lezioni (Utet 2015) è che nessuna Costituzione è mai semplicemente un documento giuridico. Le Costituzioni migliori, a cominciare da quella degli Stati Uniti d’America e a continuare con quella della Germania contemporanea, sono documenti eminentemente politici. Mirano a plasmare la vita di una comunità, a darle le regole di comportamento e di rapporti fra persone, associazioni, istituzioni.
Anche la Costituzione italiana mira a fare, limpidamente, tutto questo. Plasma la Repubblica democratica, evidenziando, fin dall’inizio, che la Repubblica sono i cittadini, siamo noi. Ai cittadini - elettori, rappresentanti, governanti - spetta il compito di rimuovere gli ostacoli all’effettiva partecipazione alla vita della comunità (articolo 3). Con questa indicazione, i Costituenti miravano a costruire le premesse della coesione sociale e a dare senso e identità ad una comunità di sconosciuti, usciti da vent’anni di fascismo che aveva teso a isolarli e a punirli se si associavano e se parlavano di politica.
A questi sconosciuti, anche agli stessi uomini e donne nell’Assemblea Costituente, apparve subito necessario ricordare l’importanza della partecipazione, sottolineare il riconoscimento del pluralismo e delle capacità associative, anche in partiti politici (articolo 49), mettere in evidenza che le cariche pubbliche, in politica, nelle istituzioni, nella burocrazia debbono essere adempiute con «disciplina e onore» (articolo 54). Ai detentori di cariche istituzionali, fra i quali si trovano, naturalmente, anche i magistrati, si raccomanda di tenere in grande conto sia la separazione dei poteri affinché ciascuno di loro svolga i compiti specifici affidatigli sia l’equilibrio affinché nelle loro inevitabili interazioni nessuna istituzione cerchi di sopraffare le altre e tutte operino in un complesso gioco di freni e contrappesi.
Forse, nella predisposizione di questi freni e contrappesi si colloca anche il fin troppo spesso menzionato complesso del tiranno, ma che i freni e i contrappesi siano la base sulla quale operano tutte le democrazie migliori appare innegabile. La Costituzione è un documento politico esigente. Funziona tanto meglio quanto più i cittadini, i rappresentanti e i governanti non si limitano a rivendicare diritti, ma si impegnano a svolgere fino in fondo i doveri ai quali vengono chiamati: educare i figli, votare, pagare le tasse in proporzione al loro reddito, riconoscere e rispettare il diritto d’asilo e porlo in pratica.
La Costituzione ha accompagnato e, oserei dire, ha guidato la crescita dell’Italia da Paese rurale, agricolo, ampiamente analfabeta, sostanzialmente impoverito e distrutto dal fascismo e dalla Guerra fino a farlo diventare l’ottava potenza industriale del mondo. Tuttavia, è sempre esistita una qualche insoddisfazione nella società e nella politica per obiettivi, il più importante dei quali è la crescita culturale e sociale, che non venivano raggiunti. Insomma, la società italiana non diventava, non è ancora diventata abbastanza civile. Né, oramai da anni, fa progressi, ad esempio, in materia di pagamento delle tasse o di contenimento e «respingimento» della corruzione. Questi gravissimi inconvenienti non sono evidentemente attribuibili alla Costituzione e ai suoi articoli, tantomeno alla sua ispirazione, agli accordi e ai compromessi, spesso fecondi, che i Costituenti raggiunsero fra loro, offrendo una non banale e non criticabile lezione di metodo.
Se, come ho detto e ribadisco, «la Repubblica siamo noi», allora dobbiamo criticare gli italiani, individualisti e egoisti, che pensano di cavarsela da soli e di non dovere nulla allo Stato e ai loro concittadini; gli italiani «familisti amorali», che orientano e giustificano qualsiasi loro comportamento con l’esclusivo perseguimento di vantaggi per la loro famiglia; gli italiani che si fanno forti della loro appartenenza a qualche corporazione (burocrazia, magistratura, classe politica, giornalismo); gli italiani che screditano qualsiasi forma di impegno e si rifiutano di riconoscere il merito e di premiarlo. Questi sono gli italiani che non hanno saputo né voluto capire che soltanto agendo nel rispetto delle regole, dei diritti, dei doveri scritti nella Costituzione, la Repubblica, di cui celebriamo i settant’anni, raggiungerà una apprezzabile qualità democratica e si accompagnerà ad una società davvero, finalmente civile.

La Repubblica
LA LEZIONE DEL 2 GIUGNO
di Michele Ainis

Italia in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti, però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele. Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante, comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.

Eppure il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.

Ecco perché cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.

E il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non si riconosca nella Repubblica italiana?

D’altronde lo stesso referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.

Corriere della Sera
LE STELLE RESTANO LONTANE?
di Sabino Cassese

«Credevamo che le stelle fossero a portata di mano», ha scritto un testimone di quei giorni, quando, disfatto lo Stato monarchico e fascista, il 2 giugno 1946, il popolo fece sentire la propria voce scegliendo la Repubblica ed eleggendo l’assemblea che un anno e mezzo dopo avrebbe dato all’Italia una Costituzione.

A un Paese autarchico, chiuso all’esterno, si sostituì una nazione che si uniformava alle norme del diritto internazionale e limitava la propria sovranità per assicurare pace e giustizia nel mondo: nel 1949 l’Italia aderì al Trattato del Nord Atlantico, nel 1951 alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nel 1957 alla Comunità economica europea e a quella dell’energia atomica.

Per vent’anni non erano state consentite libertà di parola e di associazione. Queste furono ripristinate e ai maggiori partiti si iscrissero 4 milioni di persone (la popolazione italiana era allora di 46 milioni), mentre alle elezioni partecipò il 90 per cento degli aventi diritto. Negli anni 70 si aprì una nuova stagione di diritti (come parità tra uomo e donna, Statuto dei lavoratori, divorzio).

Per cent’anni, la scuola era rimasta classista, con corsi separati per i figli della borghesia e per quelli degli operai e contadini, e all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti.

L’ Italia unificata aveva accettato forti divari al suo interno. Nel 1950 la riforma agraria iniziò a eliminare i latifondi meridionali e la Cassa del Mezzogiorno portò al Sud risorse per l’agricoltura e le opere pubbliche.

Ai Comuni, vissuti per cent’anni sotto il controllo statale, venne riconosciuta autonomia.

Il progresso civile e quello tecnologico hanno fatto il resto: la scuola media unificata, migrazioni interne e industrializzazione, televisione hanno finalmente condotto all’unificazione linguistica e Internet è divenuto un formidabile strumento per assicurare la trasparenza della gestione pubblica.

Ma sono state soddisfatte le grandi attese e mantenute tutte le promesse fatte settant’anni fa? Si era combattuto per chiudere completamente col fascismo. Molte sue istituzioni, invece, rimasero in vita, specialmente nel campo dell’economia. Gli italiani speravano in un nuovo Stato, ricostruito dalle fondamenta: si dovettero invece accontentare di una modifica del vertice (la Costituzione), mentre il resto rimase immutato, nel segno della continuità. La stessa Costituzione ebbe una «lentissima attuazione», come lamentato da uno dei suoi ispiratori, Massimo Severo Giannini: la Corte costituzionale cominciò la sua attività solo nel 1956, solo nel 1963 le donne potettero diventare giudici, i consigli regionali furono eletti nel 1970, ogni forma di censura teatrale venne soppressa solo nel 1998, prima della proiezione in pubblico i film debbono ancora ottenere un nulla osta.

La Costituzione prometteva che le ragioni della società prevalessero su quelle degli individui: invece, al benessere privato fa oggi riscontro povertà pubblica (basta entrare in una scuola o in un ospedale, o semplicemente camminare per le strade della capitale, per rendersene conto). Si voleva che il potere pubblico fosse limitato da contrappesi: invece, è stato solo ritardato da impedimenti. Si volevano evitare le degenerazioni del parlamentarismo: invece, abbiamo avuto 63 governi (nello stesso arco di tempo la Germania ne ha avuto 24), mentre il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare la sua funzione di controllo del governo. All’ordine giudiziario è stata riconosciuta indipendenza, ma la politica è rispuntata nel suo seno, mentre i processi sono troppo lenti e la giustizia si fa sempre attendere. Il Sud di oggi è molto diverso da quello di ieri, ma la distanza tra Sud e Nord è aumentata nuovamente. I dislivelli di statalità sono cresciuti, perché intere zone non sono sotto controllo pubblico, ma nel dominio di ordinamenti criminali. Lo Stato non si è mai dotato di una «noblesse d’Etat», in grado di emanciparlo dalla morsa degli interessi e dalla corruzione. La capitale della nazione, nella sua struttura fisica, somiglia più a una città africana che a una metropoli europea, quale dovrebbe essere. L’unità nazionale rimane fragile, la «costituzione materiale» resta diversa da quella formale, le stelle rimangono lontane.

La Repubblica
IL PAESE SPAESATO
CHE ANCORA S'INTERROGA SULLA SUA REPUBBLICA

di Guido Crainz

Molte le occasioni mancate: ce lo ricordano la diserzione dal voto e la corruzione dilagante. Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove». Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.

Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”. Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni.
Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove. Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa. E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione.
Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento. Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ». Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica - spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.

. Il manifesto, 2 giugno 2016 , con postilla

Nel non senso della politica italiana e particolarmente romana, la domanda pubblica posta da Asor Rosa appare quantomeno (ma non soltanto) salutare: si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza?

La domanda è così pertinente (dati i tempi) che forse accanto ai noti candidati sindaci: Meloni, Giachetti, Marchini, Raggi, e Fassina (che merita un discorso a parte come tenterò di dire oltre), nei talk show nostrani ne dovrebbe comparire un sesto il quale, appunto, dovrebbe rappresentare la domanda di Asor Rosa.

La tanto gloriosa Roma appare, come recita il libro di De Lucia ed Erbani, non più una città tanto il degrado fisico, urbanistico, morale, sociale e politico si è aggravato. Quasi ci sarebbe da chiedersi perché ci ostiniamo a vivere in questa città nonostante sia ormai quasi impossibile attraversarla da una parte all’altra senza affrontare i rischi, le sofferenze e i disagi di un avventuroso viaggio in un qualche paese straniero sconsigliato ai turisti. E non c’è nemmeno più il bisogno di dimostrare questa impressione tanto essa è diventata luogo comune, sensazione diffusa e generale (basta aspettare il bus in un giorno di festa o in un qualsiasi giorno di sera, che non arriverà).

A sentire i candidati sindaci, risolvere i problemi citati e arcinoti è semplicissimo: basta fare questo o quello e voilà i problemi spariscono, senza che nessuno di essi riesca però a spiegare perché fino ad oggi non si sono fatte queste o quelle cose (buche docet). Insomma manca un progetto (nel senso nobile del termine) per questa città e un candidato che comunque possa esprimerlo e tanto più realizzarlo.

Detto questo concordo totalmente con Asor Rosa e con Bevilacqua che la lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, anzi di più: una occasione che può rivelarsi fondamentale per il futuro prossimo della città se solo le istanze e le forze che essa rappresenta (la sinistra che rimane, o, se volete, l’unica che possa chiamarsi tale) non si dissolveranno a campagna elettorale conclusa (esperienza avvenuta troppe volte).

E qui mi permetto di dissentire con le conclusioni di Asor Rosa perché ho l’impressione che la eventuale vittoria finale del candidato dem possa liquefare rapidamente quel coagulo di forze popolari messo insieme da Fassina: è già accaduto con Rutelli e Veltroni, artefici del Piano Regolatore Generale e di quel nefasto Modello Roma (glorificato da Giachetti che propone di nuovo la politica dei Grandi Eventi) che sembrava annunciare il rinascimento urbano della Capitale; sinonimo di modernismo, innovazione, cambiamento.

Quel quindicennio (1993-2008) fu caratterizzato da una ingannevole assenza totale di ogni conflitto sociale. In altre parole sembra a me che Asor Rosa nutra quello stesso “giovanile ottimismo” che lui addebita (senza condividerlo) a Piero Bevilacqua. Perché Asor si chiede, in finale del suo articolo (come sempre lucidissimo, quasi didascalico): Roma che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere.

E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? La mia impressione è che, a sinistra, le lacerazioni siano ancora troppo forti (e purtroppo quasi sempre di natura personali) perché la coalizione Fassina possa sopravvivere a una eventuale vittoria del candidato dem senza esserne sussunta o ridotta a inutile alleanza.

Mi si chiederà: e allora? E allora, io penso, bisognerebbe prendere l’abitudine (che un tempo esisteva) di lavorare insieme prima e oltre le scadenze elettorali (ce lo ripetiamo sempre ma mai lo facciamo), perché per risalire la china dalla quale siamo rotolati in tanti anni, ci vorrà tempo, pazienza e fatica, senza cedere alle lusinghe di qualche furba tattica (sport prediletto e praticato dalla cultura italiota) che sembra mostrarci ingannevoli scorciatoie (che in politica non esistono e comunque non pagano): tertium non datur.

Un esempio che forse farà sorridere: un tempo esisteva a Roma una Casa della Cultura a Largo Argentina, dove si discuteva insieme dei tanti problemi emergenti: si facevano analisi, si polemizzava, si affrontavano (insieme) problemi. Qualcosa di analogo è ancora possibile per dare cemento (mi si scusi la parola che a Roma mette i brividi) a questo coagulo di forze che ancora crede sia possibile un’altra Roma (e un’altra Politica)?

postilla

Su eddyburg potete leggere gli articoli di Alberto Asor Rosa e di Piero Bevilacqua, cui si riferisce Enzo Scandurra. La critica di quest'ultimo riguarda l'affermazione di Asor Rosa secondo il quale nel ballottaggio finale si dovrà inevitabilmente scegliere t Giachetti , poichè l'alternativa sarebbe la destra oppure il movimento 5 stelle Non condivido questa posizione, per una ragione che si aggiunge a quelle di Scandurra. A mio parere il rischio più grave che corre la democrazia italiana è l'affermazione del regime rappresentato da Matteo Renzi, prosecutore del disegno avviato da Craxi e Berlusconi, con una lucidità ed efficacia ben superiore a quella dei suoi predecessori. La vittoria di Giachetti sarebbe un'ulteriore rafforzamento da Renzi, perciò se votassi a Roma certamente non voterei per lui (come a Venezia non votai per il pur stimabile Casson). Vedo anch'io, come Scandurra e Bevilacqua l'unica speranza per il futura nella nascita di una forza capace di svolgere oggi il ruolo che la sinistra del secolo scorso seppe svolgere per gli sfruttati e per la democrazia nelle condizioni di allora, e per il primo turno voterei senza esitazioni Fassina, mentre dubito fortemente che nel ballottaggio mi turerei il naso e voterei l'uomo del Monarca. (e.s.)

«L'omicidio della Magliana. Ci si chiede «ma io, cosa avrei fatto?». Domanda che incalza senza lasciare scampo. Il nodo è cosa occorre fare per aiutare le donne in pericolo». Il manifesto, 31 maggio 2016

Lascia impietriti, la fine di Sara Di Pietrantonio. Non solo per la furia del ragazzo, Vincenzo Paduano, così carino nelle foto insieme pubblicate su Instagram, una furia che lo ha portato a darle una morte crudele, né più né meno che un supplizio. Lui parla di sé stesso come un mostro, e sembra troppo facile. Non per lui, che chissà se mai ritroverà nel tempo tracce della propria umanità, ma i titoli dei giornali, le denunce fatte sempre dopo. Gela invece il cuore immaginare quei minuti, lei che cerca di scappare, riesce a buttarsi in mezzo alla strada, eppure le rare auto che passano non si fermano. Anche se chi guida vede una ragazza bionda che si sbraccia e chiede aiuto.

E non è l’identificazione con lei, Sara, amica sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta, che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile. Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.

In effetti ci vuole coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto? È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in pericolo?

Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti. I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.

Sembra assurdo dover scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato, nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini.

È che ci vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria. Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli effetti dell’odio violento per le donne.

Non che tutti uccidano, menino, stuprino. Eppure pochi, pochissimi hanno la forza della parola pubblica. La forza di andare contro un ordine che vive della passività di chi, invece di chiedersi a quale vita è costretto, ricerca il privilegio perduto, con uno sguardo volto all’indietro. Manca la forza di andare contro l’ordine sociale in cui viviamo. Forse anche per questo ribellarsi non è all’ordine del giorno.
. Il manifesto, 1° giugno 2016 (c.m.c.)
New York, South Bronx, Forest Houses, 1010 Tinton Avenue, tra la 163rd e la 165th. Tanti grattacieli squadrati di mattoni rossi, vecchi e perciò tozzi, non più di quindici piani, come tutte le abitazioni popolari della città dove resistono ancora un milione di fitti bloccati e perciò sono abitati da poveri ma privilegiati. Qui quasi tutti neri. Il quartiere è molto periferico ma è verde. E nel bel mezzo del piccolo parco fra le case c’è nientedimeno che un monumento a Gramsci. Sì, proprio Antonio, il nostro. Si tratta di una scultura e di tre piccoli edifici di legno in cui ha sede una sorta di circolo politico-culturale – molto recenti, del 2013 – costruiti da Thomas Hirschhorn.

Ho traversato mezza New York per trovare il luogo, di cui nessuno dei miei amici del Left Forum cui nei giorni scorsi ( come da quasi trent’anni) sono stata ospite sapeva nemmeno l’esistenza. Ma ho insistito, perché ne avevo vista tempo fa l’immagine sul New York Times, accompagnata da un lungo articolo un po’ scettico che spiegava la genesi: un artista assai conosciuto che aveva deciso di erigere monumenti simili in quartieri popolari di altre città, ciascuno dedicato a un filosofo da lui ritenuto molto importante: oltre Gramsci anche Baruch Spinoza, George Bataille, Gilles Deleuze. Qualcuno, non ricordo in quale paese del mondo, mi aveva confermato che la statua esisteva davvero, e che attorno alla costruzione si era creato un centro di iniziativa ispirato a Gramsci stesso.

Il militante «smarrito»

È inutile che dia altri dettagli, perché, finalmente arrivata sul luogo, dopo molto vagare fra alberi e edifici, ho dovuto rassegnarmi: il monumento è stato recentemente rimosso. Non per ragioni politiche, semplicemente perché l’esposizione al maltempo l’aveva deteriorato e nessuno se ne prendeva più cura. Come potete immaginare, ci sono rimasta molto male.

La sorte di Antonio Gramsci in America non è comunque così triste come questa del suo monumento. Nelle accademie, anzi, c’è da diversi anni una incoraggiante e intelligente ricerca sul «pensatore» italiano. «Pensatore», lo chiamano, come del resto in molti all’estero: pochissimi sembrano sapere che Gramsci non è stato solo un grande intellettuale ma anche un militante politico, e anzi il leader del più grosso partito comunista d’occidente.

E così si capisce perché possa capitare di sentirlo citato nelle università, praticamente mai nei panels del Left Forum, affollati di attivisti di base; o in raduni analoghi. E come mai nei tanti banchetti allestiti per l’occasione, dove viene offerta tutta la possibile mercanzia dell’editoria marxista, i suoi libri siano una rarità.

Eppure il Forum, che fino a non molti anni fa si chiamava Socialist Scholars Conference, ed era dunque promossa proprio dai docenti di sinistra delle università della west e della east coast, di intellettuali partecipanti ne ha sempre avuti, e continua ad averne, moltissimi, nonostante i più celebri – Sweezy, Baran, Mgdoff, Singer e molti altri – siano ormai deceduti. Ma anche quando c’erano loro fra gli attivi partecipanti di questa assise annuale – articolata in centinaia di workshop, cui si affluisce pagando non pochi dollari – di Gramsci si è sempre fatto a meno.

Perché la sinistra-sinistra americana è fatta così: salvo i vecchi – ce ne sono parecchi – che indossano ancora il basco in onore della guerra civile spagnola e continuano a litigare su Trotsky e Rosa – per i militanti delle tante combattive aggregazioni comunitarie, la politica è una cosa, la cultura un’altra.

Ho fatto questa lunga premessa per spiegare perché in questi tre affrettati giorni trascorsi a New York, nel pieno di una campagna elettorale animata da uno scontro di massa senza precedenti, oltre a non aver trovato il monumento di Gramsci non ho trovato neppure una seria riflessione «gramsciana» sul fenomeno Bernie Sanders che, se del nostro «pensatore» si facesse buon uso, sarebbe apparsa indispensabile premessa di ogni dibattito.

Sanders, per altro, qui è stato sempre di casa e qui infatti l’ho incontrato io stessa quando ancora era sindaco di Burlington, la cittadina dello sperduto Vermont, e poi senatore socialista di quello stato, alieno al resto del paese quanto, e anzi di più, la provincia di Bolzano rispetto alla Calabria.

Elezioni nei workshop

Di primarie se ne è parlato in molti workshop, per carità, ma più per misurare le distanze di ciascuno dallo sfidante di Hillary Clinton (c’era persino qualche cartello che lo dichiarava troppo poco di sinistra per l’America) o per chiedersi cosa fare ove in pista contro Trump dovesse rimanere Clinton; o, ancora, cosa in questo caso si proporrà di fare Bernie. Il timore è che possa esser risucchiato dall’establishment, che potrebbe dargli qualche contentino inserendolo nella squadra del prossimo presidente, sì da ottenere per la candidata democratica i voti per niente sicuri di chi fino ad ora si batte per il candidato socialista.

È per questo, del resto, che molti fra i più autorevoli commentatori insistono nel dire che forse Sanders avrebbe più chances di battere Trump di quante ne avrebbe Clinton: porterebbe alle urne un popolo di teenagers che altrimenti a votare neppure ci andrebbe. Gli ultimi sondaggi confermano: Sanders supera Trump di 10,8 punti, mentre Clinton è testa a testa col rivale repubblicano. E poi è decisamente più simpatico: lui piace al 41 % degli interrogati da un sondaggio Cbs-New York Times, mentre Clinton solo al 31 e Trump al 26 %.

Orientamenti giovanili

L’interrogativo più importante, tuttavia, che pone questa mobilitazione così massiccia e così radicalizzata, che le primarie hanno suscitato in un paese dove lo scontro elettorale non è mai stato molto partecipato, riguarda capire chi sono questi giovani, da dove vengono, quali esperienze hanno vissuto, quali letture li hanno orientati, quale sia la loro visione del mondo. E, ancora: rappresentano un episodio o un mutamento duraturo? Al di là delle sorti di Bernie questo è il vero quesito: reggerà, e in quali forme, anche dopo il voto, il movimento che sta animando la campagna elettorale , o verrà riassorbito come è accaduto otto anni fa con la mobilitazione, sia pure infinitamente minore e comunque assai meno radicalizzata, che si ebbe per Obama?

I più accorti si rendono conto che la cosa più importante da fare sia proprio preservare e far crescere questo patrimonio, non disperderlo. È quello, innanzitutto, di cui dovrà occuparsi in futuro Bernie Sanders. E loro stessi, gruppi di base della sinistra radicale, superando il dilemma che da sempre li affligge: operare dall’interno del Partito democratico finendo per essere cooptati dalla sua macchina di potere, oppure restarne fuori rischiando l’invisibilità e l’irrilevanza.

Il merito di Sanders è, in realtà, stato proprio quello di non essersi fatto schiacciare da un sistema politico così rigidamente bipartitico da rendere impensabile la creazione di una terza forza politica, sempre fallita, sia a destra che a sinistra. Il candidato che tutti definiscono socialista ha, infatti, scelto di correre nelle primarie – al di fuori delle quali non sarebbe esistito – ma è rimasto lontanissimo e indipendente dalle potenti strutture del partito.

Proprio per questo ha ottenuto consensi impensabili fra i giovani e persino fra le donne (fra quelle al di sotto dei trent’anni l’80% nello Yova e l’82% nel New Hampshire; 73 % fra quelle di meno di quarantacinque anni nel Nevada, tanto per fare un esempio)fra cui si anima un crescente numero di gruppi femministi anti Hillary Cliton, proprio perché simbolo del detestato ideale emancipatorio dell’establishment: la donna in carriera.

Sanders ha potuto fare oggi ciò che altri nel passato non hanno potuto perché in questi anni il dilemma Partito democratico/invisibilità ha perduto peso. Qualcosa di profondo si è spezzato nel sistema americano, come del resto anche in Europa: il tradizionale modello di democrazia rappresentativa non funziona più, e tutti se ne rendono conto. I più giovani vogliono prendere la parola, direttamente. Se a questo si aggiunge l’inuguaglianza senza precedenti prodotta dal sistema, si capisce perchè la rivolta contro l’establishment sia a tal punto dilagata (esprimendosi a destra così come a sinistra).

Giustamente, mi diceva Angela Davis in occasione del suo recente viaggio a Roma, il movimento Occupy è sembrato svanire perché le piazze stracolme del 2011 si sono svuotate. Ma quella presa di coscienza, quella scossa, hanno continuato a smuovere lo stagno. Questo – aggiungeva Angela – è stato in fondo il merito di Obama: aver lasciato che quel movimento si estendesse, senza reprimerlo come avrebbe probabilmente fatto qualsiasi altro presidente.

Meno appariscente, Occupy ha infatti seminato, producendo una miriade di movimenti di lotta che coinvolgono il frantumato mondo del lavoro precario che esiste anche qui: dei lavoratori dei fast food per un minimo di paga di quindici dollari l’ora; degli studenti – un milione – che lavorano nei servizi delle università per pagarsi gli studi e reclamano il diritto ad avere un sindacato e persino quello che noi chiamiamo l’art.18, per loro la giusta causa nel licenziamento; anche loro, come da noi, contro l’ulteriore salto della globalizzazione selvaggia, i Trattati su commercio e investimenti nell’area atlantica e del Pacifico; e così via.

Soggetti politici da costruire

Predire cosa accadrà è difficile anche per chi in America ci sta e ne sa ben più di me. Certo, il rigido e antidemocratico sistema elettorale del Partito democratico, che affida le sorti delle primarie ben più che all’elettorato al disciplinato drappello dei c.d «superdelegati» alla Convention, 540 dei quali già si sono pronunciati per Hillary Clinton conto solo 42 per Bernie, dicono che i giochi sono già fatti; e che, anzi, sono stati decisi già prima di cominciare la gara. Ma vincere e diventare presidente degli Stati uniti non è il solo obiettivo di Sanders (anche con in mano la Casa Bianca che potrebbe del resto mai fare se la società americana resta quella che è?).

L’obiettivo reale è la costruzione di un diverso soggetto politico collettivo, che nel lungo periodo potrebbe davvero cambiar e le cose. Se ci riuscirà lo potremo verificare già a metà giugno quando, a Chicago, molti dei gruppi «pro Sanders» si riuniranno in quello che hanno chiamato «summit del popolo». In questa occasione, si potrà valutare meglio la consistenza del nuovo movimento e la possibilità che emerga dalla nuova generazione di militanti di sinistra una leadership credibile.

È comunque già un fatto che quanto stia accadendo negli Stati Uniti – per via della mobilitazione di quella che è stata chiamata «l’ala sinistra del possibile» – sembra essere una sinistra che fino a ieri non avremmo ritenuto possibile nemmeno sognare.

«L’ultima ondata dal Nordafrica mette a nudo l’inefficacia delle ventilate intese con gli “alleati” africani e la miopia strategica».

Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2016 (p.d.)

Com’era prevedibile, e come era stato largamente anticipato, la massa di migranti e profughi si è puntualmente presentata alle porte di casa. Ci era stato detto che l’Europa avrebbe fatto la sua parte, che la Libia del nuovo corso si sarebbe impegnata, l’Egitto avrebbe collaborato e la Turchia si sarebbe accontentata di qualche altro miliardo. Per un brevissimo periodo ci avevamo creduto, ma i sospetti che si trattasse di un ennesimo bluff non ci avevano mai abbandonato. In realtà non ci voleva molto per accorgersene.

L’Ue ha applicato le regole a vantaggio dei soliti paesi centro-nordici. Le periferie meridionali sono rimaste al palo. La cosiddetta flotta europea ha dovuto prendere atto che la sola missione possibile è quella di soccorrere e salvare i naufraghi. Talvolta riesce a prevenire il peggio, ma quasi sempre la tragedia si consuma prima.

La Libia avrebbe dovuto controllare i flussi in partenza dalle sue coste e la promessa è stata accompagnata da una richiesta di soldi. Ma il traffico dei migranti in Libia non è più gestito dal governo, come ai tempi di Gheddafi. Nessuno regola più la spoletta della bomba migratoria per fini politici e le masse che arrivano sulle coste sono in balia di altri criminali. Egitto e Turchia non hanno alcun interesse a bloccare i migranti: li possono taglieggiare, selezionare e scartare a volontà. E così possono anche taglieggiare l’intera Europa.

Le perplessità erano anche evidenti sul fronte nazionale perché a dispetto degli annunci festosi e spavaldi, non si è visto alcun cambiamento di approccio strategico. Si è continuato a parlare di migranti che scappano dalle guerre, quando in realtà quelli che ci dovrebbero preoccupare sono coloro che scappano da governi incapaci di offrire un futuro più dignitoso. I profughi hanno leggi internazionali che li salvaguardano (o almeno dovrebbero), gli altri migranti no. S’è continuato a parlare d’emergenza, come si trattasse di un evento imprevedibile, contingente e transitorio. È invece un fenomeno demografico di lungo periodo che nemmeno i tradizionali “strumenti di controllo” come guerre, carestie ed esperimenti d’ingegneria sociale possono arrestare. I popoli in boom demografico si spingono verso i paesi in deficit o addirittura “capitolazione” demografica. Tutta l’Europa è in capitolazione e per mantenere il proprio standard di vita e difendere la propria cultura ha bisogno di nuovi afflussi. Alcuni paesi hanno una politica demografica in tal senso, ma non per solidarietà: di fatto selezionano “la merce migliore”per coprire il fabbisogno di mano d’opera per lavori che gli stessi europei non vogliono più fare.

Altri si arrampicano sugli specchi della xenofobia o della “difesa della razza”. La soluzione d’incrementare la natalità europea con gli oboli fascisti, è un bluff. Se manca la prospettiva di lavoro e inserimento dignitoso nella società, non sarà una manciata di euro a convincere i giovani, già in crisi e delusi, a mettere al mondo altri figli. Inoltre, tra vent’anni nessuno potrà costringere i giovani nati grazie al contributo statale o all’impegno personale dei leader a svolgere i lavori che i loro padri hanno rifiutato. La soluzione strategica di lungo termine è di una banalità imbarazzante: occorre creare in ogni paese, anche nel nostro, ma soprattutto nei luoghi d’origine delle migrazioni le condizioni perché i popoli si sentano liberi di rimanere e di partecipare con dignità alla vita sociale.

Questa banalità ne comporta altre che tutti i leader del mondo conoscono e dicono di condividere, ma che non vogliono attuare. Si tratta di ridistribuire la ricchezza, eliminare la corruzione e le ingiustizie sociali. Ma non riusciamo a realizzare queste cose a casa nostra e non facciamo nulla neppure per frenare la fuga dei nostri “cervelli”.

Si è sperato nel contrasto ai migranti nei paesi di partenza e in quelli di transito, ma nulla è stato fatto per impedire che proprio in quei paesi venissero perseguitati e massacrati o catturati e forzati alla migrazione. Sono state solo pianificate missioni militari per impedire l’imbarco e distruggere i barconi già presenti sulle coste. Ma soprattutto non è stato preso atto che, in attesa di realizzazione di migliori condizioni nei luoghi di origine, l’unica soluzione al fenomeno non è demonizzarlo o ignorarlo o passarne: occorre gestirlo come un fenomeno strutturale di lungo periodo e non una semplice emergenza all’insegna del “ha da passa' 'a nuttata”. Significa pianificare, organizzare ed eseguire: il coordinamento dei flussi, l’accoglienza, il controllo di sicurezza, l’inserimento produttivo, i ricongiungimenti familiari e i trasferimenti verso altre sedi. Significa smetterla di sperare in una burrasca permanente sul mare.

Paolo Rodari intervista monsignor Galantino, segretario della Cei: «Quei cadaveri nel Mediterraneo sono uno schiaffo alle democrazie europee. No ai centri sulle navi dobbiamo salvare i migranti e poi offrirgli un futuro».

La Repubblica, 1° giugno 2016

Monsignor Nunzio Galantino, secondo l’Oim, sono state oltre mille le vittime dei naufragi nel Mediterraneo la scorsa settimana.Tre mesi dopo il viaggio di Papa Francesco a Lesbo le notizie sembrano essere sempre le stesse. Cosa dicono a tutti noi queste morti continue?
«La partenza di migranti in fuga da situazioni drammatiche avviene sempre più in situazione di insicurezza, attraverso trafficanti senza scrupoli, al punto tale da rendere difficile ogni soccorso soprattutto in acque libiche non presidiate dalle operazioni di salvataggio delle navi europee. Quelle morti sono uno schiaffo alla democrazia europea, incapace di salvaguardare e proteggere persone in fuga da situazioni create anche dalla politica estera e da scelte economiche europee. Purtroppo, non si è avuto il coraggio di creare “canali umanitari” — previsti dal diritto internazionale — verso i Paesi disponibili all’accoglienza, per favorire partenze in sicurezza ed evitare violenze, sfruttamento e morti».

Il Viminale ha annunciato un hotspot in mare per identificare i migranti. La notizia ha riacceso lo scontro politico. Cosa dire?
«L’hotspot è una riedizione in brutta copia dei luoghi di trattenimento di persone. Le Organizzazioni internazionali a tutela dei diritti umani, come anche la Fondazione Migrantes e la Caritas Italiana, hanno già ricordato che i migranti salvati in mare hanno il diritto, sulla base di una storia personale e non di una lista di cosiddetti “paesi sicuri”, di presentare domanda d’asilo e al ricorso se una domanda non venisse accolta. Sulle navi questo percorso di protezione internazionale non è possibile. Come non è pensabile l’utilizzo di navi destinate al soccorso per far stazionare nel Mediterraneo migliaia di persone in attesa di una non precisata destinazione. A meno che le si voglia riportare nei porti della Libia e dell’Egitto, condannandole a nuove forme di sfruttamento ».

A Ventimiglia l’ultimo sgombero è stato scongiurato dal vescovo locale che ha dato il benestare a che una parrocchia accogliesse i migranti. Lo stesso vescovo ha chiesto che tutte le parrocchie facciano la medesima cosa. La Lega, tuttavia, l’ha attaccato duramente. La Chiesa da che parte sta?
«Naturalmente dalla parte del vescovo, come delle diocesi, delle parrocchie, degli istituti religiosi che — aderendo all’appello del Papa del 6 settembre scorso — hanno messo a disposizione oltre 2mila strutture per ospitare più di 23mila richiedenti asilo e rifugiati, quasi 5mila dei quali solo grazie ai contributi dei fedeli. In collaborazione con i comuni italiani, cerchiamo inoltre di favorire sul territorio un’accoglienza diffusa, attraverso un accompagnamento personalizzato dei 120mila giovani che sono arrivati tra noi. Le iniziative avviate da Caritas e Migrantes vogliono diventare percorsi di inclusione e integrazione sociale, fino a valutare — ed è la proposta Cei di 1000 microrealizzazioni — anche un rientro assistito in patria. Un conto è riempirsi la bocca di aiutare le persone a casa loro e un conto è realizzare — grazie anche a una rete di centinaia di associazioni e ong cattoliche riunite nella Focsiv da 40 anni — concreti progetti di cooperazione internazionali nei Paesi d’origine dei migranti».

Tempo fa Francesco chiese ai conventi e alle parrocchie di aprire le porte ai migranti.
Questa accoglienza è effettivamente avvenuta?
«L’accoglienza non solo era precedente all’appello, ma si è rafforzata, unitamente a un lavoro di informazione sulle storie di quanti sbarcano in Europa, sulle cause della loro fuga. Anche nelle nostre comunità ecclesiali sentiamo il bisogno di continuare a sensibilizzare i consigli pastorali, il mondo associativo, le famiglie per evitare che anch’essi siano incapaci di leggere correttamente un fenomeno globale di persone che — come ha detto l’altro giorno Papa Francesco — “non sono un pericolo, ma sono in pericolo”».

Chi e come, secondo lei, dovrebbe agire quantomeno per arginare il problema?
«L’accoglienza dei richiedenti asilo dev’essere strutturata in tutti i 28 Paesi europei. Non si possono, infatti, salvare le persone e poi non offrirgli una possibilità di futuro. Una seconda azione concreta rimane quella di organizzare “corridoi umanitari”. In questo modo si eviterebbe anche la crescita di una tratta di esseri umani oggi gestita da mafie e da terrorismo. Una terza azione concreta riguarda la possibilità di offrire un permesso di protezione umanitaria a tutti i migranti ospitati in strutture da oltre un anno e che oggi costituiscono un popolo che si allarga sempre più. In questo modo si ripartirebbe dalla legalità per costruire successivamente percorsi di giustizia e di solidarietà».

Il Fatto Quotidiano online, 1 giugno 2016 (p.d.)

Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militaremondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde,mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?

«». Il manifesto

Si può scrivere e pubblicare un articolo non per sostenere scelte politiche e suggerire comportamenti ma solo per esprimere disagio e sofferenza? Se non si può, questo che segue, ospitato benevolmente da il manifesto, si presterà alle più feroci e giustificate critiche. Ma tanto vale provare… Vediamo.

Il soggetto è Roma e le sue imminenti elezioni comunali. Roma è una città millenaria, carica di gloria e di bellezza, e i candidati a ricoprire la carica di Sindaco sembrano, salvo qualche limitata eccezione, nati al massimo l’altroieri. Roma è sull’orlo di un collasso istituzionale ed esistenziale che non ha precedenti. Roma è la capitale più sporca, anzi, più correttamente, più “zozza” dell’Occidente democratico-capitalistico.

Roma è vittima di un degrado urbanistico ed edificatorio praticamente senza limiti (il recente libro di Francesco Erbani e Vezio De Lucia, Roma disfatta per Castelvecchi Editore, offre da questo punto di vista documentazioni e considerazioni che possono considerarsi definitive).

Se si passa al capitolo “traffico”, di cui praticamente nessuno parla, Roma non è più una città, è un “delirio”, una sorta di affannosa e disperata gara verso il nulla. Al tempo stesso il servizio di trasporto pubblico è inesistente o è catastrofico. La fiducia nelle istituzioni, dopo lo sciagurato fallimento dell’avventura Marino, è arrivata prossima allo zero. La corruzione s’era (s’è?) annidata dappertutto; se non ci fosse stata la magistratura, ci sarebbe ancora.

I segni di reazione, dopo le tristi esperienze degli anni passati, ci sono, ma sono molto limitati. La restituzione dell’onore delle urne della lista Fassina ha ridato fortunatamente spazio e spinta a una risposta, politica e popolare, positiva. Ma siamo ancora, – e non potrebbe essere diversamente, – a minoranze attive sul piano sociale e istituzionale, ma destinate, ovviamente, a una lunga battaglia, che non potrà avere esito con l’esito di questo voto (condivido quasi tutto dell’ultimo articolo di Piero Bevilacqua, salvo il suo giovanile ottimismo).

E allora, nel frattempo, che si fa? Io penso che la sinistra, – quella che ambisce presentarsi come più legata al passato e al tempo stesso più modernamente nuova e anticipatrice, – si trovi oggi classicamente stretta fra l’incudine e il martello (è accaduto altre volte nella storia). L’incudine è la protervia senza limiti (falsamente razionalizzatrice) del nostro attuale Presidente del consiglio; e il martello è la spinta, anch’essa durissima e feroce, della destra (qualsiasi tipo di destra, oggi tatticamente separata, ma sempre disponibile a ritrovarsi unita) allo scopo di riacquistare lo spazio che per ora le è stato sottratto. In questa situazione le scelte ferme e limpide del passato, – o si è da una parte o si è dall’altra, – sono tramontate.

La battaglia si svolge continuamente su di un duplice o addirittura triplice fronte: si può essere contro l’uno e contemporaneamente contro l’altro; ma, se serve, si può essere provvisoriamente con uno per essere meglio contro l’altro. Oppure: per combattere l’uno bisogna evitare di favorire (troppo) l’altro.

Questo vale, praticamente, per qualsiasi occasione politico-istituzionale contemporanea. Si pensi al referendum di ottobre. L’altro giorno passavo dal televisore acceso ho sentito una voce che pronunziava, con tono calmo e solenne, la seguente affermazione: «La nostra Costituzione è messa in pericolo dalla sciagurata riforma Renzi, Per questo, nel referendum di ottobre, bisogna votare fermamente e decisamente no». Mi sono voltato. A parlare era Silvio Berlusconi. Mi è venuto un forte senso di nausea. Ma certo non penso per questo che non sia opportuno e necessario votare “no” al referendum di ottobre. Solo che mi chiedo dove possa portarci l’insensata politicizzazione che di quel referendum (tutto costituzionale) ha dato in primissimo luogo il nostro ineguagliabile premier («o con me o contro di me»), e che è stata prontamente raccolta dalla nostra, – da tutta la nostra – destra, in attesa di riunirsi.

Ne usciremo (ne usciremmo) recuperando tout court spazio a sinistra (ma per ora come si fa?) o aprendo le porte alla rivincita di una (attualmente) delle destre più torbide e inquietanti del continente? Mi si potrà ragionevolmente rispondere: intanto vinciamo il referendum, – per giunta, molto probabilmente, senza l’apporto della destra non si vincerebbe, – poi si vedrà. Sì, certo, ma le domande restano. Insomma, ci vorrebbe una strategia di lungo periodo, che provi a mettere insieme queste cose difformi e suggerisca loro una possibile coerenza. Non basta, io penso, l’opposizione ferma e dura all'”attuale stato di cose esistenti”. Ma dove arrivare. E con quali tappe.

Le elezioni comunali a Roma, che per giunta si svolgono, come ho cercato sinteticamente di dire, nelle condizioni catastrofiche della Capitale, rappresentano secondo me un esempio calzante, anche se minore rispetto a tutto il resto, di tale discorso. La lista Fassina rappresenta un punto di partenza importante, si tratta di capire come meglio portarlo avanti.
Cerchiamo di circostanziare il quadro. In ballo ci sono due liste chiaramente e dichiaratamente di destra (Marchini-Berlusconi; Meloni-Salvini). Non ci si può certo augurare che una di esse prevalga. Poi c’è la lista, particolarmente forte del Movimento 5 Stelle.

Su questo punto, secondo me, occorrerebbe fare più chiarezza di quanto finora fra noi non ce ne sia stata. Il Movimento 5 Stelle è un singolare fenomeno tutto italiano, che nasce interamente dalla crisi del nostro sistema politico-istituzionale. E’ un partito ereditario, in cui le redini del potere trasmigrano, senza neanche bisogno del notaio, nelle mani del figlio quando il padre venga meno. E’ un partito autoritario, anzi dittatoriale, nel quale la volontà del Capo, e dei suoi più stretti accoliti, che del resto sono anche loro i primi ad esserle sottomessi, occupa solidamente il ruolo supremo, cancellando ogni sia pur timida manifestazione di democrazia interna (è necessario portare esempi, anche recenti e anche di grande portata?). Il Movimento 5 Stelle non ha nessuna vocazione sociale; in compenso ne nutre in seno una d’ispirazione xenofoba, abbastanza nascosta, per ora, ma visibile.

La vittoria della candidata grillina a Roma sarebbe dunque gravissima, per la sua carica gravida di significati nazionali; e anche perché, in caso di ballottaggio con il candidato dem, la massa dei voti di destra si riverserebbe su di lei onde ottenere la sconfitta del candidato dem, così come accadrà con il referendum di ottobre, dove votare per il no può non significare affatto in difesa della Costituzione, ma piuttosto per detronizzare il ducetto di Rignano sull’Arno e sostituirgli un orrido potere al tempo stesso antieuropeista, antisociale e antisolidaristico.

Dunque, in caso di ballottaggio non c’è altra scelta fra il non andare a votare e il votare per il candidato dem? Ma non andare a votare, ammesso che il candidato dem vada al ballottaggio, significherebbe inevitabilmente favorire la vittoria del candidato antagonista, sia che si tratti del candidato di destra sia che si tratti della candidata grillina.

Dunque, non c’è scelta, in caso di ballottaggio: ossia, votare per il candidato che a Roma rappresenta, anche molto ortodossamente, le posizioni del ducetto di Rignano sull’Arno? Se le condizioni sono quelle che finora ho descritto, mi pare che non ci sia altra scelta. Domanda: se le cose stanno così, non sarebbe meglio votare il candidato dem fin dal primo turno, onde assicurare più facilmente che vada al ballottaggio?

No, un seme va piantato. Nel rispetto di tutte le rispettive responsabilità e peculiarità. Per andare all’ultimo voto non basterà infatti solo la disponibilità della sinistra. Bisognerà che altre si manifestino. E’ così che un processo va avanti. E per deciderlo bisognerà essere in più di uno. Non spetta solo a noi farlo.

Ma in fondo, – in fondo a tutti i ragionamenti possibili, – dovrebbe esserci, – e ancora non c’è, non c’è proprio, – Roma, la grande, millenaria, bellissima, e sudicia, puzzolente, disastrata città, che uno di questi candidati sindaci dovrebbe, prima che governare, conoscere. E se tutto ricominciasse da qui? Ed è possibile ricominciare da qui, senza uno sforzo concorde e colossale di tutte le forze che siano disposte a farlo? Aspettiamo risposte, prima e dopo il voto

Coordinamento Democrazia Costituzionale, 1 giugno 2016 (p.d.)

Vanno evitate , per darsi conto della natura e dei caratteri reali del conflitto referendario in corso, letture ancorate prevalentemente ai soli dispositivi e criteri giuridici, pur importanti.

E’ indispensabile alzare lo sguardo sui movimenti della vita reale. Sottolineando in premessa che i legislatori che hanno duramente colpito diritti nel lavoro e del lavoro, ridotto le risorse per il Sistema previdenziale a ripartizione, affossato l’universalità dell’accesso alle cure sanitarie, non combattuto un’evasione scolastica strutturale e gravissima, trasferito ricchezza dal lavoro alle rendite e ai profitti , sono gli stessi che hanno progettato la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale. Naturalmente aiutati dal lavoro di altri che li hanno preceduti. La circostanza non è casuale.

Il conflitto per l’appropriazione della ricchezza prodotta né della quale la ridefinizione dei diritti costituisce uno snodo essenziale né il motore primo e la principale ragione di molti fenomeni tra loro legati, ognuno dei quali assolve un ruolo nella nostra vicenda:

1) l’oscurantismo costituzionale in corso. Un potere costituito – rappresentato da un parlamento eletto in modo costituzionalmente illegittimo, dominato dal PD che è forza minoritaria nel paese (25% dei voti validi alle elezioni politiche del 2013) – si fa potere costituente decidendo di revisionare così la stessa Costituzione e reiterare in altre forme gli architravi della medesima legge elettorale già dichiarata illegittima;

2) il trasformismo straripante. 252 cambi di casacca di altrettanti deputati/e in 3 anni di questa legislature, ragion per cui si è sempre cercata e trovata da parte del PD – una maggioranza a prescindere (una volta con Berlusconi /patto del Nazzareno; un’altra con Verdini e altri) in grado di approvare le riforme volute da Renzi. Il trasformismo non va indagato in termini solo moral/moralistici. Esso trae invece origine da fenomeni strutturali riguardanti il sistema politico e le dominanti economiche sociali. Precisamente, se guardiamo ad anni recenti a partire dal 2011, si può dire che il trasformismo che oggi vediamo all'opera nasce dalla capacità del berlusconismo, apparentemente alla sua fine, di traghettare una sinistra senza più bussola (quel che di essa era rimasto) ad aderire al governo “tecnico” (!) di Monti ed a far propri gli assunti di fondo del liberismo: opportunità invece che uguaglianza, individuo che si autoregola invece che legami sociali, fine della centralità del lavoro quale fondamento della stessa democrazia costituzionale, arretramento forte dei diritti di cittadinanza. Da quel momento ad oggi, passando da Monti a Letta a Renzi, col determinante sostegno parlamentare di maggioranze consociative e trasformiste , vi è stata una sostanziale continuità di politiche tese a sostenere interessi e valori che sono i medesimi alla base del DDL Boschi Renzi . In una parola è stata del tutto travolta, dagli anni ’90 ad oggi, la costituzione materiale repubblicana basata su uguaglianza e centralità politica del lavoro. In nessun modo questo italico trasformismo può essere quindi assimilato , e tantomeno compreso, nell’ambito del trasformismo storico dell’800 di De Pretis, che aveva altri presupposti e ragioni. Berlusconi prima e Verdini poi, il loro far parte di maggioranze di governo o costituzionali assieme al PD, non sono episodi di folklore passeggero o il frutto del cattivo cinismo di alcuni. Sono invece, per le ragioni spiegate, parti integranti della maggioranza politica che governa l’Italia da molti anni, la prova definitiva e lampante della resa della sinistra e del cattolicesimo democratico e, nel contempo, della vittoria della destra liberista.

3) il declino accellerato del principio di legalità, principio cardine di ogni ordinamento liberaldemocratico. E’ sufficiente richiamare quel che è seguito al referendum del 2011 sull'acqua bene comune:

A) vengono abrogate a seguito del referendum due norme (art.23 D.L. 112/2008 che favoriva la privatizzazione dei servizi idrici , art.154 D.Lgs 152/2006 che disciplinava la "adeguata remunerazione del capitale"),

B) pochi mesi dopo Berlusconi ripropone la disciplina abrogata con la L. 148/2011, poi dichiarata incostitizionale con sentenza n.199/2012;

C) ci riprova Monti coi Decreti nn. 1/ e 83 del 2012;

D) Renzi accelera e alza la posta con lo “sblocca italia” – Decreto n.133/2014 – con la legge di stabilità 2015, con norme che viaggiano in direzione contraria alla volontà dei legislatori referendari del 2011. Infine arriva la legge delega n.124/2015 per riorganizzare la Pubblica Amministrazione e la gestione dei servizi pubblici e idrici locali. Nel decreto attuativo di tale delega si reintroduce l’adeguata remunerazione del capitale, la proibizione delle gestioni pubbliche in economia, l’obbligo di gestione solo con società per azioni , il tutto con palese disprezzo dell'esito referendario, che viene ritenuto tamquam non esset. L’esempio, e ve ne sono altri, illustra quel che si diceva: democrazia dei cittadini e legge di origine referendaria non vengono rispettate, più forti della legalità formale si rivelano i comandi degli interessi economici dominanti.

4) La tendenziale scomparsa della rappresentanza politica e i suoi rapporti con le leggi elettorali. L’interrogativo è semplice: perché si progettano leggi elettorali che, come porcellum e italicum, travolgono del tutto il rapporto tra elettori e loro rappresentanza parlamentare, favorendo tendenziali dispotismi parlamentari/politici di forze minoritarie nel paese? La risposta non va cercata nelle contingenti e pur dannose scelte delle modeste elites politiche italiane ma nelle prepotenti dinamiche socio-economiche odierne: quelle che spingono impetuosamente, in tutto l'occidente, verso la “presidenzializzazione dei regimi politici” (come l’ha chiamata il politologo americano Lowi) ed il superamento definitivo della “repubblica dei partiti” disegnata dalla Costituzione del 48. La “rappresentanza”, come l'abbiamo conosciuta tramite i partiti , dei quali le rappresentanze istituzionali erano una delle loro forme, tende ad estinguersi per mancanza di linfa. Ne va pertanto costruita un'altra e non esiste nessun determinismo storicista che possa impedirlo. Renzi e il suo piglio futurista, la revisione costituzionale , l’italicum, la finta riforma dei partiti appena votata, l’oscurantismo costituzionale, la crisi del principio di legalità rappresentano ciascuna a modo suo traduzioni “coerenti” , illiberarli e classiste, a questo stato di cose. Qui origina l’autorefenzialità del ceto politico istituzionale: in un rapporto sempre più debole coi cittadini e sempre più esclusivo con le elites politiche ed economiche , quelle stesse che validano e permettono le candidature e l'elezione dei singoli rappresentanti. Il realismo dello sguardo e la dura sostanza dei fenomeni di fronte a noi non devono indurre alcun scoraggiamento sulla possibilità che abbiamo di vincere il referendum oppositivo alla riforma costituzionale.

Tutt’altro. Significa ribadire che dopo che avremo vinto questa essenziale tappa del conflitto in corso abbiamo davanti a noi compiti altrettanto impegnativi: edificare un'altra rappresentanza collettiva, come condizione per nuove istituzioni democratiche. Nelle date condizioni storiche attuali. La vittoria del No al referendum di ottobre può rappresentare quindi l’indispensabile avvio di un'altra storia, impervia quanto mai ma cionostante possibile: rimettere al primo posto l'uguaglianza e il lavoro come indicate negli art. 1 e 3 Cost., la dignità della persona, diritti universali di cittadinanza, un progetto economico sociale fondato sugli artt. 41 e seguenti della attuale costituzione, il ripensamento dei trattati europei, l’annullamento del TTPI. Al lavoro.

Un racconto corretto della drammatica situazione che si è creata nel Mediterraneo per effetto dell'esodo e della chiusura delle frontiere e una previsione molto pessimistica del futuro, se l'Europa non cambia strada.

La Repubblica, 31 maggio 2014
Le migrazioni rischiano di trasformare l’Italia in una pentola a pressione. Per il convergere di tre fattori: i crescenti flussi da sud e da est; i severi controlli anti-migrante lungo le frontiere alpine; soprattutto, la deriva xenofoba che la retorica dell’”invasione” minaccia di suscitare nel nostro paese, con gravi conseguenze per la pace sociale e l’ordine pubblico.

Gli oltre 14 mila sbarchi in tre giorni hanno fatto saltare la catena degli hot spot e indotto il ministero dell’Interno a emanare una circolare di emergenza per il trasferimento provvisorio di 70 migranti in 80 province (a proposito: non volevamo abolirle?). Nella frenesia da campagna elettorale la Lega e altre destre hanno evocato lo spettro del “genocidio”, ovvero la “sostituzione etnica” degli italiani che si presumono “puri” con gli “impuri” lanciati da qualche misteriosa entità (immaginiamo pluto-giudaico- massonica) alla conquista dello Stivale.

Restiamo ai fatti. Dall’inizio dell’anno a oggi sono sbarcate sulle nostre coste 47.740 persone, il 4,06% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Quasi tutte provenienti dall’Africa subsahariana e dall’Eritrea via porti della Tripolitania ormai somalizzata e, in qualche caso, dell’Egitto. L’effetto “invasione” non è dunque dato dal totale degli sbarchi ma dalla loro concentrazione nel tempo e nello spazio. Oltre che dalla smisurata eco mediatica.

Questo non garantisce affatto il futuro: sappiamo che centinaia di migliaia di migranti economici e ambientali, oltre che di richiedenti asilo, attendono di raggiungere l’Unione Europea. In particolare la Germania e i paesi nordici, dove le opportunità di impiego e le garanzie di assistenza sono nettamente superiori a quanto offra l’Italia. Ed è anche probabile che la chiusura della rotta balcanica — ammesso che l’accordo Merkel- Erdogan non salti — finisca per deviare i migranti in fuga dalle guerre mediorientali verso il Canale di Sicilia.

Qui sta il rischio. Se all’aumento della pressione migratoria dovessero corrispondere controlli più aggressivi alle frontiere con Austria e Francia, o addirittura la loro temporanea chiusura, l’Italia si troverebbe compressa in una micidiale tenaglia. Non è scenario di fantasia. Il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, ha ricordato che tra pochi mesi il suo paese raggiungerà la soglia massima prestabilita per i richiedenti asilo, il che provocherà il respingimento (in Italia) degli aspiranti rifugiati. E il fermento a Ventimiglia, dove un parroco ha accolto in chiesa un centinaio di migranti (più di quanti il Viminale ne abbia assegnati a una provincia intera), non promette nulla di buono, viste anche le costanti frizioni franco-italiane.

La Francia è infatti in prima linea nel pretendere dall’Italia non solo più hot spot (abbiamo promesso che ne apriremo altri), ma anche più centri di identificazione ed espulsione: in parole povere — ma terribili — campi di concentramento. Qui si devono trattenere gli “irregolari” in attesa di espulsione — ovvero persone che non hanno commesso alcun reato — in condizioni spesso rivoltanti. Il governo di Roma resiste a tali pressioni per ragioni anzitutto umanitarie. I partner nordici insistono, arrivando a minacciare procedure d’infrazione europea, peraltro prive di base giuridica.

Renzi finora resiste. Sul fronte interno, respingendo l’offensiva xenofoba. In campo europeo, rilanciando con il suo migration compact. Aiutiamo gli africani a casa loro, così dovremo soccorrerne di meno a casa nostra. Giusto. Il presidente della Commissione, Juncker, ha risposto con una lettera di plauso. Punto. Siamo e probabilmente resteremo alle buone intenzioni. Fatti zero.

Di qui due conclusioni — una per l’immediato, l’altra per la prospettiva.

Primo: c’è un’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. Se non l’affrontiamo, i morti solo quest’anno potrebbero essere migliaia. Marina e Guardia costiera italiana stanno facendo miracoli, di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Con l’aiuto di Forze armate di altri paesi, di organizzazioni umanitarie e internazionali, oltre che di semplici volontari, il raggio d’azione delle operazioni di salvataggio può essere allargato. In attesa di allestire canali migratori umani, regolati ed economici, che mettano all’angolo gli scafisti. Il primo diritto umano è quello alla vita. Dopo averlo tanto predicato, è il momento di praticarlo.

Secondo: l’Europa non ci salverà. L’Italia deve attrezzarsi ad affrontare la questione migratoria — non l’emergenza di un giorno: la normalità dei prossimi decenni — con i propri mezzi. Ciò significa investire in infrastrutture per l’accoglienza e per l’integrazione, a meno di non accettare che il Belpaese si sfiguri in arcipelago di ghetti. Con annessi lager. La Germania, scartando per una volta dal dogma antikeynesiano, ha appena varato misure analoghe per decine di miliardi, sulla cui ripartizione già s’azzannano governo centrale e Laender. È urgente che l’Italia si doti di una sua legge per l’integrazione e che mobiliti le risorse economiche, culturali e politiche necessarie. Perché qui si gioca il futuro della nostra comunità. Se falliremo, non avremo prove d’appello.

«Il manifesto, 31 maggio 2016

Cresce nella governance dell’Unione lo stato confusionale sul problema dei profughi, e non solo. Otto anni di austerity non hanno dato ai cittadini europei nessuno dei risultati promessi, ma i suoi fautori non possono ammetterlo: così si barcamenano tra «flessibilità», sforamenti dei deficit e moneta facile senza ottenere il minimo effetto su occupazione, redditi, investimenti.

Anche l’altalena di dichiarazioni e smentite sulle richieste alla Grecia è prova di confusione: vorrebbero strangolarla, ma non vanno a fondo per paura, con la minaccia del Brexit alle porte, di innescare fughe a valanga. Ma otto anni di austerity hanno reso un problema insolubile, in un continente che perde tre milioni di abitanti all’anno, anche l’arrivo di un milione di profughi: tanti quanti erano i «migranti economici» che arrivavano ogni anno in Europa.

E si sistemavano, prima che i cordoni della borsa venissero stretti con il fiscal compact. Ma il campanello di allarme sono state le elezioni austriache. L’elettorato si è spaccato: metà per i respingimenti, metà per l’accoglienza. Con i due partiti che avevano governato il paese per settant’anni dissolti nello spazio di pochi mesi. In questo esito i partiti che, insieme o alternandosi, hanno governato finora i rispettivi paesi e l’Unione, impediti a schierarsi con gli uni, per non esserne divorati, e incapaci di dare una risposta agli altri, per la ristrettezza mentale che li divora, hanno letto il proprio futuro. Così si cercano di barcamenanarsi anche su questo terreno, mentre migliaia di profughi continuano a morire, a perdersi, a soffrire.

Angela Merkel si è adoperata per imporre un accordo con la Turchia che dovrebbe liberare la Germania e i suoi vassalli dall’«incubo dei profughi» lungo la rotta dei Balcani. Ma accortasi che Erdogan la teneva ormai al guinzaglio, ha accennato a una marcia indietro. Lo stesso ha fatto Schulz, dichiarando che l’Unione non abolirà mai i visti di ingresso finché la Turchia non rispetterà “tutte” le regole della democrazia (ma non ne sta rispettando nessuna); in compenso è sicuro che i profughi rispediti a Erdogan sono trattati molto bene (lo avrebbe constatato di persona, in una visita ad hoc). Alfano progetta hot spot galleggianti per rispedire subito in Libia i naufraghi raccolti in mare, proprio mentre è evidente che in Libia, come in tutti gli Stati africani con cui sono stati conclusi o si vuol concludere accordi di rimpatrio, quei profughi vengono massacrati, torturati e rapinati in ogni modo. Il tutto sullo sfondo dello «strepitoso» (parole sue) migration compact messo a punto da Renzi, che non propone altro che l’estensione del vacillante accordo con la Turchia a tutti i paesi di origine o transito dei profughi in arrivo dall’Africa; a un costo dieci volte superiore a quello che i governi dell’Ue già rifiutano di pagare alla Turchia; mentre nessuno accetta di rilocalizzare i profughi sbarcati in Grecia e in Italia, contando di scaricare sui due paesi il peso dei nuovi arrivi presenti e futuri.

È ora di dire che la questione dei profughi non è un’emergenza; ma non, come sostiene Renzi, perché il numero degli sbarchi di quest’anno non è eccezionale (ma lo è il numero dei morti, che già era intollerabile gli anni scorsi). Ma, al contrario, perché non è un fenomeno temporaneo, ma è destinato a durare per decenni con pari se non maggiore intensità. Ma non è un problema italiano; riguarda tutta l’Unione europea. Che o si attrezza per accogliere tutti i nuovi arrivati, senza distinguere tra profughi e migranti economici, per inserirli nel tessuto sociale e nel sistema economico con una svolta di 360 gradi nelle politiche fiscali, e imboccando definitivamente la strada della conversione ecologica; oppure si dissolverà insieme ai partiti che l’hanno governata finora, spalancando la strada alle forze che vogliono trasformarla non solo in una fortezza verso l’esterno, ma anche in una caserma all’interno. Oppure alle forze, ancora tutte da costruire, daraccogliere intorno alle migliaia di volontari che hanno capito l’importanza della posta in gioco, e che sanno che alle politiche di accoglienza non ci sono alternative; perché i respingimenti sono sì un crimine contro l’umanità, ma sono anche impraticabili.

La Repubblica, 31 maggio 2016 (m.p.r.)

«Fanno il deserto e lo chiamano pace» è una citazione latina che andrebbe rivisitata in: «Fanno il deserto e lo chiamano mercato». Questo è successo a quel pezzo di agricoltura italiana che ha perso di vista il senso del proprio operare. L’agricoltura deve produrre cibo. Ma il mercato non sa che farsene del cibo.

Il mercato vuole merce, perché la merce produce più profitto. Così fare latte in Italia ha smesso di essere un mestiere per diventare una produzione qualsiasi. E le produzioni devono crescere. Si è lavorato sulla genetica, sulle premedicalizzazioni, sulle porzioni bilanciate, su qualunque cosa potesse servire a fare almeno il doppio dei litri di latte che una vacca produrrebbe seguendo i ritmi dei pascoli, della sua razza, delle sue gravidanze. Un mestiere perde ogni logica, un paesaggio si devasta di capannoni, un’alimentazione si svuota di gusto e di nutrienti. Non importa, i profitti crescono.

Ma arriva il momento in cui il deserto si manifesta. E chiede il conto. Quando chiude una stalla non è come quando chiude una discoteca. Quando chiude una stalla un intero territorio si disconnette, si svuota di saperi, di ritmi, di piccole e grandi economie locali, di progetti per il futuro. L’agricoltura è un tessuto fitto, se si fa un buco si strappano tantissimi fili.
Riannodiamo i fili, ripartiamo dall’abc: a) Il latte non esiste. Esistono tanti latti quanti sono i modi di fare un mestiere antico e solenne come quello dell’allevatore. b) Il latte non si fa nelle aziende di pastorizzazione e confezionamento. Si fa in territori che hanno un nome e un profilo culturale, e i cittadini hanno diritto a sapere da quale territorio e da quale agricoltura viene il latte che acquistano. c) Il latte, quello vero, esiste ancora e va pagato fior di quattrini. Lo fanno tanti giovani e non giovani allevatori che si stanno preparando a salire in montagna per l’estate.
Ai nostri politici che in Europa dovranno lavorare sul tema dell’origine degli alimenti e a quelli che dovranno occuparsi del prezzo del latte chiedo un gesto di formazione professionale: accompagnateli in montagna, anche solo per un giorno. Toccate quegli animali, guardate in faccia i loro padroni. Poi ditemi se riuscite a tornare a Bruxelles a dire che il latte è tutto uguale, che l’origine non importa e 28 centesimi al litro possono bastare.

In una stupefacente intervista su

Repubblica (27 marzo), il filosofo ha dichiarato che avrebbe votato si alla riforma costituzionale di Matteo Renzi. Il costituzionalista gli risponde per le rime. Il Fatto quotidiano, 29 maggio 2016

Cacciari s’inventa, nell’intervista fattagli da Ezio Mauro (Repubblica, 27 maggio) un’immaginaria “responsabilità repubblicana” per giustificare la sua personale, effettiva sottomissione al ricatto plebiscitario. Cacciari parte da un presupposto falso e falsificabile: l’assenza negli ultimi quaranta anni di riforme. Questo presupposto, magnificato e drammatizzato sia dalla propaganda renziana sia dalla ignoranza della grande maggioranza dei commentatori, è smentito da duri fatti: l’elaborazione di due leggi elettorali, Mattarellum e Porcellum, l’approvazione parlamentare di una buona, se non ottima, legge per l’elezione dei sindaci, l’abolizione di quattro ministeri, l’eliminazione del finanziamento statale dei partiti, la stesura di un nuovo titolo V della Costituzione. Non vale l’obiezione, a doppio taglio, che si tratta di brutte riforme poiché a) nient’affatto tutte sono brutte, b) il Titolo V è stato ratificato da un referendum, c) anche le riforme renzianboschiane sono suscettibili della stessa valutazione e d) la riforma del bicameralismo è pasticciata nella composizione del nuovo Senato e confuse nell’attribuzione delle competenze.

Proseguendo attraverso un’autocritica generazionale e facendo leva sulla sua personale visione apocalittica della storia, del mondo e, quindi, dell’Italietta, Cacciari supera le sue stesse critiche alla riforma “concepita male e scritta peggio” e pronuncia il suo fatale, neppure molto sofferto, “sì”. Sposerà la riforma renziana. Poco gli importa che si tratti di una “riforma modesta e maldestra” e che la legge elettorale, che è un cardine della riforma, sia “da rifare”. Ancora meno sembra preoccuparlo che “la partita si gioca su Renzi” che ha personalizzato il referendum. Pudicamente, il filosofo evita l’espressione più precisa e pregnante, quando un leader chiede il voto sulla sua persona e sulla sua carica, di plebiscito si tratta, come tutta la storia del pensiero politico ha sempre affermato.

No, lui, per responsabilità repubblicana, voterà a favore, evidentemente non della riforma modesta e maldestra, ma di Renzi. Più che di responsabilità, forse, sarebbe il caso di parlare di preoccupazione per le presunte temibilissime conseguenze che Renzi e i renziani agitano: crisi di governo e elezioni anticipate. Brillantemente e prescientemente, Cacciari addirittura anticipa una, troppo spesso trascurata, conseguenza della riforma: il presidente del Consiglio sconfitto impone al Presidente della Repubblica lo scioglimento del Parlamento. Invece, no: il presidente della Repubblica ha, in primo luogo, il potere e il dovere, “repubblicano”?, di esplorare se esiste un’altra maggioranza in grado di fiduciare e fare funzionare un nuovo governo. In secondo luogo, può invitare Renzi a restare il tempo necessario per approvare una legge elettorale migliore dell’Italicum (non è affatto difficile), magari facendo rivivere il, a lui ben noto, Mattarellum.

Insomma, l’Apocalisse non è alle porte a meno che sia Renzi sia Mattarella sia, con l’enorme potere che gli è rimasto e che usa platealmente, Napolitano, dimentichino le loro, al plurale, responsabilità repubblicane. Certo, vorremmo saperne di più sulla concezione e sui contenuti della responsabilità repubblicana formulata da Cacciari. No, non intendo affatto esibirmi in una difesa della Costituzione com’è (e non ho mai fatto parte del clan dei riformatori falliti menzionati da Cacciari). Tuttavia, preso atto che, come tutti hanno il dovere di sapere, la Repubblica siamo noi, che è il significato profondo dell’ultimo comma dell’art. 3 della Costituzione che ci chiede di rimuovere gli ostacoli alla effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, mi chiedo se la nostra responsabilità non debba tradursi in una vigorosa battaglia per riforme non “modeste” e non “maldestre”, concepite bene e scritte meglio (ce ne sono, eccome se ce ne sono), per una legge elettorale decente, per un referendum che non sia né un plebiscito né, meno che mai, il giudizio di Dio.

La responsabilità repubblicana esige che le riforme della Costituzione e del sistema elettorale, il decisivo meccanismo che traduce le preferenze (e le volontà) degli elettori nel potere politico di rappresentanti e governanti, siano poste molto al di sopra della vita di un governo, di qualsiasi governo. La responsabilità repubblicana respinge i ricatti dei governanti e non si traduce mai in sottomissione plebiscitaria.

Definire "sinistra perbene" quelli che si presentano oggi come gli eredi della sinistra del XX secolo sottolinea una verità spesso trascurata: prima dei fatti vengono le idee, e la prima idea che uno ha è come vede (e veste) se stesso.

Il manifesto, 29 maggio 2016

L’implosione della sinistra perbene emerge inconfutabile da recenti accadimenti in paesi dell’Unione Europea a guida socialista. Implosione in senso lato: in Austria, per la crisi politica innescata dall’«emergenza» immigrazione; altrove – da noi e in Francia – per le scelte conseguenti alla mutazione genetica che l’ha trasformatai in una forza organica di restaurazione.

La reazione austriaca all’ondata migratoria replica in forme estreme un fenomeno classico. Le tensioni e i conflitti provocati dalla mancata integrazione si concentrano nelle periferie e in quelli che sino a poco tempo prima erano i quartieri rossi delle grandi città, col risultato di trasformarli nelle roccaforti della destra ultranazionalista. Per mesi a Vienna le squadre neonaziste si sono sentite spalleggiate e hanno moltiplicano le aggressioni. D’altra parte il governo ha rincorso la deriva xenofoba, come si è visto al Brennero e col varo di una legge più restrittiva sul diritto d’asilo. Com’è finita, per il momento, lo sappiamo. Al ballottaggio l’erede di Jörg Haider ha perso, per il rotto della cuffia. Ma il vero fallimento è quello del Partito socialdemocratico che, dopo una decina di anni di governo, lascia un paese spaccato, più che mai restio a fare i conti con il proprio passato nero, e una destra razzista votata da un elettore su due.

In Francia Hollande e il suo governo si giocano l’osso del collo pur di imporre una «riforma» del Codice del lavoro tutta giocata contro i diritti dei lavoratori. Per offrire alle imprese lo scalpo del contratto nazionale e la piena libertà sui licenziamenti hanno evitato il voto dell’Assemblea nazionale e scatenato una reazione sindacale che sta paralizzando il paese. Ora vacillano ma non demordono, nonostante il grosso della popolazione stia con chi sciopera.

Come se la ragion d’essere del socialismo europeo risiedesse precisamente nella precarizzazione radicale del lavoro salariato e nella distruzione delle sue tutele.

In Italia, dopo due anni di escalation reazionaria contro il lavoro e i diritti sociali nel segno delle privatizzazioni e degli interessi delle lobbies finanziarie e imprenditoriali; dopo una legge elettorale anticostituzionale come e più della precedente perché negatrice del principio di uguaglianza e del diritto alla rappresentanza politica – ora il governo a guida «democratica» investe tutto su una «riforma» costituzionale incentrata sulla pienezza dei poteri in capo al premier.

Cioè sulla logica contro la quale fu disegnata la Costituzione antifascista. Anche qui è un governo di centrosinistra a dirigere la normalizzazione, guidato per di più dal segretario di una forza nata dalle ceneri del più grande partito comunista d’Occidente.

Ovunque in Europa dagli anni 90 la «sinistra clintoniana» è la testa d’ariete dello scardinamento delle conquiste democratiche in ambito economico e sul terreno (strettamente intrecciato) della partecipazione e dei diritti di cittadinanza. Ovunque i partiti «socialisti», ispiratori di Maastricht e Lisbona, hanno promosso «riforme» antisociali che difficilmente sarebbero riuscite a esecutivi di destra, necessariamente più cauti nel timore di avvantaggiare la controparte politica. Ovunque hanno cavalcato la deriva postdemocratica, avallato la prepotenza delle oligarchie, legittimato la sovranità del profitto. Oggi non è difficile un bilancio a freddo di un quarto di secolo di storia politica del continente che tenga conto, in primo luogo, della controrivoluzione culturale che ha segnato l’intero processo.

Non si è trattato di un fatto episodico né di una trasformazione epidermica. La sinistra operaia a fine Ottocento nacque dalla consapevolezza del rapporto problematico tra capitalismo e democrazia, dall’esperienza del conflitto ineliminabile tra diritti e profitti. La «sinistra» che si afferma in Europa dopo la caduta del Muro di Berlino si fonda su una opposta ideologia, che offre anche il vantaggio di nobilitare l’affarismo. Muove dall’assunto che non vi è democrazia senza capitalismo. Considera i cardini del capitalismo (il mercato e la concorrenza) addirittura capisaldi costitutivi della democrazia, quindi le privatizzazioni passaggi progressivi. Di qui una nuova qualità delle divisioni a sinistra, che non vertono più su divergenze tattiche (come un tempo tra riformisti e massimalisti), ma su questioni di ordine strategico.

In una stagione triste, avara di speranze, la crisi storica del socialismo europeo è la metafora più limpida di una politica ormai priva di ideali. Da questo punto di vista l’odierna bonaccia italiana è la fotografia di una devastazione perfetta. O, se si preferisce, di un suicidio riuscito. Nel giro di vent’anni la sinistra è stata estirpata dal corpo del paese.

Trasformata in una forza restauratrice (il sedicente «riformismo») o confinata ai margini della scena, grazie all’insipienza dei suoi dirigenti. Ora, col referendum di ottobre, siamo forse a un passaggio-chiave. Può darsi che Renzi perda, che ci si liberi finalmente di lui e della sua gente, il che sarebbe una liberazione, chiunque gli succeda. Ma anche in questa eventualità ci si ritroverebbe ai piedi di una montagna da scalare.

«Che ruolo ha nelle zone di guerra una disciplina nata per costruire? Come si possono individuare ingiustizie e violazioni dei diritti studiando gli edifici? La riflessione di un esperto israeliano

». La Repubblica, 30 maggio 2016 (c.m.c.)

Forensic Architecture è il nome di un’agenzia di ricerche che ho inaugurato nel 2010 con un gruppo di colleghi architetti, registi, giornalisti investigativi, scienziati e avvocati. Portiamo avanti indagini indipendenti facendoci largo tra i segreti e le ammissioni negate della violenza di Stato nel contesto di un conflitto armato. Agiamo su commissione dei pubblici ministeri internazionali e lavoriamo con gruppi per i diritti umani in diversi posti del mondo: sulla guerra segreta dei droni in Pakistan, Afghanistan, Yemen, Somalia, Siria e Gaza; sulle tracce del genocidio nella ex Jugoslavia e in Guatemala; seguiamo le barche disperse nel Mar Mediterraneo e produciamo prove in relazione alla distruzione ambientale in Brasile e in Indonesia.

Come architetto israeliano, tuttavia, il mio lavoro nel campo dell’architettura forense si è sviluppato nel lungo periodo di attivismo in Palestina. Molti dicono che la Palestina sia un laboratorio dei meccanismi di controllo e che gli israeliani esportino queste tecniche in tutto il mondo. Ma è stato anche un laboratorio di resistenza e di attivismo. Inoltre, il conflitto palestinese ha sempre avuto una specificità architettonica che coinvolge sia la costruzione che la distruzione. Essa si articola, da una parte, nella progettazione di insediamenti ebraici che lacerano, avvolgono e isolano le comunità palestinesi privandole degli spazi aperti, dei paesaggi e delle risorse idriche.

Gli architetti e i progettisti sono sempre stati coinvolti in questa violenza, in questa violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. È sul tavolo da disegno che i loro crimini sono stati commessi con i semplici gesti dell’architettura: tracciando delle linee sulla carta. La violenza concepita nel disegno è stata poi trasferita sul terreno.

E, dall’altra parte, la violenza militare israeliana oggi ha luogo quasi esclusivamente nelle aree urbane, e dunque comporta la distruzione di case, di quartieri e di infrastrutture. Quando una città — Gaza, Rafah o Ramallah in Palestina, ma anche Miranshah in Pakistan o Aleppo in Siria — diventa bersaglio della violenza militare, i civili muoiono negli edifici. La maggior parte delle vittime delle guerre di oggi muore nella propria casa. Questi edifici non sono solo il luogo della violenza, ma il mezzo con cui la violenza colpisce: le persone muoiono colpite dai frammenti delle loro case.

Quando la polvere si posa, queste rovine diventano indizi e prove, il mezzo più importante per ricostruire ciò che è avvenuto e per articolare rivendicazioni politiche e legali contro l’aggressore. Mentre la violenza architettonica insita nella pianificazione e nella costruzione degli insediamenti è lenta, l’analisi architettonica può anche essere utilizzata con ritmi più veloci e in scala più piccola.

L’architettura è fondamentale per capire le varie forme in cui esplode la violenza urbana: invasioni, incursioni notturne, sparatorie e uccisioni di manifestanti disarmati, omicidi mirati, attentati e bombardamenti contro quartieri abitati da civili. L’architettura è anche un buon mezzo per rispondere a un cambiamento nel modo in cui i conflitti diventano visibili.

Negli ambienti urbani di oggi compaiono moltissime telecamere, soprattutto di privati cittadini, che registrano ogni evento da diverse prospettive. In effetti, le prove più rilevanti oggi sono prodotte dai civili, soprattutto sotto forma di immagini e video. Prendere questo tipo di immagini nel contesto del conflitto palestinese è pericoloso. I giornalisti palestinesi e i cittadini giornalisti che scattano fotografie di soldati israeliani vengono regolarmente arrestati, picchiati, minacciati e subiscono la confisca delle loro attrezzature.

L’architettura può offrire un metodo per comporre e assemblare i diversi elementi multimediali che si raccolgono. Ci riferiamo alla ricostruzione di un rapporto dinamico spazio-tempo tra queste immagini come al complesso dell’immagine architettonica. La maggior parte dei video che vengono trasmessi o diventano virali su internet contengono, in un singolo fotogramma, tanto l’immagine dell’aggressore che quella della vittima.

Ma per ogni immagine che include chi colpisce e chi viene colpito, chi spara e chi viene ferito, ce ne sono molte altre dove compare solo uno o l’altro, o abbiamo solo l’audio, o quello che è accaduto prima e dopo il fatto. La loro relazione con altre immagini e l’avvenimento principale non è evidente. È più difficile vedere e capire i fatti che scivolano tra le immagini, e queste immagini, che contengono informazioni parziali, sono spesso scartate come inutili.

A volte possiamo trovare, sincronizzare e riassemblare delle immagini per ricostruire visivamente e vir- tualmente degli eventi nello spazio. Vedere in questo contesto richiede una costruzione e una composizione — come l’architettura. Fare delle indagini su specifici avvenimenti in una storia di colonizzazione, di dominio, di separazione e di violenza lunga decenni e tuttora in atto — come il conflitto palestinese — può sembrare inutile: ogni giorno porta nuove esplosioni di violenza e crea nuovi cumuli di macerie. Inoltre, raramente c’è un meccanismo efficace a cui rivolgersi per avere giustizia e definire le responsabilità. Indagare su degli episodi richiede di poter lavorare con calma e in modo sistematico, con tempi lenti che consentano di esaminare i minimi dettagli.

Come pratica politica, l’architettura forense sembra offrire l’ottimismo di un anatomo-patologo. Potrebbe sembrare un motivo di disperazione, questa grande impasse politica in cui ci troviamo, o perfino un’allegoria dello stato della sinistra oggi. Ma una patologia degli eventi non vuole solo documentare il modo preciso e la misura delle atrocità. Essa vuole anche mettere in evidenza i tentativi politici e sociali di negarle. E la negazione non è semplicemente un rifiuto di fare i conti con i crimini del passato. La negazione è anche la condizione per poter continuare a usare la violenza in futuro. Se uno non ha fatto nulla di male, può tranquillamente continuare a farlo.

Le persone che rischiano la propria vita per prendere delle immagini e pubblicarle fuori dallo spazio in cui sono represse e incarcerate — come se fossero dei messaggi in una bottiglia, senza sapere se, da chi e quando i loro messaggi saranno visti — meritano in modo particolare la nostra massima attenzione. Dobbiamo leggere questi messaggi il più attentamente possibile, benché il loro contenuto sia difficile da guardare, anzi, proprio per questo, e quando ricostruiamo certi avvenimenti dobbiamo anche ricostruire il mondo a cui appartengono.

«Federico Bertoni, docente di teoria della letteratura a Bologna, analizza la deriva di un sistema universitario in cui chi studia si è trasformato in un cliente. Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese»

La Repubblica, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Perché l’università italiana, «un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?». Sono queste le domande a cui risponde Universitaly.
La cultura in scatola (Laterza 2016), meravigliosamente scritto da Federico Bertoni, professore di Teoria della Letteratura a Bologna. Carlo Levi ha scritto che «se gli occhi guardano con amore (se amore guarda), essi vedono»: gli occhi di Bertoni sono pieni d’amore per l’università, ed è probabilmente per questo che la sua analisi è così lucida.

Il governo di Matteo Renzi ha annunciato la prossima uscita dell’università dal pubblico impiego, e dunque la sua privatizzazione. «Sarebbe solo la sanzione giuridica - osserva Bertoni - di qualcosa che di fatto è già successo»: «Le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono un’ offerta formativa ai clienti», gli studenti accumulano non conoscenze ma «competenze acquisite in una carriera», il loro apprendimento «si misura in crediti e debiti», le pubblicazioni scientifiche sono «prodotti della ricerca», e quando si annuncia che qualche ricercatore è finalmente uscito dallo schiavismo del precariato si dice che si è «investito sul capitale umano».

Insomma, «l’equazione subdola tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting) ha trasformato l’università in una customer oriented corporation» fondata su criteri e valori come «l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività ». L’analisi, documentatissima e implacabile, di Bertoni solleva una domanda di fondo: a cosa serve una università tanto schiacciata sulla monodimensione mercatistica dell’esistente da non riuscire a immaginare e a costruire niente di nuovo? Rinnegando la sua stessa ragione di essere - che è la produzione di senso critico - questa università sembra esistere solo per confermare il motto di Margaret Thatcher: «There Is No Alternative».

Come se ne esce? Riscoprendo, suggerisce Bertoni, i fondamentali della professione intellettuale. I professori non devono avere paura: possono prendere la parola, rifiutarsi di obbedire, non abituarsi alla degenerazione, rallentare il ritmo aziendalistico, smascherare le finzioni, giocare al rialzo nella qualità dell’insegnamento, insegnare il dissenso. Che è come dire che i professori devono fare il loro dovere: anche se non è il dovere a cui pensano i rettori e i ministri. Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese.

«Per emanciparci, anzitutto dalla nostra servitù volontaria non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, ma azioni esemplari: "Emergenza" di Maurizio Ferraris»

. Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Nonostante siano passati quasi vent’anni dalla prima pubblicazione di Estetica razionale, il libro in cui Maurizio Ferraris fece confluire quello che era stato il suo maggior sforzo teorico, il nucleo filosofico allora esplorato fa emergere nuovi aspetti ancora sommersi in quelle magmatiche condizioni iniziali: non a caso si intitola (Einaudi, pp. 127, euro 12,00) il suo ultimo libro, da intendersi non tanto nel senso di «pericolo» o «eccezione», ma anzitutto come quel che emerge dalla realtà al di fuori del nostro controllo intenzionale e consapevole.

Tra le due accezioni di «emergenza», però – nota Ferraris – «c’è una continuità di fondo: che cos’è un’emergenza se non un evento che accade rivelando la possibilità dell’impossibile? E che cosa è più emergente del reale, che rompe i giochi del possibile e si presenta con una nettezza imprevista, con minacce o con risorse immaginarie?». Solitamente, le proprietà emergenti vengono intese, grosso modo, come proprietà di certi sistemi (naturali o sociali) che emergono dall’interazione complessa di un numero enorme di elementi di base, ma che non sono riconducibili al loro comportamento.

Se è così, un cambiamento negli elementi di base sarà correlato a un cambiamento nella proprietà emergente considerata (se altero significativamente i neuroni del cervello di una persona, ne altero verosimilmente anche la coscienza o la mente), senza che però si riesca a fornire una vera e propria spiegazione, secondo leggi note, di questa correlazione.
Ferraris ne è ben consapevole, e dichiara dunque fin da subito che questo libro è «speculativo», procede per barlumi, e se avessimo una mente infinitamente superiore a quella umana, allora succederebbe che, come nella poesia di Raboni, «Lentamente come/risucchiati all’indietro da un’immensa/moviola ogni cosa riavrà il suo nome,/ogni cibo apparirà sulla mensa».

Ferraris professa uno stretto nominalismo (gli universali – i concetti, i generi in cui raggruppiamo le cose – non hanno una loro realtà, sono semplici nomi: reali sono solo gli individui), e considera tutto il mondo (la totalità degli individui) come «il risultato di un’emergenza che non dipende dal pensiero né dagli schemi concettuali, sebbene questi possano ovviamente conoscerlo». È come se la teoria dell’evoluzione fosse estendibile a ogni produzione: dati un numero immenso di individui, certe forze, e un tempo sconfinato a disposizione, non c’è bisogno di postulare piani, disegni, intenzioni, decisioni perché l’iterazione di certe interazioni tra individui può far emergere di tutto.

Il libro è diviso in tre parti, secondo tre regioni di emergenza fondamentali, in cui la dimensione subordinata è condizione di possibilità di quella successiva: 1. l’ontologia (quello che c’è, e che è costituito dall’interazione degli individui); 2. l’epistemologia (quello che sappiamo, e che emerge, se emerge, dall’ontologia); 3. La politica (quello che facciamo «come agenti liberi o presunti tali»). Forse le novità più rilevanti, rispetto agli altri libri di Ferraris, si evidenziano nel terzo campo di emergenza, la politica. Sulle prime due, molte sarebbero le cose da discutere proficuamente. Faccio un solo esempio, riguardo all’ontologia: Ferraris ha sempre insistito sulla «inemendabilità del reale»: «il fatto che (…) il pensiero non sia in grado di emendare le illusioni percettive significa che il sapere non riesce a intervenire sul piano dell’essere, e che dunque quest’ultimo è indipendente dal primo».

Mentre condivido l’idea che si possa parlare legittimamente di contenuti percettivi non concettuali e che ci siano molti sensi in cui l’essere non dipende dal pensiero, confesso che non ho mai capito bene la forza di questa argomentazione in favore della inemendabilità del reale. Prendiamo l’illusione della cascata: sappiamo che se guardiamo a lungo una cascata e poi spostiamo lo sguardo sulle pareti di roccia tra cui l’acqua precipita, queste pareti sembrano salire verso l’alto.

A me sembra che ciò dimostri certamente «l’inemendabilità» di certi nostri meccanismi neuronali, ma non quella della realtà: semmai, per essere colta come tale (una roccia reale, su questa terra, non ascende autonomamente al cielo), ha bisogno di una «correzione» concettuale. Continuerò a vederla salire, ma riconoscendola come roccia non la userò come un ascensore. In questo caso, non è forse necessario l’intervento di un concetto («l’epistemologia») per dirmi che sono davanti a una roccia e non a un ascensore naturale?

Veniamo alla politica, intesa comunemente come l’arena delle intenzioni comuni o conflittuali, dei piani e delle decisioni, del tentativo di controllare e dirigere la nostra convivenza. È vero che oggi ne vediamo tutta la debolezza, e sono sempre più convinto che il controllo e l’autocontrollo ossessivi (sorveglianze, tracciabilità, automonitoraggi) siano solo l’altra faccia di una perdita di controllo percepito come irrimediabile (automatismi, dipendenze, attacchi di panico): in mezzo, niente, o quasi.

Se ciò è vero, forse la proposta teorica di Ferraris può essere letta come un tentativo di incunearsi tra quei due estremi: se i concetti e le norme sembrano emergere da una «dialettica dell’esempio» (una parte molto interessante dell’epistemologia, che andrebbe discussa a lungo, secondo cui esiste una tensione e una circolazione che lega l’esempio come caso ordinario a quel che è esemplare in quanto straordinario), anche dal punto di vista politico «l’esempio viene prima della norma e la costituisce».

Se vogliamo emanciparci – innanzitutto dalla nostra «servitù volontaria» – non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, sostiene Ferraris, ma azioni esemplari, come quella del politico bulgaro Pesev, che, nel 1943, con una semplice lettera evitò la deportazione di decine di migliaia di ebrei. La conclusione che Ferraris trae da questo e altri esempi è che «le reazioni esemplari sono reazioni, non potrebbero esercitarsi se non di fronte a una certa resistenza», sono «generalmente agite prima che capite, e il loro significato si presenta post factum».

Credo che qui Ferraris tocchi un punto nevralgico dell’azione eti
ca e politica, che riguarda il meccanismo in cui si produce qualcosa che avrà, a lungo termine, conseguenze che non possono derivare dalle intenzioni dell’agente, e che tuttavia potrebbero essere altamente desiderabili. Come se si trattasse, paradossalmente, di voler produrre intenzionalmente una «eterogenesi dei fini», vale a dire ciò che sfugge per definizione a ogni intenzione, senza chiamare in cause «mani invisibili» o «provvidenze» di qualche genere.
Resta il dubbio che la facoltà di giudicare, di riflettere, giochi una sua parte essenziale nel momento della decisione – e proprio l’esempio di Pesev sembra richiederla – pur nell’incertezza delle conseguenze.

Una «dialettica dell’esempio» sembra richiedere allora di essere inserita in una «dialettica del controllo»: tra i due estremi complementari degli automatismi ciechi e incontrollati, e l’illusione di pianificare e padroneggiare autonomamente ogni azione, le «emergenze» esemplari occuperebbero così un posto imprescindibile, ma non esclusivo.

».Il manifesto, 28 maggio 2016 (c.m.c.)


Tra le fila dei manifestanti della Cgt a Parigi, Repubblica Tv, raccoglie la seguente parola d’ordine: «Che ci detestino pure, purché ci temano!» A prima vista può apparire come una contrapposizione piuttosto ruvida tra la forza e il consenso ( secondo la versione di Hollande che strepita contro «una minoranza» che blocca il paese e danneggia l’interesse nazionale), ma in realtà coglie un punto molto importante. Nessuna lotta è in grado, non dico di vincere, ma nemmeno di scompaginare o incrinare i giochi dell’avversario se non è nelle condizioni di incutere timore, di dimostrare concretamente che c’è un prezzo da pagare ed è piuttosto salato.

E l’avversario, naturalmente, non è l’eterna menzogna della Nazione, ma un padronato e una élite politica che vogliono guadagnare competitività insieme a una crescita sostanziosa dei profitti.

Il famoso articolo 2 della loi travail, quello che privilegia la contrattazione aziendale su quella collettiva, ha come posta in gioco sostanziale l’orario di lavoro, e cioè la tenuta di quelle sacrosante 35 ore settimanali conquistate con decenni di conflitti. È quasi superfluo ricordare che la lotta per la riduzione dell’orario è stata la costante più pura, meno ideologica e più aperta all’idea di libertà nell’intera storia del movimento operaio.

Il suo valore simbolico è grandissimo, tanto più nel momento in cui disoccupazione, sottoccupazione e precarietà fanno da beffardo contrappunto all’estensione del tempo di lavoro e all’ordinarietà crescente degli straordinari. Smentendo ripetutamente i benefici effetti sulla ripresa dell’occupazione attribuiti alle cosiddette «riforme». Le 35 ore, poi, contrariamente al nostro articolo 18, non riguardano uno strumento di difesa che si attiva in determinate (e rare) circostanze, ma la condizione permanente di vita quotidiana dei salariati.

Nonostante l’automazione e la massiccia contrazione del lavoro salariato esistono ancora settori di classe operaia (trasporti, logistica, energia) in grado di rallentare, se non di arrestare, la macchina produttiva di qualunque «sistema paese». Ronald Reagan lo sapeva benissimo quando diede il via alla riscossa del neoliberismo piegando con la forza lo sciopero dei controllori di volo.

In questi casi il gioco del potere consiste nell’isolare questi lavoratori in lotta, accusandoli di presidiare gli snodi decisivi nei quali operano in difesa di un privilegio corporativo contrapposto all’«interesse generale». Ma, in questo caso il gioco ha il fiato particolarmente corto. La riforma del lavoro non riguarda infatti questa o quella categoria produttiva, ma il rapporto tra capitale e lavoro en general. Si può sensatamente obiettare che una fetta crescente del lavoro è completamente escluso dalle tutele, dalle garanzie e dalla residuale forza contrattuale del lavoro subordinato.

Tuttavia anche questi soggetti si sono resi conto che la flessibilità imposta ai salariati, lungi dal rappresentare una possibilità di inclusione per loro, non farà che intensificare quel «dumping sociale» di cui già sono vittime. La ricattabilità del lavoro è una evidente reazione a catena. Non si spiegherebbe altrimenti una partecipazione così massiccia di studenti e giovani non certo provenienti dai ranghi del lavoro subordinato, né ad esso destinati, a una mobilitazione così lunga e tenace come quella cui stiamo assistendo in Francia.

La questione è ragionevolmente percepita come una questione politica, destinata a determinare il rapporto di forza tra soggetti subalterni e poteri dominanti, se non, addirittura, tra governanti e governati.

Temuti, ma detestati? La forza va forse a scapito del consenso? A guardare diversi sondaggi eseguiti nelle ultime settimane tra il 60 e il 70 per cento dei francesi si dichiarerebbe decisamente contrario alla legge così caparbiamente voluta da Valls e Hollande. E, del resto, il modo in cui la legge è stata fatta passare al primo vaglio dell’Assemblea nazionale, ricorrendo a una procedura che elude la discussione parlamentare, non sembra proprio dare un gran valore al consenso.

Non vi è dubbio che la rappresentanza sindacale sia indebolita in tutta Europa e la sua presa sulla realtà sociale risulti allentata. Ma cosa dire allora della rappresentanza politica? Il gradimento del governo socialista è ai minimi storici, l’impopolarità del presidente Hollande è alle stelle e una sua rielezione nel ’17 fuori dall’ordine del possibile. L’incapacità di ascoltare la società francese assodata. Eppure l’esecutivo si pretende incarnazione indiscutibile della «volontà generale».

Se la destra avanza a grandi passi verso il potere non sarà certo dovuto a qualche disordine di piazza, a qualche vetrina infranta, ma alla politica impopolare e al tempo stesso arrogante condotta da ciò che (disgraziatamente) resta del socialismo francese.

Giunti a questo punto forse è fin troppo tardi per arrestare l’ascesa del Front National o di un’altra destra che concorra a sedurne l’elettorato. Ma se una possibilità c’è è quella di rinunciare a imporre questa riforma recuperando un qualche rapporto col mondo del lavoro. Sappiamo che questo non accadrà per intelligenza politica del partito di governo. Potrebbe accadere solo per la sua paura di perdere il controllo della situazione.

«Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio».

Il manifesto, 28 maggio 2016

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando.

È mera rappresentazione. In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

Da Tokyo Renzi rassicura il popolo sovrano che la riforma costituzionale non rafforza il presidente del consiglio: lo scioglimento della camera rimane al Capo dello Stato, aumenta il potere dell’opposizione e dei cittadini. Il premier non potrà nemmeno nominare e revocare i ministri. Dunque, nessuno tema l’uomo solo al comando. È mera rappresentazione.

In Parlamento quando si arriva al dunque si vota e ci si conta. I più alla fine vincono. Le garanzie per le opposizioni possono essere di procedimento, non di risultato.

E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza?

La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito?

La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario.

Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze. Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci.

La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo – unitamente a quella di partito – può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste.

In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di autorità.

Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa. In più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340?

Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio. La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd.

L’Europa comincia a capire che non si tratta di emergenza ma di una questione destinata a durare nei decenni a venire. Ma le sue politiche sono l'esatto contrario di ciò che si dovrebbe e potrebbe fare.

Il manifesto, 28 maggio 2016

La questione dei profughi è salita di livello, sbarcando in Giappone, al tavolo del G7, come questione centrale per il futuro del pianeta. Non poteva andare diversa- mente. L'Austria ha mostrato una popolazione spaccata esattamente a metà tra chi vuole respingerli e chi accoglierli: una divisione che ta- glia verticalmente partiti, culture, religioni, classi sociali e divide tra loro gli Stati in tutta l'Europa. Una fotografia di umori presenti in tutti i paesi europei.

All'altro capo dell'Atlantico, Donald Trump ha fatto del respingimento dei migranti presenti e futuri il cavallo di battaglia della sua irresistibile ascesa. La democrazia, il pro- getto o l'esercizio di un autogoverno dei popoli, sono stati dissolti e risucchiati dalla concentrazione dei poteri nelle mani dell'alta finanza, e questo ha spalancato le porte della politica, ridotta a mera rappresentazione, alla sollecitazione degli umori più viscerali. La paura e lo schifo per il diverso, e il senso di superiorità che ciascuno a suo modo ne può ricavare, sono la compensazione che il potere riserva ai suoi sudditi, a fronte delle frustrazioni che infligge loro.

Intanto, all'altro estremo della scala sociale in cima alla quale è seduta l'élite del G7, si moltiplicano gli imbarchi dalle coste della Libia, i naufragi, i morti, i salvataggi e gli sbarchi; mentre lo sgombero del campo di Idomeni, ancora più cinico e spietato di
quello in corso a 
Calais, lascia vedere quel che i Governi europei si ripromettevano 
dall'accordo appena concluso, e già
vacillante, con la
 Turchia: la possibilità "lavarsi le 
mani" (dei profughi) per occuparsi di ciò che gli è più caro: i loro bilanci.

Ma non sarà così. Solo ora quei governi cominciano a capire che quella dei profughi non è un'"emergenza" temporanea, ma è destinata a durare per decenni a venire. Poi vedono. che, proprio per la sua visceralità, la questione sta cannibalizzando tutti gli altri temi, mettendo fuori gioco schieramenti e politiche di sempre, come è successo in Austria. Infine, forse, cominciano anche a rendersi conto che non sanno assolutamente come affrontarla. Solo Renzi, perché questo è il suo modo di governare, sembra contento di sé; e arriva a definire "strepitosa" la sua proposta di un Migration compact con cui cercare di nascondere quello che l'Europa si appresta fare: scaricare sull'Italia (e sulla Grecia; e la gestione e lo sgombero di Idomeni mostrano come) il peso di quei flussi che nessun accordo con paesi terzi riuscirà mai a trattenere. D'altronde, accordi per fermarli erano già stati conclu- si con la Libia, quando ancora esisteva, e il Sudan; e avevano già fatto fiasco, ma anche provocato morti, violenze e sofferenze senza fine alle vittime predestinate.

Che cosa prevede allora di nuovo il Migration compact? Niente altro che l'estensione di accordi analoghi a tutti i paesi dell'Africa centrale e mediterranea da cui provengono i flussi che alimenta-no la cosiddetta rotta mediterranea, il cui punto di approdo è l'Italia. Quei paesi, però, oggi sono quasi tutti stremati da conflitti armati interni o da feroci dittature; ma anche da crisi ambientali prodotte dal saccheggio delle loro risorse da parte di multinazionali occidentali e cinesi (e in buona parte europee), e dai cambiamenti climatici in corso. Non avranno mai forze economiche e militari sufficienti a farsi carico del ruolo di carceriere in conto terzi che l'Unione europea cerca di affidare alla Turchia. A questo dovranno comunque provvedere in prima persona, anche se in forma mascherata, i governi europei, aiutando quel che esiste dei governi locali a rinchiudere in campi di concentramento i profughi che vorrebbero fuggire dal loro paese; e promuovendone, non si sa come, "sviluppo" e occupazione (quella che l'Europa non riesce più a garantire nemmeno entro i suoi confini), perché nessuno abbia più interesse a emigrare, con un piano che vale 10 volte i sei miliardi promessi alla Turchia. Ma a parte la difficoltà di reperire quei fondi da governi europei sempre più alle prese con i loro bilanci, a quali forze affidare un compito impegnativo come "promuovere lo sviluppo"? Qui il progetto di Renzi raggiunge il grottesco: gli unici soggetti che cita come esempio sono Eni e Edf: due delle tante multinazionali responsabili dei danni ambientali e sociali che stanno costringendo milioni di persone ad lasciare i loro paesi.

Eppure i soggetti potenziali di un'inversione radicale delle politiche di devastazione di quegli habitat ci sono; e sono qui tra noi. Sono gran parte dei migranti già insediati da tempo sul territorio europeo e soprattutto i profughi che l'hanno raggiunto da poco o cercheranno di raggiungerlo in futuro. Sono giovani, spesso istruiti, sono comunque la componente più ricca di iniziativa (altrimenti non avrebbero intrapreso quel viaggio) delle comunità che hanno lasciato, e che molto spesso ne hanno finanziato il viaggio. Sono, in tutti i sensi, e soprattutto in quello culturale, le forze che, se accolte e inserite nel tessuto sociale dell'Europa, invece di costringerle all'inoperosità, di disprezzarli e di perseguitarli, come stiamo facendo, potrebbero esser non solo i protagonisti, insieme ai lavoratori e ai disoccupati europei più colpiti dall'austerity, di una rivitalizzazione della società e dell'economia europee; ma anche, grazie alle relazioni e alle competenze acquisite in Europa e ai rapporti che intrattengono con le loro comunità di origine, il vettore di una rinascita economica e innanzitutto della pacificazione dei loro paesi.

«L'Espresso, 27 maggio 2016

Il corteo in solidarietà di Yusupha, il giovane cambiano ferito da un boss di Ballarò“Chi ci talii?, Che guardi?”. I nuovi boss di Ballarò non tolleravano neppure le occhiate. Figurarsi il rifiuto di “dare qualcosa per i carcerati”. Oppure una manifestazione antirazzista “nella loro zona”.

Ma alla fine i commercianti del Bangladesh hanno detto basta per primi. Denunciando il pizzo e le continue aggressioni dei mafiosi. Proprio in occasione del 23 maggio, anniversario della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta. “Tentato omicidio, estorsione, incendio, rapina, violenza privata e lesioni personali” sono i reati contestati al clan Rubino. “Una storia senza precedenti, per la prima volta la denuncia collettiva vede coinvolti un cospicuo numero di migranti che da tempo vive a Palermo”, commenta AddioPizzo .

Ben cento agenti sono entrati nei vicoli del quartiere per arrestare dieci persone. Dalle indagini emerge un quadro spaventoso. I boss, arroganti e violenti, non concepivano l’apertura di negozi senza la loro autorizzazione. Neppure i money transfer o i call center sfuggivano alla regola. Anche i pacifici commercianti del Bangladesh dovevano pagare. Per anni hanno subito ogni tipo di imposizione. Le rapine punitive avvenivano pistola alla mano, anche di fronte ai bambini piccoli che stavano in negozio con i genitori.

Come nasce la rivolta

San Giovanni a Teduccio, periferia Est di Napoli, è tra le zone più a rischio. Il degrado è ovunque. E l'abbandono scolastico è alto. Eppure c'è chi resiste e prova a dare un'alternativa ai ragazzi. Per salvarli dalla strada. E dai clan. Sos Scuola è il progetto che in questi giorni darà nuova vita all'istituto del quartiere, raro esempio di condivisione della zona

La denuncia dei migranti contro il pizzo non nasce per caso. È il frutto di una alleanza positiva tra forze sane della città e stranieri sempre più consapevoli dei loro diritti. “Non voglio più sentire parlare di eroi”, dice all’ Adham Darawsha. Medico nato a Nazareth, è presidente della “Consulta delle culture”, pensata dalle istituzioni comunali per dare rappresentanza ai migranti.

Darawsha ci racconta un crescendo di aggressioni e sparatorie in tutto il centro storico, da almeno sei mesi. Stanchi di subire, lo scorso primo aprile oltre cento commercianti hanno consegnato al sindaco una lettera di protesta. La maggior parte di loro erano migranti. “Per me quello che è successo è normale. Invece diventa straordinario”, ripete. “Se subisco un’ingiustizia vado a denunciare”. Racconta di una “criminalità orizzontale” sempre più aggressiva: “Una cosa è chiedere due euro, altro invece è puntare la pistola ai bambini”.

“Rissa tra extracomunitari”

Un proiettile che trapassa la testa, un’emorragia cerebrale e giorni di coma. Il tutto per aver litigato col boss del quartiere. Lo scorso 4 aprile il giovane Yusupha Susso, gambiano , rimane sull’asfalto del centro con la testa coperta di sangue. Mentre passeggia con altri ragazzi africani, incrocia il boss. Scatta una lite. L’uomo va a prendere una pistola, ritorna e spara.

“Rissa tra extracomunitari”, hanno titolato inizialmente giornali e blog. Invece è una ritorsione mafiosa. L’aggressore fa infatti parte della famiglia Rubino, ovvero gli arrestati nell’operazione antipizzo. “Un balordo ha sparato alla testa a un ragazzo solo perché si era ribellato alla sua prepotenza in stile mafioso”, si legge nel documento del comitato che ha organizzato la manifestazione di solidarietà col gambiano. che ora fortunatamente è in buona salute. “Si chiama Yusupha, ma si sarebbe potuto chiamare Giuseppe, Calogero o Salvatore, e tornava da un pomeriggio trascorso a riqualificare un campetto di calcio abbandonato nel quartiere di Ballarò e destinato a tutti i giovani del territorio”.

L’emozione suscitata dal ferimento è enorme. Yusupha è molto conosciuto, è impegnato in attività di volontariato e lavora anche come interprete per le istituzioni. Si arriva alla manifestazione del 9 aprile e l’atmosfera è carica di tensione. Come reagirà il quartiere? I mafiosi provano a impedire il corteo. Sfilare sotto i loro balconi è un gesto di sfida plateale. Tolto un momento di contestazione, tutto si svolge senza incidenti. Migranti e palermitani insieme hanno scelto la strada della rivolta. “Non spegni il sole se gli spari addosso”, hanno scritto su uno striscione retto tra gli altri dal sindaco Leoluca Orlando.

"Questo non è l'inferno"

Fulvio Vassallo Paleologo, già docente di diritto d’asilo all’Università di Palermo, invita a non semplificare: “I fatti che vengono alla luce sono conseguenza di uno scontro in corso che attraversa le comunità. Non si deve accentuare una contrapposizione su base etnica, né ghettizzare un intero territorio pieno di contraddizioni ma anche di grandi potenzialità”.

Fausto Melluso la pensa come lui. È uno degli animatori del circolo Arci “Porcorosso”, che fa animazione sociale proprio a Ballarò. “Qui non è l’inferno, questo è un posto incredibilmente migliore di altri, ma è anche un concentrato di problemi sociali. E non è un ghetto, perché migranti e palermitani di diversa estrazione vivono insieme”. Chi si confronta con il quartiere evidenzia con orgoglio le sue contraddizioni. A una miseria culturale che sfiora il nichilismo, con la violenza mafiosa, si contrappone il coraggio di chi denuncia, pur partendo da una condizione di svantaggio. “I migranti sono più ricattabili, ma hanno avuto una fiducia nello Stato che non si vede in altre categorie”, conclude Melluso.

Otto anni di gesti antimafiosi

Quello di Palermo non è il primo gesto antimafioso dei migranti. Eppure non è rimasta memoria di questi atti di eroismo. Nel settembre 2008, la comunità africana di Castel Volturno si ribellò alla camorra dopo a una strage che uccise sei migranti innocenti. L’unico sopravvissuto, un ghanese, testimoniò contro i casalesi.
Quattro mesi dopo, a Rosarno, dopo un ferimento a colpi di pistola, gli africani in massa testimoniarono e fecero arrestare il killer. Evento rarissimo per quel territorio. Anche perché si trattava di un pericoloso affiliato ai clan locali.

Poi, nel gennaio 2010, la seconda rivolta degli africani, con echi in tutto il mondo, cui seguì una violenta reazione di parte della popolazione locale. Tutti i neri presenti nella zona furono costretti ad andare via. Sempre nel 2010, due indiani di Locri denunciarono di essere stati vittime di aggressioni razziste da parte di una banda di giovani calabresi. Un mafioso finì in carcere. Poi, come segno di riconoscenza e di pace verso la città, gli indiani ristrutturarono gratuitamente la cappella del cimitero.

Ancora in Calabria, a San Gregorio, provincia di Vibo Valentia, la comunità romena fu presa di mira dal figlio del boss Mancuso, uno dei più potenti della ‘ndrangheta. Per gioco pestarono un migrante con un mattone fino a lasciarlo in una possa di sangue. Era il luglio del 2013. Alla fine il giovane boss fu condannato con l’aggravante dell’odio razziale. Gli stranieri, però, lasciarono in paese.

Queste storie dimostrano che tanti migranti non sono legati alla subcultura mafiosa e denunciano. Ma, finita l’emozione del momento, chi protegge il loro coraggio?

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