Altraeconomia, 11 giugno 2016 (c.m.c.)
Oltre ventisette milioni di cittadini italiani il 12 e 13 giugno del 2011 parteciparono a un referendum popolare, votando 4 quesiti. 25.935.372 dissero sì all’abrogazione di una norma volta ad obbligare le società che si occupano dei servizi pubblici locali ad affidare la gestione tramite gara a una società per azioni; 26.130.637 dissero sì a una modifica della tariffa del servizio idrico integrato, eliminando la componente “remunerazione del capitale investito”; 25.643.652 dissero sì all’abrogazione delle nuove norme che avrebbero consentito la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare; 25.736.273, infine, dissero sì all’abrogazione della norma relativa al “legittimo impedimento” del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri a comparire in udienza penale.
Tre dei quattro quesiti riguardavano, quindi, ambiente e diritti. E cinque anni dopo rispondiamo alla domanda “che cosa è successo?”.
Acqua, il referendum tradito
Secondo Giulio Citroni, che insegna Scienza politica all’Università della Calabria, e da un dozzina di anni studia i processi di governance nei servizi pubblici locali, “il referendum del 2011 è stato forse in questi anni il punto di massima chiarezza e la fonte di massima stabilità normativa raggiungibile”, tanto che nel 2012 la Corte Costituzionale “emette una sentenza fondamentale, che stabilisce che i tentativi di reintrodurre l’obbligo di gara sono anticostituzionali perché contradicono lo spirito e la lettera del referendum” (“Dismissioni! E poi?”, Guerini e associati, 2016). Chi ha votato il 12 e 13 giugno 2011, sostiene Citroni, lo ha fatto in modo non equivoco “contro l’obbligo di privatizzazione, contro la messa a profitto della gestione dei servizi idrici”.
Cinque anni dopo, non è cambiato (quasi) niente. Anzi, a livello governativo si assiste allo stravolgimento della legge per la ri-pubblicizzazione dell'acqua: il testo nato dalla proposta di iniziativa popolare del 2007 è stato approvato alla Camera, il 20 aprile scorso, in una versione che ne stravolge profondamente i contenuti (qui la nostra analisi).
Ma non c’è solo questo: il Governo guidato da Matteo Renzi ha deciso di muoversi lungo una direzione contraria al referendum, soprattutto con i decreti attuativi della legge Madia sulla riforma della pubblica amministrazione, i cui obiettivi espliciti, riportati nella relazione di accompagnamento, sono “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità” e il “rafforzamento del ruolo dei soggetti privati”.
Negli stessi decreti attuativi, inoltre, ritorna la previsione -per i servizi a rete- di “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa: è l’esatta dicitura che oltre 26 milioni di cittadini avevano abrogato nel 2011.
Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, tra i promotori del referendum, è così oggi impegnato nella campagna "Stop Madia". Il nuovo Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto legislativo attuativo dell'art. 19 della L. 124/2015 (Legge Madia), è all'esame del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata Stato-Regioni, e verrà approvato in via definitiva -con tutta probabilità- entro la fine del mese di giugno.
Sullo sfondo, continuano i processi di aggregazione, che vedono protagoniste le società quotate in Borsa (la lombarda A2a, la emiliano-romagnola HERA, la ligure-piemontese IREN, la laziale ACEA): a inizio luglio, però, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato dirà la sua sulla sostanzialmente fusione tra le multi-utilities A2a e LGH Group (società attiva nel lodigiano, nel cremonese e nel bresciano). La prima -di cui sono azionisti i Comuni di Milano e Brescia- potrebbe assumere una “posizione dominante”. La valutazione dell’Antitrust potrà offrire spunti importanti.
Solo a Napoli, con l’esperienza di ABC, e la trasformazione di ARIN spa in soggetto di diritti pubblico, si è pienamente realizzato ciò che la volontà popolare aveva espresso nel 2011, ovvero -prendendo in prestito l’interpretazione della Corte Costituzionale- “rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua” (qui la storia di ABC Napoli, da Ae 172).
E qualcosa ha da insegnarci anche la vicenda romana, con le elezioni amministrative in corso: il Movimento 5 stelle ha paventato la possibilità di sostituire il management di ACEA, di cui il Campidoglio controlla il 51%; alcune società di analisti, però, sottolineano che un nuovo indirizzo alla politica industriale dell’azienda, prerogativa dell’azionista, potrebbe rappresentare un potenziale “pericolo” per gli altri azionisti, specie se questi interventi inseriscono in agenda temi come un aumento degli investimenti e una riduzione degli utili.
Nucleare, un risparmio di almeno 20 miliardi di euro
Cinque anni fa, ENEL aveva già individuato i siti in cui costruire quattro nuovi impianti nucleari, dal costo iniziale stimato di almeno 4,5 miliardi di euro: avrebbero dovuto consentire la generazione del 25% dell’energia elettrica prodotta ogni anno nel nostro Paese. Cantieri aperti nel 2013, si scriveva.
La vittoria dei “Sì” nel referendum, ha bloccato ogni investimento. E per fortuna, perché nel frattempo il mercato elettrico ha cambiato pelle. Basti pensare che le 4 nuove centrali nucleari avrebbero avuto una capacità complessiva di 6.400 Mw, mentre tra il 2013 e il 2014 le aziende proprietarie di centrali termoelettriche alimentate da carbone e gas naturale hanno chiesto la messa fuori esercizio, ovvero il distacco dalla rete, di una dozzina di impianti per una potenza complessiva di 7.788 Mw.
Anche ENEL -azienda quotata in Borsa, ma partecipata dallo Stato- si adattando al nuovo mercato elettrico: tra il 2015 e i primi mesi del 2016 ha diretto al ministero dello Sviluppo economico una richiesta di “messa fuori servizio esercizio” di 5 impianti, per una potenzia installata pari a 1.550 Mw, quasi quanto una centrale nucleare.
Che cosa è successo, nel frattempo? Nel 2009, l’anno in cui il governo iniziò a parlare di un ritorno al nucleare, il 74,8% dell’energia elettrica prodotta in Italia arriva da fonti non rinnovabili (gas naturale e carbone, su tutte); nel 2011, l’anno del referendum, la percentuale era scesa al 71,9%. Nel 2014 (ultimo dato aggregato disponibile), questa percentuale è scesa al 56,2%. A crescere sono state le fonti rinnovabili: +231,9% per l’eolico, +3294,6% per il fotovoltaico.
Nel 2008, inoltre, si stimava che tra il 2005 e il 2020 i consumi elettrici nel nostro Paese potessero crescere del 36,5%, fino a 423 Twh/anno. In realtà, i consumi sono cresciuti solo fino al 2007, e da allora sono scesi in termini assoluti del 10 per cento circa.
«L’accusa è corruzione nelle gare per i pozzi nel Paese africano: pagato un miliardo».E' a simili personaggi e interessi che ii fautori del "Migration compact" vorrebbero affidare le sorti dei popoli in fuga dalle regioni che proprio loro hanno contribuito a devastare. La Repubblica, 10 giugno 2012
Un invito a comparire fissato per questa mattina. A Milano, in una caserma, lontano dalla curiosità dei cronisti. Un «invito» che, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha preferito declinare. Tre giorni fa, i pm Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Isidoro Palma, hanno firmato un documento di tre pagine in cui contestano al numero uno della multinazionale energetica italiana il concorso in corruzione internazionale e gli chiedono un interrogatorio per spiegare la sua posizione con contestazioni precise e circostanziate. Insieme a Descalzi, tra gli indagati ci sono anche il suo predecessore, Paolo Scaroni, i manager Eni, Roberto Casula - responsabile per il business nell’Africa, Vincenzo Armanna, Luigi Bisignani - vecchia conoscenza di Mani Pulite e considerato «intermediario dell’affare » -, il manager Gianluca Di Nardo, oltre a tre cittadini nigeriani che avrebbero fatto da trait d’union con le autorità del loro paese. Il destinatario finale della tangente da nove zeri, - sempre secondo quello che è il solco seguito in procura - sarebbe stato Daniel Etete, «rappresentante della società Malabu, titolare dal 1998 della licenza Nigeriana». Etete, a sua volta, avrebbe diviso la «posta» con l’ex presidente Jonathan Goodluck , e tre suoi ministri.
Il sospetto della procura - su questo filone indaga ormai da quasi due anni - è che i vertici di Eni «per ottenere (insieme alla olandese Shell, ndr) i diritti di esplorazione del blocco 245 - è scritto testualmente nell’invito a presentarsi - nella Repubblica nigeriana... concorrevano nel versamento in data 24 maggio 2011 di un miliardo e 92 milioni di dollari su un conto della Jp Morgan Chase di Londra».
Secondo i tre magistrati, la mega mazzetta sarebbe servita a far ottenere un trattamento di vantaggio a Eni e Shell, che si sono effettivamente accaparrati i diritti di esplorazione, ma «in violazione della riserva di quote alle società locali, a un prezzo vantaggioso e con benefici fiscali e di esclusiva nelle attività di sfruttamento dei pozzi petroliferi».
Del miliardo, 200 milioni sarebbero stati inoltre «retrocessi al fine di remunerare amministratori e dirigenti Eni e gli intermediari, Bisignani, Di Nardo e i tre cittadini nigeriani ». L’invito formalizzato contro Descalzi, in realtà, è piuttosto sintetico. In questi ultimi mesi, però, il lavoro della procura è proseguito grazie anche alla collaborazione delle autorità nigeriane e di quelle olandesi, dove ha sede Shell. Descalzi - attraverso il suo legale, l’ex Guardasigilli Paola Severino ha fatto sapere che intende depositare una memoria per spiegare la propria posizione. In realtà, la mole di prove che i sostituti milanesi sono riusciti a ricostruire sarebbe enorme. In questi ultimi mesi, poi, uno degli indagati, Vincenzo Armanna, è stato ascoltato per ben quattro volte, e potrebbe aver ulteriormente chiarito la dinamica con cui è stata assegnata illecitamente la licenza nigeriana. Mentre il nuovo governo del paese africano, anche su spinta del Parlamento, sembra orientato a revocare il diritto di esplorazione di uno dei giacimenti più grossi mai scoperti.
Con il mancato interrogatorio del numero uno Eni - è comunque un diritto della difesa non presentarsi -, nei prossimi giorni in procura dovrebbero essere convocati anche gli altri protagonisti italiani della vicenda, per sentire la loro versione. Potrebbe essere uno degli ultimi atti dell’indagine che a luglio potrebbe terminare con un avviso di conclusione per l’attuale vertice del gruppo Eni. Descalzi ieri è volato a Potenza per avere «un incontro positivo» con i pm dell’altra inchiesta che coinvolge Eni, sul centro olii di Viggiano dissequestrato e che dovrebbe ripartire entro agosto.
Ieri l’amministratore ha incontrato il procuratore capo di Potenza per l’inchiesta su Viggiano
Segni del declino di monarca che vacilla? Sarebbe bello. Ma lo strato di macerie è già tanto alto da soffocarci.
Ilmanifesto, 10 giugno 2016
Dalle trionfali elezioni europee del 40% a queste comunali dell’emorragia nelle grandi città sembra trascorso un secolo, e tira aria di un fuggi fuggi generale. Finiti i tempi dei
laudatores in fila alla porta di palazzo Chigi e del partito, quando davanti alla televisione assistevamo alle repentine metamorfosi renziane dei fu bersaniani di ferro, quando i cespugli d’ogni stagione erano pronti a fare da contorno al giglio magico.
Ancora all’inizio della campagna elettorale per le amministrative, i sindaci sicuri di farcela al primo turno sembravano contendersi il corpo del leader, felici di poterlo esibire ai loro aperitivi (le piazze sono passate di moda, solo i 5 stelle hanno osato chiudere la campagna a piazza del Popolo, premiati dalle urne). Poi dopo la batosta del 6 giugno sembra iniziata la corsa a scendere dal carro. Ormai è una gara a tenere il presidente-segretario alla larga dai ballottaggi, e perfino lo stesso Renzi sembra volersi allontanare un po’ da se stesso (il giorno del voto sarà a Mosca da Putin).
Il severo prosciugamento dell’insediamento sociale del Pd, il rischio di perdere al ballottaggio, spingono i candidati sindaci di Torino, Bologna e Milano lontani dal premier. Quel suo ostinarsi a derubricare il voto locale per concentrarsi su quello del referendum costituzionale è stato un errore e per questo non lo vogliono accanto in questi ultimi giorni di campagna elettorale («Io non sono del Pd, sono un manager», così Sala in Tv).
Ieri lo hanno fischiato non i centri sociali, ma i commercianti riuniti nell’assemblea della Confcommercio, la pancia della piccola impresa familiare, una parte del ceto medio colpito dalla morìa delle saracinesche nelle città, fenomeno triste e evidente camminando per le strade di Roma. Ma essere vittime della crisi (e della rendita che piuttosto che affittare a prezzi sostenibili preferisce bastonare il piccolo artigiano) non ha impedito ai commercianti di fischiare il premier sugli 80 euro, cioè di prendersela con chi ha stipendi che non arrivano ai 1500 euro al mese. E mentre l’assemblea rumoreggiava il capo dei commercianti affossava la sbandierata ripresa «senza slancio, senza intensità, senza mordente».
Questo governo non ci è mai piaciuto. Le sue riforme economiche (ieri sono scesi in piazza i metalmeccanici per il contratto nazionale di lavoro) segnano l’abbandono della difesa dei più deboli consegnati alle logiche del liberismo. Quelle costituzionali seguono la stessa filosofia con l’adeguamento del sistema parlamentare alla logica dell’assetto economico. Tuttavia lo spettacolo della fuga generale dal leader che barcolla è solo l’altra faccia, un po’ indecorosa, della medaglia.
Comune-info, 10 giugno 2016 (p.d.)
È stato presentato nei giorni scorsi il secondo rapporto del relatore speciale Onu sui crimini e violazioni dei diritti umani in Eritrea. Ennesimo atto di accusa verso un regime spietato quello di Isaias Afewerki, uno dei possibili beneficiari dei fondi previsti dal presentato anch’esso nei giorni scorsi a Bruxelles e figlio di una proposta avanzata da Matteo Renzi. Una proposta e un’iniziativa non solo improntata su un’approccio securitario, che mira a bloccare sull’altra sponda del Mediterraneo i flussi di migranti e possibili richiedenti asilo, ma rischia anche di consolidare e perpetuare le cause stesse di quelle migrazioni. L’idea di fondo è quella di sostenere i governi dei paesi di origine, e investire decine di miliardi di euro in infrastrutture, usando la leva degli investimenti privati, né più e né meno come pretende di fare il piano Jucker per l’Europa.
In realtà il Migration Compact è muto, cieco e sordo riguardo le vere cause dell’esodo di massa verso l’Europa, guerra e repressione, violenza e dittature. Ci sono certo coloro che cercano un futuro lavorativo in Europa ci mancherebbe ed è loro diritto fondamentale, perché le migliaia e migliaia di italiani che se ne vanno dal paese per costruirsi un progetto di vita altrove che sono, beneficiati dal loro colore della pelle? Il punto però è che per molti provenienti da altre zone di conflitto, passerebbe la visione secondo la quale il problema (per gli eritrei e non solo, si pensi ad esempio agli etiopi Omo e Oromo magari, vessati e espulsi dalle loro terre) sarebbe un problema di sviluppo, di crescita. Insomma non persone che fuggono per salvare la propria vita, ma migranti economici, ai quali proporre chissà quando un posto di lavoro a casa propria.
Diciamo le cose come stanno, se si dovesse fare un calcolo in termini di posti di lavoro, in Africa se ne dovrebbero “costruire” oltre ottocento milioni. E fino quando questi benedetti posti di lavoro non verranno creati e queste infrastrutture costruite quelle persone dove vanno? Magari in campi di concentramento trasformati in sale di attesa? Se invece si ragionasse in altra maniera, riconoscendo le vocazioni e le specificità di quei territori a creare reddito, non necessariamente attraverso il classico posto di lavoro, non necessariamente reddito in termini di Prodotto interno lordo o Indici di Sviluppo Umano, magari si riuscirebbe a dare la possibilità a milioni di persone di produrre il loro cibo, e dar loro accesso agli strumenti per determinare il proprio futuro. Questo è il primo elemento. Ma anche l’assioma secondo il quale la crescita porterà democrazia fa acqua da tutte le parti.
Chi controlla l’economia di quei paesi? Dove andranno le risorse economiche e finanziarie? Le parole della commissione di inchiesta sui crimini in Eritrea ci riportano alla realtà nuda e cruda, e mettono di nuovo a nudo la contraddizione se non l’ipocrisia dell’Europa e del suo Migration Compact. Insomma una spruzzata di umanitarismo e lotta alla povertà mainstream, per nascondere le vere questioni politiche e le cause del fenomeno migratorio, e addolcire la pillola amara della repressione “poliziesca” fatta di filo spinato e hotspot. Pillola amarissima per chi fugge dalla guerra o dalla repressione e la galera e si ritroverebbe dentro un’altra galera per poi essere rispedito a casa in attesa di un fantomatico “posto di lavoro”.
Ma non è che forse proprio per quel modello di sviluppo, a causa dell’illusorio mito della crescita e del “trickle-down” development praticato in Africa e non solo che migliaia di persone partono dall’Africa se non per sfuggire alla guerra o alla repressione, almeno in cerca di una vita più decente? Per non dimenticare che nel frattempo l’Unione Europea sta continuando a spingere sui quei paesi per l’attuazione rapida degli Accordi di Partenariato Economico (Epa o Economic Partnership Agreements) che rischiano di creare grave pregiudizio alla possibilità di quelle economie di svilupparsi autonomanente. E così facendo ricreando le premesse per nuovi esodi migratori. Sono altre le maniere di ripagare un debito ecologico e sociale accumulato verso quel continente. Mi pare invece che il gatto si morda la coda. Anzi ancora una volta è il gatto che si mangia il topo.
«“Basta con questo orrore contro i femminicidi si mobiliti tutto il Paese”. Boldrini dopo il quarto assassinio in dieci giorni “Dai politici alla tv, ognuno faccia la propria parte”».
La Repubblica, 10 giugno
«Ora basta, tutti devono mobilitarsi. Bisogna far capire ai violenti che “no pasaràn”». Dal 29 maggio, da quando è stata strangolata e bruciata a Roma Sara Di Pietrantonio, altre tre donne sono state uccise da uomini, mariti, compagni, spesso ex rifiutati. L’ultima ieri nel Veronese, una maestra trucidata con un coltello.
«È un’escalation di violenza con la quale non si può convivere, non può essere la nostra normalità. Io non ci voglio convivere ». Laura Boldrini è un fiume in piena. La sua battaglia contro il femminicidio, culminata venerdì scorso con l’esposizione del drappo rosso dalle finestre di Montecitorio, non conosce sosta. Perché non può. Viene drammaticamente alimentata, giorno dopo giorno, da nuovi tragici atti di violenza contro le donne. Per questo la presidente della Camera ha deciso di fare un passo avanti e lanciare un appello «perché tutti facciano la loro parte: istituzioni, mondo dell’informazione e dello spettacolo, le tv, le imprese, la scuola, i parroci. Mi rivolgo a chiunque non voglia più tollerare questa violenza e voglia dire “not in my name”».
La presidente ripercorre le scelte di questi ultimi giorni. «Mi è sembrato giusto aderire alla campagna lanciata sul web da molte donne dopo la morte di Sara e ho esposto il drappo rosso». Ma ora «è necessario allargare la mobilitazione, ognuno deve portare il suo contributo in questa battaglia. Io non delego nessuno, la faccio in prima persona». Tocca anche agli altri fare la loro parte.
Le istituzioni in primo luogo. Laura Boldrini ringrazia i sindaci, da Pisapia a Nardella, da Orlando a Bianco, che l’hanno seguita nel gesto del drappo rosso. E il capo della Polizia, Gabrielli, che le ha promesso un’azione incisiva.
E poi ci sono i mass media. A loro la Boldrini chiede di «raccontare questi drammi dalla parte della vittima. Smettiamola di parlare di raptus, perché non si tratta di questo: la maggior parte delle donne uccise aveva già subito molte minacce ». Ma l’appello è rivolto anche alle imprese, ai datori di lavoro, perché «vigilino contro la violenza», ma non solo. È ora che le aziende cambino anche i loro messaggi pubblicitari, che «ci restituiscono in larga parte una figura femminile ammiccante, quasi sempre svestita, per vendere qualsiasi cosa. Sono modelli che sminuiscono le donne, le oggettivizzano». Così come «quegli uomini in giacca e cravatta che conducono programmi televisivi contornati da vallette seminude. Anche le tv devono prendersi le loro responsabilità ».
Possono fare molto pure i sacerdoti e i parroci, «seguendo le parole di Papa Francesco sul rispetto per le donne».
E infine la scuola, il capitolo che forse sta più a cuore alla presidente della Camera: «Credo sia arrivato il momento che nelle scuole si insegni il rispetto di genere e venga data ai ragazzi una educazione sentimentale, per capire che si può stare insieme nel rispetto. Purtroppo tra i nostri giovani non sempre è così. Basta guardare il web - sottolinea la Boldrini - sui social abbonda una comunicazione misogina, messaggi di odio contro le donne ». E invece «la violenza contro le donne, ma anche l’insulto sessista, devono essere considerate una vergogna, uno stigma sociale, da isolare e condannare ».
Insomma «chiunque crede in un rapporto di coppia paritario, a partire dagli uomini, deve far sentire la sua voce. La violenza sulle donne è un problema degli uomini, ma finora la loro voce non si è fatta sentire. È ora di agire, perché in ballo ci sono la vita e le conquiste delle donne ».
A livello di governo qualcosa si muove. Ieri la ministra Boschi ha ricordato che è al lavoro la commissione che dovrà valutare i progetti di attuazione del piano anti violenza, con a disposizione 12 milioni. Anche per la Boschi «la vera sfida è quella educativa e culturale», che si combatte nelle parrocchie, nei centri sportivi, nelle associazioni. «La battaglia contro il femminicidio può essere vinta, deve essere vinta -ha concluso - lo dobbiamo a Sara, Alessandra, Michela, Federica e le altre»
Un passaggio necessario per la nuova "questione femminile", e non solo: la "cura domestica" è un attributo e una mansione di genere oppure è una responsabilità collettiva?
Il manifesto 9 giugno 2016
La femminilizzazione della sfera pubblica, a cui assistiamo ormai da anni , anche se viene vista prevalentemente sotto il profilo del numero crescente di donne presenti nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nelle professioni, nella cultura, ha come suo aspetto più innovativo la «valorizzazione» di quegli attributi che sono stati storicamente il pretesto per la loro esclusione dalla polis. Non a caso, è proprio dalla messa in discussione della femminilità che ha preso le mosse il femminismo degli anni Settanta, un salto nella coscienza del rapporto tra i sessi destinato a lasciare un segno duraturo sia nella vita privata che pubblica.
Nella fase iniziale, e per circa un decennio, era parso chiaro a tutte le componenti del movimento che l’emancipazionismo, attestato sul dilemma uguaglianza/differenza -richiesta di parità o viceversa di tutela della particolare «condizione femminile-, non poteva che portare alla conferma del «ruolo secondario e integrativo della donna anche nel lavoro extradomestico».
La «rivoluzione» del nuovo femminismo è stata prendere coscienza che l’espropriazione più profonda di esistenza delle donne passa attraverso il corpo: dalla sessualità negata e trasformata in sessualità di servizio, all’obbligo procreativo. Veniva allo scoperto che le «identità di genere» sono il prodotto astratto di una differenziazione che passa all’interno dell’individuo, separando parti tra loro indisgiungibili come il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione. Diventava chiaro, in altre parole, che le differenze di genere, così come sono state concepite strutturano sia la relazione d’amore - come sogno di ricongiungimento armonioso dei due rami divisi dell’umanità - sia il rapporto di potere tra i sessi, a partire dalla divisione sessuale del lavoro.
Modificare se stesse
Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.
Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.
Acque insondate
Dopo aver scavato a lungo, e non senza difficoltà, nei sedimenti della vita psichica e nella memoria del corpo fino ai confini tra inconscio e coscienza, le anomale pratiche politiche del femminismo hanno effettivamente segnato una battuta d’arresto: per stanchezza, per paura di vedere ricomparire nella socialità tra donne che si veniva costruendo fantasmi famigliari, esperienze di rapporti materno-filiali particolarmente distruttivi o dolorosi, per la sensazione di affondare nelle «acque insondate» della vita personale, troppo lontane dalle istituzioni della vita pubblica per poter essere attraversate senza smarrirsi.
Ma c’è un aspetto dell’emancipazione che non si prevedeva o che abbiamo sottovalutato. A quella nota storicamente come rincorsa omologante a essere come l’uomo, fuga da un femminile screditato, se ne è andata affiancando un’altra: l’emancipazione del femminile in quanto tale. La donna, il corpo, la sessualità sembrano essersi presi la loro «rivalsa» sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma senza alcun ripensamento critico. Il passaggio da una condizione che si è subìta, perché imposta con la forza del potere, della legge, della sopravvivenza, alla scelta di farla propria, di assumerla attivamente, non è certo senza significato.
Di fronte a donne che offrono i loro corpi in cambio di carriere e di denaro, che mettono al lavoro affetti, sentimenti, la loro vita intera, non si può più parlare di «vittime». Ma neppure, all’opposto, dell’«eccellenza» femminile che oggi verrebbe riconosciuta. La seduzione e la cura, le due potenti attrattive femminili che l’uomo ha definito in funzione del proprio privilegio, assicurandosene il controllo e il possesso, sono quei poteri sostitutivi con cui le donne, escluse dalla polis, hanno costruito la loro indispensabilità all’altro. Oggi, venuti meno i confini tra privato e pubblico, è la stessa civiltà dell’uomo a richiederli, o come riserva salvifica di umanità o come semplice forza integrativa, valore aggiunto, per un sistema produttivo in crisi.
Conciliazioni indigeste
Nel passaggio dal privato al pubblico, il femminile non sembra perdere tuttavia i tratti di subalternità che lo hanno accompagnato per secoli. Come si può pensare che, richiesta dalla nuova economia, dal mercato, dalla politica, la «cura» possa divenire automaticamente «gesto di libertà femminile», «autodeterminazione del proprio tempo», elemento propulsivo di un Diversity management? Un’analisi più attenta meriterebbe oggi l’autoesclusione: riconoscere che il potere maschile non si manifesta solo come difesa a oltranza del proprio privilegio, ma anche, indirettamente, attraverso i saperi, il linguaggio, i modelli su cui si regge il governo della cosa pubblica, la cui forza sta nel celarsi dietro la neutralità.
Soprattutto, le donne dovrebbero dirsi con chiarezza se vogliono che la cura resti una «competenza» femminile, una «differenza» di genere da valorizzare e far riconoscere come potere, risorsa, anche fuori dalla casa, o se sono disposte a mettere in discussione quello che è stato storicamente un ruolo imposto alla donna.
In altre parole, se pensano che la cura sia una responsabilità collettiva, non un problema privato e tanto meno un destino della donna. In questo caso è evidente che il discorso cambia: si smette di chiamare «maternità» la crescita dei figli, che come tale può essere fatta da uomini e donne, genitori biologici e non biologici; di fare della «conciliazione» tra casa e lavoro extradomestico un problema solo della donna; si cominciano a vedere la cura e il tempo di vita, non come «valore aggiunto», una risorsa che va a migliorare un sistema economico e politico in crisi, ma una finalità in sé da anteporre alla logica del mercato e della produttività illimitata.
Chissà se chi ha promosso e votato il provvedimento che condanna per i "negazionisti", cioè per chi nega i genocidi commessi nel passato (cui si riferisce l'articolo di Melloni), si rende conto che attualmente avviene un genocidio di dimensioni ancora più vaste? La Repubblica
, 9 maggio 2016
Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano. Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni.
Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si rende responsabile.
Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.
Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra, disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.
Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001 prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.
«La dinamica dei salari affidata alla contrattazione separata inserirebbe un nuovo cuneo di divaricazione sociale tra il Nord e il Sud del Paese».
Il manifesto, 9 giugno 2016
Non capita spesso, ma quando succede ti si allarga il cuore. Nel torrente di notizie conformistiche e corrive che ci inondano ogni giorno può succedere che qualcheduna ti folgori per la sua abbagliante novità. Non eravamo convinti, tutti, che il Sud Italia - secondo ripetuti dati Istat e gli annuali e ormai monotoni rapporti Svimez - fosse in condizioni sociali alquanto gravi, e sempre più lontano dagli standard di vita del resto del Paese? E invece non è così, almeno su un aspetto: quello dei salari. Lo hanno stabilito alcuni economisti, Andrea Ichino,Tito Boeri ed Enrico Moretti in uno studio presentato in questi giorni al Festival dell'Economia di Trento (ne dà conto R.Mania, Salari appiattiti, prezzi diversi così il Sud batte il Nord più 13% di potere d'acquisto, Repubblica, 6.6.2116).
Secondo questi intrepidi ricercatori il diverso costo della vita, soprattutto il più alto costo delle case al Nord, renderebbe il contratto collettivo di lavoro - che assicura salari uguali per tutti, a Bolzano come ad Enna - fonte di disuguaglianza a svantaggio dei lavoratori delle regioni settentrionali. Il loro potere d'acquisto risulterebbe inferiore del 13% rispetto al Sud, «con un picco del 32% tra gli insegnati della scuola elementare pubblica». Insegnanti che, com'è noto, godono di stipendi lautissimi, invidiati perfino in Svezia. Dunque un egalitarismo ingiusto, che dovrebbe essere superato abolendo i contratti nazionali di lavoro e legando i salari alla produttività del singolo lavoratore, azienda per azienda.
Ora io mi chiedo, senza nessuna ironia, se questi economisti - e la gran parte degli economisti che esce oggi dalle nostre Università - sono in grado di fare analisi sociale oltre che conteggiare dati, son capaci di pensare oltre che a fare calcoli. Ma davvero si può valutare il potere d'acquisto dei lavoratori meridionali limitandosi alla cifra del valore nominale dei salari? Ma si sono rammentati costoro che nelle regioni del Sud oltre 2 milioni e mezzo di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, che il tasso di disoccupazione ufficiale (cioè un tasso che non registra chi il lavoro non lo cerca più) si attesta da tempo sul 12%, che quello della disoccupazione giovanile supera spesso il 40%? Sono stati sfiorati dal sospetto che un salario, uno stipendio, una pensione, in tantissime famiglie, costituisce l'unica fonte di reddito che dà da vivere a vari disoccupati? Un potere d'acquisto vantaggioso per i meridionali? Ma valutato come?
Conoscono questi studiosi, le sperequazioni drammatiche, nei servizi pubblici, che i cittadini meridionali patiscono a parità di pressione fiscale rispetto ai cittadini del Nord? Di quanti asili nido dispongono le insegnanti di Ragusa, rispetto a quelle di Ferrara o di Bergamo? Si tratta di disparità gigantesche in ogni ambito della vita sociale: nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nell'assistenza agli anziani. Si pensi, tanto per fornire qualche dato, che i servizi per l'infanzia coprono in Campania solo il 14% del fabbisogno, a fronte del 70% in Lombardia. In Sicilia solo l'11% degli anziani sopra i 65 anni usufruisce dell'Assistenza integrata domiciliare (ADI), contro il 34% della Liguria e il 93% del Veneto. Più della metà della famiglie calabresi non può bere acqua dal rubinetto a fronte del 3% delle famiglie trentine. (Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò,
Un paese disuguale. Il divario civile in Italia in S
tato e mercato, 2013, n.98) Ha a che fare tutto questo col potere d'acquisto?
Ma veniamo alla vera posta in gioco, che è il fine politico di queste e altre rattoppate analisi che circolano tra economisti, uomini di Confindustria, politici di varia collocazione: l'abolizione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Ho un ricordo personale in proposito. Ho incominciato a sentir parlare di questa istituzione contrattuale, e a comprenderne il profondo significato sociale, sin da quando ero ragazzo, in Calabria. Era la seconda metà degli anni '60 e partecipavo alle lotte degli edili per l'abolizione delle “gabbie salariali”: quella divisione dei contratti di lavoro tra varie aree del paese - frutto del “realismo” della CGIL e del fronte sindacale del dopoguerra - che assegnava agli operai meridionali salari inferiori rispetto ai loro compagni del Nord.
La lezione fondamentale che appresi allora fu che i contratti collettivi nazionali costituivano una sorgente fondamentale di solidarietà di classe. I risultati salariali e normativi strappati dalla classe operaia dove essa è più forte e meglio organizzata, vengono goduti anche dai settori più deboli e marginali, che in genere si trovano in tante aree del Sud, ma anche in varie periferie del Paese. Ma quei contratti, che servivano e servono a fornire parità di salario a tutte le diverse categorie di lavoratori, svolgono una funzione rilevantissima di coesione sociale, sono necessari a non lasciare indietro sul piano del reddito e delle condizioni di lavoro migliaia di italiani che svolgono lo stesso lavoro, ma operano in aziende più marginali, vivono in aree più disagiate. Hanno il compito di non lacerare oltre il dovuto un Paese che ha disuguaglianze territoriali marcate e di antica data. Se tante aree del nostro Mezzogiorno non sono precipitate nella miseria lo si deve anche a questi istituti di solidarietà collettiva e di valore costituzionale.
Ora, com'è noto, il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si è presentato al suo pubblico come un deciso oppositore dei contratti collettivi nazionali. Sappiamo che all'interno del governo Renzi cova da tempo il disegno di sostituirli con contratti decentrati, che prevedono un salario minimo, e affidano il resto alla libera contrattazione fra lavoratori e padronato dentro le aziende. Constatiamo che ora economisti e dirigenti pubblici (Boeri) accorrono in sostegno del padronato (e del governo che ha deciso di rappresentarne gli interessi), mettendo a servizio di tale buona causa il loro prestigio accademico e il loro potere istituzionale.
Ebbene, noi crediamo che l'abolizione dei contratti collettivi nazionali costituisce, insieme al Jobs Act, non solo un attacco grave a quel che resta dell'unità dei lavoratori. Non solo verrebbe a lacerare gravemente il tessuto pubblico delle relazioni industriali, lasciando i singoli operai nelle mani dell'imprenditore privato, in grado di controllare una parte decisiva del salario e potendoli così ricattare con incontrastato arbitrio. Ma la dinamica dei salari affidata alla contrattazione separata inserirebbe un nuovo cuneo di divaricazione sociale tra il Nord e il Sud del Paese. Un Sud sempre più immiserito per la fragilità del suo tessuto industriale, che vedrebbe allargarsi lo spazio di cui oggi gode la criminalità organizzata per praticare il suo welfare fra gli strati emarginati.
E' bene dunque che sappiano, questi entusiasti novatori che vogliono “favorire la competività delle imprese”, che allorquando le loro proposte si affacceranno in Parlamento apriremo una campagna di denuncia politica senza quartiere. Non credano di potere vincere piegando un sindacato indebolito e con poche idee. Avranno da combattere contro un fronte ben più ampio, perché renderemo evidente che la loro proposta è una minaccia contro l'unità sociale del Paese, è un danno per la Repubblica, è un attacco alle popolazioni del Mezzogiorno. Una prateria per la sinistra se vuol cominciare a mettere radici in questa parte sempre più lacerata e immiserita d'Italia.
«Ultimi degli ultimi gli schiavi dei campi dimenticati da tutti. Restano ostaggio dei “boss dei giardini” per meno di un euro a cassetta. L’Italia deve aiutare chi viene dal mare: e loro non interessano più».
La Repubblica, 9 giugno 2016
Più schiavi di quando c’erano i caporali bianchi, i ruffiani dei padroncini degli aranceti che erano tutti del posto, contemporanea versione del campiere. Più schiavi di quando si erano ribellati sei anni fa ai boss dei giardini. Più schiavi di quando li avevano ammassati lì dentro perché la vecchia fabbrica abbandonata era diventata una porcilaia immonda. Era un oleificio finanziato nel 1981 con soldi pubblici e dove non hanno mai spremuto un solo litro di olio, luogo ideale anche per il macero di umanità, per infliggere pene indicibili, per rinchiudere ai confini del mondo i più dimenticati.
Tende nel fango, tanfo, veleni, faide e vendette per un pezzo di capra squartata e contesa. Schiavi fra gennaio e i primi di marzo, quando la pianura stordisce con il profumo di zagara e loro si spaccano la schiena per meno di un euro a cassetta. Schiavi quando non ci sono più arance e mandarini, ma solo terra arsa e non c’è più neanche quell’euro. Schiavi come non lo erano stati mai nemmeno a casa loro. In Senegal, in Ghana, nel Mali, in Niger, in Burkina Faso.
Schiavi e fantasmi. Perché se non ci arrivi a San Ferdinando, se non ti spingi fino al campo avvolto dai fumi, non li vedi mai questi neri che popolano la Calabria nel Nord della provincia di Reggio che è poi Calabria del Sud, l’autostrada che corre da una parte verso le gallerie che bucano le pendici dell’Aspromonte e il mare dall’altra con in fondo Villa e i suoi traghetti che vanno e vengono dalla Sicilia. Solo ogni tanto vagano nelle campagne, a gruppi di due o a gruppi di tre, a piedi sempre, qualche volta su arrugginite e pesanti biciclette, tutti allucinati nel vuoto delle loro vite. Si erano illusi nel 2010 quando avevano tentato la rivolta contro i “proprietari” che succhiavano il sangue al popolo nero, barricate, speranze, poi la caccia «ai figli di puttana con la pelle scura », le fucilate «a quelli che devono tornarsene nella giungla », l’odio, l’odio generato dalla paura di tutto e di niente.
Molti di loro non sono neanche più nomadi. Solo i più fortunati si spostano, quelli che hanno un aggancio in Puglia per le olive, quegli altri che hanno amici negli orti della Campania. Ma i fantasmi restano sempre qui, nell’accampamento prigione, nel bivacco “temporaneo” che è oramai per sempre la loro casa, di plastica o di corda, di cartone, o con il cellophane che quando tira vento si gonfia come una vela.
Qualcuno si fa vedere sulla Gioia Tauro Road. Così la chiamano loro, la vecchia statale numero 18 che una volta era la sola strada a scendere da Napoli fino a Reggio Calabria. Ma solo i più intrepidi si avventurano lungo su quel percorso dove all’orizzonte si stagliano le gigantesche gru del porto e i mezzi meccanici che sembrano “pupi”, sempre in movimento, tirati da fili invisibili.
È vero che ci sono più controlli nei campi, che i “mediatori” calabresi non si espongono più e al loro posto hanno ingaggiato gente dell’Est e pure qualche nero, fratelli contro fratelli. Ma sanzioni amministrative e qualche centinaia di euro di multe, non fermano i padroni dei giardini che con il popolo nero raccattano milioni di euro a stagione. È vero che promettono da anni di risanare la tendopoli di San Ferdinando, di abbatterla e di ricostruirla «più bella». Ma la tendopoli è sempre lì, in tutta la sua oscenità e in tutta la sua immoralità.
L’Italia ha le sue emergenze nel fronte Sud, la costa africana della Sicilia, l’isola di Lampedusa, gli sbarchi, i naufragi, le tragedie con tutti quei cadaveri in fondo al Mediterraneo. L’Italia deve soccorrere gli ultimi che vengono dal mare. Gli ultimi che hanno toccato terra non interessano più. Se sono vivi o se sono morti-vivi, non importa. Tanto nessuno se ne accorge. Nessuno li conosce. Nessuno sa che esistono. Nemmeno a Rosarno, a Gioia Tauro, a Taurianova, nemmeno a San Ferdinando che è lì a un passo.
«Un’ulteriore espansione del privato rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, non di migliorarla. Occorre invece rafforzare la sanità pubblica, certo rendendola più efficiente ed eliminando sprechi e storture» .
La Repubblica 9 giugno 2016 (c.m.c.)
GLI ITALIANI sono stati considerati a lungo consumatori compulsivi di medicine ed esami medici. Ora il quadro sembra rovesciato. Stretti tra lunghe liste d’attesa e crescente riluttanza dei medici di base a prescrivere esami clinici per timore di essere sanzionati, sempre più italiani rinunciano a farsi curare e a mettere in atto misure di prevenzione.
Un rapporto Istat di settembre 2015, “Le dimensioni della salute in Italia”, segnalava che il nove per cento della popolazione aveva rinunciato nell’anno precedente ad almeno una prestazione sanitaria tra visite specialistiche, accertamenti o interventi chirurgici, pur ritenendo di averne bisogno. Il fenomeno riguardava, ovviamente, i meno abbienti e più al Sud e Isole (in particolare la Sardegna), dove vi è una maggiore concentrazione di povertà e una minore efficienza media del servizio sanitario pubblico.
Il servizio sanitario nazionale, uno dei pochi fiori all’occhiello del sistema di welfare italiano, non riesce più a garantire un fondamentale diritto di cittadinanza: se non alla salute, almeno alle cure quando si è malati. L’indagine Censis-Rbm Assicurazione Salute conferma questi dati. La via d’uscita, tuttavia, non può essere il ricorso alle assicurazioni private, implicitamente suggerito dai curatori di questa indagine e ritenuto una possibile opzione, purché ce lo si possa permettere, anche da oltre la metà degli intervistati.
Si tratta di una opinione che sta ottenendo una diffusa popolarità e che sta alla base anche di progetti, insieme di ricerca e di policy, che vanno sotto il nome di “secondo welfare”. L’idea è che la diffusione delle assicurazioni sanitarie non solo renderebbe accessibile la sanità privata anche a chi, pur con un reddito non basso, non se ne potrebbe permettere i costi di mercato. Alleggerirebbe anche la pressione sulla sanità pubblica, riducendo quindi le liste d’attesa a favore di chi non può permettersi di rivolgersi al privato e neppure di pagare una assicurazione.
Un ragionamento accattivante, che lascia tuttavia nell’ombra due importanti questioni. In primo luogo, le assicurazioni private fanno un’opera importante di selezione sia di ciò che coprono sia dei clienti. Per avere un buon livello di copertura bisogna o pagare premi alti, o appartenere ad aziende o associazioni che hanno convenzioni con aziende sanitare di mercato. La seconda selezione riguarda clienti potenzialmente rischiosi: oltre una certa età non è possibile assicurarsi, oppure si è depennati o retrocessi (con copertura inferiore) dall’assicurazione in essere. Lo stesso avviene se si è avuta una malattia grave e che presenta potenziali rischi per il presente e il futuro.
Chi ha di fatto o potenzialmente più bisogno di cure sanitarie adeguate e tempestive è quindi più probabile non possa assicurarsi, anche se ne avesse i mezzi economici. Chi paga una assicurazione sanitaria integrativa, specie se a copertura (quindi a premio assicurativo) elevato, inoltre, alla lunga può chiedersi perché mai dovrebbe finanziare, tramite le tasse, anche la sanità pubblica che non usa.
Già ora si possono dedurre il premio assicurativo e le spese sanitarie dall’imposta sui redditi, riducendo quindi il gettito fiscale. Ma se le persone abbienti fossero spinte ad assicurarsi in massa, potrebbero chiedere sconti ben più sostanziosi, riducendo quindi la disponibilità per il finanziamento della sanità pubblica, lasciata ai ceti economicamente più modesti e con minore potere di pressione rispetto a qualità e adeguatezza.
Con l’istituto dell’attività intra (ed extra)moenia da parte dei medici ospedalieri molto mercato è già entrato nella sanità pubblica, dove chi può riesce ad ottenere sia la garanzia della qualità — professionale e delle attrezzature — del pubblico e il trattamento (in termini di tempi di attesa e di comfort) del privato. Un’ulteriore espansione del privato via assicurazioni rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, non di migliorarla.
Occorre invece rafforzare la sanità pubblica, certo rendendola più efficiente ed eliminando sprechi e storture, ma avendo come fine non il contenimento della spesa, bensì il diritto alla salute dei cittadini, a partire da quelli che hanno meno alternative.
Bisognerebbe anche riconsiderare l’utilità di quella che un tempo si chiamava medicina scolastica, con funzione diagnostica e preventiva specie rispetto a dimensioni della salute che chi è più povero tende a ignorare o a prendere in considerazione troppo tardi: lo stato della vista, della dentatura, della postura. Ovviamente, nel caso, occorrerà anche prevedere la fornitura degli interventi (occhiali, apparecchi per i denti, ginnastica curativa, ecc.) diagnosticati come necessari.
Un intervento a proposito della questione sollevata dall'appello "Esiste una questione maschile", lista di discussione
Officina dei saperi, 8 giugno 2016
Care amiche e cari amici,
quando ho scritto che l'Officina non può far molto per arrestare il dilagare delle violenza assassina contro le donne, intendevo dire che non ha la forza per intervenire con efficacia operativa su questa pratica ormai endemica. Rispondendo così in parte ai toni legittimamente disperati di Annamaria Riviello e di altre amiche, stanche di discorsi, amareggiate e deluse di fronte all'inerzia e all'impotenza delle istituzioni. Ma non mi riferivo certo al piano delle idee e delle proposte. Il dibattito sulla mailing list, del resto, già lo dimostra, e l'efficace appello di Enzo Scandurra è un ottimo esito di tale discussione. A riprova che l'Officina non fa accademia ma sa affrontare anche temi politici, della “politica alta”, per dirla con Papa Francesco.
Io riprenderei alcuni temi presenti nelle vostre mail (Villani, Rufino, Scandurra) per svolgere un paio di considerazioni che sono più coerenti coi temi dell'Officina. Naturalmente il tema della violenza maschile potrebbe essere affrontato sotto molte profili. Io credo che quello della costruzione della soggettività maschile sia un nodo fondamentale. Lo dico per convinzione ovvia, ma anche perché, alla fine delle mie considerazioni, intendo fare una proposta. Qui, parlo da maschio, meridionale, nato sul finire della guerra mondiale, che ha sperimentato personalmente, all'interno della propria famiglia, la naturalità del fatto che sua madre e le sue sorelle dovessero cucinare, fare il bucato, rifare il letto, stirare, pulire i piatti, ecc. Altrettanto naturale era il fatto che gli uomini dovessero astenersi da simili compiti,” da femminucce”. Solo abbastanza tardi mi sono accorto di quanta incomprensibile ingiustizia ci fosse in tale normalità: in questa accettazione universale di una servitù, di un asservimento della persona umana della donna, vissuto come un fato indiscutibile, come il colore dei nostri occhi, il cadere della pioggia, il soffiare del vento.
C'è nella subalternità della donna che ancora domina il nostro tempo un che di clamoroso, un sopruso gigantesco che ci si para davanti come una montagna: una montagna che noi non riusciamo a scorgere . E naturalmente sorprende la sua perduranza, dopo tante lotte e dibattiti e libri. Non mi sto allontanando, badate, dal cuore del nostro problema. A spingere un uomo a uccidere la propria compagna concorrono molti elementi. Ma al fondo c'è sempre un dato antropologico comune: la subalternità della figura femminile, la sua pretesa appartenenza strutturale ai maschi. Oggi tanto più forte quanto più il corpo della donna fa ormai parte del paniere delle merci nelle società opulente. Si compra e si vende. Ma il fatto è che noi abbiamo a che fare con un rapporto sociale che si è naturalizzato, è diventato perciò invisibile, si è trasformato in mentalità. E «la mentalità - diceva Fernand Braudel - è la più tenace delle strutture».
Io credo, però, che tale permanenza della servitù della donna nella modernità, l'unica rimasta ancora in piedi in Occidente - anche se oggi rinasce in nuove forme nelle nostre campagne - non sia un esito inerziale, un retaggio del passato. La subalternità della donna è una componente fondamentale del capitalismo attuale e del suo meccanismo di accumulazione. Questo modo di produzione, che ha rivoluzionato i rapporti sociali dell'antico regime, non si è mai sognato di liberare la donna, di renderla autonoma, e ha ereditato in pieno e rifunzionalizzato quella forma di servaggio personale. Non solo, come sappiamo, portando le donne in fabbrica (insieme ai bambini, nel XIX secolo) ma - per quel che ci interessa qui - soprattutto confermando il suo ruolo di “assistente” del maschio.
Ormai nessuno ci fa più caso, ma il sistema capitalistico utilizza una massa gigantesca di lavoro non pagato che si svolge dentro le mura domestiche. Pensiamo alle migliaia di famiglie operaie (e non solo operaie) del nostro come di tanti altri paesi. Le donne che cucinano, lavano, stirano, ecc. non solo svolgono il ruolo di riproduttrici del proletariato, ma sostengono l'attività non pagata di preparazione della forza lavoro. L'operaio o l'impiegato arrivano ogni mattina sul posto di lavoro pronti a valorizzare il capitale (industriale o finanziario) senza che l'imprenditore abbia cacciato nel frattempo una lira di tasca propria. Ha pronta la manodopera da sfruttare, in tuta o in giacca e cravatta, grazie al lavoro non pagato delle donne di famiglia, costrette talora a svolgerlo nelle pieghe delle prestazioni salariate che svolgono fuori casa.
E' anche questa è una montagna invisibile di paradossale ingiustizia. Resa ancora più paradossale dal fatto che il femminismo non è ancora riuscito a vedere in questo servaggio nascosto del capitale, un terreno eversore di lotta non solo femminista, ma universalmente anticapitalistica. C' è da liberare le donne dai maschi, ma anche gli uomini dal dominio degli altri uomini.
Infine la proposta. Avrei voglia di suggerire l'istituzione di un pronto soccorso in ogni comune, che intervenga con tempestività su chiamata. Ma lascio la cosa a chi è più competente di me su questi problemi. La proposta di fondo, che voglio fare è invece di lungo periodo e di carattere culturale. Ha di mira il fine di rendere visibile la montagna. E occorre farla scorgere ai ragazzi fin da quando formano la loro mentalità. Penso - è una idea da arricchire e completare da chi ha più competenza in materia – che sarebbe il caso di inserire nei programmi scolastici, probabilmente nelle medie, almeno un'ora alla settimana, obbligatoria, dedicata alla servitù di genere. I programmi da impartire andrebbero studiati bene, anche se non mancano certo i materiali storici, sociologici, i testi, gli argomenti.
Sarebbe, io credo, una leva importante per costruire una nuova soggettività, fondata sul rispetto per le donne, di scoperta della loro naturale parità. Ma io credo che, in mano a bravi insegnanti, (che potrebbero essere anche figure esterne agli insegnanti di ruolo) l'insegnamento sarebbe assai utile per formare una coscienza che non solo non accetta la subordinazione femminile, ma che si accorge della montagna: vede l'ineguaglianza fra le persone, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, come una condizione innaturale, inaccettabile, a cui ribellarsi.
Riferimenti
Altraeconomia, 6 giugno 2016 (p.d.)
La “riforma” costituzionale voluta dal Governo non rappresenta soltanto un “attacco al cuore delle istituzioni”, ma la garanzia di un sostanziale immobilismo parlamentare e legislativo. A sostenerlo, dopo aver letto con attenzione i 41 articoli del testo definitivo pubblicato in Gazzetta ufficiale, è il professor Vittorio Angiolini, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano. Con altri 55 colleghi, ha sottoscritto a metà aprile un documentato appello a sostegno delle ragioni del “No” in vista del referendum di ottobre, meritandosi l’etichetta di “archeologo travestito da costituzionalista” dal presidente del Consiglio.
Professor Angiolini, quali sono i pregi e i difetti della riforma?
Abolire il bicameralismo paritario indifferenziato -e cioè due Camere che devono entrambe deliberare la legge nello stesso testo, che devono entrambe dare la fiducia al Governo e che sono entrambe composte pressoché nello stesso modo- è un’idea corretta, in astratto. Il problema è che nella riforma il Senato è stato cambiato sia nella composizione sia nelle funzioni. E il guaio è che in entrambi i casi si è voluto costruire un meccanismo che produce effetti opposti a quelli dichiarati, traendo contraddittoriamente ispirazione da modelli opposti tra loro: quello del Senato degli Stati Uniti, composto di senatori direttamente eletti dal popolo per ogni Stato -e dotato di funzioni di controllo sul potere esecutivo molto potenti-, e quello tedesco, dove i Laender, gli Stati federati della Germania più simili alle nostre Regioni, eleggono un certo numero di rappresentanti dentro il Bundesrat, il consiglio federale. Il nuovo articolo 57 della Costituzione prevede infatti che i senatori vengano eletti dai Consigli regionali ma in "conformità" alla volontà del popolo. Siccome è impossibile fare una legge che metta d'accordo il popolo e i consiglieri regionali, perché tutto ha un limite anche nella magia di questo Governo, si dovrà operare una scelta attraverso una legge di approvazione delle due Camere che sacrificherà una delle due volontà, contrastanti tra loro nello stesso articolo, e che sarà incostituzionale per definizione. La cosa curiosa di questa "riforma" è che nasce da un governo che ha molto fastidio per il componimento delle controversie in sede giudiziaria, e che però ha scritto una riforma il cui principale vizio sta proprio nel fatto che rimette tutto ai giudici.
Dunque sarà impossibile comporre il nuovo Senato?
Sarà difficile, quanto meno in modo legittimo. La qual cosa 'non ha un gran peso', si dice, perché in fondo alla riforma c'è una norma transitoria secondo la quale fino a che non si fa la legge per l'elezione dei senatori, li eleggeranno i consigli regionali su liste bloccate. Ripeto, su liste bloccate. C'è il rischio dunque che la legge non si faccia mai e che la composizione del Senato venga regolata dalla norma transitoria da qui all'eternità. Che è un classico in Italia.
Poniamo che si passi questo piccolo ostacolo. Lei rileva un vizio anche in tema delle “nuove” competenze delle Camere.
Nel testo della riforma, il Senato perde la funzione di dare la fiducia al Governo ma mantiene funzioni legislative. E si differenziano i procedimenti. I fautori del Sì ne hanno contati due. In realtà non è così. Abbiamo un florilegio di procedimenti differenziati. Cito un esempio: la legge con cui lo Stato interviene nelle competenze regionali, secondo il nuovo articolo 117 della Costituzione, per quella che è definita come "l'unità giuridica ed economica" -che non si sa cosa sia ma questo poi lo stabiliranno i giudici, ancora una volta-, non solo dovrà essere approvata da entrambe le Camere ma c'è una previsione inedita. Questo tipo di legge potrà essere proposto soltanto dal Governo. Bene, avremo un Parlamento che delibererà leggi per cui l’iniziativa è preclusa ai membri del Parlamento stesso. Dopodiché, ai sensi del "nuovo" articolo 70, Camera e Senato dovrebbero legiferare insieme tutte le volte che si parla di "attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea". Chiunque sa che è molto difficile che vi sia una materia regolata dalla legge nazionale che non sia toccata da una direttiva comunitaria. E poi ancora le due Camere voteranno insieme in merito a “organi di governo, funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni". La questione non è tanto se tutto rimanga come prima, quanto il fatto che tutto diventi più complicato di prima, visto che la competenza generale di legislazione dovrebbe essere solo della Camera. Ma questa differenziazione di materie, passibili di mille interpretazioni sull'intervento del Senato, possono dare luogo ad incostituzionalità per vizio di procedura.
In che senso?
Se la Camera dei Deputati delibera da sola in una materia per cui sarebbe prevista la partecipazione del Senato, la legge è incostituzionale. Se il Senato interviene in una materia in cui in realtà spetta la competenza solo alla Camera dei Deputati, la legge è incostituzionale. È il festival delle controversie procedurali di fronte alla Corte costituzionale.
Che cosa muta a proposito dell’elezione del presidente della Repubblica?
La modifica dell'articolo 83 della Costituzione contiene quello che secondo me è un errore secco, nel senso che proprio non se ne sono accorti. Nelle situazioni di crisi, penso all'ultima rielezione di Napolitano, cioè dal settimo scrutinio, si potrà eleggere il presidente della Repubblica con i 3/5 dei votanti. Il che vuol dire, anche adottando l'interpretazione più rigorosa secondo la quale la votazione è valida solo se è presente la maggioranza degli aventi diritto, che la maggioranza che può eleggere il presidente della Repubblica è più ristretta della maggioranza che occorre per dare la fiducia al Governo. È chiaro che cosa significa? Che un Governo in crisi, privo di una maggioranza chiara sul piano dell'assemblea, può eleggere il "suo" presidente della Repubblica, magari anche a seguito di dimissioni volontarie di quello che lo precede. Tecnicamente, il presidente della Repubblica diventerà un'appendice del Governo, un unicum in tutta l'Europa occidentale.
Al vostro appello dei 56 è stato contrapposto quello dei 184 a sostegno del Sì, in parte anche non appartenenti al mondo accademico del diritto. Che cosa ne pensa?
La questione non è tanto se i 184 sottoscrittori del Sì siano o non siano costituzionalisti. Ciascuno ha diritto di esprimersi. La cosa straordinaria è che questo documento è stato anticipato una settimana prima da una dichiarazione del presidente del Consiglio al Corriere della Sera in cui si diceva "Loro sono 56 noi ne troveremo più di 100 e ho già incaricato il ministro Boschi di trovare la lista". Io credo che questo fatto, in un Paese normale fatto di persone di buon senso, debba far riflettere.
Qual è la sua opinione sul combinato disposto riforma costituzionale e nuova legge elettorale (l’Italicum) fortemente maggioritaria?
Sono tra quelli che hanno sempre pensato che le leggi elettorali non fossero decisive per le sorti della Costituzione. Non mi sono mai stracciato le vesti, essendo comunque un proporzionalista. Qui però la combinazione è forte. Come funziona l'Italicum? Si vota su lista, con preferenze quasi bloccate. Se al primo turno qualcuno raggiunge il 40% prende il 55% dell'assemblea della Camera dei Deputati. Una legge così è fatta perché nessuno raggiunga il 40%, disincentivando le aggregazioni. La lista che vince al ballottaggio prende lo stesso premio di maggioranza. In un sistema frammentato come il nostro è immaginabile che con il 15% al primo turno si possa arrivare a conquistare il 55% dell'unica Camera realmente elettiva del Parlamento italiano. È inaccettabile, anche perché i viola i limiti posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 sul cosiddetto "Porcellum". La riforma costituzionale, che comunque non andrebbe bene anche se questa legge elettorale non vi fosse, con questo testo di appendice peggiora ulteriormente le cose.
Il presidente del Consiglio ha criticato il fronte del “No” sostenendo che nella riforma è rafforzata la partecipazione popolare. È d’accordo?
L’unico elemento di novità è una norma inserita nell'articolo 71 che promette, in una futura legge, di prevedere referendum diversi da quello abrogativo -come i propositivi e di indirizzo-, "al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche". Attenzione, la legge sarà costituzionale, cioè si dovrà rifare un altro procedimento uguale a quello che si è fatto per questa “riforma”. Si tratta di una tecnica vecchissima: già Governi degli anni 70, si facevano le leggi non per dire che si faceva una cosa ma per dire che si sarebbe fatta una legge che avrebbe consentito di fare quella cosa. Dopodiché viene effettivamente modificato il referendum abrogativo in un modo che è curioso, perché sarebbe abbassato il quorum che oggi è necessario per la validità del referendum purché si raccolgano 800mila firme. Mi pare un rimedio peggiore del male. Tutte le Costituzioni più serie sul referendum stabiliscono non una quota fissa di elettori che possono chiedere il referendum ma una quota percentuale del numero degli elettori iscritti alle liste elettorali. Sono molto perplesso anche sull'abolizione del quorum, perché è vero che il quorum si è prestato a giochetti ("Non andate a votare...") ma è vero anche che il quorum stabilisce un minimo di controllo dei votanti sul quesito referendario. Su questo la Consulta ha stabilito che nel caso di un referendum debbano esserci due alternative chiare proposte all'elettore e che siano chiaramente contrapposte ed egualmente credibili. Altrimenti è un finto referendum. In un Paese serio, il non voto che impedisce il raggiungimento del quorum può avere un significato importante proprio quando si tratta di contestare il quesito.
A ottobre, però, il quorum non sarà richiesto.
In questo referendum costituzionale non c'è il quorum ma il problema della omogeneità delle scelte c’è tutto. Perché qui si vota sulla composizione del Senato, le sue funzioni, i poteri e la posizione del Governo, il presidente della Repubblica, i poteri delle Regioni. Ciascuno potrebbe avere su ognuna di queste cose delle opinioni legittimamente diverse. Ma di fatto il referendum si trasforma in un prendere o lasciare. E mi permetto di dire che questo è l'aspetto più grave. Il comportamento che sta tenendo il Governo Renzi in un referendum costituzionale -“O con noi o ce ne andremo”- non si era mai visto. Non si era visto nemmeno ai tempi della votazione della legge costituzionale votata dal centrodestra. Un costituzionalista francese di qualche tempo fa, di fronte al Governo francese che fece precisamente la stessa cosa -stendendo un progetto di Costituzione per poi dire al Paese che se non fosse stato approvato non ci sarebbe più stata la Costituzione-, disse che l'unica ragione del referendum era il “cesarismo”. La scelta delle alternative da sottoporre al voto è un problema serissimo perché se non si fa bene cade la democraticità del voto. Qui il Governo forza questa scelta, mostrando autentico disprezzo per le decisioni democratiche.
Al di là della proposta del Governo, lei ritiene che la Costituzione debba essere modernizzata?
Voglio dire un'eresia: andrebbe cambiata molta della prima parte della Costituzione. Abbiamo tutte le norme sulla libertà che non sono adeguate all'uso delle nuove tecnologie, al fatto che la tecnologia oggi incide sulla vita, sulla morte e sulle vicende della persona. Abbiamo una norma sulla libertà di espressione e manifestazione del pensiero che non parla dei mezzi di comunicazione di massa. Non abbiamo nessuna norma esplicita che parli di ambiente, e perciò ci si deve attaccare a interpretazioni differenti. Perché parlo di un'eresia e io stesso mi guarderei bene dal proporre una cosa del genere? Perché il vero problema dell'Italia è l'inaffidabilità della politica. E questo purtroppo è un problema che nessuna Costituzione ci potrà mai risolvere. Ce lo dobbiamo risolvere da soli, in qualità di cittadini.
I diritti umani non esistono per chi fugge dai paesi dissestati dalle guerre, dalle catastrofi ambientale e dai saccheggi dei colonialisti. L'Europa sceglierà tra i fuggiaschi quelli che valgono di più per i nostri (sporchi) interessi e farà sì che gli altri siano rinchiusi nei campi di concentramento.
Il manifesto, 8 giugno 2016
OGGI IL MIGRATION COMPACT
di Leo Loncari
«Migranti. Mogherini all’Onu: "Una risoluzione per ampliare la missione europea in Libia"»
Una nuova risoluzione che permetta di allargare i compiti della missione europea Sophia in acque territoriali libiche, E’ quanto ha chiesto ieri il capo della diplomazia Ue Federica Mogherini al consiglio di sicurezza dell’Onu. Si tratta di un passaggio che segna un ulteriore salto di qualità nei compiti della missione e che prevede sia l’addestramento della guardia costiera libica, per la quale sono già pronte otto motovedette italiane, che un controllo sul rispetto dell’embargo di armi destinate alle milizie. «La scorsa primavera il Consiglio è stato unanime nel dare il via all’operazione navale che ha consentito di salvare decine di migliaia di vite umane, sequestrare centinaia di asset e portare i trafficanti davanti alla giustizia», ha spiegato ieri Mogherini intervenendo a New York.
Un altro passo della strategia europea per arginare il flusso di migranti sci sarà oggi a Strasburgo, dove Mogherini presenterà insieme al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans il migration compact per l’Africa: 62 miliardi di euro di investimenti privati nel medio e lungo termine, per «pacchetti su misura» soprattutto per i Paesi africani, con l’obiettivo di combattere le cause alla radice dei flussi migratori e negoziare accordi per i rimpatri. Sette i paesi con cui verranno avviati i primi progetti: Etiopia, Eritrea, Niger, Nigeria, Mali, Libano e Giordania. Il lavoro è già stato avviato con tutte le capitali, in particolare con Niamey ed Addis Abeba. Nell’immediato si punta ad utilizzare 1,8 miliardi del Fondo per l’Africa, ai quali la Commissione europea aggiungerà 500 milioni dal budget Ue, con la prospettiva che gli Stati membri ne diano almeno altrettanti, ma possibilmente raddoppino l’intera cifra. Nel contenitore confluiranno anche fondi per i profughi e la cooperazione già esistenti.
La proposta legislativa vera e propria sul piano globale di investimenti arriverà comunque ad ottobre. Il controllo dei flussi migratori sarà il punto centrale attorno al quale ruoteranno le intese con i Paesi terzi, e potrà essere anche una delle ragioni per negare benefici commerciali o privilegi sui visti.
Ieri intanto l’Unione europea ha rispedito al mittente la proposta avanzata domenica dal ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz di concentrare e trattenere i migranti su alcune isole dalle quali non potrebbero muoversi. «Come fecero gli Stati uniti a Ellis Island o come fa oggi l’Australia», ha spiegato in un’intervista l’esponente del partito popolare. Esempi, specie quest’ultimo, che non sono piaciuti a Bruxelles. «Abbiamo una chiara posizione sul modello australiano: non è un esempio da seguire per l’Ue», ha spiegato un portavoce della Commissione europea.
In contrasto a quanto previsto dal diritto internazionale, il governo di Canberra confina i profughi in campi allestiti su due isole del Pacifico dai quali per loro è impossibile allontanarsi e dove, stando a molte denunce, sono vittime di violenze di ogni genere. «La politica (europea, ndr) sull’asilo e i profughi è pienamente in linea con le leggi e convenzioni internazionali e con il principio di non respingimento e questo non cambierà», ha concluso il portavoce.
Vienna comunque non sembra avere nessuna intenzione di abbandonare politiche e iniziative contro i migranti. Dopo aver completato i lavori preparatori all’innalzamento di una barriera al Brennero, dove ha schierato anche 80 poliziotti, ieri ha annunciato di voler avviare la costruzione di barriere analoghe anche ad altri valichi con l’Italia e la Slovenia. Si tratterebbe, proprio come ha fatto al Brennero, di recinzioni preventive, da innalzare solo in caso di nuovi arrivi di migranti, ha spiegato il portavoce della polizia, Rainer Dionisio.
I valichi in questione sono quello di Thoerl-Maglern, al confine austro-italiano dove potrebbe essere aggiunta una recinzione. E quello nei pressi del traforo Caravanche, che collega la Slovenia con l’Austria.
FERMARE I MIGRANTI,
L’UE È PRONTA A PAGARE
di Anna Maria Merlo
«Bruxelles. Il piano europeo prevede soldi e investimenti per i paesi che bloccano i flussi. Servono 62 miliardi. Il primo accordo sarà con la Libia, poi con Tunisia, Libano e Giordania»
Ci sono stati più di 10mila morti nel Mediterraneo dal 2014, secondo dati Onu. La tragedia dei rifugiati, che scappano dalle guerre o per ragioni economiche, è un avvenimento epocale, non un fatto transitorio. La Commissione europea, messa di fronte al dramma che non può avere risposte nazionali ma che genera paura negli stati membri, cerca una soluzione. L’ultima proposta è stata illustrata ieri di fronte all’Europarlamento. Si tratta di un «nuovo quadro di partnership» da proporre agli stati di origine dei migranti, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, «cominciando da un primo gruppo», ha precisato, per arrivare a concludere dei «patti adattati alla situazione di ogni paese». Il «punto di partenza», per Timmermans, è il Migration Compact presentato dall’Italia e che sarà sul tavolo del Consiglio europeo di fine giugno. Bruxelles spera di poter dotare questo «patto» di 62 miliardi di euro: ma questa cifra sarebbe la risultante di un «effetto leva», a partire da un molto più modesto finanziamento di 3,1 miliardi provenienti dai fondi comunitari, a cui dovrebbe affiancarsi una cifra analoga versata dai paesi membri. L’obiettivo del moltiplicatore dell’effetto leva è «incentivare gli investimenti privati».
La Ue avanza con i piedi di piombo su un terreno sconosciuto. Per la prima volta in un documento comunitario viene stabilito un chiaro legame tra migrazione e cooperazione, con il ricorso anche a «incentivi negativi»: la Commissione propone di limitare gli aiuti e i vantaggi economici ai paesi che non contengono i flussi di migrazione. Un do ut des, che però solleva molte perplessità tra i giuristi, che si chiedono se sia legale stabilire degli accordi che pongono come clausola il freno alla migrazione. La Ue vuole «dare un maggiore appoggio ai paesi che fanno maggiori sforzi» nel limitare le partenze e nel riprendersi i propri cittadini emigrati illegalmente, anche facendo ricorso agli incentivi negativi. Ormai, tutti gli accordi che verranno firmati dalla Ue con dei paesi terzi prenderanno in considerazione la questione delle migrazioni, legata a tutti gli aspetti economici, come energia, investimenti o cambiamento climatico. Finora, gli accordi includevano riferimenti al rispetto dei diritti umani, dei diritti del lavoro o allo sviluppo sostenibile.
Per la Ue il problema più urgente del momento è la Libia. «Decine di migliaia di persone cercano il modo per entrare nella Ue» dice l’Onu. Mrs. Pesc, Federica Mogherini, ha chiesto lunedì all’Onu di autorizzare l’operazione europea Sophia a fare dei controlli sulle imbarcazioni al largo della Libia, per verificare che venga rispettato l’embargo sulle armi. Ieri, Mogherini ha spiegato che la Ue cerca un «nuovo approccio», che va dal salvataggio in mare dei profughi, alla lotta ai passeurs, al sostegno ai paesi che accolgono rifugiati, fino alla conclusione di «patti» favorevoli alla crescita dei paesi partner. La Ue cerca la strada per un approccio «più coordinato, più sistematico, più strutturato» per far fronte alla sfida. L’accordo concluso con la Turchia, criticato da più parti e sempre sottoposto al ricatto di Erdogan, viene comunque considerato positivo a Bruxelles, perché per il momento sembra aver messo sotto controllo gli sbarchi in Grecia, obiettivo principe degli europei. «Patti» precisi, per la Commisisone, dovranno essere conclusi, dopo la Libia, con Tunisia, Libano e Gordania. Poi seguono Niger, Nigeria, Mali, Senegal, Etiopia. «Vogliamo convincere i paesi d’origine che i problemi di immigrazione e di sviluppo sono legati, da loro e da noi», spiega Timmermans.
Il «patto» proposto dalla Commissione contiene anche l’apertura di «vie legali» all’immigrazione in Europa. Finora, avevamo «il sistema di Blue Card», spiega Timmermans in un’intervista a
Le Monde, «utilizzato soprattutto dalla Germania per persone molto qualificate. Dobbiamo estenderlo ad altri stati», accanto a una conferma e ridefinizione del «sistema di reinstallazione di rifugiati in Europa», che non sta funzionando per nulla. Bisognerà aspettare l’autunno per avere maggiori dettagli su questo punto, su cui la proposta della Commissione sorvola soltanto, viste le forti reticenze dei paesi membri. La questione dei finanziamenti resta una piaga aperta: nel novembre 2015 è stato varato un Fondo per l’Africa, che avrebbe dovuto essere dotato di 1,8 miliardi, ma finora ne sono stati stanziati solo 80 milioni.
L’UE: «SERVONO 83 MILIONI
DI LAVORATORI QUALIFICATI»
di Carlo Lania
Per l’Unione europea i migranti economici rappresentano un problema, ma se nella massa di disperati che cerca di raggiungere il Vecchio Continente ci sono dei «talenti», ovvero lavoratori altamente qualificati e preziosi per il nostro mercato del lavoro, allora il discorso cambia. E molto. Entro il 2025, avverte infatti Bruxelles, serviranno tra i 68 e gli 83 milioni di lavoratori specializzati, manodopera indispensabile per mettere un argine al calo della popolazione in età lavorativa, ma soprattutto per rispondere alle esigenze di un mercato che richiede competenze sempre più alte. E di questi almeno 18 milioni servono praticamente subito, entro il prossimo decennio. Una necessità che l’Europa da sola non è grado di soddisfare e per questo deve fare ricorso ai migranti.
A lanciare l’allarme, sottolineando la necessità di personale iperqualificato, è un documento della Commissione europea che già nello scorso mese di aprile avvertiva i capi di stato e di governo della necessità di gestire in maniera diversa i flussi migratori. «La migrazione è stata e continuerà ad essere nei prossimi decenni una delle questioni fondamentali per l’Europa», è scritto nel testo in cui si ricorda come i cambiamenti climatici, le guerre e l’instabilità economica di aree a noi vicine continueranno a spingere le persone a cercare rifugio in Europa. Per gli stati resta quindi prioritario garantire protezione a chi fugge ma, avverte il documento, «con l’evolvere delle loro tendenze demografiche dovranno ricorrere alle opportunità e ai vantaggi offerti dai talenti e dalle capacità degli immigrati, e quindi cercare di attirarli».
Nel migration compact discusso ieri dall’europarlamento è prevista anche una revisione della Blu card, lo speciale permesso di soggiorno varato dall’Ue nel 2009 proprio per attirare lavoratori altamente qualificati. Revisione che era stata sollecitata ad aprile dalla Commissione guidata da Jean Claude Juncker per la quale era necessario uno strumento più efficace. Del resto anche l’Ocse proprio ieri ha sollecitato l’Europa a varare politiche in grado di attirare e trattenere cervelli, tanto più che dei migranti che ogni anno approdano nel Vecchio Continente solo una minoranza è ben qualificata. La migrazione umanitaria – è scritto nel rapporto presentato ieri a Parigi – «non può sostituire i canali discrezionali e selettivi della migrazione professionale tramite cui i datori di lavoro dovrebbero soddisfare i futuri bisogni di competenze».
Facile, a questo punto, ipotizzare come in futuro la selezione dei migranti, e forse anche dei richiedenti asilo da accogliere in Europa potrebbe avvenire sulla base delle indicazioni espresse sia dalla Commissione Ue che dall’Ocse. Se l’Europa «vuole rimanere un attore competitivo a livello mondiale», avverte il documento della Commissione, dovrà trovare il modo per attirare dall’estero le competenze che gli servono. «Ciò è essenziale non solo per soddisfare il fabbisogno attuale e futuro di competenze e salvaguardare un’economia dinamica – conclude il testo – ma anche per assicurare la sostenibilità dei nostri sistemi assistenziali a lungo termine».
Insomma la battaglia per accaparrarsi gli immigrati più qualificati è cominciata. Anche perché i «talenti» non farebbero gola solo a noi europei. Qualche giorno fa il quotidiano tedesco Der Spiegel ha accusato Ankara di escludere dall’accordo siglato con l’Ue (un siriano accolto in Europa per ogni siriano entrato illegalmente ripreso dalla Turchia) i profughi più qualificati, trattenendo così ingegneri, medici o comunque lavoratori estremamente qualificati. La questione sarebbe stata posta ad aprile dal rappresentante del Lussemburgo in una riunione dell’Ue. Al loro posto, Ankara invierebbe profughi non qualificati e malati.

Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni». Corriere della Sera, 8 giugno 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, ha sicuramente ragione Michele Salvati («Perché la riforma riguarda tutti ed è solo il primo passo», nel Corriere del 30 maggio) quando dice che la riforma costituzionale «è problema troppo serio per essere affidato ai soli costituzionalisti», ed è piuttosto «un problema storico-politico».
Ma quale problema? Quello di passare (finalmente, dice Salvati) a una «Seconda Repubblica», e quindi di distaccarci decisamente dai caratteri fondamentali della Repubblica nata con il referendum del 1946 e con la Costituente? Questa, dal mio (e non credo solo mio) punto di vista non è una prospettiva allettante, è piuttosto una minaccia.
Sono almeno venticinque anni che taluno vagheggia una «Seconda Repubblica», e i prodromi e le tendenze che si sono visti o intravisti sono tutt’altro che rassicuranti. Salvati muove anch’egli, come altri fautori delle «grandi riforme», dall’idea che il nostro sistema costituzionale sia caratterizzato da un eccesso di poteri di freno e da una endemica debolezza dell’esecutivo, visto invece come unico potere chiamato a decidere; e che ciò sia storicamente dovuto alla scelta di settanta anni fa di voler «imbrigliare un partito antisistema» (il Partito comunista) che si temeva potesse ottenere la maggioranza elettorale.
Ma davvero si pensa che se il Partito comunista degli anni Quaranta del Novecento avesse conquistato la maggioranza elettorale nel Paese il bicameralismo (per dirne una) avrebbe costituito un freno efficace a rischi di abbandono del terreno della democrazia liberale? Davvero si pensa che le forze di ispirazione schiettamente democratica che diedero vita alla Costituzione, se non ci fosse stato il Partito comunista, avrebbero scelto un diverso sistema istituzionale fortemente accentrato e basato sui poteri dell’esecutivo, abbandonando il classico terreno delle democrazie di massa europee, cioè il parlamentarismo?
In realtà il sistema parlamentare, assicurando la consonanza di legislativo e esecutivo (perché il governo non ha altra legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della maggioranza parlamentare), è quello meglio in grado di consentire ad una maggioranza di realizzare i propri programmi, non solo in via amministrativa, ma anche promuovendo e guidando la formazione delle leggi che esprimono e traducono il suo indirizzo politico. O si dovrebbe preferire un sistema all’americana, dove il presidente dura in carica quattro anni, ma ogni due anni entrambe le Camere si rinnovano (una per intero, l’altra per un terzo), e se la maggioranza del Parlamento non è d’accordo col presidente questi non ha strumenti, (né la questione di fiducia, né il potere di scioglimento anticipato delle Camere) per tradurre il suo programma in leggi e in decisioni di spesa (il bilancio dello Stato infatti dipende dal Parlamento)?
Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.
Ma, si dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con efficacia: solo un governo (anzi, un capo del governo), che possa per tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrà governare con efficacia.
Qui si svela il vero sogno dei fautori delle «grandi riforme»: il sogno (o per altri, come noi, l’incubo) dell’«uomo solo al comando». La realtà è che il sistema costituzionale è in grado di offrire ed offre la possibilità di costruire e attuare processi decisionali efficienti, ma perché essi possano operare ci vogliono delle condizioni politiche: è la politica, bellezza, viene da dire.
Al di fuori di queste, le istituzioni, di per sé, possono solo offrire strade di impoverimento della democrazia rappresentativa (occorre un unico «vincitore», e non importa quale consenso abbia dietro di sé); oppure la scorciatoia di torsioni di tipo autoritario. È questo che alla fine vogliamo?
Dire «condizioni politiche», in democrazia, vuol dire necessità che si riescano a promuovere, costruire, mantenere soluzioni sufficientemente condivise. Che non vuol dire solo, si badi, dar vita e tenere unita una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa intorno agli obiettivi cui le decisioni politiche tendono. Ciò è certo auspicabile, e il ruolo costituzionale dei partiti (intesi come strumenti di partecipazione politica, e non come puri gruppi di potere) è appunto questo. Ma la condivisione in politica ha molti aspetti.
C’è anche, ci può essere anche, una condivisione più ampia o talora perfino diversa da quella che dà vita alle maggioranze di governo. Nel 1970 la legge sul divorzio fu varata in Parlamento sulla base di un consenso (poi confermato dagli elettori) diverso da quello su cui si fondava la maggioranza di governo dell’epoca.
Più in generale, il confronto fra maggioranza e opposizioni non può reggersi solo su una aprioristica contrapposizione a tutto tondo e senza eccezioni. Può e deve contemplare piani diversi anche di condivisione e di confronto: senza che su ogni tema o sottotema la dialettica si traduca sempre e necessariamente in uno scontro senza quartiere, in cui ognuno è chiamato non tanto a sostenere le proprie idee quanto a reggere un gioco delle parti; senza che ogni convergenza al di fuori dei confini della maggioranza del momento debba spregiativamente qualificarsi come forma di negativo «consociativismo» (anche la comunità politica è fatta di consoci).
Il «miracolo» dell’elaborazione ampiamente condivisa e dell’approvazione pressoché unanime della Costituzione del 1947 (in una congiuntura politica che negli ultimi mesi della Costituente vide fra l’altro la spaccatura della maggioranza di governo, e il passaggio ad una diversa alleanza, quella centrista) si spiega proprio come il risultato prezioso voluto e raggiunto da una classe politica che capì fino in fondo il senso dell’operazione costituente e le ragioni di unità che stavano a base della Costituzione.
Ma, per venire a vicende a noi più vicine, qualcuno forse può pensare che la democrazia italiana sarebbe uscita complessivamente indenne dagli anni dello stragismo (da piazza Fontana alla stazione di Bologna) e dagli anni della sfida del partito armato (fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro), se non vi fosse stata una capacità delle forze politiche allora dominanti, di maggioranza e di opposizione, di cercare e trovare terreni di convergenza e di intesa sull’essenziale?
Mettere mano alla Costituzione, lo si dovrebbe fare sempre e solo in questo spirito. Questa è la «politica» degna del nome, non quella contro cui sempre più italiani sembrano oggi concepire solo fastidio e disprezzo, quella fatta, secondo l’immagine oggi purtroppo accreditata anche dall’alto, di «poltrone» da possibilmente sopprimere per ridurne i «costi».
Un' analisi del fenomeno più rilevante delle attuali elezioni comunali «I grillini si affermano in forme dirompenti dove non sono ancora radicati».
La Repubblica, 8 giugno 2016 (c.m.c.)
Il leitmotiv di queste elezioni amministrative è indubbiamente il risultato sorprendente del M5S — primo partito a Roma e robustamente secondo a Torino. Ma anche poco appariscente a Napoli o a Milano, tanto per citare due grandi città che si preparano al ballottaggio e dove la contesa è ancora tra sinistra e destra (pur nella differenza che questi schieramenti presentano).
Sia a Napoli che a Milano le amministrazioni uscenti di sinistra sono ancora percepite dagli elettori come soddisfacenti e non identificate in tutto con l’establishment — il sindaco de Magistris ha rappresentato una sinistra populista e il sindaco Pisapia una sinistra civica.
E nessuna delle due città è terra fertile per il M5S. Il quale cresce bene laddove è di recente radicalizzazione istituzionale e soprattutto laddove le insoddisfazioni per il partito di maggioranza uscente (soprattutto il Pd) sono molto forti. Per completare il quadro occorre aggiungere che il M5S non si è presentato ovunque: tanto la sua visibilità, quindi, quanto la sua forza sono a macchia di leopardo. E tuttavia dove il grillini si sono affermati hanno avuto effetti dirompenti.
Roma è certamente un caso macroscopico e forse non generalizzabile. Ma, con i dovuti distinguo, non è il solo. Il caso di Torino non è meno dirompente ed eloquente: qui probabilmente all’origine del 30 per cento di Chiara Appendino vi è non tanto il giudizio sull’operato dell’amministrazione Fassino (che ha ben governato tutto sommato) ma probabilmente la decisione del Pd di tentare di blindare il proprio successo alleandosi con una formazione moderata e ancora di più lo scandalo delle “giunte fantasma” — Appendino ha espugnato una delle roccaforti storiche del centrosinistra, proprio dove la maggioranza uscente a guida Pd è finita al centro di questo scandalo — anzi questa è l’unica circoscrizione nella quale il M5S ha superato la coalizione di Fassino. Quindi anti- establishment e purezza (i due cavalli di battaglia tradizionali del M5S) hanno vinto a Roma e a Torino.
Questo spiega perché i grillini sono forti e trainanti laddove non hanno ancora fatto esperienze di governo o dove la presenza nelle istituzioni non si è stabilizzata. Il caso di Bologna è da questo punto di vista una controprova interessante.
Nel capoluogo emiliano, dove il M5S è radicalizzato dal 2009, riesce perfino a generare astensione. Secondo l’Istituto Cattaneo, a Bologna l’elettorato grillino sta diventando «più fedele e radicato», prova ne sia che non riesce più a riportare al voto gli astenuti: «Si “nutre” ormai di elettori fedeli e, in alcune città, di transfughi del centrosinistra ». Questo ci suggerisce che il M5S si afferma in forme dirompenti dove è ancora elettoralmente giovane. E soprattutto dove il Pd — il suo vero e unico antagonista — sfigura o è identificato con l’establishment o lascia cadere la connotazione ideologica di sinistra. Di questo vuoto si avvantaggiano i pentastellati pur non essendo un movimento di sinistra.
Il non-partito M5S non ha una linea politica nazionale unita ad un grappolo di principi partigiani — è un movimento gentista che si nutre di temi trasversali che segnalano le disfunzioni della democrazia praticata, ovvero dei partiti tradizionali. Onestà e purezza, lotta contro l’élite o la “casta” sono temi generici e generali che unificano i settori più diversi della popolazione. Per esempio, a favore di Virginia Raggi hanno votato giovani, meno giovani e anziani e poi occupati e disoccupati; ma per Giacchetti hanno votato pochi giovani e pochi disoccupati.
A Roma, rispetto ad un Pd che vince ai Parioli, oggi è il M5S che può farsi vanto di essere il partito popolare o dei ceti popolari, il partito che vince dove vinceva la sinistra storica, nelle periferie e nelle borgate. In queste realtà che sono tradizionalmente sensibili ai temi di denuncia populista, i grillini riescono a mobilitare l’elettorato come i partiti dell’establishment non fanno né si sforzano di fare, preferendo concentrarsi sui ceti medi e medio-alti e sull’elettorato moderato (e non disdegnando l’astensionismo). Il M5S scompagina questa normalità.
Recenti e troppo frequenti episodi di uccisione di donne a parte di maschi ha indotto alcuni appartenenti al genere dominante, nell'ambito della lista di discussione "officina dei saperi", a reagire con questo appello, che
eddyburg fa proprio e invita a sottoscrivere. In calce l'elenco dei primi firmatari e l' indirizzo a cui inviare le adesioni
La ripetizione sempre più diffusa di efferati femminicidi chiama ormai in causa gli uomini portatori, più o meno consapevolmente, di una cultura maschilista che li rende carnefici, oltre che “vittime” di tale cultura, ben al di là di una loro (consumata) solidarietà con la persona colpita dalla violenza.
L’uccisione o la mutilazione della fidanzata, moglie o compagna, avviene quasi sempre per motivi di gelosia o per rottura, da parte della donna, del patto di convivenza.
L’uomo forte e dominatore non può (o non è capace) di accettare quello che ritiene essere un “affronto”, così che la vendetta è la reazione “istintiva”: mia o di nessun altro. E’ così che da carnefice l’uomo diventa anch’egli vittima del suo stesso pensiero.
C’è un’asimmetria in questo rapporto: se a finire il rapporto è la donna, tale gesto di rottura assume il significato di tradimento, mentre se è l’uomo a rompere il rapporto d’affetto, allora esso viene considerato comprensibile e accettabile. In un passato poi non così lontano ci sono stati processi dove come attenuante è stato addotto il fatto che la donna indossasse jeans aderenti o, comunque, abiti provocanti giustificando il comportamento violento con l’affermazione che “se l’era un po’ cercata”. Così come il “delitto d’onore” non è un’oscura pratica medioevale abbandonata centinaia di anni fa. Noi veniamo da questo passato recente.
I cambiamenti antropologici indotti dallo scatenamento degli istinti animali del neoliberismo, hanno accentuato l’individualismo proprietario soprattutto degli uomini. Ed è per questo che noi uomini dobbiamo dire a gran voce: not in my name, dove il my name oltre ad avere una valenza personale riguarda l’intero genere maschile. E questo vincendo quell’oscuro timore (mai esplicitato) di passare per “femminucce” che trasgrediscono il codice maschile.
Nessun uomo può dirsi innocente, perché c’è una connivenza complice in ciascuno di noi con il pensiero dell’individuo proprietario, della ostentazione della forza, dell’offesa non perdonabile. Quante volte noi stessi abbiamo fatto battute o raccontato a soli amici maschi barzellette denigratorie sul genere femminile? E quante volte pur non avendolo fatto direttamente abbiamo sfoderato un sorrisino complice a questi racconti stereotipi?
La diversità di genere è una ricchezza, ma può scivolare nello sciovinismo maschilista se a tale diversità viene assegnata una gerarchia, ruoli non paritari.
Non basta, per noi uomini, firmare appelli in difesa delle donne, partecipare sinceramente commossi a iniziative di solidarietà con loro. Bisognerebbe iniziare a firmare appelli anche contro quella parte di noi stessi che indulge a connivenze complici perché quei maschi assassini non sono alieni venuti da altri pianeti: sono l’esito drammatico di un pensiero che alberga oscuro nelle teste di noi uomini.
hanno aderito:
Abati Velio
Aragno Giuseppe
Andriollo Danilo
Bevilacqua Piero
Baioni Mauro
Bianchi Alessandro
Budini Gattai Roberto
Camagni Roberto
Cataruozzolo Nicola, libero pensatore
Cervellati Pier Luigi
Fiorentini Mario
Dignatici Paolo
Di Siena Piero
Gambardella Alfonso
Indovina Francesco
Magnaghi Alberto
Masulli Ignazio
Nebbia Giorgio
Ottolini Cesare
Quaini Massimo
Roggio Sandro
Salzano Edoardo
Saponaro Giuseppe
Scandurra Enzo
Scudo Gianni
Siciliani de Cumis Nicola
Stucchi Silvano
Toscani Franco
Urzì Gaetano
Vannetiello Daniele
Viale Guido
Ziparo Alberto
11 giugno 2016, ore 13,00
Intervista alla filosofa Ágnes Heller. «Ognuno deve prendersi cura del mondo e insieme renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate
». Il manifesto, 6 giugno 2016 (c.m.c.)
A ottantasette anni, Ágnes Heller incarna sempre la vitalità della filosofia ben oltre l’etichetta di «allieva di Lukács». È stata una delle protagoniste al Festival Biblico di Vicenza del dialogo con Riccardo Mazzeo, ispirato dal saggio a quattro mani Il vento e il vortice.
Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione (Erickson pagine 152 euro 14,50). «È un libro nato a Pordenonelegge nel settembre 2015 dopo il confronto con Riccardo Mazzeo sul tema ’bellezza e utopia’. Allora mi stavo occupando di filosofia medioevale e rinascimentale. Ma scattò l’interrogativo: ’Perché oggi non ci sono più utopie?’. Così sono giunta alla conclusione che questa assenza potrebbe perfino trasformarsi in un vantaggio…» spiega, mentre sorseggia felice un espresso e conta di concludere il suo soggiorno italiano con la visita alla Biennale di architettura.
Sopravvissuta alla Shoah, espulsa nel 1959 dall’Università di Budapest, emigra con il marito Ferenc Fehér in Australia nel 1977. Dopo aver insegnato sociologia a Melbourne, approderà a New York sulla prestigiosa cattedra di Hannah Arendt.Da tempo è tornata a vivere nella capitale ungherese, anche nel ruolo di spina nel fianco del premier ultranazionalista Viktor Orban. E di nuovo, nell’ultimo libro, Ágnes Heller insiste nell’illuminare speranze e paure alla luce di uno sguardo filosofico mai disattento nei confronti delle trame visionarie quanto dell’attualità.
«Dal mio punto di vista, occorre distinguere due forme di utopia – spiega la filosofa -. Quella del desiderio, cioè un mondo in cui tutti i bisogni sono soddisfatti: non si deve lavorare, niente Stato né leggi o guerre. È come l’età dell’oro che è alle nostre spalle, come per la Grecia antica. O come nella Bibbia (Genesi, 2) con Adamo e Eva nel Giardino dell’Eden, che hanno tutto a disposizione senza dover lavorare e non sono minacciati dal dolore e dalla morte.
Marx immagina lo stesso tipo di utopia, solo che diventa quella del futuro dell’umanità: niente mercato, Stato, leggi, istituzioni, matrimonio, eccetera; tutti i bisogni soddisfatti nella società dell’abbondanza. Ma come già evidenziava Freud in Disagio della civiltà, utopia senza cultura e con una libertà totalmente negativa».
E l’altra forma di utopia qual sarebbe?
L’utopia filosofica. In buona sostanza, non ci permettono la soddisfazione dei nostri desideri, però da qualche parte e in qualche modo possiamo immaginare la società giusta. Comincia Platone con la sua Repubblica ideale, perché i filosofi sono in grado di trasformare l’idea in realtà e quindi anche di creare lo Stato perfetto.
Nel 1516 Thomas More scrive Utopia nell’età delle grandi scoperte: è l’isola esattamente opposta all’Inghilterra; ma è anche, di fatto, uno Stato totalitario. Con Charles Fourier si approda all’utopia socialista del falansterio. Costruita «scientificamente», perché nel XIX secolo si aveva fede nella scienza capace di risolvere ogni problema. Di qui l’idea che sarebbe stato sufficiente mettere gli individui insieme per ottenere lo stato d’armonia e la felicità di tutti. Dopo il 1789 la narrazione è ispirata, invece, dall’idea di progresso universale. Dallo stato primitivo si tende verso quello civilizzato. Progresso all’orizzonte dell’umanità per evoluzione, grazie alla rivoluzione o attraverso riforme progressive.
Il «secolo delle ideologie» tuttavia non produce felicità, ma guerre mondiali. Né realizza sogni: se mai, disillude…
Si giunge così all’idea della fine dell’utopia. Nel XX secolo collassa il concetto di progresso: dopo Auschwitz e i gulag come si può ancora parlare di società che tende naturalmente al meglio, al futuro luminoso, alla progressiva felicità? È il primo momento di critica culturale che apre alla prospettiva della distopia. Si sviluppa il concetto di decadenza, che Oswald Spengler sintetizza nel Tramonto dell’Occidente. Ma con l’incubo della guerra nucleare anche la scienza non è più l’angelo della redenzione: le bombe atomiche sono l’emblema della dannazione.
Si imbocca così l’immaginazione critica, la «contro-narrazione», il pensiero non più edificante?
Le distopie sono gli scenari dell’autodistruzione per la nostra ecosfera, che da almeno vent’anni sono previsti nella letteratura scientifica. Altri vettori di distopie sono le opere di letteratura fiction che già Jonathan Swift aveva offerto con le sue satire. Penso in particolare al Mondo nuovo di Aldous Huxley, a 1984 di George Orwell e a La strada di Cormac McCarthy. Senza dimenticare i numerosi film con le medesime caratteristiche.
E cosa hanno in comune?
Le distopie sono avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla disillusione, alla disperazione, alla catastrofe. Un po’ come i profeti biblici che, nella società dominata dal peccato, indicano all’umanità che soltanto con la correzione dei suoi comportamenti, può evitare un’esistenza dannata. Oggi sappiamo che l’uso delle armi nucleari equivale alla fine del mondo. O che abbiamo una scelta fra essere soggiogati da un leader totalitario e difendere le libertà.
Dunque, in questo vortice, esiste qualcosa che si possa fare?
Coltivare il «giardino» in cui viviamo. Con responsabilità, attenzione e cura. Era il suggerimento di Voltaire, nel Candido. Del resto, questo è il mondo dove siamo nati e moriremo. Ognuno deve mantenerlo e insieme renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate.
Tornando ai temi dell’ultimo saggio, dove si annida la contraddizione fondamentale dell’individuo nella società?
Occorre ritornare alla Costituzione della Rivoluzione francese che sancisce i droits de l’homme e du citoyen come se i diritti umani e quelli di cittadinanza fossero equivalenti e perfino sinonimi. Non è certo così, soprattutto dal punto di vista etico nell’Europa moderna. Ci viene, infatti, chiesto di essere brave persone e buoni cittadini. Due sfere differenti: la moralità individuale e il rispetto delle leggi. Eppure, sono anche pilastri che si sorreggono a vicenda nel nostro mondo. La cooperazione tra valori privati e virtù pubbliche è oggi più necessaria che mai se vogliamo evitare che il futuro assomigli agli incubi della distopia.
E la crisi che attanaglia l’Europa, è risolvibile?
Va sempre ricordato che, al contrario del mondo anglosassone, in Europa la democrazia non è certo una tradizione. Anzi, per Grecia, Spagna, Portogallo e per la stessa Italia vale solo negli ultimi decenni. E nella storia dei Paesi dell’Est la democrazia è ancora più recente. Piuttosto, bisogna prestare attenzione al bonapartismo sempre presente in Europa: lo inaugura Napoleone e arriva ben oltre Mussolini. L’uomo forte, che tutto risolve, perché finisce con l’incarnare la verità, lo Stato, la società. Il «condottiero» che non si fa scrupoli e ricorre al populismo, anche se rappresenta interessi oligarchici.
A volte mi vien da pensare che il Vecchio Continente sia stato ri-paganizzato: la nazione come autorità suprema e il nazionalismo come religione. Eppure, l’Unione Europea è nata, al contrario, come «universalistica» all’insegna della solidarietà fra gli stati membri.
Purtroppo, la costruzione dell’Ue non è stata accompagnata dall’emergere di una coscienza europea comune. Così l’Europa rischia di restare un progetto burocratico senz’anima. Paradossalmente, l’opportunità di cambiamento e di apertura ci arriva dall’emergenza dei rifugiati e dalla minaccia terroristica.
». La Repubblica
,5 giugno 2016 (c.m.c.)
Il discredito che ha colpito l’arte della politica è sotto gli occhi di tutti e trova una delle sue ragioni più evidenti nel comportamento corrotto di molti politici. Ma esiste una ragione ancora più profonda della sua perdita di prestigio: il nostro tempo è infatti allergico a tutto ciò che impone qualunque differimento alla soddisfazione immediata della pulsione.
La politica come difficile arte della mediazione di interessi differenti e conflittuali per il bene comune della polis appare come un intralcio fastidioso alla realizzazione del programma della pulsione che esige il suo soddisfacimento senza differimenti. Di qui – più profondamente che non a causa della sua corruzione – l’accanimento critico che colpisce l’arte della politica.
Nondimeno è proprio la sua vocazione al confronto con la pluralità dei protagonisti della vita della città e della loro necessaria mediazione che la rendeva già agli occhi di Aristotele un’arte superiore a tutte le altre. Questo significa che la vita della città non scaturisce dalla spinta affermativa di interessi particolari che diventano egemoni, ma dal concerto delle loro differenze.
Senza la faticosa opera di mediazione alla quale l’arte della politica è votata, la vita della città sarebbe facilmente preda della demagogia populista o della tentazione autoritaria. Mentre la seconda elimina le ragioni della politica con il ricorso al potere sovrano del padre- padrone, della prima, oggi di grande attualità, Platone ne fornisce un ritratto efficace quando equipara il politico degno di questo nome ad un medico che si preoccupa della salute di bambini malati (la città) prescrivendo ad essi le giuste diete e i giusti rimedi nonostante possano nell’immediato risultare difficili da digerire, paragona il demagogo-populista a colui che anziché seguire la linea difficile e severa della cura ammalia i suoi piccoli pazienti offrendo loro i dolci più prelibati.
L’immagine di Platone è lucidissima nell’isolare la scaltrezza del demagogo, la quale consiste nel dare al popolo quello che il popolo chiede senza preoccuparsi del destino della città. Tutto il suo operare è asservito all’ottenimento del più largo consenso nel più breve tempo possibile.
È l’essenza anti-politica del populismo che comporta una disgregazione falsamente libertaria del concetto di rappresentanza. Il politico dovrebbe essere soppresso dal Popolo o dovrebbe coincidere con il Popolo stesso in una simbiosi che, in realtà, ha storicamente sempre generato mostri. È il sogno sbandierato qualche tempo fa da un movimento populista nostrano: ottenere il 100 per cento del consenso parlamentare per realizzare l’identificazione integrale dei cittadini con lo Stato. Non deve sfuggire il carattere seduttivo e incestuoso di questa ambizione: ogni differenza deve essere annullata, ogni dissenso appianato, ogni cultura particolare estinta nel nome di una coincidenza assoluta tra il Bene e il Popolo.
La difficile arte dell’integrazione di soggetti e interessi differenti di cui si incarica l’arte della politica deve lasciare il posto ad una fusione tra Stato e cittadini che vorrebbe liquidare la politica come un vecchio tabù da dimenticare. I Partiti sono una casta che il capo carismatico di quello stesso movimento populista nostrano ha una volta definito “letame”. L’anti-politica cavalca l’illusione di identificare il Popolo col Bene contro la politica come difficile pratica della mediazione dei conflitti. Il conflitto politico in quanto tale viene sostituito dalla lotta tra il Bene (il popolo) e il Male (la politica e i politici) senza rendersi conto che la demonizzazione della politica coincide con il collasso della vita stessa della città.
La retorica populista odia la sfumatura, l’analisi, la complessità, la contraddittorietà, gli intellettuali, il pensiero critico, il disordine che accompagna la vita della città. La sua inclinazione paranoica si sposa con una idealizzazione infantile di sé stessa che esclude il disagio che comporta il confronto con il dissenso sia interno che esterno.
In un recente libro intervista titolato Corpo e anima (Minimum fax 2016), curato da Christian Raimo, Luigi Manconi, ex-leader di Lotta continua, protagonista del movimento Verde in Italia e attualmente senatore per il Pd, prova a restituire, nel tempo dell’antipolitica, la giusta dignità all’arte della “politica” ripensandola radicalmente dai piedi”, sottraendola alle chimere totalitarie degli universali: la politica non si occupa dell’Uomo, del Popolo, della Storia, della Solidarietà astratta, ma solo di nomi propri, di persone in carne e ossa, di corpi, di esistenze reali, plurali, soprattutto di quelle che appaiono ai margini della vita sociale.
Dal vertice di questa allergia verso l’universalismo, Manconi propone una definizione lucida e precisa della politica come “governo del disordine”, sforzo per “trovare un posto al disordine”. È l’esatto contrario del sogno paranoico- populista dell’affermazione assoluta del Bene contro il Male.
Non si tratta né di imporre l’Ordine con la violenza (tentazione autoritaria), né di annullare la rappresentanza seguendo la retorica dell’ideale benefico del Popolo (tentazione populista), ma di prendere atto che la vita della polis implica necessariamente il disordine della vita: «Intrecci, innesti e contaminazioni e non un’autarchica sistemazione di tratti originari esclusivi ed escludenti».
Improvvisa conversione a sinistra dell'alfiere della "destra perbene"? C'è da strabuzzare gli occhi. Ma forse vale solo per gli USA, che sono così lontani.
Corriere della Sera, 4 giugno 2016
È molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti. Ma come ha scritto qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno l’impensabile sta diventando possibile. E dunque le cose potrebbero forse andare altrimenti.
Potrebbe accadere che per varie ragioni — non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria mail personale per molte comunicazioni ufficiali — la sua popolarità, già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare che il Partito democratico possa allora decidere di puntare sul senatore Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.
Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
Per l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari.
Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari.
È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale.
Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù.
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società.È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico.
In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.
La proposta riciclata da Renzi per fini meramente propagandistici, se fosse accolta dall'UE, moltiplicherebbe all'infinito i mortiferi campi di concentramento dei profughi. La realtà è che l'esodo dalla paura e dalla miseria si può affrontare solo se l'Europa intera si convertirà a una politica dell'accoglienza, anche nel proprio interesse. Il manifesto, 4 gennaio 2016
Con la "strepitosa" (come dice lui) proposta del Migration compact - prelevata peraltro di peso da un documento elaborato dallo staff della sua affiliata Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea - Renzi sostiene di aver trovato la soluzione per bloccare il flusso dei profughi provenienti dall'Africa. Si tratta non solo di pagare i governi degli Stati di origine o di transito dei profughi perché li trattengano lì, o ne accettino il rimpatrio, sul modello dell'accordo tra UE e Turchia, ma anche di promuovere sviluppo e occupazione in tutti quei paesi, perché i loro abitanti non abbiano più motivi di emigrare.
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| qui e nell'icona il campo profughi di Daadab, Kenia |
La prima cosa che viene da chiedersi è come mai Renzi, che pensa di avere la chiave per creare tanti posti di lavoro in un continente disastrato che conta oltre un miliardo di abitanti non sia riuscito a farlo in un paese che ne conta solo sessanta milioni, pieno di disoccupati e da cui continuano a emigrare almeno centomila persone all'anno, prevalentemente giovani laureati e diplomati. Viene da pensare che Renzi non abbia alcuna idea di che cosa sia l'Africa, di che cosa siano i cambiamenti climatici in corso, di che cosa comporti nei paesi di quel continente la presenza predatoria di multinazionali come Eni ed EDF (a cui il Migration compact vorrebbe affidare l'attuazione del suo programma di sviluppo), di che cosa sia la cooperazione allo sviluppo e, soprattutto, della violenza a cui sono sottoposti i profughi in gran parte di quei paesi prima di raggiungere il Mediterraneo per imbarcarsi per un viaggio dove rischiano la morte.
Probabilmente invece, di tutte queste cose qualcosa sa; potrebbero averglielo spiegato i suoi collaboratori. Ma pare comunque evidente, come in tutto quello che Renzi fa da quando è al governo, il fine elettorale anche di questa "trovata" fatta sulla pelle dei profughi. Renzi, che come tutto l'establishment europeo, non ha idea di come affrontare il problema, sta cercando di nasconderne le vere dimensioni, per tranquillizzare un elettorato aizzato da Salvini e dai suoi sodali, e di far credere che la soluzione sia a portata di mano. E ha fretta che il Migration compact venga approvato dal Consiglio europeo prima del referendum su cui si gioca il suo futuro; e anche di spacciarlo come soluzione prima delle elezioni amministrative.
Stupisce invece il servilismo con cui i commentatori italiani di stampa e media stanno al gioco, fingendo di non capire che quel piano non è altro che una patacca. Persino coloro che hanno il coraggio di ammettere che il problema non si risolve in quattro e quattr'otto - e che è urgente attrezzarsi per far fronte non solo all'accoglienza immediata, ma anche alla permanenza di centinaia di migliaia di profughi che non possono, e non potranno tornare indietro per anni - come i vescovi italiani, continuano però a sottovalutare le dimensioni del problema, lasciando campo libero all'allarmismo di un Salvini; o, come il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, fanno credere che l'Italia, stretta nella "tenaglia" tra gli sbarchi e la chiusura delle frontiere alle Alpi, possa affrontare da sola un flusso destinato a durare ed a crescere negli anni. Certo accoglierli tutti in Italia probabilmente non si può. Ma in Europa sì, e ne avrebbe anche bisogno.
Per questo stupisce meno il credito che viene dato al Migration compact a livello europeo. Nessuno, nelle cancellerie dei paesi membri o nella Commissione, ha ancora detto che è semplicemente grottesco. Ma il gioco è chiaro: si tratta per tutti loro di prendere tempo, di rinviare la ricollocazione dei profughi proposta dal piano Juncker, lasciando che il peso dei nuovi arrivi si scarichi tutto sull'Italia. Ma questa politica del rinvio, che lascia campo libero alle destre razziste, come hanno reso evidenti le elezioni Austriache, significa prima la dissoluzione dei partiti al governo dei principali paesi europei e, contestualmente, la fine dell'Unione europea.
Nel dibattito su questo tema si continua a parlare di accoglienza come fosse una libera scelta, senza dire che respingere e rimpatriare sono sì un crimini contro l'umanità, perché che portano morte, torture, sofferenze inaudite, ma non hanno alcuna possibilità di raggiungere il risultato. Per cui il problema non è se, ma come accogliere: per non trasformare l'Europa in un paese di Lager.
Non c'è da farsi molte illusioni: contro gli umori viscerali cavalcati dalle destre di tutta l'Unione, la costruzione di una politica vera di accoglienza e di inclusione dei profughi in arrivo dall'Africa e dal Medioriente non è né semplice né rapida come lo sono gli slogan usati dalle destre o il bluff lanciato da Renzi. È' un processo lento e difficile, che vedrà le forze impegnate su questo fronte in minoranza per molti anni a venire. Ma occorre mettere in piedi sin da ora, integrando il tema dei profughi in tutti gli altri ambiti su cui si sta sviluppando il conflitto sociale in Europa in questo periodo, le ridotte da cui puntare alla riconquista delle condizioni di una convivenza vera tra cittadini europei, profughi e migranti, ma anche tra i popoli dell'Europa e quelli dei paesi da cui tante persone sono state, e continueranno a essere costrette a fuggire.
« È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce. E invece il clima, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito». La Repubblica
Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».
Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.
Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica - con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum.
Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.
Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge - la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra.Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi.
Per dirla con Benigni - ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale - per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
«Referendum costituzionale. Parla l’ex pci Aldo Tortorella: sbaglia chi dice che bisogna votare turandosi il naso, il premier rottamatore ora cerca di legittimarsi arruolando Berlinguer e Ingrao, ma le loro idee erano incompatibili con una legge ipermaggioritaria». Il manifesto, 3 giugno 2016
L’arruolamento postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei comunisti che hanno fatto la storia di questo paese.
Da ragazzo era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la Serbia.
Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che vuole «ripensare e rinnovare la sinistra».
Dell’uso dei grandi del Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è stupito.
«È significativo che per giustificare la propria condotta si ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma, che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è grottesco prima che rozzo».
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così?
«Ma per Berlinguer e Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta».
Perché il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo, per legittimarsi?
«Perché sente che una parte del paese, della sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i più giovani berlingueriana, come Cuperlo».
Ma fra gli ex Pci c’è anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi.
»Il Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo.
«Massimo Cacciari ci ha spiegato in sostanza che la riforma è assai malfatta ma bisogna votarla, forse turandosi il naso. Perché è un inizio. Di cosa? Di una democrazia decidente
. Lo spettro è quello della Repubblica Weimar. Certo che la democrazia deve essere capace di decidere, questa preoccupazione l’avevano anche Ingrao e Berlinguer, ma c’è modo e modo. La democrazia tedesca fu distrutta dai nazisti usando una norma votata a Weimar che sospendeva la Costituzione in caso di stato di eccezione e dava pieni poteri al governo. Nuove norme costituzionali o si fanno bene o si corrono rischi».
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione.
«Quando ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della Costituzione.
«E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione, quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci.
Ma l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che «la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie. Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva l’altra ed entrambe si garantivano.
«Da qui anche la posizione dell’Anpi: le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non sono lontane. E l’Austria è al confine».
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni?«C’è chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i conservatori e i reazionari.
Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare la Costituzione».
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha?
«Nella satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo. Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e di potere legislativo rispetto all’esecutivo.
«Il documento della JP Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni antifasciste«.
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum. Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche certo che li raccolga lui e il suo Pd.
«Infatti, il sistema delle garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato.
«Anche per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra. Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto difficile.
«Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce n’erano due.
«Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale.
«Poi c’era la sinistra dello stato sociale, la socialdemocrazia. In crisi profonda perché contraddittoria nelle sue premesse. Lo stato sociale è indissolubilmente legato al ciclo economico. Quando viene la crisi ciò che sembrava costruito, frana.Hollande ora è al disastro. Schroeder fece qualcosa di simile alla Thatcher».
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici.«Forse lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair, che è un fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario.
«In ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva.
«Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi vince ha ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi pensa di poter piegare il mondo a piacimento.
Il pensiero critico non vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al mondo così com’è.
Precisazione del 3 giugno 2016
Nella sintesi della conversazione con me, pubblicata sul manifesto in edicola, è saltata una piccola frase là dove si accenna alla necessità di una rinascita della sinistra. Segnalavo che l’assemblea costitutiva della Sinistra italiana era iniziata con un utile ripensamento culturale.
Aldo Tortorella
«Genocidio degli armeni. In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice "baluardo orientale della Nato", ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso».il manifesto, 3 giugno 2016
Il passato che non passa, torna regolarmente agli onori (o ai disonori) della cronaca. Le scuse o le mancate scuse per i crimini commessi da una nazione ai danni di un’altra (Obama recentemente a Hiroshima per la prima tragica atomica Usa); l’incommensurabile orrore della Shoà, che ci viene ricordato, in ogni modo, quotidianamente; i massacri, le annessioni di territori con la violenza, i misfatti delle potenze coloniali, sono altrettanti capitoli della storia del mondo, davanti ai quali la tentazione è sovente quella giustificazionista (tutti gli Stati sono nati dalla violenza, per esempio), o liquidatoria (ne abbiamo parlato abbastanza).
Oppure, sull’altro fronte, si affaccia la tendenza etico-giurisdizionalistica: condanne di tribunali internazionali (spesso dalla dubbia legittimità, come quello sui crimini della ex Jugoslavia) o di parlamenti nazionali. No, il passato non passa, a meno che non intervenga la storia, come scienza dei fatti accaduti, documentati, a mettere le cose a posto. E la storia ha acclarato, ad esempio, senza alcun ragionevole dubbio, che i campi di sterminio nazisti sono esistiti.
Fra i grandi crimini del Novecento, a dispetto del silenzio dei governi e della società turca, vi è il massacro degli Armeni, avvenuto nel 1915-16, quando l’Europa si dilaniava nel primo conflitto continentale. Quanti furono i morti? Un milione? Un milione duecentomila? Un milione e mezzo? Certo fu un crimine sistematico, organizzato scientemente, anche se non eseguito in modo «industriale» come nelle «docce» e nei forni di Auschwitz. Molti morirono di stenti in marce forzate, di cui ci sono agghiaccianti testimonianze fotografiche. Altri furono passati per le armi nelle loro case, altri impiccati o fucilati un po’ dovunque, in carceri, per strada, in luoghi di deportazione, ammesso che vi arrivassero ancora vivi. Va ricordato che fra i massacratori vi furono anche milizie kurde, ossia espressione di un popolo a cui proprio la Turchia, innanzi tutto, ha negato nazionalità, sottoponendolo a una persecuzione infinita.
Quel massacro, avvenuto con la collaborazione delle autorità del Reich Guglielmino, allora alleato dell’Impero Ottomano (nella cui traiettoria si staglia quella turpe vicenda, in un processo guidato dai cosiddetti «Giovani Turchi»), non ha ricevuto finora i riconoscimenti che gli spettavano.
Fra i primi Stati a riconoscere che di genocidio si è trattato, è stata la Francia, e spesso per le vie di Parigi si assiste a raduni, manifestazioni, capannelli di armeni (un film recente, assai bello, Mandarines, di Zaza Urushadze) evoca gli strascichi attuali di quella vicenda, nella triste guerra del Nagorno-Karabak). Papa Francesco, Obama, il parlamento di Vienna, richiamarono con varia terminologia quell’evento, suscitando la reazione irritata del governo turco, che rispose con il canonico richiamo dell’ambasciatore. Ora che è il Bundestag tedesco a farlo, la reazione è stata ancora più dura, non solo richiamando l’ambasciatore, ma minacciando conseguenze non precisate.
In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso. Riceve denaro per bloccare i migranti, che in realtà sfuggono e cercano altre vie per l’Europa; vuole aderire all’Ue, ma non si sogna di ottemperare le regole minime ripetute in modo sempre più stanco dai rappresentanti istituzionali dell’Unione. Con l’arrivo al potere di Erdogan mentre si erode la laicità dello Stato – quello costruito, con la violenza, da Ataturk – se ne cancella ogni vestigia di democrazia: oggi raccontare la verità in Turchia significa esporsi al rischio di finire la carriera di giornalista, scrittore, blogger, fotoreporter in galera o peggio. Erdogan spadroneggia, e si permette il lusso di svillaneggiare il papa, di ridicolizzare l’Unione Europea a cui pure pretende di aderire, e senza tanti complimenti chiude ogni voce critica.
E in nome del quieto vivere, nella speranza che quel governo faccia il suo sporco lavoro (contro i migranti), le diplomazie europee tacciono, o al più balbettano. Il passato che non passa è però un macigno anche per le robuste spalle del nuovo sultano di Ankara.
«"Il futuro della Repubblica, 70 anni di vita civile" L’iniziativa sotto le insegne di Libertà e Giustizia organizzata da Sandra Bonsanti che l’ha condotta assieme alla direttrice del manifesto». I
l manifesto, 3 giugno 2016 (c.m.c.)
«Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione.
Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.
«Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due».
Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere».
Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”».
Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.
Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti».
Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi».
A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi».
Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».