
«». Il manifesto, 7 luglio 2016 (c.m.c.)
Si è concluso a Roma il convegno internazionale su Globalizzazione e diritti fondamentali, organizzato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco a 40 anni dalla Dichiarazione dei diritti dei popoli, sottoscritta ad Algeri. Giustizia ambientale, finanziarizzazione dell’economia, ruolo dei media e delle reti sociali sono stati i temi in discussione nella giornata conclusiva, moderata da Nicoletta Dentico. Problemi, convergenze, sguardi antichi e nuovi saperi condivisi per ricostruire la cittadinanza del Terzo millennio e prospettive di cammino su questioni di rilevanza globale e nazionale.
La Dichiarazione di Algeri è tutt’ora attuale anche se l’imperante retorica sui diritti umani serve a nascondere iniquità e asimmetrie, imposte anche attraverso le istituzioni internazionali che quei diritti dovrebbero tutelare. «L’imperialismo – scriveva Lelio Basso nel preambolo alla Dichiarazione di Algeri – può sopravvivere solo imponendo un regime di schiavitù a paesi che gli offrono possibilità di realizzare i profitti che gli sono essenziali per un continuo sviluppo». E perciò: «Solo combattendo il sistema, lottiamo di fatto contro la causa delle violazioni».
Parole capovolte e contraffatte nell’ingombro di informazioni interessate che producono «un basso livello di verità» e portano – ha sottolineato l’economista indiana Mary E. John – a non vedere che «l’80% dell’abbigliamento mondiale si produce nei paesi del sud, dove lo sfruttamento della manodopera è più feroce». Una situazione in cui «partiti xenofobi possono presentarsi come falsi paladini della sovranità dei popoli».
Proprio in un contesto simile, «colpisce la capacità di anticipazione della Dichiarazione di Algeri nell’aver colto il carattere dell’oppressione neocoloniale: forse persino più brutale di quella, diretta ed esplicita, coloniale», ha detto Luciana Castellina. E cioè di aver colto e denunciato «la nuova violazione contro l’autonomia dei popoli, esercitata attraverso il capitale finanziario, multinazionale, gli accordi commerciali funzionali all’imposizione di un modello sociale, economico, politico devastante sul piano ecologico, ma gradito all’Occidente».
La Dichiarazione di Algeri – ha ricordato Gianni Tognoni – rifiutava di accettare l’«espulsione» dei soggetti portatori di diritti inalienabili (popoli e individui) dal loro ruolo di protagonisti, «e la loro trasformazione in spettatori-vittime di nuove forme di dittatura, che rivendicavano una impunità completa in nome dell’autonoma normatività dei trattati economici».
Fra le ragioni dei massacri e delle tensioni che scuotono diverse regioni del mondo, vi è anche la creazione di «false nazioni e stati, imposti dalle grandi potenze», ha detto ancora Castellina, portando il discorso sul «popolo più grande e più oppresso, quello nomade dei migranti. Non parlo solo dei disperati che affogano nei barconi – ha aggiunto – parlo del fatto che migrare è diventato un fenomeno generalizato che richiede un nuovo tipo di cittadinanza universale e chiama in causa l’umanità intera».
«Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia», Articoli di Bernardo Valli ed Enrico Franceschini,
La Repubblica, 7 luglio 2016
IL RAPPORTO CONTRO BLAIR
“LA GUERRA A SADDAM NON ERA NECESSARIA”
di Enrico Franceschini
Pubblicata l’inchiesta sull’intervento britannico. I familiari delle vittime: “Un criminale da perseguire”
«Una lezione su come non andare in guerra». È la conclusione del rapporto Chilcot sull’invasione dell’Iraq: un atto di accusa senza precedenti contro l’allora primo ministro Tony Blair. «La guerra non era necessaria», afferma sir John Chilcot, il presidente della commissione d’inchiesta, riassumendo un’indagine di 13 volumi, durata 7 anni e costata 10 milioni di sterline. «Non c’era un’imminente minaccia da parte di Saddam Hussein», l’intervento militare «non era l’ultima opzione» perché c’era ancora spazio per azioni diplomatiche, l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq (poi si scoprì che non ce n’erano) fu presentata come una certezza «in maniera ingiustificabile», non è chiaro perché il Procuratore Generale cambiò idea all’ultimo momento giudicando la guerra legale, ed i preparativi, l’occupazione, l’intelligence furono altamente inadeguati.
Il rapporto non dimostra bugie o imbrogli da parte di Blair, ma è un grave colpo alla sua reputazione politica. La frase «starò con voi in qualunque caso», trovata in una email al presidente americano Bush, «dovrebbe diventare il suo epitaffio », commenta il Guardian.
Fuori dal palazzo di Westminster dove viene diffuso il rapporto, dimostranti chiedono che l’ex-premier venga messo sotto processo; e i familiari dei soldati uccisi si «riservano il diritto» di portarlo in tribunale. «È lui il terrorista peggiore di tutti», dice la madre di uno dei 200 soldati inglesi morti in Iraq. «Mi scuso a nome del mio partito per la disastrosa decisione di entrare in guerra », dichiara alla camera dei Comuni il leader laburista Jeremy Corbyn. Ma il primo ministro dimissionario Cameron osserva che dal rapporto non emerge la volontà di Blair di ingannare il paese. Cameron ha annunciato che la prossima settimana il Parlamento dedicherà due giorni a discutere il rapporto Chilcot, le sue conseguenze, e le sue lezioni.
“HO FATTO LA COSA GIUSTA”
di Enrico Franceschini
Ha gli occhi lucidi e a tratti gli trema la voce. Eppure, in una sala del palazzo dell’Ammiragliato, di fronte alla piazza che porta il nome della battaglia di Trafalgar, Tony Blair si difende come un imputato convinto di essere innocente e di avere ragione. «Accetto la mia responsabilità per gli errori descritti dal rapporto Chilcot, ma prenderei di nuovo la decisione di invadere l’Iraq », dice l’ex-premier laburista a un gruppo di giornalisti. «Se impariamo le lezioni giuste, la prossima generazione vedrà l’alba della pace nel luogo dove tutto è cominciato e dove tutto deve finire: il Medio Oriente».
Signor Blair, riuscirebbe a guardare negli occhi i familiari di un soldato britannico ucciso in Iraq e giurare di non avere ingannato il paese per entrare in guerra?
«Riuscirei a dirlo ai familiari dei soldati e a chiunque altro: non ho ingannato il mio paese, ho preso questa decisione in buona fede e sono ancora convinto che fosse la decisione giusta».
Quando ha scritto a Bush che sarebbe stato con l’America “in qualunque caso”, era un assegno in bianco per l’intervento militare?
«Non lo vedo come un assegno in bianco, tanto più che poi ho persuaso il presidente a ottenere una risoluzione dell’Onu prima dell’intervento».
Cosa intendeva con le parole “in qualunque caso”?
«Qualunque difficoltà politica fosse emersa, ma l’intervento si doveva fare nel modo giusto».
Accetta il fatto che le famiglie dei soldati uccisi in Iraq vorrebbero vederla punita?
«Sta a loro decidere cosa fare».
Come risponde all’accusa del rapporto secondo cui la guerra ha aumentato il rischio di terrorismo per Londra?
«Saremmo stati attaccati comunque. I terroristi attaccano la Francia, il Belgio. Le radici di questo terrorismo sono molto più profonde della guerra in Iraq».
Perché non avete protetto i vostri soldati con mezzi e armi più adeguati?
«Non abbiamo mai detto di no a nessuna richiesta».
Il leader laburista Corbyn l’ha accusata di avere ingannato il parlamento.
«Non ho ingannato il parlamento ».
Allora di quali accuse contenute nel rapporto si sente responsabile?
«Avremmo dovuto pianificare meglio il dopo guerra. Avrei potuto condividere certi documenti, come il parere sulla legalità della guerra, con tutto il governo. E avrei potuto interagire in modo diverso con gli Stati Uniti».
Il rapporto la accusa di avere sovra estimato la sua capacità di influire su Bush.
«L’ho convinto a tentare la strada della risoluzione dell’Onu, contro il parere del vicepresidente americano e dei suoi ministri ».
Ma perché ci teneva tanto all’alleanza con Bush, un leader di cui pochi si fidavano?
«Perché dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ho ritenuto che fossimo davanti a una nuova minaccia e che per affrontarla non si potesse lasciare sola l’America».
Molti iracheni rimpiangono il tempo di Saddam, cosa direbbe loro?
«Direi che l’Iraq oggi ha una chance e sotto Saddam non ce l’aveva. Fate il confronto con la Siria: due paesi vicini, in preda alla guerra, ma a Bagdad c’è un governo eletto democraticamente che si batte contro il terrorismo, a Damasco c’è un dittatore che collabora con i terroristi».
Si sente più sollevato o più angosciato davanti al rapporto?
«L’angoscia per la mia decisione controversa resterà dentro di me finché vivo, ma spero che questo rapporto metta la parola fine alle teorie di cospirazioni, menzogne ed inganni. La gente può criticarmi, ma dovrebbe riconoscere che ho agito in buona fede per quello che ritenevo fosse l’interesse del paese».
COSÌ LA MISSIONE IN IRAQ
HA SCONVOLTO IL MEDIO ORIENTE
E RAFFORZATO IL TERRORISMO
di Bernardo Valli
CI SONO voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto.
Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per “crimine di guerra” a carico dell’inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l’autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra.
Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per «l’aggressione militare basata su un falso pretesto». E ha parlato di «violazione della legge internazionale», da parte di un primo ministro laburista, quel era all’epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l’inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l’obbediente Tony Blair fosse il “barboncino”.
Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell’Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l’invasione di allora. La situazione era pronta per un’esplosione. È vero. La guerra nell’Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l’Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l’Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli ottanta, tra l’Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l’Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell’Islam adesso in aperto confronto.
Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c’era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall’iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c’erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L’uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto.
La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l’altro, quando era in guerra con l’Iran, un alleato obiettivo.
L’irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L’ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c’erano gli americani, sia a Bassora dove c’erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza.
L’esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un’amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L’impatto dell’intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l’Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L’intervento americano con l’appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia.
Del resto non è giusto che i soldi risparmiati dai governanti tagliando sulle pensioni, sul welfare e sulle altre funzioni utili ai governati vadano solo a rimpinguare il patrimoni delle banche. That's Italy.
Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2916
Dopo il successo di pubblico, per The Floating Piers è arrivato il momento di fare i conti con i costi sostenuti dalle casse pubblicheper rendere possibile la realizzazione dell’evento ideato dall’artista bulgaro Christo. Quanto si è speso per portare sul lago di Iseo 1,2 milioni di visitatori in 16 giorni e per garantire loro sicurezza e assistenza? A farsi carico dell’installazione della passerella per circa 15 milioni di euro è stata la società The Floating Piers srl, legata allo stesso Christo. Ma le attività aggiuntive di pubblica sicurezzasono state finanziate dallo Stato, mentre i servizi sanitari, la vigilanza e i trasporti sono toccate a Regione Lombardia ed enti locali, che in tutto hanno messo in budget 3 milioni di euro. Di questi, una quota da 900mila euro verrà coperta grazie a un contributo messo a disposizione dall’artista: secondo l’assessore lombardo allo Sviluppo economico Mauro Parolini, 300mila euro sono destinati alla Regione, 600mila alla Provincia di Brescia e altri enti locali. Legambiente denuncia però i costi eccessivi di un evento che ha generato “due settimane di caos, ritardi e rincari”, con una serie di conseguenze negative che secondo l’associazione ambientalista superano i vantaggi dovuti all’indotto e alla promozione turistica.
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Il dettaglio delle spese sostenute dal Pirellone lo ha fornito martedì l’assessore Parolini rispondendo a una interrogazione del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella. Per il potenziamento del trasporto ferroviario di Trenord, che ha consentito di portare a Sulzano 460mila passeggeri, gli oneri in più rispetto al servizio ordinario sono stati 218mila euro, “coperti in parte o in toto dalla vendita dei biglietti”, ha precisato Parolini, ancora in attesa del consuntivo sui ricavi. Circa 420mila passeggeri sono stati invece trasportati grazie alle imbarcazioni, senza spese aggiuntive per Regione Lombardia in quanto il servizio rientra nelle funzioni di programmazione in capo all’Autorità di Bacino.
Per quanto riguarda i servizi sanitari garantiti ai visitatori, con in media 100 interventi di soccorso al giorno, la regione ha stanziato 535,5 mila euro: 330 mila per i soccorsi extra ospedalieri gestiti dall’Areu (Agenzia regionale emergenza urgenza), 65mila euro per l’igiene e la prevenzione sanitaria in capo alle Ats (le vecchie Asl) di Brescia e Bergamo, 80mila euro per il pronto soccorso ospedaliero dell’Asst della Franciacorta e infine 60,5 mila euro per potenziare l’assistenza primaria fornita dalle Ats di Brescia, di Bergamo e della Montagna. A tali spese vanno aggiunti i 400mila euro necessari per pagare le trasferte dei vigili arrivati sul lago di Iseo da altre città lombarde, come Milano: 300mila euro verranno coperti con il contributo della società di Christo. Restano i 2.289 volontari della protezione civile: per quelli di loro che sono rimasti a casa dal lavoro, il Pirellone dovrà farsi carico dei versamento dei contributi previdenziali per una spesa massima stimata in 150mila euro.
Sforzi che hanno reso possibile un evento che il governatoreRoberto Maroni ha definito “un modello”, ma che ha attirato le critiche di Legambiente. Sotto accusa gli oltre due milioni spesi da Regione ed enti locali a cui, fa notare Dario Balotta, responsabile Trasporti di Legambiente Lombardia e presidente del circolo del lago di Iseo, “vanno aggiunti i costi sostenuti dallo Stato per garantire la presenza di agenti di polizia stradale, carabinieri, guardia di finanza e guardia costiera con mezzi nautici. Ci sono poi i costi dell’inquinamento ambientale. E quelli provocati dallacongestione con cui hanno avuto a che fare i 30 mila abitanti della zona, che in base a uno standard internazionale per valutare il valore del tempo abbiamo stimato sui 16 giorni in almeno 8 milioni”. La rendicontazione dell’assessore Parolini, secondo Balotta, non tiene poi conto di un altro aspetto: “La spesa sostenuta per assistere la maggior parte dei visitatori soccorsi, che sono stati portati nella clinica privata di Ome, più vicina alla passerella rispetto alle strutture pubbliche. Una spesa che Legambiente stima in altri 340mila euro”.

Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)
Dito puntato, ancora una volta, da papa Francesco contro tutti i Paesi occidentali di area Nato, ma anche contro le monarchie saudite e la Russia, che vendono armi alla Siria o ai ribelli anti Assad mentre contemporaneamente invocano la pace. «Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?», chiede retoricamente il pontefice in un videomessaggio diffuso ieri in occasione del rilancio della campagna per la pace in Siria («Siria, la pace è possibile») promossa dalla Caritas Internationalis, organismo a cui aderiscono 165 Caritas di tutto il mondo, tra cui quella italiana. «Mentre il popolo soffre – si ascolta nel videomessaggio di Francesco –, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace».
Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad (fra cui si annidano anche gli jhiadisti dell’Isis e di Al Qaeda), ma anche la Russia di Putin. E qualche giorno fa il New York Times ha rivelato che una grande quantità di armi che la Cia – in collaborazione con i sauditi – aveva destinato ai ribelli siriani contro il regime di Assad è stata rubata dai servizi segreti giordani e collocata sul mercato nero.
Si tratta di una guerra, ricorda il papa nel videomessaggio, «oramai entrata nel suo quinto anno. È una situazione di indicibile sofferenza di cui è vittima il popolo siriano, costretto a sopravvivere sotto le bombe o a trovare vie di fuga verso altri Paesi». E a questo proposito la Rete italiana per il disarmo rilancia il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel («Border wars») che denuncia come «le principali aziende europee di armamenti coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente sono le stesse aziende che stanno traendo profitti dalla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea». Insomma un affare doppio.
Non è la prima volta che papa Francesco denuncia il commercio internazionale delle armi come causa prima delle guerre. E non è la prima volta che interviene sulla Siria, da quando, nel settembre 2013, alla vigilia di quello che sembrava un imminente attacco occidentale alla Siria di Assad, scrisse a Putin (contrario all’azione militare) che presiedeva un G20 a San Pietroburgo per chiedere ai capi di Stato e di governo di abbandonare «ogni vana pretesa di una soluzione militare» contro Damasco; e pochi giorni dopo promosse una giornata di digiuno e una grande veglia per la pace in piazza San Pietro che contribuì a fermare l’intervento armato.
«Appelli puntualmente inascoltati – spiega Giorgio Beretta (Rete disarmo) – le responsabilità sono tutte dei governi occidentali che continuano a vendere armi nonostante siano ben coscienti delle continue violazioni dei diritti umani in Medio Oriente. Se vogliamo fermare le guerre, il primo passo è la trasparenza e un controllo rigoroso sull’export di armamenti, che invece è in aumento, come confermano i recenti contratti firmati da Finmeccanica e Fincantieri» Ancora papa Francesco: «Non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione dì un governo di unità nazionale. La pace in Siria è possibile!».
«Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi».
Senzatregua.it, 3 luglio 2016
L’attentato terroristico in Bangladesh, con la morte di nove italiani merita una condanna senza appello. Quella del terrorismo islamico finanziato e sostenuto per anni dai settori imperialisti per la destabilizzazione di interi paesi, che uccide persone innocenti, che vuole far piombare l’umanità in un medioevo senza precedenti. Un terrorismo che colpisce alla rinfusa, che non ha nulla a che fare con rivendicazioni progressiste e neanche lontanamente sostenibili o giustificabili, che è riflesso dell’imperialismo e non certo lotta per l’emancipazione, la liberazione dei popoli.
Ma che ci facevano tanti italiani imprenditori, o lavoratori del settore tessile in Bangladesh? L’orribile attentato di pochi giorni fa - orribile al pari di tutti gli altri attentati dell’Isis di questi mesi, in qualsiasi parte del mondo, e quale sia la nazionalità delle vittime - ha colpito diversi cittadini italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile. Non un caso isolato, ma una frequentazione sempre maggiore quella del sud est asiatico per le imprese tessili della penisola, che getta ormai un’ombra sul made in Italy, divenuto a tutti gli effetti marchio di sfruttamento planetario.
Nell’imbarazzo dei media e della stampa, che si sono tenuti ben lontani dall’approfondire questa questione, viene fuori ancora una volta quel legame tra le peggiori condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti e un settore che è insieme all’agroalimentare il fiore all’occhiello della produzione nazionale, che vanta una forte tradizione imprenditoriale, di qualità e riconoscimento mondiale. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali abbia comportato una crisi del settore e delle piccole aziende italiane delle filiere dei grandi marchi, che oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. Il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.
«Nel periodo gennaio-febbraio 2016 - ha scritto un dispaccio dell’AdnKronos - ammontava a 274 mln il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 mln di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, rappresentando circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»
Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento.
Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno, nonostante le grandi rivendicazioni delle organizzazioni sindacali e operaie di quei paesi, sempre più coscienti della condizione di sfruttamento.
Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.
La particolarità del tessile si evince da un dato che lo differenzia da altri settori industriali. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc, producono principalmente per il mercato locale , «in molti comparti del Made in Italy, invece – scrive l’Istat nel suo rapporto annuale nel 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…» Tradotto si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy” ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia, per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole falliscono, o si convertono in una sorta di agenti intermedi che fanno anche loro questo tipo di lavoro, per conto di grandi gruppi, che così mascherano le loro responsabilità adducendo rapporti di terzi intermediari e la loro non diretta responsabilità.
Sappiamo cosa accade, sappiamo quanto gravi siano le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy in tutto questo. Quando apriremo una riflessione collettiva? In Bangladesh oggi ci sono migliaia di operai sottopagati che lavorano in condizioni misere. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile. E le imprese italiane lo sanno. E non sono lì a fare filantropia.
«Altraeconomia, 4 luglio 2016 (c.m.c)
Le frontiere europee hanno bloccato i migranti ma non i profitti delle principali aziende di armamenti. Anzi, la crescente militarizzazione dei confini dell’Unione europea - un mercato stimato in 15 miliardi di euro nel 2015 e che nel 2020 toccherà quota 29 miliardi di euro- ha alimentato i ricavi di quelle imprese già coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente.
A rivelare il paradosso è il report “Border Wars: The Arms Dealers profiting from Europe’s Refugee Tragedy” (Frontiera di guerra. Come i produttori di armamenti traggono profitto dalla tragedia dei rifugiati in Europa) promosso dalla Ong olandese “Stop Wapenhandel”, pubblicato dal Transnational Institute (Tni) e rilanciato in Italia dalla Rete Italiana per il Disarmo.
Nelle 60 pagine del report, l’autore Mark Akkerman, membro di Stop Wapenhandel, va oltre la retorica degli annunciati di programmi di «contrasto all’immigrazione clandestina» e misura, nome per nome, affare per affare, gli interessi dei colossi della sicurezza dei confini dell’Ue.
Tra questi spiccano come detto aziende che producono sistemi militari del calibro di Airbus -64 miliardi di euro di ricavi nel 2015-, Leonardo-Finmeccanica (13 miliardi di euro il fatturato dello scorso anno), Thales, francese, 14,1 miliardi di euro a bilancio 2015, Safran e del gigante del settore tecnologico Indra. «Tre di queste imprese (Airbus, Finmeccanica e Thales) -evidenzia il rapporto- sono anche tra le prime quattro aziende europee esportatrici di sistemi militari: tutte sono attive nel vendere i propri sistemi ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, alimentando i conflitti che sono all’origine della fuga di intere popolazioni in cerca di rifugio. Tra il 2005 e il 2014, gli Stati membri dell’UE hanno autorizzato a queste ed altre aziende oltre 82 miliardi di euro di licenze per esportazioni verso Medio Oriente e Nord Africa».
Il sostegno economico alla Fortezza Europa non conosce austerità. Tra il 2004 e il 2020, infatti, l’Unione europea ha stanziato circa 4,5 miliardi di euro a favore di misure di sicurezza dei confini degli Stati membri. E l’agenzia di controllo delle frontiere Frontex, nata nel 2005, ha visto crescere il proprio bilancio del 3.688% al 2016, portato da 6,3 milioni a 238,7 milioni di euro. Inoltre, all’industria degli armamenti e della sicurezza sono state destinati gran parte dei finanziamenti di 316 milioni di euro messi a disposizione dall’Ue per la ricerca in materia di sicurezza.
In materia di finanziamenti per la ricerca, peraltro, le aziende non europee ritenute meritevoli di riceverli sono tutte israeliane, in forza di un accordo del 1996 tra l’Unione europea e Israele. «Queste aziende hanno svolto un ruolo nel fortificare i confini di Bulgaria e Ungheria, promuovendo il know-how sviluppato con l’esperienza del muro di separazione in Cisgiordania e del confine di Gaza con l'Egitto -spiega l’autore del rapporto-. L’azienda israeliana BTec Electronic Security Systems è stata selezionata da Frontex a partecipare al laboratorio svolto nell’aprile 2014 su ‘Sensori e piattaforme di sorveglianza delle frontiere’: l’azienda vantava nella sua domanda di applicazione via mail che le sue ‘tecnologie, soluzioni e prodotti sono installati sul confine israelo-palestinese’».
E intorno alle “frontiere di guerra” si sarebbe condotta anche una costante operazione di lobby. «L’industria degli armamenti e della sicurezza ha contribuito a definire la politica europea di sicurezza delle frontiere con attività di lobby e per mezzo delle abituali interazioni con le istituzioni europee per le frontiere e anche delineando le politica per la ricerca -si legge nel report-. L’Organizzazione europea per la Sicurezza (EOS), che comprende Thales, Finmecannica e Airbus, ha fatto pressioni per una maggiore sicurezza delle frontiere. Inoltre, molte delle sue proposte, come ad esempio la spinta ad istituire un’agenzia europea per la sicurezza delle frontiere, sono diventate politiche europee: è il caso, ad esempio, della trasformazione di Frontex in ‘Guardia costiera e di frontiera europea’ (European Border and Coast Guard - EBCG). Infine le giornate biennali di Frontex/EBCG e la loro partecipazione a tavole rotonde sul tema della sicurezza e ai saloni fieristici dedicate ai sistemi militari e alla sicurezza garantiscono una comunicazione regolare e una naturale affinità per la cooperazione».
«Purtroppo non è stupefacente vedere anche Finmeccanica-Leonardo tra i principali destinatari di questa enorme massa di fondi -riflette Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo– grazie ai quali l'azienda controllata dallo Stato italiano può accrescere il proprio fatturato. Mentre, al contrario, sarebbero necessari investimenti di tutt'altra natura per ottenere soluzioni vere alle dinamiche migratorie attuali. Fin da subito la nostra Rete ha commentato negativamente la crescita dei fondi per una risposta meramente muscolare e di controllo (comunque impossibile) delle frontiere. Una scelta che è ancora più miope ed insensata se si va a considerare l'enorme numero di profughi che stanno scappando dalle guerre alimentate dalle armi
prodotte e vendute da queste stesse industire militari».

Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)
Confindustria affila le armi in vista del referendum costituzionale di ottobre e, dopo la dichiarazione di sostegno alla riforma, pubblica le ricadute negative di una possibile vittoria del No sull’economia.
Nessun riferimento a uno studio che le sostenga, numeri un po’ a casaccio verrebbe da dire.
A leggere le slide (sic) del Centro Studi di Confindustria, la vittoria del no provocherebbe in tre anni: una riduzione del Pil dell’ 1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Una presa di posizione che pare contraddire un primo principio di realtà: il Jobs Act, il pareggio di bilancio, le politiche fiscali a sostegno delle imprese sono state perseguite dentro un quadro istituzionale, quello attuale, che improvvisamente diviene un intoppo per il consolidamento dei benefici, legati alle suddette riforme. Dalle stime di Confindustria non è chiaro quali siano non tanto i nessi causali, impossibili da determinare ex ante, quanto le associazioni tra le variabili studiate.
I numeri presentati esulano da qualsiasi valenza «scientifica» a tal punto che non è neppure chiaro se tali effetti siano dovuti al calo di fiducia delle famiglie oppure alla evocata fuga di capitali supposta in caso di vittoria del No oppure alla somma tra i due effetti. Sarebbe utile capire in che misura l’abolizione del senato elettivo, la riduzione dei tempi di discussione parlamentare, l’accentramento delle competenze statali e la conseguente perdita di autonomia delle regioni possano incidere sulla crescita del paese. Interrogativi che non trovano una risposta nelle stime catastrofiste che l’associazione degli industriali consegna al dibattito pubblico.
E, in mancanza di un’indicazione di merito, il sospetto che l’obiettivo di Confindustria non sia quello di approfondire i contenuti della riforma, ma di confondere le acque e inquinare la discussione per difendere un rapporto organico con l’esecutivo appare tutt’altro che infondato.
D’altronde il primato dell’esecutivo sul legislativo, la predominanza del governo sul Parlamento, rispondono ad una torsione «governista» del sistema istituzionale, che renderebbe più semplice al blocco industriale rendere immediatamente «esecutive» le proprie direttive. L’accento sugli effetti negativi del No sulla stabilità del sistema politico italiano alludono ad una concezione ancillare delle istituzioni democratiche rispetto alle esigenze dei mercati.
A carte scoperte Confindustria ribadisce che l’utilità delle riforme va letta in funzione degli interessi che essa rappresenta. Inoltre, l’organizzazione padronale palesa anche la propria posizione a tutela delle prerogative di un «capitalismo straccione», come ebbe a definirlo Gramsci. Si nota infatti che in nessun discorso si punta sulla rilevanza degli investimenti ai fini di una maggiore crescita, né quali investimenti, se non per dire che diminuiranno.
Ma gli investimenti privati diminuiscono ormai da altre un decennio e le riforme strutturali tanto agognate hanno solo mosso qualche micro decimale, a dimostrazione che il tessuto imprenditoriale italiano non ne è interessato.
L’allarmismo dei Confindustriali si presenta più come una minaccia, tutta politica, che come meccanismo economico. Inoltre, il richiamo alla stabilità del quadro istituzionale è in sé ambigua, se non collegata agli esiti che pone sull’azione di governo e sulla qualità della discussione politica. Avere un esecutivo più forte e meno vincolato alla dialettica parlamentare può avere effetti negativi sull’azione di governo, indebolendo la discussione politica, il confronto e il conflitto nel merito delle proposte. Non è affatto detto che avere un esecutivo forte garantisca un percorso di crescita economico.
E sorprende la disinvoltura con cui Confindustria associ l’effetto Brexit al voto referendario, proponendo una correlazione sistemica tra due fenomeni che non hanno alcuna relazione politica. Votare no al referendum costituzionale significa semplicemente conservare l’attuale quadro istituzionale e nulla ha a che fare con la permanenza del nostro Paese nell’Unione Europea.
Se il Centro Studi volesse prendersi poi la briga di guardare da vicino le ragioni che hanno spinto la Gran Bretagna fuori dall’Ue noterebbe che è proprio dentro un sistema politico fondato sul primato del governo, e sulla rispondenza dei governi laburisti e conservatori ai principi tecnocratici, che si è consumata la Brexit.
Nessuno certo vieta a Confindustria di assumere posizioni politiche, l’unica avvertenza è di fornire alle proprie valutazioni quel briciolo di rigore metodologico, che consente di distinguere un punto di vista parziale dalla mera civetteria ideologica.
«Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra».
La Repubblica, 5 luglio 2016 (m.p.r.)
Sorridono con la mitraglietta in mano, la kefiah bianca e rossa in testa. Belle facce da studenti. Gli avranno pure detto di sorridere per la foto. Tuttavia è innegabile che c’è qualcosa di spontaneo, d’allegro, di scanzonato in quei sorrisi. Parlano della loro giovinezza. Sono i terroristi di Dacca. Ecco, il sorriso. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia al quartier generale dei Marines americani a Beirut, si ricorda perfettamente che il 23 ottobre 1983 l’autista alla guida del camion carico di esplosivo, che uccise 241 suoi commilitoni, lo guardava fisso negli occhi e sorrideva. Un sorriso indelebile, che sarebbe poi diventato famoso con il nome di farah al-ibtissam, ovvero “il sorriso della gioia” di tutti i seguenti attentatori, degli uomini-bomba, fino a questi giovanotti della capitale del Bangladesh. La domanda che ci facciamo è: perché? Per quale ragione dei ragazzi colti, studiosi, benestanti, gioventù dorata di un paese poverissimo, che vive in bilico sul delta del Gange, vanno a morire così, con quella violenza rituale sulle loro vittime innocenti.
In un suo libro, L’uomo in rivolta, Albert Camus ha fornito una spiegazione plausibile per capire le ragioni di quel gesto: solo il suicidio permette di superare l’interdetto a uccidere uomini e donne innocenti. Il morire, scrive, giustifica l’uccidere. Utilizzando un paradosso, in cui Camus è maestro, sostiene che la volontà di morire degli attentatori dimostra da sola la credenza nella giustezza della propria causa. Gli attacchi suicidi come questo ennesimo di Dacca si giustificano da sé. Il sacrificio è ragione sufficiente per la missione suicida, e anche la spietatezza che comporta verso il “nemico”, sia esso un soldato combattente, oppure l’avventore di un bar o il cliente di un ristorante. In un libro istruttivo, La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), Francesco Marone spiega come la purezza sia il primo tassello di questa visione che a noi appare paranoica, fuori dalla realtà. In realtà non lo è: appartiene a un altro ordine mentale, quello della follia. Morire suicidi, afferma Camus, è la conferma della propria purezza.
Questa parola, “purezza”, non si usa più in Occidente. Siamo tutti “impuri”, perché ci siamo mescolati, perché non pratichiamo più, come nei primi secoli del cristianesimo, una religione assoluta, esclusiva, in conflitto con l’Impero entro cui è sorta. Chi si può dire “puro”? Eppure questa è la prima parola chiave se si vuole capire cosa c’è nella testa di questi ragazzi di Dacca. Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra. Così è stato per i giovani attentatori del Bataclan, e per quelli dell’aeroporto di Bruxelles e del metrò. Marone sottolinea come non esista un solo profilo psicologico plausibile degli attentatori suicidi. Altri studiosi ritengono invece che qualcosa in comune tra loro ci sia.
Studiando i candidati al martirio della seconda Intifada, quelli che sono stati fermati prima, o che hanno fallito, A. Meari conclude che si tratta di personalità fragili, dipendenti, ragazzi che soffrono di sensi di inferiorità, d’inadeguatezza, che chiedono conforto ad autorità morali, giovanotti instabili, con tratti depressivi e sindromi post-traumatiche da stress. Seguendo questa descrizione lo scrittore americano John Updike ha narrato in Terrorista (Guanda) la storia di un ragazzo di origine egiziano. Abbandonato dal padre da piccolo, figlio di una donna americana, viene plagiato da un predicatore islamico, che lo spinge a guidare un camion carico di tritolo per un attentato scongiurato all’ultimo dall’amante della madre. Un caso di emarginazione e di frustrazione, ma come mostrano le biografie degli attentatori di Dacca la maggior parte di loro proviene da classi medio-alte, ha studiato. Se l’emarginazione economica e sociale fosse la principale fonte del terrorismo suicida nel mondo, questo sarebbe pieno di suicidi, ha scritto con cinico realismo un economista. L’esempio di Osama Bin Laden, membro di una ricchissima famiglia saudita, è paradigmatico.
Per dare una risposta alla domanda perché lo fanno Michael Ingatieff ha sostenuto che si tratta della “sindrome di Erostato”: il giovane greco che diede fuoco al tempio di Artemide a Efeso per eternare il proprio nome. Lo studioso canadese mette in luce una questione importante: l’atto suicida contiene una promessa: “trasformare una nullità umana in un angelo vendicatore”. Non è cosa da poco in un mondo come il nostro abitato da miliardi di persone senza nome né fama né prospettiva alcuna di perpetuare il ricordo di sé oltre la propria esistenza. La religione fondamentalista assicura anche questo, coltiva l’Erostato che c’è in ciascuno. Questa sindrome contiene tra le altre cose un aspetto narcisistico che viene in luce in ogni atto suicida, in particolare in quello di giovani e adolescenti, quelli che sono in conflitto con il proprio ambiente famigliare, ad esempio paterno. Rohan, uno dei membri del comando di Dacca, ha un padre che è un membro di rilievo del partito governativo, un islamico moderato. Forse non è sufficiente, ma certo deve avere avuto un suo ruolo nel trasformare lo studente del college Scholastica in un feroce tagliagole.
Il fondamentalismo islamico oggi è la più pericolosa ideologia religiosa presente nel mondo e coltiva la cultura del sacrificio, dove la promessa del Paradiso appare una componente significativa di una miscela sconosciuta a noi occidentali secolarizzati, laicizzati, distanti da ogni idea di sacrificare la propria vita per un ideale. Cosa che fino a due secoli fa aveva invece corso anche da noi. Senza tornare alle origini del cristianesimo, alle vicende ereticali, ai conflitti religiosi che per tre secoli hanno insanguinato l’Europa cristiana, basta pensare al fideismo politico dell’inizio del Novecento, agli ideali socialisti e comunisti, dove l’individuo era nulla e il progetto collettivo tutto. Il sacrificio come strumento d’azione, metodo e forma della lotta. La religione, nella sua forma islamica, torna di colpo protagonista del nostro presente.
Per capire come funzioni tutto questo, bisogna rivolgersi alle pagine di un autore che ha conosciuto questa violenza sulla propria pelle. Prima ancora di essere messo al bando dalla fatwa degli ayatollah iraniani, Salman Rushdie ha raccontato in I versi satanici la storia di una santa islamica, una ragazza bellissima di nome Ayesha, che si trasforma in una mistica e una visionaria. Presa dal suo furore religioso, Ayesha trascina con sé la gente di un piccolo villaggio indiano: li convince che potranno raggiungere la Mecca attraversando il Mar Arabico che si aprirà davanti a loro come davanti a Mosè. Un solo uomo, il maggiorente ricco del villaggio, uomo laico, s’oppone. Alla fine Ayesha e gli uomini e le donne che la seguono entrano nel mare e scompaiono alla vista. L’uomo cerca di salvare la moglie e si tuffa. Sviene. In ospedale è sentito dalla polizia. Accanto a lui un altro sopravissuto, un uomo che ha creduto in Ayesha. Entrambi sono convinti che le acque si sono aperte e la ragazza ha camminato lì in mezzo all’asciutto, e la gente con lei. I poliziotti spazientiti li minacciano di far loro vedere i cadaveri gonfi. Il fedele risponde: «Potete farmi vedere quello che volete ma io ho visto quello che ho visto. La mia vergogna - aggiunge - è che io non sono stato degno di accompagnarli nel viaggio: le porte del Paradiso si sono chiuse davanti a me». Ecco cosa c’è dietro a quel sorriso. Difficile smontare la convinzione dei visionari. Che fare? Opporre follia alla follia? Il problema che ora si pone non è piccolo e neppure indolore per il laico e razionale Occidente.
«Sono 1800 le donne uccise , in famiglia o all'interno della coppia, dal 2005 ad oggi. La criminologa: “Gli assassini bruciano le loro vittime perché è come se ammazzassero due volte”
». La Repubblica, 4 luglio 2016 (c.m.c.)
Ancora una donna data alle fiamme, cosparsa di alcol, incendiata come carta straccia da buttare. Punita col fuoco davanti ai bambini di uno e tre anni in lacrime perché osava protestare per i continui maltrattamenti. Ma anche una donna che, portata in ospedale, ha cercato di negare le violenze, di difendere l’uomo che diceva di amarla e l’aveva ridotta in prognosi riservata, col corpo straziato, coperto di ustioni. È accaduto sabato sera a Tuglie, in provincia di Lecce, dove il compagno, che all’ultimo aveva dato l’allarme, è stato poi arrestato.
E la memoria corre a Sara Di Pietrantonio, la ventiduenne romana strangolata e bruciata, abbandonata in un cespuglio a fine maggio come una bambola vecchia dall’ex fidanzato che non accettava di essere stato lasciato. Sara e le altre. Perché si ripetono in questi mesi i casi in cui è il fuoco l’arma scelta per punire la donna che ha osato ribellarsi o deciso di andarsene: Lecce, Roma, Caserta, Pozzuoli, Caorle. Giovani e pensionati, italiani e stranieri, borghesi e senza tetto hanno usato benzina, alcol, liquido infiammabile generico.
Così recitano i rapporti di polizia degli ospedali. «Come se volessero cancellare le loro donne senza neppure sporcarsi le mani con il loro sangue», sottolinea Anna Costanza Baldry, criminologa, docente di psicologia alla seconda università di Napoli che da anni lavora contro la violenza alle donne.
Sara e le altre, vittime di mariti, fidanzati che non si vogliono arrendere alla fine di una storia. Sono 63 le donne morte dall’inizio dell’anno uccise da chi sosteneva di amarle. Centinaia quelle aggredite, ferite, vittime di stalking. Questo raccontano i dati ufficiali del 2016, in lieve calo, cifre che non fotografano però la realtà per intero, vista la quantità di vittime che non denuncia e che anche in ospedale, come a Tuglie, nega nel timore di nuove violenze.
Troppa la paura di non avere un luogo sicuro dove rifugiarsi prima che il colpevole venga condannato. Perché siamo in un Paese dove da un lato il ministero promuove camper che gireranno per le città per convincere le vittime a denunciare, mentre dall’altro si tagliano i fondi ai centri antiviolenza che le accolgono, le ospitano una volta in fuga dalle case e dai compagni che le abusano.
«Sono molte le donne vittime di stalking che mi hanno raccontato di essere state minacciate, di essersi sentite urlare: io ti do fuoco» spiega Baldry. «Per l’uomo è come dire: io decido di eliminarti, di annullarti, eri cenere e cenere ritornerai. Mi prendo il ruolo di dio, è un’estrema assunzione di potere. E di vendetta: perché chi lo fa sa di procurare una morte lenta, dolorissima. Perché è una decisione presa due volte, quando si appicca il fuoco e quando si sceglie di non intervenire, di non buttare una coperta addosso alla moglie, alla fidanzata in fiamme. Una doppia crudeltà, un gesto primordiale, come primordiale è il fuoco, la sua paura, la sua fascinazione, anche se non è detto che chi compie questo gesto abbia fatto tutti questi pensieri, ma semplicemente ha agito di istinto, con l’arma più a portata di mano».
E davanti a questa violenza, secondo l’esperta psicologa, non ci sono leggi più severe capaci di far desistere chi diventa assassino perché incapace di accettare il libero arbitruo altrui. E sono ancora tanti in Italia, anche se i dati del ministero dell’Interno parlano di un 20 per cento in meno di femminicidi, 63 a 80, rispetto ai primi sei mesi del 2015.
I dati dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (Eures) parlano invece di quasi 1800 donne uccise dal 2005, il 71 per cento in famiglia, e di queste il 67per cento all’interno della coppia. Una su quattro da un ex marito o compagni. I femminicidi hanno avuto nel 40,9% dei casi un movente passionale, e nel 21,6% sono stati originati da liti.
Le armi più utilizzate sono state quelle da taglio (32,5%) o pistole (30,1%) mentre il 12,2% dei killer ha fatto uso di “armi improprie” (in questa percentuale rientra l’uso del fuoco), il 9% ha strangolato la vittima e il 5,6% l’ha soffocata. Nel 16,7% dei casi, il femminicidio è stato preceduto da “violenze note” ma solo l’8,7% è stato denunciato. Come dire, una volta su due botte e maltrattamenti sono rimasti segreti. Chiusi dentro alle mura di casa. Fino a quando non è stato troppo tardi.

«». La Repubblica
La notizia della Gran Bretagna fuori dall’Europa unita è stata indubbiamente una doccia fredda per molti. È evidente che le istituzioni nate dal sogno di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Robert Schuman non riescano a intercettare il desiderio di futuro di una popolazione europea impaurita da quasi dieci anni di crisi economica, da un’emergenza migratoria alimentata da politiche poco lungimiranti e da un modello di welfare inclusivo ormai profondamente minacciato.
Come siamo arrivati qui? Lasciando da parte per un attimo le questioni strettamente economiche, che molto sono state trattate in questi giorni, credo che non si possa non tornare al tema centrale di ogni ordinamento politico e sociale: la democrazia e il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni. Il progetto europeo è oggi sotto lo scacco della finanza: tutto si muove perché «lo chiedono i mercati» e troppo spesso i cittadini appaiono come accessori di meccanismi economici implementati lontano dagli organi di rappresentanza. L’economia deve invece tornare a essere un mezzo e non un fine.
Emblematico di questo il fatto che Juncker, a meno di una settimana dal voto britannico, si sia affrettato a ribadire che le trattative sui due accordi commerciali con Usa e Canada, il Ttip e il Ceta, continueranno senza battute di arresto e che sono questioni che riguardano l’Europa e non gli stati nazionali, dunque dal suo punto di vista non necessitano di ratifica da parte dei parlamenti.
Posto che si tratta di un’impostazione discutibile anche sul piano giuridico, dato che la salute pubblica è competenza degli stati nazionali e che Ttip e Ceta, occupandosi anche di cibo, rientrano pienamente in questo ambito, stiamo comunque parlando di due accordi che avranno un enorme impatto sulla vita degli europei, che modificheranno il quadro di ciò che si può o non si può fare e che incideranno su molti aspetti della quotidianità dei cittadini.
A fronte di questa rilevanza, poco o nulla è stato dibattuto in sede pubblica, i documenti sono stati segreti per molto tempo e solo a seguito della pressione della società civile iniziano ora ad essere resi pubblici, seppur ancora parzialmente. Non è questa l’Europa dei cittadini, e non è da questa Europa che possiamo ripartire.
Se rimuovere i dazi doganali e le tariffe può avere un senso per quanto riguarda manufatti e servizi, per ciò che concerne il cibo bisogna stare molto attenti, perché si parla di standard di qualità differenti, si parla di tutela di prodotti territoriali, si parla di parametri di sicurezza alimentare, si parla di metodi di produzione.
La ratio che anima Ttip e Ceta è quella di eliminare le barriere tariffarie e non tariffarie che rallentano o rendono costosi i commerci tra le due sponde dell’Atlantico. Ma che significa barriere non tariffarie? In sostanza si tratta delle normative, che con il Ttip e il Ceta dovrebbero trovare un terreno di armonizzazione per raggiungere standard comuni. Ma normative significa diritti e tutele per i cittadini, dunque materia quanto mai delicata e intrinsecamente “democratica”.
Armonizzare due approcci giuridici radicalmente differenti (gli Usa adottano il principio del rischio accettabile, gli europei quello di precauzione definito alla conferenza di Rio nel 1992) rischia infatti di determinare un livellamento verso il basso, ovviamente il tutto sempre in nome della facilità dei commerci.
Per fare un esempio, in Europa è necessario etichettare i prodotti che contengono organismi geneticamente modificati, norma che invece non vale per gli Stati Uniti. In un caso come questo, che significa armonizzare? E se invece parliamo di ormoni utilizzati nell’allevamento della carne, che in Europa sono vietati e oltreoceano no, come la mettiamo? Per non parlare delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine europee, che al momento confliggono con il fatto che in Canada e Stati Uniti è permesso produrre e vendere vini che recano in etichetta nomi come Champagne o Porto e addirittura Prosciutti di Parma, in cui la città emiliana è diventata marchio registrato.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma ciò che qui interessa è che, nella definizione dei criteri di trattativa, il coinvolgimento democratico è pari a zero: non c’è dibattito sui metodi, non c’è dibattito sul merito, non c’è nemmeno dibattito sull’opportunità o meno di siglare accordi di questo genere.
La maggior parte del cibo che produciamo, vendiamo e mangiamo è sicuro grazie all’Unione Europea e alle sue norme che, riguardando l’intera comunità senza smettere di operare ai confini nazionali, sono una garanzia per tutti.
Se dobbiamo rimettere in discussione queste conquiste, varrebbe almeno la pena saperlo e poterne discutere apertamente, documenti alla mano. Se così non è, a far implodere l’Unione non saranno stati né il voto britannico né la crisi economica, quanto una cronica mancanza di democrazia operativa che, alla prima occasione, come in Gran Bretagna giovedì scorso, si vede presentare il conto dai cittadini trascurati.
Per comprendere che cosa c'è dietro la strage dei 20 ostaggi trucidati. Articoli di Emanuele Giordana, Simone Pieranni, Matteo Miavaldi,
Il manifesto, 3 luglio 2016
ATTACCO A DHAKA,
UCCISI 20 OSTAGGI
di Matteo Miavaldi
Sconfessata la linea che aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche. Drammatico epilogo dell’attacco nel quartiere diplomatico. La premier Hasina condanna l’attentato e indice due giorni di lutto nazionale
Dopo una notte di trattative fallimentari – ammesso siano mai iniziate veramente – il Bangladesh e il resto del mondo si sono svegliati con un bilancio durissimo dell’attacco alla Holey Artisan Bakery di Gulshan, quartiere diplomatico della capitale bangladeshi Dhaka.
Le vittime civili confermate sono venti: Faraz Ayaz Hossain, Abinta Kabir, Ishrat Akhond, bangladeshi; Tarishi Jain, indiana; Adele Puglisi, Marco Tonda, Claudia Maria d’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Rivoli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti, italiani; sette cittadini giapponesi, di cui mentre scriviamo ancora non conosciamo i nomi.
Con altri 13 superstiti (di cui tre stranieri, un giapponese e due cingalesi, fuggiti o rilasciati dai sequestratori, nella serata di venerdì si trovavano tutti nel noto locale «per occidentali», a poche centinaia di metri dalle ambasciate straniere che, in gran parte, occupano la zona di Gulshan, una sorta di ghetto al contrario dove upper class bangladeshi e stranieri vivono teoricamente protetti in un’«isola felice» all’interno della megalopoli di Dhaka. Secondo le ricostruzioni dei testimoni oculari, un gruppo di sette uomini armati ha attaccato il locale sparando in aria e lanciando granate al grido di «Allah akbar» («Dio è grande»), prima di chiudersi all’interno tenendo in ostaggio un totale di 33 persone.
Per tutta la notte l’esercito e la polizia bangladeshi hanno tentato una trattativa coi terroristi per la liberazione degli ostaggi, finché intorno alle sette di mattina le teste di cuoio hanno sfondato, uccidendo sei terroristi e arrestandone uno.
Durante la conferenza stampa indetta nella mattinata di ieri, il generale Nayeem ha dichiarato che, con ogni probabilità, le venti vittime del commando erano state uccise già nella nottata di venerdì e portavano segni da arma da taglio. Diversi testimoni tra chi è scappato dagli aguzzini hanno raccontato che il commando chiedeva ai sequestrati di «recitare il Corano»: chi ne era in grado veniva risparmiato, gli altri venivano «torturati». Un modus operandi che segna uno scarto inquietante rispetto alla sequela di attentati di matrice islamica che insanguinano il Bangladesh da oltre cinque anni, prendendo di mira professori universitari, blogger laici, fedeli hindu, cristiani, attivisti Lgbtq e, più recentemente, cooperanti internazionali come l’italiano Cesare Tavella e il giapponese Kunio Hoshi, vittime di attacchi lampo da parte di piccoli gruppi armati di machete, pronti a darsi alla fuga immediata in motocicletta.
La premier bangladeshi Sheikh Hasina ha condannato l’attentato, chiedendosi «che tipo di musulmani siano questi, che uccidono nel mese del Ramadan», mese di pace e di preghiera nella tradizione musulmana. Hasina, indicendo due giorni di lutto nazionale, ha esortato le varie forze politiche a unirsi contro la minaccia del terrorismo nel paese, sconfessando una linea che fino ad ora aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche, utilizzate come strumento per destabilizzare il governo.
Ad assedio ancora in corso, sui media internazionali, è partito il balletto delle rivendicazioni, nel tentativo di inserire l’attentato all’interno di una minaccia estremista netta e riconoscibile. Operazione che però, in Bangladesh, è di difficile esecuzione. Come solito, per quanto riguarda il Bangladesh, l’agenzia di intelligence privata statunitense Site ha divulgato una rivendicazione arrivata da Isis attraverso la propria agenzia di stampa Amaq. Ma nelle medesime ore, hanno notato i media bangladeshi, una serie di account Twitter vicini alla cellula terroristica Aqis (Al Qaeda in the Indian Subcontinent) esaltavano in diretta i fatti tragici di Dhaka.
Oggi è ancora difficile definire precisamente se il commando sia riconducibile a una cellula locale di al-Qaeda o di Isis o, ancora, se abbia agito in modo indipendente per poi lasciarsi cooptare, a livello mediatico, dalle una delle due sigle internazionali. Resta il fatto che un attacco condotto con tale perizia contro la facoltosa comunità expat di Dhaka segna un unicum nella storia del Bangladesh, mostrando in tutta la sua tragicità l’incapacità del governo in carica a Dhaka di opporsi efficacemente al terrorismo islamico locale.
Negando la presenza di Isis o al-Qaeda nel paese, le autorità la scorsa settimana avevano condotto una serie di raid in tutto il territorio, arrestando migliaia di presunti «terroristi» o simpatizzanti. Se doveva essere una dimostrazione di forza per incutere a sua volta terrore nelle «schegge impazzite» bangladeshi, l’epilogo del più grave attentato in territorio bangladeshi della storia recente dovrà obbligare l’amministrazione Hasina a un cambio di strategia netto.
LA PECULIARITÀ ASIATICA
di Simone Pieranni
Strage a Dhaka. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di radicalismo ha successo a causa della disintegrazione delle unità statali, delle identità culturali e per le devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le continue e reiterate lotte politiche interne hanno creato un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali di fare proseliti con sempre maggior successo
L’8 giugno scorso sul manifesto abbiamo pubblicato 8 pagine di uno speciale che aveva come tema proprio «l’Isis in Asia». Grazie alle nostre «antenne» in quelle aree del mondo sapevamo che alcuni paesi erano fortemente a rischio, mentre altri sembravano immuni per caratteristiche culturali e storiche. Altri ancora, come capitato nuovamente al Giappone (almeno sette i morti giapponesi nella strage di Dhaka), hanno «scoperto» il terrorismo islamista a causa delle vittime in attacchi fuori dal proprio paese.
Il Bangladesh è certo uno di quei paesi nel quale – nonostante le autorità lo abbiano sempre negato – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Purtroppo quanto accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non è una vera sorpresa. Le autorità locali hanno sempre minimizzato, eppure solo due settimane fa hanno proceduto all’arresto di 11mila persone sospettate di essere vicine a gruppi terroristici. Va però specificato un punto di partenza rilevante. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di «radicalismo» ha successo per la disintegrazione delle unità statali e delle identità culturali a causa delle devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh non è direttamente la guerra ma la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le reiterate lotte politiche interne a creare un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali ammantate di islamismo di fare proseliti con sempre maggior successo.
E il governo del paese, anziché favorire le attività dei sindacati e delle organizzazioni che lottano per i diritti civili, o di quei singoli o gruppi che si muoverebbero in quella direzione, nega il rischio e anzi colpisce con pugno duro le proteste che nascono da povertà e devastazione sociale, utilizzando i recenti attentati individuali per attaccare le opposizioni. In questo contesto sorgono diversi gruppi che si rifanno più o meno a Daesh o al Qaeda che nel Bangladesh si giocano una fetta importante del «mercato jihadista». Si tratta ad esempio di Jamaat ul Mujahidden Bangladesh o Ansarullah Bangla Team (considerato più vicino ai qaedisti). In Bangladesh il radicalismo vive dunque una situazione particolare, differente da altri contesti, perché nasce in ambito diverso.
Per questo è complicato leggere quanto accade: il terrorismo in Asia è differente da quello di altre zone del mondo e appiattire tutto in un unico blocco di analisi, senza distinguere origini e cause, non aiuta l’esatta comprensione del fenomeno. Un’ultima considerazione: definire, come ha fatto ieri Obama, «inevitabili conseguenze» le centinaia di morti «collaterali» dei raid effettuati con i suoi droni, aiuta davvero poco la condanna e il contrasto di questi efferati crimini.
BANGLADESH,
IL PAESE DELL’INGIUSTIZIA
di Emanuele Giordana
Strage di Dhaka. Salari minimi, scarsa capacità sindacale, pugno duro contro i diritti
Scrivi Bangladesh e dici povertà, ingiustizia, sovrappopolazione (150 milioni su un territorio grande la metà dell’Italia), alluvioni e inondazioni marine devastanti.
Dici Bangladesh e racconti una storia di risentimento sedimentato che diventa spesso violenza politica. Dici Bangladesh e pensi che la politica di quel paese è iperpolarizzata da quasi trent’anni e modellata su due partiti e, soprattutto, da due leader ormai ottuagenarie ma saldamente al potere. A turno: Sheikh Hasina dell’Awami League, un partito laico e nazionalista, e Khaleda Zia del Bangladesh Nationalist Party, organizzazione nazionalista e conservatrice.
Dici Bangladesh e vedi nella forza delle organizzazioni islamiste, a cominciare dalla Jamaat-e-Islami – formazione con status parlamentare – la capacità di raccogliere un consenso che nasce dalla frustrazione legata a un cambiamento che non si avvera e dove l’islam rappresenta una promessa di purezza e riscatto in una nazione che ha a lungo detenuto la palma del Paese più corrotto al mondo. C’è tutto quel che ci vuole per preparare il terreno e il brodo di coltura dove far crescere la trasformazione del risentimento in odio e violenza. Dove è facile insomma reclutare e, per un pugno di rupie, armare mani assassine. La strage del bar è un salto di qualità ma purtroppo non stupisce. La violenza politica è stata una costante in questo paese e negli ultimi anni, benché il governo di Hasina si ostini a negarlo, il brand di Daesh ha fatto parlare di sé molte volte con assassini mirati individuali e addirittura una lista di proscrizione di blogger, attivisti, intellettuali e insegnanti laici da far fuori.
Raccontata così però sarebbe una storia a metà, di quelle che si liquidano in fretta perché il paese è povero, sovrappopolato e per di più ingiusto e musulmano: abbastanza per derubricare il caso a vicenda di ordinaria povertà. Ma il Bangladesh è anche il luogo delle responsabilità nascoste che ancora una volta rimandano le radici dell’ingiustizia sociale a scelte prima coloniali e poi industriali.
Quel paese inizia la sua Storia «indipendente» nel 1947 quando la follia britannica, sostenuta da quella della Muslim League del subcontinente indiano, divide il nascente Pakistan in due Stati che distano tra loro…10 ore di volo. Il Pakistan orientale, abitato da bengalesi musulmani, con l’aiuto dell’India, si stacca dal Pakistan nel 1971 con una guerra sanguinosa le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate (sono stati giustiziati di recente molti capi della resistenza pro pachistana accusati di crimini contro l’umanità).
Il paese ha una solo vera ricchezza, la iuta, il cotone e una rinomata tradizione manufatturiera, che fanno di questo paese un enorme cantiere tessile. Ed è in Bangladesh che in tempi recenti sbarcano le multinazionali del tessile che hanno scelto la delocalizzazione in paesi che lavorano in conto terzi: salari minimi, materia prima di buona qualità a prezzi bassi, scarsa capacità sindacale, governi col pugno duro quando si rivendica un diritto.
Ci sono un nome, un luogo e una data che raccontano bene questa storia: Rana Plaza a Dacca, il 24 aprile del 2013. Un edificio commerciale di otto piani, figlio di abusi speculativi locali, crolla a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio è gravissimo e le operazioni di soccorso richiedono quasi un mese e si concludono il 13 maggio con un bilancio di oltre mille vittime e oltre duemila feriti, molti dei quali ormai menomati e inabili al lavoro.
Quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile e anche il più letale cedimento strutturale accidentale della Storia contemporanea, scoperchia anche le responsabilità di marchi europei, americani, italiani. Scoperchia il tema della sicurezza, dei diritti, dei risarcimenti che non arrivano. Farà aumentare il salario base ma lascerà anche intere famiglie sul lastrico. Eccolo un altro humus pieno di risentimento.
Nel Rana Plaza avevano i loro laboratori fabbrichette locali che lavoravano per grandi marchi internazionali. Loro a fare il lavoro sporco, gli altri a esibire t-shirt a basso prezzo con la griffe. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione (in Italia la Ong «Abiti puliti»), se non si fosse mosso l’Ufficio internazionale del lavoro dell’Onu, la storia si sarebbe dimenticata in fretta. E, in queste ore, pochi la mettono in relazione alla strage di due giorni fa nella capitale. Eppure.
Eppure il Bangladesh è anche questo: la tragedia del Rana Plaza fa firmare a circa 160 compagnie il Fire and Building Safety, un primo passo per mettere in sicurezza strutture e forza lavoro che, nel tessile, conta circa 4 milioni di operai e operaie. Ma, dalle colonne del britannico Guardian, Tansy Hoskins, autrice del saggio Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, avverte che nonostante vi sia un elevato numero di sindacati del settore, sono pochi i lavoratori che vi aderiscono, il che li lascia vulnerabili agli abusi in fabbriche poco sicure.
Anche un sindacato importante come la National Garment Workers’ Federation deve affrontare grandi ostacoli perché per registrare un’organizzazione al Dipartimento del lavoro si deve nel contempo avere come soci un terzo della forza lavoro: insomma se vuoi registrati come attivo in una fabbrica con 10mila lavoratori ne devi avere come soci almeno 3mila… ma in Bangladesh se ti iscrivi rischi – dopo le minacce – il licenziamento. E una volta per strada, da vittima del mercato, è facile diventare il soldatino di qualche Califfo in cerca di nuovi sodali.

Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)
Nessun tempo della storia umana, prima del XX secolo, ha avuto il privilegio di registrare tante dichiarazioni e normative in materia di diritti umani. Salvo poche e brevi eccezioni, mai prima della Dichiarazione universale del 1948 l’umanità era riuscita a distillare e fissare una lingua dei diritti in grado di sostituire tutte le altre parole etiche.
Giustamente l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali, aprendo a Vienna il summit sui diritti umani nel 1993, affermò che essi sono «il linguaggio comune di tutta l’umanità» e persino oggi, sfaldate tutte le grandi ideologie, la narrazione dei diritti è la sola ideologia che resiste.
Le norme internazionali sui diritti umani ancora non riescono ad alleviare in misura sensibile la sofferenza dell’umanità, ma su di esse poggia la legittimazione costituzionale di molti Stati, e grazie a esse i movimenti popolari e i decisori responsabili nel mondo hanno il potere di sfidare le pratiche politiche che producono sofferenza e frantumano la dignità delle persone.
Questo potenziale inestimabile non riesce ancora a umanizzare la politica mondiale, spiega lo studioso indiano Upendra Baxi, ma resta l’unica strategia a nostra disposizione per sfidare quelli che John Berger chiama i gesticolanti nuovi tiranni.
Contro questa genia di inafferrabili profittatori, i protagonisti assoluti della storia globale negli ultimi decenni del secolo scorso, il visionario socialista Lelio Basso orchestrò una straordinaria demarche internazionale con un gruppo di militanti giuristi, politici e intellettuali del nord e del sud del mondo, che il 4 luglio 1976 lanciarono ad Algeri la Dichiarazione universale per i diritti dei popoli.
Bisognava denunciare apertamente la contraddizione violenta tra gli assunti teorici di libertà e la pratica storica degli Stati Uniti, e il discorso di Lelio Basso ad Algeri non cede ad ambiguità: «L’espressione centrale della propaganda americana mondo libero equivale a quella di un modo in cui la libera impresa può agire liberamente senza l’ostacolo delle nazionalizzazioni o di qualsiasi altra restrizione un mondo al servizio di quella alleanza tra multinazionali e intervento statale nell’economia che costituisce il perno dell’attuale politica imperialista».
Riproporre la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli oggi, a quaranta anni dalla sua proclamazione, può sembrare nostalgica memoria di un’idea oramai sconfitta e datata. Viviamo i deliranti effetti di un mondo in cui il diritto retrocede – con l’eccezione del diritto alla guerra (ius ad bellum) – e il potere elitario avanza.
Le Nazioni Unite hanno definitivamente abdicato alla loro funzione, istituzionalizzando al proprio interno la presenza di un settore privato senza briglie, oggi acclamato come partner essenziale per lo sviluppo sostenibile. Gli accordi del commercio internazionale, costruiti per ispirazione di un mercato sempre più organizzato in cartelli, sono l’unica declinazione della diplomazia internazionale di paesi privi di autonomia decisionale.
Le ingerenze esterne sono esercitate su scala globale da sovrani inconoscibili alla guida della speculazione finanziaria, e questa è la sola novità rispetto a 40 anni fa. I 30 articoli della Dichiarazione di Algeri, così asciutti eppure trasudanti buonsenso di civiltà, hanno mantenuto intatta la loro rilevanza. Semmai hanno acquisito nuove pieghe di attualità nel disegnare l’orizzonte di un ordine internazionale oggi più che mai necessario, incardinato sui diritti di popoli protagonisti, e non più vittime marginalizzate dal diritto formale e dalla storia.
Non è affatto commemorativa dunque la conferenza internazionale che la Fondazione Basso e il Tribunale Permanente dei Popoliorganizzano per l’occasione il 4 e 5 luglio a Roma (http://www.fondazionebasso.it/2015/the-universal-declaration-of-peoples-rights/) con un’agenda ambiziosa e un parterre di esperti da tutto il mondo chiamati a una diagnosi severa, ma anche a proposte di ripensamento, per un diritto dal basso.
Attraverso i temi dell’immigrazione, dell’ambiente, dei popoli indigeni, dei diritti salariali delle donne, la conferenza riprenderà concetti come “democrazia”, “autodeterminazione”, “sovranità” per illuminare i limiti del diritto internazionale nel momento in cui le democrazie costituzionali non sono più in grado, ovvero non sono più autorizzate, ad affermare e garantire i diritti fondamentali dei popoli. Un nodo che noi europei abbiamo imparato a conoscere molto bene.

«». La Repubblica
BREXIT ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché non aveva beni da difendere o carriere da coltivare.
Così pensava per esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili posizioni.
Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli “ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare risposta certa.
Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire l’accesso alla decisione politica.
Le avvisaglie della rivolta delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che prende il nome di «teoria epistemica», l’idea cioè che la democrazia sia buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate — producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.
Certo, ammettono i teorici della «democrazia competente», tutti sono potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene.
Per il momento, il ragionamento sulla «democrazia competente» si interrompe qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante.
La rivolta delle élite contro la democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì «la società del narcisismo» e della conseguente disaffezione nei confronti della richiesta popolare di eguaglianza.
Le classi privilegiate, scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in forte tensione con la democrazia medesima: quella della «democrazia della competenza» contro la «democrazia dell’eguaglianza», quella di una cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.
Emanciparsi dal lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad alta voce?», si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?».
Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È Michael Pascoe sulla rivista Business Day che propone queste osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare «l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.
«Quelli che vengono definiti i lacciuoli dai quali sarebbe necessario liberarsi altro non sono che contrappesi per evitare di scivolare nuovamente in un sistema autoritario».
Il Fatto Quotidiano online, 3 luglio 2016 (c.m.c.)
Poche persone sembrano averlo compreso ma il referendum di ottobre è destinato ad essere la scadenza elettorale più importante almeno degli ultimi cinquant’anni: non si decide chi governerà nei prossimi cinque anni il Paese o qualche città, scelte sempre importanti ma modificabili in un arco di tempo tutto sommato non lunghissimo.
In ottobre decideremo la qualità della nostra vita democratica che accompagnerà noi e le future generazione nei prossimi decenni; per essere ancora più espliciti e più realisti, decideremo se potremo ancora usare la parola democrazia per descrivere lo Stato nel quale vivremo.
Il combinato disposto tra l’Italicum, nella sua attuale versione, e la riforma costituzionale elaborata da Renzi e approvata dal Parlamento, mette in discussione non solo scelte che affondano le loro radici nella lotta di Liberazione del nostro Paese, ma i presupposti stessi sui quali si è formata l’idea di Stato democratico nel mondo occidentale.
Infatti il premio di maggioranza attribuito dall’Italicum al partito vincitore del ballottaggio, indipendentemente dal risultato raggiunto nel primo turno, sommato alle modalità di formazione del nuovo Senato, previste dalla controriforma costituzionale (che garantiscono un’ulteriore sovrarappresentazione del partito maggiore rispetto ai risultati ottenuti nelle varie regioni) rendono, tra l’altro, fortemente probabile la possibilità che il partito al governo possa eleggere da solo il Presidente della Repubblica e possa fortemente aumentare il proprio peso nell’elezione dei membri laici del Csm. Ne consegue che in tal modo verrebbero drasticamente posti in discussione sia il bilanciamento tra le varie istituzioni dello Stato, sia l’indipendenza della magistratura dal potere politico.
Se a questo si aggiunge il forte prevalere del potere esecutivo sul potere legislativo, che già si verifica quotidianamente attraverso il moltiplicarsi dei decreti e attraverso la modifica dei regolamenti d’aula e della loro concreta interpretazione, ne consegue che ad essere posto in discussione è lo stesso principio della separazione dei poteri, elemento costitutivo di qualunque Paese democratico dalla Rivoluzione francese in poi. Quanto all’indipendenza del “quarto potere“, l’informazione, questa da noi è ormai da tempo una chimera (salvo poche e coraggiose eccezioni).
Non va inoltre dimenticato che con l’Italicum, cade anche il principio cardine di una testa=un voto. I voti, infatti, con il sistema maggioritario a doppio turno, non avrebbero tutti lo stesso peso, anzi potrebbe anche capitare che il voto attribuito al partito che risulterà vittorioso arrivi a contare, nell’elezione dei parlamentari, addirittura il doppio, se non il triplo, del voto dato ad un’altra lista. L’intreccio tra l’Italicum e la controriforma costituzionale rappresenta quindi un disegno unitario perseguito da Renzi per concentrare l’insieme del potere/dei poteri nelle mani di un solo partito, che, con i capilista bloccati nei vari collegi, significa concretamente la concentrazione di un enorme potere nelle mani di un uomo solo, il leader del partito di maggioranza.
Tutto ciò è ancor più scandaloso se si pensa che la controriforma costituzionale è stata realizzata attraverso un colpo di mano della sola maggioranza senza ricercare alcun confronto con le opposizioni parlamentari, come dovrebbe essere ovvio in materia di modifiche costituzionali.
E’ anche bene precisare che tutto quanto sta avvenendo nulla ha a che vedere con la lotta ai privilegi dei politici, né con la riduzione dei costi della politica: obiettivi sacrosanti ma che possono essere raggiunti con ben altre soluzioni e che vengono invece strumentalizzati dall’attuale esecutivo per altri, inconfessabili, obiettivi politici.
Alla luce di tutto ciò è di inaudità gravità il sostegno fornito a questo abberrante disegno dalla minoranza Pd, la preoccupazione di salvare il posto e di non dispiacere al capo non può portare a sacrificare principi fondanti della democrazia.
Quelli che vengono definiti i lacciuoli dai quali sarebbe necessario liberarsi altro non sono che contrappesi per evitare di scivolare nuovamente in un sistema autoritario; contrappesi costruiti non a caso da chi aveva sperimentato sulla propria pelle la dittatura e aveva studiato a fondo i meccanismi attraverso i quali un partito si era impadronito di tutte le istituzioni del Paese. Oggi perché questo avvenga non è necessario un colpo di Stato coi militari per strada.
«A settant’anni dal processo di Norimberga e dal giudizio sull’informazione di regime, la responsabilità dei media nella costruzione dei discorsi d’odio è ancora centrale. Lo dimostrano la strage di Orlando e l’omicidio di Jo Cox, nel Regno Unito».
Altraeconomia, 1 luglio 2016 (c.m.c)
Un uomo dai tratti duri, completamente glabro a eccezione per i baffetti hitleriani, Julius Streicher apparve quasi irriconoscibile -emaciato, spettinato- sul banco degli imputati del processo di Norimberga, che esattamente 70 anni fa si celebrava per punire i “principali criminali di guerra” del Terzo Reich.
Fu condannato a morte per “crimini contro l’umanità” benché non fosse un militare (ma fu un dirigente del regime nazista). Sin dal 1923 - dieci anni prima dunque dell’ascesa di Hitler - Streicher era infatti soprattutto l’editore di una pubblicazione violentemente antisemita, Der Stürmer (“L’attaccante”), settimanale illustrato che raggiunse la tiratura di quasi 500.000 copie. Finì a Norimberga con l’accusa di essere uno dei principali istigatori dell’odio razziale nei confronti della popolazione ebraica e non solo. Il Tribunale internazionale (una realtà fino ad allora inedita nella storia) riconobbe per la prima volta in maniera lampante la responsabilità dell’utilizzo di talune parole -della parola in generale- in caso di crimini efferati.
Più recentemente, nel 1994, durante i cento giorni delle violenze in Rwanda dove morirono un milione di tutsi e hutu moderati, l’emittente radiofonica “Radio Mille Colline” -nota anche come “radio machete”- fu uno dei più «sinistri esempi di come i media possono favorire lo sterminio di massa» (Fulvio Beltrami).
Mandiamo in stampa questo numero della rivista pochi giorno dopo l’assassinio della deputata laburista Jo Cox -uccisa per le sue posizioni di integrazione e accoglienza- e della strage omofoba di Orlando. Nell’uno e nell’altro caso sono emerse evidenti le responsabilità dei media, dei social network e di tutte quelle persone che, attraverso di essi, hanno alimentato odio e acrimonia: la verità è che a furia di inneggiare ai fucili, qualcuno finisce per imbracciarli davvero (soprattutto se si comprano anche al supermercato).
A partire dal 1936, la casa editrice Stürmer-Verlag di proprietà di Streicher intraprese anche la pubblicazione di libri per bambini. Illustrati, contenevano filastrocche inneggianti la supremazia della razza ariana e i pericoli di “contaminazione”.
È nelle scuole che inizia il lavoro di responsabilizzazione della parola -insieme, o a volte in contrasto, con le famiglie-. Ecco perché forse non diamo mai abbastanza riconoscimento al ruolo indispensabile di maestri e insegnanti, categoria perlopiù bistrattata: il ruolo di chi contribuisce alla formazione della coscienza critica degli individui.
In un Paese di furbi «che cercano sempre di approfittare degli altri» come l’Italia, scriveva Bruno Munari sulla rivista Azione non violenta nel 1998, “se non cambiamo la mentalità dei bambini, se non insegniamo loro che essere furbi è una scelta arida, non riusciremo ad aprire una via verso la civiltà”. Le scuole sono chiuse e riapriranno a settembre.
I bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che vi studiano oggi sono le donne e gli uomini che presto affronteranno le grandi sfide della nostra epoca: il cambiamento climatico, i conflitti, le migrazioni, la disuguaglianza. Emergenze alle quali noi “adulti” ci siamo addirittura assuefatti, e che non fanno quasi più notizia (ma non vale per tutti). Non cambiare mai, non rassegnarci, non abituarci all’orrore.
«Se succedesse a me, l’anestesia del cuore, preferirei morire. Tutta la mia energia è nel fare, nell’agire, perché ho dovere e responsabilità, ma una dose è per difendere la mia capacità di piangere, di urlare e quindi di ridere, se arrivano vivi» ha scritto il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini). Le affronteranno meglio di quanto forse abbiamo saputo fare noi.
«Catania. I dipendenti riaprono lo storico stabilimento di sanitari investendo la cassa integrazione. I suoi pezzi anche nel bagno di Madonna. Ma nel 2007 era arrivata la crisi. Cgil e Federmanager: La tenacia premia
»Il manifesto, 2 luglio 2016 (c.m.c.)
Persino la popstar Madonna si fregiava di avere nella sua camera da bagno pezzi della Cesame. Un marchio internazionale che negli anni Settanta e Ottanta, il periodo d’oro, era sinonimo di qualità, eleganza, cura dei dettagli. Roba da vip, ma soprattutto pezzi che piacevano a tanta gente comune che arredava la propria casa con i sanitari made in Sicily. Una grande azienda, creata nel ’55 nell’area industriale di Catania, diventata leader nel settore della ceramica durante il boom economico toccando le vette dei mercati per poi precipitare, a inizio del nuovo millennio, in un vortice infernale fatto di crisi finanziaria, speculatori, immobiliaristi, cambi di proprietà e burocrazia.
Un crollo verticale, culminato nel fallimento con i libri contabili portati in Tribunale nel 2007, con i lavoratori rimasti per anni senza paracadute sociale mentre pareva senza via d’uscita la diatriba tra i commissari nominati sotto leggi-Prodi e la curatela fallimentare.
Ma si deve proprio ai lavoratori se il marchio dopo nove anni è ritornato alla ribalta. Cesame è risorta dalle ceneri del fallimento e ieri nel vecchio stabilimento, depredato dai vandali e dal tempo, è stata posata la prima pietra: entro dodici mesi la fabbrica sarà completamente ristrutturata e attrezzata per consentire la ripresa della produzione. Dietro al miracolo non c’è un cavaliere bianco, non c’è un fondo di venture capital e non ci sono i milionari cinesi.
C’è la "cooperativa Cesame". Ci sono 80 lavoratori, alcuni storici, che hanno deciso di scommettere sulla loro azienda, mettendoci i propri risparmi e persino quelle quote di cassa integrazione straordinaria che hanno versato sul conto corrente della cooperativa invece di utilizzarle per sopravvivere. Ci hanno creduto e ci sono riusciti. «È stata dura, molto dura e ancora c’è da lavorare: ma siamo molto soddisfatti del risultato», dice Giuseppe D’Aquila, segretario della Filctem Cgil a Catania.
Con la costituzione in cooperativa gli ex dipendenti hanno rilevato il 50% dello storico stabilimento, circa 50 mila metri quadrati, accendendo un mutuo con Unicredit di circa 2 milioni di euro. A garanzia c’è il contratto di sviluppo regionale, lo strumento finanziario creato dalla Regione siciliana proprio su impulso proprio della cooperativa Cesame (ma aperto a qualsiasi altra iniziativa imprenditoriale) che vale 10 milioni di euro: il 50% a fondo perduto (ex fondi Fas), il 25% di finanziamenti in conto capitale con un’operazione fatta con la banca pubblica Irfis e la restante parte con fondi versati dai soci-lavoratori, tra cui 1,7 milioni di Cigs.
A guidare il progetto è Sergio Magnanti, manager e già amministratore delegato dell’azienda ai tempi floridi in cui esportava in 40 Paesi e ora presidente della cooperativa. «Oggi festeggiamo un risultato concreto, dopo anni di sacrifici e di lotte», spiega. «Il confronto con la concorrenza sarà duro, ma questa azienda continua a essere un punto di riferimento per tutto il Sud Italia e un esempio di made in Italy che trova forza nel radicamento territoriale», aggiunge.
Il business plan è ambizioso: raggiungere in tempi brevi almeno un quarto della produzione passata, che si aggirava su circa un milione di pezzi all’anno. Il caso Cesame è stato al centro dell’assemblea annuale di Federmanager Sicilia orientale, a Catania. «Management, istituzioni e lavoratori possono lavorare congiuntamente per salvaguardare il patrimonio produttivo di questa Regione», sostiene Giuseppe Guglielmino.
Per Federmanager il cosiddetto modello workers buyout, che consiste proprio nella ri-acquisizione di un’azienda fallita, in liquidazione o in crisi, da parte dei suoi dipendenti, va sostenuto attraverso un tris di azioni: meno burocrazia, accesso facilitato ai fondi strutturali europei 2020-2040, introduzione di management esperto in azienda, anche temporary.
La burocrazia è stato il grande nemico dei lavoratori, all’indomani del fallimento della Cesame. Era il 2007. Ci sono voluti ben nove anni per poter trasformare l’idea della cooperativa, lanciata subito dopo il default, in un progetto di sviluppo. «Il merito dei lavoratori è stato quello di non arrendersi, di stare sempre un passo avanti alla politica e saperla indirizzare – spiega il segretario della Filctem Cgil D’Aquila – Invece di optare per la strada degli ammortizzatori sociali, hanno scelto quella della salvaguardia della propria azienda».
La Filcetm Cgil valorizza il ruolo avuto dal governatore Rosario Crocetta, dal suo vice Mariella Lo Bello e dal dirigente Attività produttive della Regione, Alessandro Ferrara. «Abbiamo litigato spesso con loro – ricorda D’Aquila – ma va dato atto che hanno creduto e dato fiducia al progetto industriale della cooperativa».
La Repubblica, 2 luglio 2016 (p.d.)
«Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato.
Quando?
Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss.
Non vede nessun segnale di autocritica?
Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti.
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico.
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza.
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania.
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi.
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale.
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile.
A quale atteggiamento si riferisce?
Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso.
C'è chi, come l'ARCI, affronta seriamente la questione dei rifugiati con azioni concrete su vari livelli: dall'espressione immediata e concreta della solidarietà allo sforzo tenace di modificare le mentalità ispirate a un'ingiustificata (e fomentata) paura.
Il manifesto, 1 luglio 2016
ifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti, di Filippo Miraglia con Cinzia Gubbini, per il Gruppo Abele, 112 p., 10€
In genere, interrogati sulle possibili soluzioni di questo problema – quello dell’immigrazione – i competenti si affrettano a precisare: non ho la ricetta pronta; oppure: non ho la bacchetta magica. E invece, l’Arci, la sua ricetta ce l’ha, e il merito di questo libro è soprattutto quello di illustrarla. E se assumiamo questo punto di vista per leggere il libro di Filippo Miraglia, coglieremo immediatamente tutte le virtù della ricetta Arci». Così Luigi Manconi nella prefazione (scritta assieme a Alessandro Leogrande) al libro che Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci e da anni impegnato sul problema, ha scritto in un face à face con Cinzia Gubbini.
È appena uscito per le edizioni del Gruppo Abele, nella – tutta interessante – serie "Palafitte": Rifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti. Manconi ha ragione: fra le tante parole che ogni giorno vengono spese sul tema questo volume ha il pregio di dire cose molto concrete e fattibili, quelle che già ora cercano di fare molte associazioni, in particolare l’Arci, la Comunità di sant’Egidio, le Chiese Valdesi (queste utilizzando il 5 per 1000 previsto nella cartella delle tasse) e tante altre ancora. Un grande impegno della società civile, che certo resta indicazione esemplare ma non può, con ogni evidenza, supplire alla totale cecità e inefficienza delle istituzioni. Ma è un "fare" per nulla inutile: non solo intanto aiuta in concreto persone in carne ed ossa, ma soprattutto serve a far capire cosa si dovrebbe e potrebbe fare. E che non si fa. Non si fa innanzitutto non, o almeno non solo, per via delle reazioni emotive che l’arrivo di tanti individui diversi da noi – per storia cultura comportamenti valori abitudini – produce.
È che queste reazioni sono innanzitutto il frutto di una ben organizzata campagna promossa da chi ha interesse a suscitare paure. E cioè di chi sa bene di aver bisogno degli immigrati, ma li vuole illegali e perciò ricattabili appena cercano di far valere i loro diritti. Se non fosse così non si capirebbe come mai chi possiede imprese dovrebbe rifiutare gli immigrati sebbene tutti i dati ci dicano che, senza di loro, un continente come l’Europa (e ancor più l’Italia), in drammatica decrescita di popolazione, non ha speranza di veder aumentato il proprio Pil e nemmeno di colmare le casse dei fondi destinati al welfare. Forse, oltreché di reazioni psicologiche, bisognerebbe parlare di più di interessi di classe, vetusta locuzione ormai quasi illegale.
Con pacatezza, Filippo Miraglia ci spiega che la spesa per il brutale respingimento è inutile e produce enormi sprechi; che sarebbe meglio generalizzare una cosa così sensata come l’allestimento di corridoi detti umanitari, anziché trasformare il Mediterraneo in un campo di battaglia e in un cimitero; che il flusso migratorio verso l’Europa non è poi così massiccio, una proporzione minima rispetto ai sessanta milioni di rifugiati che esistono nel mondo; che i paesi dell’Ue potrebbero assorbirla senza gravi problemi se solo, anziché ammucchiare i nuovi arrivati in luoghi ignobili sotto minaccia di rimpatrio, fossero decentrati sul territorio e affidati agli enti locali così come alle associazioni che operano sul territorio (come spesso già avviene) sì da facilitarne l’inclusione sociale ed evitare i guasti della logica concentrazionista gravemente dannosa per tutti.
È quanto l’Arci e le associazioni con cui collabora (c’è ormai una stretta unità di intenti e di azione concreta fra organismi laici e religiosi che si muove in questo senso ) sta facendo fra mille difficoltà ma con ottimi risultati. E invece la logica governativa è di affidare questa materia così delicata e complessa in gran parte alle prefetture. come se si trattasse di disastri più imprevedibili di un terremoto. (Come stupirsi di «mafia capitale» e di tutto il malaffare che accompagnano gli appalti per la gestione delle strutture previste? Se la gestione non viene affidata alla collettività locale, a una rete sociale e politica, è naturale che prevalga il malaffare). Il testo contiene una quantità di informazioni e riflessioni su una materia di cui a tutti capita di discutere per via del peso acquisito nel contesto politico europeo, ma senza avere cognizione dei suoi precisi aspetti. Oltretutto, per via della giungla di norme in cui è immersa – a livello dei progetti Ue – apparentemente bellissime, se non fosse per il fatto che esse vengono puntualmente contraddette dalle pessime misure dell’emergenza.
Ma il libro non si limita alla pur preziosa descrizione di quanto in concreto si fa e non si dovrebbe fare e su quanto di buono si riesce a realizzare nonostante tutto. È anche un testo denso di riflessione politica: sulla sinistra e come ha finito per marginalizzare il discorso sul tema: perché non può sbraitare come Salvini, ma non ha nemmeno il coraggio di proporre soluzioni. Finisce per tacere, accantonando il problema che viene abbandonato alla più becera propaganda. Ma c’è anche un riflessione, in larga parte nuova, sulla debolezza in Italia di una rappresentanza politica collettiva dei migranti come c’è invece i altri paesi europei. E uno scarsissimo ruolo attribuito dalle istituzioni alle associazioni che operano nella società civile.
Nel libro si parla molto anche dell’Arci stessa, con molti accenti critici e autocritici, senza autoreferenzialismo. Informazioni preziose, perché l’Arci, con i suoi un milione e 100mila iscritti e i suoi 4.700 circoli distribuiti su tutto il territorio nazionale, non è solo la più grande organizzazione laica esistente nel nostro paese, è un pezzo stesso di questo paese. Prezioso per chi vuole ancora far politica.
«Il 4 luglio 1976, in Algeria, veniva proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Un'intera sezione dedicata ai "diritti economici" contro pretese coloniali» Duccio Facchini intervista Gianni Tognoni.
Altraeconomia, 30 giugno 2016 (p.d.)
“Coscienti di interpretare le aspirazioni della nostra epoca, ci siamo riuniti ad Algeri per proclamare che tutti i popoli del mondo hanno pari diritto alla libertà”.Così, già nel preambolo, iniziava il suo cammino la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, il 4 luglio di quarant’anni fa. Un “foglio di carta”, come ebbe a descriverla Lelio Basso, uno dei suoi padri, nato dalla decennale esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra - o Tribunale Russell -. Una sorta di completamento in trenta articoli di quella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che aveva lasciato “scoperti” i diritti all’identità nazionale e culturale, all’autodeterminazione, i diritti economici, il diritto alla cultura, all’ambiente e alle risorse comuni, i diritti delle minoranze.
Gianni Tognoni è il segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, fondato nel 1979 come emanazione pratica della Carta di Algeri. Il TPP, come lo descrive il suo segretario, è “un’isola di resistenza, coscienza e collegamenti internazionali” che ha affrontato 42 sessioni (tutte le sentenze sono consultabili sul sito), l’ultima a Colombo in Sri Lanka, muovendosi dall’America Latina alle Val Susa. E che farà un bilancio a Roma, il 4 e il 5 luglio alla Camera dei deputati, in occasione di un convegno internazionale in occasione dell'anniversario della Carta.
Tognoni, come e perché nel luglio 1976 è nata la Carta di Algeri?
Il contesto storico entro il quale è maturata la Carta era caratterizzato da due componenti tra loro contraddittorie. Una era la fine del vecchio modello della colonizzazione e del prevalere dei movimenti di liberazione delle aree centrali, salvo l’apartheid che si sarebbe concluso vent'anni dopo; intorno al 1975, infatti, le ultime colonie formali del Portogallo terminavano la loro esistenza e finiva la guerra del Vietnam. Dall'altra parte, però, c’era la situazione assolutamente contraddittoria riassunta dai fatti del marzo 1976, quando l’Argentina concludeva con il suo colpo di Stato una nuova ricolonizzazione militare ed economica. Si riaprì un enorme laboratorio di moti coloniali - come evidenziato da tre sessioni del tribunale Russell sull'America Latina - fondato sulla violazione massiva dei diritti umani e dei popoli, praticamente inedita. La cosiddetta comunità internazionale fu spettatrice, a parte qualche importante esercizio di solidarietà. Bene, dinanzi a questa esperienza di forte contraddizione emerse il ruolo di un diritto internazionale nelle mani degli Stati quando questi non erano in grado di riconoscere in maniera formale ciò che stava succedendo. Basti pensare che nel 1978 si tenne il campionato del mondo in Argentina. Era necessario riprendere l’agenda lasciata consapevolmente aperta nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, in cui gli Stati, al di là di una menzione dei "Popoli" fatta solamente nel preambolo, erano i protagonisti assoluti e autonomi, liberi da qualsiasi limite esterno.
L’idea di Lelio Basso e di altri giuristi che all'epoca lavoravano in maniera attiva nella formulazione delle ultime convenzioni internazionali delle Nazioni Unite, fu quella di ricreare nuove categorie, ridando ai popoli presenti simbolicamente nel preambolo una loro visibilità e rappresentatività. La Carta di Algeri diventa un’area su cui sviluppare una resistenza alle nuove forme di colonialismo o repressione per dare - o ridare - ai popoli il ruolo di soggetti e non soltanto di "elettori" di governi. Allora non si parlava nemmeno di Corte penale internazionale (fondata il primo luglio 2002, ndr).
È a partire da quell'esigenza che è nato il Tribunale permanente dei popoli?
Sì, il Tribunale rispondeva alla convinzione che fosse veramente importante dare visibilità e legittimità - seppur attraverso uno strumento sussidiario, non dotato di potere immediato di intervento - alle lotte che in maniera diversa si dovevano condurre per evitare il riprodursi su base massiccia di fenomeni di colonizzazione.
Basso ripeteva nei suoi discorsi che la dichiarazione Algeri, legalmente, era soltanto un "foglio di carta", ma in qualche modo, come nella biografia di qualsiasi movimento di liberazione, era un iniziale strumento di lotta e di ricerca collaborativa. Era una svolta per il diritto internazionale.
Quali sono stati i “risultati” principali di questi quarant'anni di “vita” della Carta e dei suoi strumenti?
I bilanci storici sono sempre controversi. Dal punto di vista oggettivo, il diritto internazionale non ha fatto passi in avanti. La Corte penale internazionale è stato un prodotto molto tardivo e sostanzialmente quasi obbligato visto quello che era successo negli anni 90 con il genocidio in Rwanda, o le guerre nella ex Jugoslavia, o nel Golfo. Rimane il fatto che i Paesi "centrali" non ne hanno ratificato il trattato di istituzione, dichiarandosi così non vincolati a questa proposta di tribunale internazionale. Il TPP ha avuto dei ruoli sicuramente positivi dal punto di vista dell'utilizzo delle sue sentenze da parte di quelli che sono stati movimenti di liberazione. Penso al riconoscimento del Fronte Polisario dopo la sessione sul Sahara Occidentale del novembre 1979, all'attenzione per Timor Est - giugno 1981 - portata anche in sede di Nazioni Unite a seguito dell'invasione "tollerata" da parte dell'Indonesia, al caso di El Salvador (febbraio 1981), o delle Filippine, dove la sentenza sul caso "Filippine - Popolo Bangsa Moro" è stata riconosciuta come essenziale per creare una forma di opposizione vincente. Si è sollevata l’attenzione sull’Afghanistan, nel maggio 1981 e nel dicembre 1982, dopo l’illecita invasione dell'Unione sovietica e l'utilizzo di armi proibite, o sul genocidio armeno (aprile 1984), rimettendo all’ordine del giorno qualcosa che veniva, come adesso, accantonato per equilibri europei. Ricordo anche il lavoro sulla "non possibile impunità" rispetto ai crimini commessi in America Latina, che è stato alla base dell’operazione di memoria poi condotta in Argentina, Brasile, Uruguay e Cile.
Ecco, senza darsi illusioni, il ruolo del Tribunale è stato quello di trasferire strumenti pratici per lotte reali dei popoli - come ha fatto la sentenza sul Nicaragua dopo l'invasione degli Stati Uniti, ripresa anche dalla Corte internazionale dell’Aja -.
In più di un’occasione ha definito la Corte penale internazionale come un’occasione mancata.
Il suo grande limite è aver stralciato dalle proprie competenze il contrasto ai crimini economici, che invece sono sempre più al centro dell’attenzione del Tribunale. Qualificare oggi i diritti fondamentali dei popoli non come variabile dipendente dalle dinamiche economiche ma come elemento centrale di autodeterminazione - sto pensando alla sessione sulla Tav in Piemonte, dove l’esercizio della partecipazione popolare è stato piegato agli interessi di un’opera - è un qualcosa di cui non si discute più. E i trattati dominano sulle costituzioni.
Come sono cambiati i “popoli” cui guarda il Tribunale?
È mutato il termine. Prima, ai “popoli” si dava un’identità comunitaria, un gruppo che rivendicava diritti. Oggi i popoli sono trasversali dal punto di vista del rapporto con i poteri economici che ne condizionano (o negano) i diritti. In Europa, è il caso dei migranti, uno dei casi cui guarderemo da qui in avanti insieme alla finanza “illegittima”.
. Il manifesto, 01 luglio 2016 (p.d.)
Il migliore albergo d’Europa non ha la piscina. Nessun minibar nelle stanze. Non è nemmeno previsto il servizio in camera. Il miglior albergo in Europa è il City Plaza Hotel di Atene (http://best-hotel-in-europe.eu/), dove 400 migranti (180 i bambini) vivono da un mese e mezzo in condizioni di dignità ormai rarissime nei tempi in cui la Fortezza Europa chiude le proprie frontiere sul mediterraneo siglando accordi con la Turchia.
Sono persone intrappolate dallo sbarramento delle rotte che dai Balcani dovevano portarli a nuove vite, tentativi di scappare alla guerre siriane, alle instabilità irachene, agli orrori palestinesi, alla disperazione afghana, alle repressioni curde. Tutte situazioni nelle quali è facile distinguere il ruolo dell’occidente, lo stesso occidente che poi respinge questi corpi alle frontiere, li chiude in centri senza che abbiano commesso alcun reato, li trasferisce in un paese che, su mandato dell’unione europea, li isola in campi di detenzione.
Pratiche e politiche aberranti che rendono il City Plaza un monumento alla dignità umana, al rispetto della persona, un posto dove «nel bilanciamento di interessi si sceglie di dare priorità alla solidarietà». Fa male pensare al City Plaza come a un’eccezione nata dalla intelligente osservazione, da parte di un’associazione di attivisti, la Diktio, vecchia di vent’anni, di quello di cui davvero avevano bisogno i migranti, di quali erano le azioni necessarie per restituire loro il decoro esistenziale.
Ci racconta Olga, che per parlarci deve lasciare la reception del Plaza, dove stanno compilando le liste dei bambini che da settembre andranno a scuola (pochi i siriani, per i quali sono aperte le quote previste dall’accordo) nel centralissimo quartiere di Victoria, che la lotta è consistita nel dare ai migranti una soluzione stabile e mostrare al governo che questo era possibile.
«Questo processo è cominciato la scorsa estate, quando, per l’intensificazione degli sbarchi, i ministri decisero di aprire il primo campo, vicino Atene. Noi eravamo presenti portando lì, e anche nei luoghi di incontro dei migranti, beni di prima necessità, supporto medico. Si trattava di uomini in transito, che volevano rimanere in Grecia solo per qualche giorno. La chiusura della rotta balcanica all’inizio di marzo e, subito dopo, l’accordo Ue-Turchia hanno interrotto la transitorietà di questi flussi. A far nascere, potente, l’esigenza di una collocazione dignitosa per i tanti migranti che le politiche europee avevano reso prigionieri senza libertà di movimento».
Ci spiegano qui che è stato in questo passaggio, nell’esigenza di radicare una organizzazione stabile per rispondere a delle necessità stabili, che il movimento di solidarietà è diventato «più politico», facendosi promotore di manifestazioni per i diritti dei migranti. Due gli slogan: «libertà di movimento, ma anche diritto di restare».
L’altro tassello di questa storia è fatto da un palazzo alto sette piani. Una volta era un hotel di lusso, posto in uno dei quartieri più centrali di Atene. Fallito sette anni fa, si stagliava con la sua insegna viola come monumento alla crisi finanziaria, questioni di crediti non erogati, di banche, del collasso greco, dei ricatti europei. E ritorna quel bilanciamento di interessi che è protagonista in ogni scelta politica: cosa vale di piu? La proprietà privata? La solidarietà?
In cento attivisti hanno occupato il Plaza ormai quasi due mesi fa. In un salone giocano una quarantina di bambini, c’è entusiasmo per la notizia della scuola che inizia a settembre. Chiedono diari e penne, si vogliono preparare.
I migranti ospitati in tutto sono 400, vengono dall’iraq, dall’Afganistan, dalla Palestina, altri sono curdi e siriani. Sperimentano un modello di coesistenza e di autorganizzazione. Ci sono dei disabili, alcuni con malattie croniche.
Ogni nucleo ha una stanza con bagno, che per tutti significa trovare nel loro viaggio, per la prima volta, sicurezza e dignità. C’è un ambulatorio dove vengono per le visite medici volontari, gli stessi che hanno contribuito a creare quella storia dal basso di mutuo soccorso finita con l’elezione di Syriza. C’è una dispensa con i beni donati suddivisi per bagnoschiuma, pannolini per bambini asciugamani, lenzuola. Molti portano scorte alimentari, in modo da assicurare una colazione e due pasti al giorno.
I migranti si occupano del City Plaza come di un oggetto prezioso, un miraggio nel deserto. I bambini tolgono le briciole dei craker dal tavolo, fanno attenzione a colorare nel perimetro dei fogli per non macchiare le tovaglie. Il City Plaza ha subito spesso attacchi da parte di gruppi di estrema destra, non è un quartiere facile questo. Ma col tempo le persiane dei vicini, rimaste chiuse nelle prime settimane, si sono aperte. Un cane randagio che vagava moribondo per strada è stato adottato e curato dagli occupanti: il quartiere ha reagito a una immagine così potente, così capace di essere simbolo, facendosi accogliente.
«Il nostro obiettivo – continua Olga – non può essere dare una casa a tutti, non è realistico. Il nostro obiettivo e dare l’esempio di un differente e possibile tipo di gestione della presenza dei migranti. Ora siamo in 400. Viviamo in uno stabile che non funzionava da sette anni. Non abbiamo interrotto alcuna attività. Non c’era nessuno che lavorava qui. Le stanze sono tutte occupate, non possiamo accettare e vagliare alcuna altra richiesta e ce ne capitano molte, naturalmente. Ma noi vogliamo essere un modello di residenza, non un campo».
Certo, sottolinea Olga, che la presenza al governo di Syriza contribuisce in qualche modo a legittimare il progetto. Ma sembra altrettanto vero che sgomberare 400 migranti per mandarli per strada non sembra poter essere l’obiettivo di nessun governo. Un’esperienza che che solleva qualche contraddizione: il Plaza, con diecimila euro al mese e moltissima solidarietà, offre dignità a 400 persone, incoraggiando, al contempo, la loro indipendenza. Esiste un modello alternativo migliore? Finora non sembra.
«UE/USA. Ma Bruxelles, dopo la sconfitta del leave, potrebbe puntare a un forte segnale di "decisionismo", accelerando e concludendo la trattativa». Il manifesto, 1 luglio 2016 (c.m.c.)
Poco più di un mese fa è stata istituita la «sala di lettura» presso il Ministero dello Sviluppo Economico del Ttip, il trattato euro-americano sul libero commercio. Una «sala lettura» per permettere ai parlamentari di leggere la bozza dei negoziati in corso. 800 pagine (in nove plichi) da leggere in un’ora (questo il tempo concesso), lasciando fuori della sala di lettura telefonino e computer, senza la possibilità di fare le fotocopie e sotto il controllo vigile di un funzionario del ministero: infatti si possono prendere solo appunti ed è vietato ricopiare le frasi del trattato.
Infatti la bozza del trattato è «segreta»: gli si può dare un’occhiata, ma non troppo. Il Ministro Calenda ha detto che i negoziatori non possono farsi “imbrigliare” dal parlamento e si oppone al diritto dei parlamenti nazionali di ratificare l’altro trattato gemello (tra Unione Europea e Canada): il Ceta. In realtà è il parlamento ad essere imbrigliato (e tenuto all’oscuro) dai negoziatori europei e dal business delle multinazionali (americane ed europee), le vere beneficiarie di questo trattato.
Un trattato che costringerà gli europei (in cambio dell’abbassamento dei dazi americani) ad allentare gli standard ambientali e sanitari su una miriade di prodotti, beni e servizi: dal settore agroalimentare (il cibo che ci mangiamo) a quello tessile, dai servizi pubblici al welfare.
Dalle etichettature dei prodotti (avremo meno informazioni su cosmetici e prodotti alimentari) alla sicurezza delle automobili (i test per la sicurezza degli abitacoli saranno ridotti al minimo), dalle denominazione di origine (che fine faranno i nostri Dop e Docg?) agli Ogm (cui si danno nuove chances) fino al mancato rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: il Ttip è una sorta di Waterloo europea per i diritti sociali e dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la coesione sociale del nostro continente, per la democrazia. Ci rimetteranno anche i piccoli produttori, che saranno spazzati via dalle nuove regole.
Il tutto sacrificato sull’altare degli interessi delle multinazionali, di una visione ideologica del libero commercio, della supremazia di un mercato senza limiti. Anche a costo di dar vita ad una sorta di arbitrato privato cui gli Stati saranno chiamati a rispondere, nel caso approvino leggi a tutela dei consumatori e dei cittadini (ma che danneggino le multinazionali).
La potestà legislativa degli Stati sarà messa sotto tutela dalle imprese e il principio di precauzione (cioè la cautela su aspetti controversi riguardo alla salubrità di prodotti e merci) andrà alle ortiche: l’onore della prova (se un prodotto fa male) graverà sulle spalle di cittadini e consumatori.
Il prossimo 11 luglio inizierà un altro round di negoziati a Bruxelles tra europei ed americani. Non è detto che si concluda positivamente. I britannici erano tra più strenui sostenitori del trattato e con la Brexit i neoliberisti della Commissione perdono un importante alleato. La Francia si oppone a tante parti del trattato (che danneggerebbe numerosi suoi beni e servizi: prodotti alimentari, settore audiovisivo,), mentre l’Italia, con il ministro Calenda, continua ad essere allineata nelle schiere degli ortodossi del Ttip.
La campagna Stop Ttip (che organizza il prossimo 5 luglio alla Camera dei deputati un importante confronto con il Ministro dello Sviluppo Economico) invita il nostro governo alla trasparenza, al coinvolgimento del parlamento e dice una cosa che va sostenuta: bisogna togliere il mandato di negoziare ai funzionari di Bruxelles. Bisogna ricondurre il potere di decidere su materie così importanti al parlamento europeo e alle assemblee elettive nazionali.
Magari qualcuno, su a Bruxelles, può pensare che dopo la Brexit, si tratta ora di dare un forte segnale di decisionismo europeo, accelerando e concludendo la trattativa sul Ttip. Sarebbe una sciagura che pagheremmo cara: un ulteriore regalo al neoliberismo, alle multinazionali e alle lobby. Così si costruisce l’Europa dei mercanti, non dei cittadini. E non si va lontano.
Articoli di Alfredo Marsala e intervista di Carlo Lania all'ammiraglio Credendino sugli sforzi per salvare qualcuno sulla strage in atto nel Mediterraneo dalla fine del secolo scorso, nell'indifferenza di chi comanda e di chi forma il pensiero corrente.
Il manifesto, 1 luglio 2016, con postilla
UNA STRAGE DI DONNE
di Alfredo Marsala
Un mare senza pace. Proprio mentre il peschereccio naufragato il 18 aprile del 2015 entrava nel porto di Augusta con la stiva piena di cadaveri, un altro naufragio è avvenuto a 20 miglia dalla Libia provocando la morte di dieci donne.
Duecento, forse 300. Non si sa ancora quanti siano i corpi incastrati nella stiva del relitto del peschereccio recuperato a 370 metri di profondità dalla Marina militare, a 40 miglia dalla Libia e a 100 dalle coste della Sicilia.
Quel che resta del barcone, naufragato il 18 aprile dell’anno scorso per quella che è stata definita la più grande tragedia nel Mediterraneo di tutti i tempi ma che sembra non aver insegnato nulla ai potenti dell’Ue, è stato trasportato ad Augusta. Nel molo è stata costruita una tensostruttura refrigerata. Una sorta di mega cella frigorifera lunga 30 metri, larga 20 e alta 10 realizzata per contenere il peschereccio.
Un posto di morte e dolore. Qui inizieranno le operazioni di recupero delle salme. I pompieri si occuperanno di estrarre i cadaveri, un equipe di medici, coordinata dalla professoressa Cristina Cattaneo della sezione di medicina legale dell’università di Milano, con la collaborazione degli atenei di Catania, Messina e Palermo e dei medici della polizia, farà poi i rilievi sui corpi. Un salto all’inferno, una mesta conta di cadaveri: bambini, donne e uomini senza volto, senza nome. Con i corpi martoriati, dilaniati dai pesci e dal mare, rimasti più di un anno negli abissi. Morti intrappolati nella stiva perché i trafficanti sigillarono i portelloni per impedirne l’uscita mentre il barcone, col suo carico di 700 disperati, come raccontarono i 28 superstiti, affondava. Se da quella maledetta stiva saranno estratti 300 corpi, come stima la Marina, significa che altre 200 persone sono state risucchiate dal Canale di Sicilia, ormai diventato il cimitero più grande del pianeta. I superstiti della grande strage furono 28, soccorsi dalla nave portoghese King Jacob, con a bordo marinai filippini che non appena giunsero nel porto di Palermo chiesero l’aiuto di un prete e di una squadra di psicologi per lo sotto shock subito dalla terribile esperienza.
Fu proprio quando la nave si avvicinò per prestare soccorso che il peschereccio stracolmo di disperati si capovolse. Decine di persone finirono in mare, la King Jacob lanciò le scialuppe ma nemmeno un terzo dei migranti riuscì a salvarsi. Gli altri furono risucchiati dal mare o intrappolati nel barcone dell’orrore.
Il tentativo che si farà ora è quello di identificare le salme. Difficile, quasi impossibile. Sarà il Dna se sarà possibile incrociarlo con le banche dati a stabilire la nazionalità e a dare un nome alle vittime, sempre che i Paesi di provenienza abbiano gli archivi. «Abbiamo già centinaia di richieste e stiamo raccogliendo dati dai familiari che si trovano in Senegal e Mali – dice la professoressa Cattaneo – e riceviamo richieste dai parenti che sono nel nord Europa. C’è già pronto il materiale necessario per fare i confronti.
Il riconoscimento ha una ripercussione sui familiari vivi, ma ci sono anche ripercussioni amministrative perché alcuni ricongiungimenti sono impossibili perché mancano i certificati di morte». Il recupero è stata un’operazione complessa anche perché, sottolinea l’ammiraglio Pietro Covino, «non era mai stato fatto per un peschereccio di tali dimensioni e a una profondità di circa 400 metri. Con tre fasi principali: l’ispezione del relitto per verificarne la struttura, le dimensioni e le capacità di sostenere la presa per riportarlo in superficie; la realizzazione del modulo di recupero; e la mobilitazione dei mezzi necessari». Il tutto è costato 9,5 milioni di euro, finanziati dalla Presidenza del consiglio dei ministri. Ed è un operazione che andava fatta, sostiene il premier Matteo Renzi, per «dare una sepoltura a quei nostri fratelli, a quelle nostre sorelle che altrimenti sarebbero rimasti per sempre in fondo al mare». La logista prevede vitto e alloggio a tutti gli operatori coinvolti, 150 in media al giorno. Una cittadella per i vigili del fuoco – con aula incontri, due dormitori e uno spogliatoio – per la Croce rossa, un posto medico avanzato e un consultorio psicologico h24. Le aree dove saranno eseguite le autopsie saranno tre.
Ma alla conta dei morti se ne aggiungono già altri. Proprio mentre il relitto del peschereccio arrivava ad Augusta, un altro naufragio è avvenuto a circa 20 miglia dalla Libia. Dieci i cadaveri recuperati in mare, tutti di donne. I soccorritori della nave Diciotti, allertata dalla guardia costiera, sono riusciti a salvare 107 migranti e a recuperarne poco dopo altri 117 sempre nel Canale di Sicilia.
Il naufragio è avvenuto con condizioni meteorologiche pessime, mare forza 3, vento a 30 nodi e onde alte due metri.
«CONTRO L'ISIS,
MA CONTINUIAMO A
SALVARE I MIGRANTI IN MARE»
intervista di Carlo Lania a Enrico Credendino
EuNavFor-Med, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani, ha appena compiuto un anno. Solo due mesi in più di Sophia, la bambina somala nata il 24 agosto 2015 a bordo della nave tedesca che aveva soccorso la madre e altri 453 migranti nel Canale di Sicilia e che ha dato il suo nome alla missione. La foto ingrandita della piccola Sophia è appesa a una delle pareti dell’ex aeroporto di Centocelle, a Roma, quartier generale dell’operazione. «In questi mesi la missione ha salvato più di 18 mila migranti», spiega il comandante della flotta europea, l’ammiraglio Enrico Credendino.
Torinese, 53 anni, è stato al comando della missione Atlanta, l’operazione europea anti-pirateria, e successivamente è stato tra gli organizzatori di Mare nostrum, la missione umanitaria italiana. Il 20 giugno scorso il Consiglio europeo ha prolungato di un anno, fino a giugno 2017, la missione ampliandone i compiti con l’incarico di addestrare la Guardia costiera libica, mentre una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu (la 2292) la impegna nelle operazioni di contrasto del traffico di armi dirette alle milizie libiche.
I nuovi compiti cambiano la natura della missione?
No. Il mandato rimane lo stesso: combattere le reti criminali che lucrano sul traffico di uomini. Sophia nasce dopo il naufragio del 18 aprile 2015, quando l’Europa decide di agire finalmente in maniera più concreta perché non vuole più vedere morti in mare. Nel mandato delle operazioni non è previsto il soccorso ma per un marinaio c’è una sola legge, che è quella di salvare, proteggere e tutelare tutti quelli che sono in difficoltà in mare. Finora abbiamo salvato oltre 18 mila vite, fermato più di 70 scafisti e neutralizzato 170 imbarcazioni. Il mandato quindi rimane uguale, ma sono stati aggiunti due nuovi compiti che ci aiuteranno a conseguirlo.
Con nuove regole di ingaggio?
No, anche se ne avremo qualcuna in più per poter salire e ispezionare le navi sospette di fare traffici illeciti, fermarle e portarle nei porti di riferimento.
Come avverrà la perquisizione delle navi sospette?
La risoluzione dell’Onu ci dice esattamente cosa possiamo fare, cioè salire sulle navi, ispezionarle e se troviamo riscontri di armi o materiale illecito possiamo sequestrarlo e portarlo nel porto di un altro paese consegnandolo all’autorità giudiziaria. Stiamo ancora individuando i paesi, dovrebbero essere quelli più vicini all’area delle operazioni quindi potrebbero essere la Grecia, la Spagna, l’Italia, la Francia.
Approvando l’estensione della missione il parlamento tedesco ha definito i nuovi compiti come operazioni di contrasto all’Isis e al terrorismo. E’ di questo che stiamo parlando?
Indirettamente. Il mio compito in questo caso è di evitare che le armi arrivino ai gruppi terroristici presenti in Libia. In questo senso contribuiamo a combattere il terrorismo.
Tra i nuovi compiti c’è l’addestramento della guardia costiera e delle marina militare libica. Come avverrà?
Va premesso che tutto quello che avviene in Libia avviene solo su richiesta dei libici. Siamo a casa loro, sono loro che devono volerlo e noi vogliamo lavorare insieme a loro. Il governo libico ha appena designato il comitato di esperti che insieme al mio comitato di esperti lavorerà per stilare il programma di addestramento sulla base delle loro esigenze, in modo da poter cominciare entro quattro, cinque settimane. Prevediamo di farlo inizialmente in mare, in acque internazionali, imbarcando cento militari per un periodo di 14 settimane, sul modello di quanto abbiamo fatto due anni fa in Mozambico. Poi cominceremo l’addestramento a terra in un paese membro: Grecia e Malta hanno già offerto le loro strutture, anche l’Italia lo farà, con l’obiettivo di andare a lavorare poi a Tripoli, una volta che ci saranno le condizioni per farlo, nella base navale dove oggi si trova il presidente Serraj e dove potremo addestrare un numero più grande di persone. Infine ci sarà una terza fase nella quale addestreremo i libici sulle loro motovedette. L’Italia ne fornirà dieci, altri paesi membri daranno un contributo.
Ha parlato di un addestramento su suolo libico. Non teme così di provocare una reazione da parte delle milizie?
Questo succederà solo quando ci saranno le condizioni di sicurezza. Intanto l’addestramento a terra lo faremo nei paesi membri.
La fase tre della missione europea prevede un intervento in acque libiche ed eventualmente anche nei porti.
Sempre su richiesta libica e ci vorrà una nuova risoluzione dell’Onu. Comunque saranno attività che condurremo insieme ai libici. Lo scopo dell’addestramento della guardia costiera e della marina libica è proprio quello di conoscerci e quando ci saranno le condizioni lavorare insieme per arrestare gli scafisti e distruggere quelle strutture logistiche che sono di loro esclusivo uso. Noi non vogliamo creare danni collaterali. Per esempio molti dei barconi utilizzati per trasportare i migranti sono pescherecci che i pescatori spesso sono costretti a vendere.
Quando pensa che prenderà avvio la terza fase?
Credo che succederà, non sono però in grado di dire quando.
Quando la missione europea opererà in acque libiche i migranti fermati verranno consegnati alle autorità libiche?
Noi applichiamo in maniera stretta il principio di non respingimento ovunque in mare, sia in acque internazionali che in acque territoriali. Questa è una chiara decisione presa dal Consiglio europeo e questo è il mio mandato. Quindi noi tutti i migranti che prendiamo mare li portiamo in Italia.
Sarà così anche in futuro?
Anche in futuro. I migranti non verranno respinti né consegnati ai libici perché sarebbe un respingimento.
Abbiamo parlato della guardia costiera libica. I migranti salvati da quella che opera oggi finiscono spesso in centri di detenzione dove subiscono violenze. Che garanzie ci sono che la stessa cosa non accadrà anche in futuro?
Come missione Sophia noi siamo parte del piano di azione dell’Unione europea sull’immigrazione che prevede anche una missione civile chiamata Eubam Libya che oggi è a Tunisia ma appena possibile andrà a Tripoli. Questa missione sta pianificando l’addestramento delle forze di polizia e la ricostruzione del sistema giudiziario e carcerario libico, in modo tale che anche le condizioni degli scafisti che verranno arrestati da libici rispetteranno gli standard umanitari. Per quanto riguarda i migranti in particolare noi lavoriamo insieme all’Unhcr, la prima organizzazione che ho incontrato il giorno dopo essere stato nominato comandante della missione. L’Unhcr addestra i nostri equipaggi prima che vadano in mare in modo che la parte umanitaria, la parte gender, l’assistenza ai bambini abbia gli standard previsti. Nell’addestramento della guardia costiera libica ci sarà uno specifico capitolo proprio su questo.
Ogni tanto esce un allarme su possibili invasioni di migranti dalla Libia. Recentemente il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, ha parlato di possibili 300 mila arrivi in Italia entro al fine dell’anno. Condivide questi allarmi?
I dati in Libia noi non li abbiamo, quindi mi baso sui dati ufficiali dell’Oim secondo i quali ci sono circa 200 mila migranti in Libia pronti a muovere e 400 mila sfollati libici che non hanno però intenzione di lasciare il paese. Infine ci sono circa 200 mila rifugiati mediorientali, soprattutto siriani, che però sono in Libia da molti anni, ormai fanno parte del tessuto libico e non vogliono lasciare il paese. Quindi quelli pronti al muovere sarebbero 200 mila. Ed è un numero in linea con quello dell’anno scorso.
Quindi nessuna invasione?
Io questo non lo so, non ho la sfera di cristallo. Non credo però che ci sarà nessuna invasione, penso che i numeri siano più o meno in linea con quelli dell’anno scorso.
postilla
L'Europa dei governi continua nella sua politica di respingimenti criminali conditi con uno spruzzo di umanitarismo: si lascia che i disperati s'imbarchino come possono, quando inevitabilmente affogano si cerca di fare i crocerossini salvandoli dalle onde - o i becchini recuperandone i resti nelle loro bare. Si ignora che si tratta di un esodo di centinaia di migliaia (di milioni) di uomini donne vecchi bambini che scappano dalla miseria e dal terrore. da anni che sa e capisce propone infaticabilmente la necessità di creare dei corridoi umanitari per sostituire il "servizio" offerto dai trafficanti, ma chi decide non li ascolta. Riproponiamo a proposito un intervento di Barbara Spinelli del 2014, La grande finzione di Frontex Plus e le responsabilità dell’Europa

«». Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2016 (c.m.c.)
Partiamo da Dossetti, perché è di lui che si occupa l’ultimo libro di Paolo Prodi (Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino). «Comincio dal periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione, quando io studiavo alla Cattolica e il mio professore di Diritto costituzionale era Antonio Amorth, uno degli autori della nostra Carta», spiega Prodi. «La Costituzione, attraverso la Commissione dei 75 ha degli autori e, com’è noto, il testo fu perfino rivisto da linguisti e letterati, perché fosse efficace: la preoccupazione era che fosse comprensibile e armonico tra le sue varie parti».
E Dossetti?
Fu un protagonista di quella fase: come Aldo Moro era un giurista e dunque particolarmente preparato al compito. La sua attenzione alla Carta ebbe una nuova spinta all’inizio degli anni 90, con la nascita dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Allora parlai a lungo con lui: considerava la Carta certamente il patto tra tutti gli italiani, ma anche un patto per garantire l’equilibrio.
Nel ’46 – per evitare i pericoli di una guerra fredda, possibile in Italia perché eravamo sul confine tra i due mondi – bisognava approntare tutte le misure necessarie perché non ci fosse una prevalenza di una parte sull’altra. È qui che nasce il bicameralismo perfetto.
Qualche settimana fa Pierluigi Castagnetti ha detto: «Basta tirare per la giacca don Dossetti: è sempre stato contrario al bicameralismo paritario».
Stavo per dirlo: Dossetti ha dovuto digerire, all’epoca, il bicameralismo. Era contrario, ma lo riteneva politicamente essenziale. Una medicina amara, ma fondamentale per garantire quell’equilibrio di cui parlavamo.
Veniamo all’oggi. Cosa pensa di questa riforma?
Davanti alla Costituzione bisogna levarsi il cappello. La Carta è di tutti e non si cambia a colpi di maggioranza, specie se è una maggioranza come questa che si tiene in piedi a malapena. Ma prima ancora bisogna dire che questa nuova Costituzione è assolutamente incomprensibile, illeggibile. Sembra il bugiardino di un farmaco.
I sostenitori della legge di revisione dicono che non si tratta di estetica, ma di funzionamento delle istituzioni. La parola magica è “governabilità”.
Sento spesso parlare con disprezzo dei numerosi governi che si sono succeduti, specialmente nella Prima Repubblica. Quei governi però navigavano in acque tranquille, sia internamente che a livello internazionale. Certo calibravano, con o senza manuale Cencelli, i pesi delle correnti e delle varie personalità dentro ai partiti. Ma allora c’era una stabilità che di questi tempi ci sogniamo: a mancare non è oggi la stabilità dei governi, ma i partiti che sono evaporati.
Un problema che non si risolve con mezzucci tipo i capilista bloccati dell’Italicum. Piuttosto bisognerebbe applicare l’articolo 49 della Carta che dava ai partiti rilievo costituzionale. Nel ’58 Sturzo presentò in Parlamento un progetto di legge proprio sull’attuazione dell’articolo 49: ecco, oggi potremmo prenderlo e avremmo ben poco da aggiungere. La responsabilità politica non esiste più e si pensa di rimediare con il rafforzamento dell’esecutivo!
Il presidente del Consiglio ha legato il suo destino al felice esito della riforma.
Tutto parte dall’equivoco del doppio ruolo di premier e segretario del partito. Nella Dc uno statista come Alcide De Gasperi sapeva benissimo che se voleva vincere doveva permettere che il partito avesse una sua vita interna, dove lui come presidente del Consiglio non interveniva. Quanto a Renzi, puntando sulla vittoria come vincolo per la sua permanenza al governo si è preso un bel rischio. Quel che sta accadendo dopo il referendum sulla Brexit lo dimostra.
La riforma è molto disomogenea: voteremo su tantissime materie.
Da un punto di vista giuridico e razionale io sarei per lo spacchettamento, anche se so che è improponibile. Sottoporre al giudizio dei cittadini materie così diverse è un errore enorme.
Questa riforma è stata approvata con scorciatoie di ogni sorta: ghigliottine, canguri, sostituzione dei membri della commissione Affari costituzionali, sedute fiume. Lo spirito dell’articolo 138 è tutt’altro: una saggia ponderazione.
La forma non è stata violata, ma il metodo è profondamente sbagliato: certo i costituenti non pensavano a questo quando hanno scritto l’articolo 138. Tutta la riforma è un bitorzolo che cresce sulla nostra Costituzione. Non posso riconoscere valore costituzionale a un testo nato sotto spinte umorali e illogiche. Dicono che si migliorerà con il tempo: io studio la storia da mezzo secolo e non ho mai visto migliorare un sistema politico con questi percorsi. Il problema della democrazia è far coincidere la rappresentanza degli interessi con il tessuto sociale. Qui non si vede nulla di tutto questo.
lo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano». La Repubblica, 30 giugno 2016
Byung-Chul Han, Psicopolitica, nottetempo traduzione di Federica Buongiorno pagg. 110, 12€
Viviamo gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri. Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica. Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.
Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di
cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi. Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.
Ma soprattutto – e proprio qui – nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere. Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.
Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé. Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.
La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.
Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.
Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.
Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.
Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti – puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere – ci fanno così paura.