«Se giustamente non possiamo più accettare che le nostre comunità siano colpite così, allora smettiamo di distruggere le altre comunità ormai senza più pace. A Baghdad, dove dilaga il conflitto tra sciiti e sunniti, c’è una strage di Bologna al giorno. Eppure era una "missione compiuta" già nel 2003 per il presidente Usa George W. Bush».
Il manifesto, 16 luglio 2016
Sembra un videogioco, invece è la scia reale di sangue che non si ferma. Ancora è colpita la Francia, ma le vittime non sono solo francesi. Donne e uomini in fuga in una sera d’estate sul sereno lungomare di Nizza, la Promenade des Anglais (quella del famoso quadro di Matisse). Una strage di civili, almeno, 84 i morti, tanti bambini tra le centinaia di feriti molti gravi. Ad opera di un giovane presunto integralista islamico di 31 anni, Mohamed Lahouaiej Bouhlel. L’uomo, francese d’origine tunisina, sposato in via di divorzio e con tre figli, era solo, senza complici, con una pistola automatica ma con tante armi giocattolo al seguito, l’unico strumento micidiale di morte vera che aveva era un Tir, guidato a tutta velocità per seminare morte e terrore; era stato in carcere, luogo delegato alla formazione ideologica, conosciuto dalla polizia era in libertà vigilata perché condannato per violenze. Possiamo definire questo spostato sociale un attentatore? Purtroppo sì: è questa endemicità, «normalità», permeabilità e mimesi la nuova caratteristica di chi compie, dall’interno, attentati anche senza una specifica matrice islamista. E anche stavolta, non è difficile immaginare, non mancherà la rivendicazione dell’Isis.
Ora il rischio è che, come sempre, si rincorrano chiacchiere e menzogne. Che fare? In che cosa dobbiamo investire? Come militarizzare la sicurezza – Hollande indebolito ancora una volta per i buchi nel controllo della zona nonostante lo stato d’emergenza, mobiliterà migliaia di riservisti. E chi c’è dietro? Fioccano i paragoni. Alcuni, impropri, con le autobombe; altri, più insidiosi, con le macchine lanciate da giovani palestinesi contro civili israeliani. Certo gesti condannabili e sanguinosi, ma lì c’è una violenta occupazione militare, e i cacciabombardieri israeliani e i tank Markhava sono parecchio più devastanti di un Tir.
Qual è il punto? L’Occidente, i Paesi europei e gli Stati uniti devono, al contrario di quello che hanno fatto finora, disinvestire nella guerra se vogliono dare sicurezza e non solo il miraggio della «percezione di sicurezza» con i presidi militari nelle città europee. E insieme aprire una nuova fase di integrazione con le realtà musulmani esistenti e finalmente con la nuova dimensione dell’immigrazione. Almeno come inveramento necessario di quella rivendicazione di «libertà, eguaglianza, fraternità» che ogni 14 luglio ritualmente viene ricordata, come giovedì sera a Nizza. Accade invece che confermiamo le divisioni, la frattura tra mondi, chiedendo fedeltà ai cittadini europei di fede musulmana. Dando così ragione alla predicazione del jihadismo salafita che vive di rotture e ostilità. Perché – al contrario della civiltà – è la guerra che abbiamo esportato che è all’origine di questa scia di sangue. E la Francia è stata protagonista negli ultimi anni di tutte le imprese belliche: geopolitiche in Libia e in Siria, neocoloniali in Africa.
Urge dunque una svolta nella politica estera occidentale che, volta a volta, ha usato una realtà mediorientale contro l’altra per raggiungere l’obiettivo del controllo strategico della regione, sia prima che dopo la Guerra fredda. Senza soluzione di continuità. Una piccola prova? Tra le motivazioni della strage, se di motivazioni si può parlare, viene ricordata la perdita di territorio e le sconfitte che lo Stato islamico sta subendo in Siria, Iraq e Libia. Ma per uno stato virtuale come il Califfato, la cui sostanza è predicatoria (di odio e barbarie, basta vedere il trattamento riservato alle donne) le sconfitte sono un appello ulteriore alla solidarietà jihadista, perché non più foreign fighters ma si attivino azioni «interne al nemico». Ma i colpi subìti possono essere cogenti: in questi giorni è stato ucciso da un raid aereo americano Omar al Sishani (il Ceceno), il capo militare Isis in Iraq e numero due del Califfo Al Baghdadi. Bene, questo assassino, conferma l’intelligence americana, ha ricevuto il suo addestramento proprio dagli Stati uniti che nel 2008 lo hanno usato in Georgia nella guerra attivata dalla Nato e dallo scellerato premier Shahakasvili contro la Russia.
Non possiamo pensare di avere sicurezza se esportiamo l’insicurezza della guerra, se distruggiamo Stati decisivi per l’equilibrio di interi continenti, come abbiamo fatto con Iraq, Siria e Libia. E se sosteniamo lo jihadismo per destabilizzare altri paesi come per la Siria. Alleandoci con chi ha foraggiato anche per nostro conto i jihadisti, come Turchia e Arabia saudita; con Israele che cancella la questione palestinese; con l’Egitto di Al Sisi, al potere con un golpe sanguinoso, che vive grazie ad una pratica sistematica di violenze e sparizioni.
Ora basta. Se giustamente non possiamo più accettare che le nostre comunità siano colpite così, allora smettiamo di distruggere le altre comunità ormai senza più pace. A Baghdad – dove dilaga il conflitto tra sciiti e sunniti – c’è una strage di Bologna al giorno. Eppure era una «missione compiuta» già nel 2003 per il presidente Usa George W. Bush. All’epoca c’era con lui, tra gli altri, anche Tony Blair, condannato oggi a parole dalla pur blanda ma vera commissione Chilcot: almeno in Gran Bretagna alla fine giudicano chi fa le guerre. L’attentato di Nizza dopo il Bataclan, Bruxelles e San Bernardino negli Usa dicono che dobbiamo uscire dal videogioco al massacro.
La povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Articoli di Roberto Petrini e Chiara Saraceno.
La Repubblica, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
POVERTÀ ASSOLUTA PER 4,6 MILIONI
È RECORD DAL 2005
di Roberto Petrini
La crisi economica degli ultimi anni ha lasciato il segno: la povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Le nude cifre, relative all’anno 2015, dicono che ci sono 4 milioni e 598 mila italiani che vivono sotto la soglia di povertà assoluta (il 7,6 per cento): un dato in crescita, il più elevato dal 2005, e che nel 2014 era al 6,8 per cento. Conforta poco che il numero dei nuclei familiari in povertà assoluta sia stabile a quota 1 milione e 582 mila: gli individui poveri crescono perché le famiglie numerose sono la componente più importante all’interno dell’area di povertà.
La radiografia Istat indica che la povertà assoluta è salita tra le coppie con 2 figli dal 5,9 del 2014 all’8,6 per cento dello scorso anno. Colpite anche le famiglie di origine straniera: si passa dal 23,4 per cento del 2014 al 28,3 per cento del 2015, con margini più accentuati al Nord. Segnali di peggioramento si registrano anche tra chi vive nelle aree metropolitane (la povertà sale dal 5,3 al 7,2 per cento) e tra i 45-54enni. La povertà assoluta invece diminuisce se aumentano l’età del capofamiglia e il titolo di studio: dati che integrati con quelli forniti dal presidente dell’Inps Tito Boeri l’altro giorno in occasione della presentazione rapporto Onds, ci forniscono la fotografia di un’Italia dove a soffrire sono giovani e la fascia tra i 55 e i 65 anni, cioè coloro che sono privi di ammortizzatori sociali.
Un tema che rimbalza sul terreno politico dove proprio ieri la Camera ha approvato, con 221 sì e 22 no, il ddl del governo per il contrasto alla povertà che introduce il «reddito di inclusione » e che ora passa al Senato. Il reddito di inclusione, contrariamente al reddito di cittadinanza proposto dal M5S che è sostanzialmente erga omnes, si rivolge ad una platea identificata ed è dotato di norme precise di applicazione. I grillini di conseguenza si sono astenuti e hanno attaccato il nuovo reddito di inclusione definito «iniquo e assistenziale ». Il provvedimento sta tuttavia camminando: la Stabilità del 2016 ha istituito il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale finanziato con un miliardo dal prossimo anno e ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, alla Confcommercio ha assicurato che il governo «è impegnato a migliorare le condizioni di vita dei cittadini» sebbene sia l’occupazione «il primo strumento di contrasto delle diseguaglianze».
PERCHÉ CRESCE IL PAESE DEI POVERI
di Chiara Saraceno
In controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005.
L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale.
Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte.
Gli effetti lunghi della crisi sembrano aver colpito molto di più gli stranieri, che faticano a trovare o ritrovare un lavoro che sia anche decente. Potremmo pensare che questi dati non rispecchiano il miglioramento avvenuto sul piano dell’occupazione a seguito del dispiegarsi degli effetti del jobs act, stante che questo è avvenuto soprattutto nell’ultimo trimestre del 2015.
Può essere, ma solo in parte. Siamo, infatti, ancora ben lontani dall’aver recuperato tutti i posti di lavoro perduti. Inoltre va considerato con grande preoccupazione che l’aumento della povertà assoluta (dal 5,2 al 6,1 per cento) ha riguardato anche famiglie con persona di riferimento occupata, soprattutto se operaio o assimilato. Tra le famiglie di questi ultimi l’incidenza della povertà assoluta è passata in un anno dal 9,7 all’11 per cento. Molti di questi lavoratori hanno avuto un reddito troppo basso per poter fruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno dovuti restituire perché “indebitamente” percepiti, in base alla logica paradossale degli 80 euro che esclude i più poveri.
Il fenomeno dei lavoratori e delle famiglie di lavoratori povere ha conosciuto un fortissimo aumento negli anni della crisi, a motivo sia della riduzione del numero di occupati in famiglia, soprattutto a causa della disoccupazione giovanile, sia della crescita del part-time involontario. Quest’ultimo è sempre meno una caratteristica solo dei contratti di lavoro a tempo determinato e in generale dei contratti atipici quando non irregolari.
Come documenta il Rapporto Inps presentato la scorsa settimana, quattro contratti a tutele crescenti su dieci sono a tempo parziale. Avere un lavoro non sempre è sufficiente a proteggere dalla povertà, se è a tempo ridotto, o troppo poco pagato, o se il reddito che fornisce deve bastare per diverse persone. Da questo punto di vista, un altro dato preoccupante riguarda l’aumento della povertà assoluta tra le famiglie con due figli, specie se minori. Finora era il terzo figlio a far scattare un rischio di povertà sopra la media.
Ora basta il secondo. Non stupisce, allora, che i minori siano sovrarappresentati tra chi si trova in povertà assoluta, con un peggioramento sensibile nell’arco di dieci anni. Era in povertà assoluta il 3,9 per cento di tutti i minori nel 2005, il 10,9 per cento nel 2015. In termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1 milione e 131 mila rispetto a 538 mila. Ma anche i loro fratelli più grandi non stanno meglio, con quasi il 10 per cento, pari a un milione e 13 mila individui, in povertà assoluta.
A ben vedere, poco meno della metà dei poveri assoluti appartiene alle giovani e giovanissime generazioni, che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne vengono escluse, come mostrano i dati del citato Rapporto Inps sull’invecchiamento della forza lavoro occupata negli anni della crisi, a seguito del combinarsi di riduzione della domanda di lavoro e innalzamento dell’età alla pensione. Investire sull’aumento dell’occupazione, come ha dichiarato il ministro Padoan, è certo necessario per combattere la povertà.
Ma il fenomeno dei lavoratori poveri e delle loro famiglie, della sovrarappresentazione dei minori e dei giovani tra i poveri, insieme alla drammaticità dell’incidenza della povertà tra gli immigrati, segnalano che non è sufficiente se non si tiene conto di quale lavoro si tratta e di chi può accedervi. Impongono anche di rivedere criticamente alcune scelte redistributive, dagli 80 euro al bonus bebè.
«Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità dei lavoratori e dei viaggiatori
». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)
L’errore umano non esiste, o meglio non esiste nulla che possa giustificare una strage in conseguenza di una banale distrazione o di un equivoco in una comunicazione tra due ferrovieri. Non esiste come giustificazione nel senso che l’errore è sempre presente nell’azione dell’uomo, è un evento incombente, connaturato alla quotidianità ed all’essenza umana, appunto.
Se ci fosse stata una efficace valutazione del rischio, questo sarebbe emerso ed eliminato o attenuato al minimo possibile. Pertanto chiunque organizzi o gestisca un’attività produttiva che abbia qualche rischio per i lavoratori o per i terzi ha l’obbligo morale e giuridico di prevedere l’errore umano come fattore onnipresente in qualsiasi azione o procedura e di prevenirne gli effetti.
Qualsiasi carpentiere precipiti da un’impalcatura e qualsiasi operaio si amputa una mano sotto una fresa, sicuramente commette un errore umano. È un evento prevedibile come il sonno o la fame. Per questo sono stati inventati, e resi obbligatori per legge, i parapetti e le fotocellule di blocco delle lame. Perché a quei ferrovieri che pure facevano un lavoro così delicato e rischioso non sono stati forniti dei ‘parapetti’ che nel momento della stanchezza, distrazione o di tensione non li hanno trattenuti dal precipitare nel disastro?
Se si fosse trattato di avviare un grande macchinario in una normale fabbrica, il comando esclusivamente telefonico, senza controlli sarebbe stato fuorilegge da sessant’anni. Sarebbero stati imposti vincoli meccanici, elettrici e elettronici di controllo, da una postazione remota con allarme incorporato… magari via internet. Per quei treni no: ancora oggi sono autorizzati a circolare, con norme scritte nel secolo scorso, solo per queste ferrovie «minori» poiché sulla rete nazionale dopo alcuni gravissimi incidenti – e solo grazie a quei morti – le regole e le tecnologie sul distanziamento dei treni sono finalmente cambiate.
Il vero, grande errore umano – commesso pure da esseri umani – è mantenere in esercizio una linea ferroviaria così intensamente trafficata col sistema primitivo del «blocco telefonico», cioè uno scambio di fonogrammi mediante una normale telefonata, tra due capistazione.
È un errore umano anche destinare investimenti, per sviluppare in modo così disomogeneo le diverse linee gestite dalla stessa società: da una parte stazioni e treni nuovi (quasi di zecca), dotati di tutti i moderni sistemi che passano prima su linee con tecnologie moderne e poi proseguono la loro corsa su una linea rimasta al secolo scorso. Dove anche gli stessi macchinisti e capitreno sono indotti all’errore poiché devono cambiare continuamente il «registro mentale» delle loro azioni più volte al giorno in base al punto in cui sono.
Un errore ancora più grande è quello in capo alle istituzioni ministeriali di scrivere e mantenere in vigore delle norme di sicurezza che consentono alle imprese ferroviarie di continuare a gestire, senza limiti di tempo, un servizio pubblico strategico con standard di sicurezza di serie C.
Questi sono «errori disumani», perché commessi, con scelte consapevoli e precise strategie manageriali ed istituzionali, da persone lontane nel tempo e nello spazio dal luogo del disastro e dallo strazio di quelle lamiere. Errori commessi a tavolino con fredda lucidità in conseguenza dei quali si sono create le «insidie o le trappole» in cui sono caduti i compagni di lavoro pugliesi.
Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena, senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori e dei viaggiatori.
».
Altraeconomia, 14 luglio 2016 (c.m.c)
Il sistema degli spazi chiusi. È lo specifico sistema di potere sulla vita di tutti che ha preso corpo con la finanziarizzazione dell’economia e della società intera. Penso a fenomeni quali i processi economici, il degrado della politica, l’emergere dei luoghi comuni di massa, il prevalere dello scoramento per la mancanza di alternative, le migrazioni forzate e il ritorno dei muri, il moltiplicarsi di scontri bellici e tensioni internazionali, la mutazione genetica delle istituzioni, la rottura dell’alleanza tra le generazioni. Questi fatti sono a sé stanti o rientrano in un quadro d’insieme?
Nel suo libro del 1949, Origine e senso della storia, il filosofo tedesco Karl Jaspers avanzava l’ipotesi per cui tra l’800 e il 200 a. C. si verificò una fioritura policentrica della coscienza dell’umanità che coinvolse Cina, India ed Europa. In queste aree del mondo affiorarono correnti spirituali che videro protagonisti maestri come Confucio, Lao-tse, Buddha, Zarathustra, Elia, Isaia e Geremia, Omero, i Presocratici, Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide e Archimede.
Giunsero così a una straordinaria maturazione la coscienza della dignità umana, il senso della libertà e della responsabilità, il riconoscimento della comune condizione che lega tutti. Jaspers considera quella svolta come un asse della storia, che fu «il punto in cui fu generato tutto quello che, dopo di allora, l’uomo è riuscito a essere» (Mimesis, p. 19). Perciò egli parla di epoca assiale, nella quale furono aperti inediti spazi culturali, comunitari, politici. Ogni progresso vero schiude alla libertà della comunità umana un territorio prima sconosciuto.
Nel confrontare la fioritura di allora con la tendenza dell’epoca presente viene da pensare che noi siamo in un’epoca assiale rovesciata, in una stagione storica in cui ciò che è più elevato nel vivere umanamente viene mortificato.
Nell’etimologia del termine finanza c’è il significato del «portare alla fine, estinguere». La società finanziarizzata chiude gli spazi alle esperienze essenziali e le spegne.
Penso al valore delle relazioni interpersonali senza che debbano essere mediate dal denaro; al radicamento delle persone nella propria casa, lingua e patria; al lavoro come espressione della creatività e della responsabilità sociale di ciascuno; al rapporto con la natura; alla facoltà di costruire una vita comune mediante l’azione politica nella sua forma democratica; all’esercizio del pensiero critico, che salva dal conformismo e dalla menzogna. Tutte queste esperienze e capacità hanno bisogno di un loro spazio: affettivo, territoriale, sociale, ambientale, politico, mentale.
A uno sguardo d’insieme che colga l’andamento del sistema di potere vigente si rende visibile la tendenza a chiudere questi spazi. L’umanità del nostro tempo soffre di claustrofobia perché gli ambiti più preziosi dell’esperienza sociale vengono surrogati da stretti percorsi obbligati e da spazi soltanto virtuali.
Uno dei processi che attuano tale tendenza è quello della fine dello spazio politico. Le “riforme” del governo Renzi su Costituzione e legge elettorale non sono riducibili al protagonismo del premier, né al progetto di rimodernare la Costituzione del 1948. Il significato radicale di tali “riforme” è quello di completare la chiusura degli spazi per la partecipazione democratica e per la rappresentanza delle istanze più vive nella società.
La scelta di tale chiusura deriva dall’idea secondo cui il mercato governa più velocemente della democrazia e risponde a ogni esigenza, la politica non serve più. Fare politica partecipando in prima persona, elaborando idee, discutendo, lottando, dialogando, progettando è ormai come insistere a usare la macchina da scrivere invece del computer.
Resta quasi soltanto la pseudopolitica fatta di carrierismo, corruzione e servilismo verso la finanza. Perciò è urgente ribellarsi a questo incantamento e contrastarlo alla prima occasione: il referendum costituzionale di ottobre.
, ora gli italiano strappano i brandelli residui. La Repubblica online, "Economia e finanza", 14 luglio 2016
«Aperte le buste adAtene, Mazzoncini: "Operazione in mira con il piano industriale, che miraall'espansione all'estero". Battuta la concorrenza dei russi. Nel futurolo sbarco in Iran per 1 miliardo di valore»
LeFerrovie dello Stato italiano mettono le mani sulla società che gestisce iltrasporto su rotaia in Grecia. Il Fondo per la privatizzazione delle ferroviegreche (Hellenic Republic Development Asset Fund) ha dichiarato infattidichirato le Fs "preferred investor" per l'acquisizione della societàgreca di trasporto ferroviario Trainose, accettandone la relativa offertaeconomica.
L'annuncio arriva da parte della società guidata da Renato Mazzoncini, che haspecificato che il prezzo offerto è di 45 milioni di euro. L'apertura dellebuste con le offerte è avvenuta stamattina ad Atene, mentre la formaleoperazione di acquisto di Trainose verrà finalizzata nelle prossime settimane.Nei giorni scorsi, era emerso l'interesse per Trainose anche da parte dellarussa Rzd e di un gruppo di imprenditori greci. Mazzoncini aveva dichiarato cheil fatturato delle ferrovie greche è di 130 milioni.
"Perle Fs Italiane - ha dichiarato lo stesso Mazzoncini - quest'operazione è inlinea con il piano industriale, che sarà presentato a settembre e che mira, tral'altro, all'espansione internazionale. Rappresenta anche un'occasione dicrescita e di sviluppo per le ferrovie greche, che potranno contare sul knowhow e sull'esperienza del Gruppo Fs Italiane, maturati in oltre 110 anni distoria". E in effetti, a distanza di poche ore, dal ministro delleInfrastrutture e dei Trasporti - dove si sono incontrati Graziano Delrio e ilsuo omologo iraniano Abbas Ahmad Akhoundi - le Fs e le ferrovie iraniane Raihanno firmato una dichiarazione sui progetti congiunti nel settore deltrasporto ferroviario. Progetti per la realizzazione e sviluppo di due nuovelinee ad alta velocità: la Qom-Arak di 100 chilometri, e la Teheran-Hamedan di300 chilometri: "'Sulla rampa di lancio, c'è, innanzitutto, la lineaQom-Arak, del valore di circa 1 miliardo. Entro il 25 agosto - ha spiegatoMazzoncini - forniremo il progetto di dettaglio con la valutazione economicaper arrivare a febbraio alla firma del contratto: da bravi ferrovieri, stiamospaccando il secondo sulla realizzazione degli impegni reciproci".
"L'innovazione e l'alto contenuto tecnologico sono due dei pilastridi FS - ha commentato invece Gioia Ghezzi, presidente del Gruppo FS Italiane,tornando allo shopping greco - e siamo sicuri che saranno i giusti driver perguidare il cambiamento in Trainose. Le ferrovie greche potranno anchebeneficiare della grande attenzione che da sempre poniamo nella valorizzazionedei dipendenti, infatti per il secondo anno consecutivo FS è stata decretataBest Employer of Choice".
L'annunciocade proprio a poche ore di distanza dalla tragedia pugliese che - pur non coinvolgendo direttamente le Ferroviedello Stato, che non gestivano i treni e i binari coinvolti - ha ancora unavolta posto l'accento sulla necessità di rinnovare e modernizzare letecnologie, anche in Italia.

«». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
Professor Rodotà, Renzi sembra essersi emendato sulla ’personalizzazione’ del referendum e aver cambiato verso sulla legge elettorale: dopo aver imposto la fiducia, ora dice che il parlamento è libero di decidere. Ci crede? O è solo tattica, una finta per rilanciarsi?
In questi giorni Renzi sembra in difficoltà. Dire «sulla legge elettorale si vada in parlamento», visti i trascorsi, è significativo del modo in cui intende muoversi. Siamo alla contraddizione quotidiana. Ma alla fine è il sintomo di una regressione culturale, e lo dico anche se di cultura fin qui se n’è vista poca da parte sua e del suo ceto politico. Le riforme hanno chiari elementi di conservazione: non ’aprono’, non vanno nella direzione del cambiamento democratico. E la cultura di quel ceto politico è inadeguata alle domande che vengono dalla società, dallo stesso ceto politico e persino dai conflitti dentro il Pd.
Le domande della società sono quelle avanzate dal ricambio emerso alle comunali?
Il ceto politico inadeguato che si è presentato alle elezioni non poteva ottenere consenso da parte dei cittadini che si erano allontanati dalla linea del Pd. La risposta politica è stata marcata. Senza enfatizzare, basta guardare come si è distribuito il voto fra il centro e le periferie. Renzi l’innovatore ha fallito sul terreno in cui si dichiarava forte, l’incontro con la società.
Per Renzi il referendum può diventare un boomerang, come lo è stato per Cameron quello sul Brexit? E però nel voto di Londra non ci sono molti elementi progressivi.
Il parallelo con la mossa di Cameron sta nella furberia di usare un referendum per chiudere i conti nel proprio partito. Intendiamoci, in politica non è una novità. Quando in Francia ci fu il referendum sul Trattato costituzionale, io da estensore della Carta dei diritti fondamentali partecipai alla campagna per il Sì.
Ma una serie di parlamentari socialisti con cui avevo lavorato molto mi spiegarono che votavano no: «Perché Fabius gioca una sua partita nel Ps».
In questi anni si è venuto manifestando, non solo in Italia, un uso delle istituzioni legato sempre più a regolare conti interni. Il voto su Brexit ne è un esempio. Ma è sbagliato e pericoloso. Renzi non si preoccupa della divisione che promuove nella società. Invece la massima preoccupazione dei Costituenti fu che nella Carta si riconoscesse il maggior numero di soggetti politici e di cittadini, tant’è che quando De Gasperi escluse socialisti e comunisti dal governo non ci fu nessuna reazione aggressiva, si andò avanti lo stesso. Qui stiamo all’opposto, a conferma l’inadeguatezza del ceto politico. Hanno un problema con i 5 stelle, hanno bisogno di Alfano per sopravvivere, allora cambiano la legge elettorale. Gestiscono i conflitti politici con l’uso congiunturale delle istituzioni. Tutto è appiattito sul giorno per giorno.
Renzi è divisivo e felice di esserlo?
Del resto lui da subito ha puntato sulla divisione. Cos’altro è la rottamazione se non un’esclusione? Chi non accetta la mia linea lo escludo. Con parole aggressive e una continua falsificazione della realtà. Potrei parlare dell’informazione falsificata sulle proposte di Zagrebelsky, Onida, Azzariti e mie. Ma hanno persino falsificato la posizione di Pietro Ingrao della «centralità del parlamento».
Oggi invece Renzi e Boschi dicono: «discutiamo di merito», «spersonalizziamo».
Spersonalizzare non può, non può più se non abbandona le falsificazioni. E allora: non c’è alcuna semplificazione del procedimento legislativo. I risparmi sbandierati sono una strizzata d’occhio alla peggiore antipolitica, e comunque potevano esser fatti in maniera più efficace. Non sappiamo ancora come verranno selezionati i senatori. E ancora: dire che se non si vota sì non ci sarà più la possibilità di riformare la costituzione è un altro argomento falso. Quando si dà la voce ai cittadini, i cittadini debbono avere piena libertà di manifestare la loro opinione.
Il centro studi di Confidunstria calcola che la vittoria del no farebbe perdere al paese 4 punti di Pil e 600mila posti di lavoro. Anche il Fondo monetario prevede sfaceli.
La drammatizzazione è un altro modo di non entrare nel merito. Avverto che chi dice così non è in grado di analizzare la società italiana. Come chi dice che con il no l’Italia non avrebbe più un governo. In caso di dimissioni di Renzi c’è un passaggio costituzionale obbligato: il presidente Mattarella dovrebbe accertare se c’è un’altra maggioranza.
Intanto Renzi cerca di portare dalla sua qualche forza politica promettendo il premio di maggioranza alla coalizione, nell’Italicum.
È un tentativo un po’ ingenuo all’indirizzo di chi cerca un alibi per votare sì.
Anche perché quello che viene contestato all’Italicum davanti alla Consulta è il premio di maggioranza, non a chi viene attribuito.
Sull’Italicum non serve una modifica qualsiasi. I problemi aperti sono in primo luogo quelli legati alla sentenza sul Porcellum che riguarda la rappresentanza dei cittadini, l’Italicum tende a mantenerla bassa per il modo in cui è organizzata la scelta del capolista e di come sono selezionati i candidati. Ma siamo di nuovo all’uso congiunturale delle istituzioni. L’Italicum nasce quando la parola d’ordine di Renzi era un Pd al 40 per cento. Oggi che i dati sono cambiati, cambiano la legge: per costruire una coalizione che fronteggi il M5S e per tenere insieme il centrodestra.
I 5 stelle dunque hanno ragione a dire che è una mossa contro di loro?
Ma è evidente. Intendiamoci, nessuno scandalo: è chiaro che le leggi vengano fatte dalle maggioranze per vincere. Contro Le Pen Mitterrand introdusse un elemento di proporzionalità alla legge francese. Ma c’è una soglia di decenza che non dovrebbe essere superata.
Lei è favorevole allo ’spacchettamento’ del quesito?
Ho molte riserve. Sono stati messi in evidenza i problemi tecnici. E c’è il rischio che il legame fra la riforma costituzionale e la legge elettorale venga ricacciato sullo sfondo.
Ma dalla parte opposta, il fronte del no coglie la debolezza di Renzi? La mancata raccolta delle firme, anche sul quesito dell’Italicum parla di una scarsa mobilitazione oppure di una scarsa consapevolezza della posta in gioco?
Questo problema c’è. In questo momento è assolutamente indispensabile accentuare il lavoro sul versate del no. E mettere in evidenza i conflitti e le contraddizioni di cui abbiamo parlato.
C’è una coincidenza sfortunata, che forse coincidenza non è: proprio in questo momento la sinistra è debole, infiacchita dall’insuccesso delle amministrative, e nel pieno di uno stallo organizzativo.
Non c’è dubbio. Ma su questo non ho una risposta sbrigativa. Avevamo lanciato la Coalizione sociale sull’idea che non fosse sufficiente mettere insieme le forze già esistenti più o meno riferibili alla sinistra. Serviva un passo in una direzione più larga. Il tentativo non è andato bene. Dobbiamo discuterne perché, per esempio, contemporaneamente invece sono successe cose importanti: la Cgil ha raccolto le firme che annunciano una stagione referendaria importanti su grandi questioni.
Perché la Coalizione sociale di Maurizio Landini non è andata bene?
Ci rifletto da qualche tempo. Certo le forze politiche organizzate non sono state generose. Non avrebbero dovuto fare un passo indietro ma aprirsi a un altro modo di lavorare.
E come potevano i partiti non fare un passo indietro? Lei all’epoca li aveva definiti «zavorra».
Può darsi che l’espressione non fosse felice. Ma ero convinto che se non si parlava chiaro le forze politiche avrebbero portato in quella nuova esperienza i loro fallimenti passati. E non c’è bisogno di ricordarli, da Ingroia all’Arcobaleno. Ora, da spettatore, guardo all’iniziativa di Cosmopolitica. Ma aspetto di vederne il contenuto reale.
Nelle città invece un ricambio c’è stato. A Torino e Roma hanno vinto i 5 stelle, a Napoli De Magistris. Succederà che non sarà la sinistra ’storica’ a rilanciare un’idea concreta dei beni comuni?
Le città sono i luoghi della creazione dei beni comuni. Il rapporto fra i diritti fondamentali delle persone e i beni perché questi diritti vengano organizzati. Bisogna creare le istituzioni dell’eguaglianza, che sono i beni comuni, della redistribuzione delle risorse. E rilanciare la discussione sul reddito garantito, che è difficile ma non può essere liquidata dicendo che non ci sono i soldi.
Veramente Renzi ha chiuso il discorso sul tema sostenendo che il reddito di cittadinanza è incostituzionale.
Renzi ormai può dire qualsiasi cosa. C’è una lettura dell’articolo 1 della Costituzione che va in tutt’altra altra direzione. La sua è un’affermazione sbrigativa che non coglie né gli aspetti istituzionali né quelli sociali della questione. Torniamo al punto di partenza: Renzi e i suoi hanno una cultura del tutto inadeguata alle domande che vengono dalla società.

«». La Repubblica
, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
Quale confine stanno varcando i contadini tedeschi di Wesel fotografati il 24 marzo del 1945 da Robert Capa mentre fuggono dalle loro case incendiate?
Forse lo stesso confine della paura, della disperazione, del senso di catastrofe dei migranti di oggi. Sono quelle dell’anima le frontiere più paurose. I confini politici sono invisibili. Sono linee tracciate a inchiostro sulle mappe militari dai geografi del potere. Anche una cresta, un fiume, i presunti confini “naturali”, quando ci sei davanti sono solo capricci della crosta terrestre.
I confini diventano visibili, e fotografabili, solo quando il potere li rende invalicabili costruendo muri, barriere, reticolati. Non c’è nulla di sbagliato nel concetto di confine. Il pianeta Terra ha un confine, la sua atmosfera. I confini, come i limiti umani, sono fatti per lo sconfinamento, sfidarli è l’«inesplicabile e pur prepotente bisogno psicologico» di cui scrisse Ryszard Kapuscinski. Il problema non è quel che i confini “sono”, ma quel che “fanno”. Se dividono oppure uniscono. Se includono oppure escludono. Il con- fine di per sé è solo la membrana osmotica di una con- divisione del pianeta fra popoli. I muri li trasformano in una fine e basta.
Nel mondo che si pretende globalizzato i confini sembrano essere risorti nella loro drammatica geometria: una barriera fisica che un flusso perpendicolare di corpi umani cerca di perforare.
Anche la fotografia è geometria, e di foto di reticolati scavalcati quante ne abbiamo viste, in questi anni di migrazione epocale. Alcune di queste immagini, i fuggitivi più fortunati le rivedranno in un oggetto che porta il nome del loro sogno, Europa, che ora è una mostra ma verrà presto distribuito come libro in 10mila copie nei centri di accoglienza ai rifugiati in tutto il continente, curato da Cortona On The Move, coscienzioso festival di fotografia di viaggio; e quindi conterrà molte fotografie, messe a disposizione dall’archivio dell’agenzia Magnum, di cui è membro Thomas Dworzak, il fotografo tedesco che ha avuto l’idea.
Che frontiere d’Europa raccontano quelle foto, a chi le ha varcate a rischio della vita? Muri, fili spinati ci saranno, ma sono quelli i confini che i profughi ricorderanno? I muri con torrette d’avvistamento e checkpoint sono solo i confini più simbolici. I confini oggi avanzano nel mare, arretrano nei centri di identificazione, sono confini a rate e non finiscono mai. Superate queste frontiere mobili, ne trovi di nuove nel cuore delle città, salgono sull’autobus, si infilano nelle code delle Ausl, sono le frontiere della convivenza difficile, della paura dell’altro.
Fotografarle è quasi impossibile. Il sorriso dei ragazzi che toccano con la punta dei piedi la spiaggia di Lesbo è il sollievo commovente di chi è scampato a un pericolo, non di chi ha conquistato una patria. I confini oggi non separano più territori ma diritti. Sono filtri che discriminano l’autorizzato dal clandestino. Le vere dogane di oggi proteggono un bene più esclusivo ed escludente del sacro suolo patrio, un bene raro e molto più caninamente difeso che si chiama cittadinanza.
Le frontiere diventano visibili e fotografabili quando il potere costruisce muri. Superate le barriere fisiche, trovi però quelle della convivenza difficile, della diffidenza.
«Uno studio su dieci paesi della Ue rivela i timori di attentati. Ma per molti crescono anche le preoccupazioni per i costi sociali. Sono i risultati di un sondaggio del Pew research center di Washington Gli analisti: “Polacchi e ungheresi i più spaventati, ma hanno meno stranieri di tutti”» La Repubblica,
13 luglio 2016
Tra i cittadini europei, le paure di un aumento del terrorismo e di una perdita di posti di lavoro e prestazioni sociali sono strettamente legate all’ondata migratoria. Lo afferma un sondaggio reso pubblico dal Pew research center di Washington, condotto in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Polonia, Spagna, Svezia, Ungheria. Dieci paesi che insieme contano per l’80 per cento dei cittadini dell’intera Unione. Il 59 per cento in media teme che l’arrivo dei migranti accresca la minaccia di attentati, e il 50 per cento che peggiori la situazione di occupazione e di welfare e previdenza. Meno alte in percentuale, ma diffuse (media 30 per cento) sono le inquietudini per l’aumento della criminalità. E le reazioni negative ai flussi migratori sono più forti nell’Est e nel Sud della Ue, e tra elettori di destra, anziani o persone con meno istruzione.
«È un paradosso interessante che le paure siano più forti in paesi come Polonia e Ungheria, che non ospitano certo grandi numeri di migranti e non sono state colpiti dal terrorismo», dice a Repubblica Katie Simmons, vicedirettore della ricerca. E spiega: «Da un lato la paura dell’Is è particolarmente sentita là, e coesiste con uno stato d’animo più negativo verso i migranti. Dall’altro proprio là gioca molto un fattore ideologico. Perché soprattutto persone dichiaratamente di destra esprimono questi timori».
L’aspettativa di attacchi armati ancor più frequenti, e la convinzione che i migranti pesino su mercato del lavoro e Stato sociale, sono più diffuse in Ungheria e Polonia: che appunto hanno accolto pochissimi stranieri e non hanno subìto attentati. Tra gli ungheresi 76 su cento temono i terroristi, e 82 su cento danni economici e sociali, tra i polacchi rispettivamente 71 e 75 su cento.
All’Ovest, temono più terrorismo 61 tedeschi su cento, altrettanti olandesi in percentuale, 60 italiani su cento, ma appena 46 francesi e 40 spagnoli su cento. Mentre l’incubo di una perdita di lavoro e previdenza, dopo ungheresi e polacchi, vede greci (72 per cento), italiani (65) e francesi, 53 su cento. I meno timorosi di disoccupazione e colpi al welfare: tedeschi (31) e svedesi (32).
Tra gli europei, continua il rapporto di Pew research, il timore delle conseguenze del grande flusso migratorio è in parte causato anche da attitudini pessimiste verso i musulmani. In Ungheria, Italia, Polonia e Grecia in media oltre sei cittadini su dieci dichiarano opinioni sfavorevoli verso le persone di fede islamica, media europea 60 per cento. Il parere dominante, nella media dei dieci paesi, è che i musulmani tendano a restare comunità distinta dalla società di residenza anziché adottarne valori e stile di vita. Sei cittadini su dieci la pensano così in Grecia, Ungheria, Spagna, Italia, Germania.
La minaccia terrorista inquieta tutti mentre il sondaggio registra forti differenze su altri temi legati all’immigrazione. Grandi sono le divergenze d’opinione quanto all’effetto della diversità culturale per la qualità della vita e la forza d’identità nazionale. La paura di un loro deterioramento è forte tra ungheresi, polacchi, greci, italiani, francesi, mentre solo svedesi e tedeschi arrivano a consistenti ma non maggioritarie percentuali di cittadini secondo cui la multiculturalità è arricchimento.
Infine ma non ultimo, ecco diversi sentimenti verso minoranze, antiche o nuove. L’Italia, seguita dalla Grecia, è la più timorosa verso i Rom, Olanda e Germania le meno inquiete. Opinioni negative verso gli ebrei sono al massimo (55 per cento) in Grecia, alte (32) anche in Ungheria, bassissime in Olanda (4 per cento), Svezia e Germania (5). 16 per cento in media europea.
« Il manifesto, 12 luglio 2016
Un tempo c’erano i gufi, gli oppositori prevenuti di ogni cambiamento. Costoro – secondo quanto veniva propagandato dai costruttori del nuovo – utilizzavano toni apocalittici, inaccettabili. Perché strillare se tutto veniva svolto entro il solido recinto della nostra democrazia? Ora il vento è cambiato e l’apocalisse appare nei discorsi dei promotori della riforma. Le conseguenze di una mancata approvazione della riforma sarebbero drammatiche. Non solo cade il governo, ma non se ne potrebbe fare nessun altro; non solo l’attuale – peraltro risicata e ondivaga – maggioranza parlamentare verrebbe sconfessata, ma l’intero parlamento verrebbe delegittimato; non solo si esprimerebbe la contrarietà a questa riforma della Costituzione, ma ci si precluderebbe la possibilità di ogni cambiamento futuro.
Forse è il caso di tornare a ragionare con misurata serenità. Qualora dovesse vincere il No al referendum non avverrebbe nulla di drammatico.
Se il governo dovesse ritenere concluso il suo mandato e rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, questi – come sempre avviene – svolgerà le sue consultazioni per individuare un successore che possa ottenere una nuova maggioranza parlamentare. Un governo pienamente politico ovvero un governo con profilo più segnatamente istituzionale. Sarà possibile perseguire la prima ipotesi qualora una nuova maggioranza parlamentare possa formarsi sulla base di un programma di governo innovativo.
In fondo è già avvenuto in questa legislatura con il governo Renzi che ha sostituito quello Letta, nella precedente con la successione di Monti a Berlusconi. Nessuna ragione d’ordine costituzionale può ostacolare una simile soluzione anche in questo caso. Vero è che potrebbero non esservi le condizioni “politiche”: a questo si attaccano gli apocalittici di oggi. Come in ogni scenario drammatizzato si vuol far credere che non vi siano alternative, ma è questa una previsione priva di fondamento. Chi può onestamente dire quali saranno le concrete condizioni politiche che si verranno a creare dopo il referendum? Al più si può prevedere un sobbalzo, l’apertura di una dinamica che porterà a mutamenti radicali, poco prevedibili. Altro che stasi.
È, allora, possibile ma non scontato che dopo il referendum non si riesca a trovare una maggioranza politica alternativa all’attuale. In tal caso, il capo dello stato, cui spetta salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo dei poteri, potrà (dovrà?) verificare le condizioni perché si possa varare un “governo istituzionale”. Con molte possibilità di successo. Sarebbe in effetti difficile per delle forze politiche responsabili negare il sostegno ad un governo che si proponesse di modificare la legge elettorale divenuta – a seguito del referendum – irrazionale e che predisponesse la legge finanziaria in scadenza. Un governo di scopo diretto dalla seconda carica dello Stato o dal ministro dell’Economia, per poi giungere alle elezioni in una situazione di normale dialettica democratica.
Si scongiurerebbe così anche la seconda drammatizzazione. Che il nostro parlamento stia vivendo una fase di crisi della propria legittimazione non può essere negato. Ciò che appare sfrontato è l’individuare la causa nel rifiuto del corpo elettorale di una modifica della costituzione che ha tra i suoi caratteri quello di ridurre il ruolo autonomo del parlamento. Non voglio neppure qui ripetere le ragioni che fanno ritenere esattamente l’opposto: la delegittimazione del parlamento ha origine proprio nell’utilizzazione forzata delle regole parlamentari e nell’incapacità di rappresentanza politica autonoma dell’organo che le vicende della riforma costituzionale hanno messo in drammatico rilievo. Il fallimento della riforma costituzionale può ben essere letta come un tentativo di ridare dignità ad un parlamento offeso.
Certo, una nuova legge elettorale dopo il referendum fallito s’imporrebbe. Ed è proprio da lì che può iniziare una risalita, una ri-legittimazione della rappresentanza politica, altro che drammatizzare la crisi.
Che dire poi della “minaccia” di non poter più cambiare. Dopo questa riforma si chiuderebbe per sempre ogni possibilità di trasformazione. Condannati ad un futuro di declino e impotenza. Una serie veramente cospicua di argomenti valgono a confutare questa torva prospettiva. C’è da chiedersi anzitutto se il rischio di non riuscire più a cambiare possa comunque giustificare un peggioramento. È la logica del cambiamento per il cambiamento che non può essere condivisa.
Perché tanti fautori dell’attuale riforma si opposero allo stravolgimento della costituzione nel 2005? Solo perché a proporla erano le forze del centrodestra? Ovvero perché era una riforma anch’essa fortemente innovativa, e però di segno regressivo? Se – come dev’essere – è il senso del cambiamento che deve essere valutato e non certo la mera capacità di cambiare (in peggio) è chiaro che l’argomento di non riuscire più a modificare l’assetto costituzionale perde molta della sua forza. Ma poi è questa una previsione priva di riscontro storico. Se ci volgiamo al passato non può dirsi che dopo i fallimenti delle “grandi” revisioni del testo costituzionale si sia arrestata la capacità dei parlamenti di modificare il testo costituzionale. Dalla riscrittura del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, non è mai mancata la spinta al cambiamento del testo costituzionale. E non sempre è stato in meglio.
Infine, c’è scarso senso della storia in questa presunzione di far terminare la stagione delle riforme con quest’ultima revisione. È la logica dell’ultima spiaggia che appare una visione miope, non in grado di guardare oltre al proprio orizzonte. Ed è proprio per trovare nuovi lidi che è necessario opporsi a questo mesto tramonto che ci viene proposto in nome del nuovo.
Giulia Merlo intervista Luciana Castellina, limpida voce della migliore sinistra novecentesca e della speranza di un futuro alla sua altezza. «Il Partito comunista ha realizzato le cose migliori per questo paese. Ora c’è la morte: le periferie prima erano dense di vita collettiva e politica, oggi sono luoghi dove non c’è nulla». Il Dubbio, 11 luglio 2016
«Sinistra significa cercare ciò che nessuna rivoluzione è ancora riuscita a ottenere: coniugarel’uguaglianza con la libertà. Un obiettivo non ancora raggiunto, ma non vedo perché dovremmo rinunciare». E Luciana Castellina rinunciare non intende di certo. Figlia della generazione “giovane e bella” che ha visto sbocciare l’Italia repubblicana, è stata una protagonista della sinistra in tutte le sue forme: da politica come dirigente del Partito comunista, da intellettuale quando fondò Il manifesto, uscendo traumaticamente da quello che ancora oggi considera il suo partito, e ora da memoria storica, che guarda con disincanto dalla sua casa di Roma le macerie di una politica da rifondare.
Cominciamo dall’oggi. Guardando alla sinistra italiana, nel Partito Democratico di oggi vede una qualche eredità del suo Partito comunista?Il Partito Democratico non è l’eredità del Pci, è l’aborto. Pur con tutta la buona volontà, non vedo nulla di quella storia. Certo, quando giro per l’Italia incontro tanti bravi compagni, che sono rimasti uniti per quello che loro considerano ancora “il partito”, ma io mi chiedo quale partito. Il Pd non esiste come struttura partitica viva nel Paese.
Quella del Pci è una tradizione che è andata dispersa, quindi?
Il Partito comunista italiano è un cadavere che giace abbandonato. Con la costituzione del Pd è stata spezzata una storia, un orgoglio e una soggettività, e lo si è fatto in modo mortificante. Anche questo ha contribuito a far germinare la cultura dell’antipolitica e dell’individualismo, che stanno distruggendo l’idea stessa di democrazia.
L’ultimo portatore della tradizione comunista, forse, è Massimo D’Alema.
Mah. D’Alema è una figura bizzarra, perché non è parte del Partito Democratico ma continua a dimenarsi al suo interno, combinandone di ogni genere. Lo considero una persona intelligente, ma politicamente le ha sbagliate tutte.
Eppure il suo leader, il premier Matteo Renzi, è indubbiamente una figura carismatica che ha riportato il centro-sinistra alla guida del Paese.
Mi viene difficile definire di sinistra un Governo che sostiene che il Parlamento debba intralciare il meno possibile, che i sindacati siano da ammazzare e che la governance vada affidata a tecnici e a fantomatici “esperti”. Per quel che riguarda la leadership, un leader non può esistere senza un partito. La politica di oggi è uguale ai programmi televisivi, che ragionano solo in termini di auditel e che cambiano per incontrare il gradimento del pubblico. E’ un gioco di specchi: la politica coincide con l’opinione pubblica, che segue ciò che il potere costituito le induce.
Come dovrebbe essere, invece?
La politica è costruzione di senso, di un progetto e dunque di un soggetto consapevole. E qui incontriamo il problema sociale dei nostri tempi: la collettività, che non riesce a ritrovare il proprio protagonismo.
Lei ha vissuto gli anni più intensi della storia del Partito comunista e della sinistra italiana. Che cosa ricorda di quegli anni?
Il Partito ha vissuto una storia più ortodossa e una più eretica, che poi è stata la mia. Nell’insieme, però, tutto ciò che di buono si è ottenuto in questo paese viene dal Partito comunista italiano. Ricordo gli anni Cinquanta, difficilissimi e con lotte terribili, ma anche anni di costruzione e di grande entusiasmo. Poi gli anni Sessanta, in cui la sinistra italiana si è aperta alle correnti politiche e culturali internazionali, generando un dibattito vivace, sfociato poi nella bellissima stagione del 1968. In questi anni abbiamo combattuto per impedire il degrado del Pci, che si stava burocratizzando e arroccando nelle istituzioni e nei poteri locali, perdendo contatto con le lotte. Gli anni Settanta sono stati invece l’inizio della fine.
Ricorda quando ha preso la prima tessera del Pci?
Io mi sono iscritta nel novembre 1947, l’anno delle elezioni amministrative a Roma. Venivo dalle battaglie del partito a livello giovanile con il Fronte della gioventù, e a spingermi a prendere la tessera è stato un episodio di cronaca. In quell’anno un militante della Democrazia Cristiana venne ammazzato a piazza Vittorio, mentre attaccava dei manifesti. Dell’omicidio furono accusati tre ragazzi comunisti, arrestati e poi scarcerati, e fu forse la prima delle provocazioni di quel periodo di grandi contrasti. Non si scoprì mai chi uccise quel giovane, ma per me quello fu il segnale che i tempi belli del Dopoguerra e delle speranze erano finiti e che cominciava un periodo duro, di scontro anticomunista. Lì ho capito che non si poteva più solo simpatizzare ma bisognava impegnarsi completamente.
Quella è stata anche la stagione dei grandi leader di partito. Chi ricorda con più nostalgia?
Sicuramente Palmiro Togliatti. Fu un personaggio di statura straordinaria, di cui oggi non si parla più. Io l’ho conosciuto: parlava come un professore di liceo e scriveva in modo molto difficile, portava sempre un vestito blu a righe con il doppio petto e gli occhiali. Aveva tutto tranne che l’aspetto di un leader carismatico come lo intendiamo oggi, eppure la sua morte ha provocato il primo vero moto spontaneo e nemmeno previsto dei militanti del Pci. Un milione di persone si riversò a Roma per il suo funerale, una mobilitazione immensa che non si era mai vista, vent’anni prima di Berlinguer.
Un nome, quello di Enrico Berlinguer, che più di Togliatti è rimasto nella memoria collettiva della sinistra di oggi.
Berlinguer è stato fatto passare per una sorta di zio buono e un po’ scemo. In questo senso, l’informazione ha fatto un servizio terribile alla sua memoria. Per ciò che posso dire io, il giudizio migliore su di lui me lo diede una militante, che mi disse: «Parla così male che è assolutamente certo che dica la verità». Questo per dire come non era certo l’arruffapopoli che ad alcuni piace descrivere.
Com’è stato essere donna in un partito come il Pci?
Quando ferveva il dibattito sul voto femminile, la parte più retrograda del partito era contraria perché temeva che, dando il voto alle donne, queste avrebbero ascoltato il parroco e votato per la Democrazia Cristiana. Fu Togliatti ad imporsi, rivendicando il protagonismo politico femminile: il Pci ha consapevolmente costruito una soggettività delle donne, pur scontando un’origine culturale profondamente contadina.
Il Pci ha anche dato al Parlamento la prima donna Presidente della Camera...
Io ho apprezzato Nilde Iotti soprattutto nella sua fase politica precedente, perché poi la retorica l’ha trasformata in una specie di busto marmoreo. Lei invece ha diretto con grande intelligenza la sezione femminile del Pci e il suo merito è stato di avere il coraggio di essere una donna normale, senza travestirsi né da guerrigliera né da suora missionaria.
Lei però il Pci lo ha abbandonato, quando fondò Il manifesto insieme a Pintor, Rossanda e Parlato.
E’ stata una scelta drammatica per me, che ero iscritta al partito da 25 anni. Il nostro però non è stato lo strappo con un mondo, perché il nostro obiettivo era quello di rifondare il Partito comunista. Ricordo ancora lo slogan: volevamo «scioglierci in un rigenerato comunismo italiano».
Anche l’informazione, in Italia, è cambiata molto da quel 1971.
Sicuramente oggi i quotidiani mi annoiano molto più di allora. Oggi i giornali dovrebbero essere più difficili, non rincorrere facilonerie. Per le cose facili c’è internet, se compro un giornale vorrei che qualcuno mi spiegasse ciò che non capisco, invece di infarcire le pagine di banalità.
Tornando a parlare dell’oggi, Roma ha appena eletto la prima sindaca donnadel Movimento 5 Stelle e le periferie hanno definitivamente abbandonato lasinistra. Se lo aspettava?
Non mi ha meravigliato. Non nutro speranze su Virginia Raggi, ma del restonemmeno Gesù Cristo potrebbe risollevare Roma. Basta andare a vederle, quelleperiferie: prima erano dense di vita collettiva e politica, oggi sono luoghidove non c’è nulla. Questa città è cambiata in modo tremendo: se penso acom’erano le mie borgate, dove andavo a lavorare per il partito negli anniCinquanta! Erano luoghi tremendi, pieni di profughi, ladri, prostitute,affamati e analfabeti, ma fremevano di uno straordinario protagonismo che oggisi è completamente perso.
Eppure alcuni analisti vedono qualcosa del vecchio Pci nella struttura delMovimento 5 Stelle.
Falso, non bisogna confondere un partito di massa con il populismo. Il Pci eraun partito del popolo che riusciva a interpretare la propria storia per darleun senso popolare e non d’élite. I 5 Stelle, invece, credono che il popolosiano le poche manciate di persone che rispondono ai loro sondaggi su internet.
E nella sinistra italiana qualcosa si sta muovendo?
La società italiana è dinamica, i movimenti stanno riprendendo forza,soprattutto quelli che si occupano di immigrazione, e anche la rete deglistudenti di sinistra è una realtà meravigliosa. Si tratta, però, di unadimensione frantumata che va ricostruita, soprattutto dal punto di vista dellacomunicazione e della visibilità. Il vero obiettivo, però, rimane quello diriportare la gente ad amare la democrazia, ricominciando dall’Abc e riportandoi giovani alla politica, che significa prima di tutto pensare il mondo inrelazione all’altro e non a se stessi.
A proposito di democrazia, andrà a votare al referendum costituzionale diottobre?
Assolutamente sì. Andrò a votare, parteciperò ai comitati e voterò no, proprioin nome della cultura democratica di cui abbiamo parlato.
L’Europa è il tema del suo ultimo libro, Manuale antiretorico dell’UnioneEuropea, in cui analizza le origini ma soprattutto il futuro di questaistituzione. Lei che giudizio dà?
Anzitutto io credo sia necessario sciogliere un equivoco. L’Europa e la suaistituzione - prima la Cee e oggi l’Unione Europea- sono due cose moltodiverse. Si può amare molto l’Europa e detestarne invece l’istituzione. Delresto, che l’Ue fosse detestabile si vedeva già dalla sua costituzione, bastipensare che gli stessi federalisti della scuola di Altiero Spinelli ladisconobbero subito come loro creatura. L’Unione nasceva con l’ideale diimpedire le guerre nel continente, ma poi nel concreto divenne da subito partein campo della Guerra Fredda, coincise con la Nato e con l’armarsidell’Occidente. Per quanto riguarda un giudizio sull’oggi, l’Europa deltrattato di Maastricht e Lisbona è se possibile anche peggiore di quellainiziale.
La risposta è la Brexit, allora?
Certo che no. La Brexit nasce da una pulsione diversa, lo scetticismobritannico verso un’istituzione che viveva come riduttiva del suo ruolostorico. Inoltre in Gran Bretagna c’è stata una fortissima polemica delsindacato operaio contro un’Europa che avvertiva come responsabile di unattacco al welfare, cosa per altro storicamente falsa perché è stata MargaretThatcher a smantellarlo. Io credo che, nonostante tutto, una forma diistituzione europea vada mantenuta, perché necessaria come strutturapolitico-democratica che prenda le decisioni in un mondo sempre piùglobalizzato. In questo senso considero il ritorno alla sovranità nazionalecome una pura follia, e chi crede il contrario non sa di che parla. Rimaneresoli come stati nazionali significa cadere nell’oceano della globalizzazione evenire risucchiati.
E dunque che direzione dovrebbe prendere quest’Europa?
Io sono convinta però che la strada sia quella di creare macroregioni in cuiricostruire un meccanismo di controllo politico sull’Unione, il cui malemaggiore è che lascia le decisioni fondamentali agli accordi tra capitaleprivato e multinazionali, mentre gli stati sovrani si occupano solo di regolamentiapplicativi.
C’è un problema di democrazia, quindi.
Certo, e la Gran Bretagna ne è stata esempio. Lì abbiamo assistito a un votoantiestablishment e l’errore di chi governa è stato fare un referendum su untema assolutamente complesso, su cui si sono scaricate l’emotività e la nonconoscenza. La democrazia, però, non è questo: la democrazia deve essere colta,una struttura che nutre le articolazioni sociali e collettive e che dà aicittadini gli strumenti per capire che cosa sta votando.
Potrebbe essere questo il ruolo della sinistra europea, di cui da anni siparla come cuore di una futura forza riformista?
Willy Brandt diceva che il Partito socialista europeo è il miglior posto doveandare a leggere i giornali dei propri paesi. In pratica non conta nulla,perché è una formazione puramente formale. La vera responsabilità dellasinistra, però, è un’altra: non aver mai lavorato per una vera costruzione diun demos europeo. Per incidere sulle decisioni, infatti, sarebbe statonecessario costituire un soggetto politico-sociale, un’opinione pubblica chevalicasse i confini nazionali dei singoli stati.
«Il "primum vivere", che viene dalle teorie e pratiche originali del femminismo, trova paradossalmente nell’orizzonte chiuso di chi dice di non avere futuro, la sua spinta più forte e più convincente».
Comune-info, 10 luglio 2016 (c.m.c.)
Dell’ “erba voglio” si dice proverbialmente che non cresce neppure nel giardino de re. Eppure c’è stato un tempo, una stagione «breve, intensa ed esclusiva», in cui è comparsa nei luoghi più impensati: dalla scuola alle fabbriche, agli interni di famiglia.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, nella fase di massima espansione della società dei consumi, che prometteva cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, due “soggetti” tenuti per secoli ai margini della storia – i giovani e le donne – hanno dato prova di una straordinaria «creatività generativa», destinata a cambiare il volto della politica e dell’idea stessa di rivoluzione.
Con loro hanno fatto ingresso nella polis le categorie del “desiderio” e della “felicità”, guardate con sospetto dalla sinistra parlamentare ed extraparlamentare perché ritenute meno materialistiche di quella del bisogno, e hanno aperto prospettive inedite al “tragico” dualismo che ha diviso e contrapposto privato e pubblico, individuo e società, natura e cultura, destino del maschio e della femmina.
Elvio Fachinelli, originale interprete del ’68, in un articolo uscito sui Quaderni piacentini nel febbraio dello stesso anno, così definiva il «desiderio dissidente»: una «diversa logica di comportamento rispetto al reale e al possibile, contrapposta alla logica del soddisfacimento dei bisogni fino allora dominante».
Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione.
Il venir meno dei confini tra vita e politica, anziché portare all’evidenza i nessi, che ci sono sempre stati, tra due poli astrattamente divisi dell’esperienza umana, sembra aver prodotto un amalgama difficile da districare, ma proprio per questo destinato a muovere resistenze, prese di distanza individuali e collettive.
A lasciare aperta la speranza è ancora una volta la lettura che Fachinelli fece dell’“utopia” di Walter Benjamin: «esigenze radicali», di cui si può dire che rappresentino in un particolare momento storico il «possibile attualmente impossibile», e che per questa stessa ragione si ripropongono nel tempo a venire, chiedendo risposte e soluzioni.
Che la crisi economica sia anche la crisi di un modello di sviluppo e di una civiltà che ha avuto come protagonista unico il sesso maschile, che la sessualità sia parte essenziale non riconosciuta della vita pubblica, dei suoi poteri, della sue istituzioni, dei suoi linguaggi, sono acquisizioni oggi presenti nelle coscienze di uomini e donne, più di quanto la generazione del ’68 potesse immaginare. Il «primum vivere», che viene dalle teorie e pratiche originali del femminismo, trova paradossalmente nell’orizzonte chiuso di chi dice di non avere futuro, la sua spinta più forte e più convincente.
Chi ha seguito un’altra logica, un altro ritmo, non può fallire e scomparire per sempre. Attualità e inattualità, presente e passato, continuità e imprevisto, intelligenza personale ed elaborazione collettiva, non ubbidiscono a «passaggi meccanici». Il rimando reciproco non è quello di causa-effetto e del discorso lineare, ma dei movimenti improvvisi, della frattura.
A tenerli insieme è la possibilità della “ripresa” aperta a nuove, impensate soluzioni. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce lo aspettiamo.

«
la Fondazione intitolata a lui, ha organizzato una serie di iniziative che tendono a raccordare diverse sue esperienze».
La Repubblica, 10 luglio 2016 (c.m.c.)
Emilio Vedova moriva dieci anni fa, nell’ottobre del 2006. E per il decennale la Fondazione intitolata a lui e a sua moglie Annabianca, scomparsa appena un mese prima del marito, ha organizzato una serie di iniziative che tendono a raccordare diverse sue esperienze.
In primo luogo, ovviamente, la pittura e, a seguire, la musica e l’architettura. Il cuore dell’esposizione è nei Magazzini del sale, lungo la Fondamenta delle Zattere, all’inizio del canale della Giudecca, dove Vedova aveva il suo studio. Qui, su un grande pannello che occupa buona parte di una parete è allestito un complesso collage di opere su carta, che nella loro sequenza compongono quasi un lavoro a sé. Come a voler documentare un’unitarietà di fondo della produzione di Vedova al di là della successione cronologica.
Il collage è il fulcro della mostra Emilio Vedova Disegni, curata da Germano Celant e Fabrizio Gazzarri (fino al primo novembre. Catalogo Lineadacqua), che raccoglie materiali perlopiù inediti di Vedova appartenenti alla Fondazione. Essi abbracciano l’intera carriera del pittore veneziano, dal 1935 fino al 2006 e si dividono in due segmenti, uno dal ’35 al ’40, l’altro dal ’40 al 2006.
Lo squilibrio temporale è determinato dal fatto che la prima sezione documenta il lavoro iniziale di Vedova, compresi i suoi studi sulle chiese veneziane, Sant’Agnese e San Salvatore in specie, mentre la seconda spazia in tutte le successive fasi della pittura di Vedova, dalle suggestioni cubiste e futuriste degli anni immediatamente seguenti la guerra, all’esplosione di segni e di forme che in vario modo caratterizzano il suo linguaggio nei decenni a venire.
Il decennale della morte è anche l’occasione per rievocare la stretta relazione fra Vedova e Renzo Piano. Negli archivi della fondazione sono visibili le lettere che il pittore inviava all’architetto. In una di queste gli annuncia l’intenzione di creare una propria fondazione, fondazione che poi avrà sede in alcuni locali dei quattrocenteschi Magazzini del Sale. Sarà poi lo studio di Piano a progettare l’allestimento della sede espositiva realizzando quel formidabile meccanismo che consente di far scivolare le gigantesche opere di Vedova lungo un binario e di sistemarle a diverse altezze, quasi fosse una macchina scenica che trasforma l’esposizione in una rappresentazione teatrale. I carrelli scorrono nella navata, agganciano i quadri, li sollevano e poi li depositano: tutto è comandato elettronicamente.
Le lettere di Vedova a Piano documentano un sodalizio che conobbe un intenso passaggio creativo nel 1984. Entrambi collaborarono al Prometeo, l’opera di Luigi Nono con i testi che Massimo Cacciari aveva tratto da Eschilo, Euripide, fino a Hölderlin, a Walter Benjamin e ad Arnold Schönberg. Direttore d’orchestra era Claudio Abbado. Piano ideò l’Arca, ossia lo spazio scenico in cui si svolgeva l’opera, e Vedova curò la scenografia, in particolare le luci.
Dall’architettura alla musica. Un’altra iniziativa della Fondazione s’intitola Euroamerica ed è un ciclo di concerti che si apre il 15 luglio, sempre al Magazzino del sale, con il pianista Chick Corea.
La rassegna, curata da Mario Messinis, fa riferimento al De America un ciclo di circa cinquanta dipinti su tela che Vedova realizzò nella seconda metà degli anni Settanta, avendo negli occhi le impressioni suscitate da diversi viaggi oltreoceano, attraverso «deserti, canyons, riserve indiane, ghetti nei e bianchi delle immense metropoli».
«"». Il manifesto, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
«Non ti preoccupare, mi riconoscerai, ho i capelli lunghi e sono vestito da rom». Santino Spinelli è un rom particolare, ha conseguito due lauree, insegna all’università – Trieste, ora Chieti, in futuro forse Milano – e contemporaneamente è un musicista, in arte Alexian, che ha suonato per tre papi diversi e due volte solo per «Francesco», come chiama papa Bergoglio. È figlio e nipote di rom abruzzesi deportati durante i rastrellamenti e gli internamenti fascisti, una sua poesia è inserita nel monumento che a Berlino onora la memoria dello sterminio nazista di sinti e rom.
Pantaloni neri, maglietta nera, giacca bianca, una catena pesante in oro da cui pende un pesce snodabile, Santino Spinelli sbarca nell’afa della stazione dei pullman della Tiburtina con una enorme valigia rossa piena di libri: il suo ultimo lavoro che va a presentare, Rom questi sconosciuti, storia, lingua, arte e cultura e tutto ciò che non sapete di un popolo millenario, 553 pagine bibliografia inclusa, Mimesis, euro 25).
«In effetti – quasi si giustifica Spinelli – è una mini enciclopedia, raccoglie le ricerche di una vita, ma soprattutto cerca di colmare un enorme vuoto di conoscenza, i rom sono il popolo più sconosciuto d’Europa, cosa si sa della sua cultura? del suo teatro, della poesia rom. Non c’è una sola parola presa in prestito dal romanès in italiano». Come se cinque secoli e più di convivenza sulla stessa terra, tra guerre e invasioni, fossero stati cancellati. Deliberatamente e puntigliosamente.
La rappresentazione del popolo romanò – guai usare l’eteronimo «zingaro» portatore dello stigma sociale, appunto – è stato ed è tuttora appiattito dentro uno stereotipo – di brutto, sporco e cattivo – che lo ha fatto diventare la minoranza etnico-linguistica più odiata e misconosciuta, in Italia in modo particolare, come documenta uno studio recente del Pew Research Center.
Tutta l’attività trentennale di Santino Spinelli, gli studi storici, linguistici, antropologici e di musicologia, sono volti a sfatare quello che chiama «uno sguardo strabico» prevalente.
Chi ricorda, per esempio, che Gilda la Rossa, alias Rita Hayworth, in realtà era mora e di una famiglia di calé spagnoli famosi ballerini di flamenco? O Elvis Presley, sangue-misto sinto tedesco e romanichal irlandese, e Charlie Chaplin, mezzo ebreo e mezzo rom?
Per arrivare ai giorni nostri basti pensare allo scrittore Mikey Walsh, i calciatori Eric Cantona e Zlatan Ibrahimovic, l’attrice Hellen Mirren, o Bob Hoskins: tutti con origini rom, come moltissimi altri personaggi meno noti nella carrellata contenuta nel libro, pugili, cantanti pop o rap, attori e sceneggiatori anche di serie tv e naturalmente jazzisti, a cominciare dal capostipite Django Reinhardt.
«Le cronache storiche hanno sempre privilegiato la narrazione della devianza rom – dice Spinelli – ma in ogni epoca, e l’ho anche documentato, ci sono state figure eccellenti, che hanno offerto al mondo un grande contributo nel campo dell’arte, creatività e in quello delle varie competenze. Esiste un rom pure alla Nasa. Ma nessuno ne parla e questo contribuisce alla perdita di senso di sé e di memoria da parte della popolazione romanì, anche dei più integrati».
È fondamentale sapere che dei circa centosettantamila rom e sinti presenti in Italia – la terza minoranza riconosciuta dopo sardi e friulani – l’ottanta per cento sono cittadini italiani e risiedono stabilmente in abitazioni mentre solo il tredici per cento è relegato nei «campi nomadi» più o meno istituzionalizzati e la restante parte vaga sotto cavalcavia autostradali, sul greto dei fiumi o lungo le ferrovie dismesse.
«I rom non sono nomadi e non lo sono mai stati come tratto dipendente da loro, culturale», va ripetendo in giro Spinelli, che sull’argomento porta a suffragio di questa tesi le ricerche storiche comparate dei più importanti romanologi, studiosi del popolo romanò che datano la prima diaspora dall’India in Persia attorno al X secolo, successiva a una disfatta militare e alla fuga da un assoggettamento schiavistico dei vincitori. «L’itineranza è sempre stata una strategia di difesa, una mobilità coatta, e tutte le volte che i rom hanno potuto si sono insediati, sedentarizzandosi», sintetizza infine Spinelli.
Partiamo dunque dall’inizio: con quale sguardo è corretto approcciarsi alla cultura e al popolo rom?
Il popolo rom è un infinito antropologico. Significa che ci sono tanti modi diversi di essere rom, tanto che ogni rom a un certo punto ti dirà «me chacho rom», cioè io sono il vero rom, rivendicando di essere l’unico soggetto a determinarsi contro qualsiasi pretesa esterna. La diversificazione dipende dall’appartenenza a una comunità che è determinata dagli usi, dalle tradizioni, dalle norme morali e dalla storia che porta con sé e che esclude gli altri, non solo i gagè ma tutti gli altri. Anche io, che faccio parte dei rom italiani di antico insediamento, arrivati in Italia durante il Rinascimento, se volessi entrare in una comunità di rom kalderasha, mi respingerebbero come estraneo. Ogni gruppo è autoreferenziale.
Mancando una lingua scritta, una religione comune, un territorio, cosa tiene allora insieme il popolo rom come popolo?
La romanipé, parola intraducibile che possiamo rendere come identità rom, sia individuale che collettiva. Ogni comunità ha la sua romanipè, che crea il romano them, il mondo di riferimento con riti di nozze, funerali, battesimo, corteggiamento, e la propria romani kris, l’amministrazione delle regole morali attraverso un comitato di anziani o di saggi.
L’architrave di fondo di queste diverse romanipé è un modo di porsi di fronte alla vita, che resta invariato nel tempo e nello spazio, e che si basa sui concetti di puro-impuro e di baxt-bibaxt, cioè fortuna-malasorte ma anche felicità-malessere, positività-negatività. Sono questi gli elementi basilari che, con gradi diversi e sfumature, si ritrovano in tutte le comunità. Il popolo è costituito da rom, sinti, calé, monouches e romanichals.
Poi ogni gruppo ha una diversificazione in comunità, essenzialmente caratterizzate dai mestieri tradizionali di ognuna, e dialetti diversi. Il nucleo basilare della comunità è però sempre la famiglia allargata o familje, sostanzialmente patriarcale. Fino a tutto il periodo bizantino, cioè fino all’all’arrivo nei Balcani, tutte le comunità hanno mantenuto una soggettività e una storia comune.
Esistono delle differenze nella funzione genitoriale e nell’approccio al lavoro?
I bambini, che sono il cemento della coppia e la ricchezza della famiglia, sono lasciati molto liberi e educati prevalentemente dalla madre, in una divisione dei ruoli maschili e femminili piuttosto rigida che si rispecchia anche nella gestione degli spazi dell’abitare, ma la crescita dei bambini è comunque vista in un’ottica comunitaria in cui l’autorità morale del padre, proiettata pure nelle relazioni verso il mondo esterno, è estesa anche allo zio paterno e al nonno. Il lavoro per i rom è una funzione, un mezzo, mai un fine in sé. Non deve togliere il tempo per la famiglia e per la comunità. Un rom non vive per lavorare.
Nel libro si parla molto anche di Mafia-capitale che. tra l’altro. proprio in questi giorni ha condotto a nuovi sviluppi giudiziari. Chi sono questi «falsi amici» contro cui il libro si scaglia?
Fin dagli anni Novanta ho denunciato ciò che ho definito «Ziganopoli». Ora le cronache giudiziarie mi stanno dando ragione. Ma non sono un magistrato né un giornalista e mi interessa l’impatto culturale di questo meccanismo. È fondamentale comprendere e separare ciò che è la cultura rom e cosa è invece il portato e l’effetto collaterale della cattività, cioè della segregazione razziale, che viene attuata con i campi nomadi in particolare dagli anni Ottanta, ed è un crimine contro l’umanità.
Dagli anni 60 sono iniziati a arrivare in Italia rom dalla Jugoslavia, a causa della crisi economica là, ed è nata l’Opera Nomadi. E con essa si è fatta strada l’idea dei campi nomadi, con il varo di cinque leggi regionali specifiche per finanziare i campi mentre altri rom, profughi della guerra nell’ex Jugoslavia, non venivano accolti come profughi, appunto, ma come nomadi. Negli anni un fiume di denaro pubblico è stato riversato in una politica discriminatoria, repressiva e segregante non solo a Roma ma in tutta Italia.
Solo che a Roma i numeri sono enormi: ventidue milioni di euro nel 2013 per il sistema-campi nella capitale, l’anno successivo trentaquattro sgomberi forzati a Roma e Milano, per l’Expo, che hanno coinvolto complessivamente 3.435 persone. Per insegnare la lingua e la cultura romanì, zero euro. Tanti soldi per la scolarizzazione, gli scuolabus, e neanche un laureato rom. Tutte queste strategie hanno fallito perché partono da una visione distorta, che ha fatto solo comodo a chi l’ha usata per un proprio tornaconto personale. I rom dovrebbero essere risarciti perché questa politica ha devastato quattro generazioni che hanno conosciuto solo la degradazione dei campi e sono ora difficilmente recuperabili.
Cosa si dovrebbe fare a questo punto?
Faccio io una domanda: come si può pensare di integrare un popolo senza una partecipazione attiva del popolo stesso? L’integrazione è interazione che, come l’amore, si fa in due. Si fa con la volontà di integrarsi, di proporsi al meglio, da una parte e dall’altra con la volontà di accogliere e rispettare. Non ci può essere integrazione senza una valorizzazione culturale. L’Italia è l’unico paese europeo dove non esiste neanche un festival di musica rom. Come può vivere la cultura rom se non esistono biblioteche, se la lingua e la cultura non sono insegnate? E non parlo di un folklore fasullo, propagandistico per Mafia-capitale.
Bisogna restituire dignità sociale a rom e sinti, sottrarli alla speculazione di Mafia-capitale che non è affatto finita per i rom. Ho l’impressione che dovranno cadere ancora molte teste. Perché non si riformi poi lo stesso meccanismo è necessario cambiare logica, uscire dallo stereotipo per cui i rom sarebbero solo un reperto antropologico, primitivo e capace solo di una sottocultura e di una economia informale tossica per la sopravvivenza, che invece è data dal contesto di segregazione in cui sono lasciati. E riconoscere invece che sono una ricchezza per la società.

». Il manifesto, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
Il rapporto tra poteri e resistenze è anche una partita tra luce e ombra. E non si tratta di stabilire una volta per tutte un primato tra i due ambienti, piuttosto di tracciare la loro reversibilità tattica. Ma se è vero che il controllo oggi si gioca sulla necessità di prevedere il comportamento di soggetti liberi e mobili, ciò significa che la luce su cui si fonda dovrà partire dai soggetti stessi. Da qui, forse, la necessità di un elogio dell’ombra, a quarant’anni da Sorvegliare e punire di Michel Foucault e a più di sessanta da L’uomo invisibile, unico romanzo compiuto di Ralph Ellison.
Sessant’anni potrebbero essere un tempo congruo per disperdere l’eco delle prime parole di quel libro. Eppure erano potenti, le note di un manifesto a venire, una new thing: «sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito?»
Poche frasi e la voce si localizza, facendo di un seminterrato l’indirizzo da cui recapitare un’autobiografia a ritroso destinata a insinuarsi di piatto nelle pieghe di un secolo tagliato a metà dalla linea del colore: «vivo abusivamente in un edificio affittato solo ai bianchi, in una sezione del seminterrato che fu interrotta e dimenticata durante il XIX secolo». Dove può abitare uno squatter nero, in un condominio per soli bianchi, se non nell’ombra? A ripensarci, Ellison è stato davvero lo scrittore dell’ombra.
Shadow and Act è il titolo della raccolta di saggi che seguirà, anni dopo, il primo lavoro – quando ormai il jazz era diventato il suo nuovo condominio, un condominio black, anche se sotto costante minaccia di sfratto, e prima che le 2000 pagine del secondo infinito romanzo bruciassero insieme al tentativo disperato di riscriverle. La questione però era sempre la stessa: la condanna a vivere nell’ombra che diventa possibilità di agire nell’ombra, magari indossando maschere ad hoc, come suggerirà in Black Mask of Humanity. Forse Ellison conosceva l’etimo latino di persona, che rimanda a phaersu, la maschera funebre etrusca, e probabilmente a per-sonare, il suono che passa attraverso una maschera comica, o l’ancia di un sax.
Anonimato mainstream
Due mesi fa un gruppo di ricercatori del Queen Mary ha annunciato di aver smascherato Banksy, membro non anonimo del popolo degli invisibili – schiera eterogenea che dal passamontagna del subcomandante Marcos arriva all’ombra accecante del famigerato Jihadi John, l’aguzzino di Daesh. Le modalità di cattura aggiornano un’«arte» antica, la caccia all’uomo: geo-localizzazione, incrocio di dati, macchie di calore, hot-spot che tracciano percorsi, frequenze, profili. E poco importa che finiscano per confermare vecchie ipotesi, un’inchiesta tradizionale di un tabloid inglese pervenuta allo stesso nome e indirizzo.
Piuttosto vale la pena chiedersi perché proprio Banksy. Lo spiega un articolo sull’Independent: «the academics made the unflattering comparison between Banksy’s street artwork and acts of criminal vandalism». Certo, Banksy è un tagger, mainstream ma pur sempre vandalo. Si è trattato dunque della prova generale di una app da lanciare altrove, nel mare magno del mercato della sicurezza.
Da oggi, si annuncia, vandali, tagger ma anche molestatori oltre ovviamente a criminali e potenziali terroristi non avranno più ombra: nessuno bacerà o ucciderà nell’ombra. La stagione degli uomini invisibili sembra alle nostre spalle. Va detto però che «invisibili», in origine, nel diritto internazionale, erano gli undocumented, soggetti divenuti tali per aver perduto ogni nazionalità: in Grecia e Turchia all’inizio del Novecento, dappertutto nell’Europa a cavallo tra le due guerre, a milioni sotto il Reich e poi ancora nel dopoguerra, per esempio tra gli «sciavi» in Friuli.
La lista si potrebbe aggiornare, se non fosse che gli undocumented di oggi, una volta varcata una linea di fuga, finiscono per lo più sotto i fari di una motovedetta, un molo, una frontiera spinata. E qui diventano visibilissimi, pressoché trasparenti, attraverso hot spot (ancora), bodyscanner, rilevamenti biometrici e schedature che confluiscono in database sigillati in acronimi à la Russolo, come Sis-Eurodac. Per inciso, l’ultimo intervento di Banksy, quando ancora era invisibile (una Marianne avvolta da lacrimogeni con alle spalle un tricolore lacerato), puntava contro lo sgombero della invisible jungle di Calais e la schedatura e la deportazione degli invisibili in centri panottici.
Vite in fuga
Vale la pena chiedersi che fine abbia fatto oggi l’uomo invisibile, se si può ancora scrivere, oltre che leggere, un libro così. I suoi discendenti li ritroviamo per esempio a Philadelphia, accompagnati giorno e notte da Alice Goffman nelle pagine di On the run. Fugitive lifes in an American City per riscoprire, nelle evoluzioni statiche della linea del colore, cosa significhi avere sempre e ovunque i fari puntati addosso: animali in una riserva, prede braccate senza possibilità di ombra o di fuga e con una probabilità su 4 di finire in galera. E allora occorrerebbe chiedersi anche cosa significhi fuggire nell’epoca dei Gps, di segnali agganciati a celle satellitari, nei giorni di una caccia all’uomo che dalle tracce analogiche (un’impronta, una piuma) passa alle scie digitali che ognuno si lascia alle spalle. E magari rendersi conto che road movies come Thelma e Louise o Blues Brothers oggi non durerebbero più di un quarto d’ora, forse anche a Molenbeeck.
In queste pieghe l’invisibilità sembra svanire e lo smascheramento, consapevole o meno, volontario o meno, è all’ordine del giorno. Se la psicoanalisi, quella più easy, segnala che l’individuo «ipermoderno» (narciso/cinico/desiderante) è mosso da un’irrefrenabile pulsione scopica e narrativa (e non serve fare i nomi dei dispositivi social che la innervano), questo soggetto traslucido non lo troviamo solo seduto davanti al rumore bianco di uno schermo ma dappertutto, nelle maglie larghe di un controllo giocato sulla luce e la prevedibilità. In gioco sembra essere la possibilità di abitare i due millimetri che separano una maschera dalla pelle: una parte nascosta, sotto la superficie, che si potrebbe chiamare diritto all’invisibilità ma che è soprattutto ombra, spazio sottratto alla luce.
Chi ha letto Il cerchio di Dave Eggers (un «castello» poco kafkiano e di vetro che vale per google e in cui si dettano gli imperativi morali di una società trasparente), anche a costo di una letteralità lontana dalla scrittura di Ellison si sarà fatto un’idea delle scarse possibilità di recuperare quei due millimetri, la distanza rispetto a soi meme, espressione forse di un’altra verità, mai adiacente e identica, che diventa occasione per de-soggettivarsi, «strappare il soggetto a se stesso». Resterebbero i meandri del deep-web, ma anche lì finiremmo per scoprire che molti hacktivisti, sbandierando la trasparenza come obiettivo e la rivelazione come strategia, adottano strumenti (malware, trojan) e procedure di data-mining analoghi ai cookies di Google e del mercato estrattivo dei big-data o alle logiche di controllo di programmi governativi come Prism.
Invisibilità tattica
Certo, in questi casi un intero regime di visibilità appare ribaltato, e tra le fila di Anonymous è possibile scorgere un’invisibilità tattica che riconduce a Ellison ricordandoci come il conflitto sia sempre mimetico. Resta però un isomorfismo di fondo: il fatto che in tutti i casi (per rivelare o per controllare) le maschere saltano, l’ombra si ritrae e la luce trionfa. Si tratta di una luce che scaturisce per lo più dai soggetti stessi, che induce e soprattutto seduce. E anche qui vale la pena non farsi abbagliare: il prefisso «se-», più che a un immediato gesto riflessivo (se-ducere sta per condurre fuori) rimanda a un movente che origina dal soggetto e lo spinge a competere in primo luogo con se stesso. Del resto l’auto-imprenditorialità, cardine della sharing economy, la ritroviamo ovunque, da airbnb ai makers, e ci restituisce le traiettorie di una soggettività «dividuale», all’incrocio di profili, punti accumulati, in costante competizione e soprattutto trasparente.
«La piena luce e lo sguardo captano più di quanto facesse l’ombra, che alla fine proteggeva.» Sono quaranta gli anni che ci separano da Sorvegliare e punire, percorso che riannoda i fili di tecnologie immanenti che producono corpi docili, imprigionati in anime indotte a credere di essere sempre sotto i fari di uno sguardo disciplinante. Reclusi e osservati in una stanza: la famiglia, la scuola, l’ospedale, la prigione, la fabbrica. Gilles Deleuze ha detto che non siamo più (solo) così. E mentre videocamere e guinzagli elettronici avvicinano l’idea di un individuo portatore del proprio assoggettamento, diverse pareti saltano: l’impresa ha sostituito la fabbrica, il self-care l’ospedale, l’(auto)valutazione l’esame. Lo sguardo incorporato dello schema di Jeremy Bentham (quello del Panopticon) si fondava sull’inverificabilità, ma proveniva da una torre visibile, oggettiva, altra da sé.
Lo spazio del buio
Oggi quello sguardo sembra partire dai soggetti stessi, da dati, tracce e profili autocostruiti prima ancora di venire aggregati e messi a valore dagli algoritmi del capitale. Se governare attraverso la libertà è la bussola neoliberale, una simile libertà è fatta di luce, irretita nelle trappole della visibilità. Ed è sempre il soggetto la posta in palio: che cosa stiamo diventando?
Sulla scia di Kant e dell’Aufklarung Foucault si chiedeva soprattutto questo. In tempi di anime al lavoro, farsi carico del peso dei lumi significa vedere cosa può succedere dalle parti del buio: contro la piena luce di un’esibizione di sé, coatta o meno, sondare lo spazio di agibilità consentito dall’ombra. Edouard Glissant rivendicava il diritto all’opacità come principio di non identità rispetto a ogni sguardo o modello trasparente. Si dovrebbe partire da qui per trovare un antidoto ai fasci di luce che presidiano le professioni di sé e i confini del presente.
».
Comune-info, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
L’evoluzione della guerra nell’ultimo secolo, in rapporto alla popolazione, ci offre degli indizi sul tipo di società in cui viviamo. Fino alla Prima Guerra Mondiale i combattimenti avvenivano tra eserciti nazionali, sulle barricate, dove si verificavano le grandi carneficine che infiammavano la coscienza operaia.
Colpivano la popolazione in forma indiretta, con la morte in massa di figli e fratelli. Quando lo facevano in forma diretta, erano, il più delle volte, «effetti collaterali» del conflitto o, talvolta, ammonimenti per indebolire il morale di chi combatteva al fronte.
Con la Seconda Guerra Mondiale, le cose cambiano radicalmente. Dai bombardamenti di Amburgo e Dresda fino alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, passando per il bombardamento giapponese a Chongqing fino ai campi di concentramento tedeschi, l’obiettivo è diventato la popolazione. Come segnala Giorgio Agamben, c’è un prima e un dopo questa guerra e i campi di concentramento, poiché il campo così come il «bombardamento strategico» si sono trasformati in paradigmi della politica e della guerra moderne.
Non si tratta della comparsa dell’aviazione come forma principale del combattimento. Al contrario: l’aviazione diventa decisiva perché l’obiettivo diventa la popolazione. Il Vietnam è un altro punto di svolta. È la prima volta che i morti statunitensi si contano a migliaia, con un impatto molto maggiore rispetto alle guerre precedenti. A partire da lì, la guerra aerea raddoppia la sua importanza per non entrare nel corpo a corpo con l’inevitabile risultato di vittime proprie.
L’accumulazione per spoliazione (industria mineraria a cielo aperto, monocolture come la soia e mega-progetti) ha una logica simile a quella della guerra attuale, non solamente per l’uso degli erbicidi testati nella guerra contro il popolo vietnamita, ma anche per la stessa logica militare: liberare il campo dalla popolazione per appropriarsi dei beni comuni. Per espropriare/rubare, è necessario togliere di mezzo quella gente così fastidiosa; è il ragionamento del capitale, una logica che vale sia per la guerra che per l’agricoltura e per l’attività mineraria.
Per questo, è importante riferirsi all’attuale modello come “quarta guerra mondiale”, come fanno gli zapatisti, perché il sistema si comporta in quel modo, compresa, naturalmente, la medicina allopatica, che si ispira ai principi della guerra. Gli argomenti del EZLN collimano con quelli di Agamben, quando dice che il dominio della vita attraverso la violenza è la modalità di governo dominante nella politica attuale, in particolare nelle regioni povere del sud globale.
La brutale repressione dei maestri, avvenuta a Oaxaca, mostra l’esistenza di un totalitarismo mascherato da democrazia, che, secondo Agamben, si caratterizza per «l’instaurazione, mediante lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione non risultano integrabili nel sistema politico» (Lo stato d’eccezione, Bollati). Lo stesso autore ci ricorda che dai campi di concentramento non c’è un ritorno possibile alla politica classica, quella che era incentrata sulle rivendicazioni verso lo Stato e l’interazione con le istituzioni.
Come chiamare una forma di accumulazione ancorata sulla distruzione e la morte di una parte dell’umanità? Nella logica del capitale, l’accumulazione non è un fenomeno meramente economico: da lì l’importanza dell’analisi zapatista che pone l’accento sul concetto di guerra. Voglio dire che il tipo di accumulazione che il capitale necessita nel periodo attuale, non può che essere preceduto e accompagnato strutturalmente dalla guerra contro i popoli. Guerra e accumulazione sono sinonimi, al punto tale che subordinano lo Stato-nazione a questa logica.
Il tipo di Stato adatto per questo tipo di accumulazione/guerra è il punto debole di chi analizza l’«accumulazione per esproprio» o il «post-estrattivismo». In queste analisi, al di là del valore che hanno, trovo diversi problemi che vanno discussi al fine di rafforzare le resistenze.
Il primo è che non si tratta di modelli economici, solamente. Il capitalismo non è un’economia, è un sistema che include un’economia capitalista. Nella sua fase attuale, il modello estrattivo o di accumulazione per furto non si riduce a un’economia, bensì a un sistema che funziona (dalle istituzioni fino alla cultura) come una guerra contro i popoli, come una forma di di sterminio o di accumulazione attraverso lo sterminio.
Il Messico è lo specchio in cui i popoli dell’America Latina e del mondo si possono guardare. Gli oltre centomila morti e le decine di migliaia di desaparecidos non sono una deviazione del sistema, ma il nucleo del sistema. Tutti gli elementi che fanno parte di questo sistema, dalla giustizia e dall’apparato elettorale fino alla medicina e la musica (per fare appena qualche esempio), sono funzionali allo sterminio. La “nostra” musica e la “nostra” giustizia (così come tutti gli aspetti della vita) sono parte della resistenza al sistema. Sono divise o separate da esso. Non fanno parte di un tutto sistemico, ma sono già parte dell’ “altro mondo”.
La seconda questione è che le istituzioni statali sono state formattate da e per la guerra contro i popoli. Per questo non ha alcun senso dedicare tempo ed energie fissandoci su di esse, fatta eccezione per chi crede (per ingenuità o interesse meschino) di poterle governare a favore de los de abajo. Questo è forse il principale dibattito strategico che abbiamo di fronte in questa ora cupa.
Insomma, creare e predersi cura dei nostri spazi e proteggerci da chi sta in alto, senza lasciarci sedurre dai suoi scenari, diventa la questione vitale dei nostri movimenti. Ricordiamo che, per Agamben, i detenuti del campo sono persone che «chiunque può ammazzare senza commettere omicidio». Questa visione del mondo attuale spiega i fatti di Ayotzinapa e Nochixtlán meglio dei discorsi sulla democrazia e la cittadinanza, che si appellano alla giustizia del sistema.

». Corriere della Sera, 9 luglio 2016 (c.m.c.)
L’Aquila L’antidoto per l’antipolitica è la politica. E l’ingrediente perché la democrazia non si disperda nello stagno della sfiducia, dei poteri e dei proclami è il coinvolgimento dei cittadini. Quell’insieme di azioni, parole, dialoghi, sperimentazioni a cui si ispira il Festival della Partecipazione in corso in questi giorni a L’Aquila (7-10 luglio). Quattro giorni, 88 incontri, un centinaio di relatori riuniti da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food nel più grande cantiere d’Europa che il terremoto ha reso anche un laboratorio di ricostruzione sociale.
Riempire il buco dell’antipolitica è come ricostruire una città distrutta dove tutto è da rifare, riscrivere e mettere in ordine. L’analogia è fin troppo diretta: i vecchi intermediari della politica sono appassiti. La risposta si cerca nelle nuove figure che trovano Dna nel volontariato non solo sostituendosi allo Stato per il welfare ma per contare, agire con nuove forme di potere capaci di trasformare più che dettare.
Il metodo è quello che si sta vivendo nel festival aquilano. «Si respira un senso di impotenza nelle istituzioni», dice l’economista Fabrizio Barca. «In Italia e nel mondo le autorità non hanno più capacità di prendere decisioni. Partendo da questo “buco” non è casuale che i cittadini rispondano con diffidenza verso chi governa e disertando il voto e che allo stesso tempo aumenti il numero delle persone che si danno da fare per fare accadere le decisioni. Questa è la partecipazione».
Rispetto all’assemblearismo di 40 anni fa ironizzato da Moretti, la novità è che oggi si partecipa per decidere. «Certo ci vuole un metodo — continua Barca —. La novità è che si sperimentano metodi. Siamo a L’Aquila per trovare punti comuni utili per altre esperienze».
La partecipazione non è concertazione, insiste l’ex ministro, deve includere gli antagonisti, è fatta di informazione puntuale e non deve essere razionale ma ragionevole. L’allusione a Brexit è implicita. La politica diventa così un dispositivo che aiuta le persone a condividere una comune visione del futuro, valorizzando il loro capitale di energie e competenze, passioni e tempo. Non chiediamoci che cosa è ma come funziona e cerchiamola nella polis dei cittadini, ha detto ieri il sociologo Giovanni Moro che nei quattro giorni conduce alcune strisce di approfondimento.
Molte le esperienze messe a confronto dalla progettazione e pianificazione urbanistica ai gruppi che si attivano per il riutilizzo degli spazi abbandonati intesi come beni comuni, dalle comunità di montagna all’edilizia scolastica all’accoglienza dei migranti. Dalle esperienze politiche di partecipazione in diverse parti d’Italia ai laboratori in cui la si sperimenta.
Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid fa riferimento alla pazienza organizzativa e alla passione trasformativa: «La partecipazione è il sale della democrazia — dice —. Le democrazie liberali si sono assottigliate, sembra che tutto sia ridotto al momento elettorale. Perché ogni giorno sia sapido la democrazia va esercitata prima e dopo il voto. Ruolo di organizzazioni come le nostre è condire la democrazia. Il metodo è il dialogo continuo e interattivo. Non basta mettere a disposizione le informazioni ma creare un flusso continuo e circolare tra istituzioni e cittadini in modo che possano questionare. I partiti cattolici, comunisti e liberali lo seppero fare, oggi i partiti restano luoghi di gestione del potere, non di discussione».
Per dirla con le parole del filosofo Emilio Gentile, che cita i costituenti come lo sguardo verso il «bene comune», il festival della partecipazione è come la semina: «Alcuni semi cadono sulle pietre altri nel terreno. E seminare in questa occasione è alimentare la comunicazione per riflettere, invitare le persone a non lasciarsi trasformare in folla». I frutti, nell’idea degli organizzatori, si raccoglieranno anno dopo anno attraverso i 10 anni che il festival si è dato come prospettiva.
Prosegue sempre più tortuosamente il tentativo renziano di distorcere pesantemente il sistema istituzionale italiano, riducendone ancora la democraticità, aprendo nuove contraddizioni e rendendone sempre più evidente la pericolosità.
La Repubblica, 9 luglio 2016
È STATO evidente fin dall’inizio che le proposte di modificare la legge elettorale esprimono strategie diverse, anche profondamente conflittuali. Si sta giocando una partita tutta politica, in cui si coglie anche un forte uso congiunturale delle istituzioni, appiattite sulle esigenze del breve o brevissimo periodo. È quel che sta accadendo con le proposte di modificare la legge elettorale per impedire la vittoria del Movimento 5Stelle in un eventuale ballottaggio, che tuttavia, con il passaggio dal voto di lista ad uno di coalizione, servirebbe pure a salvare gli spezzoni di partito all’interno di centrodestra e centrosinistra, che altrimenti sparirebbero.
All’opposto, le modifiche dovrebbero restituire la legge elettorale alla costituzionalità, messa radicalmente in dubbio dalle iniziative che hanno portato l’Italicum davanti alla Corte costituzionale, con la speranza che essa lo demolisca in tutto o nelle sue parti più significative com’è avvenuto con il Porcellum. Compare così un altro soggetto nella partita politica in corso, con un ruolo particolarmente rilevante, sia per le sue specifiche competenze, sia perché dovrebbe affrontare il problema il 4 ottobre, dunque in un momento che cade nella fase referendaria (a meno che i giudici della Consulta non trovino soluzioni che li liberino da questa incomoda coincidenza).
Ma la discussione sulla legge elettorale ha prospettato una diversa finalità, ancor più ambigua e distorcente. Si prospetta con insistenza una sorta di “liberi tutti”, nel senso che si sostiene esplicitamente che, se l’Italicum verrà modificato, cadrebbero le ragioni che inducono taluni a ritenere che, a questo punto, il voto referendario potrebbe tranquillamente essere orientato verso il Sì. Questa, tuttavia, appare più come la ricerca di un alibi che come una plausibile argomentazione. Infatti, pur essendo evidente la connessione tra legge elettorale e riforma costituzionale, gli effetti pesantemente negativi dell’Italicum richiedono una sua riscrittura, intervenendo seriamente sul doppio meccanismo maggioritario, sul fatto che si continua ad essere di fronte a nominati più che a eletti, sull’evidente concentrazione del potere verso l’alto, nelle mani del governo anche per quanto riguarda i tempi del procedimento legislativo. E, soprattutto, dovrebbe essere recuperato il diritto dei cittadini ad essere rappresentati, la cui mancanza ha determinato l’incostituzionalità del Porcellum. Anche così, tuttavia, non scomparirebbero i vizi della riforma costituzionale, e il passaggio al Sì sarebbe poco più che una operazione di convenienza. Renzi, da parte sua, continua ad escludere che la legge elettorale possa essere modificata.
Tutto troppo aggrovigliato? Ma le cose stanno proprio così, e bisogna averne consapevolezza perché questo dimostra che la discussione non può essere chiusa in modo autoritario, come peraltro dimostra la proposta di Franceschini di riprendere la questione dopo il referendum. Peraltro, qui siamo di fronte ad una questione più generale e ad una clamorosa contraddizione. Si ripete che bisogna discutere “nel merito” e poi, invece, si afferma perentoriamente che il testo della riforma deve essere accettato in blocco, perché è già stato fatto un gran lavoro, perché bisogna rispettare la coerenza interna dei testi e perché potrebbe altrimenti determinarsi una situazione difficilmente gestibile. Questo, però, è un argomento improprio, a suo modo ricattatorio, perché ai cittadini deve essere riconosciuto nella sua pienezza il diritto di fare la loro scelta in una materia sbandierata come un cambiamento radicale del sistema. La confusione, se mai, è il frutto del modo approssimativo e disinvolto con il quale il governo ha impostato la questione, associando impropriamente la vittoria del No ad una inevitabile fase di incertezza, addirittura allo scioglimento delle Camere, del tutto estraneo alle sue competenze.
Inoltre, questo modo aggressivo di procedere, che sostanzialmente vuole delegittimare il No, crea ogni giorno di più una divisione profonda tra i cittadini, sì che l’eventuale vittoria del Sì ci consegnerebbe una Costituzione “provvisoria”, quasi certamente approvata solo da una minoranza. La conseguenza? La fragilità del testo, perché evidentemente il programma delle forze di opposizione avrebbe come punto essenziale proprio il suo cambiamento. Un bel risultato da parte di chi va predicando stabilità.
La verità è che, una volta di più, pesano la povertà culturale, l’assenza di una memoria storica. Non si è sfiorati dalla necessità di riflettere sul senso di responsabilità degli autori della Costituzione che, all’indomani dell’esclusione dal governo dei partiti di sinistra, non fecero prevalere interessi di parte, mantennero fermo il principio della condivisione, e così garantirono la lunga durata della Costituzione e la possibilità che in essa potessero riconoscersi le forze più diverse. Oggi la riforma costituzionale è stata buttata nel conflitto politico in modo disinvolto e tecnicamente approssimativo. Ma è possibile una riforma costituzionale senza cultura costituzionale?
Bisogna procedere così perché la riforma è attesa da troppo tempo? L’argomento è inconsistente e pericoloso, perché una cattiva riforma rimane tale quale che sia la sua originaria motivazione. Torna così la questione del giudizio sul merito, che riguarda le parole d’ordine adoperate dai sostenitori della riforma. Non v’è la semplificazione legislativa, perché è stato abbondantemente dimostrato il moltiplicarsi dei procedimenti ai quali è associato il Senato, l’incidenza sul principio della sovranità popolare, con effetti rilevanti sull’idea stessa di sistema democratico. Le minori spese sono poco più che una furba strizzata d’occhio alla peggiore antipolitica, peraltro realizzabili in maniera più intelligente e persino più incisiva. Rimane ancora incerto il criterio di selezione dei consiglieri regionali che dovranno far parte del nuovo Senato. Stiamo andando verso la votazione di un testo costituzionale incerto, sul quale bisognerà subito mettere le mani. È accettabile?
Ma, si dice, finalmente ci liberiamo del bicameralismo perfetto, fonte di lungaggini e di compromessi — Qui la manipolazione dell’informazione è ancora più evidente. Si identificano i critici della riforma con i sostenitori del sistema attuale, mentre basta leggere le molte proposte di modifiche presentate nel corso delle audizioni parlamentari per rendersi conto che proprio da molti di loro erano stati prospettati cambiamenti del sistema più profondi e razionali. E si è addirittura cercato di arruolare, senza troppa fortuna, nelle schiere degli attuali riformatori Berlinguer, Ingrao, Iotti, che a questi problemi avevano guardato con ben altri occhi.
Di nuovo una questione di cultura, che ci porta a un tema centrale della discussione. Quale informazione sta accompagnando la già lunghissima campagna elettorale? L’asimmetria di potere è clamorosa, come dimostrano i dati riguardanti la presenza dei sostenitori del Sì in particolare nei programmi della televisione pubblica. Dobbiamo aspettare la fissazione della data del voto, che individuerà così anche il periodo in cui dovrà essere garantito un minimo di par condicio? E sembra vano sperare in una qualche neutralità del governo, che continuamente trasforma troppe sue iniziative in argomenti a favore del Sì.
Giorno dopo giorno si accumulano così conflitti politico-istituzionali che i sostenitori del Sì faticano a gestire senza una loro drammatizzazione, senza chiamare a raccolta le persone e gli argomenti che vogliono mostrare come non esista alcuna alternativa ragionevole. E poiché protagonista obbligato di questa vicenda è il presidente del Consiglio, chiedergli di “spersonalizzare” è quasi una contraddizione insuperabile.
». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)
Quando mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico (ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo entourage).
Gli sconquassi sono molti ma uno li riassume tutti e sta nella stessa concezione della politica sottostante alla riforma Renzi-Boschi. Essa, infatti, non è una semplice (ancorché brutta) operazione di ingegneria istituzionale ma un intervento che incide profondamente e negativamente sul senso della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla struttura della democrazia. Partiamo, dunque, da qui.
Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una collettività.
Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini.
Non a caso essa venne approvata, pur all’esito di un dibattito a volte aspro, con 453 voti favorevoli su 515 e non ebbero ricadute sul patto costituzionale neppure la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del 1947, come sottolineò, nella dichiarazione di voto per conto del Partito comunista, l’onorevole Togliatti precisando che: «noi siamo fuori del Governo ma dentro la Costituzione».
Questa impostazione ha guidato tutti i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».
Tutt’altro il disegno che ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).
Non è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra, le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi, dall’esito referendario.
Ora, anche con il supporto di una inedita campagna mediatica, si persegue la chiusura del cerchio di un progetto nato agli albori della cosiddetta seconda Repubblica su iniziativa di forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve, infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco Miglio, la teorizzazione secondo cui «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà.Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze» (L’indipendente, 25 marzo 1994).
Oggi quel progetto si realizza e la Costituzione si trasforma da “casa di tutti” in “attico per alcuni”, legge di parte, “bottino di guerra” dei vincitori. Ciò – è bene sottolinearlo – porta con sé la delegittimazione della rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto come regola della democrazia, un modello di società divisa e disuguale in cui non c’è posto per gli sconfitti.
L’effetto inevitabile è una società disgregata, senza punti di riferimento comuni (in particolare nei momenti difficili, quando i governanti invocano l’unità del paese…), in cui viene travolto nei fatti anche il principio di uguaglianza previsto nell’articolo 3 della Carta (che non può fondarsi sulla prevaricazione del più forte).

». Il manifesto, 8 luglio 2016 (c.m.c.)
Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: «ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….»E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni – che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere.
Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.
E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente.
Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.
In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.
Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2016 (p.d.)
Il 12 maggio, dopo quattro anni di assedio, il governo di Damasco ha infine autorizzato l’Onu a distribuire aiuti umanitari a Daraya. Medicine. All’ultimo dei check point, però, è iniziata una lunga discussione sul latte in polvere. Come classificarlo? Si compra in farmacia, sì, ma in fondo è cibo. Il convoglio, dopo ore di trattative, è tornato indietro. Sono arrivati invece gli elicotteri: sui siriani in fila si sono abbattuti 28 barili esplosivi. Dopo alcuni giorni, comunque, il convoglio è passato. Negli scatoloni, i siriani hanno trovato zanzariere. Zanzariere contro la malaria. Che in Siria non c'è mai stata. Ma l’Onu non demorde. Anche se sono anni, ormai, che non conta più i morti in Siria, perché contarli, dice, è troppo complicato, il rappresentante dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un incontro con il governo a Damasco, ha recentemente ribadito tutta la propria preoccupazione per i siriani: fumano troppo, ha detto. Bisogna intervenire subito.
Sono aneddoti che chi segue la guerra di Siria conosce bene. E che più che aneddoti, in realtà, potrebbero essere capi d'accusa in un processo per crimini di guerra. E infatti sono stati ora riuniti in un report firmato praticamente dall’intera società civile siriana: quella società civile che secondo l’Onu non esiste. Il report, non a caso, si intitola Taking sides (schierarsi). Perché se la società civile non esiste, è il ragionamento dell’Onu, se l’alternativa è la sharia, allora è meglio Assad. In Siria il 99% delle aree sono sotto assedio dell'esercito, non dei ribelli. Eppure ad aprile, il mese in cui si è avuta la maggiore pressione internazionale su Assad, il 71,5% degli aiuti umanitari è finito in aree sotto il suo controllo. E il problema non è solo che in Siria si muore di fame, letteralmente, che oltre un milione di persone in questo momento, non abbiano che erbe e radici e acqua piovana: il problema è che gli aiuti umanitari sono stati trasformati in uno strumento di guerra.
La strategia di Assad, il cui esercito è responsabile del 94,7% delle vittime civili, è stata chiara già dai giorni delle prime manifestazioni: emergere come il solo possibile garante della stabilità. Il solo capace di governare a fronte delle macerie delle aree sotto il controllo dei ribelli, bombardate a tappeto, il solo capace di assicurare ai siriani una parvenza di normalità, servizi e beni essenziali. Cibo e medicine.
Non è niente di nuovo: nelle facoltà di Scienze politiche, l’influenza degli aiuti umanitari sulle dinamiche di una guerra è un tipico argomento da tesi di laurea. Ma finora l'Onu non ha condotto alcuna valutazione dell'impatto dei 3 miliardi di dollari spesi in aiuti.
Non ha mai neppure condotto una valutazione della loro destinazione: non sa dove siano finiti. Nel corso del 2015, solo l’1% dei siriani sotto assedio ha ricevuto aiuti umanitari. L’Onu sostiene che è una questione di sicurezza, che fa il possibile: certe aree non vengono raggiunte perché è troppo pericoloso arrivarci. Come Douma, una delle città in cui si sono registrati più morti per fame. Che però viene regolarmente attraversata dai convogli diretti a Kafr Batna.
Nonostante ormai 3 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza autorizzino le agenzie Onu a operare indipendentemente dal governo di Damasco e anche a entrare nelle aree sotto il controllo dei ribelli dai paesi confinanti non è cambiato niente. Le agenzie Onu continuano a chiedere permessi per ogni convoglio a 3 diversi ministeri, e soprattutto, continuano a subappaltare la distribuzione degli aiuti alla Mezzaluna Rossa, il cui presidente è un fedelissimo di Assad. L’Onu ha scelto il compromesso, accusa il report: e non ha ottenuto nulla. Nel 2015, il 75% dei permessi è stato negato e l’Onu, di suo, ha cercato di chiedere meno permessi possibili: 113, a fronte di 4,6 milioni di siriani giudicati in condizioni critiche. Naturalmente, alcuni si sono opposti a tutto ciò: come i 35 funzionari di cui non si hanno più notizie, e sulle cui sorti nessuno ha indagato.
Tutte cose che non filtrano dai documenti Onu. Le statistiche ufficiali si basano sul numero di siriani raggiunti, non sulla percentuale di esigenze soddisfatte. Chi a Daraya è stato raggiunto da una zanzariera, dopo 4 anni d’assedio, nei conteggi risulta essere stato assistito e salvato. In realtà, se è vero che l’Onu ha bisogno di cooperare con lo Stato sul cui territorio opera, se è vero che ha bisogno di Assad, è anche vero che Assad ha bisogno dell'Onu: ha bisogno dei suoi aiuti. L’economia ha perso 254 miliardi di dollari, l'80% dei siriani vive sotto la soglia di povertà.
L’Onu ha forza contrattuale ma invece di usare gli aiuti per negoziare gli assedi, usa gli assedi per negoziare gli aiuti. In teoria, non c’è niente da negoziare: l'assedio è un crimine di guerra, i combattenti hanno l'obbligo di non interferire con le attività umanitarie e di soccorso. Ma l’Onu ha trasformato l'assedio in merce di scambio. In base a un accordo mediato a dicembre, Madaya e Zabadani, a sud, assediate dal regime, ricevono aiuti insieme a Foah e Kefraya, a nord, assediate invece dai ribelli. Davanti alle difficoltà logistiche, l’Onu sta studiando i lanci di aiuti. Che in genere, però, funzionano solo nei film.
L’aereo più usato, l'Ilyushin II-76, costa 34 mila dollari a volo, più l'assicurazione, in caso di zona di guerra, e trasporta circa 30 tonnellate, un carico sufficiente a sfamare 2400 persone per un mese. Ma è necessario avere propri uomini a terra, altrimenti chi prende gli aiuti? Chi corre più veloce? E il problema è esattamente che a terra, in Siria, non c'è nessuno. O meglio: ci sono decine di milizie. Per evitare missili e mitragliatrici, i piloti dovrebbero tenersi sui25mila piedi.Più o meno come stare in cima all'Everest e provare a centrare un campo da calcio in una città densamente popolata: guidando a 270 all'ora. Dei 21 scatoloni del World Food Program paracadutati su Deir Ez-Zor, 7 sono finiti nella terra di nessuno, 4 si sono danneggiati e 10 si sono persi. I caccia di Assad che bombardavano la città, intanto, usavano l'aeroporto. Finora l’Onu non ha risposto alle accuse, né rilasciato dichiarazioni.
L’unico commento di questi giorni si è registrato su Trip Advisor, dove uno dei suoi funzionari si è complimentato con il Four Season, l'hotel di Damasco in cui abitano diplomatici e giornalisti. I primi morti per fame si sono avuti a 6 chilometri di distanza. Il commento dice: ottimo servizio, ottimo cibo.
Formiche.it, rilanciata dal Coordinamento Democrazia Costituzioanle online. 6 luglio 2016 (p.d.)
Prof. Pace, lei è il Presidente del Comitato per il No alla Riforma Costituzionale. Chi fa parte di questo comitato oltre a lei?
Giuristi come Gianni Ferrara, Lorenza Carlassare, Massimo Villone, Giuseppe Ugo Rescigno, Mauro Volpi, Gaetano Azzariti e Francesco Bilancia; magistrati come Domenico Gallo, Armando Spataro, Giovanni Palombarini e Nicola D’Angelo; sindacalisti come Alfiero Grandi e Mauro Beschi; ex parlamentari come Francesco Pardi, Vincenzo Vita, Giovanni Russo Spena. Successivamente si sono aggiunti ex giudici costituzionali come Franco Bile, Riccardo Chieppa, Gustavo Zagrebelsky e Paolo Maddalena; politologi come Gianfranco Pasquino, Michele Prospero, Nadia Urbinati e Maurizio Viroli; storici di discipline umanistiche come Nicola Tranfaglia, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Salvatore Settis, Marco Revelli e Tomaso Montanari; filosofi come Gianni Vattimo, Girolamo Cotroneo e Giuseppe Rocco Gembillo; fisici come Piergiogio Odifreddi, Giorgio Parisi e Giorgio Nebbia; registi cinematografici come Giuliano Montaldo e Citto Maselli; attori come Monica Guerritore, Toni Servillo e Moni Ovadia; un attore-autore come Dario Fo, e infine due sacerdoti impegnati nel sociale come don Luigi Ciotti e don Alex Zanotelli.
E cosa vi ha spinti a compiere questa scelta?
Ciò che ci ha spinti a questa scelta è stata la difesa dei principi della nostra Costituzione, che con questa riforma verrebbero travolti, in quanto essa va ben oltre alla modifica della seconda parte.
Secondo alcuni, i sostenitori del No sono dei conservatori. Persone che vorrebbero impedire che questo paese venga riformato. È così? Si ritrova in questa descrizione?
Niente affatto! Un filosofo indiano, Inayat Khan, molti anni fa, scrisse che non tutto quello che viene dopo, è progresso. E la riforma Boschi costituisce complessivamente un regresso rispetto alla Costituzione del 1947. E’ una riforma pasticciata: 1) perché i senatori, nella falsa ed infondata pretesa di rappresentare gli enti territoriali minori – che si potrebbe avere soltanto negli Stati federali – , svolgerebbero part-time sia le funzioni di consiglieri regionali o di sindaci, sia quelle di senatore, ancorché le funzioni del Senato siano notevoli e impegnative; 2) perché i tipi di procedimento legislativo, dagli attuali due, diventerebbero almeno otto, con notevoli rischi di contrasto tra Camera e Senato; 3) perché la distribuzione delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni, oltre ad essere fortemente sperequata a favore dello Stato, è piena di errori e di dimenticanze con riferimento anche a materie importanti; 4) perché, in prospettiva, grazie all’Italicum – che della riforma costituzionale ha costituito il perno -, il Presidente del Consiglio, con il Senato ridotto ad un ombra, avrebbe il dominio incontrastato dei deputati in parte da lui stesso nominati, con un implicito e strisciante ridimensionamento degli organi di garanzia.
Arriviamo alla sostanza della questione: la riforma della Costituzione. Nel testo “la Costituzione Bene Comune” lei dà un giudizio molto severo dell’operato di questo Parlamento. Cita la sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale e il “principio fondamentale della continuità dello Stato”. Lei sostiene che questo Parlamento non era legittimato a intraprendere un percorso di riforme come quello messo in atto con Renzi?
Non lo dico io. Lo ha scritto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 1 del 2014 – che la legge n. 270 del 2005, il così detto Porcellum, era incostituzionale perché la governabilità veniva assicurata a danno della rappresentatività.
L’intendimento della Consulta in quella sentenza era chiaro: le Camere, ancorché delegittimate, avrebbero potuto e dovuto approvare al più presto le nuove leggi elettorali, non già in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, ma in forza del «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato», e subito dopo avrebbero dovuto essere sciolte. Invece, le Camere hanno continuato ad operare. Anzi, nonostante non fossero rappresentative, venne loro affidato, grazie all’allora Presidente della Repubblica, e soprattutto al PD (con il nuovo segretario privo di mandato elettorale) e a Forza Italia, il compito più oneroso che possa essere attribuito ad un’assemblea politica: la “riforma” della Costituzione. Un vero e proprio azzardo perché la Consulta, aveva fatto capire, con due esempi, che il «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato» può operare solo per brevi periodi di tempo. La Consulta citò infatti gli articoli 61 e 77 della Costituzione, i quali consentono bensì la prorogatio delle funzioni dei parlamentari in caso di scioglimento delle Camere, ma tutt’al più solo per un paio di mesi di tempo.
Chi ha sbagliato allora, il Presidente della Repubblica o la Corte Costituzionale nel non intervenire?
È ben vero che all’inizio del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco. Ma per evitare questo pericolo sarebbe stato sufficiente soprassedere, per il momento, allo scioglimento delle Camere. Invece si è messa in cantiere una riforma costituzionale da parte di un Parlamento delegittimato, con parlamentari insicuri del proprio futuro e quindi pronti a cambiar casacca. Il che è appunto accaduto, essendoci state ben 325 migrazioni, se non di più, da un gruppo parlamentare ad un altro. La responsabilità ricade in effetti sia sull’allora Presidente Napolitano – che la Ministra Boschi ha ripetutamente omaggiato come il “padre della riforma” -, sia sul Presidente del Consiglio Renzi, sia infine, come Lei suggerisce, sulla Corte costituzionale, anche se ipotizzo che ci sia stato un tempestivo intervento del Quirinale per evitare pubbliche prese di posizione da parte dell’allora Presidente della Corte costituzionale.
Torniamo un momento indietro. La riforma della Costituzione riguarda la modifica del ruolo e delle funzioni del Senato, primariamente. Quali sono gli aspetti tecnici che valuta negativamente?
Sono svariati. In primo luogo, la violazione dell’articolo 1 della Costituzione, secondo il quale il fulcro della sovranità popolare sta nell’elettività diretta negli organi legislativi, come sottolineato dalla stessa Consulta nella sentenza citata, laddove i senatori verrebbero eletti non dal popolo bensì dai consigli regionali. E poi c’è tutta una serie di scelte irrazionali.
E dove sono, secondo lei, le ambiguità, le scelte irrazionali o le fratture che hanno spinto alcuni, come il prof. Zagrebelsky, a parlare di una “democrazia svuotata”?
In primo luogo, nonostante l’importanza e la quantità delle loro funzioni, i senatori dovrebbero nel contempo esercitare le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. In secondo luogo, la eccessiva differenza tra il numero dei deputati (630) e quello dei senatori (100), con la conseguenza dell’assoluta irrilevanza della presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. L’incongruità della nomina da parte del Presidente della Repubblica di cinque senatori per un periodo corrispondente alla durata del suo mandato. La sproporzione tra i due giudici costituzionali eletti dai 100 senatori e i tre giudici costituzionali eletti dai 630 deputati, con la conseguenza che l’elezione selettiva da parte del Senato potrebbe rischiare di introdurre nella Corte una logica corporativa.
Ma le ragioni per le quali si è giustamente parlato di democrazia svuotata stanno solo in parte nell’eliminazione del Senato come possibile contropotere. Esse stanno altresì nella mancata previsione di contropoteri in capo alle opposizioni, come la previsione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata, che in Germania esiste sin dalla Costituzione di Weimar. Nella riforma Boschi essa costituì l’oggetto di più emendamenti che non furono accettati dal Governo. Ma c’è di più: nella riforma Boschi i diritti delle minoranze parlamentari e lo statuto delle opposizioni sono rimessi ai regolamenti parlamentari che, com’è noto, devono essere approvati dalla maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea.
Se dovesse citare solo pochi aspetti concreti, diciamo due, per dire che è importante e giusto votare no alla riforma costituzionale, quali sarebbero?
Il pericolo maggiore, già accennato in precedenza, sta nella combinazione della riforma Boschi con l’Italicum, grazie alla quale il leader del partito vittorioso, anche con solo il 25 per cento dei voti, sarebbe, di fatto, un “premier assoluto”. Ma quand’anche, prima del referendum, venisse modificata la legge elettorale attribuendo il “premio di maggioranza” (sic!) alla coalizione vincitrice anziché al partito, l’atteggiamento critico nei confronti della riforma non cambierebbe, non solo per quanto detto in risposta alla precedente domanda, ma anche perché il Senato, così come disegnato, non funzionerebbe.
Perché?
Il futuro articolo 55 proclama che il Senato rappresenterebbe le istituzioni territoriali, ma le funzioni elencate in quell’articolo sono del Senato non in quanto rappresentante delle istituzioni territoriale, ma in quanto organo dello Stato (funzione legislativa, partecipazione alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea ecc.). Inoltre la partecipazione del Senato alla funzione legislativa, sia quella bicamerale, sia quella eventuale concernerebbe soltanto gli aspetti organizzativi. Per cui, nei rapporti dello Stato con le Regioni, le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato verrebbero disciplinate dalla sola Camera dei deputati.
La riforma della potestà legislativa nel rapporto Stato-Regioni è talmente sbilanciata a favore del potere centrale, da potersi addirittura prospettare la violazione dell’art. 5 Cost. che riconosce e tutela le autonomie locali. Le cinque Regioni a statuto speciale resterebbero immuni dalle modifiche della legge Boschi e di conseguenza ad esse non si applicherebbero gli indicatori del “costi-standard”, il che determinerebbe, nel sistema, una gravissima contraddizione di fondo. Per contro, le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, ingiustamente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato-Regioni. Verrebbero invece previste due potestà legislativa esclusive: una dello Stato in ben 51 materie e l’altra delle Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative.
Materie tipiche di ogni assetto autonomistico, quali la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo, verrebbero attribuite allo Stato ma al solo fine di dettare «disposizioni generali e comuni», senza però attribuire a chicchessia, e quindi nemmeno alle Regioni la relativa potestà di attuazione. E materie importanti come la circolazione statale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’attività mineraria, le cave, la caccia e la pesca non sono state attribuite esplicitamente né allo Stato né alle Regioni, il che costituisce più il frutto di una dimenticanza che di una consapevole ma implicita scelta in favore delle Regioni.
Recentemente il Ministro Boschi è stata a Berlino per parlare alla sede della Konrad-Adenauer Stiftung, associazione vicina alla CDU di Angela Merkel. Ha raccontato di uno sforzo per avere un Senato simile a quello tedesco. Ravvede queste somiglianze?
Nessuna. Nel Bundesrat sono infatti presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder, preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871. I Länder, per il tramite di loro rappresentanti (uno o più), hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione.
Abbiamo già accennato a un aspetto importante, che molti esponenti del vostro Comitato sottolineano, cioè il combinato disposto con la legge elettorale. Perché si deve parlare della legge elettorale, se il Referendum di ottobre sarà sulle modifiche al Senato?
Perché, grazie alla legge elettorale denominata comunemente Italicum – che ripete i due vizi per i quali il Porcellumfu dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 1 de 2014, cioè il voto “bloccato” limitatamente ai capilista e premio di maggioranza assegnato, a seguito di ballottaggio, alla lista più votata ancorché abbia raggiunto anche solo il 25 per cento – il partito di maggioranza otterrebbe 340 seggi alla Camera dei deputati. Conseguentemente si avrebbe, da parte dell’elettorato, un’investitura quasi-diretta del leader del partito alla Presidenza del Consiglio, come ho già accennato. Il nostro ordinamento si orienterebbe perciò, di fatto, verso un “premierato assoluto”, non già grazie a particolari poteri ma in conseguenza dell’assenza di adeguati contro-poteri, come ho già avvertito.
Quali sono gli scenari che lei immagina per il Referendum di ottobre? Se vince il Sì davvero il Paese rischia una deriva autoritaria? Se vince il No, Matteo Renzi e una intera classe dirigente dice che lascerà la politica, e per Benigni significherà che questo Paese è irriformabile.
Ritengo eccessivo sostenere che con la vittoria del Sì ci sarebbe di per sé una svolta autoritaria. Certamente però la riforma porrebbe in essere i presupposti necessari perché un politico spregiudicato possa ridurre gli spazi di democrazia delle istituzioni repubblicane. Renzi ha sbagliato a condizionare la sua permanenza alla vittoria nel referendum di ottobre. E’ un tentativo di ricatto al quale gli elettori non devono soccombere. Ma costituisce l’ovvia conseguenza dell’azzardo dell’allora Presidente della Repubblica e dell’attuale Presidente del Consiglio, di aver voluto iniziare un percorso costituzionale in una Legislatura, come la XVII, notoriamente delegittimata, un azzardo tanto più sbagliato in quanto l’iniziativa della riforma costituzionale è stata del Governo, e non del Parlamento, con tutte le numerose storture procedurali che ho già ripetutamente denunciato altrove.
Quanto a Benigni, non credo che abbia chiara la distinzione tra revisione costituzionale e riforma costituzionale, ma sono d’accordo con lui che la nostra Costituzione non può essere modificata con riforme. Potrebbe esserlo ma solo con le revisioni costituzionali previste dall’art. 138 della Costituzione. Queste, a differenza delle riforme, concernono infatti soltanto le modifiche puntuali e omogenee della Costituzione a fronte delle quali l’elettore è libero di dire Sì o No. Le riforme concernono invece la modifica contestuale di varie parti della Costituzione, come la riforma Berlusconi che fu bocciata dal popolo nel 2006, e come la riforma Boschi, la cui intitolazione è significativa: «Superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del CNEL e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione».
A parte il fatto che l’intitolazione della legge Boschi è addirittura parziale, perché tace, tra l’altro, delle modifiche del procedimento legislativo e dell’elezione dei giudizi costituzionali, è del tutto evidente che, a fronte delle modifiche indicate, l’elettore sarà costretto a rispondere con un solo Si o No, il che viola la libertà di voto, che costituisce uno dei principi fondamentali del nostro sistema costituzionale. Ad esempio, io voterò No, ma con riferimento all’abolizione del CNEL, se avessi potuto, avrei votato Sì.
Quindi…
In conclusione, la mia personale convinzione, da tempo maturata, è che, se si vogliono effettuare dei cambiamenti costituzionali partecipati dalla maggioranza dei cittadini, ci si dovrebbe limitare a proporre solo modifiche puntuali ed omogenee, quali la diminuzione bilanciata del numero dei deputati e dei senatori; l’attribuzione alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col Governo; la trasformazione del Senato in una effettiva camera territoriale; l’attribuzione alla Corte costituzionale del giudizio sull’incompatibilità e sull’ineleggibilità dei parlamentari; l’introduzione del potere d’inchiesta parlamentare ad iniziativa di una minoranza qualificata; l’abolizione del CNEL e così via.
« "Acrescita" dell’economista Mauro Gallegati per Einaudi. Contro l'idea di lavorare per consumare con il Prodotto interno lordo che stabilisce qual è la buona società. Liberarsi di un'ideologia produttivista che nega il buon vivere. Oltre alla teoria, ora si dovrebbe trovare anche il coraggio politico». Il manifesto,
7 luglio 2016 (c.m.c.)
Non possiamo piú vivere per lavorare e lavorare per consumare, credendo (o facendo finta di credere) al mito che consumando piú beni saremo piú felici. In una frase, Mauro Gallegati – economista tra i più interessanti che abbiamo in Italia – rimette in discussione il paradigma dominante: avere come unico obiettivo la crescita del Pil è miope e fuorviante.
Nel suo pamphlet Acrescita (Einaudi), Gallegati riprende un tema diventato noto negli anni della crisi: ci troviamo in una ripresa senza lavoro. Si chiama jobless. E tutti fanno finta di nulla. E’ un sistema economico ad avere fatto bancarotta. C’è poco da fare: il Pil cresce pochissimo con occupazione invariata. A-crescere, per l’economista, significa che il benessere non dipende (soddisfatti i bisogni primari) dalla quantità di merci a disposizione, ma dalla possibilità di godersi la vita senza compromettere una uguale opportunità alle generazioni future.
Gallegati va alla radice della «scienza triste» e sostiene che l’economia dovrebbe superare i modelli matematici che l’hanno separata dalla natura e dalle leggi della fisica. L’acrescita è un neologismo che porta a rivedere il suo rapporto con la società, insieme a un’interpretazione «multisistemica» del benessere. Di questa pluralità relazionale il Pil coglie soltanto uno degli elementi del vivere bene, l’eu zen che Gallegati invoca in nome di Aristotele. Alla base di questa posizione sul capitalismo c’è una doppia critica: la prima è alla «filosofia del dominio che rischia di cancellare la natura e con essa l’uomo»; la seconda è una filosofia etica basata sulla ricerca della felicità.
La misura del benessere non è un problema matematico, ma è una ricerca culturale che dovrebbe riflettere sui valori, i comportamenti degli individui e le loro relazioni. Il problema è stato evidenziato in una delle raccomandazioni della Commissione Sarkozy, composta tra gli altri da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi: bisogna superare l’idea di un unico indicatore sintetico e andare nella direzione di più indicatori di «progresso sociale». Sembra semplice ma, considerato lo stato del dibattito epistemologico nelle scienze economiche, non lo è affatto.
Nella decostruzione del paradigma dell’«economia assiomatica» la verve polemica di Gallegati raggiunge risultati considerevoli. L’assiomaticità dell’economia standard è fondata sulla razionalità e sulla massimizzazione dell’utilità e si disinteressa della corrispondenza empirica tra assiomi e realtà. La matematica è il giudice unico della bontà delle teorie. Lo è al tal punto che la famosa domanda posta dalla Regina d’Inghilterra sul perché gli economisti non abbiano saputo prevedere la crisi finanziaria scatenata dai mutui subprime resta ancora senza risposta. Così impostata, l’economia può solo autogiustificare i propri assiomi sulla base della simulazione di teoremi, indipendentemente dai loro effetti reali.
Questa disciplina possiede tuttavia una base materiale che corrisponde a quella che Gallegati definisce «l’economia del criceto: il lavorare di più per consumare sempre di più, un modo di vivere che persegue l’accumulazione di merci. Si dovrebbe piuttosto provare a liberare il criceto, aprendo la gabbia per agevolare un cambio di paradigma».
L’economia è una disciplina sociale che unisce storia, matematica e sociologia e mette in relazione attori differenti che interagiscono dentro, ma soprattutto fuori dai mercati. I promotori dell’economia del criceto sostengono la religione della «mano invisibile»: è il mercato che rimedia a tutte le contraddizioni. Ogni vita ha il suo prezzo, tutto è valutato in base alle sue priorità.
Gallegati rovescia questo assunto e sostiene un’economia basata sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse. Tale redistribuzione può essere ottenuta attraverso la «partecipazione alla vita sociale». L’economista esercita il suo mestiere in questo campo. Per farlo dovrebbe affrontare un radicale conflitto di potere, anche accademico. Oltre alla teoria, dovrebbe trovare anche il coraggio. Merce rara, di questi tempi.
Riferimenti
Sull'argomento ricordiamo la splendida invettiva pronunciata da Robert Kennedy poco prima di essere assassinato: Ciò che il Pil misura e ciò che non misura, e gli scritti sulla "Società opulenta" e sulla "Decrescita"
L'intervento che l'autore non ha potuto svolgere alla riunione della Direzione del suo partito, il PD. Un'ulteriore, splendida analisi delle ragioni per cui il partito di Renzi è quello che è. In calce il mio commento (e.s.).
Di seguito l'intervento che avevo preparato per la Direzione del PD sull'analisi del voto. Purtroppo non è stato possibile pronunciarlo all'assemblea del 4 Luglio 2016.(W.T.)
C'è un aspetto surreale della nostra campagna elettorale; mai si era visto finora un partito impegnato in due diverse consultazioni popolari. Mentre i candidati e i militanti combattevano nelle città, il PD nazionale si mobilitava per un referendum che si terrà in una data imprecisata. La sovrapposizione non ha portato voti, ma ha contribuito a unire gli avversari. L'anticipazione del referendum sembrava un tentativo di oscurare le amministrative, perché non turbassero la narrazione del leader vincente. Meglio sarebbe stato provare a vincere nelle città con l’impegno del leader.
All’assemblea romana del PD, prima del ballottaggio, proposi di rafforzare Giachetti nelle periferie affiancandolo con Renzi, che così avrebbe potuto spiegare al popolo il “cantiere sociale” di cui ci ha parlato oggi. Sulla mia proposta calò il silenzio imbarazzato dei dirigenti locali. Mi rispose un giovane renziano sostenendo che la presenza del segretario ci avrebbe fatto perdere voti. C’è voluto il candore giovanile per svelare il problema politico delle amministrative.
È un errore di provincialismo continuare a sottovalutare il voto nelle storiche capitali italiane: Torino, Napoli e soprattutto l’umiliante sconfitta di Roma. Se ne è parlato sui giornali di tutto il mondo, ma qui si fa finta di niente; la lunga relazione introduttiva ha glissato e anche Orfini ha parlato in generale, dimenticando il ruolo di Commissario del PD romano. L'unica menzione è nel triste riferimento sessista di De Luca alla sindaca Raggi.
Nella campagna elettorale alcuni hanno hanno preso sul serio la priorità referendaria, fino a promettere la riforma del bicameralismo a quei cittadini che chiedevano pane e lavoro. E come biasimarli, d’altronde? Da tanto tempo i politici che non sanno governare il Paese attribuiscono la colpa alla Costituzione. L’ossessione ormai trentennale nel modificare la Carta non trova paragoni in nessun paese occidentale, è una patologia solo italiana. È stato il sogno della nostra generazione, ha ricordato Franceschini; direi meglio, è stata la fuga onirica dalla realtà del Paese. La nuova generazione doveva cambiare verso e invece scopiazza maldestramente i progetti di Aldo Bozzi, di Ciriaco De Mita e di Massimo D’Alema. Si adottano vecchie soluzioni ormai travolte da nuovi problemi. Si applica il modello Westminster quando il bipolarismo non funziona più in nessun paese europeo. Si concentrano i poteri sui governi, proprio mentre perdono la fiducia dei cittadini e non vengono quasi mai rieletti. Si aumentano i premi di maggioranza per compensare gli elettori che non votano, così voteranno sempre di meno.
Con l’Italicum e la revisione costituzionale viene meno la saggezza, sia nella politica che nelle istituzioni. Si crea la possibilità di un leader aggressivo che, con il sostegno del 20% dei cittadini, arrivi a conquistare il banco e modificare le regole fondamentali.
Si poteva fare meglio? Certo, seguendo un percorso diverso. Poco fa abbiamo rivisto sullo schermo il discorso di Napolitano al Parlamento per la sua rielezione. Quel giorno c'ero e non l’ho applaudito. Perché trasferiva in una crisi costituzionale quella che era invece una crisi politica del Pd, incapace di eleggere il suo fondatore al Quirinale. Si doveva tornare al voto al più presto, approvando la nuova legge elettorale basata sui collegi, c’erano anche i numeri alla Camera e al Senato. Invece si avviò la revisione costituzionale per legittimare governi sprovvisti di mandato popolare e per tenere in vita un Parlamento eletto con legge incostituzionale.
Le Costituzioni non devono scriverle i governi, altrimenti durano poco e alimentano la discordia nazionale. Era già accaduto nel 2005 con la destra, e nel 2000 con la sinistra. Avevamo promesso di non farlo più, ma ripetiamo l’errore.
Voterò No al referendum per aprire la strada a una riforma più saggia e più condivisa. E per cambiare le priorità, nonché l'asticella del leader.
Il Presidente del Consiglio non dovrebbe drammatizzare l’esito referendario. Da troppo tempo si creano emergenze artificiose per imporre scelte sbagliate. Invece, il segretario fallirebbe il suo compito se non riuscisse a cambiare il Pd come aveva promesso nelle primarie.
La crisi italiana non dipende dall'ingegneria istituzionale, ma dalla sfiducia nei partiti. La prima riforma costituzionale è la riforma della politica. Proprio con questa ambizione avevamo fondato il PD, ormai quasi dieci anni fa. Possiamo dire di aver realizzato le speranze di allora?
Avevamo immaginato il partito degli elettori, ci ritroviamo il partito degli eletti. Volevamo costruire una moderna forza popolare, siamo stati spiantati dalle periferie italiane. Volevamo rinnovare la classe dirigente, non abbiamo candidati vincenti nelle grandi città.
Il PD che sognammo non è mai nato, è cresciuta invece una filiera di notabili, chiusa in se stessa, senza anima e senza progetti. Quando amministra bene, come a Torino, non riesce a rappresentare né le speranze né i lamenti della gente. Quando delude gli elettori, come a Napoli e a Roma, non ha né l’umiltà né il coraggio per riconquistare la loro stima. Dopo Mafia Capitale bisognava dimostrare di aver capito la lezione. Almeno l’umiliazione si poteva evitare, promuovendo una lista civica del centrosinistra, mettendo a disposizione le nostre forze migliori per ricostruire una classe dirigente competente e autorevole. Invece, il ceto politico locale ha conservato se stesso e ha puntato l’indice sui circoli, mortificando i militanti e scambiando gli effetti con le cause.
Eppure dovremmo essere orgogliosi del volontariato, dell’impegno civile e del buongoverno di tante democratiche e democratici. C’è voluta una rivista americana per valorizzare il capolavoro del nostro sindaco di Riace che ha rigenerato il centro storico accogliendo i migranti. Le migliori risorse del Pd non sono ancora state messe a frutto.
Se non abbiamo realizzato quel sogno di dieci anni fa, nessuno qui può sottrarsi alla responsabilità: né i dirigenti attuali, né quelli precedenti. Riconoscerlo sinceramente aiuterebbe a superare una dialettica interna spesso ripetitiva e propagandistica. Nessuno di noi può essere contento di come funziona questa assise. La minoranza si sente inascoltata e reitera le sue critiche, le quali servono alla maggioranza per compattarsi in un velleitario Avanti Savoia, eludendo l’onere di un’autonoma spiegazione delle cose che non vanno. Temo un congresso che aggiunga solo le percentuali a un conflitto sterile. Meglio sarebbe un compromesso generativo. Sì, proprio compromesso, la bella parola dei grandi politici, tanto vituperata dai piccoli politici. E generativo di ambizioni e di impegni condivisi.
Primo: costruire il partito come luogo della cittadinanza attiva, della cultura delle riforme e dell’educazione dei giovani. Secondo: riconquistare la fiducia popolare con nuove politiche sociali per il lavoro e l’eguaglianza. Terzo: prendere la guida della malmessa sinistra europea, non solo con le ottime iniziative nel Parlamento europeo e della diplomazia governativa, ma con una mobilitazione culturale e sociale nel continente.
Oggi il PD è la forza che può cambiare l’Italia, influire sull’indirizzo europeo e contribuire alla pace nel mondo. La responsabilità che portiamo sulle spalle è enorme. Siamo orgogliosi delle buone cose realizzate, ma consapevoli che dobbiamo cambiare noi stessi per essere all’altezza del compito. Lo dico agli amici della minoranza, non è tempo di chiudersi in una riserva. Lo chiedo alla maggioranza, non è tempo di vivere sugli allori. Tutti insieme dovremmo rivolgerci agli elettori e ai militanti che ci hanno abbandonato per comprenderne le ragioni. Il primo passo spetta a Matteo Renzi, domandando prima di tutto a se stesso che cosa non ha funzionato. I leader nascono con le proprie certezze, ma diventano grandi attraversando il dubbio dei vincitori.
il commento che ho rilasciato sul blog di Walter Tocci:
Caro Walter, ancora una volta ti declino il mio pensiero, a partire dall’incipit di Dora Markus: “non so come stremato tu resisti” in questo lago di nefandezze politiche che tu da anni analizzi con rarissima lucidità e palese sofferenza. Non so come stremato resisti a coprire, con la tua presenza, la politica di una ex sinistra ormai interamente riplasmata, in ogni sua molecola, dal morbo del neoliberismo. Non so, e perciò soffro. Con affetto e.s.