loader
menu
© 2025 Eddyburg
«I genitori di questi minori conoscono i meccanismi di accoglienza, fanno un investimento sul futuro. Alcuni migranti minori adottati da Fiumicino sono ospitati in un centro accoglienza a Passoscuro che ha una capienza di 14 posti»

La Repubblica, 1 agosto 2016 (c.m.c.)

Scappano dalla guerra, dalla fame, dalle tragedie familiari. Sono minori tra i 10 e i 16 anni (in possesso di documenti spesso farlocchi). Diventano “figli” di Fiumicino perché arrivano in aereo da soli, il cartellino con il loro nome appeso al collo, e devono, per legge, essere presi in carico dal Comune che ospita lo scalo internazionale. Sono più o meno cento all’anno e il loro tutore, di tutti e cento, è il sindaco Pd di Fiumicino, Esterino Montino.

Si sapeva delle traversate drammatiche sui barconi. Nelle notti umide, con il mare ostile, abbiamo visto ragazzini soli, spaesati, con il giubbotto arancio in mezzo agli adulti stremati. Ma di questa altra modalità, l’arrivo in aereo, con finti accompagnatori che poi svaniscono nel nulla o finti parenti che dovrebbero attenderli a Fiumicino ma, in realtà, non si fanno vedere, di questo modo di fuggire verso il futuro, si conosce ben poco. Pochi giorni fa un aereo partito da Kinshasa ha trasportato quattro fratelli, il più piccolo di nove anni. Nuovi figli di Fiumicino.

Come funziona ce lo spiega il sindaco- tutore che si ritrova responsabile di questi ragazzini fino al compimento della maggiore età: «In genere dietro di loro ci sono famiglie più istruite che conoscono bene i meccanismi di accoglienza internazionali, famiglie che hanno almeno un parente che è in grado di pagare il biglietto aereo. Sono minori africani, somali, eritrei, nigeriani, anche molti afghani. Il ragazzino parte da solo, perfettamente istruito. Se ha meno di 15 anni c’è con lui un finto accompagnatore che poi sparirà all’arrivo. Bugia rodata: «In Italia mi aspetta lo zio Mohammed, amico di famiglia». È un viaggio per sempre, è l’investimento della famiglia sull’adolescente destinato altrimenti a vivere una vita misera tra fame o guerra, o tutte e due le cose insieme».

A Fiumicino, come in una piece teatrale, questi ragazzini attendono per molte ore che qualcuno li venga a prendere, sapendo bene che nessuno lo farà. Una volta accertato che sono soli al mondo, la polizia italiana fa le sue indagini preliminari e poi li affida al Comune. Di Fiumicino, naturalmente. Ed entra in scena il sindaco-tutore: «A mia volta chiamo il nostro servizio deputato. Abbiamo assistenti sociali, psicologi, personale qualificato».

I ragazzi cominciano a parlare, a raccontare le loro storie che nessuno può veramente controllare. La macchina del Comune si mette in moto, si cerca un posto dove ospitarli. Il Centro di Passoscuro può tenere fino a 14 minori. È quasi sempre pieno e la ricerca continua finché i nuovi arrivati sono tutti sistemati in luoghi adeguati, anche fuori regione, per esempio in Umbria. Ma è sempre Fiumicino che veglia e paga, dice il sindaco. Quanto? «La spesa - calcola Montino - si aggira mediamente intorno al milione di euro all’anno». 60, 90 euro al giorno per ragazzino.

Paga tutto il Comune, con un modesto contributo del Ministero degli Interni che arriva dopo anni. Un impegno finanziario enorme, un piccolo Comune che svolge «una funzione nazionale », fa notare parecchio preoccupato Montino. In questo momento il sindaco-tutore ne ha in carico una settantina.

Prendono lezioni di italiano, vanno a scuola, fanno sport, seguono corsi professionali. Nessuno vuol tornare da dove è arrivato. Un venti per cento, quelli più grandi, dopo una ventina di giorni scappa. Hanno parenti al Nord, in Germania, in Svezia, e tentano di raggiungerli. Gli altri rimangono, vengono allevati in Italia, i loro familiari, con cui a volte rimangono in contatto, almeno i primi tempi, hanno scommesso su questo.

Simona Baiocco, psicologa, responsabile del Centro di Passoscuro, ne parla come di figli: «Per ognuno di loro abbiamo un progetto e un percorso». Ahmed (nome di fantasia) compirà 18 anni tra pochi giorni e dovrà lasciare quella che è stata casa sua per quasi due anni. È arrivato in aereo dal Congo, il biglietto pagato da un giornalista che l’ha incontrato nel campo dove era ospitato. Orfano di madre, il padre militare ucciso. È bravissimo a scuola, fa palestra.

Una storia che sembra a lieto fine. Ora il Comune gli ha trovato una famiglia affidataria. Per il somalo Samir dimenticare è più difficile. Gli hanno ammazzato il fratello sotto gli occhi e lui si è salvato solo fingendosi morto. La madre è impazzita dal dolore, il padre è stato ucciso. Uno zio gli ha dato i soldi per l’aereo: «Vola via Samir e dimenticaci». Anche lui è diventato un figlio di Fiumicino.

La presenza corale dei musulmani alle chiese cattoliche «mette a nudo una asimmetria. I cattolici non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad»La Repubblica, 1° agosto 2016

“TI È duro resistere al pungolo”: in uno dei racconti della conversione di Paolo (At 21) il Risorto apostrofa così l’apostolo: perché la conversione è una colluttazione, in cui Dio usa i colpi proibiti.

Ieri la chiesa cattolica europea ha sentito la fitta di quello sperone conficcarsi nella sua carne viva. La presenza alla eucarestia dei musulmani, per il martirio di padre Hamal, è stata infatti un “pungolo” che chiama la chiesa alla conversione. È stato favorito dalla tempestività con cui papa Francesco, fedele al protocollo vaticano in vigore dall’11 settembre, non ha concesso il riconoscimento politico di guerra “dell’islam” al terrorismo: dalla chiarezza con cui alla Gmg ha ripetuto il no all’odio che, come osservava ieri Eugenio Scalfari, è un no al potere, anche religioso.

Eppure la presenza islamica nelle chiese è stata un gesto spiazzante dal quale non pochi cattolici hanno cercato di “difendersi”. C’è chi paternalisticamente l’ha ridotto, ad un “buon inizio” e ha lodato i musulmani “moderati” (a proposito: quando smetteremo di regalare il nobile titolo di “radicali” ai tagliagole e chiameremo “musulmano” ogni musulmano che prega, e “sanguinario islamista” ogni musulmano che uccide?). C’è chi s’è premurato di precisare che non si trattava di una “preghiera comune”, se mai evocando la distinzione di età ratzingeriana fra “pregare insieme” e “pregare simultaneamente”. Si è provato a sottovalutare la difficoltà di uno “sforzo ascetico” (quello che nel Corano è definito il “jihad”, con un’altra parola che l’inverno della nostra ignoranza usa al femminile perché lo traduce “guerra”) e si sono dimenticate molte presenze locali in passato.

Tutti tentativi per diminuire la forza di una presenza che mette a nudo una asimmetria. I cattolici — anche se alcuni pure vescovi e chierici, l’hanno fatto a titolo individuale — non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad. Non hanno versato lacrime per la sanguinosa profanazione della fine del ramadan avvenuta a Medina e in altri luoghi. Non hanno fatto lutto per le vittime musulmane, e c’è voluto un Papa argentino e un Patriarca turco per lasciare sul mare un fiore per loro.

Anche i cattolici hanno subito pigramente la vera offensiva del Regista dell’Isis (perché c’è un Regista): che vuol abituarci a distinguere attentato da attentato, a sentire diversamente gli uccisi nostri e loro, attraverso gli attacchi ai luoghi della vita comune, come fu alla Stazione di Bologna.

Pigrizia spirituale: perché in teoria lo sanno tutti. La fraternità non nasce quando si pongono condizioni alla relazione, ma quando nella prova qualcuno dice “sono qui con te”. Lo sanno le comunità ebraiche, che, ogni volta che il terrorismo ne ha colpito una, hanno sentito più “spiegazioni” giustificatorie e antisemite che fraternità vere. Ora lo sanno i cristiani, che hanno visto sparire intere comunità e chiese, mentre il conservatorismo pantofolaio domandava la crociata e la chiusura delle frontiere. Lo sanno i musulmani che da quasi quarant’anni vedono la guerra dell’ex impero Ottomano cambiar nome, ma permanere.

Finora non era accaduto che una comunità venisse a dire a un’altra comunità, più vasta e riconosciuta, “sono qui con te”: per abitare la stessa libertà e chiedere nella preghiera la stessa cosa che chiedi l’altro. Che l’iniziativa sia stata presa da musulmani promette bene per l’Europa (e male per il Regista): dimostra che la libertà religiosa che questo continente ha conquistato superando le guerre di religione, le guerre di irreligione, le guerre mondiali — questa libertà fa bene a chi la vive ed è più sicura degli screening discriminatori. Non rende i credenti non meno credenti, ma credenti migliori.

Che dunque si possono misurare con la sfida teologica, che Francesco ha posto anche in questi giorni. I cristiani delle diverse chiese, un tempo nemici e carnefici gli uni degli altri, riconoscono ora che c’è un “ecumenismo del sangue”, in cui l’unità nasce dalla persecuzione ed è stata compresa grazie ad un difficile lavoro storico-teologico. Al terrorismo che sparge il sangue di credenti e non credenti bisogna dare la stessa risposta: forse creando un gesto liturgico comune più impegnativo dello “spirito di Assisi”.

C’è una “fraternità nelle vittime”, una alleanza in Abele, che nasce non se si dice “tutti i morti sono eguali”, ma quando i credenti comprendono il martirio dell’altro. In una campagna terroristica a cui neghiamo il titolo di “guerra di religione”, non ci servono religioni che sappiano “fare pace”: pace fra le culture, mettendo in gioco la fede nel Dio unico, interrogandolo, sentendone il pungolo.

«». Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2016, con postilla (c.m.c.)

Una società frammentata che viene gestita senza progetti unitari e chiari. Che ha urgente bisogno di definire quali devono essere i rapporti fra il Parlamento e il governo, per ritrovare la capacità di individuare obiettivi definiti e specifici al di là delle esigenze del momento.

Nei giorni scorsi da Giuseppe De Rita è arrivata una provocazione. Si è domandato,con un artificio retorico, «se abbiamo oggi una politica della ricerca scientifica, una politica industriale, una politica dello sviluppo universitario, una politica della cultura, che siano espressione di progettazione e volontà politica» (Corriere della Sera, 22 luglio 2016). Per concludere che abbiamo, piuttosto, un avvicendarsi cumulativo di emendamenti particolari che lasciano spazio a una continua frammentazione delle scelte. La parola emendamento viene usata più volte da De Rita e significa la coazione di poteri particolari, settoriali senza impostazione politica.

Del resto, e lo sappiamo bene, le leggi finanziarie sono “omnibus” pieni di emendamenti, strumenti di tutela di interessi particolari. Viviamo in una società del frammento con il primato dell’emendamento. Gli strumenti di questa tendenza sono le leggi finanziarie, che sono l’area di rincorsa di pressioni burocratiche e corporative in vari settori del mondo politico.

Le leggi finanziarie avrebbero lo scopo di adeguare le entrate e le uscite del bilancio dello Stato, delle aziende autonome e degli enti pubblici che si ricollegano alla finanza statale, agli obiettivi di politica economica; attraverso le leggi finanziarie vengono operate modifiche a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio.

Prescindendo dalla funzione della legge di bilancio va sottolineato il risvolto politico istituzionale della stessa legge che rappresenta la verifica puntuale del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Essa compone una serie di provvedimenti concreti e spesso singolari. La legge mette in evidenza l’integrazione politica di due organi ed esalta la crisi perenne del loro incerto rapporto.

La prassi politica che non ha saputo rinunciare ai benefici immediati della causalità e frammentarietà non in funzione dei bisogni di una programmata gestione della cosa pubblica, ma di tendenze e richieste momentanee corporative messe in evidenza proprio dall'andamento disordinato e approssimativo dell’azione di governo.

«Governare con provvedimenti finanziari non è propriamente governare ma andare dietro alle cose per tenere in rotta in qualche modo la barca con un timoniere continuamente all’erta e un equipaggio inquieto sulla propria sorte». Così scriveva nel 1986 Giorgio Berti, il quale aggiungeva che «si afferma una concezione del caso e dell’emergenza».

Il sistema fiscale segue alla perfezione la politica degli emendamenti . «Quando sotto falso nome si impongono veri e propri tributi al di fuori della regola costituzionale della capacità contributiva. Il sistema viene impostato al di fuori della regola della solidarietà, perché la tecnica legislativa è funzionale alla politica degli emendamenti e ne segue la casualità».

Vengono moltiplicati, così, i casi di tassabilità (bis, ter, quater, quinquies, così vengono gonfiati i commi delle leggi fiscali); vengono modificate le leggi di applicazione vanificando i termini, il sacrosanto principio della decadenza e quindi dell’affidamento del contribuente; viene fatto ricorso alle leggi interpretative con effetto retroattivo.

E resta da vedere se la riforma appena varata della legge di bilancio saprà superare questi difetti.Sono tante, infatti, le leggi che nell’introdurre nuove forme di tassazione si fregiano del pomposo titolo di «semplificazione» e «certezza del diritto». Ma l’ordinamento tributario alla ricerca, comunque, di un aumento scriteriato di gettito produce l’aumento dell’evasione, perché si inasprisce la tassazione esistente e non si colpiscono i veri evasori.

Le norme non sono individuabili e non sono leggibili, quando sono fatte di articoli dove domina il rinvio e la ricostruzione della legge emendata. Non sono scritte come prescrive lo Statuto del contribuente «riportando il testo continuamente modificato» (articolo 2, comma 4 della legge 212/2000), ma hanno una scrittura che sembra affatto opposta per non essere compresa da giudici e funzionari. Ci pensano, poi, i privati con sedicenti codici tributari che non vincolano i giudici a cercare di ricostruire un quadro comprensibile.

Ma come si esce dalla politica degli emendamenti? Si potrebbe dire con una cultura politica diversa. Ma se il problema è quello dei rapporti fra Governo e Parlamento: bisogna stabilire i confini tra i due poteri. Dobbiamo ancora decidere se siamo una repubblica parlamentare. Dove il Parlamento traccia le linee di programma di governo e non cogestisce con la politica degli emendamenti. Questa è la vera riforma costituzionale alla quale si deve ancora pensare.


Veramente singolare che il commentatore del giornale del padronato italiano non si sia accorto che la "riforma" per la quale Renzi e i suoi supporter continuano a dare spallate straordinarie sia l'esatto contrario di quello auspicato dal prof. De Mita: né Governo né Parlamento, tutto il potere al Capo.

Il Fatto Quotidiano online, 31 luglio 2016 (p.d.)
Da mesi si parla principalmente di economia in relazione all’Europa Unita, in particolare per mettere a nudo le contraddizioni della gestione politica di Bruxelles. Tuttavia esistono altre zone d’ombra nel "governo dell’Ue", altrettanto sconcertanti, che non vengono mai menzionate. Tra queste, forse tra le più preoccupanti c’è quella dei cosiddetti "aiuti" allo sviluppo a governi apertamente anti-democratici. Si tratta di un’espressione idiomatica che nasconde traffici di cui bisognerebbe vergognarsi. In realtà la parola ‘aiuto allo sviluppo’ spesso è sinonimo di sovvenzioni militari che hanno lo scopo di fermare i flussi migratori verso l’Europa ma che finiscono per potenziare regimi essenzialmente dittatoriali o nascondono il pagamento dei riscatti per gli ostaggi. Un disgustoso do ut des di cui il cittadino sa poco o nulla, ma che viene praticato con i soldi del contribuente.

L’ultima vergognosa proposta di un accordo di questo tipo risale all’inizio di luglio, quando la Commissione europea ha pubblicato una bozza di proposta per fornire 100 milioni di euro in aiuti alle forze armate di alcuni paesi africani: nella bozza si legge che il denaro verrà usato per bloccare migranti e rifugiati diretti prima in Libia e poi in Europa.

Un tempo questo sporco lavoro lo faceva Gheddafi ma oggigiorno è il presidente del Sudan Omar al – Bashir e la sua milizia governativa (mercenari della sua stessa tribù) conosciuta come la Forza di supporto rapido (Rsf). La Rsf non ha solo il compito di pattugliare i valichi di frontiera, fa parte dei servizi di sicurezza nazionale e di intelligence del Sudan. Alla Rsf appartengono uomini che hanno combattuto in Darfur con i Janjaweed, una milizia di tribù arabe sudanesi. A guidarla è un ex leader delle milizie Janjaweed, il generale Mohamed Hamdan Hametti, che si è impegnato ad inviare circa 1.000 dei suoi uomini lungo il confine con la Libia per bloccare i migranti. Sia al-Bashir che Hametti sono considerati colpevoli di crimini contro l’umanità in quanto artefici della violenza genocida durante la guerra civile del Darfur. Ma nessuno è ancora riuscito a trascinarli di fronte a una giuria.

Si legge nella proposta che gli "aiuti militari" dell’Unione europea potranno essere utilizzati per finanziare qualsiasi cosa, dai mezzi di trasporto per le truppe alle uniformi, alle apparecchiature di sorveglianza. Dal 2001 al 2009, Bruxelles aveva già concesso circa 1 miliardo di euro per la gestione delle frontiere e l’applicazione delle norme relative all’emigrazione. Tuttavia, questa è la prima volta che propone di pompare denaro direttamente in una struttura militare straniera.

I primi frutti di questo accordo già sono visibili: a metà luglio la Rsf ha arrestato oltre 300 migranti diretti in Libia attraverso il deserto nel Nord del Sudan. Che fine avranno fatto? Imprigionati nei gulag sudanesi simili a quelli creati da Gheddafi solo pochi anni fa o scomparsi in fosse comuni? Le loro sono vite che non contano nulla!

Per chi ha bisogno di rinfrescarsi la memoria, in Sudan la violenza politica tra i due gruppi etnici, i “contadini” (gli “africani”) e l’altro gli “allevatori di cammelli” (gli “arabi”) è iniziata nel 1970 ed era accentrata intorno alle dispute sulla proprietà della terra e i diritti di accesso all’acqua. La violenza è aumentata di anno in anno, e nel 1990, il governo del Sudan ha delegato la responsabilità di mantenere l’ordine pubblico a Khartoum, e nella regione circostante, alle milizie arabe Janjaweed, formate da alcuni gruppi di pastori, mettendo praticamente alla porta le forze di polizia.

Gli scontri violenti sono continuati ad aumentare finché nel 2003 il paese è piombato nella guerra civile. A questo punto, ha preso in mano la situazione il nuovo presidente Omar al-Bashir anche grazie all’appoggio di Washington, il cui emissario era niente di meno che Joe Biden, il vicepresidente del primo presidente di colore d’America, Barak Obama. Incitate da al Bashir, le milizie Janjaweed sono diventate estremamente violente attuando un programma di massacri, omicidi di massa, stupri, genocidi e facendo terra bruciata dovunque si nascondessero gli oppositori. Il genocidio del Darfur faceva parte di questo programma sanguinario.

Naturalmente Bashir, al potere dal 1989, nega le accuse mosse a riguardo del genocidio del Darfur dalla Corte penale internazionale (Icc). Interessante notare che proprio quest’anno è stato rieletto con il 94% dei voti in una votazione boicottata dai principali partiti dell’opposizione. Ufficialmente l’affluenza è stata del 46 per cento ma secondo molti osservatori l’affluenza è stata di gran lunga inferiore.

Nonostante diversi paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Norvegia, abbiamo criticato le elezioni, l’Unione europea ha reputato giusto inviare una delegazione per far visita al presidente e contrattare il nuovo accordo di sangue anti-migrazione.

La politica estera che i nostri leader conducono alle nostre spalle è un fertilizzante potente per la propaganda jihadista, una verità sulla quale è bene riflettere.

Ma il mondo (occidentale) è soddisfatto di avere al suo portone un guardiano feroce e spietato. «17 giornalisti arrestati sui 21 accusati di far parte della "rete" di Gulen. Erdogan ora punta la sua macchina repressiva contro i kurdi: uccisi 35 esponenti del Pkk. I media governativi: operazione dell’esercito dopo un tentativo di assalto a una base militare».

Il manifesto, 31 luglio 2016

Secondo fonti militari turche almeno 35 persone appartenenti al Pkk sarebbero state uccise da un raid aereo, dopo un tentativo di attacco ad una base nella provincia sudorientale di Hakkari, al confine con l’Iraq. Poche ore dopo, altri ribelli curdi hanno tentato di assaltare una base militare nella stessa zona. Negli scontri che ne sono conseguiti, sarebbero rimasti feriti almeno 25 soldati.

Tornano dunque gli scontri nel Kurdistan dopo gli eventi che hanno portato al tentato golpe e alla risposta da parte di Erdogan. La Turchia, paese Nato, di comune accordo con gli Usa, ha messo da tempo il Pkk tra le «organizzazioni terroristiche» e benché un anno fa sia stato raggiungo un cessate il fuoco, da tempo nelle regioni sud orientali del paese si è tornati a sparare. Il clima nel paese resta di massima tensione. Ieri un tribunale di Istanbul ha convalidato l’arresto di 17 dei 21 giornalisti turchi fermati dopo che lunedì era stato diramato un mandato di cattura per 42 reporter sospettati di far parte di quello che diventata la giustificazione di tutto da parte di Erdogan, ovvero di appartenere in qualche modo alla «rete» di Fethullah Gulen, accusato da Ankara del fallito golpe.

Le immagini dei reporter in manette, in marcia sotto gli occhi vigili dei poliziotti hanno fatto il giro del mondo. Gli altri 21 per cui è stato chiesto il fermo risultano ancora ricercati. Tra gli arrestati, con l’accusa di «far parte dell’organizzazione terroristica» di Gulen, c’è anche la reporter ed ex deputata Nazli Ilicak, 72 anni. È stato invece rilasciato l’ex responsabile dei contenuti digitali di Hurriyet, Bulent Mumay. E proprio Nazli Ilicak, veterana del mondo giornalistico nazionale e già «firma» riconosciuta e prestigiosa di quotidiani ed emittenti televisive, avrebbe dichiarato di non avere alcun rapporto con i seguaci di Fethullah Gulen; una presa di distanza che non le ha evitato il carcere.

A proposito di arresti: ieri Ankara ha deciso il rilascio di 758 delle 989 reclute militari arrestate in relazione al tentativo di golpe. E per capire che aria tiri nel paese bastino le parole del vice premier – Numan Kurtulmus – secondo il quale, membri dell’organizzazione di Gulen si anniderebbero anche all’interno dell’Akp il partito del presidente.

Un segnale della paranoia e della volontà di fare piazza pulita una volta per tutte da parte del «Sultano atlantico»: sull’eventualità che alcuni gulenisti possano essersi infiltrati nel partito, il vice primo ministro – che a sua volta fa parte dell’Akp – ha dichiarato in un’intervista al quotidiano Hurriyet che «è possibile perché per molti anni ci sono state persone che appartenevano a questa organizzazione e che erano nell’establishment dell’Akp».

«Purtroppo – ha aggiunto – sono stati tollerati. Hanno avuto anche dei ministri». Kurtulmus ha infine annunciato che i gulenisti saranno rimossi dall’Akp come lo sono stati dalle alte sfere dello stato, dalla magistratura all’esercito. Su questo argomento non si è espresso Erdogan, che ieri si è dedicato invece alle critiche che arrivano dal mondo occidentale. L’Unione europea e gli Usa – ha detto il presidente – non devono dare consigli alla Turchia, bensì «occuparsi degli affari loro».

Erdogan ha così commentato con i giornalisti ad Ankara i timori espressi dall’Occidente per le epurazioni che hanno seguito il fallito golpe militare del 15 luglio.

Ieri il ministro dell’interno turco, Efkan Ala, ha annunciato che sono state arrestate 18.044 persone dal fallito colpo di Stato e che per 9.677 di loro è stata confermata la misura del carcere. «Alcune persone ci danno consigli. Dicono che sono preoccupate. Fatevi gli affari vostri! Guardate le vostre azioni», ha affermato Erdogan, citato dai media locali. «Non una singola persona ci ha fatto le condoglianze e poi dicono che Erdogan è così arrabbiato». Il presidente ha inoltre annunciato di aver ritirato le denunce contro «chi mi ha insultato».

Oh com'è sbiadito il rosso dell'Emilia-RomagnaOrmai anche in questa regione, come in tutt'Italia (e in Europa) il colore dominante della "sinistra" vira dal rosso al rosa, dal rosa al bianco e, per finire, al grigio sporco dell'altra sponda.

La Repubblica, 31 luglio 2016

I sindaci Pd dell’Emilia-Romagna alzano la voce contro il governo Renzi sul fronte accoglienza. «I migranti in arrivo sono in crescita, i posti ormai esauriti e la situazione rischia di diventare ingestibile» dicono in coro i primi cittadini, da Modena a Reggio Emilia a Ravenna.

Il fronte dei democratici è compatto e per la prima volta esprime il malessere degli amministratori in una regione, l’Emilia-Romagna “rossa”, da mesi in prima fila nel gestire gli arrivi dei richiedenti asilo ma ormai a corto di mezzi e posti davanti all’ennesima emergenza estiva. I sindaci rivendicano di aver fatto più dei loro colleghi del Nord e ora si ribellano. Il modenese Gian Carlo Muzzarelli è il capofila. Ha preso carta e penna e ha scritto al ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Occorre garantire un equilibrio a livello nazionale e regionale delle quote di assegnazione che tenga conto delle realtà, come la nostra, che hanno già fatto ampiamente la propria parte e che sono arrivate al limite delle capacità di accoglienza». Non si tratta di uno stop («non intendiamo sottrarci alle nostre responsabilità » premettono i sindaci dem), ma il messaggio che parte dalla roccaforte emiliana è chiaro: «L’assegnazione di profughi nelle diverse realtà non sembra gestita con criteri distributivi all’insegna dell’equilibrio». Nel Modenese, ad esempio, sono quasi 1.100 i profughi ospitati in questo momento. E Muzzarelli denuncia «difficoltà crescenti in termini di gestione e tenuta del tessuto sociale».

A sentire i sindaci, c’è chi non fa fino in fondo il proprio dovere per coprire le quote assegnate dalle prefetture. I conflitti, ora sotterranei ma pronti a esplodere, sono tra gli stessi enti locali: «Sui posti siamo ormai vicini al limite, serve una più equa distribuzione dei flussi» incalza il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, che mette nel mirino gli amministratori delle altre Regioni: «L’Emilia-Romagna ha dato più di quanto richiesto. Non so se tutti abbiano fatto lo stesso. Noi non possiamo accogliere all’infinito».

Anche a Bologna, dove c’è il centro d’accoglienza regionale che smista i profughi nelle diverse province, la giunta è sulle spine: «Si devono introdurre dei limiti per garantire una buona accoglienza, altrimenti il sistema delle città non regge». In questi due anni, da quando è scoppiata l’emergenza, la struttura bolognese ha accolto oltre 16mila migranti. I primi cittadini tirano in ballo prefetture, governatori e, soprattutto, Palazzo Chigi. È il caso del nuovo sindaco di Ravenna, Michele De Pascale: «Da parte del governo Renzi ci aspettiamo una soluzione forte, perché non sappiamo se riusciremo a gestire l’accoglienza con la stessa efficacia avuta fino a oggi ».

La vicepresidente dell’Emilia Romagna, la renziana Elisabetta Gualmini, dice di «comprendere il dolore dei sindaci» ma chiede di evitare conflitti nei confronti del governo: «La contrapposizione con Roma — avverte — non porta da nessuna parte. Dobbiamo però risolvere il ruolo ambiguo delle Regioni, perché noi non abbiamo competenze nell’assegnazione delle richieste di asilo che sono in mano alle prefetture. Questo ci lega le mani e, quando ci sono i picchi, la situazione è ingestibile».

«e». Corriere della Sera, 31 luglio 2016 (c.m.c.)

Di ritorno, dopo una lunga assenza, nel mio vecchio quartiere di Londra, passando dalle parti della locale scuola elementare, ho notato un cambiamento. Molti dei miei amici una volta studiavano qui, e di recente — quando una malattia in famiglia ci ha costretto a ritornare in Inghilterra per un anno — vi ho iscritto mia figlia.

Un bell’edificio vittoriano in mattoni rossi, per molto tempo oggetto di «misure speciali», un giudizio dell’ispettorato scolastico chiamato Ofsted, il livello più basso attribuibile a una scuola statale. Con una valutazione simile, molti genitori ovviamente si spaventerebbero e iscriverebbero i loro figli altrove; altri, vedendo con i loro occhi ciò che Ofsted — che si affida principalmente ai dati — non può umanamente vedere, dubiterebbero della ragionevolezza di Ofsted, e resterebbero lì. Altri però potrebbero non saper leggere in inglese, o non avere a casa una connessione ad Internet, o non aver mai sentito parlare di Ofsted, o ancor meno considerato di controllare ossessivamente il suo sito.

La mia storia

Nel mio caso, avevo il vantaggio della storia locale: per anni, mio fratello ha insegnato qui, in un doposcuola per bambini immigrati, e sapevo perfettamente bene quanto la scuola fosse, come è sempre stata, valida e ospitale nei confronti della sua popolazione eterogenea, in molti casi appena arrivata nel Paese. Ora, a distanza di un anno, Ofsted l’ha giudicata ufficialmente «Buona» e, conoscendo i residenti della zona, ciò significa che più genitori borghesi, solitamente bianchi, correranno quello che considerano un rischio, si trasferiranno nei dintorni della scuola, e manderanno lì i loro bambini.

Se questo processo si sviluppa come a New York, la borghesia bianca aumenterà, assecondando la trasformazione da quartiere popolare a residenziale, e i confini del «bacino di utenza» scolastica si restringeranno, fino a renderlo, nel corso degli anni, quasi totalmente omogeneo, con tratti di diversità; a quel punto, l’ente di regolamentazione gli attribuirà finalmente la sua valutazione più alta. Ma nel vecchio quartiere non è ancora successo niente di tutto ciò, né, forse, succederà mai — data la sua lunga e orgogliosa storia di qualunque forma concepibile di diversità — e comunque, questo non era il cambiamento che avevo notato passando di lì.

All’epoca, il mio particolare tipo di paranoia liberale era focalizzato su altro: ho notato il recinto. Perché questa scuola vittoriana, a cui per cento anni sono bastate delle ringhiere di ghisa per delimitare i suoi confini, ora aveva aggiunto tra le sbarre quelle che sembravano delle alte stecche di bambù, unitamente a due metri di piante fatte arrampicare sulle assi, impedendo la vista del cortile, e quindi dei bambini che giocano, dalla strada. Sono andata a casa e ho mandato una email di fuoco a un paio di rappresentanti dei genitori:

«Sono passata nei pressi della scuola per la prima volta da quando sono tornata a casa (ieri) e ho notato il velo di legno — per non dire altro — eretto intorno alla scuola. Mi ha rattristato. Ho abitato per 40 anni in questa zona. Ho visto erigere un muro fuori dalla scuola ebraica dieci anni fa, e qualche anno fa, intorno a quella musulmana. Ma non avrei mai pensato di trovarne uno fuori... Sono molto curiosa di sapere come si è arrivati a questo, chi l’ha richiesto, come mai è stato deciso, se i genitori ne sono contenti, e quale è — ufficialmente — il suo scopo. «Sicurezza»? «Privacy»? O qualcos’altro?

Una email feroce, piena di paranoia liberale. La risposta che ho ricevuto era invece ragionevole ed educata. «Privacy e inquinamento» erano le ragioni addotte, in particolare il problema dell’inquinamento, «una cosa assai rilevante al momento», che la scuola era stata chiamata ad affrontare su richiesta del consiglio locale. Inoltre il cortile è pieno di cemento, la vegetazione ingentilisce l’area, e francamente, i rappresentanti dei genitori non avevano immaginato che il nuovo allestimento sarebbe sembrato in qualche modo difensivo o strano ai passanti. Rileggo la mia email e mi vergogno di averla inviata. Quale stato d’animo mi aveva portato a interpretare così negativamente un semplice ritocco estetico?

Realtà e simboli

Sono abituata al cambiamento: da queste parti è la regola. Il vecchio ginnasio in cima alla collina è diventato una delle più grandi scuole musulmane d’Europa; la vecchia sinagoga è diventata una moschea; la vecchia chiesa ora è un palazzo di case private. Le ondate migratorie e di trasformazione residenziale attraversano queste strade come bus. Ma suppongo che questa scuola locale, nella mia mente, fosse una specie di simbolo. E se c’è qualcosa che negli ultimi tempi abbiamo imparato, è che, noi britannici, finiamo per comportarci in modo strano quando lasciamo che le realtà materiali si trasformino in simboli.

Valutavo questa piccola scuola in modo speciale, simbolico, come un’istituzione variegata in cui i figli delle famiglie relativamente ricche e i poveri, i figli di musulmani, ebrei, indù, sikh, protestanti, cattolici, atei, marxisti, e quel tipo di persone che fanno del Pilates una religione, seguono le lezioni tutti insieme nelle stesse aule, giocano insieme nello stesso cortile, discutono insieme della loro fede — o della sua mancanza — mentre passo e spesso guardo dentro, trovando così una vitale conferma simbolica che il mondo della mia infanzia non è ancora scomparso del tutto.

In questi giorni, la scuola ebraica assomiglia a Fort Knox. La scuola musulmana segue a poca distanza. Anche la nostra piccola scuola era destinata a diventare un luogo circondato da un recinto, separato, privato, paranoide, preoccupato per la sicurezza, che dà le spalle alla comunità più estesa?

Il referendum

Due giorni dopo, i britannici hanno votato per la Brexit. Mi trovavo nell’Irlanda del Nord, dai miei suoceri, dei protestanti nordirlandesi moderatamente conservatori con i quali mi sono trovata d’accordo, per la prima volta nella nostra storia, in merito a una questione politica. Lo choc che avevo provato di fronte alla staccionata ora lo provavo davanti alla loro enorme televisione, mentre guardavamo insieme l’Inghilterra isolarsi dal resto dell’Europa dietro a uno steccato, senza un pensiero per le conseguenze per i suoi cugini scozzesi e irlandesi a Nord e Ovest del Paese.

Da allora, è stato scritto molto sul comportamento spaventosamente irresponsabile sia di David Cameron che di Boris Johnson, ma non penso che mi sarei concentrata completamente su Boris e Dave se mi fossi svegliata nel mio letto, a Londra. No, in quel caso le mie riflessioni sarebbero state essenzialmente di tipo ermeneutico. Cosa significa questo voto? Cosa riguardava? L’immigrazione? Le disuguaglianze? La storica xenofobia? La sovranità? La burocrazia Ue? La rivoluzione anti-neoliberale? La lotta di classe?

Ma nell’Irlanda del Nord era chiaro che questa sicuramente non c’entrava, neanche lontanamente, e ciò mi portò a riflettere sullo straordinario atto di solipsismo che aveva permesso a questo piccolo Paese, a lungo brutalizzato, di diventare il danno collaterale di una frattura interna al Partito conservatore. E la Scozia! Difficile da credere. Che due uomini presumibilmente istruiti, che si suppone avessero letto la storia della Gran Bretagna, abbiano potuto, con tale mancanza di scrupoli, mettere a repentaglio un’unione sudata, vecchia di 300 anni — per soddisfare le loro ambizioni personali — quella mattina, sembrava, a me, un crimine più grave della rottura del decennale patto europeo che l’aveva causato.

I «piromani»

«Conservatore» non è più il termine giusto per entrambi: quella parola quanto meno implica la cura e la tutela di un’eredità. «Piromane» sembra essere un termine più preciso. Intanto, Michael Gove e Nigel Farage sono i veri ideologi di destra, con una chiara agenda, per cui lavorano da molti anni. Il primo aveva la sua idea del cavallo di Troia della «sovranità», il cui simbolo vuoto avrebbe presumibilmente partorito una finanza libera e deregolamentata.

Il secondo, dimessosi il 4 luglio, sembrava essere nella morsa di un’autentica ossessione razziale, combinata alla determinazione di isolare con un recinto la Gran Bretagna dal pensiero comune europeo, non solo per questione di libertà di movimento ma anche per una serie di questioni: dal cambiamento climatico, al controllo delle armi, al rimpatrio degli immigrati.

Un referendum esalta gli aspetti peggiori di un sistema già imperfetto — la democrazia — convogliando in un cancello stretto una quantità impressionante di problemi. Ha le sembianze dell’intensità — Democrazia definitiva! Pollice in su o in giù! — ma in pratica banalizza la questione in modo fuorviante. Anche molti di quelli che hanno votato «Leave», alla fine, hanno sentito che il loro voto non esprimeva esattamente i loro sentimenti. Avevano un’ampia varietà di ragioni per il loro voto, e gran parte del fronte «Remain» era similmente scisso.

Porre la questione in termini binari aveva quasi comicamente rimosso parte della riflessione. Un amico la cui madre vive ancora nel circondario descrive una conversazione, al di là del recinto, tra sua madre e una persona di sinistra del Nord di Londra, che spiegava alla madre del mio amico che lei stessa aveva votato «Leave» per «cacciare quel maledetto ministro della Sanità!». Ah, anch’io, come molti cittadini di questa grande nazione, sogno di liberarmi di Jeremy Hunt, ma un referendum risulta essere un martello molto inefficace per mille chiodi storti.

«Cosa ci hanno fatto?»

Il primo istinto di molti elettori di sinistra pro «Remain» era pensare che fosse solo una questione di immigrati. Quando sono emersi i numeri ed è stata resa nota l’analisi dettagliata delle classi ed età, si è delineata più chiaramente una rivoluzione operaia populista, sebbene fosse una di quelle che rendono sempre perplessi i liberali borghesi, inclini a essere sia politicamente ingenui che sentimentali nei confronti della classe operaia. Per tutto il giorno, ho chiamato a casa e inviato email, cercando di elaborare , come gran parte di Londra — o quanto meno la parte che conosco — il nostro grande senso di choc. «Cosa hanno fatto?» ci siamo detti, a volte riferendoci ai leader, che sentivamo dovessero sapere quello che facevano, e altre volte alla gente che, deducevamo, non lo sapeva.

Ora sono tentata di pensare che fosse il contrario. Fare qualcosa, qualunque cosa, era vagamente lo scopo. La nota caratteristica del neoliberismo è che ti dà l’impressione che non puoi fare niente per cambiarlo, ma questo voto offriva il raro premio di causare una rottura caotica in un sistema che, usualmente, asfalta tutto quello che trova sulla sua strada. Ma anche questa interpretazione più ottimistica di sinistra — che si trattava di una reazione violenta, più o meno ponderata, una reazione all’austerità e al precedente crollo economico neoliberista — non può negare il razzismo casuale che sembra essere stato sguinzagliato parallelamente, sia dalla campagna che dallo stesso voto.

I racconti di mia madre

Ai molti aneddoti, ne aggiungerò due riportati da mia madre, di origini giamaicane. Una settimana prima delle votazioni, uno skinhead è corso contro di lei a Willesden, gridandole in faccia «Über Alles Deutschland!» (La Germania sopra tutto, ndt ), come una reminiscenza della fine degli anni Settanta. Il giorno dopo il voto, una signora, che faceva acquisti di biancheria e asciugamani in Kilburn High Road, si fermò davanti a mia madre e alla mezza dozzina di altre persone originarie di altri Paesi, annunciando a nessuna in particolare: «Allora, adesso dovrete andarvene tutti a casa!”.

Cosa hai fatto, Boris? Cosa hai fatto, Dave? Eppure, in questo racconto dei nostri leader solipsistici, che hanno innescato la bomba senza pensarci troppo, c’è una storia meno gradevole del nostro solipsismo londra-centrico, che mi pare altrettanto reale, e questa ha creato un diverso tipo di velo, forse altrettanto difficile da penetrare come la cieca ambizione personale di un uomo come Boris. Il trauma profondo, che — come tanti altri londinesi — ho avvertito dopo l’esito del voto, suggerisce come minimo che dobbiamo aver vissuto dietro a una sorta di velo, incapaci di vedere il nostro Paese per quello che è diventato.

La notte prima di partire per l’Irlanda del Nord, ho cenato con dei vecchi amici, intellettuali del Nord di Londra, in effetti esattamente il genere di persone a cui il parlamentare laburista Andy Burnham si riferiva simbolicamente, quando dichiarò che il Labour Party aveva perso terreno rispetto all’Ukip perché era «troppo Hampstead e non abbastanza Hull», sebbene, certo, in realtà fossimo stati da tempo tutti esclusi da Hampstead dai banchieri e dagli oligarchi russi. Stavamo considerando la Brexit. Probabilmente i commensali di ogni cena nel Nord di Londra facevano altrettanto. Ma è emerso che non potevamo averla considerata molto bene perché nessuno di noi, neanche per un momento, credeva che potesse accadere. Era così ovviamente sbagliata, e noi avevamo così ovviamente ragione. Come poteva succedere?

Risolta questa questione, siamo passati tutti a deprecare la strana tendenza delle ultime generazioni di sinistra a censurare e zittire i discorsi e le opinioni che considerano in qualche modo sbagliate: Niente propaganda, spazi sicuri, e tutto il resto. Avevamo tutti ragione anche su queste cose. Ma poi, dall’angolo, su un divano, la più intelligente di noi, mentre allattava un neonato, aspettò che finissimo di sproloquiare per aggiungere: «Beh, hanno preso quell’abitudine da noi. Noi volevamo essere visti dalla parte della ragione. Dalla parte giusta di una questione. Ancor più che fare qualunque cosa. Avere ragione era sempre la cosa più importante» .

Nei giorni successivi all’esito delle votazioni, ho pensato molto a questa analisi. Ho continuato a leggere i pezzi di fieri londinesi che parlavano orgogliosamente della loro città multiculturale rivolta all’esterno, così diversa da quelle località del Nord, provinciali e xenofobe. Suonava corretto, e volevo che fosse vero, ma l’evidenza che appariva ai miei occhi offriva una contro-narrazione. Perché la gente di questa città che vive veramente in una dimensione multiculturale è quella i cui figli sono educati in ambienti misti, o che vivono in ambienti autenticamente eterogenei, in case popolari o in un pugno di quartieri storicamente variegati, e non ce ne sono più tanti quanti ci piace credere.

L’equivoco multiculturale

Attualmente, gli aspetti della vita di molti londinesi che si presumono essere multiculturali e trasversali a tutte le classi sono in realtà rappresentati dal loro personale di servizio — tate, addetti alle pulizie —, quelli che versano i loro caffè e guidano i loro taxi, o ancora quei pochi, onnipresenti principi nigeriani che trovi nelle scuole private. La verità dolorosa è che gli steccati sono eretti dappertutto a Londra. Intorno alle aree scolastiche, ai quartieri, intorno alle vite. Una utile conseguenza della Brexit è di rivelare, alla fine apertamente, una profonda frattura nella società britannica, che ha impiegato trent’anni per prodursi.

I divari tra Nord e Sud, tra le classi sociali, tra i londinesi e tutti gli altri, tra i ricchi e i poveri londinesi, tra i bianchi, gli scuri e i neri sono reali, e devono essere affrontati da tutti noi, non solo da quelli che hanno votato «Leave». Tra tutte le caratterizzazioni isteriche di quei sostenitori del «Leave» — non ultime le mie stesse — all’indomani del voto, mi sono fermata a pensare a una giovane che avevo notato nel cortile l’anno in cui mia figlia frequentava quella scuola oggetto di misure speciali. Era una madre, come il resto di noi, ma almeno 15 anni più giovane. Dopo aver camminato dietro di lei verso casa un po’ di volte, ho immaginato che vivesse nello stesso quartiere di case popolari in cui sono cresciuta. La ragione per cui l’ho notata era perché mia figlia si era profondamente innamorata di suo figlio. Il prossimo passo naturale era un appuntamento per giocare in casa.

Ma quel passo io non l’ho mai fatto, e lei neppure. Non sapevo come far breccia in quella corazza di paura e diffidenza che sembrava provare verso di me, non perché fossi nera — l’avevo vista parlare allegramente con altre mamme nere — ma perché avevo il marchio della borghesia. Mi aveva visto aprire il portone nero tirato a lucido della casa di fronte alla sua palazzina popolare, come io avevo visto lei entrare ogni giorno nella tromba delle scale di quello stabile.

Ripensai a certi episodi che avevano segnato la mia infanzia, quando le cose erano al contrario. Potevo invitare la ragazza con la villa sul parco nel nostro misero appartamento popolare? E più avanti, quando ci eravamo trasferiti in un decorosissimo appartamento dal lato giusto di Willesden, potevo andare a trovare la mia amica in uno sgarrupato dal lato sbagliato di Kilburn?

La risposta era, di solito, affermativa. Non senza tensione, non senza qualche mortificante episodio da commedia sociale, o qualche fugace scena di vita domestica al confine con la tragedia — ma era comunque affermativa. Allora, eravamo tutti ancora disposti a correre il «rischio», se questa è la parola giusta per descrivere l’ingresso nelle vite altrui, in modo concreto e non solo simbolico. Ma in questa nuova Inghilterra sembrava, almeno per me, impossibile. E credo anche per lei. Il divario tra noi era diventato troppo ampio.

La casa vittoriana alta e stretta che ho comprato una quindicina d’anni fa, pur essendo esattamente lo stesso tipo di abitazione in cui vivevano in miei amici d’infanzia della borghesia, oggi vale una cifra scandalosa, e temevo potesse pensare che io avessi sborsato una cifra scandalosa per accaparrarmela. La distanza tra il suo appartamento e casa mia — pur misurando in realtà solo duecento metri — è simbolicamente più estesa che mai. Il nostro potenziale appuntamento per far giocare i bambini aleggia da qualche parte su questo abisso, e non si è mai concretizzato, perché non ho mai osato chiederlo.

Cocktail e diseguaglianze

Le diseguaglianze estreme frammentano le comunità, e dopo un po’ le crepe diventano così ampie che l’intero edificio viene giù. In questo processo tutti ci rimettono da tempo, ma probabilmente nessuno quanto i bianchi della classe lavoratrice ai quali non è rimasto davvero nulla, nemmeno la presunta levatura morale che deriva da un trauma conclamato o dallo status riconosciuto di vittima.

La sinistra si vergogna profondamente di loro. La destra li considera solo un utile strumento per le proprie ambizioni personali. La scomoda rivoluzione della classe lavoratrice alla quale stiamo oggi assistendo è stata tacciata di stupidità — io stessa l’ho maledetta il giorno in cui è scoppiata — ma più la si analizza, più ci si rende conto che da un certo punto di vista ha un che di geniale, perché ha saputo intuire le debolezze del nemico e sfruttarle in modo efficace. Alla sinistra borghese piace così tanto avere ragione! E una fetta così consistente della reietta classe lavoratrice ha scelto in modo così flagrante e spudorato di sbagliare.

C’è tutta una tradizione, in Gran Bretagna, di ridicolizzazione dei poveri, colpevoli di «tagliarsi le gambe da soli», di «votare contro i propri interessi». Ma il ceto medio e medio-alto neoliberale è stato non meno autolesionista, vivendo nelle sue prigioni dorate di Londra. Se vi sembra un’esagerazione, fate un salto a Notting Hill e date uno sguardo alle auto della vigilanza privata, pagate dai residenti del quartiere, che pattugliano le strade su e giù lentamente, davanti a tutte quelle dimore da 20 milioni di sterline, magari nel timore degli abitanti degli edifici popolari ancora abbarbicati lì, dall’alto lato di Portobello Road. Oppure passate al Savoy e date un’occhiata alla lista dei cockail vintage, dove il drink più economico viene offerto a 100 sterline (il più caro è qualcosa chiamato Sazerac — che afferma di essere il più costoso cocktail al mondo — e viene 5 mila).

Tempi strani.

Naturalmente quella lista dei cocktail è solo un altro stupido simbolo, ma lo è del suo tempo e luogo. A Londra si assiste da tempo a una folle ostentazione del denaro, e noi che siamo qui a guardare fatichiamo a cogliere, in certi simboli, la minima traccia di una vita piacevole, armoniosa o addirittura felice (una persona felice ha bisogno di farsi vedere mentre ordina un cocktail da 5 mila sterline?), anche se chi è così ricco può almeno agevolmente illudersi di essere felice, ricorrendo a quella che i marxisti di una volta definivano «falsa coscienza». Quello stereotipo antiquato non è più adatto a descrivere i britannici che vedono negati i loro diritti economici e sociali: sono persone che faticano ad andare avanti, profondamente infelici, e lo sanno bene.

Destra e sinistra

Davvero credo che, lasciando da parte quelli di destra ideologicamente convinti, come pure gli idealisti di sinistra che si oppongono alla Ue definendola uno strumento del capitalismo globale, la maggioranza dei cittadini che hanno votato «Leave» sia stata spinta dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla delusione, aiutata in questo da anni di calcolata manipolazione da parte della stampa e dei politici di certi bassi sentimenti e istinti di base. Per quanto sia doloroso scrivere queste cose, se Google ha registrato nelle ore successive al voto un alto numero di cittadini britannici intenti a chiedere al motore di ricerca «Cos’è la Ue?», è assai difficile negare che il 23 giugno scorso una percentuale significativa della nostra popolazione abbia vergognosamente trascurato quello che è un suo dovere democratico.

La gente merita di essere ascoltata, a prescindere da come vota, ma l’ignoranza alle urne elettorali non è un successo da festeggiare o da difendere in mala fede. E, al di là dell’ignoranza, è semplicemente sbagliato prendere un’iniziativa seria senza aver seriamente considerato le sue conseguenze per gli altri cittadini, e in questo caso per intere nazioni sovrane a Nord e a Ovest del proprio territorio, per non parlare del resto d’Europa. Detto questo, non trovo che le persone che hanno votato «Leave» siano in alcun modo eccezionali nell’avere bassi motivi.

«Noi» e «loro»

Mentre condanniamo a gran voce — e giustamente — gli scellerati atteggiamenti razziali che hanno portato milioni di persone a chiedere di tutelare «noi» e mandar via «loro», per liberare posti di lavoro, case popolari, ospedali, scuole, insomma l’intero Paese, dovremmo anche ripercorrere gli ultimi trent’anni di storia e chiederci che tipo di atteggiamento possa aver consentito a un’altra categoria di persone di manovrare in sordina, da dietro le quinte, per far sì che «noi» e «loro» non potessimo mai incontrarci, se non in maniera simbolica.

La Londra benestante, sia conservatrice che laburista, è sempre stata capace di scegliere come impostare le sue relazioni multiculturali e interclassiste, dando lezioni al resto del Paese, tacciato di chiusura mentale, e al tempo stesso barricandosi dietro i suoi discreti vantaggi. Ci capita molto spesso di camminare accanto a «loro» per strada, di salire sui loro taxi e di mangiare il cibo che preparano nei loro ristoranti etnici, ma la verità è che il più delle volte non frequentano le nostre scuole, non fanno parte dei nostri circoli sociali, e molto raramente entrano nelle nostre case — a meno che non vengano per lavorare nelle nostre cucine sempre nuove di zecca.

È nel resto della Gran Bretagna che la gente vive effettivamente gomito a gomito con gli immigrati di recente ingresso, e sperimenta sulla propria pelle la concorrenza economica dei nuovi arrivati. Sono loro a dover lottare per le risorse sotto un governo di austerità che rende fin troppo facile dare la colpa della mancanza di posti letto in ospedale alla famiglia di immigrati della porta accanto, o a una subdola burocrazia al di là del Canale che — gli stupidi demagoghi alla tv non si stancano mai di ripeterlo — prosciuga i fondi del servizio sanitario nazionale. In questo clima di ipocrisia e palese inganno, i poveri della classe lavoratrice avrebbero dovuto dimostrare di essere «persone sagge», quando intorno a loro dilagano opportunismo e corruzione? Quando tutti erigono steccati, starsene esposti ai quattro venti non è da sciocchi?

In questo momento la macchina dell’informazione corre così veloce che rischia di perdere qualche pezzo, e si fa un gran parlare di un secondo referendum, che naturalmente non farebbe che confermare i sospetti striscianti di molti di quei cittadini discriminati, per cui siamo solo noi, i «Remainer» benestanti e benpensanti, a prendere le vere decisioni che contano. No: questo ci è toccato in sorte, e dobbiamo farcene una ragione. Ma affermare che ognuno ha fatto la sua parte non significa dimenticare chi ha svolto il ruolo centrale di direttore di questo vergognoso concerto d’addio.

Cameron e Johnson sono già caduti e/o sono stati fatti fuori, e Gove li ha seguiti, ma un personaggio fatalmente inutile come Jeremy Corbyn — nonostante le decine di coltellate alle spalle — si rifiuta di cedere. Se è vero che non solo si è dimostrato un incapace nella campagna per il «Remain», ma si è anche impegnato in un «deliberato sabotaggio» della stessa, come ha sostenuto Phil Wilson, deputato e coordinatore del gruppo parlamentare «Labour in for Britain», allora Corbyn ha tradito in pieno il voto dei giovani che solo poco tempo prima lo avevano portato al potere. Deve andarsene.

Quando una scuola inglese viene sottoposta a «misure speciali», le mamme ottimiste della borghesia — categoria nella quale mi inserisco anch’io — sussurrano prendendo il caffè del mattino: «Bene, le misure speciali sono una gran bella cosa, perché adesso dovranno fare qualcosa».

La Gran Bretagna oggi è sottoposta a misure speciali — la crisi che serpeggia da sempre è stata messa allo scoperto — e invece di stendere un altro velo sul caos potremmo tentare di ripartire da qui. Il primo punto all’ordine del giorno dovrebbe essere la sostituzione del «capo» — come in ogni scuola disastrata — per poi prepararsi con quel che rimane della sinistra per una nuova battaglia. I diritti e le tutele garantiti dall’Europa al popolo britannico, anche se in modo imperfetto, non devono ora essere sostituiti dall’insensata visione alla Farage della sovranità britannica, in cui un San Giorgio mutilato, con gli arti mozzati, sguaina la spada e si avvia claudicante alla battaglia contro il drago-Ue per rinegoziare, da una posizione molto più debole, tutte le condizioni costate decenni di trattative.

Le scarpe di Nigel

Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo, Farage era stato avvistato con un sorriso trionfante e un paio di scarpe con il disegno dell’Union Jack a una festa privata, assieme a Rupert Murdoch, Alexander Lebedev (proprietario dell’ Evening Standard e dell’ Independent ) e Liam Fox (allora in corsa per la leadership del partito conservatore), intento a discutere di questioni di rilevanza pubblica a porte chiuse. Quando ho finito di scriverlo, Farage aveva rassegnato le dimissioni, dichiarando: «Voglio indietro la mia vita».

In Gran Bretagna i Nigel vanno e vengono, ma i Rupert sono per sempre. La mia vita e quella dei miei connazionali britannici sono state sempre condizionate, almeno in parte, da una classe di miliardari non eletti e in servizio permanente che possiedono giornali e gran parte delle emittenti tv, attraverso i quali figure assurde come Farage vengono pompate facilmente, spostando gli equilibri elettorali e influenzando le politiche.

Un’altra utilissima lezione: il patto postbellico tra governo e popolo britannico non è blindato, e può essere disfatto con un’iniziativa collettiva o calpestato da una manciata di personaggi in mala fede. Di conseguenza, i princìpi della civiltà liberale su cui sono stati fondati il sistema sanitario universale, l’istruzione statale e l’edilizia pubblica a partire dalle macerie della guerra richiedono oggi un partito disposto a riformulare quegli stessi princìpi nella nuova era del capitalismo globale; resta però da vedere se tale partito porterà ancora il nome «Laburista».

Gli immigrati di recente arrivo hanno scelto questo Paese proprio in virtù del suo patrimonio — l’edilizia, l’istruzione, la sanità —, e non c’è dubbio che alcuni di loro siano venuti con l’unico scopo di sfruttarlo. La maggior parte, però, è venuta per partecipare: iscrive i figli nelle nostre scuole pubbliche, paga le tasse al Fisco britannico, cerca di trovare una sua strada. Non è certo un reato, né un peccato, cercare una vita migliore altrove, o fuggire da Paesi dilaniati da guerre e conflitti — in molti dei quali c’è anche il nostro zampino. Il dubbio, ora, è se noi britannici sappiamo ancora cosa significhi una vita migliore, quali siano le condizioni necessarie e come realizzarle.

Una cena a Parigi

Qualche giorno dopo il voto sono andata in Francia per tenere una serie di lezioni ai miei studenti della New York University, a Parigi per un programma estivo; un’esperienza che presto non sarà più così facile ripetere, temo. Appena scesa dal treno, sono andata a cena in un ristorante con uno dei miei colleghi, lo scrittore di origini bosniache Aleksandar Hemon, ho ordinato da bere e ho sentenziato in tono melodrammatico che la Brexit era «un totale disastro».

Gli scrittori sono facili al melodramma. Hemon ha sospirato e con un sorriso triste ha detto: «No: solo “un disastro”. La guerra è il disastro totale». Aver vissuto la sanguinosa implosione dello Stato jugoslavo dà a un uomo il senso delle proporzioni. Una guerra europea su quella scala è qualcosa che la Gran Bretagna ha evitato di sperimentare intimamente ormai per più di mezzo secolo, e per difendersi dalla quale è stata costituita la Ue (tra le altre cose). Sta a noi adesso decidere se proseguire o meno lungo la via del «disastro».

«». Corriere della Sera, 31 luglio 2016 (c.m.c.)

Berlino Est, 1953, operai in rivolta repressi manu militari. «La classe operaia ha tradito la fiducia del partito, ora dovrà lavorare duramente per riguadagnarla», dichiara il segretario dell’Unione degli scrittori. Bertolt Brecht, sarcastico, parafrasa così: «Il comitato centrale ha deciso. Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».

Storie di ieri, anzi, dell’altro ieri. Ma, per paradosso, una loro attualità ce l’hanno. Di fronte al dilagare del populismo, della xenofobia, delle spinte a chiudersi a riccio in difesa di quel che resta delle identità tradizionali, vere o presunte, le nostre élite, che pure non sono sorrette né da un’ideologia potente né dall’Armata rossa, non si comportano troppo diversamente dagli uomini di ferro della Repubblica democratica tedesca.

Condannano, come è giusto che sia. E però, quasi fossero classi dirigenti per diritto divino, rifiutano di interrogarsi su se stesse, sembrano non chiedersi nemmeno se per caso portano qualche responsabilità per questo disastro, provano a navigare a vista. È difficile, certo. Ma, se non si parte di qui, la battaglia, almeno sotto il profilo politico e culturale, è persa in partenza, tanto più adesso, quando le cronache ci danno conto quasi quotidianamente, e in tempo reale, degli orrori perpetrati dal terrorismo diffuso fondamentalista, e chiunque si chiede se il peggio debba ancora arrivare.

Non è una boutade: cominciare a discutere apertamente di noi, e del nostro passato prossimo, sarebbe con ogni probabilità più utile, per affrontare il presente e il futuro, che chiedersi angosciati se sia tornato o no il tempo delle guerre di religione: de te fabula narratur .

È appena il caso di sottolineare un’evidenza comune a tutto l’Occidente, anche se, naturalmente, le cose non vanno dappertutto nello stesso modo, e non mancano i tentativi di invertire la rotta. Il mondo ci è cambiato intorno, e il nemico ci è cresciuto nel cortile di casa (è la globalizzazione, bellezza) senza che, fatte salve le dovute eccezioni, la politica (a differenza delle donne e degli uomini in carne e ossa) se ne rendesse conto o vi facesse troppo caso, anche perché era, e in gran parte è ancora, in tutt’altre faccende affaccendata.

Bruciate rapidamente le illusioni degli anni Novanta del secolo scorso, frutto in gran parte dall’ingenuo entusiasmo con cui venne salutata la caduta dell’Unione Sovietica, una politica sin troppo ridimensionata nei suoi poteri reali e nelle sue ambizioni si è ritrovata clamorosamente sprovvista tanto di un sensorio vigile nei confronti dei mutamenti tellurici della morfologia sociale quanto di una qualsivoglia visione o, per parlare in modo più chiaro, di quel confronto tra diverse culture, tradizioni e idee di società che è, o che ci illudevamo fosse, il sale di ogni democrazia degna di questo nome.

È stata investita contemporaneamente dunque, o si è autoinvestita, da un vistoso deficit di conoscenza, di rappresentanza, di decisione e di leadership: in poche parole, nella sua autoreferenzialità è parsa inutile, prima ancora che lontana e ostile, agli occhi di un numero sempre crescente di cittadini. Per tornare al paradosso del vecchio Brecht, si può anche pensare di venirne a capo abrogando il popolo che, come dicevano gli sgherri di Scarpia nella Tosca cinematografica di Luigi Magni, «è boia, è voltagabbana, oggi ti onora domani te sbrana». Naturalmente è più ragionevole affrontare la questione dal lato opposto, restituendo cioè dignità alla politica: peccato che sia così difficile capire come, e soprattutto con chi, si possa farlo.

A voler essere onesti ce n’è per tutti, anche per quello che una volta si chiamava il mondo dell’informazione e dei suoi abitanti, dal più prestigioso opinion maker (altra espressione ormai desueta) al più giovane dei cronisti. Proprio quando sarebbero stati necessari pensieri e politiche ben diversi, certo, da quelli novecenteschi, ma non meno forti e forse non meno radicali, ci siamo nutriti di pensieri e politiche deboli o, come allegramente suol dirsi, smart . Di più. Molto spesso li abbiamo invocati come gli unici auspicabili e necessari, anche nella convinzione che oltretutto, nell’età di Twitter, fossero gli unici possibili.

Non abbiamo reso un buon servizio né a una politica che aveva e ha bisogno di una rigenerazione profonda né a una società civile, o come si chiama adesso, che non necessita sicuramente di pedagoghi, ma di conoscenze che ne allarghino e ne approfondiscano il punto di vista, sì. Sulla Promenade des Anglais appena riaperta, tanti turisti e tanti nizzardi si sono accalcati per farsi un selfie sul luogo della strage. Forse, anzi, sicuramente una folla solitaria manifesta anche così il suo dolore e la sua vicinanza. Non c’è da scandalizzarsi. Ma da interrogare, e da interrogarsi, sì.

Sintetico elenco delle gravi distorsioni e delle paralizzanti contraddizioni della de-forma costituzionale Renzi-Boschi. Ma il veleno è innanzitutto nell'Italicum.

La Repubblica, 31 luglio 2016

SECONDO la suggestiva proposta della costituzionalista Lorenza Carlassare, l’Italicum costituisce il “perno” della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il suo scopo sarebbe infatti quello di «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi ». Tesi che è confermata, da un lato, dai tempi di approvazione delle due leggi (prima l’Italicum e poi la riforma costituzionale) e, dall’altro, dalla ritrosia di Matteo Renzi ad accettare il suggerimento di giornalisti, imprenditori e banchieri, di assegnare l’abnorme premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista più votata. Se infatti l’Italicum è stato davvero pensato come il perno della riforma costituzionale, assegnare il premio alla coalizione anziché alla lista impedirebbe quella personalizzazione del potere, che costituisce l’obiettivo di Renzi.

È bensì vero che il premio alla coalizione eviterebbe i diffusi timori nei confronti dell’“uomo solo al comando”, ma, a parte il fatto che questa sola modifica non eliminerebbe i vari vizi di legittimità che caratterizzano l’Italicum — su cui la Corte costituzionale è già stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi — , ciò che non viene evidenziato nel dibattito in corso è che il costo del baratto (il Sì alla riforma costituzionale) sarebbe comunque eccessivamente elevato, quand’anche l’Italicum fosse radicalmente modificato.

La riforma costituzionale non solo viola i principi supremi della Costituzione, ma è addirittura confusa e pasticciata, come è testimoniato dai rilievi critici di ben 20 ex giudici costituzionali (10 ex presidenti e 10 ex vicepresidenti!) e dei più autorevoli costituzionalisti, che qui di seguito cercherò di sintetizzare.

Il Senato verrebbe eletto dai consigli regionali e non dal popolo, nonostante l’elettività “diretta” costituisca, per la Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), il fulcro della sovranità popolare. Ciò nondimeno eserciterebbe le funzioni sia legislativa sia di revisione costituzionale. Sarebbe composto da 95 senatori che, nel contempo, dovrebbero svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco — il che renderebbe praticamente impossibile il puntuale adempimento delle funzioni loro assegnate — e da cinque senatori nominati, per altissimi meriti, dal presidente della Repubblica per la stessa durata del capo dello Stato (sic!). Poiché la carica di senatore sarebbe connessa a quella di consigliere regionale o di sindaco, l’identità dei 95 senatori cambierebbe continuamente, una volta scaduti dalla carica di consigliere regionale o di sindaco. Inoltre, il Senato eleggerebbe, da solo, ben due giudici costituzionali, il che introdurrebbe nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa.

Il Senato non avrebbe natura territoriale, come erroneamente si ritiene dai sostenitori del Sì. L’elezione da parte dei consigli regionali avrebbe infatti una generica natura politico-partitica, non essendo previsti né il vincolo di mandato né l’identico numero di senatori per ogni Regione: elementi necessari perché la rappresentanza sia davvero “territoriale”. Il “nuovo” articolo 55 afferma che «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali » ma, a ben vedere, è un mero flatus vocis. Il Senato continuerebbe infatti ad operare come organo dello Stato. Quanto al procedimento legislativo, dai due tipi attualmente esistenti (quello normale e la conversione dei decreti legge) si passerebbe, con la “nuova” Costituzione, ad almeno otto procedimenti “formalmente” diversi, con il rischio di potenziali conflitti tra le Camere o addirittura di incostituzionalità delle leggi.

Nel rapporto Stato-Regioni, la riforma è tutta sbilanciata a favore del potere centrale. Le cinque Regioni a statuto speciale, alle quali non si applica la riforma, risulterebbero ingiustamente privilegiate, laddove le Regioni ad autonomia ordinaria verrebbero private della potestà legislativa concorrente, superficialmente accusata di essere la causa dell’immane contenzioso costituzionale Stato- Regioni. Nella riforma è infatti prevista la sola potestà legislativa esclusiva, sia per lo Stato in ben 51 materie, sia per le Regioni in una quindicina di materie prevalentemente organizzative. Conseguentemente, materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura e l’attività mineraria — di cui non si parla nella riforma — è dubbio che spetterebbero alle Regioni oppure allo Stato. Invece, materie tipicamente autonomistiche quali le politiche sociali, il governo del territorio e l’ambiente verrebbero irrazionalmente attribuite allo Stato.

Infine, quanto al sindacato parlamentare, mentre è stato eliminato il Senato come contropotere esterno, non vengono previsti contropoteri politici interni, in quanto il “nuovo” art. 64 si limita a rinviare la «disciplina lo statuto delle opposizioni » al futuro regolamento della Camera dei deputati. E poiché è noto che i regolamenti parlamentari sarebbero approvati a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea, ne segue che se l’Italicum restasse in vigore, sarebbe la maggioranza governativa a regolamentare lo statuto delle opposizioni.

« La Repubblica,

L'appello che lancia Francesco Ronchi nella sua lettera a Repubblica non può non colpire. Viaggiando per l’Emilia oppressa dalla calura estiva, Ronchi ha avvertito una cappa di disagio sociale e politico nei paesi dove la crisi della sinistra è ormai un declino cronico.

Una crisi che si manifesta con l’altissimo astensionismo elettorale, una crescita innegabile di consenso alla Lega, una visibile insofferenza per la politica dell’accoglienza nei confronti degli immigrati. Non comprendere l’urgenza di intervenire con un nuovo piano di politiche sociali, di mettere in moto nuove strategie di redistribuzione e di farlo con competenza e umiltà sarebbe davvero improvvido, altrettanto quanto pensare che la strada giusta sia quella della deregolamentazione o della managerializzazione dei servizi, un vizio economicista di cui la sinistra sembra oggi andare fiera. A perdere non sarebbe solo e tanto la sinistra, ma il tenore del nostro tessuto sociale nelle città e nei paesi dove viviamo, laddove si è sedimentata la nostra pratica di vita democratica.

Ronchi mette a nudo una delle ragioni macroscopiche di questo disagio delle democrazie sociali mature: il legame conflittuale tra bisogno e confini; la tensione tra universalismo dei valori e la loro applicazione tra persone che hanno bisogno di riconoscersi come eguali; la difficile relazione tra le politiche redistributive e la composizione socio-culturale della popolazione.

Il bisogno è naturalmente il punto di partenza dei criteri di giustizia ai quali si è ispirata la sinistra democratica del dopoguerra. Il bisogno lo si può giudicare e misurare secondo due grandi parametri, che non collimano tra loro necessariamente: quelli che si basano su dati misurabili e quelli che si basano su valutazioni di merito e di contesto. Il reddito per nucleo famigliare nel primo caso; e un resoconto su che cosa, con quel reddito, una persona può fare nella città o nel paese in cui vive nel secondo caso. Universalismo lineare in un caso; distribuzione di servizi attenta alle capacità che le persone hanno e a quelle che servono loro nel determinato contesto di vita nel quale devono svolgere le loro funzioni.

Come si intuisce, il primo criterio è adatto a un contesto di sufficiente omogeneità sociale — ha funzionato fino a quando lo Stato-nazione è stato il collettivo di riferimento. Come dice Ronchi, la sinistra è nata mettendo confini tra chi era parte della nazione e chi non lo era (anche i ricchi cosmopoliti). Il criterio di cittadinanza nazionale ha determinato le politiche di solidarietà sociale e ha nel suo tempo funzionato.

Certo, le ingiustizie c’erano e associazioni e partiti si incaricavano di denunciarle e correggerle. Ma quale che fosse stato il dissenso, il metro di giudizio era condiviso: il cittadino era sinolo di diritti e doveri, e quindi di servizi che mettessero una barriera alle diseguaglianze di condizione. Questo modello ha consentito di distribuire servizi all’infanzia, assegnare alloggi, accedere ai servizi pubblici in generale. Ha avuto largo successo in Emilia, integrando i meno abbienti e facendone cittadini responsabili e partecipi. La socialdemocrazia è stata tutto questo.

Come osserva Ronchi, oggi questo modello è in crisi proprio nell’Emilia. Ed è in crisi insieme alla sinistra democratica un po’ in tutta Europa, come Brexit ha dimostrato in maniera dirompente. Pensare che la fedeltà di partito o di bandiera o di leadership possa mettere a tacere questa grande insoddisfazione è semplicemente sbagliato. Il voto per fede si scontra con un disagio che è più grande e più vero — semmai, se deve essere ancora voto per fede sarà dato a una nuova religione: quella del nazionalismo identitario e xenofobo.

È evidente che il bisogno di giustizia c’è: ad essere in crisi è il modo di affrontarlo. L’immigrazione è, scrive Ronchi, il fattore al quale rivolgersi per capire perché il modello classico di redistribuzione non funziona più. E lo si vede proprio sul campo: con gli esistenti criteri distributivi i concittadini perdono rispetto agli immigrati — i quali hanno comunque redditi più bassi e soprattutto famiglie più numerose e possono accedere con più facilità ai servizi.

L’accoglienza finisce per penalizzare i cittadini e ciò non tarda a generare sentimenti di rabbia razziale, di intolleranza — trasformando le ragioni dell’insoddisfazione per come le regole di giustizia sociale funzionano in ragioni identitarie. Incolpando gli immigrati e quindi le politiche delle frontiere porose, ovvero la cultura dell’accoglienza e l’etica cosmopolitica che le forze liberali e democratiche hanno in questi anni coltivato, e che ha costruito l’Unione Europea, a partire dal Trattato di Roma.

Chiede Ronchi: «come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di “accogliere tutta la miseria del mondo”?». È evidente che nessuno è così onnipotente da poter “accogliere tutta la miseria del mondo”. Però possiamo fare uno sforzo di elaborazione e di ricerca per rivedere criteri e politiche sociali affinché siano in grado di dare giustizia in questa nuova condizione; affinché siano attente ai contesti e alle reali capacità delle persone.

Lo scopo è difendere la vita democratica in una realtà che è comunque multietnica. E si dovrà prestare attenzione non solo all’accoglienza, ma soprattutto all’integrazione civica. Integrare gli immigrati nel tessuto socio-politico significa istruirli non solo nella lingua, ma educarli ai diritti civili, alle regole di giustizia, al dettato della nostra Costituzione. Oggi c’è più, non meno, bisogno di politiche pubbliche; ce n’è tanto bisogno quanto ce n’era negli anni della ricostruzione postbellica — perché di ricostruzione si tratta comunque: della fiducia nelle istituzioni politiche, della stabilità sociale e della tranquillità civile.

Nel dopoguerra, il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza capì che per ricostruire dalle macerie della guerra nazi-fascista occorreva ricostruire la società civile e la democrazia: mise insieme conoscenze e competenze per definire piani di progettazione del futuro, non per vincere una campagna elettorale: politiche sulla casa e la scuola di ogni ordine e grado, l’assistenza sanitaria e sociale, i servizi al lavoro e all’imprenditoria; e, a tenere tutto insieme, i luoghi e i servizi di cittadinanza partecipata, nei quartieri e con le associazioni della società civile.

Il socialismo alla Prampolini, ovvero l’attenzione alla vita quotiana delle persone dove esse vivono per costruire una società giusta: questa era la logica seguita nell’Emilia del dopoguerra. E forse ancora dal riformismo bisogna ripartire, adattato ovviamente a questo tempo, poiché il disagio sociale così grande e pervasivo lo si vive nel concreto della vita locale, non è un’astratta categoria a uso di esperti della comunicazione politica.

Il manifesto, 30 luglio 2016 (p.d.)

Il 10 e l’11 giugno di due anni fa i media di tutto il mondo mostrarono immagini di una dolorosa drammaticità: centinaia di migliaia di persone sotto il sole cocente scappavano da Mosul, seconda città irachena, occupata in 24 ore dallo Stato Islamico.

Mentre le prime bandiere nere preannunciavano anni di barbarie, si fuggiva come si poteva: file interminabili di auto dirette nel Kurdistan iracheno; famiglie a piedi con addosso solo i vestiti e qualche borsa con gli effetti personali più cari; anziani e bambini sulla schiena di un asino. Alla fine se ne contarono mezzo milione, mezzo milione di sfollati interni nell’arco di due giorni.

Ne seguirono tanti altri, oggi Mosul non è più la ricca città che era nel 2014. Ha perso il suo mercato e la sua industria e buona parte delle sue confessioni: di cristiani non ce n’è quasi più l’ombra. Ora a due anni di distanza torna a risuonare lo stesso inquietante allarme: un milione di iracheni lascerà Mosul con l’intensificarsi dello scontro tra esercito governativo e islamisti.

I dati li dà la Croce Rossa, in vista dell’annunciata battaglia finale. «Fino ad un milione di persone potrebbero essere costrette a lasciare le proprie case nelle prossime settimane», si legge nel comunicato. E la situazione è già al collasso: sono oltre 3 milioni gli sfollati interni, altri 10 quelli che nelle zone d’origine necessitano di assistenza.

A leggere un simile numero la prima domanda che viene da porsi è dove tutte queste persone dovrebbero andare. Dove dovrebbero cercare rifugio? Le porte sono sbarrate. Baghdad da mesi non fa più entrare sunniti di Anbar e Ninawa per il timore che tra loro si nascondano islamisti, ma anche per evitare uno stravolgimento della settaria bilancia demografica.

Il Kurdistan iracheno ha scelto la stessa comoda via: dallo scorso anno, dopo aver accolto oltre due milioni di persone tra sfollati iracheni e profughi siriani, passare i confini controllati dai peshmerga è diventata un’impresa. Alla base sta l’iqama, ci spiegavano a novembre sfollati da Qaraqosh e Sinjar nei campi profughi della capitale kurda: «L’iqama è un permesso di residenza rilasciato dalle autorità di Erbil – diceva al manifesto Mohamed, palestinese di origine, rifugiato per la seconda volta – sulla base della garanzia presentata da uno sponsor kurdo. Solo con l’iqama puoi lavorare, muoverti liberamente, accedere ai servizi. In genere la ottengono altri kurdi e i cristiani, grazie alla chiesa locale. Per un sunnita come me è quasi impossibile».

Mohamed era riuscito a infilarsi dentro prima della politica delle porte aperte a metà: ora le sole chiavi che le fanno scattare sono etniche e confessionali. A dimostrazione che l’Isis ha annaffiato il terreno giusto per spezzettare l’Iraq. Mosul ne è lo specchio: mentre le organizzazioni umanitarie si preparano all’ennesimo flusso di disperati, nelle stanze dei bottoni di Baghdad e Erbil si organizza la controffensiva.

Nessuno vuole mancare l’appuntamento con una città che definirà l’Iraq che sarà. Il governo centrale opera su due fronti: l’inclusione delle milizie sciite e l’esclusione dei peshmerga. Nei giorni scorsi il premier al-Abadi ha ordinato l’ingresso delle milizie sciite (accusate di abusi contro le comunità sunnite liberate) nell’esercito regolare, sotto la propria diretta autorità. Un modo per tenerle a bada – e controllare meglio anche le influenze iraniane – e allo stesso tempo gestire in modo più efficace la battaglia finale. Resta da vedere quanto certe milizie, come le potenti Badr, stiano a sentire gli ordini del premier.

Sul versante kurdo, il governo centrale ha cancellato all’ultimo minuto un meeting previsto per il 22 luglio con rappresentanti di Erbil per discutere la controffensiva. Una marginalizzazione che, si dice a Baghdad, è figlia dell’incontro che il presidente kurdo Barzani ha avuto con gli Stati Uniti il 12, nel quale ha strappato 415 milioni di dollari in aiuti militari a Washington in vista proprio di Mosul. Giravolte di alleanze e antagonismi: al ministro degli Esteri iracheno Obeidi («Non faremo avvicinare i peshmerga a Mosul») risponde Erbil con un secco «Non lasceremo le aree liberate a Ninawa».

Dinamiche simili si registrano nella vicina Siria, dove a prevalere non è l’unità interna contro il nemico Isis ma le avverse ambizioni politiche. Così, ieri, mentre lo Stato Islamico giustiziava 24 persone nel villaggio settentrionale di Buyir, strappato ai kurdi di Rojava, nella provincia di Idlib raid aerei (forse russi o governativi) colpivano l’ennesimo ospedale: la denuncia arriva da Save the Children, organizzazione responsabile della clinica di maternità bombardata nel villaggio di Kafer Takhareem.

Un bilancio chiaro ancora non c’è, di certo sarebbero due i morti e tre i feriti. La clinica era l’unica di questo tipo nell’arco di 100 chilometri e garantiva assistenza a 1.300 persone al mese, tra donne e neonati.

Una settimana fa erano state cinque le cliniche danneggiate da un bombardamento di Damasco: una era stata colpita direttamente, le altre avevano subito danni da raid nelle zone vicine. Tra le vittime un neonato. Si muore anche di coalizione: giovedì notte raid Usa hanno ucciso, secondo fonti locali, 28 civili nella cittadina di al-Ghandour, vicino Manbij.

Riferimenti
Interessanti informazioni sul modo in cui i promotori delle guerre d'oggi, a partire da quelle in atto in Palestina, considerino le morti dei civili non un "effetto collaterale" ma l'obiettivo dell'azione bellica sono offwrte dall'associazione Forensic Architecture. Vedi anche, in eddyburg, l'articolo dell'architetto israeliano Eyal Weizman, Se l'architettura ritorna sulla scena del crimine

Altraeconomia, 29 luglio 2016 (c.m.c)

Ha studiato molto, gode di buona salute, ha un reddito che gli consente di vivere bene ed è pure soddisfatto della vita. Non stiamo parlando di un manager di successo, ma di chi fa volontariato, chi può permettersi il “lusso” di aiutare gli altri.

Un ritratto del volontario medio italiano emerge dall’analisi dei dati dell’indagine Istat del 2014 sugli Aspetti della vita quotidiana. Insieme alla Fondazione volontariato e partecipazione (www.volontariatoepartecipazione.eu) e a CSVnet, il coordinamento nazionale dei centri di servizio al volontariato, l’Istituto di statistica ha sperimentato in Italia il modulo elaborato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), andando a misurare con precisione le caratteristiche di chi fa volontariato e quanto vale economicamente il suo impegno.

La lettura dei risultati mette in crisi molti dei luoghi comuni che, parlando di volontariato, siamo abituati a sentire e sostenere. Scandagliandoli bene, fotografano anche in questo mondo forti squilibri di opportunità. Esiste un’Italia a due velocità, pure nel volontariato.

La macchina viaggia spedita, con tutte le fatiche e i difetti naturalmente, a Nord, molto più piano al Sud. Nell’area geografica del Nord-ovest, ad esempio, quando, all’epoca della rilevazione, il tasso di occupazione -il rapporto fra il numero di persone occupate e la popolazione totale- è al 63,8%, il tasso di disoccupazione “solo” al 9,3% e il reddito familiare medio di 32.654 euro, il tasso di volontariato in associazioni registrate è del 4,2%. Dall’altra parte dell’Italia, nel Mezzogiorno, il tasso di volontariato è solo dell’1,7%, con quello di occupazione del 41,8% e di disoccupazione del 20,7%. Numeri che fotografano una situazione socioeconomica in filigrana: dove c’è più disagio c’è anche meno aiuto, non solo da parte dello Stato, ma anche dei cittadini stessi.

«La correlazione fra tasso di occupazione e tasso di volontariato -spiega lo statistico Andrea Bertocchini della Fondazione volontariato e partecipazione, che ha elaborato i dati- niente ci dice del legame di dipendenza, del nesso causale. Non possiamo escludere che si tratti anche di una relazione spuria, cioè senza linea diretta, ossia che l’occupazione favorisca effettivamente il volontariato. Ma l’ipotesi accettabile è che livelli di volontariato e occupazione siano strettamente legati perché espressione entrambi di uno sviluppo sociale simile, generati insomma da uno stesso ambiente storico, culturale ed economico favorevole. C’è più volontariato quindi laddove c’è meno bisogno, mentre dove è più difficile trovare lavoro il tasso di volontariato si affievolisce».

Che sia un fenomeno a trainare l’altro o viceversa, i dati ci raccontano comunque che partecipazione al volontariato e solidità economica procedono di pari passo, sia a livello territoriale sia a livello individuale. Perché se guardiamo ai profili personali oltre che a quelli socioeconomici, i dati sono sorprendentemente simili nella media italiana: chi contribuisce alle attività svolte dalla associazioni è in media più istruito rispetto a chi non si impegna (il 21,2% è laureato a fronte dell’11,2 degli altri).

Chi fa volontariato ha in media 12 anni di istruzione alle spalle, chi non lo fa solo 10,2; ha un lavoro nel 48,9% dei casi e solo il 40,6% di chi non lo fa è occupato. Legge in media 3,5 libri all’anno, contro l’1,9 di chi non si dedica agli altri. In generale è più dedito ai consumi culturali, più interessato ai problemi politici e sociali, più soddisfatto della propria vita e più ottimista per il futuro.

I dati possono raccontare la società e quelli sul volontariato ci dicono che le situazioni sociali e personali positive influiscono in maniera determinante sui tassi di impegno. Lo stato di salute, per esempio, rappresenta una variabile influente per la partecipazione al volontariato.

Chi fa volontariato sta meglio: i valori rispettivi dell’indice in base 10 dello stato di salute sono di 6,2 per i volontari e di 5,6 per la popolazione nel suo insieme. La salute, si sa, è importante, ma conta il benessere in senso più ampio. Si vede bene se andiamo ad esaminare la propensione ad impegnarsi per gli altri di giovani e donne. I giovani, che in Italia vivono le situazioni di maggiore precarietà, continuano a fare volontariato, ma le difficoltà sono molte.

Osservando i dati Istat -elaborati sulla base di interviste a un campione rappresentativo di 40mila persone- i giovani in effetti fanno meno volontariato degli adulti: la fascia di età dove ci si impegna di più è fra i 40 e i 64 anni (circa il 15%), mentre sotto i 35 anni si danno da fare in media fra il 10 e il 12%.

Non esistono serie storiche di dati da confrontare per capire se i giovani si impegnino di più o di meno rispetto al passato. Ma considerato che la fascia di popolazione giovanile è in calo già da qualche anno, tenute conto le difficoltà sempre più forti nel trovare lavoro e tutto il noto e faticoso contesto italiano, i dati sono incoraggianti. «I ragazzi di oggi -spiega lo statistico Lorenzo Maraviglia che ha elaborato i dati sui giovani e il volontariato- pur vivendo in un mondo profondamente diverso rispetto al passato, non sembrano più ostili ad impegnarsi rispetto ai loro predecessori».

Dall’analisi dei dati viene decostruito anche un altro luogo comune, ossia che i giovani non si farebbero “ingabbiare” dalle realtà organizzate e si impegnerebbero di più in forme inedite e leggere. Il dato parla chiaro: il tasso di partecipazione al volontariato dei giovani è del 10,7%, quelli che si impegnano in forme solo organizzate sono il 6,7%, mentre quelli che lo fanno in maniera individuale il 3,2%. Lo 0,8% fa entrambe le cose. Fra gli adulti dai 30 e i 49 anni il 5,7% lo fa in forma individuale e non organizzata.

Il dato messo allo specchio conferma: l’età media dei volontari è in linea con quella della popolazione, 48,1 anni a fronte del 48,7 della popolazione nel suo complesso. Ma conferma pure che in Italia chi ha situazioni sociali e personali più solide si impegna di più e cerca di restituire alla società il suo benessere. «L’analisi dei tassi di volontariato -conferma Bertocchini- ci dà la percezione di una maggiore probabilità di fare volontariato dai 45 anni in poi, quando l’attività lavorativa si è consolidata e insieme a quella gli equilibri familiari. In ogni caso il legame fra la propensione a svolgere attività gratuite e il livello di reddito della famiglia di appartenenza emerge abbastanza chiaramente: le disuguaglianze nella partecipazione derivano dal fatto che ad attività extralavorative gratuite può più facilmente dedicarsi chi appartiene a famiglie agiate. In quel caso il tasso specifico è del 5,3%. Meno chi ha risorse economiche adeguate (4,2%) e ancora meno chi vive in famiglie con difficoltà economiche (2,4%)».

La distribuzione dei volontari delle organizzazione in base all’età segue comunque una curva a “u” rovesciata: parte dai valori più bassi della presenza giovanile, sale al crescere dell’età, raggiungendo il picco di presenza per i 45-54enni e poi comincia a declinare via via che l’età si alza e avviene il passaggio alla terza e alla quarta età. La partecipazione di giovani e anziani, dunque, rispecchia il peso di queste fasce di età nella popolazione, mentre sono sovrarappresentate le fasce di età centrali dai 45 ai 64 anni.

La fatica, e la tenacia, di chi si impegna per gli altri emerge anche da un altro focus di ricerca che ha indagato le donne nel volontariato. Sono in minoranza nelle associazioni -il 45% del totale-, ma quando possono sono più generose, donando in media a settimana 18,5 ore contro le 15,4 degli uomini, dunque il 18% in più. «Questo -spiega ancora Maraviglia- perché fare volontariato presuppone una certa disponibilità di tempo ed è molto di più quello che le donne dedicano alla famiglia rispetto agli uomini. Voglio dire che se si considerano le attività domestiche il budget di tempo che donne e uomini dedicano ad attività extralavorative di cura, che siano verso gli altri o verso la famiglia, si riequilibria. Questo porta a dire che il loro impegno vale di più».

Un dato evocativo in questo senso riguarda le casalinghe, la cui presenza “censita” tra i volontari appare dimezzata rispetto al dato relativo alla popolazione (il 7,8% contro il 14,9%). All’interno delle organizzazioni di volontariato sono inoltre spesso cristalizzate condizioni strutturali che penalizzano il ruolo della donna, che si trova ad occupare posizioni di minor prestigio e contenuto professionale: lo “scettro del comando”, ad esempio, continua ad essere soprattutto appannaggio degli uomini, che occupano in 71 casi su 100 ruoli dirigenziali.

È dimostrato anche che le donne disoccupate fanno più volontariato degli uomini. «In generale -conferma Maraviglia- la condizione di disoccupazione ha un effetto negativo sulla probabilità di svolgere attività volontarie. Può essere spiegato con il fatto che chi è disoccupato ha poco tempo da dedicare ad altre attività perché assorbito dalla ricerca di un lavoro. Considerando invece l’interazione fra disoccupazione e genere, si può osservare che mentre l’effetto negativo della prima sulla propensione al volontariato si intensifica per gli uomini, esso sparisce completamente per le donne».

A differenza degli uomini, le donne disoccupate hanno le stesse probabilità di militare in associazioni di volontariato delle donne occupate o inattive. Tra le motivazione che portano una donna ad impegnarsi con un’organizzazione c’è anche la ricerca di «occasioni di crescita professionale e per cercare opportunità di lavoro». Oltre le categorizzazioni, sempre utili a capire, il messaggio è chiaro: il volontariato è welfare, ma ha bisogno di welfare.

Il manifesto,

Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.

Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche. Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni «al di sopra delle proprie possibilità» e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per 18 volte e la parte dei cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700 miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e servizi.

Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura «in ultima istanza» da parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i diritti di tutti.

La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto questo aggiungiamo il fiscal compact, ovvero l’impegno preso in sede europea a riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno, il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste, sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?

Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte del contratto stipulato?
Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi sull’apprendimento in «debiti» e «crediti»?

Credo di no e, a sostegno d questa tesi, basta leggersi l’art.103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al fiscal compact?

Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua «professione»: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento –gli interessi- e la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).

Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il debito è oggi agitato come «lo shock per far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile» (Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo shock –che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla narrazione dominante- alla sana pre-occupazione, ovvero alla capacità collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i livelli –locale, nazionale e internazionale- la necessità di un’indagine indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e quanta parte è odiosa –dunque da non pagare- e che affronti, partendo dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo se ne discuterà all’università estiva di Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che, partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e istituzionali nelle «città ribelli» di Barcellona, Napoli e Roma (http://www.italia.attac.org/index.php).Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del futuro.
La difficile scelta per la socialdemocrazia europea, e le sue diverse componenti, tra difesa dei diritti acquisiti dagli sfruttati di ieri, a partire dal welfare, e l'obbligo morale dell'accoglienza degli sfruttati di oggi.

La Repubblica, 29 luglio 2016

Caro direttore, c’è un filo rosso che lega il referendum inglese alle ultime elezioni in Europa e che tratteggia i contorni di una “sinistra senza popolo”, priva del sostegno del suo elettorato storico, le classi popolari. In Austria alle elezioni presidenziali più del 70 per cento degli operai ha votato per l’estrema destra, alle elezioni regionali francesi circa il 40 per cento degli ouvriers ha sostenuto Le Pen. E nel Regno Unito, i bastioni laburisti del Nord hanno premiato la Brexit.

Un terremoto silenzioso sta spaccando in due il cuore elettorale della sinistra: da un lato il tradizionale voto popolare, sempre più frastagliato, tendenzialmente anti-globalizzazione e in cerca di protezione, dall’altro i nuovi elettori urbani, sostenitori di un’agenda liberale, pro-globalizzazione, che prediligono l’apertura.

Negli ultimi anni la sinistra europea sembra avere privilegiato questo secondo gruppo. Non è un caso se la vetrina di maggiore successo della sinistra inglese sia oggi la multiculturale Londra di Sadiq Kahn e l’ultimo feudo della gauche francese la Parigi cosmopolita.

Sarebbe tuttavia ingiusto negare gli sforzi fatti a sinistra per riconquistare il voto popolare. Jeremy Corbyn, ad esempio, si batte per preservare il sistema sanitario pubblico e frenare le privatizzazioni, mentre la Spd è riuscita a ottenere l’introduzione di un salario minimo in Germania.

Questi sforzi si sono però rivelati insufficienti per frenare lo smottamento elettorale. Concentrandosi unicamente sul terreno economico e sociale, le sinistre europee commettono infatti un errore di impostazione. Oggi la dimensione che conta di più per i ceti popolari, anche quelli che ancora votano a sinistra, non è l’economia, ma è sempre più l’immigrazione. Basta andare nell’Emilia rossa per accorgersi di quanto l’immigrazione incida nel vissuto quotidiano di quello che un tempo si chiamava il popolo di sinistra.

Due questioni sembrano, in particolare, decisive: il welfare state e le frontiere.

Molti amministratori locali del Pd da tempo hanno lanciato allarmi sul rischio di una discriminazione di fatto dei nativi nell’accesso allo Stato sociale. Questo sentimento di ingiustizia rispetto ai concittadini immigrati non riguarda solo l’assegnazione delle case popolari, ma anche i servizi della prima infanzia, gli asili e l’accesso a tutti i servizi pubblici. Negare l’esistenza di una tensione fra nativi e immigrati o, ancora peggio, limitarsi all’esaltazione retorica del multiculturalismo e delle sue virtù non risolve il problema, ma lo esacerba, consegnandone il monopolio all’estremismo.

La sinistra non può inoltre sfuggire al tema del ritorno dei confini, spesso archiviato come reazionario. Il concetto di confine è invece legato alla nascita della sinistra: nella rivoluzione francese fu il Terzo Stato a battersi per la difesa del confine contro un’aristocrazia apolide e sradicata.

Dovremmo chiederci se per la sinistra, in questo tempo di disorientamento e insicurezza, il richiamo che le radici esercitano sugli ultimi, il ritorno all’Heimat, alle tante Patrie individuali, alla comunità che protegge, non sia una risorsa da coltivare piuttosto che un feticcio da abbattere in nome di una visione naive della globalizzazione.

Porsi queste questioni da sinistra non è cosa facile e le timidezze sono comprensibili.

L’immigrazione è il nuovo tabù della sinistra perché ne interpella l’essenza e, cosa più importante, interroga la coscienza individuale di chi si riconosce in quella storia, la nostra storia: come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di «accogliere tutta la miseria del mondo» , per citare il compianto Michel Rocard?

Il futuro della sinistra dipenderà anche dalla capacità con cui saprà rompere questo tabù.

L’autore insegna a Parigi a Sciences Po, collabora con il Wall Street Journal e fa parte della Segreteria del Pd dell’Emilia Romagna

«». Waltertocci.blogspot.it,

Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.

La soluzione senza il problema

C’è pieno accordo tra noi sull’esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
Si è fatto credere che il problema sia la velocità delle leggi, quando è evidente che sono troppe e vengono modificate vorticosamente. L’alluvione normativa soffoca le energie vitali del Paese. Si è drammatizzata la lungaggine della doppia navetta, ma riguarda solo il 3% dei provvedimenti. I più veloci sono anche i peggiori: il decreto Fornero convertito in quindici giorni viene revisionato ogni anno; le norme ad personam di Berlusconi furono come lampi in Parlamento, il Porcellum fu approvato in due mesi circa, ecc.. I tempi sono rapidi quando c’è la volontà politica, soprattutto se negativa.

Si, per fare buone leggi valeva la pena di riformare il bicameralismo. Era meglio eliminare il Senato, imponendo alla Camera maggioranze qualificate sulle leggi di garanzia costituzionale; oppure si poteva specializzare il Senato come camera di Alta legislazione, priva di fiducia, ma dedita alla produzione di Codici al fine di assicurare l'organicità, la sobrietà e la chiarezza delle norme. Erano soluzioni forse troppo semplici. Si è preferito invece un assetto tanto arzigogolato da pregiudicare perfino l’obiettivo della velocità.

Potestas sine auctoritas in Senato

È un bicameralismo abbondante, frammentario e conflittuale. Il Senato mantiene, seppure in modo contorto e controverso, molti poteri, ma perde l’autorevolezza, diventando il dopolavoro del ceto politico regionale, senza l’indirizzo politico né il simbolo di un'antica istituzione. Bisogna riconoscere che il primo testo del governo mostrava una certa coerenza cambiando anche il nome in Assemblea delle autonomie.

Poi è stato reinserito il nome Senato più per la nostalgia che per il rango. All'opposto del suo riferimento storico, infatti, è un'Assemblea dotata di potestas ma povera di auctoritas. In tali dosi la prima tende a superare i limiti e la seconda non basta a irrobustire la responsabilità. Il risultato sarà una conflittualità sulle attribuzioni delle leggi, affidata ai Presidenti delle Camere senza soluzione in caso di disaccordo.

Il contenzioso verrà alimentato da una pessima scrittura del testo. In certe parti assomiglia a un regolamento di condominio, è come uno scarabocchio sullo stile sobrio della Carta. Ora perfino gli autori dicono che si poteva fare meglio. Quale demone ha impedito di scrivere un testo in buon italiano?

Crisi politica, non costituzionale

L'ossessione nel cambiare la Costituzione è una malattia solo italiana, non ha paragoni in nessun paese occidentale. Eppure tutti i sistemi istituzionali sono prodotti storici e quindi naturalmente difettosi. La Costituzione americana non prevede neppure il decreto legge, ma consente di gestire un impero e alimenta da oltre due secoli una religione civile, nessuno si sognerebbe di modificarne decine di articoli.

Sono i governanti che devono compensare con la politica i difetti dell’ordinamento, quando non sanno farlo invocano le riforme istituzionali. Che intanto sono servite a cancellare il tema dell’attuazione della Costituzione. Basta rileggere l’articolo 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Sono principi negati per milioni di italiani, di giovani e di migranti, senza che il rispetto della Carta diventi mai una priorità politica.

Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male comunque avevano governato il Paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione. Da allora il ceto politico non è stato capace o non ha voluto rigenerare strutture politiche adeguate ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Si è trasformata una crisi politica in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano.

Che il Paese non si possa governare a causa del bicameralismo è la più grande panzana raccontata al popolo italiano nel secondo Novecento. Senza temere il ridicolo, l’establishment promette che il nuovo articolo 70 aumenterà il PIL; ora si promette anche la lotta al terrorismo e altro ancora! È un sacco vuoto che può essere riempito di ogni cosa.

Servire, non servirsi della Carta

All'inizio c'era almeno un'intenzione costruttiva, che le riforme servissero a stimolare il rinnovamento dei partiti. Anche io ho creduto in tale opera pia, ma era come il tentativo del barone di Münchausen di sollevarsi da terra tirandosi per il codino. Non era possibile che i partiti in caduta verticale di idee e di consensi avessero miracolosamente la capacità di riscrivere la Carta. Con il risultato che la crisi politica non curata è degenerata nel discredito dei partiti e le riforme istituzionali sono sempre fallite.

Sono state numerose - basta con la storiella delle occasioni mancate! – ma hanno fallito perché motivate solo da interessi politici contingenti, non da progetti costituzionali: il Titolo V della sinistra per rincorrere la Lega; la riforma del 2005 per frenare la crisi di Berlusconi; lo jus sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini; il pareggio di bilancio per celebrare Monti. Oggi si ripete l’errore con maggiore impeto: si riscrive la Carta per legittimare un governo privo di un programma presentato agli elettori e per prolungare il Parlamento addirittura come Assemblea Costituente, pur essendo costituito con legge elettorale illegittima.

Che vinca il Si o il No, comunque è una revisione costituzionale senza futuro. Non può durare nel tempo perché è scritta solo dal governo attuale, non è frutto di un’intesa, anzi alimenta la discordia nazionale. Lo so bene che alcuni si sono sfilati per misere ragioni, ma dalla nostra parte non si è cercato sempre uno spirito costituzionale. Anzi, è prevalsa l’illusione che “spianare gli avversari” – come si dice oggi con lessico desolante – potesse rafforzare la leadership del PD.

Provo un senso di pena per chiunque motivi la revisione della Carta con la lotta alla Casta del Parlamento. La riduzione dei costi degli eletti c’è già stata e si può fare di più con le leggi ordinarie. Se invece si scomoda la Costituzione è solo per impressionare l’opinione pubblica. Il populismo di governo è tanto sguaiato quanto inefficace, perché non batte neppure l’originale grillino, come si è visto alle elezioni.

E racconta mezze verità. La riduzione del numero dei parlamentari c'è solo nel Senato che perde rango, ma non nella Camera che aumenta il potere. Eppure è proprio il numero dei deputati, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti in Europa. I “rottamatori” non hanno avuto il coraggio di deliberare per una Camera più piccola, come invece seppero fare la destra nel 2005 e la sinistra nel 2007.

L'illusione della decisione imperativa

Con la scusa di riformare il bicameralismo, e con l’aggiunta dell’Italicum, in realtà si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. È il “premierato assoluto” tanto temuto da Leopoldo Elia: un leader in partenza minoritario può vincere il ballottaggio e conquistare il banco, non solo per governare il paese, ma per modificare a suo piacimento le regole e le istituzioni di tutti. Ormai se ne è accorto anche il presidente Napolitano del pericolo di “lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”.

La concentrazione del potere investe tutti gli aspetti dell’ordinamento: l'esecutivo domina il legislativo, la Camera prevale sul Senato, il premio di maggioranza non è compensato dai diritti della minoranza, i capilista si allontanano dal controllo degli elettori, i voti di chi vince valgono il doppio di quelli di chi perde, il capo di governo o comanda sulla Camera o ne chiede lo scioglimento, facendo pesare la legittimazione ottenuta nel ballottaggio. Infine, lo Stato ha la "supremazia" sulle Regioni.

Dopo l'ubriacatura del federalismo si "cambia verso", tornando indietro al centralismo statale di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all'altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. A tal fine, la decisione più importante sarebbe la riduzione del numero delle Regioni, ma viene rinviata sine die. Quando la partita è difficile i riformatori muscolari gettano la palla in tribuna.

Da che cosa viene questa voglia smodata di concentrare il potere? Nei momenti di crisi è più facile cadere nelle illusioni. La più grande di tutte è che la complessità italiana possa essere risolta dalla decisione imperativa. Eppure essa è innaturale per il carattere nazionale, è antistorica per la Repubblica costituzionale, ed è anche inefficace per un'Amministrazione debole come la nostra.

L'ossessione di affidarsi a uno solo sembra una terapia e invece è la malattia. La fortuna del Paese è quando molti si danno la mano. Dal centralismo sono venute solo dissipazioni di risorse e ritardi storici. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola, ma aiuta la generatività sociale, ha fiducia nel Paese e ne viene ricambiata. I frutti migliori dello spirito italiano sono sempre venuti dalla molteplicità.

Il piccolo mondo antico di Aldo Bozzi

Vorrei che i giovani politici ci chiamassero a realizzare nuove ambizioni. Mi rattrista vederli cincischiare con il piccolo mondo antico Aldo Bozzi, un vero signore, dall'aspetto ottocentesco, che calcava la scena quando molti di loro non erano ancora nati. Dopo il fallimento della sua prima Bicamerale, molti ci rimasero male, ma li tranquillizzò Norberto Bobbio: le riforme istituzionali - disse - sono fanfaluche che servono solo a eludere i veri problemi della democrazia italiana.

Eppure, il programma di allora è proseguito fino a oggi, sempre la stesso, con piccole varianti. A forza di raccontarlo come il nuovo è invecchiato prima di essere attuato, perché erano sbagliati i problemi da cui partiva. Per trent'anni i politici hanno ripetuto che la governabilità era più importante della rappresentanza. Quasi la metà del popolo li ha presi in parola disertando le urne.

Le consunte ricette della politologia sono state bruciate dagli eventi. Siamo corsi dietro il modello Westminster, ma il bipolarismo non esiste più neppure in quel paese. Invece di convincere gli elettori astensionisti, si è tentato di sostituirli con i premi di maggioranza. Invece di confrontarsi sui programmi di governo, i partiti si distinguono sulle leggi elettorali.

Ha dominato da noi un imperativo quasi inesistente in Europa: la sera delle elezioni al telegiornale si deve sapere chi governa. Però nella Seconda Repubblica nessun governo è stato confermato alle elezioni, nonostante la prosopopea della stabilità. È paradossale lo scarto: mentre aumentavano i poteri degli esecutivi diminuivano i consensi dei cittadini.

Forse quell’imperativo è sbagliato, perché orienta la politica solo alla sera delle elezioni, non alla duratura guida del Paese. Spinge i partiti a diventare mere macchine elettorali, senza progetto culturale e senza radicamento sociale, e quindi senza strumenti adatti a governare i processi di cambiamento. Seleziona politici che sanno solo scrivere leggi e ne approvano tantissime. Ma la bulimia legislativa è un segno di impotenza del governo.

Occupiamoci del futuro e lasciamo agli storici la spiegazione di come mai la politica si è presa una lunga vacanza dalla realtà giocando con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali. Il bicameralismo è certamente un difetto da correggere, non lo nego, ma in una graduatoria di importanza sarà forse il centesimo; con la vittoria del NO la classe politica dovrà occuparsi dei 99 problemi più importanti dell'Italia.

Cambiare il PD è una riforma costituzionale

Nel paese del melodramma si mettono in scena le tragedie anche su problemi inesistenti. Se il NO vince non è l’apocalisse. Chi ha alimentato il panico saprà anche sgonfiarlo. Ammiro gli inglesi almeno per la forma, certo non per il contenuto della sciagurata Brexit, quella si una scelta davvero dirimente per il Paese. Il partito conservatore ha bruciato il suo leader e i due probabili successori, ma in poche settimane ha trovato un quarto leader, una donna, e ha ripreso il cammino del governo. Ecco a cosa servono i partiti, a risolvere le crisi, da noi invece si utilizzano le crisi per annichilire i partiti.

Si dirà che il Pd non è solido come i Tories e non reggerebbe una smentita al referendum. Forse perché a differenza dei partiti europei dipende esclusivamente dalla persona che lo rappresenta. Non solo oggi, da quando lo abbiamo fondato - sono ormai dieci anni - il Pd si è occupato solo della leadership, tutto il resto è andato in secondo piano: il progetto Paese, la cultura, l'organizzazione, la selezione dei dirigenti. Ma è proprio di queste carenze che poi rimangono vittime i leader. Dopo lo slancio iniziale smarriscono le promesse perché non hanno lo strumento per realizzarle. È successo con Veltroni e con Bersani, e rischia di ripetersi con Renzi.

La Costituzione è difettosa soprattutto nell'articolo 49, poiché oggi mancano i partiti per "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Non basta la nuova legge sui partiti se non si riforma la sostanza della politica. Cominciamo almeno dalla nostra parte. Cambiare il PD è già una riforma costituzionale.

Postilla

Care democratiche e cari democratici, voterò NO al referendum utilizzando la libertà di voto che il nostro Statuto consente in materia costituzionale. Il dissenso è una bevanda amara da prendere in piccole dosi, quindi cerco di esprimerlo nelle forme strettamente necessarie. Non ho aderito al comitato per il NO, pur condividendone il compito e stimando tanti cari maestri che lo rappresentano. Qui ho espresso le mie personali motivazioni, ma credo ci siano nel PD tanti militanti ed elettori che con argomentazioni diverse condividono la scelta per il NO.

Sarebbe utile ritrovarsi in una dichiarazione comune e promuovere momenti di confronto e di approfondimento; ancora lo Statuto consente di esprimere in forma collettiva una scelta diversa da quella della maggioranza. Potremmo contribuire al dibattito referendario con una motivazione critica, ma rispettosa della posizione ufficiale. Sarebbe un altro buon esempio di democrazia del PD, e aiuterebbe a superare le personalizzazioni e le drammatizzazioni che si sono rivelate inutili e dannose. I democratici per il No possono contribuire a una discussione di merito sul significato del referendum.

Due momenti della stessa storia. Protagonisti: pomodori, rifugiati e altri sfruttati, padroni e padroncini. Luogo: la ridente Puglia, Articoli di Chiara Spagnoli)

la Repubblica online) e Alessandra Magnaro (Comune.info), 27 luglio 2016

Repubblica online
CAPORALATO,
NEL GHETTO SALENTINO DI NARDÒ
di Chiara Spagnoli

«Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane»

LECCE - Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto.

La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica 'disponibilità al lavoro' acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone.

Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro.

Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti.

A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.


Comune.info
POMODORI SFRUTTA ZERO
di Alessandra Magnaro

«Una storia di ribellione imprevista che nelle campagne pugliesi ha messo insieme migranti e non per raccogliere, trasformare e distribuire salse rompendo con le logiche di sfruttamento dei caporali e della Grande Distribuzione»

Questa è la storia di un pomodoro, ma potrebbe essere anche un’anguria di quelle belle rosse, come pure si trovano da queste parti, magari ‘baby’ senza semi che sono di gran moda. Un pomodoro piccolo, rotondo, che in Puglia e in tutto il meridione è un oro rosso che arriva in tavola o viene lavorato, messo in scatole di latta o vasi di vetro, a pezzi o passato, buono per tutte le stagioni.

Il pomodoro di cui vogliamo raccontare la storia non è come gli altri, è sfuggito al ‘cartello’, si proprio come quelli famigerati della coca colombiana, dei non più di 7-8 latifondisti che nelle terre ricche di queste parti coltivano piantagioni che non vedi l’orizzonte per quanto sono immense e fanno il bello e il cattivo tempo con la complicità di molti anche nell’anno 2016 proprio come secoli fa. È un pomodoro buono e etico, chi l’ha staccato dalla sua piantina ha avuto il dovuto, il sugo che ci si fa, è chiaro sarà suggestione, sembra persino più buono. È un pomodoro senza sopraffazioni, è una salsa Sfrutta Zero.

Fa caldo da queste parti, quando ti vengono a prendere sul camion è mattina presto e già quasi non si respira. Piegati sul campo, su quelle piantine verdi con i frutti rossi così belle da vedere, ore e ore fino a sera che si riparte. 3 euro e mezzo per ogni cassone da 3 quintali, alla fine delle dodici ore, a volte anche sedici, una trentina di euro per la giornata si riescono a tirare su, tolto il pranzo, l’alloggio e altri ‘pedaggi’, se va bene sono 25 euro, neppure due euro l’ora, ma il conto preciso nessuno lo vuole fare mai.

Il caporale non fa quasi differenza, se non per tipi di coltivazione chissà perché poi, preferisce gli stranieri certo ma a trattare da animali pure gli italiani non si tira indietro basta che lavorino a testa bassa, pazienza se non respirano pure loro, come la povera Paola Clemente, anni 49, italiana, bracciante agricola morta di afa sotto il sole a picco il 13 luglio 2015 mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria. Un anno dopo leggere quella storia ci fa piangere ancora forse perché ci illudiamo che lo sfruttamento – contributi e fatture per un certo numero di giorni, nella realtà molti di più – questo così bestiale sotto il sole di 42 gradi che non lascia scampo, a noi italiani non ci riguardi più.

Ci riguarda eccome ma a sera gli italiani tornano nelle loro case, nei loro paesi bianchi di calce. Gli stranieri invece diventano invisibili, inghiottiti dai ghetti, senza servizi igienici, senza acqua, in baracche costruite con pezzi di legno e di discarica, riciclo più che creativo di sopravvivenza. Oppure dormono buttati a terra con la chioma dell’ulivo a separarli dal cielo.

Angelo, uno dei ragazzi dell’associazione Diritti a Sud che ci accompagna in questo viaggio tra angurie e pomodori, ci racconta che nel 2012 ben 750 migranti dormivano sotto gli ulivi prima che proprio di fronte alla contrada Arene Serrazze, ai margini di Nardò, Salento, venisse su quello che tutti in paese chiamano ‘il ghetto’. Prima andavano alla masseria Boncuri, c’era un presidio medico e qualche servizio, ne poteva contenere una cinquantina, erano arrivati a superare i 500, troppi, specie se poi si mettono in testa di scioperare come accadde nel 2011, un caso storico in Italia, protesta dei migranti contro i caporali. La masseria infatti l’anno dopo, sarà per il sovraffollamento o altro, chiude i battenti e i migranti dormono a terra.

Adesso hanno una zona, baracche in fila, divise per etnie, autogerarchizzate pure quelle. Entriamo dentro, con i ragazzi dell’associazione che li salutano uno ad uno, le prostitute che aspettano, il ragazzo che gestisce il ‘bar’ degli africani, il tunisino che si è fatto male al campo, i sudanesi che giocano a carte, gli altri sono a lavoro, non è ancora sera. Bisogna stare attenti, sono stufi di vedere curiosi guardarli come animali allo zoo, vorrebbero che arrivasse l’acqua piuttosto, promessa dal nuovo sindaco ma intanto, è il 13 luglio, con una bottiglia di minerale presa al market si deve far tutto.

I suv sfrecciano qui fuori, sono persone legate ai latifondisti, con il rombo del motore avvertono e ricordano che qui i padroni sono loro, meglio non dare troppa confidenza a questi pazzi di italiani che si sono messi in testa di cambiare un minimo le cose magari approfittando che i 6-7 del cartello sono sotto processo per sfruttamento, riduzione in schiavitù, violenza privata dal 2012, il Sabr, ancora senza sentenza nonostante il coraggio di denuncia degli schiavi e le intimidazioni e che la moglie di uno di loro è imputata in quanto titolare nel processo per la morte del sudanese Mohamed, schiattato di caldo pure lui a luglio 2015, stesso destino della Clemente. Aveva 47 anni, era il suo primo raccolto, era arrivato con un barcone qualche giorno prima in Sicilia, con la moglie e la figlia neonata. Non ha retto al sole e forse neppure al suo nuovo infame destino.

Il sindaco di Nardò Pippi Mellone (formazione An) ha 31 anni, è stato eletto da poche settimane e sul caporalato vorrebbe dare una svolta. È il 16 luglio quando ad Arene Serrazze, proprio accanto al ghetto, arrivano i camion, questa volta non per prendere i braccianti ma per montare le tende, far arrivare l’acqua e persino il presidio medico sanitario.

Quest’anno i migranti, almeno 160 di loro, faranno le docce. I fondi sono stati raccolti dalla Coldiretti e dalla Focsiv e così il ‘villaggio solidale’ di Nardò ha 6 docce e 12 moduli igienici. Il tentativo di contrastare il caporalato comincia dalla dignità di un bagno. Il 2016 sarà l’ultimo anno dell’emergenza, dice convinto il neo sindaco che nel frattempo con un’ordinanza ha inibito il lavoro nei campi in ore particolarmente proibitive e già a settembre «daremo vita ad un tavolo tecnico che dovrà definire, punto per punto, diritti e doveri di tutti del caporalato con un regolare contratto di lavoro per la raccolta stagionale».

I ragazzi di Diritti a Sud, studenti, precari, lavoratori, migranti stessi, una quindicina in tutto, non si lasciano intimidire. È ora del raccolto, il secondo in quel pezzo di terra avuto in affitto per dieci anni. Passano al ghetto, danno appuntamento per il giorno dopo, saranno in 17: si prendono i pomodorini, la paga è giusta, mani bianche e mani nere li coglieranno, obiettivo 60 quintali, «lavoriamo per una nuova comunità dei diritti, la passata sfrutta zero è il simbolo del nostro progetto, una testimonianza concreta del nostro lavoro, anche se piccola, potremmo fare ben di più».

A fine luglio sarà in distribuzione, i Gas (gruppi di acquisto solidale) in tutta Italia che conoscono il loro lavoro, cosi come quello di Solidaria Bari e di Omb in Basilicata, associazioni ‘gemelle’, l’hanno prenotata e anche quelli di Emergency che sono diventati buoni amici e hanno dato pure il patrocinio la compreranno. Non arriveranno lontano, nella grande distribuzione ad esempio, ma la società civile impegnata nel consumo critico a praticare il buycottaggio, a comprare cioè dando valore politico all’acquisto, sapendo che è una forma di lotta in sostegno dei lavoratori che si ribellano alla legge antica del caporalato, è con loro.

Sacrosanta denuncia del tradimento di quei numerosi intellettuali che, abbandonando lo spirito critico, hanno inneggiato a quelle "esportazioni della democrazia" che hanno generato guerre e stermini ovunque, dall'Afghanistan all'Iraq alla Siria, all'Africa subsahariana, alla Libia.

Il manifesto, 27 luglio 2016

Il mondo sembra non avere più senso, e nella confusione delle nostre menti, nell’angoscia dei nostri cuori, nell’ansia che ci accompagna ormai in ogni situazione pubblica (da un treno a un ristorante affollato), ci abbandoniamo alla deprecazione, all’invocazione a qualche entità superiore, minacciamo di ritirarci nel cenobio, piangiamo le vittime di tutti i giorni di questo terrore cieco. Tutto ciò è legittimo e comprensibile. Persino giusto, almeno in quanto serve a scaricare le nostre paure. Eppure dobbiamo conservare accanto all’occhio caldo dei sentimenti, quello freddo della razionalità.

Non dobbiamo smettere di ricordare, a noi stessi e agli altri, che l’Afghanistan è stato demolito dagli Stati uniti foraggiando i Taliban, facendo prosperare Al Qaeda, salvo poi punire un intero Paese per catturare Osama bin Laden, fino a poco prima amico dei Bush & Co. In Iraq sappiamo come è andata: si cercavano anche là gli amici di Osama, poi le «armi di distruzione di massa», e in mancanza degli uni e delle altre, a Washington si decise di procedere comunque contro «Saddam, minaccia per il mondo» e perché «gli iracheni meritano la democrazia».

Sulla base del successo per l’eliminazione di Saddam, con una impiccagione coram populo si decise che si poteva bissare con Gheddafi. In questo caso furono le potenze europee, Francia e Gran Bretagna, ad intervenire, trascinandosi dietro gli alleati, timorosi che Londra e Parigi potessero collocare le loro imprese estrattive in posizioni di vantaggio sulla concorrenza, e Gheddafi risultava un osso duro per tutti gli occidentali. La sua uccisione è un capitolo della barbarie dell’Occidente. Infine, sullo stesso modello Saddam-Gheddafi si era puntato l’obiettivo su Assad, un altro dittatore da eliminare per restituire la democrazia al suo popolo.

E l’Isis che colpisce a destra e manca, e dove non colpisce comunque lucra del terrore, da chi è stato sostenuto negli scorsi anni, fino a non troppo tempo fa? Dagli occidentali, Usa in testa, fino almeno alla Turchia di Erdogan, che ora si dedica amorevolmente a custodire il suo popolo, sgominando il “nemico interno”, vero o immaginario, sulla base di un disegno politico preciso, semplicemente di tipo dittatoriale.

Rispetto ai tanti progetti Usa-Nato, sappiamo come è andata. La vita non assomiglia più a niente, scriveva Tahar Ben Jalloun dopo una visita a Baghdad, qualche anno fa; una frase che vale per Kabul, Baghdad, Tripoli, Damasco, Aleppo, e l’elenco può continuare, in una lista collana di morte disperazione dolore. Insensatezza. Le armi che vengono impiegate in quei luoghi sono quasi sempre nostre. I mercenari inviati a combattere per la democrazia sono perlopiù sul libro paga di agenzie occidentali. La grande regia è a Washington, a cui si accoda senza fiatare Londra (Tony Blair che chiede scusa ammettendo di aver sbagliato nel 2003 è un po’ penoso).

Seguono, gli altri, praticamente tutti gli altri, nel coacervo criminale della Nato, partecipano alla mattanza, ora frenando, ora accelerando, a seconda degli interessi nazionali; che sono poi gli interessi di gruppi dominanti, legati al mercato delle armi, a interessi finanziari e imprenditoriali.

Ma naturalmente i morti non sono tutti uguali, come uguali non sono i vivi. E lo sdegno per la Francia, per la Germania, e così via non si riproduce per le notizie che giungono dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, a cominciare dallo stillicidio di nefandezze portate avanti dai governanti israeliani a danno dei Palestinesi. E la nostra pietas di occidentali viene opportunamente distribuita, in base a convenienze, dei media, dei governanti, dei potenti. Ma anche in base alla nostra capacità di attenzione critica, che lo stesso susseguirsi di eventi tragici finisce per abbassare, fino al suo obnubilamento. E sta proprio qui il problema. La perdita dell’attenzione critica.

Certo, noi comuni cittadini non siamo in grado di fare alcunché contro i governanti stranieri. Ma possiamo almeno tenere sotto osservazione e sotto pressione i nostri. E possiamo, anzi dobbiamo, puntualmente sbugiardare i giornalisti, commentatori, intellettuali che, per stupidità, ignoranza, disonestà intellettuale, si sono resi complici di menzogne e inganni in tutti questi anni, sostenendo la favola velenosa della esportazione della democrazia, credendo o fingendo di credere a Bush, a Blair, a Sarkozy, e compagnia cialtrona. «Io so», diceva Pasolini, «so i nomi, ma non ho le prove», in riferimento alle colpe della Dc.

Noi abbiamo le prove. Basta sfogliare i giornali dei 20/25 anni alle nostre spalle, e oggi con la Rete tutto è assai agevole. Andiamo a rileggere i commenti, le analisi, e le pseudo-verità di questo esercito degli «armiamoci e partite», le grottesche macchiette di «eroi in pantofole», che hanno incitato l’Occidente a «difendere i suoi valori», a suon di bombe. Andrebbero invitati quanto meno a usare il loro intelletto in modo meno disonesto, e a fare una robusta autocritica, pur nella convinzione che non la faranno, ma almeno ricordargli cosa hanno scritto e detto li inchioda alle loro responsabilità. Costoro, a furia di predicare vento, hanno raccolto tempesta. Purtroppo questa tempesta, non solo colpisce e travolge tutti, indiscriminatamente, colpevoli e, soprattutto, innocenti; ma suscita mostruosi giochi dell’orrore, imitazioni sadiche, e un nichilistico desiderio di morte, che prende a oggetto gli altri e sé stessi.

E mentre orrore e terrore si propagano, a noi che rimane? Rimane il dovere della denuncia, il compito della documentazione, l’impegno della militanza dalla parte degli innocenti. A cominciare da quei bambini siriani che, facendoci versare più di una lacrima, hanno issato cartelli con le immagini dei maledetti Pokemon, e un amaro invito: «Venite a cercare anche noi».

«Riportare al centro del dibattito la Casa comunale. Abbiamo un gran bisogno di luoghi per radunarci e ritrovare in noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità

». Arcipelagomilano online, 27 luglio2016 (c.m.c.)

Dov’è Milano mentre Dacca, Nizza, Monaco, aggiungono lutti sconvolgenti a quelli già tremendi di Parigi e Bruxelles? Dov’è la voce delle istituzioni locali, mentre aerei russi e Assad bombardano gli ospedali di Aleppo, Bagdad è un rosario di carneficine prodotte da kamikaze sunniti contro sciti e reciproche vendette, Erdogan calpesta gli elementari diritti civili, le strade di Kabul tornano a essere terra di attacchi suicidi contro le minoranze?

La retorica delle condanne e le rassicurazioni governative si susseguono mettendo a nudo la debolezza della politica. Davanti all’escalation di orrori avvertiamo impotenza in raccomandazioni tipo: non lasciamoci prendere dalle paure, perché sarebbe darla vinta ai terroristi. O, ancora: le istituzioni faranno quanto possono per garantire incolumità e tranquillità (ci mancherebbe!), ma è impossibile prevedere tutto.

Si può non darla vinta agli uomini in nero e al contagio che la loro violenza ha su menti fragili; occorre però un salto di qualità nell’esprimere il senso collettivo di appartenenza alla civiltà della vita contrapposta a quella della morte. Al diffuso vissuto di frustrazione ci si può opporre proprio da Milano, per quello che la città è nel suo dna: stile ambrosiano, inventiva, sperimentazione, creatività politica e sociale; politicamente: capitale del riformismo.

Ad esempio si può ripristinare il ruolo centrale delle Assemblee elettive: Consiglio Comunale in primis. È un gesto politico, di assunzione di responsabilità; è un modo di ritrovarsi, condividere preoccupazioni, dare respiro, discernere tra quel che viene dalla pancia e quanto il cuore e la mente dovrebbero suggerire.

Dal dopoguerra ai primi Anni ’90 l’aula di Palazzo Marino è stata il luogo deputato dove la città ha riflettuto sui problemi generali che a mano a mano affliggevano il mondo. Per decenni le sedute del Consiglio si aprivano con un’introduzione generale che schiudeva orizzonti di solidarietà internazionale, dando spessore ai provvedimenti amministrativi. Faceva capolino un tasso di ideologia in quei dibattiti. Ma Milano ha vissuto la propria dimensione di Città internazionale, in grado di intrattenere rapporti culturali, stabilire scambi proficui con blocchi opposti in quanto dai banchi di Palazzo Marino e dall’emiciclo del pubblico sono passati: fatti d’Ungheria, Guerra Fredda, minaccia nucleare, disastri combinati dall’Occidente in Asia (a incominciare dal Vietnam) e in Medio Oriente, stragismo, terrorismo, povertà da ristrutturazioni industriali e delocalizzazione nei Paesi emergenti e poi nell’ex blocco sovietico.

E venne Tangentopoli, con effetti dirompenti sul piano dell’etica pubblica e degli assetti istituzionali. Costretti dal buio morale calato su Milano e dalle ripercussioni in tema di tenuta democratica dell’intero Paese, i partiti decimati dagli scandali ebbero un sussulto riformatore. Non toccarono l’impianto generale, spostando possibili modifiche della Costituzione su una Commissione Bicamerale (rinvio che paghiamo ancora oggi, alle prese con gli scontri sul “sì” e sul “no”: andrebbe ricordato a qualche leader ex Pci). La lezione di Mani Pulite finì nella riforma dei poteri locali che voleva riavvicinare politica e cittadini semplificando i meccanismi decisionali.

All’apparenza sembrò un intervento limitato: veniva introdotta l’elezione diretta dei sindaci. Fu invece una svolta ambivalente sotto il profilo della democrazia reale. Venivano poste le premesse perché i consigli comunali perdessero in rappresentatività e capacità di indirizzo politico, oltre che in termini di potere decisionale. Si finì per ridurre il confronto al momento del rinnovo dei consigli, con i partiti ridotti a comitati elettorali.

Lasciamo ad altra occasione un bilancio sulla riforma degli Enti Locali. Subito va data una risposta alla richiesta pressante di comprensione che viene dalle tragedie. È tangibile lo smarrimento emotivo che mette a rischio la tenuta in termini di psicologia sociale; disorienta lo squilibrio tra grandi sfide epocali e disegni aggressivi/difensivi di chi pensa a muri o con cinismo per un voto in più cavalca le paure; è inquietante l’afonia di energie culturali e intellettuali. Incalza la questione di individuare spazi attraverso cui la polis possa ritrovarsi e come nell’antica tragedia greca dare nome alla complessità degli umori e delle scelte, prendere coscienza, puntare sul cambiamento degli individui e del collettivo.

Riportare al centro la Casa comunale, nel senso proprio della “casa di tutti” non è un Amarcord. Si vuole invece tornare alle radici dell’esistenza umana, alla socialità, al senso di solidarietà, alla convivenza buona di uomini e di donne che si incontrano, si guardano negli occhi, si parlano, si ascoltano, cercano insieme di capire, di verificare la fondatezza delle proprie visioni del mondo in confronto alle difficoltà del tempo e alle speranze da offrire ai figli propri, alle generazioni, al vicino e allo sconosciuto che verrà perché tale è la direzione della storia.

I social sono importantissimi nella comunicazione, ma da soli non bastano a far crescere consapevolezza e democrazia. La grande utilità d’un loro uso corretto s’è vista proprio in occasione degli attentati. Come tutti i mezzi, però, in sé non sono né buoni né cattivi: il giudizio dipende dall’uso che se ne fa. E l’esperienza mostra come molte volte essi siano luoghi di affermazione di tanti “Io” isolati, che però non riescono a diventare un “Noi”. Abbiamo un gran bisogno di luoghi in cui radunarci, mettere in comune riflessioni argomentate, studiare, conoscere, approfondire, trovare dentro di noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali all’istinto di annientamento dell’altro, al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità.

Paolo Rodari intervista Jean-Louis Tauran, arciverscovo francese, ministro di papa Bergoglio per i rapporti con le altre religioni. «Serve soprattutto un'educazione che aiuti a comprendere che chi è differente da noi non è un nemico». La Repubblica, 27 luglio 2016

«Ieri è stato fatto un passo in più dentro l’abisso. Perché attaccare un luogo di culto e un suo ministro che sta celebrando messa, che altro non è che un ministro di pace, è una vigliaccheria che fa sprofondare nel nulla».
Jean-Louis Tauran, cardinale francese, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e uomo di fiducia di Francesco nei rapporti con l’Islam, è sgomento per l’escalation di violenza che sta colpendo l’Europa e la sua Francia, ma insieme è deciso nel condannare una follia «che porta alla distruzione».
Eminenza, come definirebbe coloro che ieri hanno attaccato la chiesa di Saint-Etienne- du-Rouvray?
«In generale coloro che commettono attentanti si autodefiniscono soldati, ma mi domando: che tipo di soldati sono? Non c’è risposta. Contro di loro occorre soltanto che noi credenti, tutti i credenti, torniamo a comportarci secondo quanto le religioni davvero insegnano. E la base di ogni insegnamento non è altro che l’amore, la convivenza fra diversi, la fratellanza».

Si può dire che l’Is fa parte dell’Islam?
«L’Islam insegna altro, ma qui non credo c’entri la religione. Non è giusto davanti a questi attentati parlare di religione. Si tratta di persone traviate che poco hanno a che fare con l’Islam stesso e con qualsiasi religione. Siamo davanti al nulla e portare tutto sul piano religioso non ha alcun senso».

Qual è la risposta adeguata a tutto ciò secondo lei?
«La risposta è sempre e comunque il dialogo, l’incontro. Per interrompere la catena infinita della ritorsione e della vendetta l’unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato. In sostanza, a mio avviso, dialogare significa andare all’incontro con l’altro disarmati, con una concezione non aggressiva della propria verità, e tuttavia non disorientati che è l’atteggiamento di chi pensa che la pace si costruisce azzerando ogni verità».
Non c’è altra strada?
«Assolutamente no. Siamocondannati al dialogo».
Il dialogo può portare anche al martirio?
«Purtroppo sì. La Chiesa ha sempre subìto il martirio. È una possibilità reale, seppure resti una possibilità ben triste».

Non ritiene che l’Islam debba prendere le distanze da questi attentati?
«Credo che lo farà. Occorre aspettare perché sarà interessante vedere cosa sarà detto. Comunque, tornando a quanto dicevamo prima, credo che oltre al dialogo vi sia anche un’altra strada».

Quale?
«Lo ripeto sempre e non mi stancherò mai di farlo: l’educazione. Occorre un’educazione che parta dalla giovane età. È il primo e inevitabile strumento per contrastare qualsiasi tipo di estremismo e di follia omicida. Se alle origini dell’esistenza, nella giovane età, educhiamo all’amore tutto sarà diverso. È un lavoro lungo e dispendioso, ovviamente, eppure assolutamente necessario».

L’educazione deve portare a convivere con chi la pensa diversamente da noi?
«Certamente. L’educazione serve a comprendere che chi è differente da noi non è un nemico. E questa consapevolezza deve valere per tutti. Il rischio di non comprendere questa semplice verità, infatti, appartiene a tutti».

Fra Benedetto XVI e Francesco nota divergenze sul modo di rapportarsi con l’Islam?
«Sono uguali nel loro intendere i rapporti interreligiosi. Vedo assoluta convergenza fra i due. Ed è doveroso ricordarlo proprio oggi».

«La paura generata da questa situazione di insicurezza si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. Occorre sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura».

Corriere della Sera, 26 luglio 2016 (c.m.c.)

Quella a cui stiamo assistendo - in modo così prossimo e sconvolgente, nelle ultime settimane - è un’epoca segnata «dalla paura e dall’incertezza. E non bisogna illudersi: i demoni che ci perseguitano non evaporeranno». Anche perché - spiega il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei grandi pensatori della sfuggente modernità in cui viviamo - la loro origine ha a che fare con gli stessi elementi costitutivi della nostra società e delle nostre vite.

Professor Bauman, di fronte alla catena di attacchi di questi giorni, l’Europa si trova a fare i conti con un abisso di paura e di insicurezza. Quali risposte possono colmarlo?
«Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale.

«La paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. E quella paura cerca un obiettivo su cui concentrarsi. Un obiettivo concreto, visibile e a portata di mano».

Un obiettivo che molti individuano nel flusso di profughi e migranti. «Molti di loro provengono da una situazione in cui erano fieri della propria posizione nella società, del loro lavoro, della loro educazione. Eppure ora sono rifugiati, hanno perso tutto. Al momento del loro arrivo entrano in contatto con la parte più precaria delle nostre società, che vede in loro la realizzazione dei loro incubi più profondi».

Di fronte a questa sfida, si moltiplicano i richiami da parte di alcune forze politiche alla costruzione di nuovi muri. Si tratta di una risposta sensata?
«Credo che si debba studiare, memorizzare e applicare l’analisi che papa Francesco, nel suo discorso di ringraziamento per il premio Charlemagne, ha dedicato ai pericoli mortali della “comparsa di nuovi muri in Europa”. Muri innalzati - in modo paradossale, e in malafede - con l’intenzione e la speranza di mettersi al riparo dal trambusto di un mondo pieno di rischi, trappole e minacce.

«Il Pontefice nota, con preoccupazione profonda, che se i padri fondatori dell’Europa, “messaggeri di pace e profeti del futuro”, ci hanno ispirato nel “creare ponti, e abbattere muri”, la famiglia di nazioni che hanno promosso sembra ultimamente “sempre meno a proprio agio nella casa comune. Il desiderio nuovo, ed esaltante, di creare unità sembra svanire; noi, eredi di quel sogno, siamo tentati di soffermarci solo sui nostri interessi egoistici, e di creare barriere”».

Nei suoi studi, lei ha indicato come valori fondativi delle nostre società la libertà e la sicurezza: dopo un’epoca in cui, per far crescere la prima, abbiamo progressivamente rinunciato alla seconda, ora il pendolo sta invertendo il suo corso. Quali riflessi politici ne derivano?
«Di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di “uomini forti”, che promettono — in modo irresponsabile, ingannevole, roboante — di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. “Lasciate fare a me, fidatevi di me”, dicono, “e io risolverò le cose”. In cambio, chiedono un’obbedienza incondizionata».

Sembra quello che sta proponendo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, le cui posizioni su sicurezza e immigrazione sono state di recente indicate dal presidente ungherese Viktor Orban come modelli anche per l’Europa...

«Quella a cui stiamo assistendo è una tendenza preoccupante: istanze di tipo sociale, come appunto l’integrazione e l’accoglienza, vengono indicate come problemi da affidare a organi di polizia e sicurezza. Significa che lo stato di salute dello spirito fondativo dell’Unione Europea non è in buona salute, perché la caratteristica decisiva dell’ispirazione alla base dell’Ue era la visione di un’Europa in cui le misure militari e di sicurezza sarebbero divenute — gradualmente, ma costantemente — superflue».

L’Islam è indicato da alcune forze politiche — ad esempio, la tedesca Pegida — come una fede intrinsecamente violenta, incompatibile con i valori occidentali. Che ne pensa?
«Bisogna assolutamente evitare l’errore, pericoloso, di trarre conclusioni di lungo periodo dalle fissazioni di alcuni. Certo: come ha detto il grandissimo sociologo tedesco Ulrich Beck, al fondo della nostra attuale confusione sta il fatto che stiamo già vivendo una situazione “cosmopolita” — che ci vedrà destinati a coabitare in modo permanente con culture, modi di vita e fedi diverse — senza avere compiutamente sviluppato le capacità di capirne le logiche e i requisiti: senza avere, cioè, una “consapevolezza cosmopolita”. Ed è vero che colmare la distanza tra la realtà in cui viviamo e la nostre capacità di comprenderla non è un obiettivo che si raggiunge rapidamente. Lo choc è solo all’inizio».

Siamo destinati quindi a vivere in società nelle quali il sentimento dominante sarà quello della paura?
«Si tratta di una prospettiva fosca e sconvolgente, ma attenzione: quello di società dominate dalla paura non è affatto un destino predeterminato, né inevitabile. Le promesse dei demagoghi fanno presa, ma hanno anche, per fortuna, vita breve. Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati, diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza.

«I demoni che ci perseguitano — la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto — non evaporeranno, né scompariranno. A quel punto potremmo risvegliarci, e sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arringatori e arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura, portandoci fuori strada. Il timore è che, prima che questi anticorpi vengano sviluppati, saranno in molti a vedere sprecate le proprie vite».

Lei ha sostenuto che le possibilità di ospitalità non sono senza limiti, ma nemmeno la capacità umana di sopportare sofferenza e rifiuto lo è. Dialogo, integrazione ed empatia richiedono però tempi lunghi...
«Le rispondo citando ancora una volta papa Francesco: “sogno un’Europa in cui essere un migrante non sia un crimine, che promuove e protegge i diritti di tutti senza dimenticare i doveri nei confronti di tutti. Che cosa ti è accaduto, Europa, luogo principe di diritti umani, democrazia, libertà, terra madre di uomini e donne che hanno messo a rischio, e perso, la propria vita per la dignità dei propri fratelli?”.

Queste domande sono rivolte a tutti noi; a noi che, in quanto esseri umani, siamo plasmati dalla storia che contribuiamo a plasmare, consapevolmente o no. Sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle».

«Siamo un paese di immigrazione e la Cdu per troppo tempo lo ha negato. L’ideologia del Califfato offre un’illusione consolatoria a chi si sente spaesato»

La Repubblica, 26 luglio 2016 (c.m.c.)

La Germania è sotto shock. Negli ultimi anni non avevamo mai sperimentato una serie di attentati di una tale violenza. Eravamo nel mirino dello Stato islamico come gli altri Paesi occidentali, ma in confronto a Francia e Belgio eravamo stati risparmiati, grazie a una partecipazione molto cauta alla guerra contro l’Is.

Ora questo “privilegio” è storia passata. Tutti i tedeschi hanno ormai la percezione che ogni giorno qualcuno potrebbe uccidere anche qui. Dopo l’attentato di venerdì scorso a Monaco di Baviera pure opera di uno squilibrato - la polizia ha ricevuto oltre 4mila segnalazioni e ha dovuto rispondere a ognuna di esse. La città, dalla stazione centrale ai mezzi pubblici, era paralizzata. I cittadini erano in preda al panico. Erano tutti convinti che ci fosse un attentatore vicino a loro. Tutto ciò rende la misura di quanto sia facile per il terrorismo immobilizzare una città grande come Monaco.

Ora si cerca di capire cosa sia successo, di scavare nei dettagli. Gli attentati di Wuerzburg, Monaco, Reutlingen e ora Ansbach sono tutti abbastanza diversi, è vero, ma ci si deve chiedere che senso abbia distinguere tra un attentato ispirato dallo Stato islamico e un altro causato da una individuale condizione patologica.

Ovviamente lo Stato islamico è pronto ad appropriarsi del gesto di qualsiasi folle killer. Solo un’ideologia violenta e tremenda come quella che oggi offre lo Stato islamico può portare un giovane piccolo criminale, come erano alcuni dei recenti attentatori, a diventare killer di massa. Non importa che siano donne, vecchi o bambini. Infatti, quest’ideologia islamofascista ha creato un modello, quasi uno standard, che ispira gli attentatori di provenienza musulmana.

L’ideologia dello Stato islamico offre l’illusione di partecipare a un gran momento storico, alla ricostruzione del Califfato che punisce gli infedeli. Ciò non vuol dire che gli attentatori siano militanti attivi dell’Is, ma che l’Is alimenta un clima di violenza dove gli atti di esecuzione di massa diventano normali.

Anche i media hanno un ruolo importante nel causare quest’effetto valanga di attentati a catena. Una volta chiesi a un attentatore del “movimento berlinese del 2 giugno” (il gruppo terrorista anarchico nato negli Anni Sessanta in memoria dello studente Benno Ohnesorg, ucciso da un agente di polizia durante le proteste a Berlino Ovest contro l’arrivo dello Scià di Persia), quale sarebbe stato lo strumento più efficace contro il terrorismo. Mi rispose senza un momento di esitazione: vietare di scriverne sui giornali.

Certo, in un Paese democratico, non possiamo seguire questa raccomandazione, ma in un certo senso aveva ragione. Perché tutti questi folli responsabili di attentati hanno una cosa in comune: vogliono diventare famosi, vogliono avere una grande scena sul palcoscenico del mondo. Non possiamo ignorare – per “correttezza politica“ – che gli attentatori di Wuerzburg, Monaco, Reutlingen e Ansbach erano tutti migranti provenienti da Paesi musulmani.

Ed è un fatto che non può che cambiare inevitabilmente la percezione dei migranti musulmani. Il ventisettenne siriano che ieri sera si è fatto esplodere nel centro di Ansbach aveva presentato richiesta di asilo in Germania. Gli era stata respinta un anno fa. Le autorità gli avevano comunque consentito di rimanere in Germania a causa della guerra in Siria. In Germania vi sono 140mila casi simili, cioé, richiedenti asilo la cui domanda è stata rifiutata.

E ora molti si chiederanno perché vivono ancora qui, perché il governo non li ha ancora espulsi. E il partito di estrema destra Afd (Alternativa per la Germania, in tedesco Alternative für Deutschland) cavalcherà questi eventi.

Bisogna però evitare che la risposta agli attentati sia un clima di diffidenza nei confronti dei migranti. I responsabili di uccisioni sono solo una minima percentuale dei rifugiati arrivati con la recente ondata d’immigrazione. Un parte degli attentatori erano persone cresciute qui, ma che non hanno trovato lavoro o non sono riuscite a integrarsi. Il loro retroterra musulmano culturale è in conflitto con la cultura occidentale da decenni. E in un momento di crisi esistenziale si chiedono: ma a chi appartengo, a questo mondo occidentale corrotto o alla grande comunità dell’Islam, da cui provengo? È allora che trovano rifugio nell’ideologia del Califfato.

L’unico modo di rispondere al terrorismo è l’integrazione. La Germania è un Paese di migranti, ma la Cdu, il partito della democrazia cristiana, lo ha negato per troppo tempo. L’ex cancelliere Helmut Kohl nel 2002 disse distintamente: «Non siamo un Paese di immigrati ». Non è vero, lo siamo da quarant’anni, ma il governo ha attuato politiche in materia in ritardo. Le scuole, ad esempio, hanno iniziato a offrire corsi di lingua tedesca a immigrati solo da un paio d’anni. Troppo tardi. Una cosa è certa. Se non promuoveremo l’integrazione di questi giovani uomini senza orientamento, avremo molti più attentati.

Il Fatto Quotidiano online, 24 luglio 2016 (p.d.)

Dopo le violenze in Turchia l’eurodeputata Barbara Spinelli ha promosso un appello internazionale per chiedere ai rappresentanti delle istituzioni europee di vigilare sulla situazione interna al Paese sconvolto dalla repressione delle opposizioni, delle minoranze e delle libertà civili innescata da Erdogan il golpe militare sventato il 15 luglio. La lettera, sottoscritta da importanti di accademici (Varoufakis, Etienne Balibar, e tanti altri) più un certo numero di parlamentari europei, è indirizzata a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e al direttore generale del Consiglio d’Europa a Thorbjørn Jagland. Ecco il testo.

Gentile Alto Rappresentante /Vice Presidente Federica Mogherini,
Gentile Segretario Generale Thorbjørn Jagland,

Venerdì 15 luglio la Turchia è stata vittima di un tentativo di colpo di stato che ha provocato più di 200 vittime, per la maggior parte civili, e più di 1400 feriti. Subito dopo, il Governo turco ha avviato un’epurazione su larga scala e del tutto sproporzionata in seno all’apparato statale. Dal giorno in cui ha avuto luogo il fallito colpo di stato, fino al 20 luglio 2016, il numero complessivo di epurazioni (sospensione dagli incarichi e arresti) nel servizio pubblico ammonta a più di 61.000 persone. Le purghe hanno colpito in particolare i seguenti settori: ministero della Giustizia (2.875 giudici e pubblici ministeri); Ufficio del Primo ministro (257 dipendenti); ministero degli Affari interni (8.777 agenti di Polizia, Gendarmeria, governatori di distretti provinciali, governatori locali e personale); ministero dell’Istruzione nazionale (21.738 dipendenti sospesi); Consiglio dell’Educazione Superiore (116 professori, compresi 4 rettori, più 1.577 presidi di facoltà cui è stato chiesto di dimettersi); ministero della Famiglia e delle Politiche sociali (393 impiegati statali); ministero delle Finanze (1.500 dipendenti); Agenzia di Intelligence nazionale (100 dipendenti); Autorità di Regolamentazione del Mercato energetico (25 dipendenti); ministero dello Sviluppo (16 dipendenti); ministero delle Foreste e delle Risorse idriche (197 dipendenti); ministero dell’Energia e delle Risorse naturali (300 dipendenti); ministero dello Sport e della Gioventù (245 dipendenti); ministero dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione (70 dipendenti); Consiglio supremo per Radio e Tv (29 dipendenti); Agenzia di Regolazione e Supervisione bancaria (86 dipendenti); ministero del Commercio e delle Dogane (176 dipendenti); Autorità garante della Concorrenza (8 dipendenti); Corte militare d’Appello (35 dipendenti); ministero della Difesa (7 dipendenti); Borsa di Istanbul (51 dipendenti).

É stata revocata la licenza di insegnamento a 21.000 docenti di scuole private.

É probabile che i prossimi saranno gli accademici. Migliaia di universitari erano già sotto inchiesta, con l’accusa di “dare sostegno” alle attività terroristiche, per aver difeso la popolazione curda nel Sud-Est della Turchia, sottoposta nel corso dell’ultimo anno a un attacco esteso e letale da parte delle forze regolari turche.

Secondo numerose fonti – tra queste il Commissario europeo per la Politica di vicinato e i Negoziati per l’allargamento Johannes Hahn – la lista delle persone da arrestare era già pronta prima che iniziasse il colpo di stato. Alcune di queste fonti asseriscono che il colpo di stato è stato messo in atto come extrema ratio contro tali liste.

Il Primo ministro turco ha sospeso le ferie di più di tre milioni di dipendenti pubblici in tutto il Paese, e ai dipendenti del settore pubblico è stato vietato di viaggiare all’estero. Inoltre, secondo un’intervista rilasciata alla CNN il 18 luglio 2016, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non ha escluso la possibilità di ripristinare la pena di morte nel Paese. Nel frattempo, il Governo ha dichiarato lo stato d’emergenza e la sospensione temporanea della Convenzione europea dei Diritti umani, come consentito dall’articolo 15 CEDU. Questo articolo non permette però di venir meno al rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla Convenzione.

Non esiste più, in conclusione, un sistema di pesi e contrappesi. Secondo alcuni resoconti, le persone messe sotto custodia non riescono a trovare avvocati difensori, perché nessuno si esporrebbe al rischio di difenderle e di entrare così a far parte della lista delle epurazioni.

La Turchia è firmataria della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e del Protocollo n. 6 della CEDU riguardante l’abolizione della pena di morte. Come Paese candidato all’adesione all’UE, la Turchia si è anche impegnata al pieno rispetto dei criteri di Copenhagen, tra cui la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze, oltre all’abolizione della pena capitale.

Noi, firmatari di questa lettera, condanniamo ogni tentativo di rovesciare l’ordinamento democratico attraverso colpi di stato militari. Al tempo stesso, tuttavia, condanniamo le purghe attuate dal Governo turco in violazione dei diritti umani e dello stato di diritto. Il principio di indipendenza e d’imparzialità del potere giudiziario – insieme alla libertà dei media – è alla base dello stato di diritto e della democrazia. L’indipendenza politica dei corpi insegnanti fa parte delle condizioni di esistenza di una società libera.

Chiediamo all’Alto Rappresentante / Vice Presidente Federica Mogherini, così come al Segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland, di seguire da vicino la situazione in Turchia per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, e chiediamo di esigere l’immediata liberazione di tutti coloro che sono stati arbitrariamente arrestati e detenuti a seguito del fallito colpo di stato militare.

Ricordiamo il recente disegno di legge adottato dal Parlamento turco che revoca l’immunità dai procedimenti giudiziari per 138 parlamentari, appartenenti per lo più al partito di opposizione HDP e alla minoranza curda. Tutto sembra suggerire che il colpo di stato offra al Governo turco l’occasione di limitare ulteriormente il ruolo delle opposizioni e la loro funzione di vigilanza democratica. Poco dopo il suo arrivo a Istanbul, la mattina del 16 luglio, Erdogan ha affermato: “Questa insurrezione è un dono di Allah, perché ci consentirà di ripulire le forze armate”.

Chiediamo quindi all’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini di esaminare la situazione, prestando particolare attenzione alla condizione della minoranza curda e delle altre minoranze nel Paese. Esortiamo allo stesso modo il Segretario Generale Thorbjørn Jagland, perché ricordi al Governo turco l’obbligo di rispettare la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e tutti i suoi Protocolli, che comprendono il diritto alla vita, al giusto processo, alla protezione da arresti arbitrari.

Sollecitiamo inoltre l’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini affinché chieda al Consiglio europeo di sospendere immediatamente l’accordo UE-Turchia firmato il 18 marzo 2016, alla luce dei recenti sviluppi e in considerazione del fatto che già al momento della firma dell’accordo la Turchia non era un “paese sicuro” per rifugiati e richiedenti asilo.

Infine chiediamo a tutti gli Stati membri dell’UE di impegnarsi con forza presso il Governo turco affinché nel Paese siano pienamente ristabiliti lo stato di diritto e i principi democratici, come condizione essenziale per futuri rapporti diplomatici e per la continuazione dei negoziati di adesione. Con i migliori saluti,

Barbara Spinelli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Albena Azmanova – Professore associato in Political and Social Thought, University of Kent, Brussels School of International Studies, UK
Étienne Balibar – Filosofo, Professore Emerito presso l’Université de Paris-Ouest, Francia, e Anniversary Chair in Modern European Philosophy, Kingston University London, UK
Seyla Benhabib – Eugene Mayer Professor in Political Science and Philosophy, Yale University, USA
Sophie Bessis – Storica, ricercatrice presso l’Institut de relations internationales et stratégiques di Parigi, Francia e Tunisia
Hamit Bozarslan – Storico e politologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Susan Buck-Morss – Filosofa politica, CUNY Graduate Center, NYC, USA
Judith Butler – Maxine Elliot Professor in Comparative Literature and Critical Theory, University of California, Berkeley, USA
Claude Calame – Storico e antropologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Joseph H. Carens – FRSC Professor in Political Science, University of Toronto, Canada
Maeve Cooke – Membro della Royal Irish Academy, MRIA School of Philosophy, University College Dublin, Irlanda
Vincent Duclert – Storico, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Didier Fassin – Professore in Social Sciences, Institute for Advanced Study, Princeton, USA
Éric Fassin – Professore in Sociologie, Université de Paris-8, Francia
Shelley Feldman – International Professor, Cornell University, USA
Michael Hardt – Professor, Duke University, USA
David Harvey – Distinguished Professor, Graduate Center of the City University of New York, USA
Marianne Hirsch – William Peterfield Trent Professor in English and Comparative Literature e Direttrice dell’Institute for Research on Women, Gender, and Sexuality, Columbia University, USA
Philip Hogh – Philosophy Department, Carl von Ossietzky University Oldenburg, Germania
Jean E. Howard – George Delacorte Professor in Humanities, Department of English and Comparative Literature, Columbia University, USA
Julia Koenig – Institute for Social Pedagogy and Adult Education, Goethe University, Frankfurt am Main
Elena Loizidou – Reader in Law and Political Theory at School of Law, Birkbeck, University of London, UK
Sandro Mezzadra – Professore di Teoria politica, Università di Bologna, Italia
Jennifer Nedelsky – Faculty of Law and Political Science, University of Toronto, Canada
Rosalind Petchesky – Distinguished Professor Emerita in Political Science, Hunter College & the Graduate Center, City University of New York, USA
Ilaria Possenti – Dipartimento di Scienze umane, Università di Verona, Italia
Mary Louise Pratt – Silver Professor, Professor Emerita of Social and Cultural Analysis, Spanish & Portuguese, Comparative Literature, New York University, USA
Lynne Segal – Anniversary Professor, Psychosocial Studies, Birkbeck College, University of London, UK
Vicky Skoumbi – Caporedattore del quotidiano αληthεια (Aletheia), Grecia
Céline Spector – Professore, Department de Philosophie Université Bordeaux Montaigne e membro onorario Institut Universitaire de France, Francia
Yanis Varoufakis – Professore in Economic Theory presso l’Università di Atene, ex-ministro delle Finanze e deputato del Parlamento greco, Grecia
Frieder Otto Wolf – Freie Universität Berlin, ex-deputato del Parlamento europeo, Germania
Vladimiro Zagrebelsky – ex Giudice della Corte Europea dei Diritti Umani
François Alfonsi – Presidente dell’European Free Alliance (EFA)
Brando Benifei – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
José Bové – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Nicola Caputo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Fabio Massimo Castaldo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Fabio De Masi – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Karima Delli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Pascal Durand – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
José Inácio Faria – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Eleonora Forenza – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
María Teresa Giménez Barbat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Ana Maria Gomes – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tania González Peñas – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Yannick Jadot – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Benedek Jávor – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Eva Joly – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Josu Juaristi Abaunz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Jude Kirton-Darling – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Stelios Kouloglou – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Merja Kyllönen – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Patrick Le Hyaric – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Paloma López Bermejo – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Lorena Lopez de Lacalle – Tesoriere della Treasurer European Free Alliance (EFA)
Marisa Matias – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Stefano Maullu – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo del Partito Popolare Europeo (PPE)
Marlene Mizzi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Ulrike Müller – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Javier Nart – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Carolina Punset – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Michèle Rivasi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Sofia Sakorafa – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Elly Schlein – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Helmut Scholz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Branislav Škripek – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR)
Jordi Sole – Segretario generale della European Free Alliance (EFA)
Bart Staes – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Dario Tamburrano – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Miguel Urbán Crespo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Pello Urizar – Segretario Generale di Eusko Alkartasuna (Basque political party)
Ernest Urtasun – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Monika Vana – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Marie-Christine Vergiat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Julie Ward – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tatjana Ždanoka – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE

Comune-info

Luglio 2001, Luglio 2016. Quindici anni, esattamente. Quasi maggiorenne. In questi giorni scorre tanto inchiostro su uno degli anniversari più strani della nostra Repubblica, quello delle giornate di Genova del 2001. Ne gettiamo un po’ anche noi, per non essere da meno. Ma non è facile: non è facile trovare parole originali, analisi nuove, scrivere qualcosa di non retorico, evitare di ripetere pensieri altrui.

Una cosa mi sembra necessario evidenziare o ribadire: il movimento “no-global” (perché di movimento si trattò: il movimento, secondo me, è uno, oppure non è. Oggi molti parlano di movimenti, al plurale, ma credo sia un errore; non a caso non esiste una protesta globale semi-organizzata come quella di quindici anni fa. Ma ne ripareleremo), dicevo il movimento no-global aveva ragione. Sì, aveva proprio ragione, lapalissiana.

Le analisi erano corrette, le proposte ragionevoli e, se messe in pratica, probabilmente efficaci. Contro la finanziarizzazione dell’economia (vi ricordate Attac e la Tobin Tax?), contro le politiche delle multinazionali (i boicottaggi), contro il neoliberismo, per la partecipazione democratica reale (Porto Alegre e il bilancio partecipativo!), contro le politiche della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale (come la mettiamo con la Grecia di oggi?), per la pace, per il consumo critico, per il software libero, contro la globalizzazione commerciale sregolata.

Come si fa a dire che il movimento non avesse ragione e non avesse le ragioni per protestare, organizzarsi, alzare la voce? E non si tratta del senno di poi. Come mi è stato efficacemente detto, “il senno di poi è quello di chi legge i fatti di oggi alla luce delle loro premesse, mentre il movimento anticipava questo futuro, sebbene ne volesse proprio un altro”. Quindi non di senno di poi si tratta, ma di un te l’avevo detto. In ogni caso, qualcuno potrebbe pensare che è facile dare ragione, oggi, al movimento: c’è la crisi e l’austerità, le guerre e il terrorismo in franchising, Trump che forse arriva, Erdogan che ramazza la Turchia, neri ammazzati per strada da fascisti (nelle Marche!), i treni che si scontrano, la disoccupazione, la precarietà e le aziende che chiudono, i politici che rubano, il referendum e la legge elettorale che non va, il caldo, gli smartphone che si scaricano subito, il vicino che rompe, il traffico, le zanzare, “le cavallette”, come direbbe John Belushi…

Voglio dire, sembra facile affermare che i no-global avessero ragione visto come va il mondo oggi, vista l’insofferenza dilagante, l’insoddisfazione imperante, la frustrazione, la fragilità di tante teste, il rancore generalizzato, l’incattivimento. Viste quali sono le emozioni, le passioni, le sensazioni dominanti, direi quasi mainstream. Vista la paura che ci domina e ci permea, questo grande timore senza una forma ben specifica che ci attanaglia e tira fuori il peggio di noi.

Basta farsi una fila in un qualunque ufficio pubblico che funzioni neanche male, ma così-così, prendere la macchina anche non nelle ore di punta o un autobus pieno anche solo per metà. I cosiddetti “discorsi della gente”. Beh, io credo che i “discorsi della gente” di oggi possano essere del tutto collegati al 2001 e ai no-global che avevano ragione. Che proponevano una vita diversa, un sistema diverso, oltre la paura.

E allora torniamo al 2001. Torniamo a dire che un altro mondo è possibile. A leggere No logo di Naomi Klein, che è un libro splendido. A crederci, a pensare a un mondo migliore, così, banalmente detto, a non avere paura. A tirare fuori le nostre energie, le nostre intelligenze, i nostri saper-fare, le nostre passioni più belle, quelle che ci fanno camminare con il mento un po’ più in su e lo sguardo più deciso. Quelle che ci fanno sentire individui con dignità, quasi con fierezza.

I no global avevano ragione. E sì, un altro mondo è possibile. Facciamo in modo che quindici anni non siano passati invano. Riprendiamo in mano il testimone di quel movimento, proprio quello, il suo spirito, la sua spinta a cambiare, il suo metodo, il suo entusiasmo, il suo coraggio, i suoi sguardi larghi e lunghi, le sue parole più belle, i suoi colori. Non lasciamo che i manganelli della Diaz e le perquisizioni anali della Bolzaneto ce lo scippino per sempre, quel testimone.

Prima o poi, per il referendum costituzionale voteremo. Forse. Giunge notizia di una tesi che potrebbe farci dubitare. La Cassazione ha dichiarato ammissibili le richieste referendarie presentate dai parlamentari in data 6 maggio 2016. Secondo la legge 352/1970 il referendum viene indetto entro i 60 giorni successivi. Quindi il termine, se dovesse farsi decorrere dal 6 maggio, sarebbe ampiamente scaduto. Dando luogo ad almeno due domande: può essere indetto un referendum oltre il termine di legge? E se non fosse più possibile indirlo, che ne sarebbe della legge Renzi-Boschi?
Una tesi insostenibile. Anzitutto, come ho già scritto su queste pagine, la presentazione da parte di un comitato promotore della richiesta di raccogliere 500 mila firme apre la via al termine di tre mesi per la raccolta. La richiesta è stata nella specie presentata prima che i parlamentari presentassero la propria. L’iniziativa dei parlamentari non incide sulla richiesta del comitato promotore. Le norme vigenti pongono sullo stesso piano le tre possibili richieste referendarie: popolo, parlamentari, consigli regionali. Non c’è alcun criterio di supremazia gerarchica o di priorità.

Se l’iniziativa dei parlamentari non azzera quella di un comitato promotore, tanto meno può produrre questo effetto la pronuncia della Cassazione sull’iniziativa medesima. La pronuncia della Corte è meramente strumentale al prosieguo del procedimento per quanto riguarda la specifica richiesta. Quello che conta è il diritto garantito ai soggetti promotori dalla Costituzione e dalla legge. E quindi per l’indizione del referendum non può non tenersi conto dei tre mesi previsti per la raccolta delle 500 mila firme.

D’altra parte, se volessimo ritenere perentorio e scaduto il termine per l’indizione del referendum, ne verrebbe l’impossibilità di indirlo. La mancanza del voto popolare avrebbe come conseguenza inevitabile che la legge Renzi-Boschi non vedrebbe mai la luce. Ai sensi dell’art. 138 Cost. la legge di revisione approvata a maggioranza assoluta dei componenti è promulgata ed entra in vigore, qualora venga chiesto il referendum, solo a seguito di un voto popolare positivo. Se il voto è negativo, questo effetto non si produce. Lo stesso ovviamente accadrebbe se il voto mancasse del tutto. Possiamo discutere sulla qualificazione giuridica, Ma la riforma non esisterebbe come tale.

Lasciamo perdere. E pensiamo al da farsi per il voto che ci sarà, quando farà comodo al governo. La raccolta delle firme sui referendum istituzionali – legge Renzi-Boschi e Italicum – non ha avuto successo, ma ha comunque mobilitato centinaia di migliaia di persone, e ha fatto nascere un gran numero di comitati locali in tutto il paese. È su queste forze che dovremo contare nella campagna che sta per iniziare.

Va detto però che una campagna per la raccolta delle firme è cosa ben diversa da quella per il voto referendario. La persona che viene a un banchetto per firmare è già almeno in parte informata, o è disposta ad ascoltare e informarsi. Si ha la possibilità di argomentare le proprie ragioni e di controbattere quelle degli avversari. C’è un contatto ravvicinato che si conclude con la firma. Tutto questo in larga misura viene meno nella campagna elettorale in senso stretto. Nel 2006 votarono sulla riforma del centrodestra oltre 25 milioni di italiani (il 53,84% degli aventi diritto), e i no furono oltre 15 milioni (61,64%). Con una platea così vasta già sappiamo che non è il fine argomento giuridico a dare la vittoria. Non illudiamoci che possa far presa oltre una cerchia comunque relativamente ristretta l’illustrazione delle aporie, delle contraddizioni, delle omissioni, degli errori tecnici e di scrittura. Soprattutto quando dall’altra parte vengono argomenti rozzi che strizzano l’occhio all’antipolitica.

E allora? Bisogna far passare il messaggio che difendere la Costituzione conviene, è utile nel vivere quotidiano. Difendere la Costituzione non per il ricordo di ieri, ma per i bisogni di oggi. Partendo dalla constatazione che l’attacco è già cominciato con la riduzione dei diritti che la Costituzione garantisce – lavoro, salute, istruzione, ambiente – e la crescita esponenziale delle diseguaglianze. Le riforme in campo sono volte a consolidare e perpetuare le fratture sociali, economiche, territoriali, mettendo il bavaglio al dissenso e riducendo oltre ogni ragionevole misura la rappresentatività delle assemblee elettive. Puntano a un governo oligarchico e autoreferenziale, espressione di una minoranza che non sarà certo dalla parte dei più deboli. La vittoria del no può capovolgere questo indirizzo e aprire vie nuove per la politica italiana. La domanda è: Volete esserci e contare, tutti i giorni, e non un solo giorno ogni cinque anni, in cui votate per mettere i vostri diritti di cittadinanza in mano a chi comanda?

© 2025 Eddyburg