Il Fatto Quotidiano online, blog di Fabio Marcelli, 7 agosto 2016 (c.m.c.)
Con un rapporto pubblicato recentemente, due organismi attivi sul campo della raccolta d’informazione in ordine a corruzione e traffici internazionali, il Birn (Balkan Investigative Reporting Network) e l’Occrp (Organized Crime and Corruption Reporting Project) hanno denunciato un traffico d’armi del valore di ben 1,2 miliardi di euro verso il Medio Oriente e il Nordafrica.
Si tratta di armi e munizioni provenienti da Paesi dell’Est europeo quasi tutti membri della Nato (Croazia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Bulgaria, Romania Bosnia-Erzegovina, Montenegro) e dirette verso Paesi medio- orientali (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia).
Ma destinatari finali del traffico sono gruppi armati operanti in Siria, Libia ed Yemen, tra i quali il famigerato Isis ed altre formazioni fondamentaliste.Il rapporto in questione fornisce informazioni dettagliate sui vettori del traffico (compresa la Marina militare statunitense) e la sua entità e composizione (tanto per fare un esempio 10.000 kalashnikov e 300 tanks forniti all’Arabia Saudita).
Altra circostanza degna di nota è che il traffico in questione si sia sviluppato soprattutto a partire dal 2012, in coincidenza con gli eventi noti come “primavera araba”. Il ruolo di distribuzione degli armamenti e delle munizioni in loco è svolto da centri noti come Military Operations Center (MOC) e formati da personale militare e dei servizi di Turchia, Paesi del Golfo, Giordania e Stati Uniti. Secondo Robert Stephen Ford, ambasciatore statunitense in Siria dal 2011 al 2014, anche la CIA è direttamente coinvolta, ma la decisione finale su chi possa ricevere armamenti è riservata ai Paesi direttamente impegnati nel rifornire i gruppi armati. Lo Special Operations Command (SOCOM) del Dipartimento di Difesa statunitense ha operato a sua volta ingenti trasferimenti di armi e munizioni ai gruppi impegnati nella guerra civile siriana.
Vale la pena di sottolineare come i due organismi autori del rapporto menzionato siano delle reti investigative di giornalisti indipendenti. Sarebbe del resto stato illusorio aspettarsi che i governi, che sono i principali colpevoli di questo traffico totalmente illegale, fornissero al riguardo alcun elemento.
L’opinione pubblica è lasciata nel buio più totale e chiedere ad enti che istituzionalmente dovrebbero vegliare alla sicurezza nazionale e internazionale di muoversi per bloccarlo sarebbe come chiedere alla Rai di Campo Dall’Orto di svolgere un’informazione completa e obiettiva sul referendum costituzionale
Dobbiamo apprezzare la sincerità del ministro serbo Vucic quando afferma di “adorare” le esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita. Nella consapevolezza tuttavia che la presenza di personaggi del genere al vertice degli Stati avvicina notevolmente l’estinzione del genere umano e produce violazioni dei diritti e sofferenze inaudite.Dobbiamo peraltro riflettere sul meccanismo che è stato posto in atto e che rischia di ricevere ulteriore slancio dall’escalation dei bombardamenti occidentali in Libia ai quali, sia pure in veste come sempre subalterna, è associato anche il nostro Paese.
Il meccanismo in questione consiste nella sostanza in questo, con una mano si riforniscono i vari gruppi più o meno terroristici operanti nei Paesi menzionati, di armamenti di ogni genere e con l’altra li si bombarda quando conviene farlo o perché diventano troppo pericolosi. Lo si vede attualmente in Libia, laddove i bombardamenti sono direttamente funzionali al sostegno di un governo non troppo dotato di sostegno popolare come quello di Al Sarraj, nel contesto anche di dinamiche di conflittualità interna tra potenze imperialiste tutte fortemente interessate ai giacimenti libici (la Francia, principale responsabile dell’attuale situzione di caos nel Paese, sostiene Haftar contro Al Sarraj).
Certamente formazioni come Isis vanno estirpate anche con il ricorso alla forza armata ma non ha certo senso a tale scopo armarli fino ai denti come hanno fatto e continuano a fare i Paesi menzionati. Ci vuole inoltre un progetto politico che sembra totalmente assente in Libia, mentre in Siria comincia a delinearsi quello della riorganizzazione del Paese su base federale esemplificato dal governo della Rojava. Andrebbe potenziato il ruolo del Consiglio di Sicurezza che ha emanato al riguardo la risoluzione 2259, superando le tendenze alla ripresa all’unilateralismo esemplificate dalla decisione statunitense.
La nostra mediocre classe politica, rappresentata da personaggi chiaramente non all’altezza della situazione come Renzi, Gentiloni, Pinotti e Mogherini, continua a barcamenarsi. Per tutto un periodo ha giustamente rifiutato (almeno a parole) un impegno diretto nel sanguinoso pasticcio libico, ma senza riuscire ad elaborare alcuna posizione degna di questo nome, tanto è vero che oggi accorre scodinzolando all’irresistibile richiamo dei padroni di sempre.
L’Italia, in omaggio al suo ruolo di potenza mediterranea, dovrebbe invece restarne fuori e cominciare a smontare il meccanismo mortifero e diabolico di cui si è parlato. Quantomeno seguendo l’esempio dell’Olanda che ha decretato la fine delle esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita, a costo di privare i propri funzionari dei preziosi Rolex elargiti dal governo di quest’ultima. Ma non c’è spazio per decisioni di questo tipo all’interno dell’asfittico orizzonte di politica estera praticato dal nostro governo che si proietta verso una nuova avventura bellica dagli sviluppi ed esiti indefiniti aggirando ogni controllo parlamentare e popolare.
A partire dall'analisi dissacrante di un evento contemporaneo (l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil") una riflessione profonda sul rapporto tra antico e contemporaneo, tra storia e mercato, tra arte e moda nella società di oggi.
La Repubblica, 7 agosto 2016
Domande legittime. Ma, come ha scritto Aby Warburg, «ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita»: e oggi il rapporto tra l’arte viva e i resti dell’antichità non sembra passare attraverso la profondità di un dialogo formale. No, ora le rovine sono semmai usate come una cornice legittimante in cui inserire qualcosa di completamente irrelato. Una magnifica scenografia per un presente narcisistico.
È l’estrema evoluzione del crossover antico-moderno all’interno dei musei, o nei centri storici: una moda che già nel 1962 Giovanni Urbani bollava come “estetica del catenaccio” (descrivendo così – un poco rudemente – l’inserzione di novanta sculture contemporanee tra le pietre antiche di Spoleto).
Ad essere ottimisti si potrebbe pensare che il movente culturale di questo nuovo matrimonio tra arte e rovine sia la natura di frammento che segna ogni opera dell’arte d’oggi: frammenti moderni tra i frammenti del passato, dunque. Ma è impossibile non vedere come in realtà si tratti di una sottospecie di un fenomeno più generale: che è l’uso dei grandi complessi archeologici come location per eventi di ogni tipo. Pompei è oggi il set di continui concerti (popolari per tipo di musica, ma esclusivi per i biglietti a tre cifre), mentre il Colosseo, con la sua ricostruenda arena, viene reimmaginato letteralmente come “cornice” di spettacoli e i Fori romani vengono manomessi per allestirvi – nel modo più invasivo, improprio, imprudente – concerti di beneficenza mediatica.
È questo il contesto in cui si colloca l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil" («nulla è degno di confrontarsi con te, o Roma»): lo schiacciante titolo cita l’entusiasmo di un visitatore altomedioevale): trentasei opere di artisti di oggi tra le rovine monumentali del Palatino (fino al 18 settembre). Scopo dell’esposizione è tradurre in pratica la linea culturale racchiusa in una sentenza che i curatori hanno posto ad epigrafe del catalogo: «Una delle vocazioni italiane è favorire la creazione contemporanea e metterla in relazione con il nostro patrimonio». Come dissentire? La sfida, tuttavia, è racchiusa nella parola che dovrebbe dare il senso ad ogni mostra: “relazione”. E dunque la domanda è: P riesce davvero a costruire una relazione tra il Palatino e le opere che vi espone?
A mio avviso, non ci riesce. E le lunghe didascalie che cercano di mettere in parallelo la lettura della singola opera e un’apertura sul mondo antico rischiano troppo spesso di evocare l’ironica constatazione di Umberto Eco per cui «tutto ha misteriose analogie con tutto». Che senso ha collegare le porte cinesi moderne replicate in gomma uretanica da Loris Cecchini con qualche cenno sui rapporti tra l’Impero romano e la Cina? O come leggere la presenza della cancellata sottratta ad una chiesa napoletana, e coronata di lattine vuote, da Giulio Delvè? O, ancora, è davvero utile collegare il bel filmato di Marinella Senatore su un gruppo di ex minatori analfabeti con una riflessione sull’uso del dialetto in Italia? E i due video digitali con un’alba e un tramonto mandati in loop su due iphone 5 da David Horvitz traggono forse un qualche profitto dall’accostamento con una pagina sul culto del sol invictus in età imperiale? E si potrebbe continuare molto a lungo: per concludere che no, questo sistema di relazioni non è affatto convincente, ed anzi appare del tutto posticcio.
Questo esito problematico è frutto della singolare situazione dichiarata dal catalogo: «Le opere esposte provengono dalla collezione della Nomas Foundation», vale a dire dalla fondazione di cui la curatrice della mostra, Raffaella Frascarelli, è presidente. Nutro personalmente molti dubbi sull’opportunità che un luogo come il Palatino divenga la straordinaria location dell’esposizione (e dunque, inevitabilmente, della promozione) di una collezione privata. Ma qui vorrei soprattutto sottolineare che l’assenza della relazione tra i luoghi e le opere dipende proprio dal fatto che nessuna di queste ultime è stata pensata e creata per l’occasione. Non mancano, naturalmente, esiti felici: come nel caso dell’intervento di Kounellis (che potrebbe passare per site specific, tanto bene si adatta al passaggio in cui è stato collocato), in quello di Le voeu, lo struggente video dei Masbedo che allegorizza con rara finezza il nostro rapporto con la tradizione classica, o ancora nel caso dell’illuminante filmato di Elisabetta Benassi sulla fruizione della Gioconda.
Ma si tratta di corrispondenze che appaiono quasi fortuite, dato che si contano sulle dita di una mano. Non per caso l’unica opera davvero site specific, cioè le bandiere di Daniel Buren, è anche l’unica che davvero funzioni: sposandosi poeticamente con le rovine, il cielo e lo spazio.
In effetti non c’era (e non ci sarebbe) da scaldarsi troppo per la decisione della Cassazione. Perché in definitiva il referendum costituzionale è un atto dovuto quando si presentano le condizioni previste dall’articolo 138 della Costituzione, la prima delle quali è che la riforma non abbia ricevuto in parlamento la maggioranza «qualificata» dei due terzi dei voti. Come in questo caso. Ovviamente per presentare il referendum come il risultato dell’iniziativa di Renzi bisogna mettere un po’ tra parentesi questi dettagli. E poi, annunciare che solo adesso possiamo stare certi che il referendum si farà aiuta palazzo Chigi a gestire la prossima mossa: la scelta della data.
Al punto in cui siamo, nulla impedisce al presidente del Consiglio di convocare la prossima settimana il Consiglio dei ministri che deve fissare la data del referendum. Più volte Renzi ha sostenuto che, fosse per lui, si andrebbe a votare «il più presto possibile». L’ha detto anche in televisione ma a ogni buon conto lo ripeteva ancora ieri in un retroscena sempre su Repubblica, dunque possiamo fidarci: «Io voterei anche subito». Da qualche tempo però, da quando le amministrative prima e i sondaggi poi hanno fatto capire al presidente del Consiglio che rischia seriamente di perdere la «sfida», a queste solenni intenzioni si accompagnava la necessità di aspettare la decisione della Cassazione. Che è giunta solo ieri, all’improvviso, senza dare il tempo di immaginare una data – perché così ci fa capire Repubblica. E non basta. Ora «ci sono i tempi tecnici da rispettare», aggiunge Renzi, sempre nel retroscena.
Ma neanche questi tempi «tecnici» sono misteriosi: il referendum si deve tenere minimo 50 massimo 70 giorni dopo il Consiglio dei ministri che lo indice. Dunque, convocando i ministri la prossima settimana, potremmo tranquillamente andare a votare nelle prime settimane di ottobre. Anche il 2 ottobre, come Renzi si augurò in tv prima che cambiasse il vento. La legge di stabilità, il parlamento impegnato nella sessione di bilancio non possono essere indicati come un ostacolo, arriveranno dopo (l’anno scorso il governo presentò la legge in senato il 25 ottobre). Eppure non andrà così e voteremo a novembre inoltrato. Perché per allora Renzi spera di aver risalito la china. Aiuti non gli mancano.
Cronaca un po' reazionaria del conflitto tra esuli in cerca di rifugio e strumenti della repressione europea. Articoli di Andrea Di Blasio e Giulia Distefanis.
La Repubblica, 7 agosto 2016, tre domande nella postilla
SCONTRI A VENTIMIGLIA,
MUORE UN AGENTE
di Andrea Di Blasio
«Il poliziotto colpito da infarto durante i tafferugli con gli antagonisti. Tensione dopo la fuga degli immigrati in Francia La Questura: “Tutto organizzato dagli attivisti”. Toti: “Ora basta, intervenga il governo”. Oggi nuova manifestazione»
La tensione era nell’aria e ieri sera è sfociata in tafferugli tra forze dell’ordine e attivisti No Borders. Un agente si è improvvisamente accasciato a terra, chiedendo l’aiuto dei colleghi: «Sto male» è riuscito a dire. I soccorsi sono scattati subito, ma il poliziotto, 50 anni, assistente capo del Reparto mobile di Genova, è morto dopo l’arrivo all’ospedale di Sanremo. Lo scenario: il Parco Roja, che si trova in una zona periferica di Ventimiglia. Qui, da poco meno di un mese, vengono ospitati i migranti che si trovano nella città con la speranza, un giorno, di poter varcare il confine con la Francia.
Gli scontri tra No Borders e i reparti antisommossa di carabinieri e polizia sono iniziati intorno alle 20 fuori dal parco, dove già dalla sera prima gli attivisti avevano preso posizione in attesa della manifestazione in programma oggi alle 15 nel centro cittadino di Ventimiglia. Il tutto segue la “fuga” di venerdì di 140 migranti che hanno forzato il blocco per raggiungere la Francia. Ieri sono stati rispediti in Italia. E la Questura di Imperia ha attaccato: «Era tutto organizzato dai No Borders».
Durante i tafferugli di ieri l’agente ha all’improvviso avuto un malore: è stato caricato dai colleghi in un ambulanza e portato in codice rosso all’ospedale di Sanremo. Purtroppo non c’è l’ha fatta. Quasi sicuramente, è stato ucciso da un infarto mentre stava svolgendo il suo compito di sorveglianza e controllo dei migranti. Ha fatto in tempo solo a scendere dalla camionetta quando si è sentito male. «Non c’è stato contatto fisico con i dimostranti», confermano fonti della polizia.
Nel tardo pomeriggio di ieri si era svolta una operazione di controllo coordinata dalla Questura di Imperia con polizia e carabinieri a Camporosso, presso i locali dell’associazione Free Spot, dove i No Borders sono soliti ritrovarsi. Le forze dell’ordine erano alla ricerca di armi bianche: bastoni, coltelli. I controlli si sono intensificati in questi giorni in vista della manifestazione, non autorizzata, di oggi pomeriggio, con partenza in pieno centro, dalla piazza Costituente di Ventimiglia.
I No Borders avrebbero il loro “campeggio”, assai pubblicizzato in questi giorni tramite il tam tam sui social network, in località Ciaixe nel Comune di Camporosso. Fino a notte, dopo gli scontri e la tragedia, le strade che portano al Parco Roja sono rimaste chiuse e presidiate dalla polizia. Ventimiglia è ora una città blindata. Anche perché si teme che l’accaduto possa far crescere la tensione in vista della manifestazione in programma oggi alle 15.
«A Ventimiglia serve il pugno duro con chi ostacola le forze dell’ordine, serve che tutti i migranti vengano identificati e, chi non ha titolo, fermato ed espulso ». Lo ha scritto il governatore Giovanni Toti su Facebook. «Basta ipocrisie, basta perdere tempo. Il governo intervenga in forze ».
NO BORDERS E MIGRANTI
COSÌ IL CONFINE PIÙ CALDO
DIVENTA UNA POLVERIERA
di Giulia Distefanis
Giovani, provenienti da associazioni e centri sociali di Liguria, Piemonte e Lombardia, ma anche indipendenti. Determinati, irriverenti. La polveriera Ventimiglia ha loro come attori, accanto ai migranti che giungono qui da tutta Italia per provare a raggiungere la Francia, e alle istituzioni che a fatica gestiscono il flusso: gli attivisti No Borders. Nei giorni scorsi sono tornati ad alimentare la tensione con le forze dell’ordine, culminata ieri con la morte di un poliziotto, che però — ribadiscono — «è stata accidentale, era a distanza dagli scontri».
E neanche ora hanno intenzione di fermare le loro proteste in favore della libera circolazione dei migranti: anzi proprio in questi giorni si stanno riorganizzando chiamando a raccolta i volontari in un «campeggio di lotta contro i confini» messo su appena fuori dalla città. Oggi si riuniranno invece alle 15 ne centro di Ventimiglia, per una manifestazione che partirà da piazza della Costituente.
L’obiettivo? Sempre lo stesso: «Chiedere l’apertura delle frontiere e rivendicare il significato politico della presenza dei migranti qui, ascoltando le loro richieste». Una lotta che però lo sesso sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano giudica «più degli attivisti che dei migranti: non capiscono che fomentandoli, spingendoli a contestare il sistema di accoglienza e a fare proteste plateali come quella dell’altro giorno agli scogli dei Balzi Rossi, li danneggiano soltanto. Bisogna rispettare le regole per l’interesse di tutti».
La polveriera Ventimiglia, che per gli attivisti è un laboratorio d’Europa e per le istituzioni un problema in più da gestire, nasce con la protesta dei migranti: l’11 giugno 2015, sugli scogli dei Balzi Rossi al confine di Ponte San Ludovico. Dopo le prime settimane in cui i migranti dormivano soli sugli scogli, assistiti dalla Croce Rossa, un gruppo di autonomi aveva iniziato ad aggregarsi via Facebook, facendo collette e organizzandosi per portare viveri al confine. Nel giro di un mese ne era nato il Presidio permanente No Borders: migranti e volontari si erano spostati sotto “la pinetina” creando un vero e proprio campo profughi autogestito, con tende, cucina, bagni. Tutto su suolo occupato abusivamente. Una piccola Calais: tollerata a fatica da abitanti e istituzioni. Anche perché ogni giorno si organizzavano — proprio come il movimento sta tornando a fare ora — proteste contro il confine e le forze dell’ordine, con cori e urla. Sfociati spesso in scontri grandi e piccoli. Fino alla resa dei conti di fine settembre, quando il campo è stato sgomberato.
E poi? Poi le denunce, l’allontanamento di tanti attivisti dalla città tramite “fogli E poi? Poi le denunce, l’allontanamento di tanti attivisti dalla città tramite “fogli di via”, la speranza che il movimento con l’inverno si fosse sfilacciato. Ma nella primavera era tornato a dar vita a un’altra piccola Calais, lungo le sponde del Fiume Roja. E ora, che la soluzione sembrava trovata con il centro di accoglienza, o meglio di transito, voluto dalla prefettura, sono tornati per contestarne la gestione. «Non possiamo essere una città in ostaggio dei No Borders — ribadisce il sindaco —, chi sbaglia deve essere allontanato. Se si vuole discutere della gestione del centro, si può fare. Ma civilmente. Quei modi non possiamo accettarli». Ieri invece l’ennesimo corteo, gli ennesimi scontri. «Non facevamo nulla di grave — raccontano ancora gli attivisti, che preferiscono non essere citati per nome — volevamo solo raggiungere i migranti al centro e intonare con loro qualche coro di solidarietà. La polizia ci ha bloccati». E i toni si sono subito alzati, il conflitto è ripreso.
postilla
Tre domande. 1. Se nei secoli scorsi non ci fossero state proteste dure in piazza oggi godremmo dei diritti e del welfare? 2. Senza proteste gli uomini e le donne cacciati dalle loro terre dalla miseria e dalle guerre otterrebbero i loro diritti? 3. Perché legare, nel titolo e nel sommario dell’articolo, alle proteste la morte accidentale di un poliziotto?
La Repubblica, ed. Firenze, 6 agosto 2016 (c.m.c.)
Quando Moussa è arrivato a Faltona, a 4 chilometri da Borgo San Lorenzo, era quasi buio e aveva ancora addosso il salmastro della traversata. «Ma dove siamo? In una foresta?» si è detto scendendo nell’aia del casolare insieme agli altri ventiquattro compagni, scalzi e con addosso solo magliette strappate e pantaloni stretti con gli spaghi. Non è facile passare dal mare aperto a un bosco di castagni nel giro di dodici ore di pullman.
Ci sono le bici, ma con 35 gradi nemmeno a vent’anni è facile pedalare per trenta chilometri.Yassin, sudanese 34 enne operatore dell’Associazione Progetto Accoglienza, con 25 ragazzi nella canonica di Mucciano, lo ripete: «Preferireste pigiarvi in un appartamento a Firenze, dove se si sposta una sedia i condomini scrivono al prefetto?». Ma vai a spiegarlo a ragazzi già scampati alla morte cento volte, e che adesso cercano di scampare ai loro pensieri, ai loro incubi notturni: altro che silenziose notti mugellane, «in città ci si distrae, si fanno conoscenze, si pensa ad altro» spiega Mavis, nigeriano, e magari «si trova lavoro».
«Psiche e jihad. Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico e sociale. E’ prima una gabbia culturale, è il rifiuto dell’incertezza, della precarietà. E la persona diventa rigida, intollerante e violenta».
Il manifesto, 5 agosto 2016
Sui possibili fattori che concorrono a determinare il fenomeno stragista di questi anni, in particolare degli ultimi giorni, occorre in primis capire, ascoltare, interrogarsi. Il volto sempre più giovane degli attentatori, spesso figli della stessa civiltà che vorrebbero abbattere, ci obbliga a una riflessione non tanto sulla loro fragilità o immaturità, quanto sul loro percorso formativo per divenire adulti responsabili, sul modello di società che stiamo costruendo con il dominio della tecnologia e la perdita di valori etici e di diritti umani.
In questa era del postmoderno, dove persistono radici arcaiche e avanzano elementi innovanti, non bisogna smettere di conoscere. L’arcaismo che ci continua ad accompagnare nella nostra evoluzione, conserva tratti di primitivismo che possono riesplodere in condizioni di chiusura di quella vitale necessità di una prospettiva di buona emancipazione. Il postmoderno, a sua volta, spinge a innovare con una rapidità che muta strutturalmente le condizioni di vita, creando disagi esistenziali oltre che materiali. Disagi che ammassano le persone in aree di marginalità o esclusione sociale che possono divenire sacche esplosive.
Arcaismo e postmodernità sono fortemente interconnessi e nella loro unità generano fenomeni che vanno analizzati a fondo per poterli superare o debellare. Il capire è possibile se si supera una visione scolastica e ci si apre a un approccio multidisciplinare. La singola chiave di lettura del radicalismo politico, del fondamentalismo religioso, della psicopatologia o della devianza sociale non aiutano a cogliere il tragico fenomeno in tutta la sua portata invasiva e carica distruttiva.
Il contributo che possono dare le diverse discipline nello studio dello stesso fenomeno, è l’unica via lungo la quale possiamo arrivare a chiarire alcuni aspetti della violenza stragista. Uno dei fattori, forse non il più importante, che vorrei sottolineare è quello del fanatismo, in quanto cieco e totalizzante attaccamento a un’idea, una causa, una missione. Purtroppo su questo fenomeno l’approccio interdisciplinare (dall’antropologia alle neuroscienze) non ha prodotto molte conoscenze, in particolare sul fanatismo giovanile. Nonostante questo limite, qualcosa si può dire visto che è urgente aprire un dibattito a più voci.
Prendo come iniziale riferimento la dichiarazione rilasciata in una recente intervista da Liliana Segre, instancabile e illuminante testimone della Shoah. Dice a proposito della crudeltà umana: «E’ il fanatismo che ha portato il popolo tedesco a fare ciò che ha fatto. Non si può parlare di pazzia, Hitler non era pazzo. E’ come se ci fosse una vena di violenza, di fanatismo negli uomini che a volte riaffiora. Io ho molta paura di questa deriva di violenza fanatica che ritorna». La sua paura è anche la nostra e la sua lucidità di analisi dovrebbe divenire anche una nostra apertura mentale. Siamo ancora portati a dare veloci risposte tranquillizzanti e ad allontanare interrogativi responsabilizzanti. Perché la violenza riappare in tutta la sua barbarie? Perché da vena sotterranea non si prosciuga ma riemerge? Perché le azioni terroristiche dell’Isis e dei suoi militanti o adepti sono così efferate e disumane?
Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico, sociale, culturale e ambientale. E’ l’esito di un serie di vicende personali, di rapporti sociali, di ingiustizie e di diseguaglianze tra le persone. In questo contesto il processo educativo e formativo diventa decisivo per evitare la caduta dei ragazzi nell’odio verso chi è diverso, estraneo o fortunato. Il fanatismo è prima di tutto una gabbia culturale, chi rifiuta l’incertezza e la precarietà può divenire inconsapevolmente soggetto intollerante, rigido, inflessibile, violento. E’ facile che arrivi a perdere qualsiasi valore per la vita propria e altrui. E’ facile che si attacchi dogmaticamente alla missione di giustiziere o di angelo vendicatore. E’ sempre successo nella storia, facciamo in modo che oggi non si ripeta la brutalità del passato, prendendo atto che intanto esiste una emergenza educativa.
C
«».Il Fatto Quotidiano online blog di Centro studi Unimed, 5 agosto
In Italia ben 5.627 comuni hanno meno di 5.000 abitanti, vale a dire il 69,9% del totale, e di questi, secondo una recentissima ricerca di Lega ambiente e Anci, ben 2.430 soffrono un forte disagio demografico ed economico. Negli ultimi 25 anni in questi territori un abitante su sette se ne è andato. Le case vuote, conseguenza di questo esodo che ha coinvolto soprattutto giovani, sono 1.991.557, cioè un terzo del totale. Questi comuni, abitati in prevalenza da anziani, non hanno prospettive per il futuro e, inoltre, si trovano in aree marginalizzate, lontane dalle principali vie di comunicazione.
In Italia esiste, però, un paese, Riace, in provincia di Reggio Calabria, situato a 300 metri sopra il livello del mare, che si è ribellato al lento spopolamento e ha reagito trasformandosi gradualmente in un paese modello di integrazione di rifugiati. Riace, oggi, conta 1.726 abitanti di cui 400 sono extracomunitari. Il sindaco Domenico Lucano, a cui si deve questa trasformazione, è stato nominato dalla rivista americana Fortune come una delle 50 persone più influenti al mondo, per essere riuscito a fare di Riace un modello di accoglienza.
Esempi come quello di Riace non sono isolati e anche altri comuni hanno avviato lo stesso percorso, tra questi Acquaformosa, Gioiosa Jonica e molti altri dimostrando, invece, che le migrazioni possono essere gestite in un altro modo, aiutando chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni ma, anche, le comunità locali che praticano l’accoglienza. In Italia la Rete dei comuni solidali, (Re.co.sol.), conta 800 comuni coinvolti nella rete Sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar). Di questi circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni con potenzialità simili a Riace.
Come di recente ha dichiarato Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa e responsabile per le politiche di migrazione della regione Calabria,«i nostri progetti si svolgono tutti nei centri urbani, dando la possibilità ai migranti di integrarsi nella nostra comunità che è un modo per rispondere alla scommessa che riguarda tutto il meridione: lo spopolamento». Con i 35 euro giornalieri previsti per ogni migrante dal Ministero degli Interni, è possibile finanziare progetti mirati a una reale integrazione piuttosto che pagare alberghi o residenze nelle quali parcheggiare i migranti a tempo indefinito. Accoglierli nei paesi significa recupero di vecchi mestieri, collaborazione per la cura del territorio e riapertura delle scuole quando ci sono bambini.
Gli effetti positivi di questo tipo di accoglienza consentono la rinascita dei territori destinati a un sicuro declino. Di fronte all’arrivo massiccio dei richiedenti asilo che, nella prima parte dell’anno, ha già superato il tetto di 120mila immigrati a cui vanno aggiunti 13mila minori non accompagnati, questa strada alternativa va costruita, e l’aiuto dell’Europa può fare la differenza.
L’Italia può svolgere un ruolo decisivo in questa direzione valorizzando un modello di inserimento dei migranti più solidale ed inclusivo. L’integrazione, soprattutto di famiglie, in piccole comunità rappresenta, infatti, un’alternativa che ha grandi potenzialità e che può dare un futuro a quella parte dell’Italia destinata altrimenti a sparire.
Riferimenti
Sull'argomento vedi in questo sito, tra l'altro, l'Eddytoriale n. 169, l'intervento di Gianna De Masi, la relazione di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici ed Edoardo Salzano, nonchè numerosi scritti nella cartella Esodo XXI secolo
L'Italia in guerra. Sempre più ristretto il numero dei decisori. Il popolo guarda, borbotta, dimentica che sarà lui a pagare, ascolta i suoi maestri e maestrini che si fanno i gargarismi con la parola "democrazia"; e i terroristi ringraziano.
Il manifesto, 5 agosto 2016
In questo quadro il coinvolgimento italiano è inevitabile se non viene espressa una volontà esplicitamente contraria. Le ragioni sono di natura militare e politica. Un’azione così prolungata nel tempo richiede l’utilizzo delle basi di Aviano e di Sigonella.
Particolarmente di quest’ultima, distante solo una ventina di minuti di volo dall’obiettivo. D’altro canto la Sicilia è sempre stata considerata oltreoceano una «portaerei americana» nel Mediterraneo, espressione mutuata da una quasi identica di Mussolini riferita a tutt’altro contesto.
A parte la parentesi dello scontro Craxi-Reagan di una trentina di anni fa, ha continuato ad esserlo fino ai giorni nostri. D’altro canto se l’Italia vuole realmente candidarsi alla guida della missione Liam per la “stabilizzazione” del paese libico, qualche contributo lo deve dare. In altre parole se gli scarponi non sono sul terreno, le basi aeree italiane sono già in guerra.
Ma chi lo ha deciso e chi lo avrebbe dovuto decidere? E’ ridicolo che siano solo le commissioni Esteri e Difesa riunite delle due camere ad essere “informate”, mentre l’Aula si deve accontentare di un question time della ministra Pinotti. Non si tratta di riferire ma di trovare la sede della decisione.
Si dirà che non è la prima volta che si verifica l’esautoramento del Parlamento da una delle decisioni più esiziali per un paese, l’entrata in guerra comunque mascherata - il termine intervento umanitario è immancabilmente ricomparso nelle dichiarazioni di Gentiloni. Ma non è una buona ragione per perseverare.
Quindi non solo è giusto e necessario che si chieda l’immediata convocazione delle camere per discutere il ruolo dell’Italia nella vicenda libica, ma che si torni a riflettere sulle conseguenze che la “deforma” della Costituzione può avere in questo campo.
Infatti tra i 47 articoli revisionati dalla legge Renzi-Boschi vi è anche l’articolo 78 che concerne la dichiarazione dello stato di guerra. Per la precisione l’attuale testo, ancora vigente fino (e speriamo anche dopo) al pronunciamento referendario recita «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre quello deformato dice: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».
Come è noto attorno a questo articolo si è sviluppato negli anni un larghissimo dibattito, dai tempi della Costituente fino a quello degli anni migliori del movimento pacifista. Riassumerlo qui sarebbe un’ambizione smodata e insensata.
Ma è certo che tale formulazione era stata pensata dai costituenti come una deroga solo temporanea ed eccezionale, come strumento ultimo di difesa e non di offesa, al principio di ripudio della guerra sancito dall’Articolo 11 facente parte dei principi fondamentali della Carta. Il potere di attivare lo stato di guerra spettante al Parlamento si configura quindi come atto politico per eccellenza, presuppone e coinvolge principi etici, un’accurata valutazione del quadro politico e militare internazionale, una discussione grave e approfondita circa la necessità del l’instaurazione del regime giuridico di eccezionalità.
Discussione tanto più impegnativa e imprescindibile se si tiene conto delle modalità extraistituzionali, a livello internazionale e interno, con cui le decisioni belliche vengono assunte e i relativi mascheramenti linguistici con cui vengono giustificate. Per questa ragione più d’uno ha pensato che prevedere una maggioranza superiore per l’elezione, almeno in prima battuta, del Presidente della Repubblica a quella della dichiarazione dello stato di guerra fosse una assurdità. E vi sono state iniziative di parlamentari, anche trasversali, ma inascoltate, che hanno cercato di porre rimedio chiedendo che la dichiarazione dello stato di guerra potesse avvenire solo sulla base di un voto dei due terzi dei componenti le camere.
Il testo della “deforma” costituzionale peggiora in modo evidente questo quadro. Non solo e non tanto perché è solo una Camera che viene chiamata a pronunciarsi. Infatti il Senato continua ad esistere ed entra in decisioni chiave, come le leggi di revisione costituzionale, ma non su questa che è la più importante di tutte. Ma perché la nuova norma costituzionale, applicata in un contesto nel quale è entrato in vigore l’Italicum, fa sì che la maggioranza assoluta richiesta sia già data all’atto stesso della nascita della camera – grazie al premio di maggioranza dato a una minoranza – e che appartenga a un solo partito.
In questo modo la dichiarazione di guerra è affare esclusivo del partito di maggioranza relativa e, visti gli attuali chiari di luna, di un uomo solo, cioè il suo segretario. Potente regressione della democrazia e della civiltà giuridica, che possiamo e dobbiamo fermare con un forte No nel prossimo autunno.
C'è chi sa guardare nelle cose d'oggi e comprendere che cosa c'è dietro, e comunicarlo con semplicità. Un commento di Marco Belpoliti e le limpide risposte di Zygmunt Bauman alle domande di Giulio Azzolini.
La Repubblica, 5 agosto 2016
L'ETÀ DELLA PAURA LIQUIDA
di Marco Belpoliti
La paura è tornata. Sembrava domata, resa inoffensiva dalla nostra capacità tecnico-scientifica di dominare il mondo, di prevedere tutto, o quasi. E invece eccola di nuovo. Zygmunt Bauman ci aveva avvisati dieci anni fa in Paura liquida (Laterza): questo è il nome che ha oggi la nostra incertezza, la precarietà, la mancanza di futuro. Nessuno sembra indicare cosa fare. La leadership mondiale oscilla pericolosamente sull’orlo di un cratere. Il mondo è in
subbuglio e viviamo in uno stato di paura. Meglio: di ansietà. L’ha ricordato anche Sergio Mattarella in un discorso, resuscitando la formula usata da un poeta W. H. Auden in una sua opera: L’età dell’ansia. Egloga barocca scritta nel 1947 subito dopo le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Nel 1966 i Rolling Stones in Mother’s Little Helper descrivono le casalinghe britanniche che ricorrono al Valium, un ansiolitico. Lo psicoanalista Henry P. Laughlin definisce l’ansia «tensione apprensiva, irrequietezza che nasce dal sentire un pericolo imminente ma vago di origine sconosciuta».
Come possiamo definire quello che proviamo quando entrando in stazione passiamo un checkpoint con militari in tuta mimetica, o quando ci sottoponiamo alle perquisizioni delle borse all’ingresso della mostra, o quando scorgiamo una borsa sospetta sul metrò? Cosa temiamo? Un attacco terroristico, un commando suicida? Tutto questo, ma anche altro. L’ansia non ha un contenuto definito. Se la paura si focalizza su una specifica minaccia esterna, un evento presente o imminente, come scrive il neuroscienziato Joseph LeDoux in Ansia (Raffaello Cortina), l’ansia implica una minaccia non definita, meno identificabile, «qualcosa di più interno», un’aspettativa mentale che potrebbe anche essere qualcosa di solo immaginato con scarse possibilità di verificarsi.
La parola “ansia” viene dal latino anxietas, che deriva dal greco angh, radice che veniva usata per significare “oppresso” o “turbato”, ovvero “angosciato”; il suo significato iniziale si riferisce a sensazioni fisiche come tensione, costrizione, disagio. La stessa parola “angina”, che riguarda malattie cardiache con dolori al petto, viene da angh (LeDoux). Le emozioni che proviamo sono un magma, ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna in
Le figure dell’ansia (Feltrinelli), perché si mescolano insieme cose diverse: stati d’animo, sentimenti, esperienze vissute. L’ansia, alla pari di altre emozioni, non è qualcosa di omogeneo o di distinto, ma di stratificato, che può essere intesa e sondata solo con molto cuore, scrive Borgna. Per quanto l’ansia sia un’emozione individuale, soggettiva, alla pari della paura si comunica.
Di sicuro l’11 settembre, evento cui ha assistito in diretta tutto il mondo davanti alla tv, ha creato un’onda di panico che con il passare dei giorni e dei mesi si è tramutata in ansia. Si tratta del disturbo da stress postraumatico tipico di chi ha sperimentato un’esperienza sconvolgente; in questo caso però non ha riguardato solo chi si trovava sotto le Twin Tower, ma anche chi, lontano da New York, ha vissuto l’accaduto come se si fosse stato davvero lì.
Oggi i social network e i telefoni cellulari moltiplicano questo effetto su scala planetaria. Gli storici hanno mostrato come nel passato la paura fosse prima di tutto un sentimento collettivo. Jean Delumeau nel suo studio sulla paura tra il XIV e il XVIII secolo ( La paura in Occidente,secoli XIV- XVIII) esamina il timore del buio, di Satana, delle streghe, della magia, delle eresie, della peste. Prima che la Riforma trasformasse il rapporto con la religione da fenomeno generale in evento vissuto individualmente, i comportamenti collettivi definivano l’atteggiamento verso la paura, lo normavano. Ora sta accadendo qualcosa di simile? L’ansia diventa un fenomeno comune e non più solo una singola esperienza emozionale?
Nel suo poema Auden sembra suggerire qualcosa del genere. Si viveva, alla fine degli anni Quaranta, sotto il timore della bomba atomica, nell’incubo dell’esplosione fine-del-mondo descritta poi da Stanley Kubrick nel suo Il dottor Stranamore.
L’ansia, come altre emozioni, è contagiosa. Viviamo tutti in un atteggiamento d’attesa, d’anticipazione. Mentre nella paura l’anticipazione riguarda, «se e come una minaccia attuale causerà danni», scrive Le-Doux; nell’ansia «l’anticipazione coinvolge l’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che è presente e che può non verificarsi ». Questo è lo stato d’animo collettivo in cui ci troviamo oggi: ci preoccupiamo di minacce future che possono nuocerci come collettività e come singoli, ma non sappiamo bene quali, e se poi ci riguarderanno davvero. Riformulando un’espressione di Kierkegaard, Louis Menand ha affermato che «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana».
Sempre più grande il groviglio, sempre più lontana la capacità dei partiti e di questo parlamento illegittimo di dare alla Repubblica fondata sugli interessi particolari una legge elettorale decente. La
Repubblica, 5 agosto 2016
CHI ha detto che la storia è maestra di vita? Chi ha aggiunto che nessuna pagina di storia si ripete mai due volte? Non è vero, non alle nostre latitudini. Ne è prova il film proiettato nelle sale cinematografiche italiane in questi pomeriggi estivi: Porcellum 2, la vendetta. Perché il dibattito sulla riforma della legge elettorale sembra un film già visto, un déjà- vu.
Cadeva il 2011, cadeva il IV gabinetto Berlusconi. E i partiti dichiararono l’urgenza di sbarazzarsi del Porcellum, spronati — allora come oggi — dai moniti di Napolitano. Questione impellente, dirimente, conturbante. Tant’è che a un certo punto il nuovo presidente del Consiglio (Mario Monti) carezzò l’idea d’intervenire sulla legge elettorale per decreto. Ma il decreto no, non si può fare, dissero i soloni del diritto. Mentre nel frattempo i soloni dei partiti s’arrovellavano su soglie di sbarramento, premi di maggioranza, collegi uninominali o plurinominali, apparentamenti, ballottaggi. Trascorse così il 2012, poi il 2013. Quando i leader di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, trovarono un soprassalto d’unità timbrando una tacita intesa: fermi tutti, tanto c’è pur sempre la Consulta a toglierci le castagne dal fuoco. Che infatti emise il suo verdetto attraverso la sentenza n. 1 del 2014: e nacque il Consultellum.
In seguito l’Italicum ne ha preso le veci, salutato da grandi squilli di fanfara. Dopo le amministrative di primavera, tuttavia, e in vista del referendum costituzionale d’autunno, la politica si è accorta (meglio tardi che mai) che l’Italicum può ben essere una trappola per la maggioranza di governo, e soprattutto per la democrazia italiana. Da qui un concerto di proposte, da qui un coro d’appelli a riformare la riforma elettorale. La sinistra Pd presenta il Bersanellum. I Giovani turchi puntano sul sistema greco. I Cinque Stelle insistono sul loro Democratellum. Alfano, e con lui Franceschini, chiede di spostare il premio: dalla lista alla coalizione. Concorda Sala, neosindaco di Milano. Concorda il centro- destra, o ciò che ne rimane. Accelerano due ministri (Orlando e Martina): facciamo presto, prima del referendum. Il vicesegretario del Pd (Guerini) apre ai cambiamenti. Il segretario (Renzi) apre all’apertura.
Domanda: e allora perché non è successo nulla? Perché manca ancora un testo condiviso, o almeno una bozza, un protocollo, una lettera d’intenti? Risposta: per le stesse ragioni che a suo tempo bloccarono la riforma del Porcellum: veti incrociati, opposte convenienze. Sicché, oggi come ieri, va in scena l’antica strategia dello scaricabarile. La sua prima rappresentazione si trova nella Bibbia ( Genesi, 3, 9-13). Il Padreterno domandò ad Adamo: perché hai mangiato il frutto proibito? E lui: me l’ha dato Eva. Allora il Padreterno ne chiese conto a Eva, e lei: fu il serpente ad ingannarmi. In questo caso l’inganno parrebbe un po’ meno funesto per le sorti dell’umanità, però la sequenza è sempre uguale. E infatti il governo dichiara che la correzione della legge elettorale tocca al Parlamento, il Parlamento traccheggia aspettando la Consulta. Che deciderà il 4 ottobre, mettendosi in groppa il peso del barile.
Ma su chi si scarica lo scaricabarile? Sulla Corte costituzionale, certo, già tirata per la giacca dalla riforma Boschi, con quella competenza non richiesta (e non gradita) che le assegna un giudizio preventivo sulle nuove leggi elettorali. Ma il danno ricade altresì sul sistema politico, perché la Consulta non ha ago e filo per cucire, ha solo un paio di forbici. Può tagliare qualche lembo dell’Italicum, non può confezionare un abito di sartoria. Non a caso, due anni fa, il Consultellum lasciò tutti insoddisfatti. Infine il barile si rovescia addosso ai cittadini, ed è questo il danno principale. Giacché lo scaricabarile innesca una catena di supplenze che nocciono alla certezza del diritto, come succede quando la politica — per impotenza o negligenza — nega una legge sui diritti civili. Per esempio quella sul fine vita, e allora il mestiere del supplente tocca al sindaco (170 registri dei testamenti biologici adottati in altrettanti Comuni). Oppure la
stepchild adoption, e allora diventa supplente il magistrato (con l’avallo della stessa Cassazione: sentenza n. 12962 del 2016).
Eccolo, infatti, il prezzo dello scaricabarile: la fuga dalle regole, il disordine istituzionale. E il disordine conviene solo ai furbi, non a chi cerca riparo sotto l’ombrello del diritto. Sicché, quanto alla riforma dell’Italicum, non resta che una prece da rivolgere ai Signori della Legge: questi lavori in corso, fateli di corsa.
«Libia. Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid». Il manifesto, 4 agosto 2016 (c.m.c.)
Ieri la ministra della difesa Roberta Pinotti – a un question time chiesto dal Pd – ha annunciato che l’Italia «è pronta a concedere l’uso delle basi e dello spazio aereo nazionale» per gli aerei americani o della coalizione anti-Isis chiamati a intervenire dal governo libico contro l’Isis. Gli americani hanno già iniziato a bombardare Sirte da due giorni e forse stanno già utilizzando le nostre basi.
Nell’intervento la ministra - per l’utilizzo delle basi - non ha fatto riferimento al bisogno di autorizzazione parlamentare poiché la risoluzione 2259 dell’Onu già concernerebbe questa possibilità. Senonché, ora siamo a un punto di pericolosa accelerazione con davanti a noi 30 giorni (e forse più) di bombardamenti americani e l’utilizzo delle nostre basi.
Non ce la si può cavare con un question time e una comunicazione della ministra alle commissioni esteri e difesa che ci sarà oggi. Il parlamento italiano ha il dovere di riunirsi anche nei prossimi giorni e votare sull’impegno del nostro paese in questa vicenda.
Siamo ad un punto di passaggio pericoloso. L’avvio dei raid americani può avere effetti disastrosi, accendendo la miccia di una escalation di cui è difficile prevedere l’esito. E c’è una questione più concreta e drammaticamente importante: quei raid (e sappiamo quanti morti innocenti hanno fatto i droni americani in Afganistan e in Iraq) mettono a repentaglio la vita di 7mila civili tenuti in ostaggio in una zona di Sirte da un migliaio di combattenti dell’Isis. I precedenti dovrebbero invitare alla massima cautela.
Non è la prima volta che in Libia si gioca una partita geopolitica assai complicata, con la Francia coinvolta in una guerra a sostegno di Khalifa Haftar che agisce in proprio, fuori dal controllo del governo centrale di Al-Sarraj. E proprio la risoluzione 2259 chiede ai paesi di evitare «il sostegno a istituzioni parallele».
Proprio quello che sta facendo la Francia con le milizie di Haftar: un elicottero francese pochi giorni fa è stato abbattuto (con tre soldati francesi morti) durante una di queste azioni «parallele». La partita geopolitica ha per oggetto il controllo di risorse ed aree di interesse: per la Francia l’obiettivo principale è la Cirenaica con i suoi pozzi petroliferi. L’Italia non ne sta uscendo bene. Un anno fa la ministra Pinotti ha ventilato l’ipotesi di mandare 5mila soldati in Libia, salvo fare marcia indietro qualche giorno dopo l’altolà di Renzi e della comunità internazionale.
Ora ci apprestiamo a dare le basi di Sigonella e Aviano per i raid senza aver valutato le conseguenze non solo per la Libia, ma anche per il nostro paese. Abbiamo lasciato campo libero a Francia e Usa che ci stanno portando su una china non proprio rassicurante. Più che una missione è un’omissione: il Parlamento viene tenuto all’oscuro. Domani dovrebbe chiudere i battenti, ma vanno riaperti subito per discutere di una avventura da valutare con la necessaria documentazione e con la massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e dei cittadini.
Per quanto ci riguarda la posizione per noi è chiara ed è quella espressa dalla Rete Disarmo: no ad interventi militari e no alla concessione delle basi militari italiane per i raid. Va bloccato il traffico delle armi verso quell’area e va rilanciata l’idea della convocazione di una nuova conferenza internazionale di pace, capace di un negoziato vero con gli attori locali, al riparo degli interessi e dell’offensiva geopolitica dei paesi occidentali, della Russia e delle altre potenze regionali. Questo è quello che vorremmo dire in parlamento, che chiediamo di riunire al più presto. Perché se c’è la guerra, le istituzioni repubblicane non possono andare in ferie.
Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2016 (p.d.)
“Non siamo in guerra? Bugie per coprire attacchi preparati da tempo”. Tra una sessione e l’altra di un Campo di Lavoro a Castelvolturno, dedicata proprio alla convivenza tra italiani e africani (“qui oramai sono la metà della popolazione”), padre Alex Zanotelli rinnova i suoi strali verso i “negazionismi ” sulle operazioni in Libia.
Li lanciò già sei mesi fa.
Fuori dalle percezioni, che guerra sarebbe?
In un suo appello, lanciato a inizio anno assieme allo storico Angelo Del Boca, lei ha ipotizzato un “solo caso in cui l'Italia può intervenire”, indicando la strada di una “missione di pace” su richiesta delle autorità locali. Tale missione potrebbe per lei prevedere l'accompagnamento di forze militari?
Nel suo no alla guerra c'è anche l'argomento che “i libici ci odiano”. Ma è proprio così?
In questi anni si è discusso anche di operazioni militari orientate a fermare l'immigrazione.
«Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa». Il manifesto, 4 agosto 2016
E siamo a settantasei. 76 donne uccise, finora in Italia, nelle forme più varie ed efferate, dagli uomini che avevano scelto. Per una breve storia, un incontro, o anche per tutta la vita. L’ultimo episodio è successo in provincia di Caserta, dove Nicola Piscicelli ha assassinato con 12 coltellate alla schiena la moglie Rosaria Lentini. Nel frattempo è morta Vania Vannucchi, 46 anni, a cui ha dato fuoco un collega, infermiere come lei, che non rassegnava a essere mollato.
Anche se nega, ha moglie e figli, ma non sa giustificare l’ustione al braccio. Colpisce il fuoco, un sistema facile per togliere la vita, basta un liquido altamente infiammabile e un accendino. «È stato un raptus» ha detto Piscicelli, nel consegnarsi alla polizia. «Spero che non si usino più, raccontando queste storie, termini ambigui e giustificatori come raptus, gelosia, disagio, rifiuto. Sono solo squallidi criminali e schifosi assassini» ha scritto il presidente del Senato Piero Grasso nella sua pagina fb. Parole forti di un uomo, che si rende conto di quanto la cultura maschile, anche quando non vuole, attenua e occulta la gravità e il senso dei gesti compiuti.
Parole ancora più forti le ha dette papa Francesco, qualche giorno fa, sull’aereo di ritorno da Cracovia. «A me non piace», ha detto, «parlare di violenza islamica, perché tutti i giorni quando sfoglio i giornali vedo violenze, quello che uccide la fidanzata, un altro la suocera, questi cattolici battezzati sono violenti cattolici e se parlo di violenza islamica devo parlare di violenza cattolica». I violenti cattolici, i violenti occidentali sono quelli che uccidono le loro donne.
Se con queste parole Bergoglio mette fine alla millenaria complicità del cattolicesimo con il potere maschile sulle donne, nella famiglia, l’equivalenza da lui enunciata tuttora non appare limpida a tutti, e tutte. Chi sgozza un prete sull’altare sembra più violento di chi colpisce la moglie 12 volte con il coltello. Sembrerebbe che l’amore, la passione, la gelosia rendano tutto più comprensibile, perfino irrilevante a leggere tante cronache in cui delitti efferati scivolano via come se nulla fosse. Eh no, dice il Papa, con un intervento che avrà un gran peso, è la stessa violenza di chi uccide in nome di Dio.
Cito il Papa non per particolare venerazione, ma perché incide nel cuore di quella visione che regge il sistema che attribuiva ai maschi un potere sulle donne. Anche i più miserabili, quelli agli ultimi gradini della scala sociale, spettava almeno una donna. Nessuno avrebbe sindacato su come la trattava. La benevolenza dipendeva solo da lui. Mostrano a tutti, le parole di Francesco, che quel sistema è destabilizzato fin dalla radice. «Non c’è più religione», è una battuta fin troppo facile che coglie una sostanziale verità, dice il sommovimento che ha investito gli uomini, che non capiscono più il mondo in cui vivono. Da padroni che erano si trovano privi di tutto, compreso il premio promesso.
Gli omicidi di questi anni non hanno più nulla a che fare con l’antico delitto d’onore, pratica inserita con piena legittimità nell’ordine riconosciuto del patriarcato.
Ora chi uccide difende un sé maschile smarrito in un mondo incomprensibile, in cui non c’è più un posto predeterminato dalla nascita, perché ti capita di essere maschio. Per questo è importante quello che dicono gli uomini, o non dicono, il lavoro iniziato da alcuni per dipanare la fitta trama delle complicità e delle omissioni. Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa.
Quanto alle donne, la loro autonomia è un fatto reale, di popolo. Riguarda tutte, non poche signore delle élite, questa massa indica la forza del cambiamento. E per quanto riguarda i pericoli reali, ci sono tutti gli strumenti. Le leggi, che non bastano se non c’è l’educazione, la prevenzione. Ci sono i centri anti-violenza.
Perché si tagliano i fondi? La ministra Maria Elena Boschi ha convocato un summit per l’8 settembre. Ma non ci vuole un summit speciale, per ri-finanziare i centri. O è solo propaganda?
L’ITALIA sta cambiando pelle. Per la prima volta in novant’anni, nel 2015 la popolazione residente è diminuita (-130.061 unità), malgrado il leggero aumento degli stranieri (+11.716). Al 31 dicembre scorso eravamo 60.665.551 residenti, di cui oltre 5 milioni non italiani (8,3% su scala nazionale, 10,3% nel Centro- Nord), anzitutto romeni (22,5%) e albanesi (9,3%). Il saldo migratorio positivo è stato di 133 mila persone. Continuiamo peraltro a invecchiare, con un’età mediana di 44,7 anni. Seguendo le tendenze attuali, compresa un’immigrazione netta intorno alle 100 mila unità annue, nel 2050 ci ridurremo a circa 57 milioni. Senza immigrazione — ipotesi di pura scuola — perderemmo 8 milioni di abitanti, calando a 52 milioni. Come gran parte dei Paesi europei, Germania in testa, gli italiani del futuro prossimo saranno di meno, più vecchi e culturalmente più diversi. Ad allargare la forbice con la sponda Sud del Mediterraneo, dove gli abitanti crescono e sono giovani, dunque mobili e più disponibili a lasciare le loro case (o ciò che ne resta) per puntare alla riva Nord.
Immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull’Italia senza produrvi strappi, a tessuto sociale e politico- istituzionale costante, implica l’uso di sostanze stupefacenti. Eppure, proprio questa sembra la postura della nostra “classe dirigente”. Refrattari a riconoscere il mutamento quando affrontarlo produrrebbe costi politici e di immagine, i governi italiani, a prescindere dal colore, procedono per inerzia, aggiustamenti, reazione retorica alle emergenze. Rimuovono la cogenza della demografia, declassano le ondate immigratorie a fenomeni estivi — mentre nel pubblico si diffonde la sindrome dell’”invasione” — rinviano alla Chiesa, al volontariato e agli enti locali i compiti di accoglienza, rifiutano ogni scelta sul modello di inclusione di chi sbarca in Italia per restarvi.
Certo non possiamo invertire a comando il movimento naturale della popolazione, nemmeno se fossimo una dittatura. Ma non è consigliabile esimerci dal disegnare una strategia di sviluppo fondata sulla gestione sistemica dei flussi migratori, sull’integrazione di una quota determinante degli immigrati — soprattutto delle seconde, presto terze generazioni — e sulla correlativa necessità di stabilire relazioni speciali con le terre di origine dei nuovi italiani. Altrimenti la disputa sull’identità italiana sarà risolta nello scontro di piazza tra estremisti xenofobi militarizzati e bande di immigrati organizzate su fondo etnico-religioso, fra loro rivali. Con la maggioranza degli autoctoni a tifare per i primi, visto che l’82% degli italiani si dichiara ostile agli zingari (record europeo), il 69% ai musulmani (ci battono solo gli ungheresi, al 72%), cui si aggiunge lo zoccolo duro antiebraico (24%), sintomo classico di intolleranza per il “diverso”.
Sul fronte migratorio, la novità di quest’anno è che da paese di transito siamo diventati paese obiettivo. Chi sbarca nella penisola, sopravvivendo al Canale di Sicilia, tende a restarvi. Ciò per il convergere di costanti flussi migratori da Sud e più duri controlli alle frontiere alpine, con cari saluti allo spirito di Schengen.
«Il manifesto, 4 agosto 2016
Del resto la stoffa di questa imbarazzante classe dirigente l’ha efficacemente esibita la responsabile dell’informazione del Pd, Alessia Rotta, quando ha rampognato il Tg3 di Bianca Berlinguer per non aver trasmesso il taglio del nastro dell’ennesimo cantiere della Salerno-Reggio Calabria, proprio nel giorno in cui l’abate di Rouen veniva sgozzato dai terroristi. E di questa classe dirigente Renzi è il campione nazionale.
Le nuove nomine, con annessi contratti d’oro di dirigenti e consulenti, effettivamente superano, dobbiamo riconoscerlo, gli insegnamenti del vecchio maestro di Arcore e assistere alle scene di leso pluralismo dei berlusconiani di ogni ordine e grado aggrava soltanto l’effetto-farsa. Se i vecchi e nuovi alfieri del centrodestra dovrebbero avere la decenza di tacere sulla devastazione culturale del ventennio, con i conflitti di interesse, l’overdose di nani e ballerine, gli editti bulgari, tuttavia chi sostiene che con Renzi è peggio dice la pura verità. Il perché è semplice.
Negli anni dell’impero di Arcore, resistevano una rete e un tg non allineati contro i quali si infrangevano i tentativi per emendare dal virus «comunista» anche le residue, ultime enclave di opinioni non omologate. E, a quei tempi, spesso da chi praticava lo sport del «cerchiobottismo» o da chi, a sinistra, non aveva mai studiato l’alfabeto mediatico, l’abbuffata televisiva di Berlusconi veniva confusa con il peccato di ingordigia.
In realtà il padre-padrone della televisione italiana sapeva, meglio di tutti, che per rendere efficace il nuovo verbo politico, nessuna voce dissonante doveva «sporcare», il messaggio del grande imbonitore. Una rete affilata come era Raitre o un tg che si fregiava del blasone di Telekabul, erano la classica goccia che scavava nell’opinione pubblica insinuando nel telecittadino il tarlo del dubbio, l’anomalia del pensiero critico che oggi si gioca nello scontro del referendum costituzionale. Con l’allineamento dei tre telegiornali del servizio pubblico al Renzi-pensiero, anche quella crepa si chiude.
«Il manifesto, 3 agosto 2016 (c.m.c.)
Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, Libertà di migrare, Giulio Einaudi editore, 12,00 €.
Per decenni gli scienziati hanno sostenuto che la principale novità verificatasi nell’organismo che poi abbiamo chiamato umano sia stata la crescita del cervello. E invece non era vero: il salto qualitativo dei nostri antenati si è verificato dall’altro capo del corpo: nei piedi. Fu la formidabile invenzione della postura bipede.
Non ci avevo mai pensato e questa rivelazione, letta nel libretto appena uscito Libertà di migrare (Einaudi, pp. 130, euro 12), scritto da Valerio Calzolaio ( uno dei fondatori de il manifesto delle Marche, poi anche sottosegretario all’Ambiente in un governo Prodi, e autore, già nel 2010, di Ecoprofughi) con Telmo Pievani (docente di filosofia delle scienze biologiche e autore di numerosi volumi su questi temi), mi ha molto colpito.
In effetti, fu proprio l’uso più funzionale degli arti che consentì quasi tutto quello che poi gli umani hanno fatto. Senza questo supporto, anche il cervello, privo di stimoli, non si sarebbe sviluppato. Spingendolo a far ginnastica nel riflettere sulla scoperta del mondo che andavano facendo, esplorato per curiosità o per cercare condizioni più favorevoli di vita o, peggio, per sfuggire alla morte indotta dalle catastrofi naturali. Insomma: all’origine dell’umano c’è proprio la migrazione, la prima avventura cui i nostri antenati si sono dedicati. E noi siamo tutti figli di emigranti, per di più africani (la Terra come si sa si è popolata a partire da lì) e però provvisoriamente transitati per un’altra area cruciale, il Medio Oriente (questo volumetto lo consiglierei innanzitutto a Salvini, perché se ne facesse una ragione).
L’accadimento è molto antico, come prova quella che viene considerata la prima orma umana, impressa nel tufo creato dalla pioggia mischiata alle ceneri uscite da un vulcano in ebollizione in Tanzania. Si deve trattare all’incirca di due milioni di anni fa; e da allora la grande migrazione «out of Africa» ha popolato tutti i continenti, salvo l’Antartide, via via mischiando, differenziando, reciprocamente influenzando gli individui.
All’inizio, e a lungo, la migrazione – documentano gli autori – è stata tutta generata dai mutamenti ambientali. E così è in definitiva anche oggi e sarà sempre di più domani. Anche se da quando, con la prima agricoltura, venne al mondo «il terribile diritto di proprietà», cominciarono i conflitti, poi via via le guerre grandi, come quelle dei nostri giorni, e con loro si produsse un nuovo tipo di migrante, il rifugiato politico (un dato impressionante come metro della salute della democrazia contemporanea: questa categoria dal 1970 è triplicata!).
All’ «out of Africa» delle origini si è aggiunta, nell’epoca moderna, l’«out of Europe», cui dà un corposo impulso il colonialismo, che, al seguito degli eserciti conquistatori manda i suoi milioni di pieds noir. Un crescendo spaventoso, perchè l’occupazione del mondo si estende a dismisura: nel 1800 gli Stati nazionali guerrieri occupano il 35% delle terre, all’apogeo imperialista,nel 1914, si è arrivati all’81,4.
Le narrazioni sui migranti andrebbero intrecciate con quelle sui confini, con l’invenzione delle frontiere lungo cui si ergono muri, perché legittimano o delegittimano quello che è stato da sempre il movimento naturale degli umani (consiglio di leggere, in abbinata, il volume appena uscito che Sandro Mezzadra ha dedicato all’argomento, Terra e confini edito da manifestolibri).
Il fatto è che a differenza di altre categorie di odierni migranti quelli cosiddetti «ambientali» (vittime di eventi climatici o geofisici, quelli per catastrofi nucleari non sono nemmeno nominati) non hanno alcuno status legale. Nonostante esista un’Agenzia dell’Onu che si occupa del problema, la Unep, e nonostante proprio l’Onu abbia pubblicato, già nel 1985, il primo essenziale saggio sui rifugiati ambientali, scritto dell’egiziano Essam El Airmarwi. E nonostante la Dichiarazione sui diritti umani del 1948 reciti con grande chiarezza che deve esserci libertà di partire e diritto a restare per chiunque, ovunque.
A ricordare che i rifugiati climatici non hanno riconoscimento è stato papa Francesco: al paragrafo 25 dell’enciclica Laudato Si’. Poiché le previsioni ci dicono che nel giro di qualche decennio saranno 40 milioni gli abitanti delle città costiere minacciati di essere sommersi, e 700mila coloro che, sui 2,4 miliardi insidiati dalla desertificazione, costretti ad andarsene subito dalle loro terre, sarà bene cominciare ad occuparcene seriamente. Questo libro aiuta a capire.
«». Internazionale online, 1 agosto 2016 (c.m.c.)
Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione.
Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare.
Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla).
Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può: «La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti».
Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento.
Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate.
Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio: «Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un ‘intervento d’emergenza e primario per le vittime’ ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità».
Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto).
Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma: «L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: ‘È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato’».
L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: «Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’».
È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti?
Daltra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente.
«Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato.
Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica.
L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica».
È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili.
Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così: «Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner».
Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me.
Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle.
Agire sul piano personale e collettivo
Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: «Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche»), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo.
«La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale», scrive Valcarenghi.
E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti.
Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.
Riferimenti
Vedi in proposito l'appello "C'è una questione maschile" proposto da Enzo Scandurra e lanciato da eddyburg
Il manifesto, 3 agosto 2016 (c.m.c.)
È probabilmente in gioco un’idea di democrazia. Democrazia non è tanto e solo garantire a tutti libero accesso all’istruzione quanto dare a tutti delle buone ragioni per istruirsi. Così è democrazia non tanto e non solo garantire a tutti la libertà di voto quanto dare a tutti delle buone ragioni per andare a votare. Proviamo a vedere come.
Il Sì a Brexit è espressione di follia o di saggezza della folla? La maggior parte dei commentatori italiani propende per la prima spiegazione, i leader dei partiti cosiddetti populisti per la seconda. Come stanno veramente le cose? Su Repubblica, Walter Veltroni conclude una intervista di commento affermando: «Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell’Europa…».
Sempre su Repubblica, il direttore Calabresi mette sullo stesso piano democrazia diretta e sondaggi in tempo reale per dire che «la febbre di oggi è la semplificazione», che pretende di risolvere magicamente i problemi” e che non ha «bisogno di esperti e competenze»; sul suo profilo Facebook, Saviano dice di non essere tanto sicuro che con Brexit abbia vinto il popolo, perché ricorda che il Popolo, nel 1938, acclamava «Hitler e Mussolini a Roma affacciati insieme al balcone di Piazza Venezia». (Questo tipo di argomentazioni fa venire in mente il libro La pazzia delle folle, 1841, che racconta le illusioni collettive che sono alla base di gravi crisi finanziarie).
Veltroni è comunque coerente con quanto da lui proposto negli ultimi dieci anni: semplificando grossolanamente: alle folle si può dare il compito di incoronare i candidati premier, i candidati sindaci e i segretari di partito attraverso le primarie (regolate per legge), ma la sinistra deve avere il coraggio di dare ai politici che governano maggiore capacità di decisione sulle altre scelte importanti. Secondo l’ex segretario del Pd, c’è bisogno di questa «soluzione governante non democratica» in quanto società, economia e comunicazione sono iperveloci, mentre la capacità di decisione della macchina democratica è iperlenta.
L’architettura decisionale progettata da Veltroni non tiene però conto di diversi fattori, messi in rilievo dalla esperienza quotidiana e dalla letteratura scientifica, e cioè: 1) quando le decisioni politiche sono condivise dalla cittadinanza, esse trovano più veloce concreta attuazione di quando esse vengono prese dall’alto; 2) per decidere bene i politici devono avere una buona capacità di previsione, ma lo studio ventennale dello psicologo Philip Tetlock sulla capacità previsionale degli esperti mostra che quest’ultima è molto bassa e suggerisce ai leader di dotarsi di umiltà intellettuale; 3) in determinate condizioni le decisioni collettive sono più sagge di quelle dei cosiddetti esperti (La saggezza della folla, Surowiecki, 2005).
Ritornando a Brexit e non volendo entrare nel merito della decisione presa dagli elettori del Regno Unito, qui si vuole sottolineare che è superficiale l’analisi secondo cui il risultato del referendum si spiega con l’ignoranza e l’età dei votanti (leggasi: la democrazia diretta banalizza i problemi complessi, molto meglio la democrazia delle élite). Il problema non è se sia giusto o meno tenere referendum su tematiche importanti; ma come si organizzano i dibattiti che precedono il voto di questi referendum. Nei referendum popolari il dibattito avviene principalmente sui media.
Molto diversa da un punto di vista democratico sarebbe una situazione in cui, al posto dei referendum popolari, si organizzino consultazioni all’interno dei partiti politici: i dibattiti avverrebbero dentro i circoli locali dei partiti disseminati nel territorio nazionale, e potrebbero assumere la forma di discussioni deliberative ben strutturate e regolate: lavoro in piccoli gruppi, possibilità di ascoltare i pro e i contro delle diverse opzioni in campo, di fare domande agli esperti in plenaria, di approfondire attraverso materiale informativo bilanciato cartaceo/digitale, di interloquire e scambiare pareri con chi la pensa diversamente. A regolare il tutto sarebbero deputati i comitati rappresentativi delle opzioni in campo (nel caso di Brexit, un comitato per il sì e uno per il no), che avrebbero il compito di coordinarsi e di assicurare equilibrio nei dibattiti e correttezza nell’informazione.
Idealmente, in una democrazia del genere, i partiti avrebbero il compito di riacquistare il ruolo perso, di ascolto, analisi e sintesi dei bisogni di una parte della società, servendosi di tutti gli strumenti della democrazia deliberativa (Fishkin& Calabretta, 2012); i politici assumerebbero il ruolo di leader partecipativi, che in talune scelte conducono e in altre favoriscono la partecipazione; gli esperti metterebbero da parte un po’ di supponenza, aprendosi alle informazioni che non sono coerenti con le loro teorie; gli intellettuali avrebbero il compito di sottoporre le previsioni degli esperti a un processo di verifica; i cittadini sarebbero motivati ad assumersi le proprie responsabilità, a “studiare” le questioni complesse e a non scaricare tutte le colpe sui politici di turno; i giornalisti avrebbero il compito di svelare prima del voto le informazioni false al fine di propaganda…
Sono ovviamente tutti bei propositi, ma come innescare un meccanismo virtuoso che ci aiuti a realizzarli? Al fine di riacquistare la legittimità perduta (vedi Ignazi, 2014), lo dovrebbero innescare gli stessi partiti, consultando i propri iscritti/elettori sui temi più controversi, importanti e dibattuti. Non si tratterebbe di democrazia diretta, ma di democrazia rappresentativa che in alcuni casi si fa partecipativa e deliberativa (Doparie, dopo le primarie, Calabretta, 2010; , Petrucciani, 2014).
La realtà è molto diversa: più che alla rinnovata adesione a un grande progetto di democrazia, pace e prosperità, i ragionamenti di chi invitava a votare «remain» hanno richiamato alla mente il celebre invito a votare Dc col naso turato di Indro Montanelli (leggi Zizek su Internazionale e Parks sul NYTimes).
In questi anni di crisi economica e di globalizzazione sfrenata, il grave deficit di democrazia a livello nazionale e soprattutto europeo non ha offerto alternative all’elettore comune per poter esprimere il suo disappunto se non con l’astensionismo (di cui i politici continuano a non curarsi) o con la rabbia.
Solo ascoltando e facendosi influenzare deliberatamente dalla folla (divisa in tanti piccole folle nei dibattiti partitici locali), le élite riusciranno a riprendere il contatto con la gente comune e il senso comune (che secondo la interpretazione di La Capria non è l’opinione corrente, ma implica una ragionevolezza critica); solo sentendosi ascoltata e considerata, e non solo contata, la gente comune penserà di avere almeno un qualche controllo sulla propria vita e potrà essere un po’ felice.
Il manifesto, 3 agosto 2016 (p.d.)
«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del governo di unità nazionale, a sostegno delle forze fedeli al governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo è il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto. Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
«»La Repubblica,
Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione.
Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico compiuto in un contesto religioso?
La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto eccezionale e con le medesime finalità sociopolitiche.
Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo rivolgersi insieme all’unico Dio?
La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede?
Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non possono essere detti figli di Dio.
Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la valenza antropologica della preghiera.
Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi. È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera.
La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza) genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung: «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco lo strisciante malessere del nostro tempo.
Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti.
Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare è pensare al senso della vita».
Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su cui camminare nella fatica dei giorni. Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale.
E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.
. La procura di Bologna indaga ancora sui mandanti»La Repubblica,Il manifesto, 2 agosto 2016 (c.m.c.)
La Repubblica
UNASTRAGE E L’ALTO TRADIMENTO
L’ULTIMO MISTERO DI BOLOGNA
di Carlo Lucarelli
Era un 2 agosto come oggi, esattamente 36 anni fa, quando Bologna, e la sua stazione, furono squassate da un’esplosione: 85 morti, oltre 200 feriti, una ferita mai sanata per la città e per il Paese. Una bomba per colpire al cuore la nostra vita, le nostre vacanze, i nostri affetti. E anche l’inizio di una vicenda giudiziaria lunga, tormentata. Ancora aperta. Strage, insurrezione armata contro i poteri dello Stato e guerra civile.
La bomba che provocò 85 morti e oltre 200 feriti resta una ferita aperta del nostro Paese Un libro curato da Paolo Bolognesi fa il punto sul coinvolgimento della loggia e di uomini di Stato con l’aggravante, per i militari, del reato di alto tradimento. Queste le ipotesi d’accusa formulate dalla procura emiliana – anche se al momento contro ignoti – su impulso dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna. Alto tradimento è anche il titolo di un libro che ad essa è dedicato.
Stiamo parlando della stessa cosa. Parliamo di uomini dello Stato che hanno abiurato al giuramento di fedeltà che avevano fatto. Parliamo di cittadini inermi che dalla bomba di Bologna sono stati falciati. Alto tradimento – appena uscito per Castelvecchi nella collana Stato d’eccezione diretta da Andrea Speranzoni e Silvia Buzzelli – è curato da Paolo Bolognesi, dal 1996 Presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime e dal 2013 deputato indipendente eletto nelle liste del Pd, che ha messo insieme una squadra di ricercatori, ex magistrati e giornalisti. Sono Claudio Nunziata, Roberto Scardova, Gigi Marcucci, Giorgio Gazzotti e Antonella Beccaria. A loro Bolognesi ha chiesto di scavare nella mole di centinaia di migliaia di atti giudiziari di cui l’Associazione stessa si è servita per i suoi memoriali depositati in procura, per far apparire i fili che possano condurre ai mandanti.
Nel libro questi fili emergono. Eccome se emergono. E ne emerge uno un particolare. Giovanni Falcone, per combattere la mafia, diceva che bisognava seguire il percorso del denaro – « Follow the money », raccomandava – e anche qui, in queste pagine, si parte dal percorso che fecero quindici milioni di dollari usati, nell’ipotesi degli autori, per finanziare il massacro del 2 agosto 1980. Ci sono le carte, a volte poco più di foglietti contabili, che ne raccontano la storia. Carte, come il “documento Bologna”, che vengono trovate a Castiglion Fibocchi quando la guardia di finanza perquisisce il 17 marzo 1981 l’azienda di Licio Gelli e che sono addosso allo stesso Venerabile della P2 quando viene arrestato a Ginevra meno di un anno e mezzo dopo. Strano che si porti sempre addosso proprio quei foglietti.
Incrociandoli con altro materiale che salta fuori dal processo per il fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, ecco allora comporsi un puzzle fatto di conti correnti. Alcuni hanno nomi fantasiosi, come il Recioto, che ai più ricorda solo un buon vino veneto. Altri sono riconducibili a uomini della P2, altissimi funzionari dello Stato italiano, giornalisti chiacchierati. Il disegno che pian piano si configura non riguarda tentativi più o meno riusciti di corrompere ufficiali della Fiamme gialle, come pensato ai tempi, ma il finanziamento di ambienti eversivi per arrivare a ribaltare le istituzioni, facendolo da dentro. Dai documenti trovati, poi, salta il nome “Bologna” e nulla viene trasmesso alla procura che indaga sulla strage più grave del dopoguerra italiano. Strano anche questo. Perché?
La storia di questo Paese è stata attraversata da tanti, tantissimi morti, da tentativi di colpi di Stato, da una violenza indiscriminata che nel 1974 sembra scomparire e invece si inabissa, come ha fatto la mafia dopo la stagione stragista del 1992 e del 1993. In realtà è sempre lì, come quegli uomini che lavorano per sovvertire lo Stato, infiltrando però e infettando i suoi organi.
Ci sono riusciti? A sentire Gelli, quando la P2 fu scoperta, mancavano quattro mesi a un golpe soft, senza i carri armati, il coprifuoco e i proiettili sparati ad altezza d’uomo. «Il Paese deve sapere chi, tramite Licio Gelli, fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti», si legge sul manifesto dell’anniversario di quest’anno. Considerando che ancora oggi siamo qui a porci certe domande, sicuramente qualcosa non ha funzionato in una nazione che ha saputo dare un nome ai responsabili materiali e ai depistatori, ma non è riuscita ad andare più su, verso chi ha la responsabilità politica di aver scatenato una vera e propria guerra civile, come ipotizza la procura di Bologna.
Il manifesto
STRAGE ALLA STAZIONE,
COMMEMORAZIONEA BOLOGNA.CON IL REATO DI DEPISTAGGIO
Trentasei anni fa, ma Bologna ricorda ancora. Non è stato scalfito il dolore per la morte delle 85 persone uccise (e 200 feriti) dalla bomba deflagrata il 2 agosto 1980 alla stazione; unica consolazione l’approvazione definitiva, nel maggio scorso, del reato di depistaggio per ottenere il quale l’associazione dei familiari delle vittime si è battuta a lungo per anni, riuscendo finalmente a portare a termine l’iter di legge grazie all’impegno del presidente Paolo Bolognesi, il deputato eletto nel 2013 nelle liste del Pd.
Per la strage sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva come esecutori materiali gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro insieme all’altro ex Nar, all’epoca minorenne, Luigi Ciavardini, condannato a 30 anni. La procura di Bologna invece indaga ancora sui mandanti, inchiesta che la stessa associazione dei familiari aveva sollecitato depositando un anno fa un nuovo dettagliato dossier, frutto di un lavoro di ricerca e dell’analisi incrociata di migliaia di pagine di atti giudiziari di processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 ad oggi. Per ulteriori sviluppi, i magistrati attendono con interesse le motivazioni della sentenza della Corte di assise di appello di Milano che a luglio 2015 ha condannato Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. L’inchiesta bis che indagava i terroristi tedeschi Thomas Kram e Margot Christa Frohlich in una presunta «pista palestinese» è stata archiviata a febbraio 2015.
Come ogni anno, questa mattina sfilerà il corteo lungo via Indipendenza fino alla stazione ferroviaria dove l’orologio della facciata ovest segna ancora le 10:25, l’ora dello scoppio della bomba, quando si osserverà un minuto di silenzio. Dal palco allestito davanti alla stazione parleranno tra gli altri il sindaco di Bologna Virginio Merola e il presidente dell’associazione, Bolognesi.
Alle 8:30 il Comune ospiterà un incontro con i familiari al quale parteciperà, in rappresentanza del governo, il sottosegretario alla presidenza Claudio De Vincenti. Alle 11:30 nella Chiesa di San Benedetto, il vescovo Matteo Zuppi celebrerà una messa alla quale parteciperanno anche i rappresentanti della comunità islamica bolognese.
In serata, alle 21:15, l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna suonerà in piazza Maggiore i brani vincitori del concorso internazionale di composizione dedicato alla memoria del 2 agosto. Gli attivisti del Nodo sociale antifascista, che spesso hanno contestato i rappresentanti del governo, hanno annunciato che quest’anno usciranno in silenzio dalla piazza dopo il minuto di silenzio.
Il manifesto, 2 agosto 2016 (c.m.c.)
Dopo la Brexit, è sempre più evidente che l’Europa sta pagando i prezzi della globalizzazione, cioè dell’adesione a un paradigma che ha azzerato gli argini al capitalismo finanziario (ad esempio, facendo saltare ogni intercapedine protettiva tra risparmio e speculazione, economia reale e finanza tossica) e puntato tutto sulla creazione di un esercito proletario di riserva globale.
A dispetto della narrazione sui presunti effetti liberatori dell’empowerment individualistico, la sostanza concreta è uno stato di natura creato dall’alto, ovvero la guerra di tutti contro tutti tra subalterni. Nell’illusione di gestirla attraverso una separazione definitiva tra “alto” (inafferabile perché sradicato) e “basso” (depotenziato perché schiacciato sui territori): uno schema che ambiva a una completa immunizzazione del capitale e delle tecnocrazie al suo servizio.
Ci sarebbe l’ostacolo della democrazia, che in tempi difficili non è così agevolmente domabile (nonostante il potere del denaro e l’asservimento mediatico al discorso dominante). Ecco emergere, allora, un fronte antioligarchico, ambivalente quanto si vuole, ma che esprime un’effettiva energia politica “popolare”.
È bene essere chiari rispetto a quanto sta succedendo: non si tratta né di una sfortunata congiuntura (come se il fallimento dell’Europa fosse una calamità naturale), né di un destino cinico e baro (non ci avete capito, siete ignoranti, ve ne pentirete): il nodo è strutturale e la responsabilità complessiva, tanto economica quanto istituzionale e politica. L’establishment dell’Unione, e le classi dirigenti nazionali, hanno scelto di sacrificare il modello sociale europeo e di consegnarsi allo strapotere della finanza: per furore fideista travestito da necessità tecnica, convenienze nazionali (dei Paesi più forti), calcoli di piccolo cabotaggio (ad esempio del governo italiano), rifiuto di dire la verità sulle contraddizioni strutturali dell’euro, hanno «comprato tempo» (cfr. W.Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli 2013) confidando nel metadone (il quantitive easing) di Draghi.
Ma nel momento in cui l’Europa si è messa integralmente al servizio del culto ordoliberale, accantonando gli obblighi di solidarietà proclamati nella Carta dei diritti (tranne che, paradossalmente, per i ricchi tedeschi esportatori e i grandi creditori), si è condannata per forza di cose al ripudio da parte dei popoli europei.
È surreale, ma estremamente significativo, che ciò sia accaduto di fronte alla più grande crisi economica e sociale dopo il 1929: la memoria evidentemente non insegna più nulla, se non è sostenuta da soggettività politiche critiche e da una sfida antagonistica (come fu quella dell’eresia bolscevica) che la tengano viva. È come se la gestione della crisi e i suoi effetti avessero avuto un effetto di disvelamento sulla reale natura dell’Europa di Maastricht, edificata sulle macerie del Muro.
Se l’Europa, e in particolare l’area euro, si fosse incamminata, di fronte alla crisi, sulla strada di un’unione politica della solidarietà, la situazione attuale sarebbe molto diversa, perché avremmo non squilibri crescenti ma coesione (tra gli Stati e al loro interno), e ciò consentirebbe di affrontare con ben altre risorse materiali e simboliche la sfida complicata della costruzione di un’effettiva sfera pubblica europea e di un’integrazione paritaria. Ma questa strada avrebbe implicato una decisione politica esplicita e consapevole della sua natura costituente, che accettando il rischio di coinvolgere i popoli europei, ponesse fine a quell’aggiramento dei nodi del politico che in tanti hanno coltivato in questi anni.
La cruda realtà invece è che oggi siamo di fronte a un dispositivo di governo che tutela i forti e penalizza i deboli. Perciò è l’Europa stessa la prima fonte di divisione.
Del resto, che fossimo di fronte al rischio di una saldatura tra questione sociale e questione identitaria era evidente. Ma nulla è stato fatto per favorire un recupero di sovranità democratica e solidarietà sociale. Al contrario, governi tecnici e larghe intese sono serviti a blindare le fallimentari ricette antisociali dell’Ue, adottate in nome dell’emergenza, frutto dei dogmi stessi sulla quale l’Europa attuale è costruita. Sullo sfondo, il monito della lezione impartita ai greci riottosi, che avevano osato ribellarsi esercitando la loro libertà politica e il diritto a decidere di se stessi.
È notevole come la presunta neutralità tecnocratica viva di pregiudizi moralistico-antropologici: i greci irragionevoli, gli italiani scansafatiche, in generale i ceti popolari ignoranti e privi di lungimiranza. In realtà, sono le reazioni isteriche alla Brexit a rivelare grande superficialità: nessuna analisi seria, autocritica, un profluvio di moralismo propagandistico unito a umori violentemente antipopolari.
Le presunte nuove fratture, come quella generazionale, o fra istruiti e non, sono coperture fuorvianti, diversivi che mantengono il dibattito sulla superficie. Servono a compiacere e rassicurare i vincenti della globalizzazione (o quelli che ancora stanno a galla), attraverso una strategia di squalificazione morale degli esclusi, confermando l’auto-narrazione neoliberale. Ma le questioni profonde, strutturali, sono sociali, indotte dalle dinamiche del capitalismo globale e dell’Europa ordoliberale: impoverimento della working class, disoccupazione, decadimento delle infrastrutture pubbliche, tagli al Welfare. Il punto è che tali contraddizioni non sfociano in un conflitto economico-sociale esplicito, aperto, né trovano una coerente rappresentanza, e perciò si traducono in dicotomie (come quelle connesse all’immigrazione) che occultano o distorcono la loro concreta matrice.
Il vero tema, per il rilancio di una politica effettivamente di sinistra, e per una riflessione all’altezza di questo compito, è come recuperare a una dialettica democratica reale questo nucleo di classe. Si tratta di indagarlo nella concretezza delle forme in cui si manifesta, senza fare troppo gli schizzinosi, e a partire da qui riorientarlo verso i bersagli giusti, come ci invita a fare Zizek nel suo ultimo libro (La nuova lotta di classe, Ponte alla Grazie 2016), che smonta un bel po’ di luoghi comuni perbenisti della sinistra. Il primo rischio da evitare è quello del cordone sanitario rispetto ai «barbari»: ci porterebbe tutti sotto l’ombrello della Bce. Come aveva ben capito Gramsci, il pericolo per gli «intellettuali» è sempre quello di parlare di se stessi, scambiando il proprio punto di vista particolare, le proprie esigenze di ceto, con la realtà. Anche per questo in tanti, oggi, sono spiazzati da una realtà popolare» che non conoscono né comprendono.
Mentre i sintomi di una sindrome weimariana su scala europea si manifestano, le cosiddette élites, di cui ormai è parte integrante ciò che resta del socialismo europeo (che infatti è boccheggiante), continuano a vivere in un mondo rovesciato, in una bolla: non a caso credono (o fingono di credere) in cose che non esistono (l’Unione come democrazia sovranazionale, l’austerità espansiva, le magnifiche sorti e progressive del TTIP).
Tutto per non ammettere che stanno solo difendendo il «sistema» (il capitalismo finanziario: la democrazia e la dignità delle persone non c’entrano nulla) e che le terapie velenose che hanno imposto hanno solo peggiorato la situazione. I fallimenti sembrano renderle ancora più cieche e livide, quindi pericolose.
Tutto lascia prevedere che se non si attivano energie di sinistra in grado di riprendere contatto con la realtà sociale dei ceti popolari, l’uscita dal fallimento europeo sarà da destra. Il rischio è con l’Europa siano travolte anche le democrazie costituzionali.
«Costituzione. Aveva detto: "Fosse per me lo farei il prima possibile". Adesso invece vuole spostarlo quasi a Natale. Ma non è per ragioni tecniche o perché il voto rischia di incrociare la sessione di bilancio».
Il manifesto, 2 agosto 2016
«A ottobre ci divertiremo», diceva il presidente del Consiglio quando ancora immaginava che il Sì potesse vincere facilmente il referendum costituzionale. Ora, non prevedendo più risate, sta cercando di azzerare la campagna elettorale per farla ripartire su basi completamente diverse dopo l’estate e soprattutto dopo una legge di stabilità che dovrebbe concedere nuove mance elettorali. Ora sostiene di non aver mai voluto personalizzare il voto sulla Costituzione, eppure è stato sempre lui a dire che «può votare no solo chi mi odia»
Se davvero le sue preoccupazioni fossero di ordine istituzionale, per evitare l’incrocio tra il referendum e la sessione di bilancio ci sarebbe tutto il tempo di votare prima che il parlamento cominci ad esaminare i conti. È vero, la legge impone al governo di presentare la stabilità alle camere (quest’anno si comincerà da Montecitorio) entro il 15 ottobre (e prima ancora i documenti andranno inviati a Bruxelles). Ma il governo Renzi l’anno scorso ha fatto arrivare la legge di stabilità in senato solo il 25 ottobre. Fino ad allora nemmeno le commissioni hanno visto un cifra. A ottobre 2016 ci sono dunque ben tre domeniche in cui si potrebbe andare a votare per il referendum prima che la manovra, con le sue annunciate elargizioni, impegni il parlamento: il 9, il 16 e il 23 di quel mese.
La legge concede al governo la possibilità di rimandare il consiglio dei ministri (che convoca il referendum) fino a 60 giorni dopo la comunicazione della Cassazione che le richieste di referendum sono regolari. La possibilità, non l’obbligo. Quanto alla comunicazione della Cassazione, questa sarebbe già arrivata non fosse per le firme che il Pd ha presentato in extremis. I giudici stanno discutendo se è il caso di sottoporle a immediata verifica o se si può soprassedere. Ne parleranno ancora dopodomani, giovedì. Se decidessero di procedere con la verifica delle firme, potrebbero ufficializzare il loro via libera al più tardi il 14 agosto. Anche allora se Renzi volesse essere di parola – «fosse per me voterei subito» – potrebbe convocare il consiglio dei ministri in tempi brevi, entro la fine di agosto, per votare prima della sessione di bilancio.
Ma giovedì i giudici della Cassazione potrebbero anche chiudere la questione, decidendo che non ha senso aspettare il conteggio delle firme dal momento che le richieste di referendum presentate dai parlamentari sono state già accolte. E così, convenienze governative a parte, il referendum potrebbe essere indetto per ottobre (dal presidente della Repubblica, che firma un decreto del governo) già la prossima settimana. Non c’è nulla di tecnico dietro la decisione di Renzi di allungare la campagna elettorale.
Internazionale online, 1 agosto 2016 (c.m.c.)
Da quando vivo a Ouagadougou, ho l’abitudine di passeggiare nelle sue strade la sera molto tardi, quando la città si svuota. Una sera mi perdo nelle strade di Pissy, un quartiere popolare nella parte ovest della capitale. All’improvviso sento un odore di fumo acre, che mi stringe il naso e la gola. Per la prima volta entro in contatto con la cava di granito di Pissy, che dà lavoro a molte famiglie della zona.
Ci torno la mattina dopo. Vedo, in fondo a un sentiero di terra rossa, delle piramidi di pietre bianche e di sabbia setacciata. Alcuni camion. Un nugolo di bambini, alcuni di loro annunciano il mio arrivo. Corrono dietro di me e urlano: “Nasara! Nasara!”, che significa “la bianca”. Si mettono in fila indiana davanti a me. Uno di loro viene a salutarmi: incrocia le braccia sul petto piegando leggermente le ginocchia. Un altro lo imita. Questa forma di saluto è un segno di rispetto e umiltà, rivolto a “coloro che ti superano”, mi ha spiegato un’amica. Glielo insegnano a casa o a scuola. Il gesto non è riservato ai “bianchi” ma agli adulti in generale.
All’inizio mi sento intimidita. Mi siedo al bancone di un chiosco che serve caffè: è un’enorme scatola metallica blu poggiata su un sentiero di terra. Saluto con un sorriso. Poi mi metto a fissare lo schermo della televisione. Uomini e bambini sono impegnati a guardare un vecchio film con Jackie Chan. Mi unisco a loro. Mamoudou, il proprietario, mi dà il benvenuto e mi serve un sacchetto d’acqua. Un adesivo con il volto di Gheddafi e un altro con quello di Ronaldinho sono incollati al frigo.
Mamoudou compra anche il granito. Lo rivende a privati e imprenditori. Pensa che io sia lì per comprarne un po’. Gli spiego cosa mi ha portato da quelle parti e il mio lavoro di giornalista. Gli rivelo che non sono di passaggio ma che vivo a Ouagadougou. Rassicurato, m’incoraggia a portare avanti il mio progetto.
Mamoudou m’accompagna nella cava per presentarmi ai lavoratori. Attraverso alcune file di capanne che vengono montate la mattina e smontate la sera. Una donna pianta una fragile canna di bambù e la ricopre con un lembo di tessuto consumato. Ogni mattina mettono su queste piccole capanne per proteggersi dal sole. Poco più avanti alcune donne scavano nel terreno. Hanno dieci chili di pietra sulla testa. Alcune trasportano anche i loro bambini sulla schiena.
Attrazione turistica
Vista dall’alto la cava somiglia a un abisso profondo varie decine di metri. La prima volta che entro in questa buca, mi sento soffocare. Intravedo alcune sagome che attraversano delle nubi polverose: sono i gas tossici rilasciati dagli pneumatici che vengono bruciati per rendere la pietra più fragile prima di romperla.
Sento alcuni lavoratori tossire tra i rumori assordanti dei colpi di martello e piccone. La maggioranza delle persone che lavorano qui non ha maschere di protezione né guanti. Mentre scende un pendio sinuoso, una lavoratrice si rivolge a me chiedendomi: “Mana wana” (come va?). Le rispondo: “Lafi, za karamba” (tutto bene, e la famiglia?). “Lafi, lafi, lafi”, risponde lei, tenendo la sua mano nella mia, che viene scossa a ogni parola pronunciata in moré, la lingua parlata dai mossi, l’etnia maggioritaria del paese.
Fiduciosa, estraggo la mia macchina fotografica, faccio due o tre scatti di questa anziana, con il suo permesso, prima di essere avvicinata da un’altra donna che mi stringe la mano, poi con l’altra si tocca la bocca più volte, facendomi segno che vuole mangiare, che le devo dare da mangiare in cambio della foto. Altre donne fanno lo stesso.
Lo sfruttamento della cava di granito è artigianale. In un simile ambiente la macchina fotografica è assimilata a una forma di ricchezza e a un’intrusione straniera. Fin dai miei primi scatti, un gruppo di lavoratori s’è mostrato ostile. La loro diffidenza si è diffusa come una tempesta di sabbia sugli altri lavoratori.
Mamoudou, il proprietario del chiosco, è sempre al mio fianco. Mi spiega che qui “i bianchi quando vengono, quando venivano, portavano aiuti, dei vestiti, delle medicine. Davano qualcosa e poi se ne andavano”. E c’è anche stato un gruppo di turisti venuti in autobus una volta. “Hanno scattato alcune foto e hanno continuato il loro viaggio a Bobo Dioulasso”, ricorda. Secondo loro, i bianchi li trattano come oggetti di curiosità, e questa cava non è altro che un’attrazione turistica.
Metto via la macchina fotografica e decido di trovare un terreno d’intesa. In Burkina Faso è importante saper conversare, le chiacchiere sono una vera e propria istituzione.
Un sostituto della scuola
Il primo giorno non scatto foto ma tengo la macchina al collo. Torno alla cava l’indomani. Saluto alcune donne e mi siedo al loro fianco. Qui si comincia dicendo il cognome: prima di essere individui si è innanzitutto discendenti di una stirpe. Discutiamo del significato dei nomi. Il mio, d’origine araba, significa “fabbro”. Un mestiere al contempo rispettato e temuto, anche se i fabbri sono sempre più rari. Ma ai loro discendenti sono ancora attribuiti poteri mistici. In moré il mio nome significa “piccolo capo”. Alcuni momenti di titubanza, poi risate: sono convinte che abbia degli antenati burkinabé.Prendo un martello, colpisco una pietra.
Cerco di portare dei sassi sulla testa. “È dura”, mi dice una di loro.Vorrebbe fotografarmi. Le spiego come usare la macchina fotografica. Guarda la foto e sorride. Altre donne fanno lo stesso e s’impadroniscono della macchina che diventa un oggetto un po’ meno estraneo. Così nascono i miei primi scatti, durante i momenti di silenzio, tra le chiacchiere, cui spesso assistono un bambino o un adolescente. La maggior parte di loro ha imparato il francese a scuola.Come Amy che, a soli 15 anni, conosce la cava come il palmo della sua mano. Sa come funziona e ha già qualche nozione di contabilità.
Ogni giorno saranno circa un migliaio le persone che penetrano in questo enorme cratere scavato durante gli ultimi vent’anni. Trasportano sulla testa un vassoio carico di pezzi di granito che rivenderanno a trecento franchi Cfa al pezzo (cinquanta centesimi d’euro). Ciascuno lavora per conto proprio e guadagna tra uno e due euro al giorno. Alla fine questo granito servirà a costruire degli edifici, delle case, delle strade.
Qui decine di bambini e adolescenti come Amy spaccano sassi dall’alba al tramonto, durante i fine settimana e le vacanze scolastiche. Altri, che non vanno a scuola, lavorano nella cava tutto l’anno. Amy mi spiega che il lavoro nella cava si svolge in famiglia, ciascuna delle quali può sfruttarne una piccola porzione. I figli aiutano i genitori per aumentare le entrate, pagarsi le spese per i bisogni più elementari e partecipare all’acquisto dei materiali scolastici.
Queste foto di bambini non rivelano solo la povertà, ma anche che la cava è un luogo dove imparano a essere autonomi, un sostituto della scuola in un paese dove sono troppo pochi i bambini che possono frequentarne una. Assisto a una scena rivelatrice dell’immersione dei bambini, loro malgrado, nel mondo del lavoro. Due di loro riempiono delle tazze con dei sassolini di granito. Hanno sette anni. Seduti in mezzo alla cava, la loro pelle e i loro vestiti sono ricoperti di una sottile pellicola bianca, probabilmente un misto di polvere rossa e del diossido di zolfo sprigionato dagli pneumatici bruciati. I loro gesti sono gli stessi di quelli degli adulti che riempiono i loro vassoi di granito per poi risalire i pendii sinuosi e scivolosi.
All’inizio penso che stiano giocando e imitando i gesti degli adulti, come fanno i bambini di tutto il mondo. Dieci minuti dopo uno dei bambini si alza e si mette a sedere davanti a una pila di granito. Prende un martello e sbriciola la pietra tra le sue mani fragili e ferite. Sembrano più vecchie. Il gioco era solo una pausa dal suo lavoro, anche se compiva le stesse azioni.
Da allora ho preso l’abitudine, una o due volte la settimana, di andare a trovare queste persone. A volte solo per salutarle. A volte, quando mi assento per troppo tempo, ricevo una chiamata da Josephine o da sua figlia Nadège: “Son due giorni che non passi. Ci hai abbandonati?”.