«Intervista a Achille Mbembe docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica». Comune.info
, 14 agosto 2016 (c.m.c.)
Stiamo vivendo un cambiamento epocale: si trasformano le antiche nozioni di tempo e velocità e il mondo si è contratto nello spazio, forse nessun angolo della terra è più sconosciuto. Mentre invecchiano le società del nord e ringiovaniscono l’Asia e l’Africa, assieme a enormi ondate migratorie che ricordano i primi tempi della colonizzazione, cresce una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid. La violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale.
Achille Mbembe, storico camerunense e docente all’università sudafricana di Johannesburg, uno degli studiosi più brillanti nell’interpretazione non eurocentrica del cambiamento in corso, rileva però – dal suo interessante punto di osservazione – che c’è anche un emergere di piccole insurrezioni in risposta alla “necropolitica” e alla brutalizzazione del corpo e del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Nascono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni e delle passioni. In una gran bella conversazione con il nostro amico Amador Fernández-Savater, Mbembe la chiama “la politica della visceralità”.
Crítica de la razón negra. Ensayo sobre el racismo contemporáneo (Critica della ragione nera. Saggio sul razzismo contemporaneo) di Achille Mbembe, pubblicato da Ned Ediciones e Futuro Anterior, è un trattato della portata di Orientalismo di Edward Said. Si tratta, anzitutto, di un’archeologia dell’enunciato eurocentrico che ha costruito un’idea dell’Africa come continente cannibale e barbaro, come quel territorio che poteva solamente fornire al capitalismo (ancora lo fa) uomini-cosa-merce, il suo volto oscuro.
In secondo luogo, il libro è un esercizio (etico, estetico, poetico) che, nella stessa tradizione di Said e degli studi culturali, si propone di pensarsi, conoscersi e dis-conoscersi “al margine” di questo sguardo imperiale europeo. Vale a dire di ri-costruire una memoria “dal basso” che sani e de-vittimizzi – è lo stesso – capace di progettare un futuro comune. Mbembe riscatta qui la letteratura dell’altra ragione negra, i poeti e i romanzieri, Fanon e Césaire, in un lavoro serio e delizioso, potente ed estremo, doloroso e foriero di speranze.
In questo libro analizza, infine, la vigenza delle pratiche coloniali/imperiali che oggi “inselvatichiscono” il mondo. Ciò che l’autore chiama e invita a pensare come «il divenire nero del mondo». Questo momento storico in cui, come dice in questa stessa intervista, «la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire e a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – ne possa sfuggire».
Achille Mbembe è nato in Camerun nel 1957. È docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica, dove analizza le politiche di adeguamento e di espulsione che sono state sperimentate, per prime, nel continente africano negli anni 90 e che oggi si diffondono dappertutto. Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Lei parla di “cambiamento epocale”, sulla base di cosa? Quali fattori lo indicano?
In effetti, credo che viviamo un cambio di epoca. Da un lato, il mondo si è rimpicciolito, si è contratto nello spazio, abbiamo, in qualche modo, toccato i suoi limiti fisici, fino al punto in cui, probabilmente, nessun angolo della terra è sconosciuto, è disabitato o non è sfruttato. Allo stesso tempo, la storia umana attraversa una fase caratterizzata da quello che chiamo la ripopolazione del pianeta, che demograficamente si traduce in un invecchiamento delle società del nord e in un ringiovanimento del continente africano e asiatico in particolare.
Per quanto riguarda la struttura delle popolazioni, stiamo assistendo alla crescita di una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid, assieme a enormi ondate migratorie su scala planetaria, che ricordano i primi tempi della colonizzazione. E, riguardo alle trasformazioni tecnologiche, una delle loro principali conseguenze è la trasformazione delle nostre antiche nozioni di tempo e di velocità.
Politicamente, stiamo entrando in un mondo nuovo, caratterizzato purtroppo dalla proliferazione di frontiere e di zone esclusivamente militari. Questo mondo si rafforza grazie al «fantasma del nemico», di cui parlo nel mio ultimo libro, e all’emergenza di uno Stato globale securitario che cerca di normalizzare uno stato di eccezione a scala mondiale, dove i concetti di Diritto e di libertà, che erano inseparabili dal progetto della modernità, rimangono sospesi.
Ci sono, pertanto, molti fattori che indicano che stiamo entrando in mondo diverso, altamente digitalizzato e finanziarizzato, dove la violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale. Un mondo che mette radicalmente in discussione il progetto democratico ereditato dall’Illuminismo.
Necropolitica: politiche di morte
Come descriverebbe la violenza del capitale in questo cambio epocale? Nel suo ultimo libro, lei ha definito il neoliberalismo come un «divenire negro del mondo»: potrebbe soffermarsi su questo?
Diciamo che nei miei libri voglio far convergere due tradizioni del pensiero critico che da un po’ di tempo sembravano divergere: da un lato, la tradizione del pensiero critico relativo alla formazione e alla lotta di classe; dall’altro lato, la tradizione del pensiero critico che cerca di capire la formazione delle razze. Queste due tradizioni sono state spesso contrapposte, quando questo, già solo in termini storici, è insostenibile.
Se studiamo attentamente la storia del capitalismo, ci rendiamo subito conto che, per funzionare, fin dai suoi inizi ha avuto la necessità di produrre ciò che chiamo «sussidi razziali». Il capitalismo ha come funzione genetica la produzione di razze che, allo stesso tempo, sono classi. La razza non è solamente un’aggiunta del capitalismo, ma qualcosa di inscritto nel suo sviluppo genetico. Nel periodo primitivo del capitalismo, quello che va dal XV secolo fino alla Rivoluzione Industriale, la riduzione in schiavitù dei neri ha costituito il più grande esempio della connessione tra la classe e la razza. I miei lavori si sono incentrati in particolare su quel momento storico e sulle sue figure.
La tesi che sviluppo nel mio nuovo libro è che, nelle condizioni attuali, il modo in cui i neri sono stati trattati in quel primo periodo si è esteso al di là dei neri stessi. Il «divenire nero del mondo» è quel momento in cui la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire, a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – vi possa sfuggire.
Questo ci porta al suo concetto di “necropolitica” (o politica della morte); come lo spiegherebbe?
Sono due cose. La “necropolitica” è connessa al concetto di “necroeconomia”. Parliamo di necroeconomia nel senso che una delle funzioni del capitalismo attuale è produrre su vasta scala una popolazione superflua. Una popolazione che il capitalismo non ha più necessità di sfruttare, che però va gestita in qualche modo. Un modo di disporre di questa eccedenza di popolazione è quella di esporla a ogni sorta di pericoli e rischi, spesso mortali. Un’altra tecnica consiste nell’isolarla e rinchiuderla in zone di controllo. È la pratica della “zonificazione”.
È significativo constatare che, nel corso degli ultimi 25 anni, la popolazione carceraria non ha smesso di crescere negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ecc . In alcuni paesi del nord, la combinazione tra le tecniche di incarcerazione e la ricerca del profitto, ha raggiunto un enorme sviluppo. C’è tutta un’economia della carcerazione, un’economia a scala mondiale, che si nutre della “securizzazione”, quell’ordine che esige che ci sia una parte del mondo rinchiusa. La necropolitica sarebbe, quindi, l’esatta rappresentazione politica di questa forma di violenza del capitalismo contemporaneo.
A proposito di questo, vorremmo chiedere la sua opinione sull’attuale «crisi dei rifugiati»: a suo giudizio, qual è stato il ruolo dei governi? Cosa ne pensa della risposta della cittadinanza europea?
È proprio a partire dalla necropolitica e dalla necroeconomia che si può comprendere la «crisi dei rifugiati». Questa crisi è il diretto risultato di due tipi di catastrofi: le guerre e le devastazioni ecologiche, che si sostengono reciprocamente. Le guerre sono fattori di crisi ecologiche e una delle conseguenze delle crisi ecologiche è il fomentare guerre.
La «crisi dei rifugiati» ha anche a che vedere con quello che prima ho chiamato il «ripopolamento del mondo», nella misura in cui le società del nord invecchiano, aumenta la loro necessità di ripopolarsi, e la migrazione illegale è una parte essenziale di questo processo, che sicuramente si accentuerà nel corso dei prossimi anni. A questo proposito, la reazione dell’Europa è schizofrenica: alza muri attorno al continente, però ha bisogno dell’immigrazione per non invecchiare.
Associato al concetto di “necropolitica” ne appare nei suoi lavori un altro impotante, quello di «governo privato indiretto». Cosa ci può dire al riguardo?
Quel concetto è stato elaborato negli anni Novanta, in un’epoca in cui il continente africano era completamente sotto il potere del FMI e della Banca Mondiale. Era un periodo di grandi aggiustamenti strutturali che hanno colpito duramente l’economia africana, in modo simile all’attuale caso greco: un indebitamento al di fuori di qualsiasi norma, la sospensione della sovranità nazionale, la delega di tutto il potere sovrano a istanze non-democratiche, la privatizzazione di tutto, in particolare del settore pubblico, ecc. L’idea di governo privato indiretto indica una forma di governo del debito che sviluppa, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale, una tecnologia dell’espropriazione in paesi economicamente dipendenti, privatizzando il “comune” e scaricando sugli individui la responsabilità di ogni male (“è stata colpa vostra”).
Questo concetto, elaborato nel contesto del continente africano negli anni Novanta, può spiegare le attuali tendenze globali e si può applicare in altre parti del pianeta? In Messico, ad esempio, molta gente segue attentamene i suoi lavori per la forte risonanza delle sue analisi con quanto accade lì.
Penso che oggi, a scala globale, sia possibile continuare a pensare questo concetto. Il governo privato indiretto a livello mondiale è un movimento storico delle élite che aspira, in definitiva, ad abolire il politico. Distruggere ogni spazio e ogni risorsa – simbolica e materiale – dove sia possibile pensare e immaginare cosa fare del legame che ci unisce agli altri e alle generazioni che verranno. Per questo, si procede attraverso logiche di isolamento – separazione tra paesi, tra classi e tra individui – e di concentrazione del capitale laddove si può sfuggire a ogni controllo democratico – trasferimento di ricchezze e di capitali verso paradisi fiscali non regolamentati, ecc. Per assicurarsi il successo, questo movimento non può prescindere dal potere militare: la protezione della proprietà privata e la militarizzazione sono oggi correlativi, vanno intesi come due ambiti di uno stesso fenomeno.
Fin dagli anni Settanta, la trasformazione del capitalismo ha favorito sempre più la comparsa di uno Stato privato, dove il potere pubblico nel senso classico, quello che non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti, è stato progressivamente sequestrato a beneficio di poteri privati. Oggi risulta possibile comprare uno Stato senza che ci sia un grande scandalo e gli Stati Uniti sono un buon esempio: le leggi si comprano immettendo capitali nel meccanismo legislativo, i seggi del congresso si vendono, ecc.
Questa legittimazione della corruzione all’interno degli Stati occidentali svuota il senso dello Stato di Diritto e legittima il crimine all’interno delle stesse istituzioni. Non parliamo più di corruzione come di una malattia dello Stato: la corruzione è lo Stato stesso e, in questo senso, non c’è più un al di fuori della legge. Il deterioramento dello Stato di Diritto produce esclusivamente politiche predatorie, che invalidano ogni distinzione tra il crimine e le istituzioni.
Resistenza viscerale
Dall’idea foucaultiana del potere come “relazione”, nel suo saggio sulla necropolitica si avverte la mancanza di maggiori riferimenti alle resistenze, alle pratiche di vita della gente de abajo. Si può descrivere il potere senza descrivere le resistenze?
No, naturalmente. Non si può fare questo tipo di descrizione senza pensare alle forme di resistenza che sono correlative a qualsiasi potere. I miei primi lavori, che purtroppo non sono ancora stati tradotti, erano incentrati proprio sulle resistenze verso il potere e anche sui loro limiti.
Cosa dire delle attuali forme di resistenza alla necropolitica e alla necroeconomia? Certamente sono molto variegate, dipendono dalle situazioni locali e dai contesti. Prenderò come esempio il caso sudafricano. Mi interessa molto il modo in cui in questo paese le resistenze si organizzano a partire dall’occupazione degli spazi, in una ricerca di visibilità là dove il potere vuole relegarci e allontanarci. Le forme di resistenza che si stanno sviluppando in quel paese hanno a che vedere con la lotta dei corpi per farsi presenti (corporalmente, fisicamente, visibilmente) di fronte alla produzione di assenza e di silenzio da parte del potere. Sono forme esemplari di resistenza perché oggi il potere funziona producendo assenza: invisibilità, silenzio, oblio.
Durante gli ultimi anni abbiamo assistito in Sudafrica a un grande movimento chiamato la decolonizzazione, una decolonizzazione simbolica che ha operato, ad esempio, chiamando a distruggere le statue del colonialismo, ma anche lottando per trasformare il contenuto del sapere e delle forme di produzione del sapere; riattivando la memoria e resistendo all’oblio, ecc. In Sudafrica, le resistenze passano attraverso la riabilitazione della voce, per l’espressione artistica e simbolica, sfidano il tentativo del potere di ridurre al silenzio le voci che non vuole ascoltare. In quella regione del mondo stiamo vivendo un ciclo di lotte che io chiamo le politiche della visceralità.
In cosa consistono queste «lotte della visceralità»?
C’è un emergere di piccole insurrezioni. Queste micro-insurrezioni assumono una forma viscerale, in risposta alla brutalizzazione del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Una delle forme di violenza del capitalismo contemporaneo consiste nel brutalizzare i nervi. E, come risposta, emergono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni, delle passioni e che convergono in tutto ciò che io definisco la «politica della visceralità».
È interessante vedere come in molti luoghi, tanto nelle lotte della popolazione nera in Sudafrica come negli Stati Uniti, i nuovi immaginari di lotta cercano principalmente la riabilitazione del corpo. Negli Stati Uniti, il corpo nero si trova al centro degli attacchi del potere, da ciò che è simbolico – il suo disonore, la sua animalità – fino alla normalizzazione dell’assassinio. Il corpo nero è un corpo di animale, non un corpo di essere umano. Lì, la polizia uccide neri quasi ogni settimana, senza che quasi esistano statistiche che ne diano conto. La generalizzazione dell’assassinio è inscritta nella prassi della polizia. L’amministrazione della pena di morte si è svincolata dall’ambito del Diritto per diventare una pratica puramente poliziesca. Quei corpi neri sono corpi senza giurisprudenza, qualcosa più simile a oggetti che il potere deve gestire.
Lei analizza come il lavoro della memoria sia stato per molti popoli un esercizio di cura e di auto-cura al fine di nominarsi in modo autonomo. Tuttavia, fino a che punto queste memorie sono elaborate o scritte dagli “sconfitti”?
La memoria popolare non racconta mai storie nitide, non ci sono memorie pure e trasparenti. Non c’è memoria propria. La memoria è sempre sporca, impura, è sempre un collage. Nella memoria dei popoli colonizzati troviamo numerosi frammenti di ciò che a un certo punto è stato infranto e che non può più essere ricostruito nella sua unità originaria. Di conseguenza, la chiave di tutta la memoria al servizio dell’emancipazione sta nel sapere come vivere ciò che è perduto, con quale livello di perdita possiamo vivere.
Ci sono perdite radicali delle quali non si può recuperare nulla e, tuttavia, la vita continua e dobbiamo trovare dei meccanismi per rendere presente in qualche modo questa perdita. Da una casa incendiata, possiamo recuperare alcuni oggetti e perfino ricostruire la casa, ma ci sono delle cose che non potremo mai sostituire perché sono uniche, perché con esse mantenevamo una relazione unica. Bisogna vivere con questa perdita, con questo debito che non possiamo più pagare. La memoria collettiva dei popoli colonizzati cerca i modi per indicare e vivere quello che non è sopravvissuto all’incendio.
Come ricostruire, in chiave di potenza, la lacerante storia di spoliazione e violenza ed evitare l’auto-rappresentazione di sè come vittime perpetue?
È una questione centrale. La coscienza vittimista è una coscienza pericolosa, perché è una coscienza ammutolita dal risentimento e dal desiderio di vendetta, che cerca sempre di infliggere all’altro – un altro di solito più debole, non necessariamente il colpevole reale – la quantità di violenza che ha sofferto. Penso che c’è un pericolo in questa forma vittimista di coscienza. Il problema è come la gente che ha subito un trauma storico e reale, come una guerra o un genocidio, può ricordare quanto le è successo e utilizzare la riserva simbolica della catastrofe storica per progettare un futuro che rompa con la ripetizione delle violenze sofferte. È un cammino che si potrebbe quasi dire di ascesi. Una ricerca di “purificazione”, di identificazione degli elementi della tragedia per non ripeterla.
C’è chi parla di un “uso strategico dell’essenzialismo”, di un uso tattico dell’identità come leva nella costruzione di un soggetto politico. Lei, come si pone in questi dibattiti sull’identità?
Diciamo che, se riguardiamo la storia delle lotte contro la discriminazione razziale, c’è spesso un momento in cui la resistenza si costruisce attraverso una certa essenzializzazione della razza. Si è visto, per esempio, negli Stati Uniti con Marcus Garvey, o in Francia nel «movimento della negritudine» dove si trattava proprio di rivalorizzare la condizione nera. Sono movimenti che cercano di emanciparsi dalla condizione di oggetto, ritraducendo in modo positivo quegli attributi che ci condannano a essere oggetti – la negritudine – in un segno umano. Questo è il ruolo strategico della funzione essenzialista.
Il problema si verifica quando l’essenzialismo ci impedisce di continuare il cammino che persone come Fanon consideravano l’orizzonte delle nostre lotte. Qual è questo orizzonte? Quello che apre la strada verso una nuova condizione, dove la razza non ha più importanza, dove la differenza non conta più, perché tutti siamo diventati semplicemente esseri umani: il passaggio dall’indifferenza alla differenza. In questo senso, mi considero “fanonista”, anche se capisco che, in determinate circostanze, ci siano dei movimenti che utilizzano strategicamente l’essenzialismo come un modo per rafforzare un’identità collettiva.
Per concludere, il capitalismo si è rinnovato, aggiornando e rendendo sofisticate le violenze necropolitiche del colonialismo. Lo hanno fatto anche quelli che gli resistono? Abbiamo rinnovato la nostra immaginazione politica per rispondere con forme di azione efficaci alla necropolitica del capitalismo contemporaneo?
Se riflettiamo sull’esempio africano, il XX secolo può essere suddiviso in due cicli di lotta. Dall’inizio del XX secolo fino agli anni Trenta, abbiamo vissuto una forma di lotta che chiamerei acefala, legata al locale, alle condizioni di riproduzione della vita quotidiana. Dopo la seconda guerra mondiale, entriamo in un ciclo di lotta verticale, rappresentata dai sindacati e dai partiti politici. Adesso sembra che siamo ritornati alle forme acefale della lotta, lotte locali, lotte più o meno orizzontali, che insistono sul recupero della capacità di interruzione della normalità, della narrazione che ordina la normalità, che ci fa pensare che quanto accade sia normale quando non lo è.
Nel caso del sud dell’Africa, la domanda ora è come trasformare questa rottura della normalità, questa de-normalizzazione, in una nuova forma di istituzionalizzazione. Ho l’impressione che le nuove lotte acefale non riescano ad apportare risposte plausibili ed efficaci a questa domanda: come dare forma a un nuova istituzionalità, aperta e democratica, che abbia tratto lezione dai problemi causati dal verticalismo. Non penso che si possa avere democrazia senza istituzionalizzazione né rappresentanza. Sappiamo che ovunque c’è una crisi della rappresentanza, ma non credo che la risposta sia dissolverla in quanto tale, dissolvere ogni idea di rappresentanza.
In definitiva, le nostre vecchie ricette (i partiti politici, per esempio) stanno manifestando difficoltà strutturali nel preservare e nel difendere il “comune” all’interno delle attuali istituzioni e continuerà ad essere così fintanto che non ci saranno delle comunità forti che possano democratizzare la politica dal basso. I movimenti degli ultimi anni si muovono in questa direzione, anche se sono ancora legati tra di loro in modo fragile. Penso che da queste diverse resistenze acefale sorgeranno nuove proposte di istituzioni, magari non per rovesciare lo Stato, bensì per costringerlo a trasformarsi nuovamente in un organo di difesa del bene comune.
Una posizione del tutto ragionevole e condivisibile, con un solo errore, ricorrente in questo e in altri dibattiti: ritenere che il PS di Renzi abbia alcunché di "sinistra". L'ideologia del partito renziano è, in modo un po' pasticciato, quella nel più classico neoliberismo.
La Repubblica, 14 agosto 2016
Caro direttore, si è aperto nelle ultime settimane sulle pagine di
Repubblica un importante dibattito sul rapporto tra sinistra e immigrazione. Lo spunto è venuto da una
lettera di Francesco Ronchi, dirigente del Pd Emiliano, pubblicata il 29 luglio scorso, in cui si sostiene che le sinistre europee stiano perdendo il sostegno del loro elettorato storico — le classi popolari — a causa di un rifiuto di affrontare il “tabù” dell’immigrazione, che avrebbe consegnato il monopolio di questo tema alle destre populiste. Ne nasce una proposta: che la sinistra abbia il “coraggio” di riconoscere la «tensione tra immigrati e nativi», e quindi di ripartire da una visione della «comunità che protegge», invece dell’«esaltazione retorica del multiculturalismo».
Quest’ultimo termine — multiculturalismo — sembra essere usato in Italia solo da chi vuole criticarlo. Vale quindi forse la pena ritornare sul suo significato, a partire dall’esperienza di un paese che invece ne ha fatto un’identità. Negli Stati Uniti essere a favore del multiculturalismo non è un insulto, ma una bandiera. Significa non solo riconoscere che la società è “multietnica di fatto”, ma anche che questa diversità è un valore, cioè una ricchezza per il paese. Il suo opposto è quindi il “monoculturalismo”, inteso come tentativo di imporre una cultura unica a una società per sua natura eterogenea.
Sarebbe un errore pensare che questo faccia parte del Dna degli Stati Uniti, in quanto paese fondato sull’immigrazione. Anche lì, si tratta di una conquista storica, identificata in particolare con una parte politica. Quando gli immigrati negli Stati Uniti eravamo principalmente noi italiani, erano in molti “nativi” a preoccuparsi che le nostre tradizioni e soprattutto la nostra religione (cattolica) non ci avrebbero consentito di integrarci nel melting pot americano. «I tedeschi, gli inglesi e gli altri» si legge ad esempio su un editoriale del New Orleans Times del 17 Ottobre 1890 «vengono in questo paese, adottano i suoi costumi, imparano la sua lingua e si identificano col suo destino… Gli italiani, mai. Rimangono isolati dalle comunità in cui vivono, non imparano la nostra lingua e non hanno alcun rispetto per le nostre leggi e la nostra forma di governo. Rimarranno per sempre stranieri». Oggi gli stranieri considerati “inassimilabili” dalla destra populista americana sono altri: i messicani, i cinesi e soprattutto i musulmani. Ma la retorica di fondo è rimasta la stessa.
Se ora vogliamo, come sinistra italiana ed europea, imparare qualcosa da un paese che vive dell’immigrazione da più di un secolo, perché ricalcare il discorso della sua destra populista? Quando la sinistra imita la destra non va mai molto lontano, in primo luogo perché l’elettorato sembra (comprensibilmente) preferire l’originale, ma anche perché vincere con le posizioni dell’avversario non è veramente vincere. Non sarebbe invece più sensato ispirarsi alla corrente più “progressista” della politica americana, cioè a quel Partito Democratico che oggi difende il multiculturalismo come “vera” identità degli Stati Uniti, contro la bolsa retorica di un’America bianca e omogenea di Donald Trump? Alla convention del Partito Democratico ha per esempio avuto enorme risonanza l’intervento di un cittadino di origine pachistana che ha perso un figlio durante la guerra in Iraq e che, sventolando una copia della costituzione americana, chiedeva a Trump cosa avesse sacrificato, lui, per il paese. Ecco una bella immagine del multiculturalismo americano. La costituzione rappresenta i valori condivisi, e nella nostra come in quella americana c’è scritto che tutti i cittadini sono uguali, indipendentemente dalle origini sociali, culturali e religiose. Il multiculturalismo quindi non nega che serva una base di valori condivisi, espressi nella costituzione e nel diritto (uguali per tutti), ma afferma che questi valori sono compatibili — e nutriti — da una molteplicità di culture diverse. Prendiamo due esempi più concreti: negli Stati Uniti è possibile per i cittadini adempire ad alcune pratiche ufficiali — come ad esempio sposarsi — nella lingua che preferiscono, attraverso l’uso di traduttori. Non si capisce perché un simile principio di multilinguismo non potrebbe essere adottato anche in Italia. Senza far torto alla nostra lingua ufficiale, ma affiancandola ad altre, si darebbe un segnale concreto di apertura e accoglienza verso chi si trasferisce nel nostro paese. D’altra parte, nel caso di conflitti evidenti con i valori fondanti del nostro sistema di governo, le autorità possono sempre intervenire per vietare pratiche specifiche, come ha fatto ad esempio il parlamento nel 2006, vietando la mutilazione genitale femminile in quanto «violazione dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne». Credere che l’elettorato storico della sinistra non possa essere ricettivo a un messaggio di questo tipo significa sottovalutarlo, perché la sinistra si è sempre identificata con i principi di uguaglianza e universalismo. Invece di un passo indietro alla rincorsa del suo avversario, converrebbe quindi che nel parlare di immigrazione la sinistra si distinguesse dalle destre conservatrici e protezioniste, coniugando i principi di uguaglianza e universalismo con una difesa del multiculturalismo.
James Fontanella- Khan è corrispondente dagli Stati Uniti per il Financial Times Carlo Invernizzi- Accetti è Assistant Professor di Scienze Politiche alla City University of New York
«Il segretario generale della Fiom-Cgil "Voterò No al referendum costituzionale in autunno. Prima ancora che su Renzi è un giudizio su una riforma sbagliata».
Il manifesto, 14 agosto 2016 (c.m.c.)
A giugno la crescita è stata azzerata. Invece dell’1,2% annunciato dal governo, nel 2016 il Pil sarà dimezzato: +0,6%. La seconda metà dell’anno rischia di essere negativa per l’economia italiana.
Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, Renzi si sta giocando sulla crisi economica l’esito del referendum costituzionale previsto in autunno?
È necessario votare No al referendum innanzitutto per il contenuto delle modifiche fatte alla Costituzione. Non sono solo un pasticcio, ma sono proprio sbagliate. Sono ispirate dalla stessa logica seguita dai governi che hanno stravolto le pensioni, hanno votato il pareggio di bilancio nella Costituzione e hanno cancellato l’articolo 18 e liberalizzato i licenziamenti. Chi ha proposto questa riforma risponde all’idea che il governo non venga più eletto dal Parlamento, non risponda più ai cittadini.
C’è l’idea di una presidenza del Consiglio che risponde ai soci di un’azienda e si comporta come un amministratore delegato. Non si può prendere in giro gli italiani: se Renzi voleva cancellare il Senato, avrebbe dovuto farlo sul serio. Se voleva ridurre i costi della politica bastava ridurre il numero dei parlamentari e il loro stipendio. Queste cose non ci sono in una riforma che riduce solo gli spazi della democrazia che è invece proprio quello che bisogna ricostruire in Italia. Una vittoria del No è la condizione per riaprire un ragionamento anche sul lavoro, i diritti e lo sviluppo. Dal mio punto di vista significa collegarlo in maniera esplicita al referendum sul Jobs Act promosso dalla Cgil per la prossima primavera contro i voucher, sugli appalti, per estendere le tutele e i diritti contro i licenziamenti.
Con una crescita dimezzata sarà difficile per Renzi mantenere tutte le promesse. I dati sulla produzione industriale e la deflazione, le analisi comparate tra l’occupazione prodotta dal Jobs Act e gli altri paesi europei mostrano tutto tranne che i successi vantati dal governo. Basterà ottenere un’altra quota di flessibilità di bilancio per nascondere tutto questo?
Anziché battersi come sembra fare il governo per ottenere qualche altra flessibilità in Europa, bisogna riscrivere tutti i trattati europei. Se l’Italia volesse fare le cose seriamente, dovrebbe eliminare il pareggio di bilancio introdotto sotto la dettatura della Commissione Europea. Questo è l’unico modo per reagire alla crisi e non cambiare la Costituzione come vuole fare Renzi. Bisogna cambiare la funzione della Bce che non può essere solo quella di contenere i prezzi o gestire l’inflazione, ma di far crescere l’occupazione, favorire investimenti pubblici e privati e far crescere l’occupazione.
Senza di questo vedo difficile la possibilità di una ripresa. O il tema della piena occupazione diventa centrale fuori dai parametri dell’austerità, oppure saranno sempre l’Fmi o la Bce a dettare le condizioni. E si continuerà ad affrontare i problemi tagliando lo stato sociale, licenziando e liberalizzando il mercato. Oggi siamo di fronte ai disastri di questa politica. Per questo credo che si debba aprire una battaglia sindacale e politica di riscrittura dei trattati e per ricostruire un’Europa vera che oggi non c’è.
Il ministro dell’Economia Padoan sostiene che i conti siano sotto controllo e addebita la responsabilità della crisi a fattori indipendenti dalla sua politica economica: Brexit, migranti, terrorismo. La convince?
No, assolutamente. I conti non tornano e le responsabilità non sono di altri. Restare dentro i meccanismi europei vigenti è un grave errore economico e politico. Il governo continua a illudersi che le bugie raccontate in questi due anni e mezzo nasconderanno la realtà sotto gli occhi di tutti: il trasferimento della ricchezza dai redditi al capitale continua come nell’ultima generazione: sono 8 o 9 punti di Pil. Il capitale non ha reinvestito questi soldi nell’industria ma in operazioni finanziarie e immobiliari.
I profitti sono andati agli azionisti, non all’innovazione e tanto meno al welfare per contrastare le disuguaglianze sociali. Non c’è bisogno dell’Istat per dimostrare che tra gli italiani è aumentata la sfiducia verso la politica. Le elezioni amministrative di giugno hanno chiarito la distanza esistente tra il governo e la maggioranza del paese. È sotto gli occhi di tutti.
Il 2016 è anche l’anno in cui la povertà è tornata a crescere in maniera sensibile. Il governo punta sul Ddl povertà e su una misura di reddito di ultima istanza per famiglie numerose povere. La ritiene una misura adeguata all’emergenza sociale in cui viviamo?
Come Fiom sosteniamo da tempo la battaglia di Libera di Don Ciotti per il reddito di dignità. Continuo a pensare che in questo paese sia venuto il momento di una riforma fiscale e lotta all’evasione fiscale necessarie per introdurre un reddito minimo che permetta alle persone di non essere ricattabili quando non hanno un lavoro o un reddito tale da non permettergli di vivere. La lotta contro la povertà riguarda anche chi lavora: i working poors. È necessario che la politica agisca su più fronti, a cominciare da quello della cancellazione delle forme obbrobriose di lavoro povero come i voucher.
Il primo punto da affermare è che chiunque lavori possiede diritti che non possono essere messi in competizione con quelli degli altri e devono essere garantiti tutti nello stesso modo. In questa politica rientra il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro. Se il governo vuole fare una cosa utile approvi una norma per detassare, non solo a livello aziendale, gli eventuali interventi che estendono forme di sostegno al reddito ai contratti di lavoro. Per questo è importante fare in modo che i contratti nazionali di lavoro abbiano validità erga omnes e impedire alle imprese di non applicarli. In Italia serve la certezza del diritto.
Sembra che la svolta negativa del Pil imporrà al governo uno stop sulle risorse che dovrebbe stanziare nella legge di stabilità su contratti e pensioni. Davanti a un blocco cosa farete?
Quando si parla di risorse bisogna ricordare alcune cose. Quanti sono i miliardi dati a pioggia alle imprese in questi anni? La riduzione dell’Irap, gli sgravi contributivi sulle assunzioni del Jobs Act senza articolo 18. Stiamo parlando di decine di miliardi. Chi dice che non ci sono soldi non dice il vero. Sono scelte sociali molto precise. Senza contare che si discute di ridurre la tassazione sui profitti.
Se si vuole cambiare strada e ricostruire una giustizia sociale bisogna ripartire dal rapporto tra occupazione e consumi e da questo affrontare tutti gli altri problemi. Il rinnovo del contratto nazionale riguarda tutti i lavoratori italiani, non solo i diretti interessati. Le risorse vanno trovate e bisogna pensare a un sistema che tuteli veramente il potere d’acquisto. Se si vogliono rilanciare gli investimenti bisogna avere un’idea sulle politiche industriali e farle. E comunque la detassazione degli utili la farei alle imprese che investono nel nostro paese e non ricorrerei più alle politiche dei fondi a pioggia.
Sul contratto dei metalmeccanici Federmeccanica sostiene che la disponibilità a firmarlo c’è ma continua a puntare sul collegamento trra salario e produttività, welfare aziendale e formazione. Avete già manifestato contro questa impostazione. Cosa farete a settembre?
Federmeccanica è di fatto ferma alla proposta che ha avanzato un anno fa. Abbiamo già fatto 20 ore di sciopero in maniera unitaria. È necessario che cambi la posizione e si renda conto che in Italia non è possibile sostituire il contratto nazionale e sostituirlo con quello aziendale.
I due livelli sono autonomi e il contratto nazionale deve essere in grado di rappresentare i lavoratori anche sul salario. È molto importante che la loro disponibilità sia esplicitata a settembre. In caso contrario discuteremo su altre forme di mobilitazione. È utile per le imprese andare al rinnovo del contratto sperimentando anche elementi innovativi come innovazione e Welfare, ma è importante stabilire che i contratti nazionali abbiano una loro validità se approvati dalla maggioranza dei lavoratori. In questa fase difficile potrebbe essere l’occasione di superare gli accordi separati.
Con la segretaria della Cgil Susanna Camusso lei ha respinto con forza la proposta del mutuo pensionistico. L’anticipo pensionistico Ape. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini sostiene che i disoccupati o i lavoratori poveri che possono andare in prepensionamento saranno sollevati dal mutuo. A quanto pare gli altri no. Che ne pensa?
Quello che vuole fare il governo con l’Ape è comunque inaccettabile. Questa idea una persona possa andare in pensione facendo un debito è una follia. La crisi ci ha fatto pagare ampiamente le politiche dell’indebitamento. È un insulto alle persone oneste che per una vita hanno pagato i contributi. Se il governo mantiene posizioni di questa natura c’è bisogno di pensare a forme di mobilitazione. Al sindacato è imputato di non avere mosso un dito quando il governo Monti varò la riforma Fornero. Quella ferita sulle pensioni è ancora aperta.
Landini, la domanda è d’obbligo. L’onorevole Sannicandro di Sel ha sostenuto in un dibattito parlamentare sul taglio degli stipendi dei parlamentari che «i parlamentari non sono lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici». Sannicandro si è scusato. La frase ha fatto molto discutere a sinistra. Secondo lei rivela la separazione tra la sinistra e quella che era la sua classe di riferimento?
È assolutamente vero che i parlamentari non sono metalmeccanici e si vede in modo molto chiaro. Ci sarebbe bisogno di molti più metalmeccanici in parlamento e forse le cose andrebbero molto meglio. Si può proprio dire che le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare sono la maggioranza e, in questo momento, i loro bisogni e visioni non sono rappresentate adeguatamente nelle camere e nel governo. Mi sembra questo il vero problema che riguarda i giovani, i precari, i lavoratori subordinati, tutte le persone che hanno bisogno di lavorare.
«Siria. La città, simbolo del paese e del suo mix di etnie e confessioni, liberata da arabi, kurdi, assiri, turkmeni. L’opposto di Aleppo, dove gli interessi di governo e "ribelli" hanno diviso e ridotto allo stremo la popolazione: la "capitale del nord" soffocata da scontri e propaganda. E con la Russia in prima fila, Washington si defila: le sue opposizioni gregarie dei qaedisti».
ilmanifesto, 14 agosto 2016
Com’è fatta la libertà? Una sigaretta, un pezzo di stoffa nero dato alle fiamme, forbici per accorciarsi la barba. A Manbij è la riconquista dei frammenti di vita quotidiana, sotto l’Isis peccati da punire. Emozionano le immagini arrivate ieri dalla città nel nord della Siria: gli abbracci tra le donne costrette in lunghi vestiti neri e le combattenti kurde delle Ypg, le risate degli uomini che si tagliano la barba in strada, le corse dei bambini con le loro mamme, una partita di pallone improvvisata.
Manbij è libera e lo sono anche i duemila civili che gli islamisti in ritirata avevano rapito per farne scudi umani venerdì sera. Nella notte le Forze Democratiche Siriane (Sdf) li hanno ricondotti a Manbij. Un’altra vittoria enorme per le Sdf e il bagaglio che portano con sé, già nel loro nome: gruppi di etnie diverse, arabi, turkmeni, assiri, circassi, e i kurdi di Rojava a guidare le operazioni.
Ma prima di tutto siriani: Manbij da sola rappresenta la ricchezza confessionale ed etnica che in Medio Oriente è stata normalità per secoli. Basta scorrere la lunga lista dei suoi appellativi: Manbij in arabo, Mabuk in kurdo, Mumbuj in circasso, Mabbuh in siriaco. Circa 100mila abitanti, per una storia antica molto più di due millenni e soffocata per due anni e mezzo dallo Stato Islamico che l’ha occupata il 23 gennaio 2014, dopo aver cacciato le opposizioni al governo Assad.
Ieri Manbij è tornata alla sua vita. Ai festeggiamenti della gente si è unita la comunità internazionale che ha lodato i combattenti. Un coro unanime che si spezza 80 km a sud ovest, ad Aleppo. La “capitale del nord” è l’opposto di Manbij: se qui l’unità dei siriani ha permesso la cacciata del nemico comune, lì la guerra civile e la sua galassia di interessi esterni divide e strema la popolazione.
A leggere le notizie da Aleppo ci si perde: i media locali e internazionali riportano frammenti di notizie, utili a foraggiare questa o quella narrativa. E così la stampa iraniana, russa e quella di Stato siriana celebrano i presunti avanzamenti delle truppe governative; quelle mainstream occidentali e i gruppi anti-Assad parlano di strenua resistenza.
I primi elencano i civili uccisi dai missili delle opposizioni (per lo più islamiste, vista la debolezza dell’Esercito Libero che ormai va a rimorchio di qaedisti e salafiti), i secondi quelli nei raid russi.
Sono cento i morti e 700 i feriti imputabili ai “ribelli” dall’inizio di agosto, dicono da Damasco, soprattutto nella zona sud dove si concentrano gli scontri dopo l’occupazione della base di Ramousa da parte delle formazioni islamiste. Che ribattono: il governo ne ha fatti altrettanti in una sola notte in tutto il paese.
Di certo ad Aleppo si muore di fame e di assenza di assistenza medica. Da entrambe le parti, quelle est sotto i “ribelli” e quelle ovest sotto il governo. Di ospedali funzionanti non ce ne sono quasi più: venerdì un raid russo ha colpito un’altra clinica, 18 morti. Quelli ancora aperti, soprattutto nella parte occidentale, sono quasi privi di medicinali e strapieni di feriti, tra soldati e civili colpiti dai missili dei “ribelli”.
La responsabilità è bipartisan, l’inferno è duplice e si sovrappone. Ognuno ha il suo obiettivo, ben consapevole che Aleppo deciderà buona parte della guerra civile. Le opposizioni vogliono impedire una vittoria chiara del governo, continuare a controllare i quartieri già occupati per minare il potere contrattuale di Assad ad un eventuale tavolo del dialogo.
Damasco, da parte sua, sa di non poter eliminare ogni singola sacca di “ribelli”. E allora le accerchia, le chiude in enclavi, che siano città, villaggi o quartieri, circondate da territorio controllato dal governo e prive della continuità fisica necessaria a rifornirsi, militarmente, e a rappresentare un’alternativa, politicamente.
E se la Russia resta in prima linea, gli Stati Uniti si nascondono. Perché ad Aleppo è difficile “schierarsi”: il fronte delle opposizioni, compattato dal mito della battaglia finale, è monopolizzato da un gruppo terrorista (l’ex al-Nusra, oggi Jabhat Fatah al-Sham) che guida però milizie stranamente legittime agli occhi dell’Occidente.
Washington è alle strette, consapevole del pericolo che opposizioni che fanno della negazione dei diritti delle minoranze la stella polare rappresenterebbero per la Siria nel caso amplino il controllo sul territorio.
Viene meno la possibilità di una reale cooperazione tra Usa e Russia, paventata nelle scorse settimane, per colpire i nemici comuni, Isis e Jabhat Fatah al-Sham. Ma con i “ribelli” moderati (finanziati generosamente per anni tramite Golfo, Giordania e Turchia) oggi meri gregari dei qaedisti, la soluzione militare si allontana insieme a quella politica.
Scarso successo delle politiche economiche twittate dal premier Renzi. C'era da aspettarselo. Intanto, la liquidazione del patrimonio pubblico prosegue (ma questo il giornale non lo dice). Corriere dellaSera, 13 agosto 2016
La serie positiva è finita. Dopo cinque trimestri consecutivi di crescita l’economia italiana resta al palo. A certificarlo è l’Istat, ufficializzando che «nel secondo trimestre del 2016 il Pil (Prodotto interno lordo) è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente». Vale aggiungere che nel secondo trimestre il Pil è aumentato dello 0,7% rispetto all’analogo trimestre del 2015, ma a fine marzo il dato tendenziale evidenziava una crescita dell’1%. Crescita zero, insomma, nel periodo compreso tra aprile e giugno, durante il quale, tra l’altro, c’è stata una giornata lavorativa in più sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto al secondo trimestre dello scorso anno.
A pesare su base congiunturale è il rallentamento del valore aggiunto nell’industria. Un segnale poco rassicurante per il governo che vede allontanarsi l’obiettivo di una crescita dell’1,2%, così come sottoscritto dall’esecutivo ad aprile. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ammette: «non c’è dubbio che sulla base di questi dati appare difficile conseguire l’obiettivo di crescita fissato per il 2016».
La «variazione acquisita» per il 2016 è lo 0,6%. Significa che tale sarà la crescita se nei prossimi due trimestri il Pil resterà inchiodato sullo zero. La frenata italiana si inserisce in un contesto generale che vede i Paesi dell’eurozona crescere dello 0,3% nel secondo trimestre e dell’1,6% su base annua. In particolare, l’economia tedesca ha registrato un aumento congiunturale dello 0,4%, la Spagna dello 0,7%, mentre la Francia evidenzia un Pil a crescita zero proprio come l’Italia. Un dato quello italiano che comprime inevitabilmente i margini di manovra del governo sia sul fronte della richiesta di flessibilità sui conti pubblici, sia sull’ammontare delle risorse da indirizzare su capitoli di spesa come pensioni e investimenti. Tanto che il ministero dell’Economia tramite una nota fissa alcune puntualizzazioni: il rallentamento dell’economia era previsto ed è un fenomeno globale, i conti pubblici sono sotto controllo, la legge di bilancio 2017 concentrerà le risorse disponibili su poche misure a sostegno della stabilità. Da via XX Settembre tengono a sottolineare che alcuni fattori di rischio geopolitico come Brexit (anche se a dire il vero il voto c’è stato il 23 giugno), terrorismo e crisi dei migranti hanno avuto un impatto particolarmente negativo. Ciò non toglie, specifica la nota, che «gli investimenti lordi fissi hanno registrato una ripresa e che occorre insistere su questo fronte».
Il Tesoro, non a caso, rivendica le decisioni assunte dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) mercoledì scorso con lo sblocco di investimenti per 40 miliardi di euro. Resta che l’attuale scenario circoscrive il raggio d’azione del premier Matteo Renzi, confidente nella possibilità di varare misure di politica economica espansive e intenzionato «ad avere da Bruxelles libertà d’azione prima del referendum sulla riforma costituzionale», scrive il Financial Times . Nei fatti il premier deve fronteggiare una «stagnazione non sorprendente in quanto i dati mensili sulla produzione sia nell’industria che nelle costruzioni avevano mostrato una flessione», come spiega Paolo Mameli, senior economist di Intesa SanPaolo, che aggiunge, «difficilmente anche l’anno prossimo la crescita si collocherà sopra l’1%». Sul versante politico la certificazione dell’Istat e le previsioni al ribasso sul Pil espongono il governo agli attacchi dell’opposizione. Il leader della Lega, Matteo Salvini, bolla il fallimento di Renzi e avanza proposte alternative come federalismo fiscale e superamento dell’euro. Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, ha gioco facile nell’evidenziare la «pioggia di brutte notizie per Renzi. Bankitalia e Istat suonano il de profundis al governo». A parlare per i sindacati è la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, «il dato è davvero preoccupante, serve una svolta a livello europeo».

World Social Forum di Montreal dell'Oxfam. Se il mondo non cambia il suo giro aumenta sempre più l'area della povertà: eplosivo che si accumula per una deflagrazione che ci spazzerà via tutti, oppure serbatoio di speranze e asioni per un futuro diverso? Non dipende dal fatp. Il manifesto, 13 agosto 2016
Un pianeta sempre più squilibrato moltiplica le diseguaglianze fra generazioni. E scava il solco della povertà per i giovani sempre più disoccupati, sempre meno sicuri dell’accesso ai servizi.
Sono 500 milioni, nella fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno. È il dato più eclatante del report che Oxfam ha pubblicato in occasione dell’International Youth Day all’apertura del World Social Forum in Canada.
Il mondo è una sorta di flipper impazzito fra demografia ed economia. Le statistiche indicano che con 1,8 miliardi di giovani si è raggiunto il punto più alto della «gioventù» nella storia planetaria. Tuttavia, al massimo rinnovamento anagrafico corrisponde il più eclatante tonfo nell’indigenza proprio per i più giovani. Impoveriti globalmente, esclusi dalla “stanza dei bottoni”, primi a pagare le conseguenze della crisi, sempre più sprovvisti dell’accesso ai servizi essenziali e in futuro con livelli di Welfare evanescenti.
Oxfam lo conferma nel rapporto «I giovani e la disuguaglianza: è tempo di rendere le nuove generazioni protagoniste del proprio futuro», lanciato nel quadro della campagna «Sfida l’ingiustizia». Dimostra come siano proprio i giovani i più colpiti dagli effetti della crisi economica internazionale iniziata nel 2008: il 43% della forza lavoro giovanile a livello globale è disoccupata o vittima di retribuzioni inadeguate.
Un dato mondiale che non risparmia l’Italia. Anzi. È più che preoccupante il tasso di disoccupazione giovanile (sempre nella fascia d’età compresa tra i 15 e 24 anni): a giugno l’Istat certificava quota 36,5%. E lo scenario mondiale è tutt’altro che incoraggiante. Secondo Oxfam, anche se nel biennio 2013-2014 è aumentato del 50% il numero di governi che hanno adottato Piani nazionali per le politiche giovanili, i “nuovi abitanti” del pianeta restano penalizzati.
«Con questo nostro report – sottolinea la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti – lanciamo un appello ai leader mondiali affinché rendano i giovani veri attori e motore di un cambiamento da cui tutti possano trarre beneficio».
E aggiunge: «Lavoriamo ogni giorno con migliaia di giovani e sappiamo come molti di loro siano impegnati nella costruzione di un mondo più giusto e libero dall’incubo della povertà, che colpisce tantissimi di loro, soprattutto nei paesi poveri».
Di conseguenza, urge una svolta proprio in funzione delle nuove generazioni, cioè del futuro stesso del pianeta. «Governi e società civile devono lavorare insieme ai giovani di tutto il mondo perché il peso dell’estrema disuguaglianza economica e socialenon schiacci le nuove generazioni in termini di accesso a servizi e diritti essenziali come l’istruzione, la sanità e il lavoro».
Nel mondo, quasi 126 milioni di giovani, soprattutto nei paesi poveri, sono vittime dell’analfabetismo. E in alcuni paesi le ragazze hanno una maggiore probabilità di morire di parto che di finire gli studi. Un contesto globale che richiede, quindi, una riflessione che parta proprio dai giovani per trovare nuove e diverse soluzioni.
Ecco perché Oxfam proprio in occasione del World Social Forum di Montreal ha promosso lo «Youth Summit on Inequality», incontro che a partire dai temi proposti dal report porterà giovani attivisti di Oxfam da tutto il mondo a confrontarsi per trovare possibili soluzioni e proposte, che saranno raccolte in un vero e proprio Manifesto, sottoposto al vaglio dei partecipanti al World Social Forum di Montreal.
L'Oxfam è è una delle più importanti confederazioni internazionali specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, composta da 17 organizzazioni di Paesi diversi che collaborano con quasi 3.000 partner locali in oltre 90 paesi per individuare soluzioni durature alla povertà e all'ingiustizia
».
Il manifesto, 12 agosto 2016 (c.m.c.)
«Il 72 percento dei geni dell’uomo è identico a quello dei maiali. Ma noi a differenza dei maiali siamo la specie vivente che ha la coscienza di essere responsabile della vita sul pianeta. Facciamo parte della vita, siamo il prodotto della storia della vita. Per questo possiamo coltivare la possibilità di un’alternativa», così Riccardo Petrella in una delle lecture di apertura del Forum Sociale Mondiale che si è aperto ufficialmente ieri l’altro con una marcia per il centro di Montreal.
Un Forum che potrebbe rappresentare uno spartiacque nella storia di un appuntamento che da tempo appare avvitato su se stesso. È la prima volta che un Forum si tiene in un paese del Nord del mondo. Ed è la prima volta che, non appoggiandosi a partiti o sindacati locali, un gruppo di persone a titolo individuale ha formulato la proposta al Comitato internazionale che ha accettato. Ad oggi questo Forum è stato caratterizzato da una serie di problemi organizzativi che in parte costituiscono un tema politico. È il caso della scarsa partecipazione di rappresentanti del cosiddetto «Sud del Mondo» inficiata da una rigida politica di concessione di visti da parte del governo canadese.
Il Forum potrebbe comunque vivere l’inizio di una nuova fase, centrata sulle metodologie di lavoro, workshop autogestiti, assemblee di convergenza su temi quali la militarizzazione, il clima, i diritti umani e la democrazia, i migranti, e cosiddette «Grand Conferences», dibattiti di alto livello su questioni «chiave».
Un incontro assembleare definirà poi il calendario di attività ed iniziative future. Altra innovazione quella di «decentrare» il forum con collegamenti con varie città e realtà in ogni parte del mondo, a significarne il carattere orizzontale globale. Che lo spirito di Nuit Debout e degli Indignados sia arrivato anche qua? Un tema ricorrente, non a caso essendo in Quebec terra attraversata dalla questione nazionale ed identitaria, è quello delle lotte per l’autodeterminazione dei popoli, dai Sahrawi, alla Siria, alla Palestina (un tema di polemica pre-Forum è stato quello del sostegno o meno alla campagna Boycott Disinvestments Sanctions) il confederalismo democratico in Rojava, i movimenti per la democrazia in Egitto, la resistenza alle multinazionali.
Eppoi i temi ambientali, della giustizia climatica, della resistenza alla liberalizzazione del commercio. Una delle principali assemblee di convergenza dei primi giorni dedicata al tema della guerra ha prodotto proposte di mobilitazione a sostegno del Forum Sociale Iracheno che si terrà a fine settembre a Baghdad, terzo appuntamento dedicato alla Pace ed a Diritti dei Popoli.
Sempre nei prossimi mesi si terrà il primo Forum Sociale Kurdo, mentre a Berlino a fine settembre sarà la volta della conferenza pacifista contro il commercio di armi e le spese militari dell’International Peace Bureau. A rappresentare il Forum Sociale Iracheno Yassim al-Helfi, presidente del Information Center for Research and Development, accompagnato da Un Ponte Per, ed intervenuto alla Grand Conference sulla Siria, per portare la solidarietà ai movimenti della società civile siriana che tentano di resistere alla logica delle armi , e praticando mutualismo ed autogestione lavorano per la Siria del futuro.
Un paese oggi teatro di uno scontro tra due «mostri» armati, attori di un conflitto ormai internazionale. Prima la testimonianza della scrittrice siriana Samar Zazbek e poi le parole di Gilbert Achcar docente al Soas di Londra sono chiare. In Siria la rivoluzione pacifica contro il regime di Assad ed alimentata – sulla scia delle primavere arabe – da una situazione socio-economica disastrosa è stata repressa in maniera brutale ed ha lasciato il passo ad uno scontro armato, ad un’involuzione di tipo islamista.
Una guerra per procura contro il popolo siriano, dalla quale si deve uscire solo con la forza della politica, oggi assente colpevole. Parla anche Leo Gabriel, promotore assieme ad un gruppo di grandi padri del Fsm, da Ignacio Ramonet a Francois Houtart, a Adolfo Perez Esquivel, di un’iniziativa per una soluzione politica al conflitto siriano, attraverso il dialogo tra i vari rappresentanti della società civile siriana.
La Siria qua a Montreal è vista come uno dei casi estremi della logica pervasiva della guerra e delle conseguenze nefaste del neoliberismo. «In nome di Dio, in nome della nazione o in nome del profitto», per parafrasare le parole di Petrella. Questi i tre mantra da sconfiggere per continuare sulla la via dell’alternativa, di un altro mondo possibile, della solidarietà internazionale con popoli che oggi sembrano condannati alla guerra ed alla distruzione.
Una storia europea, un controcanto alla Turchia che piace alla NATO. «Oppositore del regime, cantore dell’impegno come dei sentimenti, l’autore delle “Poesie d’amore” incarna ancora lo spirito di Istanbul». La Repubblica, 12 agosto 2016
Continuano a scandire, agitare la loro bandiere rosse. La cosa che più colpisce nella Istanbul del dopo golpe è il permanente susseguirsi di manifestazioni, slogan, canti. Yenikapi a sostegno di Erdogan sembrava Tiananmen ai tempi di Mao. A piazza Taksim non succedeva da anni che potesse riunirsi tanta gente. E di tante parti politiche diverse e contrapposte. E non si canta solo in piazza. Tra i tavoli dei ristoranti, strapieni, che si affacciano sul mare a Büyükada, la maggiore delle isole dei Principi, continuano ad intrecciarsi duelli canori: canti patriottici da una parte, cui rispondono vecchi canti della sinistra da un’altra parte. Monta irresistibile l’allegria col raki, cominciano le danze. Si mangia e ci si diverte.
Come se niente fosse successo. Anzi, no, forse proprio per reagire a quel che sta succedendo.
«Goccia a goccia... il suo sangue fino a quando non verrà in piazza il mio popolo, con le sue canzoni». Questi i versi di una delle ultime poesie di Nazim Hikmet, dedicata a uno studente diciannovenne ucciso a Istanbul nel 1960. Il poeta era in esilio a Mosca. Del golpe del 1960 si è ormai persa la memoria. Del “Morto in piazza Beyazit”, non sappiamo nulla. Nei versi di Hikmet è una sorta di “militante ignoto”, simbolo di un grande massacro che proseguì nei decenni successivi. Ma non credo che sognasse questo tipo di piazze il vecchio comunista, eternamente innamorato della rivoluzione, così come di un numero sterminato di donne (“ce n’era sempre un’altra”, ha riassunto Piraye, quella a cui aveva dedicato le sue poesie dal carcere, e che fu solo una dello sterminato catalogo). Anche se è meglio degli scontri armati. È una tradizione locale confrontarsi a slogan scanditi e canti negli stadi. Fece scandalo quando interruppero il minuto di silenzio per i morti di Parigi scandendo Allah Akbar. L’ultimo slogan portato lontano dal vento che avevo udito scandire dagli spalti del nuovissimo stadio suonava: “La Turchia è laica e laica resterà”. Ora bisognerà attendere la nuova stagione calcistica.
Di Nazim Hikmet raccontano che gli piacesse cantare, ridere, scherzare, raccontare barzellette anche nei momenti peggiori, anche in carcere, anche quando al processo a porte chiuse fu chiesta la condanna a morte per impiccagione. Anche quando aveva già scontato 14 anni e gliene restavano da scontare altri 17. L’avevano condannato per incitamento all’ammutinamento nelle forze armate. Poi per ammutinamento nella marina per conto di una potenza straniera. Questo perché lui era comunista e dei giovani ufficiali leggevano le sue poesie. Lo rinchiusero in una nave trasformata in prigione, in un locale sommerso da mezzo metro di escrementi. Spellarono a bastonate le piante dei piedi ai militari suoi “complici”. Era negli anni ’30. Un capo di Stato maggiore che spingeva perché la Turchia entrasse in guerra a fianco di Hitler voleva una punizione esemplare. Quel generale fu poi licenziato, la Turchia dichiarò invece guerra, in extremis, a metà 1945, alla Germania. In Turchia ci sono cose che non cambiano anche quando cambia tutto. Continuavano a liberarlo e incarcerarlo di nuovo. Tornò libero, per una riduzione della pena, nel ‘50. E, all’età di 50 anni, con un infarto alle spalle, lo richiamarono alle armi per mandarlo a combattere contro i comunisti in Corea. Lui fuggì avventurosamente in barca, fu raccolto nel Mar Nero da un mercantile battente bandiera romena. A Mosca fu accolto con tutti gli onori, poi Stalin decise qualcosa che neanche i turchi avevano osato: di ammazzarlo. Una sera l’autista che gli avevano assegnato irruppe ubriaco nella dacia a Predelkino e confessò singhiozzando che l’ordine di fingere un incidente gli era stato dato direttamente da Beria. Così racconta il suo collega poeta Evtushenko.
A Hikmet mi accomuna l’essere nato a Istanbul (in realtà lui era nato a Salonicco), l’essere stato comunista, essere renitenti alla leva, l’essere stato privato della nazionalità turca per decreto del consiglio dei ministri e pure (quand’ero più giovane), l’essermi innamorato più spesso del dovuto. Tra le differenze: che il turco l’ho dimenticato e che non ho mai saputo cantare e soprattutto il fatto che, almeno nei suoi versi, lui è sempre ottimista, anche nelle circostanze più disperate, mentre col passare degli anni io tendo ad essere pessimista. «Uno scrittore che non offre speranze non ha il diritto di fare lo scrittore… Ci possono essere ragioni per essere tristi, sconsolati, amareggiati, ma non ce n’è alcuna per essere senza speranza», scriveva a Orhan Kemal ( In jail with Nazim Hikmet, 2010). E in effetti l’idea del suicidio gli passò per la mente solo per pene d’amore. E probabilmente era solo per finta. Consiglio di rileggere Hikmet quest’estate, e non solo le sue (nel corso della mia vita ne ho regalate tante copie, a tante ragazze, che Mondadori dovrebbe darmi un premio). Anche Paesaggi umani, o In quest’anno 1941 dicono della sua Turchia, dell’umanità, del coraggio, e insieme della ferocia, delle viltà, dei fanatismi contrapposti, delle “stranezze” del suo popolo molto più che un’intera biblioteca sulla Turchia. Del resto non c’è autore turco contemporaneo che non abbia un debito con Hikmet, compreso l’Orhan Pamuk dell’ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa. È uscito in traduzione italiana anche il romanzo su Hikmet di Nedim Gürsel, L’angelo rosso (Ponte alle Grazie). Peccato che il titolo scimmiotti quello della traduzione francese, mentre l’originale turco è Seytan, Melek ve Komünist, “Demonio, Angelo e Comunista”, e rende assai meglio la complessità e le contraddizioni del personaggio, di un secolo, di un Paese (la Turchia) e di un continente (la nostra Europa). Mi è incomprensibile invece perché non sia ancora disponibile in italiano la straordinaria, bella e ricca biografia su Hikmet di Saime Göksu ed Eward Timms, Romantic Communist, pubblicata nel 1999.
A proposito dello scandaloso sostegno dell'UE e degli USA al sultano Erdogan. «Vi è una sola, vera legittimazione dell'azione dei governi, il riconoscimento integrale dei diritti grazie ad una parola forte come “dignità”, diritti, che in tal modo non solo si ricongiungono con la democrazia, ma ne ridefiniscono continuamente il significato».
La Repubblica, 12 agosto 2016 (c.m.c.)
Da tempo democrazia e diritti si allontanano, e gli effetti del fallito golpe in Turchia confermano in modo eloquente questa tendenza. I governi hanno dato la loro solidarietà ad Erdogan con l’argomento che istituzioni democraticamente votate non possono essere cancellate con un colpo di forza. Ma poi non reagiscono adeguatamente di fronte alla cancellazione di diritti fondamentali – libertà personale, informazione, manifestazione del pensiero -, delle garanzie giurisdizionali, e alla quotidiana mortificazione delle persone, accompagnate addirittura dalla sospensione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Torna così la concezione della democrazia come semplice procedura, di cui si ignorano le necessarie precondizioni. Si perde la trasformazione che ha potuto far parlare di una “età dei diritti”, proprio perché l’istituzione di uno “spazio dei diritti” aveva individuato un connotato essenziale dello Stato costituzionale.
L’Unione europea aveva colto questo passaggio. Nel 1999 aveva istituito una convenzione incaricata di scrivere una sua carta dei diritti fondamentali, motivando questa sua scelta con parole particolarmente impegnative: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità ».
Veniva così riconosciuta l’inadeguatezza di un sistema istituzionale nel quale l’integrazione dei mercati ed una moneta unica non erano per sé soli considerati capaci di conferire tale legittimità. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata realizzata al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si accompagnava addirittura un deficit di legittimità, che esigeva una ridefinizione complessiva del rapporto delle istituzioni europee con i cittadini, avviando una vera e propria fase costituente.
Impostazione presto abbandonata, anche se il trattato di Lisbona aveva formalmente attribuito alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati. E questo è avvenuto attraverso una vera e propria “decostituzionalizzazione”, con un ritorno al primato della dimensione economica, e quindi con un riconoscimento dei diritti solo quando essi si presentavano e si presentano come manifestazione della legge di mercato.
In questo modo il riferimento alla democrazia assume un significato di ritorno al passato, diviene una mossa conservatrice. Disconnessa dai diritti, offre come in passato la sua legittimazione ad un potere personale o accentrato che abbia avuto la possibilità o l’accortezza di fondarsi su una procedura formale.
Diversi paesi europei rivolgono ad Erdogan parole sdegnate, intimandogli di non ricattarli. Ma è proprio l’Unione europea ad aver creato questa situazione con il suo abbandono della dimensione dei diritti, accettando che alcuni suoi Stati, a cominciare dall’Ungheria, realizzassero limitazioni gravi della libertà di manifestazione del pensiero e dell’indipendenza della magistratura, di quella costituzionale in specie. Le reazioni dell’ultimo periodo sono tardive e vengono dopo una lunga fase in cui l’Unione ha esercitato un potere autoritario e solo formalmente democratico, con pesanti cancellazioni dei diritti come ormai è generalmente riconosciuto per la vicenda della Grecia.
Questo conflitto, o comunque contraddizione, è reso ancor più evidente dall’ipocrisia dei governi che oppongono all’Is una dichiarata volontà di non accettare un mutamento di valori e diritti, ma che poi, nei fatti, lo praticano con l’argomento della lotta al terrorismo. Di nuovo un distacco tra una democrazia tutta formale e una sorta di impotenza dei diritti.
Ma proprio sui diritti si sta determinando una confusione anche nella discussione pubblica. Si sostiene che non si può parlare di diritti se non accompagnandoli con una sottolineatura dei doveri. Che cosa vuol dire? Spesso parlar di doveri è un modo neppure tanto indiretto di avanzare proposte limitative dei diritti sociali. In generale, però, la tesi è anche insostenibile perché la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuiscono al dovere della solidarietà un valore fondativo.
La solidarietà tra gli Stati è stata cancellata: basta considerare la gestione dei migranti. Per le persone dovrebbe valere quanto è scritto nell’articolo 2 della Costituzione, ove al riconoscimento dei diritti si accompagna «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». Qualcuno legge ancora questa norma, o pur’essa è stata travolta dalla regressione culturale che stiamo vivendo?
Il tema dei diritti si è anch’esso globalizzato, è divenuto cosmopolitico, nessuno può sottrarsi alla sua considerazione. E si possono così registrare tentativi di trovare nuove connessioni tra democrazia e diritti, per evitare l’impotenza della prima e la mortificazione dei secondi. Se si guarda al costituzionalismo del Sud del mondo – alla linea che ancora congiunge Brasile, Sudafrica, India – si coglie nelle leggi e nelle decisioni dei giudici una attenzione concreta per i nuovi diritti fondamentali: cibo, salute istruzione. Due costituzionalismi si confrontano e la costruzione della democrazia viene appunto fatta dipendere dal grado di tutela effettiva dei diritti, che assume un carattere prioritario. I diritti si congiungono alla vita materiale, e così progressivamente reinventano la nozione di cittadinanza, vista come l’insieme dei diritti che spettano a ciascuno quale che sia il luogo del mondo in cui si trova.
Questa era la promessa dell’Unione europea, che dichiara di mettere «la persona al centro della sua azione». Promessa presto tradita, anche se ha comunque consentito alla magistratura di costruire un nuovo e impegnativo diritto fondamentale – “il diritto all’esistenza”. Dobbiamo concludere che, nel silenzio o nell’ostilità delle istituzioni europee, sono i giudici a costruire l’Europa possibile, realizzando una nuova connessione tra diritti e democrazia fondata sui bisogni effettivi delle persone? Per giungere a questo risultato, bisogna liberarsi dall’ipoteca rappresentata dalla considerazione della legge di mercato come nuova legge naturale. La connessione così cercata esige invenzioni istituzionali che restituiscano ai diritti una legittimità non dipendente dalla relazione obbligata con la logica proprietaria. Questo accade grazie all’attenzione per i beni comuni, per la conoscenza come bene pubblico globale, per un reddito di dignità. Deperisce la legittimazione assoluta della proprietà come unico fondamento legittimo dell’azione pubblica.
Ma la ricerca di una connessione nuova si coglie anche in mosse concrete della politica. Nel programma di Hillary Clinton compaiono la garanzia del salario minimo, il diritto universale di mandare i figli all’asilo, una ridefinizione delle imposte, la presa di distanza dai trattati con l’area del Pacifico e con quella europea, finora negoziati senza trasparenza e volti a trasferire al sistema delle imprese poteri di governo del mondo che darebbero scacco ai poteri democratici.
La considerazione della vita materiale delle persone si presenta così come il punto d’avvio di una rinnovata consapevolezza della necessità di muovere dai loro diritti, come via per lo stesso successo elettorale.
Forse, però, le parole più limpide sono venute da Angela Merkel, quando ha dichiarato di fondare i suoi valori sulla premessa che «la dignità delle persone è intoccabile ». Non solo viene così stabilito il nesso più forte possibile tra azione di governo e riconoscimento integrale dei diritti grazie ad una parola forte come “dignità”. Si ribadisce in un momento difficile che vi è una sola, vera legittimazione della stessa azione di governo. L’orizzonte torna ad essere occupato dai diritti, che in tal modo non solo si ricongiungono con la democrazia, ma ne ridefiniscono continuamente il significato.
L’invenzione dei diritti si presenta così come un processo con una altissima capacità di trasformare il mondo e di dare risposte alle novità proposte da scienza e tecnologia. Risposte che si sottraggono alla pura logica di mercato, perché trovano la loro legittimazione proprio nel permanente rilievo della loro connessione con la logica della democrazia.
«C’è una domanda che bisognerebbe porsi, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?».
Il manifesto, 11 agosto 2016
È sempre più insistente la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente.
Sono tante le possibili ragioni: la deprimente ripetitività delle cronache; la desolante modestia dei politicanti; l’assenza, soprattutto, di prospettive di là dalla dittatura dei mercati, dallo stillicidio degli attentati e delle stragi di migranti e, chez nous, dal dilagante malaffare, dalla cronica indigenza delle finanze pubbliche e dall’inesorabile immiserimento del mondo del lavoro. Naturalmente «morte della politica» non è che uno slogan. Eppure questa formula suggestiva contiene una verità interna sulla quale vale la pena di ragionare.
Partiamo dal dato più vistoso. Da decenni ormai nel cuore del mondo capitalistico la sinistra ha abbandonato le classi lavoratrici, spingendole alla protesta qualunquistica o tra le braccia delle destre nazionaliste e xenofobe.
Oggi questo processo è persino plateale.
I democratici americani non trovano di meglio che un’indomita paladina del potere finanziario. I socialisti francesi mettono un paese a ferro e fuoco pur di cancellare i diritti del lavoro dipendente. I laburisti inglesi si industriano per sbarazzarsi del loro unico dirigente radicale e il nostro Pd, votato ormai soltanto dalla buona borghesia delle città, non fa che studiare il modo per blindare il sistema pur di regalare ricchezza e potere alle oligarchie.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Milioni di americani poveri voteranno un miliardario invasato e irresponsabile. Milioni di operai francesi si riconoscono nella Le Pen. Milioni di proletari inglesi hanno dato retta a Farage e Johnson. Milioni di italiani prendono sul serio addirittura Salvini e Di Maio.
Definire questo fenomeno diffusione dei populismi è solo un modo per tranquillizzarsi, descrivendo le destre come banche cattive zeppe di spazzatura. Ma quando si giudica senza capire, il giudizio è per forza viziato.
C’è una domanda che bisognerebbe porsi prima di precipitarsi a dare i voti, una domanda di ordine storico, che chiama fatalmente in causa le culture politiche dei gruppi dirigenti di quella che in tempi ormai lontani fu, almeno in Europa, una sinistra sociale di massa. Perché questa metamorfosi delle sinistre socialiste?
Perché, soprattutto, in concomitanza dello sfondamento neoliberale che in Europa si verifica dagli anni Ottanta e che aggredisce la sovranità democratica dei corpi sociali, riduce al minimo diritti e redditi del lavoro salariato, impone politiche economiche incentrate sul dominio degli oligopoli industriali e dei potentati finanziari?
Il neoliberismo di Reagan e Thatcher era evidentemente un programma di destra: perché diviene subito – con Clinton e Blair – la stella polare della controparte, e come mai, soprattutto, lo rimane nei decenni di poi, nonostante l’evidenza dei suoi effetti rovinosi?
Sembra che porsi questi interrogativi mentre affondiamo impotenti nella miseria materiale e morale significhi rimuovere i problemi più urgenti, e invece è l’esatto contrario.
Potremo tentare di uscire da questa morta gora solo se finalmente capiremo le ragioni della mutazione che ha trasformato in radice la parte politica che nel suo complesso, con le sue molteplici articolazioni, nei trent’anni successivi alla guerra mondiale aveva fatto valere le ragioni del mondo del lavoro e difeso gli interessi delle classi subalterne.
Ottant’anni fa Gramsci si fece una domanda simile di fronte agli entusiasmi liberisti di alcuni dirigenti anarco-sindacalisti. E si rispose evocando il primitivismo ideologico («corporativo») di quanti ignorano le connessioni che legano l’economia alla politica.
Ci si può innamorare del libero mercato, a sinistra, solo se non si intende che dietro questa quinta si staglia un determinato assetto dei poteri e dei rapporti di forza tra le classi. Ma nel frattempo è successo di tutto, il fascismo è imploso, c’è stata un’altra guerra mondiale, la guerra fredda, il crollo del socialismo reale, una nuova mondializzazione: possibile che questa risposta, sempre che fosse giusta per quei tempi, valga ancora nei nostri?
Non si tratta di improvvisare soluzioni pur di mettersi l’animo in pace.
Lo ripetiamo: non muoveremo un passo fuori dalla palude (il che non ci impedirà di spedire qualche comparsa nel teatrino di Montecitorio) finché non avremo capito davvero le ragioni dell’eclissi della sinistra in tutto l’Occidente.
Si tratta quindi di lavorare, di studiare, di cercare seriamente. Qui, in linea d’ipotesi, è possibile tutt’al più segnalare una coincidenza, tautologica solo in apparenza. I partiti socialisti (e in Italia lo stesso partito comunista, maturata la decisione di dissolversi) si sono consegnati al neoliberismo quando hanno dismesso ogni intenzione critica nei confronti del sistema capitalistico, quando, ripudiata l’idea stessa di lotta di classe, hanno accettato di concepirsi come variabili interne del sistema, votate a ottimizzarne la riproduzione.
Ma si è trattato di una causa, o di una conseguenza? E, in questo caso, da dove nacque il mutamento, visto che precedette nel tempo anche il crollo dell’Unione sovietica?
Sembra comunque chiaro che è stato un gravissimo errore politico e storico e un disastro di immense proporzioni. Margini di evoluzione riformatrice del capitalismo sussistono nelle fasi espansive, mentre il neoliberismo fu ed è la risposta a una crisi strutturale di redditività del capitale industriale.
Avere rinunciato a qualsiasi azione di resistenza attiva ed essersi anzi trasformati in forze organiche al sistema in una fase storica che ne precludeva l’evoluzione «progressiva» ha comportato, inevitabilmente, il suicidio della sinistra socialista, laburista e liberal in tutta Europa e nel mondo anglosassone.
Oggi siamo alle prese, giorno per giorno, con le conseguenze di questa vicenda. Che va indagata in ogni suo passaggio e criticamente compresa, a meno di rassegnarci a quella che ci appare come la morte della politica.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso».Il manifesto,
11 agosto 2016 (c.m.c.)
Stanno tornando parole che fanno scandalo: colpo di stato, mancanza di libertà, abolizione del pluralismo, limiti alla libertà di espressione. E, dal punto di vista del pensiero unico, fa scandalo che facciano scandalo. Perché se pensiero unico è, il dissenso non è. La maggioranza ha sempre ragione. E la minoranza deve farsi maggioranza per prendere la parola. C’è poi un ulteriore paradosso. Una frattura generazionale totale per cui, se uso parole come “pluralismo” o “dissenso” esse vengono percepite come valori da chi ha la mia età.
E sempre per chi ha la mia età la loro limitazione fa scandalo. In questi giorni è emerso il paradosso per cui minoranze di destra e di sinistra si sono riconosciute nella difesa di questi valori. Mentre i millenials sembrano non percepire neanche il problema.
Per chi è nato, cresciuto, vissuto, con il pensiero unico lo scandalo è insito in quelle stesse parole, troppo estremiste e politicamente scorrette. Insomma, in Italia il pensiero unico è penetrato così a fondo da rappresentare l’imprinting delle nuove generazioni al punto che recepiscono come eccessivo un semplice dissenso verbale o parlamentare, quando, per altri paesi come Francia, Spagna, la stessa Germania, provvedimenti come il Jobs act scatenano tumulti di piazza generalizzati.
L’Italia ha rimosso da tempo ogni residuo del pensiero critico e ha normalizzato così tanto il pensiero corrente da fare del semplice pensiero oppositivo un atto di terrorismo.
Slogan come “No Tav”, “No Border”, “No riforme” fanno scandalo. Perché non previste dal mainstream. Decenni di terzismo, di unanimismo, di centrismo, di dittatura della maggioranza, hanno livellato le differenze fino a provocarne l’estinzione.
Io sto parlando adesso non da sinistra, ma prendendo come modello il pensiero liberale. Il terzismo ha affossato le libertà. Perché non si può glorificare l’individuo e, insieme, la maggioranza. E’ quanto ad esempio teorizzavano campioni del liberismo come i radicali.
Non esiste libertà senza tutela dell’individuo e delle minoranze. In questo contesto lo scandalo non nasce dall’infrazione del “politicamente corretto” ma, al contrario dalla limitazione della possibilità di tutelare, per tutti anche contro la maggioranza, la libertà di espressione. E’ una diretta emanazione di quei principi di razionalità e tolleranza che hanno ispirato l’Illuminismo. E che ispirano tutte le Costituzioni moderne tra cui quella Costituzione Italiana che il referendum vorrebbe stravolgere.
La nostra è una Costituzione ancora ispirata ai concetti basilari della modernità. E cioè una Costituzione che tutela la libertà delle minoranze di esprimere dissenso. E può farlo perché implica una divisione di poteri potenzialmente conflittuali. La libertà deriva necessariamente da questo conflitto, ad esempio dal conflitto tra l’esecutivo e il parlamento. Una minoranza parlamentare può tenere in scacco l’esecutivo attraverso l’ostruzionismo.
L’avvento del pensiero unico e l’interpretazione in senso esclusivamente maggioritario della vita politica ha invece portato, in questi anni, a catalogare il dissenso come colpa. Oggi galleggiamo in un limbo per cui ci sono ancora regolamenti scritti che difendono la diversità e, viceversa, uno “spirito del tempo” che non le riconosce legittimità. C’è solo poco tempo per il dissenso.
Se la Costituzione verrà riscritta nel senso di una delega in bianco al premier, la diversità non sarà più una specie in via di estinzione, ma una specie estinta. Non solo sostanzialmente, ma anche formalmente.
Un recente articolo di Stefano Settis sull'importanza della conoscenza del latino ci ha ricordato questo scritto di Antonio Gramsci. Lo pubblichiamo sottolineando l'ampiezza della visione del pensatore comunista, e la sua capacità di comprendere il ruolo della conoscenza in una società caratterizzata, come quella di oggi, dalla dialettica della lotta di classe. Antonio Gramsci,
Quadernidal Carcere, 4 [XIII], 55]
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]
Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2016 (p.d.)
Non è un’emergenza. Se soltanto ci fosse una politica di diffusione, di distribuzione degli arrivi, la situazione sarebbe risolvibile.
Don Virginio Colmegna, lei è presidente della fondazione Casa della Carità ed è un simbolo dell’accoglienza milanese. La sua città, però, sta soffrendo...
I numeri del ministero dell’Interno che anche voi riportate lo dimostrano: non c’è stato un boom improvviso e inaspettato degli sbarchi. Anzi, sono un pochino meno dell’anno scorso. Questo non vuol dire che a Milano non ci siano problemi da risolvere. Il guaio è che gli arrivi si concentrano nelle città di passaggio obbligato. E che qui li ritroviamo nei luoghi chiave, come le stazioni.
Lei che ha dedicato tutta la vita all’accoglienza che soluzioni suggerirebbe?
Certo, c’è la questione dell’Unione Europea, degli stati che chiudono i confini. Ma la politica deve e può trovare soluzioni, preparare programmi in anticipo. Soprattutto senza farsi prendere dagli annunci. Bisogna fare. E la prima cosa, appunto, è distribuire le persone sul territorio. Così Milano e il Comune che si sono assunti delle responsabilità non saranno lasciati soli.
Crede che ci sia qualcuno che vuole speculare politicamente su questa crisi?
Sì, purtroppo. Ma chi dice di rispedire questa povera gente a casa sa benissimo che non è possibile. Come si potrebbero rispedire nei loro paesi delle madri con bambini piccoli, dei ragazzi che morivano di fame. Chi se la prende con loro lo fa per il consenso. E così incancrenisce la paura. Per le speculazioni politiche c’è tempo, ora rimbocchiamoci le maniche che c’è altro cui pensare.
In molti puntano il dito sul rischio del terrorismo...
Le paure degli altri non vanno mai sottovalutate. È vero, magari, che chi arriva avendo negli occhi tanti dolori subiti durante il viaggio, tanti maltrattamenti, può maturare risentimento. Ma se noi li accoglieremo bene, questo sentimento svanirà. Io ne sono certo, gli immigrati portano con sé una ricchezza anche per noi.
Cosa fare, quindi?
Serve pianificazione. Bisogna valorizzare il grande patrimonio di accoglienza degli italiani. Non è questione di Chiesa, ma di cittadinanza. E non costa nulla allo Stato. Penso alla straordinaria esperienza che la Casa della Carità ha fatto a Bruzzano nel milanese. Abbiamo accolto 239 persone, coinvolgendo oltre cento volontari. Senza far spendere lo Stato. Vedete, si può. E fa bene a tutti, fidatevi.
. Il manifesto, 11 agosto 2016 (p.d.)
Vorrei raccomandare ai compagni lettori di questo testardo quotidiano di leggere quanto ha scritto Alberto Burgio in una recente riflessione sulla situazione presente (il manifesto del 4 agosto). In quell’articolo Burgio pone con forza il problema, grave e attuale, della crisi della politica, attraverso la quale, bene o male, agiscono i nostri cittadini. L’autore è molto secco: «E’ sempre più insistente – scrive – la sensazione che la politica sia morta, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente». D’accordo.
E’ la realtà di questi tempi, confermata ovviamente dalla clamorosa crisi dei partiti, che non è solo italiana, ma investe gli Stati uniti, dove i cittadini voteranno per una rappresentante della finanza o per il grottesco miliardario Trump e anche l’Inghilterra, come si è potuto constatare con la Brexit, la Francia dove cresce la leader del Front National, Marine Le Pen, la Spagna, e anche l’Italia come hanno confermato le ultime elezioni amministrative, e dove crescono l’astensionismo e l’antipartito dei 5 Stelle. Il confronto con i tempi nei quali c’erano il Pci di Togliatti, il Psi di Nenni, il Pri di La Malfa e anche la Dc di De Gasperi deprime assai. Aggiungo che l’attuale crisi investe anche Tv, stampa quotidiana e pure l’editoria che in passato non poco hanno contribuito alla vitalità della politica.
Bisognerebbe concentrarsi sulle cause e la dinamica di questa “morte della politica”: chiedersi, per esempio, come è cambiato in questi ultimi tre decenni il rapporto – anche il rapporto di forze – tra politica (istituzioni, rappresentanza, democrazia) ed economia (produzione, finanza, proprietà). Dovremmo di conseguenza chiederci anche dove risiede la sovranità in un paese come l’Italia e chi effettivamente la eserciti. Se le leggi vigenti (a cominciare dalla Costituzione, che l’attuale governo intende stravolgere) garantiscono ancora che siano i cittadini ad assumere le scelte fondamentali.
Se non ci rassegniamo a subire la “morte della politica”, studiare la situazione, individuare le cause. Il comune buon senso ci dice che senza una seria diagnosi non si cura nessuna malattia. Parliamo tanto di sinistra – della sinistra che non c’è, della sinistra che vorremmo – ma poi non ci impegniamo a mettere in cantiere riflessioni collettive che per la sinistra sarebbero davvero indispensabili.
Noi del manifesto avevamo pubblicato, insieme a Massimo Loche, nel novembre del 2014, un librino dal titolo Una crisi mai vista. Suggerimenti per una sinistra cieca con interventi di Burgio, Ciocca, Ferrajoli, Indovina, Katrougalos, Lunghini, Mazzetti, Pugliese, Ridao. Quello scritto si occupava di economia. Ma ora è evidente che il cattivo andamento della produzione e dell’occupazione (e forse un’insufficiente volontà di conflitto del sindacato) hanno fortemente indebolito i lavoratori e i sindacati e, soprattutto, tolto dalla scena quel fattore che si chiama speranza che è stato sempre decisivo per i movimenti e le lotte sociali e politiche: «Il sole dell’avvenire» appartiene al futuro, ma agisce sul presente.
E’ in corso – come titola il libro di Erik Brynjofasson e Andrei McAfee La nuova rivoluzione delle macchine che si differenzia dalla nostra era industriale, come quest’ultima si differenziava dall’agricoltura e che secondo il Nobel Leontief dovrebbe ridurre il ruolo delle persone come era stato per i cavalli in agricoltura, quando entrò in campo il trattore. Forse un eccesso di pessimismo contro il quale altri accademici hanno sostenuto che nel prossimo futuro la sicura perdita di peso del lavoro vivo per unità di prodotto sarà compensata dalla crescita della produzione globale. Insomma, grandi cambiamenti in arrivo e di incerto esito, ma dei quali la nostra attuale politica non si occupa affatto.
E ancora, c’è e incombe una storica crisi economica come è largamente sostenuto e come ben ci spiega Pierluigi Ciocca (il manifesto 10 agosto) e come scrivono giornali e riviste, che dovremmo leggere con più attenzione. Aggiungo che l’attuale crisi, a differenza di quella storica del 1929, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura. Un circolo vizioso. Nel nostro passato non sono mancate crisi economiche, ma contemporaneamente quella crisi provocava una straordinaria vivacità culturale che nasceva dalla crisi e ne approfondiva le cause: impegnati saggi di analisi economica e sociale e anche quei romanzi (basta pensare a di Steinbeck) e quei film che fino a dopo la seconda guerra mondiale hanno animato la nostra giovinezza e la lotta politica. Dobbiamo renderci conto, ed è sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore. Il manifesto può offrire gli strumenti per uscire dalla attuale passività sollecitando una discussione che mobiliti e apra una battaglia culturale e politica. Proviamoci.
la conoscenza del latino : è la radice di un complesso di lingue tutte derivate da quella parlata e scritta da romani antichi, adoperate quotidianamente da 930 milioni di persone. La Repubblica, 10 agosto 2016
La lingua più parlata del mondo? È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.
Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese (terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.
Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino? Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba». La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia. E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva». Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.
L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso ( Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti). Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».
Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton. Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .
Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale ( come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo. Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.
Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea. Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?

Il Fatto Quotidiano online, 10 agosto 2016 (c.m.c.)
Nella spasmodica ricerca di argomenti che giustifichino l’approvazione referendaria delle loro riforme, brutte e di bassissimo profilo, i renziani e i loro molti cortigiani ne dicono di tutti i colori. Il «meglio che niente» è molto frequente, ma diventato logoro assai. Il «non si poteva fare diversamente» entra in concorrenza per la motivazione più banale.
Eccome si poteva fare diversamente tanto è vero che nessuno dei testi poi faticosamente approvati era entrato in Parlamento nella identica stesura con la quale ne è uscito. Per di più, è già in corso anche una surreale discussione sul cambiamento della legge elettorale in attesa della valutazione della Corte costituzionale che potrebbe servire proprio a salvare la faccia formulando qualche riformetta della riformetta. Infine, dopo mesi nei quali il capo del governo e il suo ministro per le Riforme hanno fatto ampio ricorso a tutte le strumentazioni plebiscitarie possibili (rivendico il merito di avere per primo accusato Renzi di “plebiscitarismo”), adesso è arrivato il contrordine.
«Renziani di tutte le ore non si tratta di votare pro o contro il governo, ma sul merito delle riforme». Che Renzi avesse ecceduto se n’era accorto, un po’ tardivamente, persino il Senatore Presidente Emerito Giorgio Napolitano che, sommessamente, gli ha suggerito di non personalizzare troppo la campagna elettorale. Purtroppo per Renzi, la personalizzazione è nelle sue corde. Non riuscirà a rinunciarvi e ci ricadrà quasi sicuramente quando i sondaggi annunceranno tempesta. Per di più, lo spingere il più in là possibile la data dello svolgimento del referendum moltiplicherà le occasioni di personalizzazione.
Nel frattempo, qualche renziano sta cercando di delegittimare lo schieramento del NO facendo notare quanto composito esso sia e, dunque, incapace di prospettare un’alternativa di governo, al suo governo. Anche se, sconfitto, Renzi non si dimettesse, una minaccia piuttosto che una promessa, creando una grave e non necessaria crisi di governo, ma imparasse a fare buone riforme, il problema del governo prossimo venturo neanche si porrebbe. Comunque, se c’è un giudice a Berlino (in verità, ce ne sono fortunatamente molti) possibile, caro Presidente Mattarella, che in Italia l’unico in grado di guidare un governo sia Matteo Renzi? Al momento opportuno suggerirò al Presidente 4/5 nomi nessuno dei quali professore o banchiere.
Ad ogni buon conto, chi, nei Comitati del NO, ha mai pensato alla formazione di un nuovo governo? Il bersaglio grosso è uno e uno solo: vincere il referendum e cancellare le riforme mal congegnate e malfatte. Quanto alla natura composita dello schieramento del NO, basta riflettere un attimo e si vedrà che il SI’ vince alla grande la battaglia della confusione. Non intendo demonizzare il mio ex-studente Denis Verdini, ma sembra che, addirittura, darà vita a un Comitato del SI’ dal quale, naturalmente, come annunciato da Renzi-Boschi, scaturirà la nuova (sic) classe dirigente del paese.
La Confindustria fa già parte della non proprio novissima classe dirigente, ma i suoi allarmismi numerici prodotti da chi sa quali algoritmi li ha già generosamente messi a disposizione del paese affinché voti convintamente sì.
Poi è arrivata la filosofia della krisis rappresentata da Massimo Cacciari, notorio portatore di “sensibilità repubblicana” che va spargendo in diversi talk show. In un’intervista al Corriere si è esibito per il sì anche l’ex banchiere ulivista Giovanni Bazoli. Mica poteva essere da meno degli stimati colleghi della JP Morgan, grandi conoscitori del sistema politico italiano e della sua Costituzione, anche loro in attesa di riforme epocali.
A ruota, un pensoso editoriale della rivista Civiltà Cattolica ha dato la necessaria benedizione senza attendere, qui sta la sorpresa, le articolate opinioni dei Cardinali Ruini, purtroppo per lui più bravo negli inviti all’astensione, Bagnasco e Bertone. No, di papa Bergoglio non so.
La ciliegina, però, non la prima né l’ultima poiché non dubito che ce ne saranno molte altre, già copiosamente preannunciata dalle pagine del Corriere della Sera, è arrivata da Michele Salvati. La sua tesi è cristallina. Se vincerà il NO, non sarà bocciato soltanto il governo. Non saranno bocciati soltanto i partiti e i cittadini che non hanno fatto i compiti (e se, proprio perché li hanno fatti, si fossero resi conto che le riforme sono inutili e controproducenti?). Bocciato «sarebbe tutto il Paese» (Corriere della Sera, 9 agosto 2016, p. 26).
Insomma, il plebiscitarismo buttato dalla finestra, senza che nessuno lo dicesse a Salvati, torna camuffato da nazionalismo, chiedo scusa da amor patrio, dalla porta. Chi vota no è un disfattista, secondo Salvati, un traditore della patria, un nemico del popolo italiano. Questa è, finalmente, la discussione sul merito che i renziani vogliono, impostano e, normalizzata la Rete Tre, faranno.
Panem et circenses. Il premier: “Mezzo miliardo a chi ha di meno”, e anche per il teatrino ci pensano sempre loro.
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2016 (p.d.)
La frase – tenetevi forte - è questa: “Chi propone di votare No al referendum e buttar via due anni di lavoro del Parlamento non rispetta il lavoro del Parlamento”. Chi l’ha detto? Il ministro Maria Elena Boschi. Per completezza, prima aveva dichiarato: “Abbiamo scelto di rispettare in toto la procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione per modificarla, questo ha significato scegliere la strada più dura”. Che un povero cittadino si domanda: di grazia, che procedura avrebbero dovuto seguire? Una incostituzionale? Una illegittima?
Del resto, il Parlamento che ha votato la riforma, proprio legittimo non è (vista la sentenza della Consulta sul Porcellum). Bisogna dire che negli ultimi tempi il ministro ci ha abituati ad affermazioni bizzarre. Il 18 luglio aveva spiegato come, con la nuova Costituzione, saremo più forti nella lotta al terrorismo: “Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e in grado di rispondere unita al terrorismo internazionale. E per riuscirci abbiamo bisogno anche di un’Italia più forte verso l’Europa: una Costituzione che ci consenta maggiore stabilità”. All’inizio di giugno disse che, a riforma attuata, davanti all’Italia si sarebbe spalancato un luminoso destino di agi e fasti: il Pil in dieci anni sarebbe aumentato del 6%. Quali fossero i modelli econometrici usati dal ministro ancora non è dato sapere.
Ma nemmeno il premier Matteo Renzi ha chiarito da quale cilindro ha tirato fuori la sua affermazione di ieri: “Se passa il Sì si eliminano costi per la politica per circa 500 milioni di euro l’anno. Pensate come sarà bello dall’anno prossimo metterli sul fondo per la povertà”. Peccato che, secondo le stime della Ragioneria dello Stato, i risparmi saranno circa di 50 milioni all’anno. Cosucce. Naturlamente in serata è arrivata la “precisazione” da parte dello staff del ministro Boschi: la frase “è stata riportata male dalle agenzie. Non si riferiva ai cittadini che legittimamente voteranno no ma solo a quelli che oggi propongono di ripartire da capo, pensando di fare un’altra riforma in sei mesi”.
La toppa è peggio del buco. Il perché ce lo spiega Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto Costituzionale a La Sapienza di Roma: “Il governo,da quando ha deciso di non ‘personalizzare’, auspica una ‘discussione nel merito’. Eppure tutte queste affermazioni sono solo propaganda. Non posso credere che un ministro della Repubblica abbia pensato di delegittimare lo strumento referendario, previsto dalla Costituzione! Non è vero che l’Italia non ha avuto riforme incisive anche dopo esiti referendari negativi. Ne sono una prova la modifica del Titolo V e la modifica dell’art. 81, approvata in sei mesi. Aggiungo: una delle ragioni del No è che questa riforma comprime l’autonomia del Parlamento. Che ora il governo si faccia paladino del Parlamento è davvero incredibile, visto come ha forzato tempi e modi dell’approvazione della riforma per arrivare, in combinato disposto con l’Italicum, a un assetto costituzionale sbilanciato verso l’esecutivo”.
Magistrale lezione sul razzismo che è in noi, sulle sue diverse gradazioni e sfumature (dal fastidio all'odio), sul rischio che oggi corriamo: che l'accettazione del "respingimento «non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio». Il
manifesto, 10 agosto 2016.
Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione. E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli.
Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi di manifestarsi.
Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli.
Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo.
Una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne, al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.
L’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa di noi e degli altri come persone.
Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi ha costretto a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano sulla loro strada.
Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia.
Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. E poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?
Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta.
Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.
L'accorata denuncia per un gesto vergognoso della tribù dei renziani, lanciata dell'autrice e conduttrice
radiofonica della Rai Francesca Fornario e il preoccupato commento di Alessandro Gilioli. Il manifesto L'Espresso online, blog "Piovono rane", 9 agosto 2016
il manifesto
LA DIETA POLITICA DI RADIO2
ECCO PERCHÉ HO DETTO NO, GRAZIE
di Francesca Fornario
«Divieto di satira. "Niente battute su Renzi, niente politica, niente satira...". Le regole per la ripartenza di "Mamma non Mamma" e il casino scoppiato dopo un post su Facebook»
È scoppiato un prevedibile casino per un post che ho scritto su Facebook, annunciando la ripartenza del programma Mamma Non Mamma su Radio2. O meglio, la partenza di un altro programma con lo stesso titolo e le stesse autrici e conduttrici: attrice e imitatrice Federica Cifola, autrice satirica io. (E altre cose, che preferisco saper fare dieci cose male piuttosto che una sola bene, ma a Radio2, quando mi hanno chiamato nel 2008, non mi hanno voluto per scrivere i romanzi, mi hanno voluto per fare la satira, che faccio ogni giorno in pillole a Un giorno da pecora. Facevo, che a settembre Un giorno da pecora trasloca su Radio1). Ecco il post: «Ricapitolando: niente battute su Matteo Renzi, niente politica, niente satira, niente personaggi, niente imitazioni, niente copioni, niente ‘scenette’ qualunque cosa siano, niente comicità e che altro… ah, niente battute sul fatto che non si può dire ‘comunista’. Quel che resta – il mio imbarazzo e il bene che ci vogliamo io e Federica Cifola – va in onda ogni sabato e domenica in diretta su radio2, dalle 18 alle 19.30».
L’ho scritto per correttezza nei confronti dei nostri ascoltatori, che si sarebbero domandati – e si sono domandati – ma come mai non fate più le imitazioni? Ecco perché: ci hanno chiesto di fare un programma diverso. Diverso da quello che aveva funzionato benissimo anche in termini di ascolti, cosa per la quale si era complimentata con noi la direttrice Paola Marchesini due anni fa, dopo la prima edizione del programma. Poi, sono cominciati i paletti. Lo scorso anno Mamma Non mamma è tornato in palinsesto ma «Con una satira più attenta agli aspetti atropologici». Eh? Senza la mamma di Matteo Renzi. «Ma ha senso non fare la mamma di Renzi e fare quella di Alfano?!» Domando. Ovviamente no, e allora niente mamme dei politici e nemmeno politici, niente più Paola Taverna o Michaela Biancofiore.
Andiamo in onda facendo comunque satira politica (mica ho capito come si distingue quella antropologica da quella politica, ma è un limite mio), ad esempio con il personaggio di Angela Merkel che imponeva le riforme strutturali alla Grecia come scusa per incontrare ai vertici l’allora ministro delle finanze Varoufakis («Varoufakis, se non vieni qui subito vi chiudo le banche e vi spremo tutte le olive del Peloponneso!» «Ma gliele avete fatte chiudere veramente le banche!» «Ma era una scusa per vederlo! Non ti sei accorta che le mie erano tutte richieste senza senso?! Me ne inventavo di tutti i colori così lui era costretto a precipitarsi da me! E gli privatizzavo le autostrade, e gli tagliavo le pensioni… con questo nuovo ministro non mi diverto perché non si accorge che scherzo. “Tsakalotos! Taglia le pensioni!” E lui lo fa. “Tsakalotos, se vuoi restare nell’euro scrivi la seguente riforma strutturale: da domani in tutta la Grecia il Sirtaki parte veloce e finisce lento…» «Ma è una riforma senza senso!» «E perché, invece privatizzare il Pireo ti pare sensato?! Ma dai, siamo seri, è come se io privatizzo il Reno!»). O con la direttrice del Fmi Christine Lagarde, mamma così severa che ai figli non dava la paghetta: gli faceva un prestito.
Quest’anno ci chiedono di andare di nuovo in onda senza fare satira politica («Sì, come l’anno scorso», penso. E mi ricordo di un aneddoto che girava molti anni fa su come aggirare la censura in Rai: metti nel copione una bestemmia, una scena di sesso e la battuta sul politico che vuoi far passare. Il funzionario ti toglie la bestemmia e tu protesti. Ti toglie la scena di sesso e tu protesti. A quel punto, convinto di averti censurato abbastanza, ti lascia la battuta sul politico… era un aneddoto di molti anni fa, che oggi la scena di sesso se non c’è te la fanno aggiungere).
Mi metto a scrivere i nuovi copioni del mio personaggio preferito, il capo dell’ufficio del personale che ci chiama in diretta per piazzare i raccomandati: «Ma a cosa mi serve uno scenografo alla radio?!» «Fornario, questo deve lavorare perché è stato raccomandato da presidente del Consiglio in persona!» «Da Renzi?!» «Seh, magari! Con i tempi della burocrazia Rai dobbiamo ancora piazzare i raccomandati da Mussolini nel 1923!» «Ma se non c’era ancora la Rai!» «Certo, quella Mussolini l’ha creata apposta per piazzare i raccomandati. Che infatti prima si chiamava Eiar, Ente Italiano Raccomandati e Amici. Poi Rai, Raccomandati Italiani…».
Ma no, stavolta – ci spiegano – non solo niente satira politica su Renzi o sulla bambola gonfiabile di Salvini: proprio niente personaggi. Niente imitazioni, niente copioni, niente “scenette”. «Ma non possiamo rifare Mamma Non Mamma svuotandolo di tutto – osservo – perché verrebbe fuori un programma banale». (Inoltre, sarebbe stato utile sapere che queste erano le condizioni per lavorare prima di rifiutare altri lavori, ma così è la vita: il tempismo non è mai stato la mia specialità). E allora proviamo a dare un senso di servizio – di servizio pubblico! – al programma, facendolo diventare un’altra cosa. Resto convinta che sapessi assolvere meglio al compito facendo quello che so fare meglio, e il perché la satira sia un servizio pubblico, nel caso ci fosse bisogno di spiegarlo, lo lascio spiegare a Groucho Marx: «La prima cosa a sparire quando un paese viene trasformato in uno stato totalitario è la commedia e i comici. Poiché le persone ridono di noi, non credo che capiscano davvero quanto siamo essenziali per la loro salute mentale».
Nell’ultima puntata, ad esempio, abbiamo provato a dare un senso di servizio pubblico parlando dei libri per bambini che ti cambiano di un poco in meglio la vita, come La guerra del burro del Dr. Seuss (scriverne è anche un modo per dare un senso definitivo a questo pezzo). Questo senza però rinunciare a spiegare perché il programma prima era una cosa e poi un’altra: che secondo anche questo è un servizio pubblico, anche spiegarlo. Se tutti i colleghi che mi hanno scritto in privato dicessero in pubblico le cose che mi hanno scritto sarebbe evidente, ma non possono farlo perché vivono di questo lavoro e non possono rischiare di perderlo come l’ho perso io. Per mia scelta, eh, che stamattina, quando il post ha cominciato a circolare, ho ricevuto una telefonata della capostruttura, molto risentita perché avevo tradito la sua fiducia e dimostrato in questo modo la gratitudine per tutti i soldi che mi aveva fatto guadagnare in questi anni. Le ho spiegato, pacatamente, che non le devo nessuna gratitudine perché in questi anni ho lavorato con ottimi risultati e sono stata pagata per le mie prestazioni professionali, che si comprano quelle ma le persone no, o almeno non questa. Non ci sono quindi più le condizioni per fare satira politica su Radio2 e nemmeno più – per quel che mi riguarda – quelle per lavorare serenamente a un programma diverso, di servizio pubblico.
Ma c’è sempre La guerra del burro da leggere e un mondo fuori da raccontare da qualche altra parte, con qualche altro mezzo. A cominciare da questo, che ora avrò di nuovo tempo per scrivere sul manifesto! Oh, mi sa che ho armato questo casino apposta.
l'Espresso, blog "Piovono rane"
L'ARIA CHE RESPIRIAMO
di Alessandro Gilioli
Accade in Italia - nei giorni agostani di sole, vacanze e Olimpiadi - che un'autrice e conduttrice radiofonica della Rai spieghi su Facebook che quest'anno le hanno cambiato le regole di ingaggio: imponendole zero battute su Renzi, zero politica, zero imitazioni.
Accade che la Rai non possa credibilmente smentire il divieto, anche perché ne ha imprudentemente lasciato tracce. Insomma è tutto vero, oltre ogni possibile dubbio.
Accade il giorno dopo che questo fatto incontestato e incontestabile - il servizio pubblico che impone il divieto di satira sul capo del governo e sulla politica - sia ignorato dalla maggioranza dei media; e che un bene comune, un bene che dovrebbe essere trasversalmente prezioso per ogni schieramento - la libertà, il non asservimento del servizio pubblico al governante di turno - sia derubricato a questione di partito, se non di corrente.
Non so che cosa accadrebbe in Gran Bretagna se la stessa cosa accadesse a un comico della Bbc: ma non credo di mitizzare troppo la cultura anglosassone se ipotizzo che la questione sarebbe diventata in breve il tema politico dell'estate, e non per un giorno. Non credo di sbagliare nel credere che avrebbe acceso un dibattito ampio, coinvolgendo le maggiori testate, il Parlamento, lo stesso premier.
Da noi no. Da noi è il solito piccolo derby stanco, con l'aggravante canicolare. E altre miserie ancora: gli attacchi personali alla conduttrice, le irrisioni tipo "se c'è una dittatura andate a far la Resistenza in montagna invece di starvene al mare", la iattanza di chi ridicolizza la questione a fatto personale o di reddito e non vede - anzi finge di non vedere - il cuore del problema: il servizio pubblico che impone zero satira sul capo del governo, insomma il contrario di quanto avviene in ogni paese libero, dalla Francia agli Stati Uniti.
Del resto, anche sul caso di Bianca Berlinguer erano riusciti a far deragliare il dibattito, attaccando la direttrice che "voleva restare tale a vita come se fosse un diritto acquisito": quando invece, con ogni evidenza, il problema non era e non è la carriera giornalistica di Bianca Berlinguer, ma il fatto che una rete pubblica non abbastanza schierata con il governo e con il suo referendum sia stata modificata ai vertici per ottenere una rete pubblica più schierata con il governo e con il suo referendum.u
Ieri, sulla questione Rai-Fornario, una delle questioni più discusse era la responsabilità o la non-responsabilità del premier. In altre parole, "Renzi non c'entra", hanno detto i suoi supporter più aggrappati ai vetri.
Il che è probabilmente vero, in senso tecnico: dubito anch'io che Renzi abbia personalmente imposto l'ukaze che ha censurato una trasmissioni radiofonica minore. È abbastanza intuibile.
Il problema è che ad averlo fatto sono stati dirigenti messi ai quei posti da Renzi (o anche lì da prima, ma rapidamente convertiti al vincitore). I quali a Renzi e al suo inner circle sono graditi. E da Renzi e dal suo inner circle sono premiati.
Ed è proprio così che si crea un clima, un'omologazione: servilismo da parte di chi ha ruoli dirigenziali nei media e apprezzamento del servilismo da parte del governo. Anzi, qualcosa di più del semplice apprezzamento: se un direttore di tg non omologato all'esecutivo viene fatto fuori, il messaggio a tutti gli altri dirigenti è chiaro. Su come devono comportarsi, cosa devono fare, chi devono imbrigliare.
Non c'è insomma nessun bisogno di ipotizzare un interessamento diretto di Renzi per vedere le responsabilità oggettive della politica nel divieto di satira sulla radio.
E queste responsabilità potrebbero venire meno solo con un intervento forte e pubblico dello stesso governo a difesa della libertà di satira. E con il contestuale allontanamento dei dirigenti di cui vengono accertate le respinsabilità nel caso in questione.
Solo un gesto così cambierebbe il clima, lo rovescerebbe. A favore della libertà anziché dell'omologazione, del servilismo, della censura o autocensura. Dubito molto che quel gesto arrivi. E mi dispiace, perché considero la libertà un bene più prezioso del derby pro o contro Renzi.
Ah, a proposito di clima.
Ieri con Francesca Fornario mi sono brevemente sentito al telefono, nel pieno del casino scoppiato dopo il suo post su Fb. Le ho suggerito di stare soprattutto attenta, in ogni intervento pubblico, a non fare la vittima, a non sembrare arrabbiata, a evitare ogni rischio di iperbole. A non parlare di "regime" e a usare con estrema parsimonia perfino la parola "censura". Perché poi ti sfottono, ti dicono che non sei in una cella turca ma al comodo di un appartamento a Roma, ironizzano sul fatto che non sei abbastanza povera per piangere.
Perché questo è il clima, oggi: blame the victim. Che poi è il modo migliore per deligittimare le critiche. Caricaturarle. Ridicolizzarle. Definire "furiosi", "estremisti" e (immancabilmente) "grillini" quelli che osano criticare: anche se lo fanno con il sorriso, o con il ragionamento, o semplicemente con la cronaca dei dati di realtà.
E anche questo è tema che meriterebbe una riflessione, se fossimo un Paese civile, Renzi o non Renzi.
L'aria che respiriamo, insomma: piú importante di qualsiasi maggioranza di governo.
Elegante esercitazione di stile nel racconto delle furbesche altalene dei governanti nell'ultimo venticinquennio e delle ragioni caratteriali che spingono il cittadino verso il si e verso il no.
La Repubblica, 9 agosto 2016
È un'estate di studi e di tormenti. Niente vacanze, dobbiamo prepararci per l’esame. Quello d’autunno, quando verremo interrogati sulla riforma costituzionale: 47 nuovi articoli da mandare giù a memoria, commisurarli al loro testo originario, soppesarne danni e benefici, in ultimo rispondere con una crocetta sulla scheda del referendum. Promosso o bocciato, sia lui che ciascuno di noi. Ci vuole testa, insomma, ci vuole raziocinio. O no? No, i più risponderanno con il cuore. In ogni referendum conta l’argomento, ma conta soprattutto il sentimento.
E a sua volta quest’ultimo dipende dagli amori e dagli umori della società italiana, perennemente instabili e sbilenchi. Del resto, proprio la Costituzione ne è uno specchio. Nei primi anni Novanta, durante Tangentopoli, eravamo tutti giustizialisti; sicché ne cambiammo un paio d’articoli (79 e 68), per rendere più impervia l’amnistia e per ridurre le immunità parlamentari.
Alla fine del decennio ci risvegliammo garantisti, e allora toccò a un altro articolo (111), modificato per inocularvi le garanzie del «giusto processo». Sempre in quel torno d’anni, ci ubriacammo di federalismo: da qui la riforma del Titolo V, varata nel 2001 da un governo di sinistra. Adesso, viceversa, le Regioni ci sono venute a noia; così un altro governo di sinistra ha appena battezzato una riforma centralista.
Alti e bassi, come la popolarità degli uomini politici. E indubbiamente il referendum costituzionale verrà influenzato anche da questo, dall’affetto o dal dispetto che ognuno prova nei riguardi del Premier. Però i sentimenti in gioco sono altri, hanno a che fare con un grumo di passioni e di pulsioni individuali, interrogano il senso stesso del nostro stare al mondo. Difatti le domande capitali sono tre, come le cantiche della Divina commedia.
Primo: sei contadino o marinaio? Hai le scarpe piantate sulla terra oppure navighi per mare, senza radici, senza l’ancoraggio del passato? Giacché un mutamento radicale della Costituzione reca in sé una sfida, mette alla prova la tua capacità d’immergerti nel nuovo, di partire in viaggio per l’ignoto. Sai ciò che lasci, non sai quello che trovi.
Non si tratta dell’eterno scontro fra conservatori e innovatori: dopotutto ciascuno è l’uno e l’altro, ciascuno rinnova ogni giorno la propria vicenda esistenziale, però ciascuno vorrebbe conservare la sua mamma. No, qui è in ballo un temperamento, un’attitudine. O forse anche una stagione della vita, della nostra vita intima e privata: c’è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce.
Secondo: ti senti orizzontale o verticale? La differenza tra il prima e il dopo di questa riforma è infatti la medesima che c’è fra una pianura e una montagna: questione d’altitudini, d’altezze. La pianura consiste nel paesaggio disegnato dai costituenti, con due Camere gemelle e un territorio popolato da una quantità d’istituzioni (centrali, regionali, locali), senza gerarchie precise, senza vincoli di soggezione.
La montagna svetta in solitudine dopo l’aratro dei riformatori. Via il Senato, che diventa un camerino della Camera. Via le Regioni, trasformate in megaprovince. Via le province, mentre altre riforme dimezzano i poteri intermedi (camere di commercio, soprintendenze, prefetture), non meno dei corpi intermedi (ha ancora un ruolo il sindacato?). Nel frattempo il comando s’accentra, si riunifica nel superdirettore della Rai o nei superdirigenti delle scuole. E nel Premier, ovviamente, al quale l’Italicum consegna un rapporto diretto, verticale, con il popolo. Tutto più semplice, però se soffri di vertigini magari ti viene un capogiro.
Terzo: sei ottimista o pessimista? Sta di fatto che la nuova Costituzione reclama un atto di fiducia, di speranza. Reclama, in altri termini, un mosaico di leggi d’attuazione, cui spetta completare l’intervento di chirurgia plastica, ma con il rischio di sfigurarle i connotati. È il caso, per esempio, della legge elettorale per i neosenatori (votati o cooptati?), da cui dipenderà la loro legittimazione, dunque il peso del Senato. È il caso dello statuto delle opposizioni, affidato ai regolamenti parlamentari. È il caso delle nuove tipologie di referendum: qui la riforma opera un rinvio al quadrato, prima a una legge costituzionale, poi a una legge ordinaria. Quanto tempo ci toccherà aspettare? L’altra volta trascorsero 22 anni fra la Costituzione del 1948 e la legge sui referendum del 1970; stavolta, chi lo sa. L’unico dato certo sta nella distinzione antropologica fra pessimisti ed ottimisti, scolpita in una battuta messa in circolo dalla burocrazia sovietica, ai tempi di Leonid Breznev. Un pessimista e un ottimista stanno in fila da ore dietro uno sportello. Dice il primo: «Peggio di così non potrà mai andare ». E l’ottimista: «Ma no, vedrai che andrà peggio».
«Il governo è ancora in tempo per fissare il voto a ottobre. Ma punta al dopo finanziaria. In Cassazione si salva per solo 4mila firme la richiesta del Sì. Intanto lo stato spenderà di più di ogni possibile, e assai ottimistica, previsione sui risparmi possibili con la riforma costituzionale».
Il manifesto, 9 agosto 2016
CI METTE LE FIRME.
NON LA DATA
Giovedì scorso, 4 agosto, ventisei giudici di Cassazione dell’ufficio centrale per il referendum hanno ammesso anche l’ultima richiesta di referendum sulla riforma costituzionale, quella depositata dal comitato del Sì e accompagnata da 579mila firme di cittadini. La notizia è stata ufficializzata ieri con un comunicato stampa. Sia il comitato per il Sì che la raccolta delle firme sono un’idea di Renzi e del suo consigliere americano Jim Messina, ragione per cui ieri il presidente del Consiglio si è variamente compiaciuto: «Questa è una sfida di un popolo. Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo», ha scritto. Registro assai diverso da quello con il quale aveva lanciato la campagna, quando spiegava che «chi vota no mi odia». Il referendum ci sarebbe stato in ogni caso, perché la riforma costituzionale è stata votata in parlamento con una maggioranza ridotta e perché la richiesta era già stata presentata dai parlamentari e accolta dalla Cassazione, il 6 maggio.
Anche l’esito positivo della (veloce) verifica della Cassazione sulle firme era cosa nota, questo giornale ne aveva scritto l’indomani, venerdì 5 agosto. La lettura dell’ordinanza offre però un dettaglio importante: il numero di firme verificate come effettivamente valide dai giudici è appena sufficiente ad autorizzare la richiesta di referendum: 504.387, la soglia minima essendo fissata a 500mila. L’iniziativa di Renzi, dunque, è salva per un pelo. Il che aggiunge dubbi in quanti avevano già notato il «miracolo» delle firme per il Sì che si producevano in assenza di banchetti destinati a raccoglierle. Due cose in effetti colpiscono. La prima è la scarsissima percentuale di firme scartate dalla Cassazione. Nel caso delle ultime proposte di referendum abrogativo arrivate alla suprema corte con le firme necessarie, quelle dei radicali sulla giustizia nel 2013 e quella di Parisi, Di Pietro e Segni contro il Porcellum nel 2011, la percentuale di sottoscrizioni ritenute non valide è stata dal 25% nel primo caso e del 55% nel secondo. Nel caso delle firme «renziane» la percentuale di scarti è stata appena del 12%. Il controllo cartolare è durato venti giorni, mentre negli altri casi i giudici hanno avuto a disposizione due mesi. Sorprendenti sono anche i numeri che i segretari regionali del Pd hanno dato sulla raccolta firme, nel tentativo di mettersi in buona luce con il segretario. 50mila firme in Toscana, 25mila in Calabria, 17mila in Sardegna e nelle Marche sono numeri che possono sembrare alti ma che per chi ha pratica di raccolta firme non consentono in genere di raggiungere il quorum. Ad esempio in Toscana (come in altre regioni) il comitato per l’abrogazione dell’Italicum ha raccolto praticamente lo stesso numero di firme, pur non essendo riuscito a raggiungere nel complesso le 500mila necessarie. Per rispondere a questi dubbi, alimentanti anche dalla vicenda del rimborso che ora spetterà al comitato del Sì, potrebbe essere utile una pubblicazione delle firme depositate e certificate. Ma il 20 luglio scorso la Cassazione ha risposto di no al costituzionalista Fulco Lanchester che con i radicali ha chiesto l’accesso agli atti. No perché l’ufficio centrale per il referendum non è una «amministrazione pubblica» ma «un organo giurisdizionale».
Anche Renzi alimenta la confusione sui numeri. Nell’esultare, ieri ha scritto che il suo Sì alla riforma è sostenuto da «quasi 600mila firme, circa il triplo degli altri». Gli «altri» sono quelli del comitato del No ma in realtà lo scarto con le «loro» 316mila firme è assai minore, non è neanche del doppio. Soprattutto, Renzi continua a evitare la comunicazione più attesa, quella della data del referendum. La legge non prevede tempi di attesa, il governo da oggi ha 60 giorni di tempo per convocare il referendum (a sua volta da tenersi tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione, firmato dal capo dello stato). Se Renzi farà trascorrere invano questa settimana, il referendum costituzionale non potrà più essere fissato il 2 ottobre, come pure lui ha detto (anche in tv) di desiderare. Se farà passare tutto il mese di agosto, il referendum slitterà inevitabilmente a novembre. E se voteremo quasi a dicembre non sarà per evitare inopportuni incroci con la sessione parlamentare di bilancio. Ci sarebbe tutto il tempo per anticipare la presentazione alla camera della legge di stabilità, il punto è che Renzi non è più di questa idea. «A ottobre ci divertiremo», ripeteva ancora a fine giugno quando leggeva sondaggi diversi e assicurava di voler votare «il prima possibile». Adesso ha bisogno di un colpo d’ala per cercare di vincere, e cercherà di piazzarlo nella finanziaria.
MEZZO MILIARDO
DI RIMBORSI INUTILI
Il referendum costituzionale non prevede quorum, dunque il rimborso elettorale al comitato del Sì è garantito, e da ieri se ne conosce esattamente l’entità. Sarà di 504.307 euro, uno per ognuna delle firme verificate come valide dall’ufficio centrale della Cassazione. Lo stabilisce la vecchia (1999) legge sul finanziamento dei partiti, che è stata completamente abrogata ma non nell’articolo che si occupa dei referendum. È in qualche modo una norma di garanzia, perché consente in astratto a un comitato di cittadini che vuole provare ad abrogare una legge – o, come in questo caso, bloccare una modifica alla Costituzione – di poterci effettivamente provare anche senza l’appoggio di un certo numero di parlamentari o di consigli regionali. Non è però la situazione in cui ci troviamo.
Questa volta i sostenitori del Sì al referendum costituzionale avevano già la loro richiesta, presentata con la firma dei deputati e senatori del Pd e immediatamente accolta dalla Cassazione il 6 maggio. Una settimana più tardi – dunque con la certezza che il referendum si sarebbe tenuto già acquisita – il 13 maggio il comitato del Sì ha presentato la sua richiesta di raccolta delle firme. Comitato la cui creazione è stata promossa dal presidente del Consiglio e segretario del Pd insieme alla stragrande maggioranza dei parlamentari di quel partito, molti dei quali avevano già firmato la prima richiesta alla Cassazione. Non si tratta di un’iniziativa dei cittadini, ma di palazzo Chigi e del super pagato consigliere americano di Matteo Renzi. Dietro il comitato che riceverà mezzo miliardo di euro a carico delle casse dello stato ci sono loro.
Mezzo miliardo per sostenere una richiesta di referendum che è due volte inutile. È inutile perché il referendum ci sarebbe comunque stato, come abbiamo visto. Ma inutile anche perché l’iniziativa in questo caso è di chi è a favore della riforma, cioè di chi non avrebbe avuto bisogno di fare nulla: trascorsi tre mesi senza nessuna richiesta la riforma costituzionale sarebbe stata automaticamente promulgata. Questa non indifferente spesa pubblica può dunque essere legittimamente contestata anche da chi non si oppone in linea di principio al finanziamento pubblico alla politica.
Anche perché il presidente del Consiglio che è all’origine di questa iniziativa, ha più volte presentato la riforma costituzionale come una novità in grado di far risparmiare molti soldi pubblici. Anzi moltissimi: ha annunciato un miliardo di risparmi. Per la verità, quando alla ministra delle riforme è stato chiesto di fare bene i conti in parlamento, questi risparmi si sono notevolmente ristretti. In maniera comunque generosa, la ministra Boschi ha conteggiato 170mila euro di minori spesa per il senato laddove la ragioneria dello stato si è limitata a 70mila. Però Boschi ha aggiunto al calcolo la stima di ben 320mila euro che risparmieremmo per l’abolizione delle province. Pure questi assai aleatori, come l’esperienza racconta, visto che la riforma costituzionale dà solo l’ultimo tratto di penna su un’abolizione già decisa dal 2014 con legge ordinaria. Ma in ogni caso, anche a dar retta alle previsioni ottimistiche della ministra, la riforma della Costituzione voluta dal governo permetterà di ridurre la spesa pubblica di 490mila euro. Adesso sappiamo che il comitato del Sì voluto inutilmente da Renzi costerà 14mila euro in più.
«Una via mistica non come fuga dal mondo, ma come immersione amorosa, intensa e piena nella vita che ci è stata data, per vedere attraverso e al di là della superficie e del limite». Corriere della Sera, 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Perché Francesco si ostina a parlare di misericordia e di perdono quando, di fronte alla violenza, c’è bisogno di risposte forti e determinate? E perché il Papa ha voluto affermare che le religioni non c’entrano e che dietro la violenza ci sono sempre interessi economici e politici? Siamo davanti ad un Pontefice «buonista» che non riesce a vedere le tensioni che agitano il mondo?
Sono domande risuonate in questi giorni e che meritano qualche ulteriore riflessione. Ad uno sguardo non schiacciato sulla contingenza, la crisi che sta investendo il mondo intero esprime i dilemmi dell’epoca che C.Taylor chiama «dell’umanesimo autosufficiente»: privati della trascendenza di Dio, non sono ammessi fini ultimi diversi dalla prosperità umana.
In un mondo globalizzato, ciò sembra però esporci a una dinamica, contraddittoria e lacerante: da una parte l’attrazione tecnocratica verso l’oltre-uomo, come se l’uomo contemporaneo, in una torsione paradossale, pretendesse di divinizzarsi di nuovo e questa volta con le sue stesse mani; dall’altra il ritorno a forme di sacralizzazione arcaiche, nutrite con istanze fondamentalistiche, fatalmente imbevute di violenza.
Tale crisi, che tocca tutti, si produce in modo particolarmente acuto nel contatto problematico tra la modernità occidentale e l’Islam contemporaneo. Estraneo al percorso di secolarizzazione, l’Islam — uscito da un lungo torpore — appare incerto, nelle sue componenti, sull’atteggiamento da assumere nei confronti della modernità e sul modo in cui la potenza, oggi tutta umana più che divina,viene elaborata. Prestando il fianco ad ogni tipo di strumentalizzazione politica ed economica, una parte delle sue élite considera mortale per la stessa religione islamica l’esposizione ad un Occidente che ha fatto ormai della tecnica — alleata dell’io individuale — il proprio dio.
Nel quadro della società contemporanea, il punto di forza, e insieme di debolezza, della tradizione islamica è di parlare di un dio imperscrutabile. Tanto è vero che al fedele non è richiesta una precisa linea di comportamento per salvarsi, né uno sforzo di razionalizzazione della propria esistenza.
L’idea di sottomissione — che ci suona scandalosa — offre una via d’uscita alla solitudine e al disorientamento di tanti. Dio, attraverso i suoi interpreti, può arrivare a chiedere qualsiasi cosa, anche contro la ragionevolezza e la comune umanità. Nella stagione dell’autonomia dell’uomo, ciò rappresenta il ritorno, paradossale ma non incomprensibile, del padre come pura potenza: con le parole di Lacan, quando il «padre del patto», che unisce legge e desiderio, lascia il posto al puro arbitrio, al di fuori dalla legge, il soggetto si può abbandonare ad un godimento anarchico e minaccioso.
È questa la fessura nella quale si incunea oggi il fanatismo (islamico, ma non solo) che, come osserva O. Roy, si intreccia col nichilismo dominante delle società avanzate. È nella follia dei kamikaze che uccidono pensando di essere già in paradiso o nella crudeltà mostrata dai combattenti dell’Isis che vediamo le conseguenze più tragiche della sovrapposizione tra il vuoto dell’Io e l’onnipotenza divina.
Così, le convulsioni che sconvolgono il mondo intero esprimono, in modo distruttivo, la domanda che interpella le grandi tradizioni spirituali: come ripensare l’esperienza religiosa nell’era tecno-scientifica, per definizione globale? Interrogativo peraltro che non risparmia la tecnica: siamo sicuri che l’oltre-uomo sia la strada giusta da perseguire?
Francesco è ben consapevole della delicatezza di questa stagione. Per questo, a partire da una chiara distinzione tra religione e politica, egli fa quello che un capo religioso deve fare, e cioè lavorare per creare un terreno di dialogo tra tutti i credenti. Sollecitando la sua Chiesa — e l’intera cristianità — a recuperare una concezione mistica della fede. Una via mistica non come fuga dal mondo, ma come immersione amorosa, intensa e piena nella vita che ci è stata data, per vedere attraverso e al di là della superficie e del limite. Per chi ha fede, se Dio non è nel qui e ora della vita, dice Francesco, non è da nessuna parte.
Lo sguardo mistico di Francesco, più che una dottrina, nutre un’etica (la cura dei legami che ci costituiscono) e insieme una politica e una economia (la gestione della nostra casa comune a partire dalla centralità degli ultimi). E poiché la fede, che per Francesco è generativa, è sempre cammino, ricerca, rischio, è ai giovani che il Papa affida il compito di mostrare come sia possibile costruire ponti quando molti vogliono costruire muri.
La via mistica, iconicamente espressa dal suo sostare, ad Auschwitz, in solitudine e in silenzio (come a dire che c’è una fede nuda che tutti accomuna) è il possibile terreno di incontro tra fedi diverse: essa non prevede risposta per tutto, ma una sospensione operosa e coraggiosa davanti al mistero, cioè a ciò che non sappiamo e non dominiamo. È questa, per papa Francesco, la condizione su cui ogni dialogo (tra le religioni e con la tecnica) si può oggi rigenerare. Come ricerca sincera, piena di stupore e di misericordia, di ciò che ci accomuna come esseri umani.
Nella miniera belga di Marcinelle sessanta anni fa morirono 262 giovani di 12 nazionalità di cui 136 italiani. Chi ignora questa storia non capirà mai i migranti di oggi
. Corriere della Sera e La Repubblica, 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Corriere della Sera
I RAGAZZI DEVONO SAPERE
COSA ACCADE A MARCINELLE
di Paolo Di Stefano
Oggi, 8 agosto, ricorre il 60° anniversario della tragedia di Marcinelle. Che cosa ne sappiamo di quel che accadde quel giorno? Che cosa sappiamo di quel che avvenne prima e di quel che avvenne dopo? Nulla. Provate a chiedere che cosa fu Marcinelle a un ragazzo non dico di 13, ma di 18 anni. Provate a chiedere a un trentenne o a un cinquantenne. Avrete risposte vaghe. Solo i vecchi italiani ricordano qualcosa di quella giornata del 1956.
Quella mattina, prima delle 8, una rara giornata di sole, al Bois du Cazier, la vecchia miniera del distretto di Charleroi in Belgio, un incidente a 975 metri sottoterra scatenò un incendio che investì subito gallerie e cunicoli, sopra e sotto, ovunque. Mezz’ora prima, erano scesi 274 minatori nei vari livelli, fino a -1.035 metri. 262 giovani sarebbero morti, 136 erano italiani. Ne uscirono vivi solo 12, tra cui il molisano Antonio Iannetta, che secondo le ricostruzioni provocò il disastro: aveva inserito male un carrello pieno di carbone nell’ascensore, l’ascensore chissà come e perché (un equivoco con l’operaio di superficie) partì e il vagonetto che fuoriusciva andò a sbattere contro una trave, pochi metri sopra, dove correvano vicinissimi i tubi dell’olio e i cavi elettrici. Lo schianto provocò il fuoco.
I responsabili se la presero comoda: non era la prima volta che succedeva un incidente (anche mortale). Le operazioni di soccorso furono lente, i pompieri arrivarono a mezzogiorno quando già il fumo usciva dalle ciminiere, il cielo era diventato nero e le donne erano attaccate alle grate del cancello ad aspettare e a piangere.
Sono passati sessant’anni, ma per le vedove, gli orfani, i vecchi minatori, l’incidente di Marcinelle (che chiamano, con parola mezzo italiana e mezzo francese, la «catastròfa») è avvenuto ieri. Hanno ancora negli occhi quella mattina e l’attesa delle giornate successive. Due settimane dopo un soccorritore italiano sarebbe tornato in superficie urlando la verità a cui nessuno voleva credere: «Tutti cadaveri!».
I tre processi condannarono a sei mesi con la condizionale il direttore della miniera; gli amministratori e gli ingegneri (responsabili delle incurie, della pessima manutenzione e delle bestiali condizioni di lavoro) non vennero toccati dalla giustizia. I parenti dovettero pagare le spese giudiziarie. Il testimone principe, Iannetta, era stato mandato in Canada (era il suo desiderio) a processo in corso. Il re Baldovino era accorso subito, il giorno stesso, le autorità italiane non si mossero da Roma.
Eravamo dei poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce (su Marcinelle è appena uscito da Donzelli un libro-inchiesta di Toni Ricciardi).
Che cosa rimane di tutto ciò nella memoria degli italiani? La «catastròfa» è la prima grande tragedia dell’Italia repubblicana: una tragedia europea, perché quel carbone sarebbe servito a risollevare le sorti non solo dell’Italia ma dell’Europa del dopoguerra. Quel giorno morirono uomini di 12 nazionalità diverse (gli italiani furono i più numerosi). Rimane ben poco. Qualche rievocazione per gli anniversari.
Cosa ne sanno i giovani di quel che eravamo non due secoli ma sessant’anni fa (nel 1965 altri 56 operai italiani sarebbero morti a Mattmark, in Svizzera, per il crollo di una diga)? Che cosa ne sanno del razzismo di cui erano vittime gli italiani («Né cani né italiani» era il divieto appeso sulle porte dei locali pubblici in Belgio)? È cambiato tutto. Abbiamo vissuto il boom economico mentre ancora si emigrava in Svizzera e in Germania per fare lavori pericolosi.
Nelle scuole bisognerebbe rendere obbligatorio il capitolo: «Emigrazione italiana», nelle famiglie bisognerebbe parlare anche del nostro passato doloroso. Per educare i nostri figli a guardare con occhi più consapevoli alle emigrazioni degli altri, quelle che oggi dobbiamo «subire». Esercitare la memoria, individuale e collettiva, a futura memoria.
La Repubblica
MARCINELLE,
L’ITALIA È PARTITA DA LÌ
di Guido Crainz
MARCINELLE, Belgio, l’8 agosto di sessant’anni fa: una data da non dimenticare mai. Per il devastante incendio nella miniera di carbone in cui muoiono 262 lavoratori, di cui 136 italiani. Per il più generale simbolo che presto l’evento diventa: non solo nel vissuto delle famiglie e dei paesi colpiti dal lutto, e non solo in quel 1956 (nel 2001 è stata istituita proprio per l’8 agosto la Giornata del sacrificio del lavoro italiano).
Non la dobbiamo dimenticare, anche, per quel che ci dice della nostra storia: quella tragedia affonda le sue radici nell’Italia piagata del dopoguerra ma colpisce un Paese che sta lasciandosi faticosamente alle spalle quegli anni. La notizia dell’«inferno nella miniera arroventata», scriveva Dino Buzzati, giunge in un agosto italiano in cui le vacanze iniziano ad essere costume di massa: stride con quella Italia, quasi a ricordarle i sacrifici che hanno costruito e stanno costruendo il nostro “miracolo”. È infatti del 23 giugno del 1946 l’“accordo minatori-carbone”, come lo chiamerà poi alla Costituente il ministro Carlo Sforza, cioè l’impegno a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di 50.000 lavoratori italiani in cambio di forniture preziose: il carbone appariva fondamentale come il pane, e anche il pane scarseggiava in quel 1946.
Ancora a dicembre una prima pagina della Domenica del Corriere sarà dedicata appunto a “Il dramma del grano” e poco dopo Nenni annoterà nel suo diario: «Le scorte sono a zero. Abbiamo dato pane a Milano perché l’ammiraglio Stone ci ha prestato cinquemila quintali di farina». Pochi mesi prima dunque il governo ha firmato l’accordo per l’invio di italiani nelle miniere belghe, in condizioni di vita e di lavoro che si riveleranno spaventose. Miniere in cui i lavoratori di quel Paese non vogliono più scendere.
Ci parla di quell’Italia, dunque, il dramma di Marcinelle: quasi “inevitabilmente” la via dell’emigrazione era apparsa ai governi del tempo una via necessaria, e molti italiani aspirarono realmente e fortemente ad essa per sfuggire a pesanti condizioni di miseria e di incertezza. Non erano inevitabili però le condizioni di quell’emigrazione in Belgio, ben diverse da quelle promesse dai manifesti che tappezzavano le piazze e i locali pubblici. Non erano inevitabili le durezze estenuanti e le umiliazioni dei viaggi (con i treni di fatto “sigillati” mentre attraversavano la Svizzera, ad evitare “fughe”).
Non erano inevitabili le disumane condizioni di vita nelle baracche, o la dura “scoperta” di un lavoro «abbruttente, inumano, svolto lontano dalla luce del Sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore (…) una condanna da cui si attende la liberazione» (sono parole di Aldo Moro, che nel 1949 visita il Belgio come sottosegretario). Vi sono anche le carenze delle istituzioni pubbliche nella storia che porta a Marcinelle, e anche quelle carenze - anche quei patti non rispettati, o quei varchi lasciati ai trafficanti del lavoro - contribuiscono a farci comprendere i costi altissimi che furono pagati: lo testimoniarono i moltissimi lavoratori che rientrarono subito, talora sfidando l’arresto per “inadempienza” (un altro paradosso, un altro rovesciamento di questa vicenda).
Lo testimoniarono le moltissime vittime: alla vigilia di Marcinelle erano già 1164 i minatori morti in Belgio dal 1947, e 435 di essi erano italiani.
Ha davvero in sé un “dovere di memoria”, Marcinelle, e lo ha sottolineato con efficacia un recente libro di Toni Ricciardi, Marcinelle, 1956, che ha un sottotitolo eloquente: Quando la vita valeva meno del carbone (Donzelli editore). In esso Annacarla Valeriano analizza bene anche la “comunicazione” e la “rappresentazione” che vi furono di quell’evento e che contribuirono a farlo diventare, appunto, lutto pubblico: chi ha visto i cinegiornali di allora della Incom non li dimentica più, e i giornali sono altrettanto eloquenti.
Il-luminano di luce cruda non solo l’inferno delle miniere ma anche la realtà da cui quegli uomini erano partiti. Disegnano una vera geografia della miseria e del dolore, popolata da piccoli paesi sin lì sconosciuti, soprattutto abruzzesi (viene da questa regione la maggior parte delle vittime italiane): «ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei giornali - scriveva Il Giorno - perché l’Italia si chieda dove sia Manoppello, e perché la gente di questo paese è così povera, e cosa si può fare per sollevarla alla miseria senza mandarla a morire in Belgio».
E ricordava che in quell’Italia erano ancora in vigore (e lo saranno sino al 1961) le leggi fasciste contro l’urbanesimo volte a impedire le migrazioni interne: un altro stridente contrasto del nostro dopoguerra. In realtà l’Italia iniziava a cambiare, in quel 1956, ma da qui siamo partiti: questo abbiamo sofferto, e non dovremmo dimenticarlo mai.

«. Il Fatto Quotidiano online, blog di Riccardo Noury , 8 agosto 2016 (c.m.c.)
Secondo dati raccolti dall’Ong israeliana B’Tselem e corroborati dall’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari, dall’inizio del 2016 le autorità militari israeliane hanno demolito almeno 180 abitazioni di palestinesi. Un numero record nell’arco di sette mesi, che ha superato anche quello del 2013 con 175 demolizioni eseguite, nello stesso periodo di tempo.
L’aumento delle demolizioni ordinate dall’Amministrazione civile (l’autorità militare israeliana di governo in Cisgiordania) è spaventoso: non considerando quelle eseguite come sanzione a seguito di attentati e attacchi armati, negli ultimi 10 anni il totale era stato di poco superiore a 1100 demolizioni.
Secondo B’Tselem, le 1113 demolizioni dell’ultimo decennio hanno lasciato senza tetto almeno 5199 palestinesi, quasi la metà dei quali minorenni. Tutte hanno avuto luogo nell’area C, che è sotto il pieno controllo, amministrativo e di sicurezza, dell’autorità militare israeliana.Israele giustifica le demolizioni definendole provvedimenti amministrativi nei confronti di strutture abusive. Tuttavia, nell’area C è pressoché impossibile ottenere il permesso di costruzione: tra il 2010 e il 2014 l’Amministrazione civile ha approvato solo l’1,5 per cento delle richieste. Che si tratti di prassi discriminatorie contro i palestinesi lo ha recentemente ammesso anche l’esercito israeliano.
Dal 1988, Israele ha emesso complessivamente 14.000 ordini di demolizione riguardanti circa 17.000 abitazioni e altre strutture civili palestinesi: 3000 sono stati eseguiti. Gli altri 11.000, la maggior parte dei quali riguarda sempre l’area C, è in via d’esecuzione o è oggetto di ricorsi. I difensori dell’occupazione sostengono che il problema sia di poco conto, interessando “soltanto” 300.000 palestinesi.
L’obiettivo non dichiarato di questa ondata di demolizioni potrebbe averlo reso candidamente noto Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, in un’intervista rilasciata al “Jerusalem Post” all’inizio dell’anno: “Il massimo di ebrei sul massimo di terra, con la massima sicurezza e il minimo di palestinesi”.Ossia , di demolizione in demolizione, l’annessione di fatto dell’area C e il proseguimento degli insediamenti israeliani.