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«Se Merkel, Hollande e Renzi rileggessero quel testo, scritto da Spinelli nel ’41, con l’auspicio della fine delle guerre. E non sarebbe stato male se avessero colto l’occasione di ricordare che se oggi Africa e M.O. sono quella polveriera che sappiamo è per colpa di quello che quasi tutti gli Stati europei hanno combinato».

Il manifesto, 23 agosto 2016 (c.m.c.)

Visto il pasticcio in cui sono rimasti impigliati i poveri turisti di Ventotene in questo scorcio ferragostano (collegamenti sospesi, file per i controlli, divieto di navigazione attorno all’isola ); nonchè le difficoltà che hanno dovuto affrontare gli altrettanto poveri addetti alla sicurezza, alle prese con una popolazione locale infinitamente più abbondante di quella normale (sicché hanno dovuto rinchiudere il vertice in una corazzata), c’è da ritenere che Renzi avesse proprio grande urgenza di invitare lì Merkel e Hollande, vale a dire che non avesse davvero potuto aspettare nemmeno una settimana quando nell’isola tutto sarebbe stato più facile. Forse voleva profittare della stagione per mostrare il presidente francese in bikini, sì da consentirgli di riaffermare i superiori valori della nostra civiltà. (Per fortuna l’orribile immagine ci è stata risparmiata).

Per carità, è stata una bella idea scegliere Ventotene. Discuto solo i tempi. Diffido poi degli eventi fondati sul richiamo di simboli usati senza entrare nel merito – anzi nascondendolo – di cosa, nella sostanza, li aveva resi tali. E’ un esercizio assai diffuso che, generalmente, si chiama “retorica”.

Ridurre il discorso di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di prigionia al semplice auspicio di un’Europa unita è fargli infatti torto. Perché in realtà ci hanno detto molto di più, anche come avrebbe potuto essere unita.Quanto è in discussione oggi è soprattutto questo. E sarebbe stato davvero interessante se i nostri tre avessero scelto Ventotene proprio per una riflessione, critica e autocritica, su cosa è stato fatto in questi quasi 75 anni. Avrebbero potuto rileggere assieme il lontano testo scritto nel ’41, soprattutto ripensare all’auspicio fondante che l’aveva ispirato: porre fine alle guerre.

Tanto è vero che poi quell’obiettivo si tradusse in un articolo della nostra Costituzione, l’11, che, si dice, sia stato inserito proprio su sollecitazione del gruppo federalista dell’ Assemblea Costituente. Un tema di grande attualità, perché da allora, se è vero che abbiamo evitato un terzo conflitto continentale, di guerre ne abbiamo tuttavia collezionate non poche. Dentro e fuori dai nostri collettivi confini.

Sarebbe stata, questa visita a Ventotene, l’occasione per ricordare quanto male sia nata l’attuale Unione: come strumento proprio di una guerra che, sia pur fredda, ha stravolto il significato del progetto. (Forse bisognerebbe ricordare che il primo atto parlamentare in favore degli stati uniti europei non fu nemmeno europeo, ma del Congresso americano, su sollecitazione di Allen Foster Dalles, in seguito capo della Cia, esattamente l’11 marzo 1947 al Senato e il 24 alla Camera dei rappresentanti ).

L’identificazione fra Europa e Nato nasce da lì, e visti i guasti che il continuo allungamento di quel Patto militare verso est, strategia demenziale di provocazione nei confronti della Russia, a tutto vantaggio del nazionalismo di Putin, si può ben dire che trattasi di argomento tutt’ora di attualità. Militari, e sempre soprattutto militari, di difesa dei confini sono apparse del resto anche le proposte emerse dal vertice.

Ventotene sarebbe stata anche l’occasione per qualche altra riflessione. I nostri confinati, col loro Manifesto, si erano pronunciati non solo per l’Europa, ma anche contro l’orrore del fascismo e dei valori dei suoi «stati bellici» (così li chiamarono) di cui il colonialismo è stata componente anticipatrice ed omogenea. Ebbene, forse non sarebbe stato male se avessero colto l’occasione di ricordare che se oggi Africa e Medio Oriente sono quella polveriera che sappiamo è per colpa di quello che quasi tutti gli Stati europei hanno combinato: dalla spartizione di quello che era stato l’Impero Ottomano dopo la prima guerra mondiale, ridisegnando la regione sulle linee dei rispettivi interessi petroliferi e così creando inventate nazioni (la bomba del bambino Isis durante la festa di nozze di una coppia kurda: quel popolo, è bene ricordarlo, è stato frammentato in quattro stati diversi, perché sul suo territorio c’era molta popolazione e molto oro nero, ed era bene impedirgli ogni protagonismo.

Così fu loro negata una nazione, inventata invece per il Kuwait, dove c’era altrettanto petrolio ma in compenso pochissimi abitanti, solo qualche beduino nel deserto, non in grado di avanzare pretese).

Quanto alla nuova Europa partorita nel marzo 1957, a meno di un anno dall’attacco di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto di Nasser che aveva osato riappropriarsi del canale di Suez, consiglio a tutti di andare a leggersi i diari del nostro, all’epoca, ambasciatore a Parigi, Quaroni. Racconta di come la preoccupazione determinante di Parigi fu allora di impedire che la neonata Cee potesse interferire con i problemi coloniali dei suoi stati membri. Che non intendevano affatto sciogliere.

Ecco, la buona idea annunciata da Renzi: il campus studentesco che dovrà nascere nell’ex prigione dell’isola di Santo Stefano, accanto a Ventotene. Buona, ma solo a condizione che gli attuali capi di stato e di governo dell’Unione siano fra i primi allievi in un corso sulla storia d’Europa. Utile, appunto, per capire che la migliore protezione dell’Europa consiste nel fare ammenda per gli orrori che abbiamo prodotto e che continuano ad alimentare le peggiori reazioni.

Il vertice era in realtà stato presentato come occasione per ridiscutere dell’austerità. Vedremo se i sorrisi di Merkel significheranno maggiore flessibilità. Ma se un anno fa – quando Tsipras osò sfidare Bruxelles – anziché regalargli una cravatta, Renzi si fosse adoperato per cominciare a costruire un fronte che combattesse con coerenza l’ideologia ordoliberista, e non, invece, a farsi vedere sorridente e ironico accanto ad una Merkel allora totalmente schierata col suo falco ministro Scheuble, bè, forse sarebbe stato più utile.

Arrivederci Angela, Francois, Matteo (così amano ormai chiamarsi fra di loro, scimmiottando i bambini dell’asilo). Vi aspettiamo un’altra volta a Ventotene. Ma al campus.

Analogie e grandi misteri della resa dei conti dei potenti di Cina e Turchia. Ricordi personali di un viaggiatore tra grandi folle tranquille e grandi folle arrabbiate, tra cortei democratici e cortei fanatici.

La Repubblica, 23 agosto 2016 (m.p.r.)

Quel che sta succedendo in Turchia mi ricorda un altro paese in preda alle convulsioni. Esattamente cinquant’anni fa, era il 18 agosto 1966, c’era stato a Pechino il primo grande raduno delle guardie rosse. Anziché bandiere rosse con la mezzaluna, in milioni in Piazza Tiananmen agitavano un rossissimo libriccino, fresco di stampa, rilegato con le copertine di plastica rossa fornite dalla nostra Montedison.

Mao si limitò a indossare il bracciale. Accanto a lui c’era Lin Biao, uno dei dieci marescialli, quello che aveva inventato il Libretto rosso. La conta dei dirigenti e generali che mancavano sul podio della Porta della pace celeste servì a capire chi era stato fatto fuori. Lo si seppe molto dopo: era una reazione a quello che, nella sua paranoia, Mao riteneva un fallito colpo di Stato militare ai suoi danni. Le guardie rosse, ragazzine e ragazzini in età scolastica, furono usate in un’operazione di linciaggio di massa degli avversari politici. Manifestavano, torturavano, saccheggiavano, umiliavano, uccidevano con estrema convinzione, con entusiasmo e fanatismo di tipo religioso. E con la benevola approvazione del presidente per antonomasia. In pochi giorni ci furono migliaia di morti nella capitale.

Sarebbe durata dieci anni. I morti negli scontri tra fazioni contrapposte sarebbero divenuti decine di milioni, coloro che ne subirono le conseguenze centinaia di milioni. Fazioni rivali si diedero battaglia con le armi pesanti. Lin Biao, nominato successore designato di Mao, fece intervenire l’esercito a riportare ordine. Poi sarebbe stato abbattuto con un missile mentre tentava di fuggire in Unione sovietica: anche quello un misterioso golpe fallito. Quando anche a Mao sembrò che le guardie rosse esagerassero, un’intera generazione fu deportata a “rieducarsi” in campagna. Tra questi i massimi dirigenti di oggi, Xi Jinping compreso.

Quando ero corrispondente a Pechino, l’allora segretario del Partito comunista cinese Hu Yaobang mi disse che la rivoluzione culturale era uno dei dieci grandi “misteri” della recente storia cinese su cui ancora andava fatta luce. Era appena tornato dalla Corea dei Kim dove era stato accolto con i consueti bagni di folla osannanti. «Noi in Cina abbiamo una certa esperienza di come portare in piazza folle sterminate. Ma loro come fanno a fargli venire anche le lacrime agli occhi?», mi disse con un sorriso ironico.

Sono convinto che questa sua insistenza su chiarimenti storici e l’altra sua affermazione, sulla necessità di una “riforma politica” che accompagnasse quelle economiche, siano tra le ragioni della sua defenestrazione nel 1986. La protesta degli studenti nel 1989 era partita come omaggio a Hu. Curioso, la motivazione con cui Deng Xiaoping diede l’ordine di massacrarli con i tank fu: mai più guardie rosse, caos e anarchia come la rivoluzione culturale. Da allora i misteri restano. Hanno avuto uno sviluppo strepitoso. Ma senza democrazia.

Tra i tanti misteri ce n’è uno che riguarda noi. A decenni di distanza, non riesco a capire come mai quel caos permanente, quella storia d’orrore durata un decennio, quella resa dei conti spietata tra fazioni politiche abbia affascinato tanta parte della mia generazione. Non solo i giovani, ma anche alcuni tra i più prestigiosi intellettuali dell’Occidente. Perché rispondeva a un bisogno di novità, di palingenesi, di rottamazione dell’esistente, di pulizia e onestà, disgusto per il marcio, di voglia di credere nel futuro, di credere in qualcosa? Per il modo in cui veniva propinata la favola? Spero (direi prego se fossi credente) che siamo vaccinati.

In mezzo secolo da giornalista ne ho viste di grandi folle. Ai funerali di Berlinguer c’ero. Alla demolizione del Muro di Berlino no, ma la vidi in diretta, così come la folla che accolse Mandela liberato dal carcere. Sono portato invece a diffidare delle folle arrabbiate: mi ricordano i pogrom di cui sono stati regolarmente vittime i miei antenati ebrei. Non mi fece paura invece l’immenso corteo che si snodò fino all’aeroporto di Teheran per il ritorno dall’esilio di Khomeini il 1 febbraio 1979. C’era tutto il popolo, compresi quelli che di lì a poco sarebbero stati perseguitati dagli integralisti. Al corteo che dieci anni dopo accompagnò Khomeini e quasi rovesciò la bara si respirava invece fanatismo puro.

In Cina ancora non si vota. In Iran sì, e ora c’è al governo un moderato, anche se ha a che fare con resistenze micidiali da parte della vecchia guardia. In Turchia Erdogan è stato votato, anche se non da una maggioranza assoluta. Ora punta a imporre il controllo assoluto con altri mezzi. La mappa degli ultimi risultati elettorali in Turchia somiglia in modo inquietante alla mappa del voto per la Brexit in Gran Bretagna, a quella delle ultime elezioni in Iran, e alle mappe che si potrebbero disegnare se vincesse Trump in America, o la Le Pen in Francia: immense periferie arrabbiate (le campagne avrebbe detto Mao), che assediano le città delle élite.

Un’ultima nota di comparazione: per scaramanzia, se non altro. La Cina della Rivoluzione culturale aveva già l’atomica. Il mondo non sapeva in mano a quale delle fazioni che si scannavano potesse finire. Per anni si è scatenato un bailamme attorno al fatto che l’Iran vuole dotarsi di centrali nucleari. Per il timore che un giorno si facciano anche la bomba. Non ho invece sentito esprimere analoghe preoccupazioni per il fatto che la prossima potenza nucleare potrebbe essere la Turchia.
La prima centrale gliela sta costruendo la Russia. E questa potrebbe essere una delle ragioni del riavvicinamento. Anche se al momento nessuno ipotizza che Ankara voglia farsi la bomba.

«Da una ricerca universitaria è emerso un dato molto interessante: gli italiani sono cinquantasette tipi diversi, tutta colpa di un mix di patrimoni genetici». Ma forse se oltre alla saliva si fossero analizzate anche le storie, i luoghi e le culture i risultati sarebbero stati più interessanti.

Ytali online, 22 agosto 2016

In casa ho appeso come un quadro l’ingrandimento di una foto che coglie nel tramonto un padre baffuto, una madre in nero col bimbo in grembo, una donna più anziana in nero, sullo sfondo una palma. «Chi sono? Arabi? Dove l’hai scattata?», mi chiedono sistematicamente i miei ospiti. «No -rispondo- sono siciliani di Partinico ripresi alla fine degli Anni Cinquanta durante un digiuno di Danilo Dolci».

C’è spesso curiosità in chi chiede e poi assorbe (incerto) la risposta. E allora io mostro loro un ritaglio della Stampa, vecchio ormai di un paio d’anni. Era stato, ed è rimasto, l’unico giornale a riferire di una ricerca di quattro università da cui è emerso un dato molto interessante: gli italiani sono cinquantasette tipi diversi, tutta colpa di un mix di patrimoni genetici. Il razzismo non c’entra nulla, c’entra piuttosto l’incredibile impasto di civiltà che ha formato non solo la Sicilia ma tutta l’Italia che per millenni è stata scorribanda di nazioni, di poteri, di eserciti di mezzo mondo che hanno provocato incroci, fusioni, disaggregazioni, minuscole immigrazioni.

Con il risultato, scriveva Stefano Rizzato in quel pezzo del quotidiano torinese, che c’è più distanza/diversità genetica all’interno del nostro paese che tra Spagna e Ungheria. Come dire che a tenere insieme gli italiani ci sono il passaporto, un tricolore e, appena da qualche decennio, una lingua. Tutto il resto è diverso, e differente soprattutto il patrimonio genetico: quel codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare da padre in figlio per secoli. L’Italia, insomma, è il paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa: lo conferma uno studio che ha unito genetica e antropologia, che è durato oltre sei anni ed è stato condotto da quattro atenei: quelli di Roma-La Sapienza, Bologna, Cagliari e Pisa.

Da una parte la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati nei luoghi più disparati d’Italia; dall’altra l’incrocio tra questa raccolta e il meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico dello stivale. “Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza le diversità umane del nostro Paese”, aveva spiegato a Rizzato il prof. Giovanni Destro Bisol, antropologo alla Sapienza, che ha coordinato il team di ricercatori. Chi sa, del resto, che esistono comunità di origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che, comprese l’albanese e la ladina (piuttosto note), ci sono ben dodici minoranze, anche linguistiche, tutelate dalla nostra Costituzione?

Su quali indicatori si è basata l’équipe inter-universitaria? «Su due indicatori molto sensibili», aveva aggiunto il prof. Destro Bisol: «l Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile». Ora questi due indicatori conservano traccia anche di variazioni ed evoluzioni anche recenti. D’altra parte è stata tenuta presente anche una certa “unicità” geografica dell’Italia: «In un paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali». In gran parte dei casi, poi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.

In Europa un melting pot comparabile c’è solo nei paesi balcanici. Messe insieme, le minoranze presenti sul territorio italiano sono appena il cinque per cento della popolazione. Sono comunità sempre più piccole che tendono a spopolarsi ma vivono e difendono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione.

«Le olimpiadi sono diventate la celebrazione retorica per non pensare ad altro dove “altro” è la terza guerra mondiale a bassa intensità

.». Il manifesto, 23 agosto 2016 (c.m.c.)

Siamo entrati nella terza guerra mondiale, a bassa intensità, così le parole di Francesco sul mondo in fiamme. Ci sono guerre dappertutto: in Africa, in Siria, in Iraq, in Afghanistan. Siamo in guerra con la Natura e con i suoi ecosistemi di supporto alla vita. Ci sono guerre nelle città e dove la guerra non è stata proclamata, come in Europa, ci sono le aggressioni del capitale finanziario che distrugge ancora più spietatamente popoli e paesi (Grecia docet). E c’è ancora l’ideologia liberista che ha scatenato una competizione darwiniana di ognuno contro tutti: guerre dei ricchi contro i poveri, guerre di poveri contro migranti.

In questo contesto planetario l’unica manifestazione universale di pace – alcuni affermano – è rappresentata dalle Olimpiadi. Sopprimerle sarebbe abdicare totalmente a ogni tentativo di sana competizione planetaria, di universalismo dei popoli. Ma è vero? È un’affermazione che oggi si può condividere? Crediamo di no.

Alcuni episodi avvenuti nelle recenti olimpiadi di Rio, hanno segnato qualche tentativo di dissacrare almeno quel falso tabù del corpo perfetto. Mi riferisco alle tre atlete italiane che hanno conquistato l’argento al tiro con l’arco, alla portiera Teresa Almeida della squadra di pallamano dell’Angola. Finalmente anche corpi “imperfetti” hanno avuto cittadinanza in questa fiera di esibizione muscolare.

Ma è ben poca cosa a confronto con le operazioni di maquillage urbano (per dirla con un eufemismo) che hanno reso ancora più sofferenti gli abitanti dei quartieri di Rio smantellati per fare spazio ai fasti e alle opere faraoniche della celebrazione. La città se ne è avvantaggiata? Città è un termine astratto: bisognerebbe chiederlo a tutti i suoi abitanti e scopriremmo che chi stava male, chi soffriva, adesso sta ancora più male e soffre di più. Qualcuno ne ha certamente tratto qualche vantaggio: i soliti noti per i quali ogni evento costituisce occasione di ulteriore profitto. Per il resto, sulle prime pagine dei giornali troviamo solo la nascita di nuovi eroi o, al contrario, la caduta di consacrati dei pagati a suon di milioni e diventati icone nazionali.

Sono le olimpiadi un antidoto alla terza guerra mondiale a bassa intensità? Non crediamo.

Anche esse hanno subito la Grande Trasformazione che sconvolge il mondo: c’è ancora forse qualcosa in esse che richiama lo spirito di Pierre di Coubertin, delle olimpiadi antiche? O non sono esse, con tutto il loro micidiale apparato retorico, un evento mediatico dietro il quale si nascondono enormi interessi affaristici che ne condizionano lo spirito e forse anche gli esiti? Si dirà: è il Mercato bellezza!

Ma non erano proprio le olimpiadi quelle dove il Mercato non avrebbe dovuto trovare posto perché la sana competizione tra atleti si basa solo sulle loro singole capacità agonistiche e fisiche? Difficile pensarlo quando si vedono atleti dotati dei più sofisticati congegni tecnologici di supporto. Basta pensare al tiro con la carabina; un’arma, quella attuale, difficilmente riconoscibile ai non esperti, sembra quasi un fucile uscito dal film di Guerre stellari. Insomma le olimpiadi sono diventate la celebrazione retorica per non pensare ad altro dove “altro” è la terza guerra mondiale a bassa intensità.

Per questo noi chiediamo una moratoria mondiale delle olimpiadi: che riprendano a celebrarsi solo quando il mondo darà segnali concreti di voler superare le disuguaglianze, le guerre, le sofferenze, le ingiustizie ambientali, la piaga della povertà, che attualmente lo sconvolgono. Di un mondo diverso abbiamo bisogno, non di vivere una giornata all’insegna di un’ebbrezza mistica per tornare, subito dopo ad assistere, impotenti, alla distruzione del pianeta.

Articoli di T. Colluto e L. Musolino, T. Rodano e A.Segre

. Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2016 (p.d.)

L’ESTATE ETERNA

DEI NOSTRI SCHIAVI
di Tiziana Colluto e Lucio Musolino

Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tra le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.

Lecce: “Poco pomodoro, uguale poco lavoro”
Abdul va e viene tra le baracche, con un bicchiere in mano: “Una moneta, mi serve per tornare a casa”. Casa è la tendopoli di Rosarno, da cui il ghetto di Nardò, nel leccese, sembra lontano una distanza infinita quando si è senza un soldo: quest’anno, per molti, l’impiego tra i filari non c’è neanche a pagarlo ai caporali. Poco pomodoro, poco lavoro. Ahmed spunta da dietro un ulivo: “Io dormo qui da nove giorni e non mi hanno chiamato una volta. Il ‘capo nero’ è arrabbiato con me, perché gli ho detto che con questi prezzi solo lui mangia”.

I costi sono quelli fissi: 5 euro al giorno per il trasporto; 3 euro per il panino; 1,50 euro la cresta su ogni cassone che al lavoratore frutta appena 3,50 euro. Ma non c’è posto qui per la ribellione. Tra gli schiavi della terra, nulla è cambiato in Puglia. Solo il sole meno severo non ha reso anche questo l’anno di Mohamed, Zaccaria e Paola, i tre braccianti schiantati dal caldo e dalla fatica la scorsa estate.

L’ordinanza che impedisce di restare sui campi dalle 12 alle 16, voluta dal sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha un limite intrinseco: si applica solo al territorio neretino. Un metro più in là, a Copertino come nel resto della regione, è ancora far west. È mutato solo ciò che non si vede. Le prime file della catena di comando si sono inabissate: i caporali lasciano il lavoro sporco ai capisquadra, che si confondono con i braccianti, vivono nel ghetto con loro, li reclutano tramite Whatsapp, insieme raggiungono in auto le campagne. All ’apparenza, quasi un’autogestione. Nella realtà, è l’organizzazione ad essersi fatta sofisticata, liquida. Perché la controffensiva della magistratura qui è stata, paradossalmente, una lezione al contrario: dopo l’operazione Sabr, che quattro anni fa ha portato in carcere 16 persone tra imprenditori e intermediari, il cartello del caporalato ha imparato in fretta a non esporsi. E ora rischia anche di farla franca: troppo complicato far reggere in giudizio le accuse di riduzione in schiavitù e tratta di persone. “Se dovesse andare male il processo nato da quell’inchiesta – ammette il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta – si dovrà ricominciare da capo”. Il ddl sul caporalato approvato in Senato tre settimane fa a chi è in trincea fa storcere il naso: “Per me, è una schifezza, – dice Motta – quella norma ha un errore di impostazione. Parte dalla necessità di punire l’intermediario e solo in casi particolari il datore di lavoro. Invece, la legge avrebbe dovuto colpire in primis chi utilizza i braccianti in condizioni di grave sfruttamento e poi, per concorso, gli altri”.

Trecento chilometri più a nord, nel foggiano, c’è lo stesso scenario. Una città di baracche di plastica e cartone. Un inferno esasperato: sono quasi 2mila i migranti nel “Gran ghetto di Rignano”, sotto sequestro dopo l’incendio che lo ha devastato, il 23 marzo. Lo smantellamento del campo, promesso a più riprese dal governatore Emiliano, tiene tutti in ansia: “Per me va bene – dice Amadou – perché qui siamo senza acqua né luce e le persone vengono sfruttate, ma devono darci un’alternativa vera”. Hanno proposto una tendopoli a San Severo, è lontana 30 chilometri. “Lo sgombero ora è impensabile. Avverrà in inverno, quando gli stanziali sono meno di 200”, assicura Stefano Fumarulo, dirigente della Sezione Politiche per le migrazioni della Regione Puglia. I progetti di ospitalità in un campo container adeguato sono destinati, anche quest’anno, ad essere rimandati al prossimo. Forse: i 4 milioni di euro che si attendevano dal governo, dopo la firma del protocollo di lotta al caporalato di fine maggio, non sono arrivati. Fermi anche i 500mila euro stanziati da Bari per incentivi all’ospitalità e gli altrettanti per il trasporto: le aziende non si sono fatte avanti. E degli 800mila euro impegnati tre anni fa per rafforzare i controlli, ne sono stati spesi appena 48mila. Nella lotta al caporalato, neanche i soldi, quelli pubblici, fanno la loro parte. “Il tema vero è l’avviamento al lavoro e qui va sempre peggio – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia. A Lecce, a fronte di 200 iscritti nelle liste di prenotazione da cui le imprese possono attingere, lo scorso anno ci sono state 80 assunzioni, quest’anno appena 40. A Foggia, su 800 iscrizioni, zero contratti ”. Meglio pescare gli schiavi nell’economia illegale.

Le stalle di Cosenza e le tende di Gioia Tauro
San Ferdinando, Calabria. Siamo nell’area industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. “Non ho visto nessun cambiamento rispetto a quando è morto il fratello Sekine Traore. Nessuno ci ha dato una mano”. Sono passati due mesi dal giorno in cui un colpo di pistola, sparato da un carabiniere intervenuto a sedare una rissa, ha ucciso un ragazzo del Mali all’interno della baraccopoli dei braccianti. I “fantasmi neri” non hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa ma non vuole dire il suo nome. È un ragazzo del Ghana. Vive col figlio nell’indegna tendopoli di Rosarno. “Presto – anche lei – dovrà essere smantellata. Lì, di fronte, costruiranno quella nuova”.

Decisione della prefettura. La Regione ha stanziato 300mila euro per acquistare le tende e far vivere maniera dignitosa i migranti stagionali che in Calabria raccolgono le arance. All’epoca, il governatore Mario Oliverio aveva parlato di “ghetto”. Sono trascorsi oltre sei mesi ma quel ghetto è sempre lì.

In questi giorni la Protezione civile sta gestendo l’appalto per l’acquisto di 44 nuove tende che ospiteranno 440 migranti. Pochi: d’inverno la tendopoli di San Ferdinando esplode con oltre mille stagionali, protagonisti già nel gennaio 2010 di una violenta rivolta. I progetti di accoglienza diffusa previsti nel protocollo tra prefettura e Regione non sono mai partiti, i migranti che non troveranno posto nella tendopoli saranno costretti a costruire nuove baracche.

“Adesso siamo solo 200, – spiega uno di loro – molti sono andati a Foggia e in Campania per la raccolta dei pomodori, ma torneranno”. Il Comune di San Ferdinando è sciolto per mafia. Un funzionario riconosce: “Nella nuova tendopoli i posti sono troppo pochi”. E come si fa? “Me lo domando pure io. – risponde. Succederà la rivoluzione. Con quale criterio assegneranno le tende? E gli altri migranti che faranno? La baraccopoli bis?”.

Altrove la situazione è ancora più tragica. Nella piana di Sibari, un’inchiesta della guardia di finanza (che ha denunciato 49 persone) ha svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta e un caporale pachistano, che in un anno è riuscito a guadagnare circa 250mila euro, in parte finiti nelle casse della cosca locale. Era il dominus a cui si rivolgevano gli imprenditori agricoli per recuperare manodopera illegale. Sequestrava i documenti dei lavoratori e li costringeva a vivere in condizioni oltre il limite: le loro “case”erano stalle e porcili. Dormitori sommersi dalla paglia e dall’immondizia. Esseri umani trattati letteralmente come bestie.

In Basilicata la storia non è diversa. La linea di chi amministra è una sola: smantellare le baracche. Per il resto, nessuno ha chiaro come contrastare il caporalato. A Boreano, una frazione di Venosa, in provincia di Potenza, l’accampamento dei braccianti è stato distrutto e i migranti trasferiti nei centri di accoglienza gestiti dalla Croce Rossa. “I lavoratori non vogliono andare lì perché sono zone molto scomode e senza alcun servizio. – spiega Giulia Bari, responsabile di Medu (Medici per i diritti umani). Non hanno i letti, dormono sulle brandine da campeggio e per mangiare hanno dei fornetti elettrici appoggiati sui tavoli di plastica. Non essendoci una rete di trasporto che colleghi i centri ai campi, saranno sempre i caporali a organizzare le squadre per andare a lavorare”. E poi ci sono le “liste di prenotazione”. I migranti che vogliono accedere al centro di accoglienza devono iscriversi: “La scelta di chi lavora è tutta nelle mani del caporale. È lui che comunica i nomi dei prescelti al datore di lavoro. Il caporale, insomma, fa le squadre”.

Il vecchio campo è smantellato, avanti il prossimo. “Vedrai – spiega Vincenzo Esposito, della Flai-Cgil – da qui a 20 giorni costruiscono una nuova baraccopoli altrove. Bisogna sottrarre questi lavoratori ai caporali, il resto serve a poco”.

“UNA BATTAGLIA DI
LAVORO E DIRITTI MA
LA SINISTRA NON C'E'”
di Tommaso Rodano e Andrea Segre

“Le condizioni pesantissime dei braccianti sono il punto di convergenza di due grandi assenze di diritti nella nostra società: quelli di chi lavora e quelli dei migranti economici”. Andrea Segre ha dedicato agli uni e agli altri – lavoratori e migranti – buona parte del suo impegno nella sua precoce e brillante carriera di regista. “Lo Stato”, aggiunge, “ha dimostrato di essere totalmente incapace di intervenire nel mercato del lavoro”.

Lei ha girato il documentario “Il sangue verde” a Rosarno nel 2010. Sei anni dopo non è cambiato nulla.
È tutto immobile, non solo a Rosarno. Sono stato a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove c’è uno dei più grandi mercati agricoli d’Europa di piccoli pomodori, i datterini. Un’enorme spianata disseminata di serre, dove lavorano tra i 3 e i 6 mila braccianti. Molte donne, soprattutto tunisine e romene. D’inverno vivono, lavorano e dormono dentro le serre. Sono stato accompagnato dagli operatori della Caritas, pensavano fossimo della parrocchia. È l’unico modo per frequentare questi posti: se uno parla di diritti fa una brutta fine.

Nessun controllo?
Nulla. Nessuno dei sindacati, né delle amministrazioni pubbliche ha la legittimità di entrare lì dentro. In un luogo che produce ortaggi per un mercato enorme, che genera contrattazioni milionarie e coinvolge la grande distribuzione. Un’economia gigantesca che non ha bisogno di diritti: tra il mercato e i braccianti non c’è nessun filtro, nessuna mediazione.

Il Senato ha approvato un ddl contro lo sfruttamento agricolo. Secondo il procuratore di Lecce è una legge che punisce solo i caporali e non le aziende agricole. È d’accordo con il suo giudizio?
Sì. Quella norma è un controsenso. I caporali, come gli scafisti, ovviamente non sono dei santi. Ma colpire gli “utilizzatori finali” della catena di sfruttamento non è sufficiente per risolvere questi fenomeni. È un paradosso, un’ipocrisia: lo Stato fa una legge per fermare chi sfrutta un’assenza dello Stato stesso.

Come si possono portare queste persone fuori dalla schiavitù?
I diritti nell’agricoltura italiana sono stati ottenuti nel momento in cui i braccianti si sono auto organizzati. I lavoratori stranieri ancora non riescono a farlo, o gli viene impedito. E i sindacati italiani sono molto indietro nella loro tutela. A tentare di rappresentarli restano le associazioni sul territorio, a Nardò, come a Rosarno e in Campania. A Caserta il 20 giugno sono scesi in piazza 6 mila braccianti africani. Un numero enorme, ma chi lo sa? Sembra non se ne sia accorto nessuno.

Una rimozione collettiva.
A vigilare su Vittoria, per migliaia di braccianti, ci sono solo tre ispettori del lavoro. Tre. Lo Stato dia un segno di vita. Lo dico come provocazione: assuma 2mila ispettori del lavoro africani.

Si parla di diritti, lavoro, civiltà. Dov’è la sinistra italiana?
La risposta è semplice: il bracciante non porta voti. Una volta un senatore del Pd mi ha detto: “Noi non siamo una ong”. Lo considerano un argomento umanitario, invece è una questione di diritti civili e sociali. Soltanto il diritto di voto può resituire a queste persone la possibilità di essere rappresentate.

«Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro.

». Internazionale online, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

L’Italia è, tra i paesi ricchi, uno di quelli in cui l’ingiustizia sociale trova meno argini al suo dilagare. E, in assoluto, quello che nell’ultimo decennio ha lavorato meglio per distruggere il futuro dei giovani. Tenendo conto che nel 2005 eravamo la sesta economia mondiale, al centro di un continente che ha fatto e in certi casi riesce ancora a fare del welfare uno strumento d’equità, ci voleva molta impreparazione, molto impegno, molto cinismo, molta cialtronaggine per diventare la pecora nera dell’ultimo rapporto McKinsey sull’impoverimento delle nuove generazioni.

Del rapporto, intitolato Poorer than their parents? A new perspective of income inequality (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sulla disuguaglianza dei redditi), si sta molto parlando sui giornali, e sorprende come – per la gravità dei suoi contenuti – l’agenda politica non dia segno di risentirne in modo drastico.

Secondo lo studio della multinazionale, che ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta, oggi il 97 per cento delle famiglie italiane sta peggio di come stava nel 2005. Alta la percentuale degli Stati Uniti (81 per cento), preoccupante quella di Regno Unito e Paesi Bassi (70 per cento in entrambi i casi), poco incoraggiante quella della Francia (63 per cento). Isola felice la Svezia, dove welfare e politiche keynesiane hanno fatto sì che solo il 20 della popolazione oggi stia peggio di dieci anni fa.

Fallimento certificato

A fare le spese in una simile situazione sono soprattutto i giovani, condannati a essere più poveri dei loro genitori. A parte una breve battuta d’arresto durante gli anni settanta, fa notare lo studio McKinsey, non era mai successo a partire dal dopoguerra che le nuove generazioni si affacciassero sul mondo del lavoro con meno prospettive rispetto alle precedenti.

Se si tiene conto che in Nordamerica e in Europa occidentale i profitti delle imprese negli ultimi tre decenni “sono stati eccezionali” (sempre lo studio McKinsey nella sua versione più estesa), e che il 2015 è anche il primo anno in cui il famoso 1 per cento della popolazione più ricca è arrivato a possedere oltre la metà della ricchezza mondiale (qui è il rapporto Oxfam a dirci a quale livello è giunta la disuguaglianza, con 62 super miliardari la cui ricchezza è pari a quella dei 3,6 miliardi di esseri umani più poveri), il fallimento delle politiche economiche adottate nella maggior parte dei paesi occidentali a partire dagli anni della reaganomics non è più un’opinione, ma un fatto, certificato spietatamente dai numeri.

I ventenni di oggi lo sanno subito che per loro sarà dura

Secondo i sostenitori del neoliberismo l’aumento della ricchezza complessiva all’interno di un sistema economico dovrebbe beneficiare la maggior parte degli individui che ne fanno parte, sia pure al costo di un allargamento della forbice tra più e meno fortunati. Nelle economie più evolute non è andata così. È accaduto l’opposto. Le cose sono andate benissimo per pochi e decisamente peggio per la maggior parte di noi. Questo vale sia per i paesi che ancora stentano a uscire dalla recessione (l’Italia) sia per le economie ben più dinamiche della nostra, come quella degli Stati Uniti, dove il pil ha ripreso a crescere già da qualche anno ma l’ascensore sociale resta fermo e la redistribuzione della ricchezza (nonché la moltiplicazione delle opportunità) è abbastanza critica da generare fenomeni come Donald Trump.

Tornando in Italia, se volete misurare con più precisione lo svantaggio dei nati tra il 1970 e il 1974 rispetto ai nati tra il 1965 e il 1969, e dei nati tra il 1975 e il 1979 rispetto a tutti gli altri, allora date un’occhiata a questo studio, dal quale si evince tra l’altro come “siano soprattutto i laureati ad aver subìto una forte riduzione dei livelli retributivi rispetto alle generazioni precedenti”.

A rendere più infame la situazione italiana c’è l’ultimo Rapporto Unicef su povertà e disuguaglianza tra i bambini, secondo il quale siamo trentaduesimi su trentacinque paesi di Unione europea/Ocse presi in esame. In questo caso i parametri usati sono il divario nel reddito, nei risultati scolastici, nelle condizioni di salute. Compromettiamo in modo quasi irreversibile il futuro dei giovani, e come se non bastasse rendiamo molto complicato il presente dei bambini.

Fino qui, l’evidenza dei dati. Ciò che desta altrettanta preoccupazione è assai meno misurabile. Si tratta delle ripercussioni sociali, civili, esistenziali, spirituali che un simile tradimento del futuro potrà avere e in parte sta già avendo e ha già avuto su di noi, sul modo in cui ci consideriamo parte di una comunità e sul rapporto che intratteniamo con noi stessi giorno dopo giorno, dai quali discendono in buona misura autostima, equilibrio, serenità e riconoscimento di senso (o di non senso) rispetto al fatto di appartenere a un determinato momento storico, in un altrettanto ben determinato contesto. Come Amleto, i più fantasiosi possono credersi re dello spazio infinito perfino chiusi in un guscio di noce. Il problema è che fuori c’è Elsinore, ed è impossibile non farci i conti.

I quarantenni. I trentenni. I ventenni. In Italia, nessuno che appartenga a queste fasce anagrafiche aveva bisogno del rapporto McKinsey per sapere come stavano le cose. I ventenni più dei trentenni. I trentenni più dei quarantenni. Chi sperimenta un certo tipo di male sulla sua pelle si trova nell’ingrata condizione di sapere prima degli altri che cosa sta accadendo e al tempo stesso rischia di non essere creduto, almeno fino a quando il proprio travaglio personale non avrà il tempo per diventare una statistica.

Odioso scetticismo

Ho 43 anni, faccio parte della prima generazione che in Italia si è trovata a muoversi in un contesto meno favorevole rispetto a quello che ha accolto chi c’era in precedenza. Il cambio di paradigma ha avuto su quelli come me un effetto di spiazzamento che i ventenni di oggi – più consapevoli e più svantaggiati rispetto a quanto ero io alla loro età – non sperimentano. Lo sanno subito, che per loro sarà dura.

Noi eravamo quelli a cui avevano detto “andate, laureatevi, e il mondo sarà vostro”. Laureati quanto era bastato ai nostri genitori per mettere su famiglia, freschi di master quanto era stato sufficiente ai nostri fratelli maggiori per diventare benestanti, ci siamo ben presto resi conto quanto la porta d’accesso al futuro si fosse ristretta. Il problema è che un ventenne non ha quasi mai una voce in grado di farsi sentire pubblicamente. Così, all’epoca, il nostro grido d’allarme suscitò non di rado un certo fastidio tra i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni di allora.

Ricordo l’incredulità stizzita di certi miei parenti più adulti quando gli raccontavo come funzionavano le cose per chi cominciava a lavorare alla fine degli anni novanta. Trovavo odioso il loro scetticismo – “se non riuscite a guadagnare quanto facevamo noi alla vostra età, se non avete trovato un modo decente per mettere su casa e famiglia, la colpa è vostra” –, mentre oggi mi appare umanamente comprensibile.

Sul piano emotivo, deve essere complicato ammettere di aver lasciato ai propri figli un mondo per molti versi peggiore rispetto a quello ereditato dai propri padri. Quando poi la marea si è alzata, e una grave difficoltà economica ha cominciato a lambire fasce anagrafiche che fino a quel momento ne erano state risparmiate, un istintivo senso di solidarietà nella disavventura ormai comune ha portato a ricredersi la maggior parte di coloro che negavano ciò che oggi risulta impossibile anche solo mettere in dubbio.

Ciò che continuo a trovare ancora odioso è l’atteggiamento della nostra classe politica davanti a questo dramma. Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti, Enrico Letta. Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tommaso Padoa Schioppa, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni. Roberto Maroni, Cesare Damiano, Maurizio Sacconi, Elsa Fornero, Enrico Giovannini.

Assoluto sfruttamento

Con l’esclusione dell’ultimo governo, insediato troppo di recente per partecipare degli esiti del rapporto McKinsey, vale la pena ricordare chi sono stati i presidenti del consiglio, i ministri dell’economia e delle finanze, i ministri del lavoro degli ultimi dieci anni. Essendo i responsabili politici di una rottura del patto generazionale così drammatica e al tempo stesso così eclatante e incontestabile, un sommesso mea culpa sarebbe un obbligo dovuto al ruolo istituzionale, e delle scuse sentite il minimo da pretendere sul piano umano. Invece è stata l’arroganza a dominare.

Tommaso Padoa Schioppa – cioè il figlio dell’amministratore delegato delle assicurazioni Generali – definì “bamboccioni” i giovani costretti a vivere con i genitori per la mancanza di un lavoro decente. Giulio Tremonti assicurava in diretta nazionale che la crisi in Italia non sarebbe mai arrivata o ne sarebbe uscita presto, e tutt’oggi è talmente sicuro del fatto suo che se qualcuno lo chiama “Tiresia” non coglie l’ironia.

Elsa Fornero inventò prima le lacrime di coccodrillo preventive (manifestò pubblicamente il cordoglio per la riforma delle pensioni che il governo di cui faceva parte stava per attuare, e forse il pentimento per la riforma del lavoro che non aveva ancora attuato, alla luce dei risultati una delle più inefficaci degli ultimi anni) e poi riuscì a insultare quegli stessi giovani che aveva contribuito a gettare sul lastrico definendoli choosy, troppo schizzinosi, perché qualcuno le aveva riferito che i neolaureati rifiutavano lavori al di sotto del proprio livello formativo.

In realtà si trattava quasi sempre di decidere se accettare o meno le condizioni di assoluto sfruttamento che gli venivano proposte – se le spese per raggiungere il posto di lavoro e per mangiare durante la pausa pranzo rischiano di pareggiare lo stipendio, qualcosa non va.

Come scrivevo, l’attuale governo è in carica da troppo poco tempo perché si possa onestamente considerare corresponsabile del disastroso decennio fotografato dal rapporto McKinsey.

Altrettanto onestamente, però, osservando il modo in cui anche Matteo Renzi indora l’inefficacia delle proprie politiche, da cittadino ho imparato a diffidarne. Mi è bastato assistere al trionfalismo con cui il presidente del consiglio ha accolto il ritorno del segno più davanti al prodotto interno lordo italiano nel 2015 per concludere che i suoi freni inibitori non gli impediscono di mentire su cose molto importanti.

Se nel 2015 il pil italiano ha segnato un + 0,8 per cento (molto più verosimilmente un +0,6 per cento) contro il +1,7 della Germania, il +1,2 della Francia, il + 3,2 della Spagna, il +7,8 dell’Irlanda, il +1,5 del Portogallo, questo significa solo che siamo stati meno bravi degli altri a sfruttare quel po’ di ripresa che ha attraversato il vecchio continente. Imbellettare un insuccesso fino a venderlo come il suo opposto significa mentire. Bill Clinton rischiò il posto perché lo fece sulla sua vita erotica.

A differenza di certi puritani, non credo che chi mente sulle proprie vicende private sia più bendisposto a tradire il suo paese. A un presidente del consiglio chiedo molto meno. Se all’indomani della pubblicazione dei dati sul pil Matteo Renzi si fosse presentato agli italiani illustrando in modo sobrio e virile la difficoltà della situazione, e la modestia dei risultati, ne avrei avuto stima. Per risolvere certi problemi ci vuole realismo nel leggere il presente e una certa visionarietà per costruire il futuro. Ho l’impressione che Renzi sia affetto al tempo stesso da sguardo corto e visionarietà: interpreta i numeri con molta fantasia e scambia le Cassandre per gufi.

Più della sorte di Renzi, mi interessa ovviamente quella dei suoi coetanei (i primi a essere colpiti dalla crisi) e di chi appartiene alle generazioni successive, per le quali le difficoltà sono addirittura maggiori.
Studenti partecipano allo sciopero nazionale indetto contro la riforma della scuola del governo Renzi, il 5 maggio 2015. (Giuseppe Ciccia, Pacific Press/LightRocket via Getty Images)

I pericoli della pazienza eccessiva

Mi sembrò tremendamente ingiusto Mario Monti quando parlò degli attuali trenta e quarantenni come di una generazione perduta. A me al contrario quella sembrava una generazione che aveva contribuito a salvare il paese. Se molti giovani non avessero accettato di lavorare a condizioni che per i loro genitori sarebbero state intollerabili, come avrebbero fatto a reggere in Italia – solo per fare pochi esempi – il mondo della scuola, dell’università, della sanità, della cultura, della comunicazione?

Se tuttavia una non comune capacità di resistenza e di pazienza delle ultime generazioni è innegabile – e anziché essere dileggiato dalle istituzioni, il loro sacrificio avrebbe dovuto essere pubblicamente riconosciuto – il prolungarsi della crisi oltre le peggiori previsioni le espone a pericoli di cui si vedono le prime avvisaglie.

Innanzitutto, una generazione economicamente molto debole, la cui capacità di autodeterminazione è stata ridotta al lumicino, subisce al tempo stesso con più efficacia i ricatti di determinati poteri (quando ti chiedono obbedienza in cambio di sopravvivenza) e i deliri di altri (a stomaco vuoto si ragiona male, e parlare allo stomaco dei bisognosi è da sempre la facile strategia dei demagoghi).

Dall’altro, subire per molto tempo un’ingiustizia erode con una certa facilità gli strumenti di autocritica. Essere costretti nel ruolo della vittima sociale è assai insidioso, perché ti fa sentire nella parte del giusto anche quando non lo sei. Esiste anche un’arroganza dei perdenti, che danneggia soprattutto chi è nella condizione di farsene contagiare.

All’arroganza si aggiungono il sarcasmo e il cinismo. Fino a quindici anni fa, quando le difficoltà di una e poi di due generazioni sembravano temporanee, era l’autoironia l’arma con cui si tentava maldestramente di esorcizzarle: rido dei miei problemi pur di non rappresentarli come tali davanti a un mondo in cui “vincere” è determinante.

Oggi, abbassata l’asticella, in un mondo in cui determinante è “sopravvivere”, e inizia a essere chiaro che i problemi di almeno tre generazioni sono strutturali, non potendo più nascondere una situazione palesemente drammatica, l’espediente retorico più a buon mercato per darsi un’importanza altrimenti inattingibile è passare dal fioretto usato raffinatamente su se stessi al randello con cui colpire all’impazzata tutt’intorno.

In un mondo in cui è sempre più difficile essere protagonisti della propria vita, non rimane infine che diventare tifosi. Trovo molto deludente, specie tra la classe intellettuale delle ultime generazioni, il fanatismo con cui alcuni supportano per esempio ogni mossa, persino la più indifendibile, del Movimento 5 stelle; o la santimoniosa benevolenza ai limiti del servilismo con cui altri contemplano il cerchio magico di Renzi o altri panorami della sinistra. Tanti anni di studi e di letture per abbracciare la filosofia della curva nord contro la curva sud?

Il rapporto McKinsey ha messo l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi che hanno scommesso peggio sul proprio futuro. Due delle tre generazioni che i più sfacciati considerano “perdute”, cominciano a propria volta ad avere figli, ai quali i neogenitori non potranno spesso garantire il benessere economico e il livello di istruzione di cui hanno beneficiato loro quando erano ragazzi.

Bisogna aggiungere che se non fosse stato per la generazione di chi a propria volta sta diventando nonno, molti di questi trentenni e quarantenni verserebbero in una condizione di povertà assoluta. In mancanza di un serio welfare, è stata come sappiamo la famiglia il vero ammortizzatore sociale del nostro paese, il che da una parte ci ha salvati dal disastro, mentre dall’altra non ha sempre giovato alla serenità dei rapporti tra genitori e figli, e alla capacità di interpretare in modo degno, e bello, entrambi i ruoli.

Un’avventura da compiere insieme

Nessuna generazione è mai davvero perduta. Ognuno di noi può rivendicare legittimamente un ruolo attivo nel mondo in cui vive. In Italia, la crisi economica è stata troppo lunga e gestita in modo troppo irresponsabile per non essersi trasformata in un male molto più profondo.

L’attuale compagine politica è composta da uomini la cui mediocrità impedisce di sapere anche solo dove mettere le mani, figuriamoci come. Se le cose andranno bene, e ce lo auguriamo, ridurranno di un punto percentuale la disoccupazione, ma non riformeranno l’animo malato del paese.

Per guarire, è necessario un patto intergenerazionale più serio e maturo di quello che ha funzionato a intermittenza – e con troppi fraintendimenti – negli ultimi anni. Forse la vera sfida oggi è avere la forza, nonché trovare i modi, per reincludersi socialmente laddove l’economia ha messo tanti fuori dei giochi. Non è un’avventura che si può cominciare a intraprendere da soli. Se qualcosa di buono nascerà sarà la parte sana della società a produrlo, vale a dire il senso di responsabilità, il coraggio, il cuore, la capacità di stare con gli altri, la voglia di spendersi di ogni singolo individuo. Sentirsi esclusi anche da questa sfida è condannarsi a non esistere.

Precisazioni del presidente del Comitato per il No al referendum costituzionale «Noi di centrosinistra non siamo sostenitori del mero status quo».

La Repubblica, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

Caro direttore, in una lettera pubblicata il 18 agosto Luigi Berlinguer ha dichiarato che voterà per il Sì al referendum costituzionale in quanto questo riguarderebbe «soprattutto il superamento dell’obsoleto e ormai ingombrante bicameralismo paritario di casa nostra, oltre all’abolizione delle Province e (finalmente) del Cnel»; che il voto per il No gli parrebbe «dettato da un’insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi, di levarselo di torno»; infine che la «parola d’ordine» dei sostenitori del No sarebbe che la «Costituzione non si tocca».

Le ragioni del No del Comitato di centrosinistra, che ho l‘onore di presiedere, non risiedono né nella difesa del bicameralismo paritario, ormai condiviso da pochi; né nella rilevanza costituzionale delle Province, la cui abolizione è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale; né infine nella sopravvivenza del Cnel, da gran tempo divenuto uno “zombi”.

Le ragioni sono ben altre. La grave violazione del principio sancito dall’articolo 1 della nostra Costituzione, secondo il quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare» (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale), laddove, con la riforma Boschi, la conseguenza sarebbe che tutte le leggi, ivi comprese quelle costituzionali, non verrebbero più approvate da rappresentanti eletti dal popolo.

La mistificante enunciazione del Senato «rappresentante delle autonomie territoriali», che non solo continuerebbe ad essere organo dello Stato centrale, ma non gli verrebbe concesso, nonostante quell’enunciato, di legiferare su materie di interesse regionale, con la conseguenza che le Regioni verrebbero discutibilmente degradate a livello «prevalentemente amministrativo».

La composizione irrazionale del Senato, i cui componenti dovrebbero nel contempo svolgere la funzione di consigliere regionale o di sindaco, cosa che non consentirebbe loro di adempiere puntualmente le funzioni connesse ad entrambe le cariche, con la conseguenza di rendere oltre tutto difficile il rispetto dei brevi termini previsti per il Senato nei procedimenti legislativi diversi da quello bicamerale.

L’irrazionalità del compito del Senato di eleggere due dei cinque giudici costituzionali, col rischio di creare una logica corporativa all’interno della Corte costituzionale.

L’irrazionalità di conferire al presidente della Repubblica il potere di nominare cinque senatori a vita per la stessa durata della carica presidenziale: un numero tutt’altro che irrilevante in un Senato composto da soli 100 componenti.
L’irrazionalità di riconoscere ai senatori, ancorché part-time, l’immunità penale per tutti i reati comuni da loro commessi.

La complicazione (e non la semplificazione) del procedimento legislativo, che passerebbe dagli attuali tre procedimenti (procedimento legislativo normale, procedimento di conversione dei decreti legge, leggi costituzionali) ad almeno otto procedimenti formalmente differenziati, col rischio di illegittimità costituzionale delle leggi per vizi procedurali.

Infine, l’inesistenza di seri contropoteri politici nei confronti del governo sostenuto dal gruppo parlamentare più votato, che grazie all’Italicum otterrebbe, col solo 25 per cento dei voti, ben 340 seggi alla Camera dei deputati e il cui leader godrebbe di un’investitura democratica quasi-diretta.
Ancorché ci sarebbe assai altro da aggiungere, passo al secondo punto.

L’”insopprimibile voglia matta di dare una botta a Renzi” certamente caratterizza una parte ragguardevole dei sostenitori del Comitato per il No di centrodestra. Non già il Comitato per il No di centrosinistra, che ha da subito avvertito il rischio della personalizzazione del referendum, esplicitamente voluta e manifestata da Matteo Renzi nella conferenza di fine anno del 29 dicembre 2015. La personalizzazione del referendum costituzionale, voluta da Renzi — prima disvoluta e poi rivoluta — è servita spregiudicatamente a terrorizzare sia i mercati finanziari sia i «ben pensanti». Ma non solo. Consente, nel contempo, di porre in secondo piano sia l’inconsistenza delle ragioni favorevoli al Sì, sia le gravi ragioni di merito, sopra elencate, che razionalmente dovrebbero indurre i cittadini a votare No.

Passo infine al terzo punto. Per quanto io abbia potuto constatare nei dibattiti interni al direttivo del nostro Comitato per il No, la “Costituzione non si tocca” non costituisce la «parola d’ordine» dei sostenitori del No di centrosinistra tranne rarissime eccezioni. Tanto meno costituisce la “parola d’ordine” dei sostenitori del No di centrodestra (si pensi alla riforma Berlusconi del 2006!).

Beninteso, anch’io ho sempre sostenuto che la modifica della seconda parte della Costituzione (articoli 55-139) implicherebbe delle conseguenze sulla tenuta della prima parte (articoli 1-54). Ebbene, a parte il fatto che la riforma Boschi, eliminando l’elettività diretta del Senato, viola addirittura uno dei principi supremi della Costituzione posto nell’articolo 1, ritenuto immodificabile dalla Corte costituzionale… A parte ciò, c’è modifica e modifica della seconda parte della Costituzione.

Esprimendomi solo a titolo personale, ritengo infatti ammissibile ed anzi opportuno il superamento del bicameralismo paritario, il conferimento alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col governo, l’equilibrata diminuzione dei parlamentari sia nell’una che nell’altra Camera, la trasformazione del Senato in maniera tale che le istituzioni regionali possano effettivamente esprimersi. È infatti importante che gli elettori sappiano che non siamo i sostenitori del mero status quo.

Siamo un gruppo di capalbiesi, residenti stabili, molti tra noi giovani, operatori di aziende agricole, turistiche, ricettive, e con noi anche abituali frequentatori, alcuni presenti da decenni, persone che amano pensare a Capalbio come qualcosa di non effimero o soltanto vacanziero. Capalbio è un piccolo borgo della Maremma Toscana, con un’economia che si regge sull’agricoltura di qualità e sul turismo naturalistico. Innanzitutto, per favore, basta con “Capalbio regno dei VIP”! E’ uno stereotipo riproposto da chi non ha alcun interesse alla vera informazione.

Se una cinquantina di profughi viene ospitata in un “condominio residenziale di lusso finemente arredato” pensiamo si tratti di un significativo avvenimento storico, un piccolo segno dei tempi, contraddittorio e attualissimo, non una catastrofe lesiva “dell’appeal di Capalbio”.
Crediamo sia mortificante porre come uno dei problemi principali quello del tracollo dei valori immobiliari. Certamente i problemi esistono: i rapporti inevitabili e per alcuni versi auspicabili con la popolazione locale, le possibilità/opportunità di lavoro, il tempo di permanenza di questi cittadini stranieri, la loro composizione famigliare (chi è solo ha forse ancora più bisogno di accoglienza), ecc. Tuttavia giustificare con simili problemi reali un rifiuto, una paura preventiva, è atteggiamento che sfiora il razzismo.

Guardiamo invece a quei modelli positivi, di cui alcuni organi di informazione hanno giustamente dato conto, comuni dove sono state messe in atto modalità di accoglienza che, partendo dal concetto che ogni diversità è una ricchezza, hanno prodotto uno scambio culturale, sociale, e persino di lavoro, esempi di vera e profonda Civiltà, e la maiuscola non è usata a caso!
Il problema dell’emergenza profughi, lo spostamento di intere comunità, è un fatto epocale che deve essere gestito dalle pubbliche amministrazioni e dalle popolazioni locali con disponibilità, solidarietà e buon senso.

Ricordiamo che in passato milioni di italiani sono stati costretti a migrare verso altri paesi. Ricordiamo che la Maremma è sempre stata terra di immigrazione, terra che ha accolto nel corso dei secoli braccia che cercavano lavoro, donne e uomini che cercavano un futuro migliore per sé e per i propri figli.

Non vogliamo dimenticare questa nostra storia e tradizione di accoglienza prestandoci a strumentali ipocrisie e rifiuti.

Agata Liotta, Angela Crispolti, Anna Maria Bianchi, Beniamino Podestà, Corinna Vicenzi, Dimitri Angelini, Elena Liotta, Elisa Munton, Enrico Barile, Esterino Montino, Fabio Cianchi, Federico Mantini, Flavio Barile, Francesca Crispolti, Francesco Saverio Bezzi, Giovanni Santachiara, Giuseppe Miranda, Ilaria Calvano, Irene Silvestri, Loredana Lucentini, Marco Caracciolo, Maria Floriana Calvano, Martina Felci, Matthieu Taunay, Moira Barili Meocci, Monica Cirinnà, Paolo Piccolotti, Roberto Calvano, Roberto Faenza, Sara Brazzi, Sara Lilli, Sara Nasti, Sebastiano Bianca, Silvia Marchetto, Simone Mauro, Stefano Denci, Valentino Podestà, Valeria Cerilli, Veronica Rossi, Viola Morri, Viviana Calvisi, Giulio Breglia, Andrea Giacomo Minichini, Marta Cardarelli, Chiara Valentini, Aldo Tortorella, Alessandro Gassmann, Elena Guerrini, Furio Colombo, Paolo Messina, Laura Messina

Riferimenti
Vedi l'esperienza e l'azione dei "comuni virtuosi, del Comune di Rivalta e della rete Co.Co.Pa, nell'intervento di Gianna De Masi; sulla questione più generale vedi anche elazione di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici ed Edoardo Salzano, nonchè numerosi scritti nella cartella Esodo XXI secolo.

«Un operaio secondo l’accusa, apparterrebbe a una categoria servile che non può permettersi satira, dissenso, sberleffo, critica, ironia, insomma una parola contraria a causa del contratto di lavoro». Il manifesto, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

Cinque operai della Fiat di Pomigliano D’Arco hanno rappresentato, fuori dalla fabbrica e dall’orario di lavoro, la pantomima del suicidio dell’amministratore delegato dell’azienda, tale Marchionne, nome che di per sé suona parodia di quello dei tre re Magi del presepe: Gasparre, Melchiorre, Baldassarre e appunto Marchionne. La pantomima aveva un argomento serio: il suicidio di tre operai della fabbrica. La direzione li ha licenziati. Il Tribunale di Nola ha confermato il provvedimento.

Il 20 settembre la Corte di Appello di Napoli pronuncerà sentenza definitiva. La pretesa dell’accusa è che gli operai sono legati da obbligo di fedeltà all’azienda. Da scrittore mi considero in obbligo di fedeltà al vocabolario italiano. Da cittadino mi considero in obbligo di fedeltà alla Costituzione del mio paese.

Un operaio, invece, secondo l’accusa, apparterrebbe a una categoria servile che non può permettersi satira, dissenso, sberleffo, critica, ironia, insomma una parola contraria a causa del contratto di lavoro. La pantomima del suicidio del quarto re Magio si configura dunque come atto di lesa maestà.
Si tratta di una causa civile. L’azienda non ha avanzato alcuna azione penale. Non è stato commesso, neanche per ipotesi, un qualunque reato. Contro i cinque operai esiste solo il presunto obbligo di fedeltà. «Usi a obbedir tacendo e tacendo morir»: diceva il motto dei carabinieri. Ma i cinque operai non appartengono all’Arma, non si sono arruolati.

Vendono per contratto la loro forza lavoro in cambio di salario. Allora serve una sentenza che smilitarizzi la prestazione di lavoro e restituisca ai cinque, e a tutti gli operai, il rango di liberi cittadini della Repubblica italiana.

«Germania. La disobbedienza civile di alcuni comandanti di Lufthansa, Air Berlin e Germanwings. Sono oltre 330 le deportazioni fallite nel 2016 perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del "passeggero"».

Il manifesto, 21 agosto 2016 (c.m.c.)

Resistenza alla deportazione. Piccola cronaca della disobbedienza civile di chi si oppone al rimpatrio forzato dei migranti. Oltre 600 casi di obiezione fisica e di coscienza inceppano il piano di espulsioni del governo Merkel, con buona pace della campagna elettorale come della «Dichiarazione di Berlino» sulla sicurezza presentata giovedì dai ministri cristiano-democratici.

È la «politica della porta aperta» che consente di uscire dall’aereo all’ultimo minuto; il «Ce la facciamo» opposto a Mutti delle associazioni pro-asilo che cominciano a spiegare ai profughi i trucchi per aggirare i rimpatri. La prova che, come sempre, in Germania non tutti sono disposti a obbedire fino in fondo agli ordini delle autorità. A partire dai piloti dell’aviazione.

Sul sito Deutsche Welle (Dw) sono di pubblico dominio le “spigolature” della resistenza alla macchina delle espulsioni guidata dal ministro dell’interno Thomas De Maizière (Cdu). Nel primo semestre 2016, nonostante gli annunci del giro di vite sulle espulsioni (100 mila entro dicembre è la tabella di marcia del governo) i rimpatri di migranti si sono limitati a 35 mila casi certificati e non tutti andati a buon fine.

Di questi spiccano seicento «abbandonati» perché la polizia non è riuscita a completare la procedura, più che sintomatici dell’inceppo etico-legale alle deportazioni.

La situazione tipica è riassunta nella partenza dell’ultimo volo di ritorno per i profughi pronto all’allineamento sulla pista dell’aeroporto di Lipsia-Halle. «Il passeggero viene scortato da due agenti di polizia a bordo dell’aereo. Qualche minuto prima del decollo insieme ad altri rifugiati si rifiuta di partire, quindi inizia a urlare che non vuole allacciare le cinture di sicurezza. Infine spiega ai piloti che non sta viaggiando sotto la propria volontà» riporta Dw puntualmente, e ufficialmente visto che si tratta di un organo di informazione controllato dal governo. A quel punto il comandante comunica all’ufficiale di polizia che si rifiuta di decollare.

Oltre 330 deportazioni nel 2016 sono fallite perché il personale di volo ha preferito seguire le regole sulla libertà del «passeggero» che il foglio di via al migrante espulso della polizia federale. In 160 casi è intervenuto personalmente il comandante a spiegare che «non avrebbe preso a bordo nessuno se non dopo la conferma della volontà dei passeggeri di far ritorno nel “Paese sicuro” di destinazione».

Spicca il nein di 46 piloti della compagnia di bandiera Lufthansa ma anche di 23 di Air Berlin e di 20 in servizio a Germanwings. Per ben 108 volte sono riusciti a far abortire il take-off dell’aereo affittato dal governo accogliendo il rifiuto “last-minute” dei profughi al rimpatrio.

In maggioranza chi resiste è iracheno, siriano, afghano o somalo ma c’è anche chi ha il passaporto di Eritrea, Gambia, Camerun. A loro il sito w2eu fornisce le dritte per opporsi alla deportazione, una serie di «independent information for refugees» fondamentali per orientarsi nella trincea delle espulsioni: «Di solito basta un sonoro “No” quando si viene fatti sedere nell’aereo. Se non funziona, è utile iniziare gridare, buttarsi sul pavimento dell’aereo o praticare altre forme di disobbedienza passiva».

Succede così a Lipsia come a Francoforte, altro hub da cui partono i voli di ritorno dei profughi, e si può fare anche perché sulla polizia “pesa” il caso di un migrante che nel 1999 morì durante la deportazione. Da allora in Germania le forze dell’ordine hanno l’ordine scritto di «rendere il processo trasparente e in linea con i Diritti umani».

Per questo il numero di rimpatri non segue l’«accelerazione delle espulsioni» chiesta dal governo quanto dall’opposizione di Alternative für Deutschland. Come se non bastasse, in 37 dei casi abbandonati dalla polizia la deportazione non è riuscita perché «il Paese di origine ha rifiutato l’ingresso al connazionale» riporta sempre Dw.

Briciole comunque nel mare di respingimenti che non si ferma. Nonostante i relativamente pochi casi eseguiti, i rimpatri aumentano. Da gennaio a giugno in Germania si è registrato il 50% di “partenze” in più rispetto all’intero 2015. Ai confini della Baviera la polizia di frontiera ha bloccato 13.324 migranti contro gli 8.913 di 12 mesi fa.

«». Il manifesto,

Eccoli qui, gli «angeli dell’immigrazione». Cittadini comuni come Alessandra e Patrizia, di giorno avvocati e la sera a ramazzare nei bagni della mensa di Sant’Eusebio. Come Laura, studentessa al quinto anno di medicina che ha messo in piedi uno staff di dottori e infermieri per assistere le centinaia di rifugiati accampati nei giardini e all’interno della stazione Como San Giovanni, in attesa che si apra un varco verso la Svizzera, al momento una delle frontiere meno permeabili e allo stesso tempo più calde d’Europa. O come Rafael, eritreo in Italia dal 2006 con moglie e figli, che ora si trova dall’altra parte della barricata e ricambia facendo da mediatore e interprete.

Si sono mobilitati in pochi giorni, nella seconda metà di luglio. Quando gli svizzeri hanno cominciato a rispedire indietro chi tentava di passare il confine di Chiasso e Como si è ritrovata improvvisamente a fare i conti con un fenomeno fino ad allora semisconosciuto, un volontario della Caritas locale, Flavio Bogani, ha lanciato un appello alla solidarietà attraverso il web. In poche ore alla mailing list si sono iscritte più di 300 persone «delle più diverse provenienze sociali e culturali», spiega il direttore della Caritas Roberto Bernasconi: cattolici e non, di sinistra e non, da sempre impegnati in attività sociali e non, uomini e donne in egual misura, senza distinzioni d’età.

La mobilitazione spontanea ha prodotto un piccolo miracolo estivo. Oltre alla mensa autogestita, tre chiese hanno aperto le loro porte per ospitare i profughi, due in città più quella storica di Rebbio guidata da don Giusto della Valle, da anni impegnata sul fronte dei migranti. Lo stesso ha fatto l’Opera Don Guanella e la Croce Rossa ha allestito un tendone. Una scuola privata ha messo a disposizione le docce, negozi e farmacie hanno donato i loro prodotti, ma soprattutto la catena della solidarietà privata ha fatto sì che ai rifugiati non mancasse nulla: generi di prima necessità, vestiti e coperte per la notte, tende, cure mediche.

La mensa
Per rendersene conto basta farsi un giro alla mensa di Sant’Eusebio, nel salotto buono di Como, a un passo dal Duomo e dal lungolago affollati di turisti. Ogni sera, all’ora consacrata dalle ultime mode all’apericena, il sacrestano Luciano apre le porte del teatro parrocchiale provvisoriamente trasformato in ristorante alle centinaia di africani ordinatamente in fila per un tavolo e un piatto caldo. È un uomo mingherlino e dal tono di voce basso, e mai si sarebbe immaginato che un giorno i drammi dell’Africa avrebbero bussato alla sua porta. «Ero abituato a raccogliere i vestiti donati alla Caritas e agli incontri della terza età», ma un mese a questa parte la sua vita ha avuto un guizzo improvviso.

Racconta Luca, un milanese che vive in un comune della provincia, tra i primi a rispondere all’appello per i volontari: «Quando abbiamo aperto la mensa era un lunedì e avevamo cibo solo fino al mercoledì, non sapevamo se saremmo riusciti ad andare avanti. Invece da allora non abbiamo saltato un solo pasto» e il deposito dei generi alimentari non langue. A oggi, oltre 500 persone si sono messe a disposizione senza chiedere nulla in cambio: fior di professionisti addetti alle pulizie senza battere ciglio, una batteria di volontari a servire le pietanze da far invidia al migliore dei catering e pensionati ai fornelli. Un’enormità per un luogo più avvezzo ad accogliere i facoltosi turisti nordeuropei che un pugno di africani in fuga dalle guerre. «Questo dimostra che l’arrivo di così tante persone bisognose di aiuto ha scosso le coscienze e che c’è ancora una città viva in grado di prendersi carico degli altri e in grado di autogovernarsi», dice Bernasconi.

A dirigere gli ingressi ci sono, insieme al sacrestano, un aitante sessantacinquenne e un ragazzo, presenze superflue perché alla mensa di Sant’Eusebio finora non si è mai verificato il pur minimo incidente. I commensali provengono quasi tutti dal Corno d’Africa: Sudan, Eritrea, Somalia, «in particolare stanno arrivando molti oromo in fuga dalla repressione governativa in Etiopia», spiega Rafael. Ci sono famiglie intere, tanti giovanissimi, maschi e donne, e quasi la metà sono minori non accompagnati, a volte meno che adolescenti. Il loro obiettivo è in particolare la Svizzera: sperano che prima o poi rientreranno nelle quote di rifugiati previste dal paese elvetico.

Altri vogliono andare in Germania per ricongiungersi ai familiari o perché nel passaparola migrante la nuova meta è la patria di Angela Merkel. In Italia non vuole rimanere nessuno: non la ritengono un posto in cui possono costruirsi un futuro. «Quando chiediamo loro se vogliono andare in un centro d’accoglienza, di solito ci rispondono di no e, se accettano, dopo un po’ scappano per tornare alla stazione», dice Bernasconi. Per questo sta suscitando perplessità la decisione del Viminale di allestire un campo container in un ex deposito di auto: c’è chi pensa che nascerà un ghetto e chi invece teme che buona parte degli africani vi rimarrà ben poco. «Io voglio andare a Ginevra e prima o poi ci riuscirò», afferma un migrante con convinzione.

La frontiera è blindata

In Svizzera al momento è però praticamente impossibile entrare senza essere scoperti e rimandati indietro, non senza prima aver subito perquisizioni corporali e qualche ulteriore umiliazione dal chiaro intento dissuasivo. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei tre africani nascosti sotto i sedili di un Eurocity diretto a Basilea, ma si tratta di un’eccezione. I varchi sono controllati anche con i droni e al massimo qualcuno è riuscito ad arrivare fino a Bellinzona per essere poi respinto. Per chi dovesse essere accolto, la prospettiva è di finire nel previsto centro d’accoglienza di Rancate, in Ticino. Pure al di là del confine si è messa in moto una catena di solidarietà: ogni mattina i volontari dell’associazione Firdaus varcano il confine per portare vestiti e assicurare il pranzo ai profughi. Transfrontalieri al contrario, per solidarietà.

Morte della politica e crisi dei partiti. Da dove partire per ricominciare a sperare? un utile intervento nel dibattito in corso. Un inizio di risposta alla domanda: quale parte della società di oggi può costituire la base sociale per una politica alternativa?.

Il manifesto, 20 agosto 2016

L’articolo di Valentino Parlato pubblicato su questo giornale giovedì 11 agosto solleva alcune questioni sostanziali riguardo alle categorie con cui proviamo a leggere il nostro tempo, caratterizzato dalla crisi dei partiti e da fenomeni molto preoccupanti di disaffezione democratica. A differenza del passato, sottolinea Parlato, la crisi non produce quella «straordinaria vivacità culturale che nasceva dalla crisi e ne approfondiva le cause». Come non essere d’accordo?

Chiedersi come oltrepassare la “morte della politica” (l’espressione, di Alberto Burgio, è stata evocata sempre su questo giornale il 4 agosto) e ripensare la politica quale spazio di speranza per il miglioramento della vita di milioni di persone significa in primo luogo sottrarla al provincialismo del tempo presente che spesso troviamo in molte narrazioni dominanti.

E’ necessario far emergere le connessioni fra gli l’attualità e la continuità di filoni culturali che riteniamo tutt’altro che esauriti. Ad esempio, se condividiamo la diagnosi relativa alla crisi dei partiti, chiediamoci quali rapporti essi oggi abbiano con i soggetti sociali che dovrebbero rappresentare. Sappiamo che la storia del movimento operaio è connotata dalla dialettica a volte difficile, ma feconda, fra partiti e altre espressioni di soggettività politica, quali i movimenti e gruppi di pressione. Forse oggi la percezione della crisi dei partiti origina anche dalla convinzione diffusa che essi siano o debbano essere i monopolisti della soggettività politica. Noi siamo di diverso avviso.

Prendiamo ad esempio le insorgenze di movimenti critici nei confronti della globalizzazione neo-liberista. Se rimaniamo sul piano delle ‘narrazioni’ dominanti, questi fenomeni meritano una citazione solo se e quando infrangono palesemente le regole dell’ordine costituito e sono presentati quali insorgenze sporadiche e improvvise senza storia e, pertanto, senza futuro. In realtà, tali movimenti non sono affatto sporadici, bensì si innestano in filoni di cultura politica molto rilevanti nella storia delle democrazie occidentali, avendo le proprie radici nei processi di emancipazione e di ampliamento della cittadinanza che hanno caratterizzato i decenni passati.

A loro volta, i movimenti degli anni Sessanta e Settanta non nascevano dal nulla, bensì affondavano le proprie radici in fermenti, pacifisti, ambientalisti e femministi, presenti già negli anni Quaranta del Novecento, sviluppati sovente nel grembo degli stessi partiti della sinistra o, comunque, non in opposizione ad essi (si veda Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti, Carocci, 2015). Osservando la realtà dei nostri giorni, sembra che dopo il grande ciclo delle mobilitazioni ‘altermondialiste’ che connotarono il cambio di secolo, la ribalta politica sia stata sostanzialmente desertificata dalle politiche repressive dei governi. Eppure, la realtà sociale è connotata anche dalla presenza di molte persone che danno vita ad un agire sociale politicamente orientato di cui i media danno pochissimo conto.

Possiamo scegliere, quale esempio fra i diversi possibili, il fenomeno del ‘consumerismo politico’ attraverso il quale gruppi di cittadini hanno deciso di spostare la lotta politica dalle strade ai negozi, puntando a fare politica attraverso strategie di boicottaggio e acquisti mirati. Sono fenomeni dotati di un proprio spessore storico e politico: la repressione dei movimenti di inizio millennio (che, come è noto, ha visto a Genova nel 2001 una gravissima violazione dei diritti) non ha comportato solo ripiego nel privato.

Fra le possibili risposte adattive dei cittadini attivi c’è stato anche l’incremento di pratiche sociali diffuse, come, ad esempio, quelle incentrate su scelte di consumo, mosse dall’assunto secondo cui “ogni volta che si acquista qualcosa, si vota”. I Gruppi di acquisto solidale (GAS), che negli anni Novanta erano una decina, oggi sono un migliaio in tutta Italia, solo per rimanere a quelli censiti formalmente, creano solidarietà fra i membri dei gruppi di acquisto che condividono criteri etici, sociali ed ambientali legati alla produzione e al consumo di beni (si veda Paolo Graziano e Francesca Forno, Il consumo critico, Il Mulino, 2016). Questi gruppi agiscono sulla base di una cultura politica e, in un’epoca di rimozione del conflitto e di narrazione del mercato quale spazio naturale, hanno l’indubbio merito di identificare il mercato stesso come luogo di lotta politica, oltre che di scambio sociale. Sono gruppi che fanno politica, quotidianamente.

Molti altri sono gli ambiti in cui oggi si articolano preziose iniziative di cittadinanza attiva (per una panoramica, vedi Giovanni Moro, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Carocci, 2013): si tratta di preziosi “mondi vitali” senza i quali la nostra società sarebbe più povera, vulnerabile e insicura. In altri paesi, Grecia e Spagna, ad esempio, tali iniziative hanno trovato alcuni canali di azione politica significativa anche dal punto di vista elettorale, dando linfa a nuove formazioni partitiche.

In Italia, a parte alcune liste civiche e l’attenzione del Movimento Cinque Stelle, non è (ancora) successo. Eppure, come dare rappresentanza politica nazionale a questo capitale sociale – ed espanderlo ulteriormente – dovrebbe essere il nostro rovello quotidiano. Anche, o forse soprattutto, da qui si deve partire per ispirare un cambiamento radicale alle politiche neoliberiste e far rinascere la politica.

Finalmente qualcuno che, oltre a dire cose ragionevoli sul merito dello "scandalo di Capalbio" riconosce che "sinistra" e PD sono cose diverse.

. Corriere della Sera, 20 agosto 2016 (c.m.c.)

Luciana Castellina, tra i fondatori de il manifesto nel 1970, ex parlamentare del Pdup e di Dp, ex europarlamentare del Pci e poi di Rifondazione, il 5 agosto ha superato splendidamente la boa degli 87 anni: è al mare all’Argentario, guida la macchina, nuota, cucina, vede gli amici. Capalbio è vicina, lì spesso ha partecipato a dibattiti per «Capalbio libri», nel 2011 parlò del suo volume autobiografico La scoperta del mondo.

Come giudica, Luciana Castellina, quello che sta avvenendo nella «sinistra capalbiese» in vista dell’arrivo dei cinquanta immigrati?
«Per favore, smettiamola con il giochino di Capalbio simbolo della sinistra, o luogo di ritrovo solo di quell’area, sembra solo un divertimento estivo quando stiamo affrontando un problema grave e reale... Poteva essere vero un tempo, anni fa, ma adesso c’è di tutto: la sinistra, gli ex di sinistra, quelli che a sinistra non sono mai stati, la destra...».

Allora, come dice lei, parliamo di un problema serio. Dei 50 immigrati in arrivo. «Visto che ci siamo, vorrei affrontare la questione razionalmente e senza moralismi. C’è chi ha detto: “che vengano pure gli immigrati, ma senza bighellonare in giro”...».

Si riferisce a Chicco Testa.
«...vorrei dire, per tornare alla razionalità, che siamo di fronte a un processo irreversibile, di dimensioni enormi, a un problema gigantesco...».

C’è chi polemizza: la sinistra predica in un modo, poi agisce in un altro.
«Prima di parlare della sinistra, vorrei citare i problemi provocati dalle posizioni dei vari Salvini, del centrodestra... Ma torniamo al punto. In questo caso, certo, non si può parlare teoricamente di globalizzazione, di circolazione di merci e idee, discuterci sopra e mettere da parte il vero problema che ci riguarda. Cioè l’immigrazione di massa, i flussi che vediamo. Questa, sì, è una contraddizione».

E quindi?
«Quindi è bene darsi una regolata in tempo utile: nessuno può pensare di rinchiudersi nel suo piccolo castello, magari circondato da un fossato, alzando il ponte levatoio».

E nel caso di Capalbio?
«Ma lo sa quanti italiani tra il 1850 e il 1950 lasciarono il nostro Paese per emigrare? Trentuno milioni! Ai quali vanno aggiunti gli emigrati tedeschi, irlandesi, francesi. E noi di cosa discutiamo?».

Di 50 immigrati, si sa.
«Appunto, di cinquanta immigrati! Meglio essere seri».

Il sindaco pd Bellumori ha definito questa prospettiva, nelle prime ore, «una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio». Che ne pensa?
«Una frase vergognosa. Però il sindaco ha detto anche altro. Cioè che è impensabile affidare alla prefettura di Grosseto tutte le decisioni, senza condivisione col territorio. La contestazione, in questo senso, non è sbagliata. Certe decisioni vanno affrontate con chi conosce le aree e i loro problemi».

Quindi lei pensa che gli errori della sinistra...
«Anche qui basta con i luoghi comuni. Io sono presidente onorario dell’Arci, che è un’organizzazione storica della sinistra. Tutti i 5.000 circoli e il milione di iscritti si sono mobilitati per organizzare forme di accoglienza».

Ma la sinistra è anche il Pd al potere: locale e nazionale.
«Dal mio punto di vista, il Pd nemmeno appartiene alla sinistra. Il discorso è complesso e la faccenda riguarda anche il resto d’Europa. Il governo socialista di Hollande ha vietato il Burkini sulle spiagge. Ho smesso da quel momento di considerarlo di sinistra. Imporre alle donne come devono vestirsi rasenta il fascismo. Sì, il fascismo...».

Un'analisi magistrale della drammatica regressione del lavoro che caratterizza la fase attuale del sistema capitalistico. E' forse questa trasformazione del lavoro uno degli elementi che ostacolano l'emergere di un'alternativa di "sinistra".

Il manifesto, 19 agosto 2016

Ciclicamente l’Istat ci aggiorna dei progressi o regressi registrati nel campo dell’occupazione e si scatena la solita bagarre tra i sostenitori e detrattori del governo Renzi e della sua creatura più famosa: il jobs act. Ma, quello che i dati quantitativi non ci dicono è come sia cambiata e sta cambiando la qualità dei lavori con cui devono confrontarsi le nuove generazioni. Soprattutto non ci dicono come sono cambiate le relazioni tra imprenditori e i lavoratori, ovvero come sono cambiate le relazioni nel mondo del lavoro (i rapporti sociali di produzione per dirla con Marx).

Percorrendo, a volo d’uccello (rapace) la tradizionale visione “progressista” della storia umana, si può dire che il lavoro sia passato da una condizione di schiavitù”- età romana e grandi imperi- ad una condizione di servitù” – durante il Medio Evo – a quella dell’operaio moderno della catena di montaggio, per finire oggi in una condizione sociale in cui predominano i “lavoretti” nel settore dei servizi.

La storia invece ci dimostra che sopravvivono formazioni sociali del passato che convivono, come sosteneva Nicos Poulantzas, il geniale filosofo marxista precocemente scomparso, con altre formazioni sociali che appartengono alla modernità.

In altri termini: la storia non cammina lungo una linea retta, verso una progressiva liberazione dell’uomo, come voleva l’ottimismo messianico dell’800, ma avanza ed arretra, si sposta di lato come le correnti dello Stretto di Messina, potenti ed imprevedibili. Un buon esempio è costituito dalle dinamiche che hanno interessato il “lavoro servile” negli ultimi due secoli.

Per la verità il “lavoro servile” non è mai scomparso dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della borghesia al potere, ma è convissuto con l’instaurarsi, soprattutto nel settore manifatturiero, di rapporti di lavoro di matrice capitalistica.

Come scriveva un grande osservatore ed analista del mercato del lavoro negli Usa: «Nei primi tempi del capitalismo, la moltitudine dei servitori personali era sia un’eredità dei rapporti feudali e semifeudali sotto forma di una vasta occupazione offerta dall’aristocrazia terriera, sia un riflesso delle ricchezze create dalla rivoluzione industriale nella forma di analoga occupazione…. Negli Stati uniti, secondo il primo censimento sulle occupazioni svoltosi nel 1820, l’occupazione nei servizi domestici e personali rappresentava i tre quarti di quella complessiva esistente nell’ industria manifatturiera, mineraria, della pesca e del legname; ancora nel 1870 tali occupazioni non erano di molto inferiori alla metà di quelle che si registravano in questi settori non agricoli» (Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital, N. Y. 1974)

Questa incredibile presenza quantitativa di domestici, sguatteri, servi a vario titolo era stata notata e criticata prima da Smith, come lavoro improduttivo e spreco di forza-lavoro, e poi da Marx che ne sottolineò il carattere complementare rispetto ai bisogni della borghesia: «Secondo l’ultima relazione sulle fabbriche (1861) il numero complessivo delle persone impiegate nelle fabbriche vere e proprie del Regno Unito (compreso il personale direttivo), ammontava a sole 775.534 unità, mentre il numero delle domestiche, nella sola Inghilterra, ammontava a 1 milione.

Quante è bella questa organizzazione , che fa sudare per dodici ore un’operaia nella fabbrica, affinché il padrone della fabbrica, con una parte del lavoro non pagato di questa ragazza, possa assumere al proprio servizio personale sua sorella come serva, suo fratello come cameriere, e suo cugino come soldato, o come poliziotto. (K. Marx, Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, p. 334).

Marx nel Capitale fa una disamina articolata della composizione dell’occupazione nell’Inghilterra e Galles nel 1861, pari a circa 8 milioni di unità su circa 20 milioni di abitanti. Val la pena di rivedere questi dati: gli operai nelle manifatture del tessile abbigliamento, calzature erano 642mila, nelle miniere erano 565mila, nella industria metallurgica erano 396mila e quella che Marx chiama «Classe dei servitori» era composta da 1.208.648 unità.

A circa ottant’anni dall’inizio della rivoluzione industriale nel Regno Unito, il numero dei “servi” , vale a dire dei domestici che lavorano nelle case dei “signori” era superiore a quello degli addetti dell’industria manifatturiera. Se poi aggiungiamo i “servi-pastori” o serve presso le fattorie, si arriva intorno ad 1,7 milioni di addetti, superiore a tutti i lavoratori dell’industria manifatturiera ed estrattiva.

Va precisato subito che per “lavoro servile” non si intende un particolare tipo di lavoro, ma la relazione che si crea tra datore di lavoro e lavoratore. Così, ad esempio, i servizi domestici di pulizia possono essere svolti in una relazione personalizzata tra padrone di casa e cameriere/a in cui conta molto la qualità del rapporto che si instaura,la capacità del “servo” di ingraziarsi il padrone, oppure da una ditta di pulizie che manda delle persone a svolgere questa mansione senza che tra essi ed il padrone di casa ci sia una relazione.

Ora, come sappiamo, nello sviluppo del capitalismo l’occupazione nel settore industriale cresce fino ad un certo punto, che varia da paese e paese, e poi comincia a declinare a favore dell’occupazione nei servizi, secondo la nota legge di Colin Clark. Ma, questo non significa che nei servizi non si instaurino rapporti di tipo capitalistico. Anzi.

L’enorme espansione della Grande Distribuzione ha ridotto fortemente il ruolo del piccolo commercio dove persistevano rapporti tradizionali “servo-padrone”, così come la nascita di grandi agenzie nel settore della sicurezza e della pulizia ha eliminato una parte di lavoratori in proprio o di rapporti di servitù che esistevano precedentemente.

Di contro, la dissoluzione dei legami familiari, dei legami di comunità, ha fatto nascere nuovi bisogni che spesso vengono soddisfatti ricorrendo a rapporti di lavoro semi-servile se non del tutto “servile”. Ci riferiamo al lavoro di badante, baby sitter, dog sitter, accompagnatore, ecc…..

In altri termini, mentre da una parte il modo di produzione capitalistico distruggendo la piccola impresa artigianale o commerciale elimina i rapporti semifeudali che persistevano, dall’altra parte i nuovi bisogni sociali legati alla dissoluzione dei legami sociali fa riemergere rapporti di lavoro di tipo servile.

In Italia abbiamo circa 1,2 milioni di badanti, 500 mila tra baby sytter e figure assimilabili, poco meno di 1 milione di domestici e circa 450mila camerieri “registrati” e 102 mila baristi, ed altrettanti in “nero”. E qui ci fermiamo. Quello che conta è la relazione tra datore di lavoro e dipendente. Così ci sono camerieri di grandi catene alberghiere che godono di un contratto di lavoro nazionale, che hanno un classico rapporto di lavoro capitalistico, e ci sono camerieri che lavorano in piccoli bar di periferia, in nero, con un rapporto “servile” col proprio padroncino.

Quello che può sembrare incredibile è che anche in un settore moderno come i call center, che hanno tutte le caratteristiche della fabbrica fordista- per ritmi e divisione del lavoro, alienazione, ecc – si vanno instaurando rapporti di lavoro “servile” tra i giovani lavoratori e il team-leader, che diventa una figura sociale simile ad un “caporale” nel mondo bracciantile.

E’ quanto emerge da una ricerca sul campo su alcuni call center in Calabria e Sicilia, regioni dove lavorano nei call center circa il 20% degli 80.000 addetti in Italia. Ed è a nostro avviso una tendenza di fondo delle politiche del lavoro in Italia come nel resto d’Europa: ritornare a rapporti di lavoro individuali, personalizzati, che servono non solo a dividere e mettere in concorrenza i lavoratori fra di loro (nei call center, per esempio è spietata la concorrenza tra questi lavoratori precari e super sfruttati), ma a creare quello che Adam Smith riteneva un rapporto iniquo, perché asimmetrico in termini di rapporti di forza : «I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale. (…) entrano poi spesso in coalizioni particolari volte ad abbassare ulteriormente il livello dei salari». (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, ISEDI, p. 67) .

Il riemergere alla grande del rapporto di lavoro “servile”, non di rado anche semischiavistico (come ad es. nella piana di Gioia Tauro-Rosarno), taglie le gambe ai sindacati ed alle altre forme di aggregazione dei lavoratori e si traduce nella sfera politica nella ricerca di un padronage che possa migliorare la propria condizione, a livello locale, o di un salvatore della patria, a livello nazionale. Pertanto, non facciamoci impressionare solo dai dati quantitativi della disoccupazione/inoccupazione, è alla qualità del lavoro ed ai rapporti di lavoro, ai diritti dei lavoratori che dobbiamo guardare con più attenzione ed agire di conseguenza.

« Il problema allora non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane». Articoli di Bia Sarasini e Michela Marzano,

il manifesto e la Repubblica, 19 maggio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto
LAICITà CHE ASSOMIGLIA AL FONDAMENTALISMO
di Bia Sarasini

È il corpo delle donne il nervo scoperto toccato dal divieto del burkini sulle spiagge francesi. Nudo o coperto, chi ha l’autorità di decidere? Ho letto incredula la dichiarazione del primo ministro francese Manuel Valls: «Non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». Perché non si tratta di una moda, ha detto, bensì dell’affermazione di un progetto basato sull’asservimento della donna. Trovo sorprendente che sia così difficile soffermarsi a pensare che una decisione presa da chi rappresenta la Repubblica, non sia molto diversa da quella di chi impone per legge il velo, la copertura totale.

Si tratta di un potere che decide come deve essere, come si deve presentare il corpo di una donna. E se Paolo Flores è coerente con le proprie posizioni, nello scrivere, che «la proibizione del burkini è una giusta protezione dei principi di laicità», mi stupisce che chi si dichiara femminista, come Lorella Zanardo, consideri opportuno e necessario, e proprio per le donne, il divieto.

Nessuno ha diritto di dire a una donna come si deve vestire, o svestire, non è questo abbiamo sempre detto, noi femministe? I codici vestimentari, i codici del corpo, tutti, sono delle trappole che imprigionano le donne. Non lo aveva ben spiegato la grande scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi, che in “L’harem e l’occidente (Giunti Astrea) ci aveva svelato la tortura della taglia 42 (peraltro ora ulteriormente diminuita)? : «Fu in un grande magazzino americano”scrive, “nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”. Un’affermazione forte e provocatoria, a mio parere l’unico quadro concettuale che permetta di ragionare a mente aperta e lucida sul nodo intricato che il burkini e le donne che lo portano ci costringono a guardare.

Perché si tratta di carne viva, non è un gioco di parole, provoca sussulti e reazioni. Quali? Che cosa è esattamente in gioco? La libertà di chi? Se si tratta della libertà delle donne musulmane, come i sostenitori del divieto affermano, a mia volta non ho dubbi. Meglio che entrino in acqua, che nuotino, che facciano sport, come vediamo alle Olimpiadi in corso, con una tenuta che risulti compatibile ai loro principi, al loro mondo, piuttosto che stiano ferme, chiuse, prigioniere. Muoversi è acquisire forza, determinazione, provare piaceri e soddisfazioni. La libertà delle donne è una costruzione, una trasformazione. Meglio che vadano a scuola, piuttosto che tenute in casa, perché la legge proibisce il velo che la famiglia e la religione impongono, come è in vigore Francia.

Sembrerebbe questa la molla che ha ispirato l’australiana di origine libanese Aheda Zanetti, che nel 2003 voleva qualcosa che permettesse a sua nipote di giocare a netball, a ideare il burkini, il nome è suo. Costume messo in commercio nel 2007, e che finora circa 700.000 pezzi nel mondo in varie versioni, da quella più aderente a quella più larga, a prezzi che in questo momento sul sito della stilista variano dai 35 ai 143 euro. Compromesso, minor danno? A me sembra una strada praticabile, di fatto il proibizionismo impedisce ad alcune donne di godere del diritto-libertà di stare sulla spiaggia e fare il bagno.

E se la libertà fosse quella degli uomini di avere a disposizione sulle spiagge corpi semi-nudi di cui bearsi senza ostacoli, come del resto capita negli sport, con telecamere che indugiano del tutto inutilmente, rispetto all’azione atletica, su cosce, culi, pube? O ancora, è in gioco la libertà delle donne di mostrarsi o no allo sguardo maschile? E che ne è della libertà delle donne di essere come desiderano essere, oltre quello sguardo, quei custodi che si arrogano il diritto di parlare a loro nome? Qual è il codice libero da quello sguardo dominante? Arduo rintracciarlo, nel libero-liberista mondo dell’unico mercato. E quanto alla laicità, che laicità è se si trasforma in fondamentalismo?

Non si tratta di confondere libertà e sottomissione. Conosciamo i codici, le leggi, i modelli culturali che costringono le donne a vite senza respiro e senza luce. Li combattiamo. Il primo passo è ascoltare le donne, quelle che scelgono di abbigliarsi in quel modo che tanto ci infastidisce e ci turba. Nulla mi sembra più liberatorio che guardarsi da vicino, le une e le altre, gli altri forse, senza schermi, su una spiaggia. Ti guardo, mi guardi. Ci guardiamo. Sono i divieti che creano distanze, barriere, abissi. Perché impedire che lo sguardo reciproco conduca al libero pensiero, alle libere scelte?

La Repubblica

BIKINI, BURKINI E SENSO DEL PUDORE
di Michela Marzano

Una bomba atomica sociale. Fu questo l’effetto che, nel luglio del 1946, provocò il primo bikini moderno indossato a Parigi, e così chiamato dall’inventore in onore dell’atollo del Pacifico in cui pochi giorni prima era stato fatto esplodere, appunto, un ordigno nucleare. Una bomba atomica sociale, dicevo. Anche quando, negli anni Sessanta, il bikini trovò infine la propria consacrazione sulle spiagge della Costa Azzurra. E cominciarono a essere sempre più numerose le donne felici di seguire l’esempio di Brigitte Bardot. A chi appartiene d’altronde il corpo delle donne se non a loro stesse? Non è forse loro, e solo loro, la scelta di mostrarsi o di coprirsi?

La storia della progressiva conquista della libertà e dell’autonomia femminili è nota a chiunque. Esattamente come sono note le periodiche polemiche sulla linea sottile che separa la libertà individuale dal conformismo sociale, l’autonomia personale dalla sottomissione alla moda. C’è sempre chi si erge a difensore della possibilità, per ogni donna, di gestire come vuole il proprio corpo e la propria immagine e chi, sottolineando l’impatto che le norme sociali hanno sulle attitudini e i comportamenti individuali, sottolinea invece la nuova forma di “servitù volontaria” cui si sottoporrebbero da anni le donne per corrispondere agli stereotipi di femminilità e di seduzione. Ma si può applicare questa griglia di analisi anche alle recenti polemiche scoppiate in Francia sul burkini, e alla conseguente decisione presa da alcuni sindaci di vietarne l’utilizzo in spiaggia? Siamo di fronte a una nuova bomba atomica sociale oppure la categoria della libertà, questa volta, è insufficiente a capire quello che sta accadendo?
Non è facile per chi vive in Francia da anni - e ha assistito dapprima in maniera distratta, poi in modo sempre più interrogativo, alla trasformazione progressiva di un certo numero di usi e costumi - schierarsi con chi è favorevole al divieto di andare in spiaggia con un burkini in nome dell’uguaglianza uomo-donna (perché sono sempre e solo le donne a doversi coprire?) oppure con chi è contrario al divieto in nome della libertà femminile (non spetta forse alle donne decidere se mettersi un bikini o un burkini?). E questo non solo perché non c’è vera libertà senza uguaglianza e viceversa - come sa bene chiunque si interessi alle condizioni che permettono alla libertà di esprimersi - , ma anche perché sia la libertà sia l’uguaglianza sono valori che, una volta contestualizzati, riflettono inevitabilmente le contraddizioni della società in cui si vive.
Quella Francia in cui, fino a qualche anno fa, era impensabile ascoltare il racconto di una ragazza musulmana che, una sera di Ramadan, viene apostrofata da un gruppo di ragazzi perché porta il rossetto: “Sorella! Non sai che non ci si mette il rossetto quando è Ramadan?” Quella Parigi in cui, fino a pochi mesi fa, era inconcepibile immaginare che in Università alcuni studenti spiegassero che è giusto che un ragazzo non stringa la mano di una ragazza (per pudore? per rispetto?) e che ogni donna degna di questo nome non giri da sola per strada e si copra integralmente - “un fratello non può accettare che la sorella non sia velata senza perdere l’onore!”.
L’editore egiziano Aalam Wassef ha recentemente chiesto agli Occidentali di non essere naïfs quando si tratta di discutere del significato del burkini e di non dimenticare che l’Islam non può ridursi alla visione integralista dei Salafiti. Portare il burkini, per Wassef, non sarebbe una prova di libertà, esattamente come vietarne l’uso non sarebbe una forma di islamofobia. Anche semplicemente perché ci sono tante donne musulmane che vorrebbero avere la possibilità di indossare un bikini, e sarebbe quindi estremamente difficile aiutarle a esercitare questo tipo di libertà se, arrivando in spiaggia, incontrassero gruppi salafiti pronti ad apostrofarle: “Sorella! Non sai che anche in spiaggia una donna si deve coprire?”.
Ogni essere umano, spiegava il padre del liberalismo John Stuart Mill, ha come vocazione quella di essere libero. E sarebbe un crimine contro l’umanità non rispettarne l’autodeterminazione. Anche la libertà, però, ha i suoi vincoli. E finisce laddove, in suo nome, la si cancella, visto che non può essere in nome della libertà che ci si ritrova poi in una situazione di servitù o sottomissione. Il problema allora, nel caso del burkini, non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane. Cosa le spinge o meno a coprirsi? La paura del giudizio o delle sanzioni da parte dei familiari? I precetti religiosi? Il desiderio di opporsi ai valori occidentali? Il pudore? Certo, la libertà individuale è sempre sacra. Ma non ha ragione anche Lacordaire quando, nel XIX secolo, ci ricorda che “tra il forte e il debole è la libertà che opprime e la legge che affranca”?

Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2016 (p.d.)

Ringraziamo sinceramente per la gentile e disinteressata premura, cari mercanti internazionali, ma dei vostri ammonimenti non ce importa un fico secco. Siete pregati di farvi gli affari vostri anziché ficcare il naso in una questione che non vi compete,quale la Costituzione di uno Stato sovrano, e di cui non capite una mazza. Siete abituati a trattare con investitori, azionisti, dipendenti e fare i conti con i profitti e coi vostri interessi. Vi sfugge il particolare che esistono anche dei cittadini di libere repubbliche che pensano in termini di bene comune, che non intendono prendere ordini da chicchessia e vogliono decidere con la loro testa sotto quale Costituzione vivere.
Se Renzi fosse un vero capo di governo, e se il Presidente Mattarella intendesse come intendo io il dovere di rappresentare l’unità nazionale, avrebbero risposto più o meno in questi termini al concerto di pressioni dei non meglio identificati mercati internazionali di cui abbiamo letto in questi giorni. Ma il primo, immagino, si starà sfregando le mani soddisfatto per l’aiuto alla sua campagna referendaria; il secondo, che io sappia, tace. Qui non si tratta del diritto delle istituzioni finanziarie internazionali di operare secondo le regole del mercato, ma della loro arrogante pretesa di influenzare con aperte minacce il voto del referendum.

Non sta scritto da alcuna parte che i capi dei governi di paesi democratici a economia di mercato non possano e non debbano sottrarsi ai loro comandi. Nel 1936, in piena campagna elettorale, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse di essere consapevole che i monopoli della finanza lo odiavano, e aggiunse: “I welcome their hatred” (“ben venga il loro odio”) e tirò dritto con le sue politiche del New Deal che permisero agli Stati Uniti di uscire dalla tremenda crisi economica del 1929. Da queste parti di leader politici del calibro di Roosevelt non se ne vedono. E francamente dispiace leggere che un uomo e un politico della tempra di Romano Prodi, che potrebbe fare la differenza, è orientato a votare no ma non intende dichiararlo pubblicamente per una sorta di “spirito nazionale” e di timore delle speculazioni finanziarie. Ma proprio lo spirito nazionale bene inteso impone di prendere posizione netta e operare con tutte le proprie forze per il no, se si crede in coscienza che la vittoria del sì devasti la Costituzione. C’è forse un bene comune più alto della Costituzione? Se i capi non sanno tenere la schiena dritta davanti alle oligarchie finanziarie possiamo farlo noi cittadini, con un bel no che nasce dalla volontà di dire a lorsignori che non prendiamo ordini da nessuno. Se la maggioranza degli italiani voterà sì perché impaurita dalle minacce dei mercanti vorrà dire che è felice di essere serva. Che differenza c’è fra obbedire a un padrone domestico e obbedire ai padroni della finanza internazionale? Ma allora tanto vale andare fino in fondo e chiedere a JP Morgan o a Bloomberg di scrivere loro la nostra Costituzione e toglierci l’inutile fardello della libertà.

Affermare il diritto e dovere dei popoli di scegliere la propria Carta contro i potenti stranieri non è nazionalismo, ma quel sano amor di patria di cittadini che pretendono rispetto e non tollerano di essere trattati come bambini da potenti che traggono la loro potenza dal denaro. E lasciamo stare la fandonia che la vittoria del no danneggerebbe l’Europa. Sono i politici da barzelletta sempre pronti a fare quello che vogliono i mercati che stanno distruggendo l’ideale europeo. Quell’ideale, vale la pena ricordarlo, era di un’Europa di popoli. Ma veri popoli sono soltanto quelli che vogliono e sanno essere arbitri del loro destino. Nella nostra storia, noi italiani raramente siamo stati in grado di affermare la nostra dignità di popolo e di riscattarci dai padroni stranieri. Ma qualche volta ci siamo riusciti. Proviamo, almeno proviamo.

«Siria. L’Onu sospende la task force umanitaria: impossibile consegnare gli aiuti. La Russia apre alla tregua di 48 ore. Usa e Europa assenti, Mosca gestisce tutto. Amnesty ricostruisce torture e decessi nelle prigioni di Stato».

Il manifesto, 19 agosto 2016 (m.p.r.)

Omran Daqneesh ha cinque anni. È stato tirato fuori vivo da un palazzo colpito da un raid aereo. Non piange, non grida. Prova solo a pulirsi il sangue sulla sedia arancione dell’ambulanza su cui il paramedico l’ha lasciato. Omran è il silenzio disilluso di Aleppo, come Alan Kurdi era il fragore della fuga dalla guerra.

Aleppo non può andare oltre. La popolazione - 1,2 milioni ad ovest, nei quartieri sotto il governo, e 300mila ad est, sotto le opposizioni - è allo stremo. Gli scontri incessanti rendono impossibile la consegna degli aiuti.

E l’Onu alza le mani: l’inviato Staffan de Mistura ha sospeso ieri la task force a sostegno dei civili. Ad Aleppo non si entra, il programma era già ufficiosamente bloccato. Tanto vale chiuderlo, un atto più politico che pratico: De Mistura chiede «un gesto di umanità ad entrambe le parti» e una cessazione delle ostilità di almeno 48 ore.

Parole che seguono all’abbandono dell’incontro a Ginevra della task force dopo solo 8 minuti: nemmeno un convoglio è entrato, questioni di cui parlare ne restavano poche. «Quello che sentiamo dalla Siria – ha detto irritato – sono solo scontri, bombe, offensive, controffensive, missili, napalm, cecchini, bombe barile, kamikaze. In un un mese non un solo convoglio è stato in grado di raggiungere le zone assediate».

Mosca, che chiaramente gestisce i giochi, risponde: il Ministero della Difesa russo si è detto pronto ad implementare la tregua di 48 ore la prossima settimana, a condizione che gli aiuti passino sia nei quartieri del governo che in quelli delle opposizioni.

La colpa dello stallo è duplice: la Russia colpisce senza sosta, avendo in mano le sorti della battaglia; le opposizioni proseguono nella controffensiva anti-assedio. Di negoziare non se ne parla, non conviene a nessuno. Prima si vuole capire dove la «battaglia finale» condurrà e per Aleppo sarà tardi.

La scadenza di fine agosto paventata dall’Onu per la riapertura del dialogo a Ginevra è vicinissima: ieri fonti Usa hanno prospettato un incontro il 26 agosto tra il segretario di Stato Kerry e il ministro russo Lavrov. Ma a parlare è la guerra. I fronti si riposizionano con attori vecchi e nuovi che fanno capolino, convinti che Aleppo determinerà il futuro della Siria: la Cina si fa avanti per sostenere ufficialmente Assad, l’Iran dà le basi alla Russia, la Turchia sta con il piede in due staffe aprendo alla cooperazione con Teheran e Mosca ma senza stralciare gli obblighi Nato.

E gli Stati Uniti vanno nel pallone. Il silenzio di Washington (e quello della Ue, del tutto assente) è assordante: dopo aver quasi bombardato la Siria nel 2013, oggi Obama si defila e non reagisce alle chiare provocazioni della Russia che da giorni parla di dialogo in corso con la Casa Bianca su un possibile coordinamento militare.

Dopo cinque anni di guerra, con le opposizioni moderate all’angolo e quelle jihadiste in prima linea, con l’Isis padrone di ampie porzioni di territorio, la soluzione non è militare. Dalle violenze incrociate non si uscirà. La soluzione è politica: la guerra civile va interrotta individuando i nemici comuni e un processo di transizione che veda partecipi le diverse anime del paese. Utopia, visti gli interessi contrastanti e l’intreccio difficilmente districabile tra opposizioni islamiste e moderate.

E il governo deve capire che non riavrà indietro la Siria che aveva plasmato, aprendo prima di tutto le sue prigioni. Ieri Amnesty ha pubblicato un rapporto sulle carceri governative. Con le testimonianze di 65 sopravvissuti ha ricostruito una delle prigioni più temute, Saydnaya a Damasco: un complesso di tre braccia all’interno del quale in migliaia subiscono orribili torture e pestaggi. Costretti al silenzio in celle affollate, dove l’arrivo del cibo è accompagnato dalle botte, Saydanya - spiega Amnesty - è esempio del modello detentivo siriano.

Nelle prigioni di Stato, aggiunge, sarebbero morti 17.723 detenuti da marzo 2011 a dicembre 2015: più di 300 al mese, 10 al giorno. L’organizzazione afferma di non poter indicare con esattezza il numero di prigionieri e di decessi, provocati da torture, inedia e scarsità di cure mediche. Restano per questo dubbi sull’effettivo bilancio, che potrebbe apparire sovrastimato.

Leo Lancari, Valentina Brinis, Nadia Bouzekri: tre voci sul dibattito su ciò che indossano le donne musulmane quando vanno al mare Hanno diritto o no di vestirsi come meglio credono?

Il manifesto, 18 agosto 2016


BURKINI,VALLS CON I SINDACI:
«GIUSTO VIETARLO IN SPIAGGIA

di Leo Lalcari

«Francia. Il premier: "È contro i nostri valori". Salvini: "Facciamo come la Francia"»

Alla fine nel dibattito sulla legittimità o meno per una donna musulmana di recarsi in spiaggia indossando un burkini è intervenuto anche Manuel Valls. E, un po’ a sorpresa, il premier francese si è schierato con i sindaci – almeno uno dei quali, quello di Cannes, appartenente ai Republicaines di Nicolas Sarkozy – che hanno vietato l’utilizzo sulle loro spiagge del capo incriminato che lascia scoperti solo viso, mani e piedi di chi lo indossa. «E’ incompatibile con i valori della Francia», ha spiegato Valls in un intervista al quotidiano La Provence. «Le spiagge, come ogni spazio pubblico, devono essere difese dalle rivendicazioni religiose. Il burkini non è un nuovo tipo di costume da bagno o una moda. È la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna», ha detto il primo ministro.

Anziché sgonfiarsi (come sarebbe stato augurabile), il dibattito sembra quindi destinato a prendere sempre più piede. Nel frattempo fioccano le prime multe. A Cannes, primo comune francese ad aver introdotto il divieto, tre donne di 29, 32 e 57 anni si sono viste affibbiare una sanzione di 38 euro per aver fatto il bagno con il burkini. Altre sei sono state invece solo richiamate dalla polizia municipale e hanno lasciato la spiaggia. Come a Cannes il divieto è in vigore anche nei comuni corsi di Sisco e Villeneuve-Loubet. Pur appoggiando le restrizioni, Valls ha comunque negato di voler presentare una legge che vieti in tutta la Francia l’uso del burkini spiegando di non ritenere che «la regolamentazione generale delle prescrizioni di abbigliamento sia una soluzione».

L’ultima decisione resta dunque in mano ai sindaci, ma le parole del premier francese si sono trasformate in un caso politico. D’accordo con lui si è infatti detto il centrodestra, mentre la gauche è rimasta a dir poco perplessa dalle sue affermazioni. «L’ordine pubblico è un buon argomento» per imporre il divieto, ha subito commentato l’ex consigliere di Sarkozy Henri Guaino, convinto che «nella situazione attuale è il momento di mettere fine a certi comportamenti». Gli ha fatto eco Thierry Solére, altro parlamentare dei Republicaines: «In Arabia Saudita una donna non fa il bagno in topless o tanga. In Francia non si fa il bagno in burqa». Motivazione di alto livello, come si vede, dove tra l’altro si fa confusione tra burqa e burkini. Anche per questo la sinistra francese storce la bocca, con un esponente come l’ex ministro Benoit Hamon, candidato alle presidenziali del prossimo anno, che ieri ha definito «assolutamente incredibili» le affermazioni di Valls.

In Italia, neanche a dirlo, è subito montata la polemica, con Lega e Forza Italia scatenate. «Chiedo ai sindaci che amministrano città di mare in tutta Italia di copiare l’esempio dei francesi» è l’appello subito lanciato da Matteo Salvini, mentre per settembre sono già annunciati una mozione in Regione Lombardia per vietare il burkini in spiagge e piscine e addirittura un progetto di legge a firma del senatore Roberto Calderoli. «Sono da mettere fuorilegge sia il burqa che il burkini e per farlo serve una legge statale», ha detto Calderoli.

Nel mirino del Carroccio e Forza Italia anche il ministro degli Interni Angelino Alfano per essersi detto contrario all’introduzione di nuovi divieti. «Sarebbe una provocazione» che come reazione potrebbe provocare degli attentati, ha spiegato il titolare del Viminale. Una spiegazione definita «preoccupante» dal senatore di Fi Lucio Malan. «Dobbiamo decidere se vietare o meno il burkini in base a ciò che riteniamo giusto e coerente con la nostra civiltà. Guai a far capire che basta la minaccia sottintesa di attentati per farci cambiare leggi e abitudini». Per il presidente della Comunità del mondo arabo in Italia Foad Aodi, invece, «il burkini in Italia è un falso problema. Sono pochissime le donne musulmane che lo portano. Data la situazione internazionale noi sconsigliamo di usarlo, ma vietarlo sarebbe un errore»

BURKINI, UN DIVIETO SUL CORPO DELLE DONNE
di Valentina Brinis
«Il provvedimento non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati»
Come si comporteranno i Comuni francesi che hanno vietato il burkini sulla spiaggia, con chi indossa la muta da sub? O con le donne che per varie ragioni non possono esporsi interamente al sole e si presentano al mare con un abito che le copre interamente, testa inclusa? È vero che quelle ordinanze – adottate proprio dove qualche decennio fa era stato inventato il bikini – parlano chiaro, e si riferiscono al burkini come simbolo religioso più che all’abito in quanto tale. Ma è immaginando l’applicazione di un simile dispositivo che emergono le contraddizioni, oltre che la difficoltà di distinguere tra chi indossa un abbigliamento coprente per motivi religiosi e chi lo fa per altre ragioni.
Gli addetti al controllo delle spiagge avranno probabilmente delle linee guida e sarebbe interessante sapere se si limitano all’identificazione dei trasgressori attraverso le caratteristiche fisiche, o se è prevista un’intervista (due domande, due) in grado di mettere in evidenza se le ragioni di tale abbigliamento siano o meno religiose. Se quest’ultima parte verrà trascurata, quale atteggiamento assumeranno con i fedeli di altri culti che prevedono un costume simile? Possibile che sia solo il burkini a creare problemi di ordine pubblico, e non per esempio i borsoni da spiaggia, le già citate mute da sub o i copri costume extra-large?

Il burkini, poi, rende chi lo indossa immediatamente riconoscibile, smontando in questo modo il fulcro di un dibattito di qualche anno fa sul tema del velo come minaccia alla sicurezza pubblica.
Pare però che la battaglia contro alcune manifestazioni di radicalismo religioso si stia giocando esclusivamente sull’esibizione dei simboli di appartenenza tipicamente femminili e, più esattamente, sul corpo delle donne. Un atteggiamento, quello francese, che appare del tutto sfasato rispetto a quanto sta accadendo alle Olimpiadi di Rio dove il burkini viene utilizzato dalle atlete senza che divenga il bersaglio di accese polemiche. La schermitrice americana che ha gareggiato con il velo lo ha fatto per rivendicare la propria identità e non perché costretta da un compagno estremista. E lo stesso ha pensato la giocatrice di beach-volley egiziana quando lo ha indossato nel match contro la Germania.

Ecco perché è stato prudente il ministro dell’Interno Angelino Alfano a discostarsi dai provvedimenti francesi, assicurando che non saranno mai adottati in Italia. E ciò deve essere fatto non solo per paura di subire ritorsioni da parte di chi quei simboli li considera il tratto fondamentale della propria identità, fino a dichiarare guerra a chi non li rispetta, ma anche perché la loro negazione nello spazio pubblico non si è dimostrata efficace. Inoltre, un divieto come quello imposto dalla Francia, non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Dove, l’integrazione, è da intendersi come un processo a doppio senso (e non a senso unico), composto da diversi elementi, e capace di incidere sia sulla società ospitante che sugli stranieri. E in Europa, un simile sistema non è più ignorabile.


LA LAICITÀ NON DOVREBBE LIMITARE
I DIRITTI MADIFENDERLI
intervista di Carlo Lania a Nadia Bouzekri

«Per favore non mi si venga a dire che un divieto come quello di indossare il burkini in spiaggia è stato pensare per difendere i miei diritti o la laicità dello stato francese. Il burkini non è un indumento previsto dalla religione, è un costume. Chi vuole lo indossa, chi non vuole no. Direi che il problema è a monte: indipendentemente dalla religione sembra che il mondo sia concentrato su quello che le donne possono o non possono indossare».

Nadia Bouzekri è la prima donna a essere stata nominata presidente dei Giovani musulmani d’Italia, un’associazione che con i suoi 1.200 iscritti è la più grande del paese. 24 anni, vive con i genitori marocchini a Sesto San Giovanni. «In quanto donna, musulmana e cittadina italiana – spiega – sapere che ci sia una legge che mi discrimina vietandomi di andare in spiaggia con un determinato abbigliamento mi fa sentire meno libera. Se si pensa che la libertà della donna sia vincolata a quanti centimetri di pelle debba scoprire vuol dire che i parametri che stiamo utilizzando sono sbagliati. Il burkini è stato ideato da un’artista australiana proprio per rispondere alle esigenze delle donne musulmane che volevano andare in spiaggia. Così come una muta è stata pensata per andare sott’acqua. Se indosso una muta che succede, arriva un vigile e me lo vieta perché sono musulmana? Alla fine il burkini è simile a una muta da sub. Penso alle atlete che sono alle Olimpiadi: non dovrebbero gareggiare perché lo indossano?

Però il messaggio che trasmette un burkini è diverso da quello di una muta da sub. Il premier francese Valls si è detto d’accordo con il divieto perché, ha spiegato, il burkini contrasta con un importante valore della Francia come la laicità.

La laicità deve tutelare i diritti dei cittadini o deve limitarli? Lo chiedo perché mi sembra che questo divieto sia stata posto esclusivamente per cittadini di una determinata fede. Una persona può essere atea e voler indossare il burkini perché è comodo.

La ministra francese Rossignol lo equipara al burqa.
E’ sbagliato. Il burqa è un indumento legato a una tradizione culturale in cui c’è un problema di diritti delle donne, ma è anche legato a un’area geografica ben precisa. E poi con il burkini, chiamato così con un chiaro riferimento al bikini, viso, mani e piedi sono scoperti, cosa invece impossibile con il burqa.

Però il resto del corpo è coperto. Non è comunque una violenza per la donna che lo indossa?
Sarebbe un atto di violenza se fossi obbligata ad indossarlo. Così come è un atto di violenza obbligarmi a scoprirmi, a dover per forza indossare un bikini piuttosto che un costume intero. Questa estate con alcune amiche siamo andate al mare: qualcuna indossava un burkini, altre un costume e ci siamo divertite tranquillamente. Non vedo dove sia il problema.

Lei cosa indossava?
Un burkini.

E ha avuto qualche reazione da parte degli altri bagnanti?
E’ normale che all’inizio vi sia uno sguardo un po’ destabilizzato. Però poi quando le persone vedono che nuoto tranquillamente, che rido e scherzo senza nessun problema, lo stupore passa velocemente insieme alla diffidenza. Indipendentemente dalla religione sembra che tutto il mondo sia concentrato su cosa indossano le donne.

Quindi ne fa una questione di moda?
Per alcune musulmane può esserlo, per altre invece è solo un costume da bagno. Io lo uso quando vado al mare, quando vado a fare trekking metto le scarpe da trekking.

Il ministro Alfano dice che vietarlo sembrerebbe una provocazione.
Più che una provocazione significherebbe andare contro i diritti costituzionali. La Francia in primis, con questo divieto mascherato sotto la tutela della laicità piuttosto che della sicurezza, va contro i diritti fondamentali dell’Unione europea.

come gruppi terroristi è un errore grave con conseguenze altrettanto distruttive.».

Ilmanifesto, 18 agosto 2016




Che la Turchia agisca come «piattaforma per jihadisti» non è una gran novità. Dal suo permeabile confine passano migliaia di miliziani islamisti che vanno ad arricchire le già folte schiere dell’Isis e dell’ex al Nusra. Ma nei documenti del governo tedesco finiti alla stampa c’è di più. Secondo Berlino, Ankara è un hub per terroristi perché sostiene Hamas, governo de facto di Gaza (nonché vincitore delle ultime elezioni democratiche nei Territori Palestinesi Occupati, nel 2006), e i Fratelli Musulmani in Egitto.

Ecco che rispunta l’annosa questione che l’Occidente non intende affrontare né capire: la differenza ideologica e di azione tra Islam politico e jihadismo. Etichettare la Fratellanza Musulmana, nata in Egitto nel 1928 e da allora diffusasi nel mondo arabo, come gruppo terrorista è un errore grave con conseguenze altrettanto distruttive. La coperta (cortissima) del modello di export della democrazia non ci pensa neppure ad inserire tra le proprie categorie concettuali l’Islam politico perseguito dai Fratelli Musulmani, pur avendo i paesi occidentali i propri partiti democristiani.
La re-islamizzazione vissuta dal mondo arabo nel secolo scorso è stata frutto di un insieme di processi: decolonizzazione, nascita degli Stati nazione, ricerca di un’alternativa ai regimi nazionalisti laici e socialisti.

La Fratellanza Musulmana nasce da lì: l’Islam come strumento di trasformazione (pacifica) della società e di conseguente partecipazione politica. L’islamismo moderato ha visto e vede nel processo democratico e nel rapporto con sindacati e movimenti sociali il mezzo di trasformazione della società. E quindi nell’ingresso nel processo istituzionale il grimaldello per modificare il sistema dall’interno, senza il ricorso a violenza o lotta armata.

Esattamente l’opposto del jihad militare profetizzato da Isis e al Qaeda. Porre sullo stesso piano tali organizzazioni e i Fratelli Musulmani incrementa il potere di attrazione dei primi a scapito dei secondi, da decenni vittima di repressione di Stato spesso sostenuta – dietro le quinte – proprio da gruppi salafiti e jihadisti. Che hanno l’occhio più lungo del nostro: demonizzare e isolare gli islamisti moderati garantisce all’estremismo un bacino di consenso sempre più ampio e radicato.

Il Fatto quotidiano online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

«Il problema di fondo? Si pensa che i servizi siano un costo. E si finanziano solo se c’è denaro che avanza, come fossero un lusso. Invece, come ho cercato di spiegare a tanti ministri, si tratta di un investimento in capitale umano, in coesione sociale, in solidarietà. Un investimento che, se si vuol far ripartire la crescita, dev’essere sullo stesso piano di quelli nella banda larga o nelle ferrovie».

Le conclusioni del rapporto 2016 della fondazione Bertelsmann, che ha messo ancora una volta il dito nella piaga di un sistema di politiche sociali inefficiente nel mitigare povertà e disuguaglianza, non stupiscono la sociologa Chiara Saraceno, esperta di welfare, già docente alla facoltà di scienze politiche dell’università di Torino e professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino, oggi honorary fellow al Collegio Carlo Alberto del capoluogo piemontese.

Il rapporto mette in evidenza debolezze storiche che sembrano impermeabili a qualsiasi riforma.
I nodi in effetti sono sempre gli stessi: il quasi esclusivo affidamento del welfare alla famiglia, cosa che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze di generazione in generazione, l’esclusione pressoché totale da qualsiasi forma di protezione pubblica di chi non è ancora entrato nel mercato del lavoro o ne è uscito da troppo tempo e lo scarso sostegno ai nuclei familiari che sostengono il costo dell’allevamento e dell’educazione dei figli.

Negli ultimi anni si è messo mano agli ammortizzatori sociali e di recente il governo ha annunciato nuovi strumenti di lotta alla povertà. Non basta per modificare il quadro?
Renzi ha fatto qualche intervento, è vero, ma molto debole e di segno non univoco. La cosa più positiva è stata la riforma dell’indennità di disoccupazione che ha eliminato gran parte delle difformità nella protezione previste dal sistema precedente. Ma per definizione l’indennità va solo a chi un lavoro lo ha avuto e protegge di più chi ha lavorato per più anni. Questo già indebolisce la posizione dei giovani, che tendono ad avere lavori a termine e non continuativi. Le donne giovani, poi, sono penalizzate ulteriormente, visto che rispetto ai coetanei hanno più spesso lavori a tempo determinato o flessibile.

Continua invece a mancare un sistema di protezione che copra anche chi è fuori dal mercato del lavoro. A partire dai giovani.
Sì: finora ci sono annunci, come quello sul Sostegno di inclusione attiva (Sia) che partirà a settembre (peraltro già in ritardo di tre mesi), ma continua a non esistere un reddito minimo per i poveri e anche le nuove misure escludono i giovani: il Sia andrà solo a chi ha in famiglia almeno un figlio minore o disabile o una donna incinta. E questi paletti secondo me non dipendono da motivi ideologici, ma semplicemente dal fatto che non c’erano abbastanza soldi. Non a caso ci sarà una graduatoria e non tutti quelli che rispettano i parametri riceveranno il contributo di cui hanno bisogno. Sconta lo stesso problema il ddl delega che dovrebbe mettere a regime una misura contro la povertà più ampia: il finanziamento previsto è di 1 miliardo ma tutti quelli che hanno studiato la questione sostengono che a regime ne servirebbero 7. Anche lì, peraltro, si dice che si partirà dalle famiglie con figli. E’ ragionevole, intendiamoci, ma tutto questo fa sì che ai giovani meno privilegiati sia quasi preclusa la possibilità di farsela, una famiglia.

Di fatto oggi l’unica misura di sostegno individuale sono gli 80 euro. Li giudica utili?
A parte il fatto che vanno solo ai lavoratori dipendenti, il problema è che escludono gli incapienti. Con il paradosso che in una famiglia lo possono prendere anche in tre o quattro membri essendo una detrazione personale mentre chi è solo e guadagna pochissimo non lo prende. O, ancora peggio, se lo ha preso ora gli viene chiesto di restituirlo. Una follia che grida vendetta, non capisco perché si sia smesso di parlarne.

Secondo la fondazione Bertelsmann, comunque, anche i benefit per le famiglie sono insufficienti.
Il sistema è estremamente frammentato e poco efficiente: c’è l’assegno al nucleo famigliare, ma solo per i lavoratori dipendenti a basso reddito, quello per il terzo figlio che va solo alle famiglie con reddito Isee sotto una certa soglia e tre figli tutti minori, poi le detrazioni per i figli a carico che però escludono anch’esse gli incapienti, poi il bonus bebè… mille rivoli che aumentano le disuguaglianze, perché c’è chi li prende tutti e chi nessuno. La soluzione sarebbe usare tutte queste risorse per un unico assegno per i figli, magari decrescente al crescere del reddito, che tirerebbe fuori dalla povertà una buona quota di famiglie. Si pensi che stando agli ultimi dati lo scorso anno il 10,9% dei minori (1,13 milioni) era in povertà assoluta. E nella maggior parte dei casi parliamo di nuclei in cui almeno un adulto lavora ma il suo stipendio non basta. Per questo la vera soluzione sarebbe quella di favorire l’occupazione delle madri.

Perché allora non si è mai deciso di fare piazza pulita di questi contributi inefficienti, unificarli e in parallelo investire in nidi e altri servizi?
Sul primo fronte, indubbiamente annunciare singole misure come il bonus bebè costa di meno e forse fa più scena. Quanto ai servizi pubblici di cura non famigliare, ci sono diversi ordini di difficoltà: a volte gli enti locali, soprattutto nel Mezzogiorno, non spendono i soldi che hanno a disposizione, e allora dovrebbe intervenire lo Stato. Ma più in generale il problema è che sono considerati costi invece che investimenti nelle generazioni future e in particolare in quelle meno avvantaggiate. Molte capacità si consolidano prima dell’entrata nella scuola elementare, per cui far andare al nido i bambini meno fortunati, penso anche ai piccoli migranti che magari non parlano ancora bene la nostra lingua, è un modo per favorire il loro futuro accesso al mercato del lavoro. Un investimento, appunto.

Il presidente della Croce rossa internazionale Peter Maurer, intervistato da Pietro Del Re, non lo dice, ma c''è anche chi sa distinguere tra civili e militari, e costruisce ed usa ordigni progettati per distruggere solo la popolazione civile. Lo ha dimostrato, per la striscia di Gaza, l'associazione Forensic Architecture, vedi i riferimenti in calce.

La Repubblica, 17 agosto 2016

«Anche le bombe su quest’ultimo ospedale di Msf sono la conseguenza dell’estrema urbanizzazione delle guerre moderne, che aumenta la vulnerabilità della popolazione perché è ormai diventato impossibile operare una distinzione tra civili e militari», dice lo svizzero Peter Maurer, presidente del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), l’ente umanitario più potente del pianeta. «Lo stesso problema si presenta in decine di casi, dallo Yemen alla Siria e dalla Libia all’Afghanistan, dov’è per noi ovviamente molto difficile lavorare. In questi contesti il primo compito della Croce rossa è la ricerca di un dialogo con i tutti i belligeranti, perché in guerra la nostra priorità consiste nell’ottenere un spazio dove proteggere la popolazione. Non sempre ci riusciamo, ma so che senza interagire con le parti è impossibile mettere in salvo i civili, soprattutto quando il comportamento di chi combatte è scandalosamente irrispettoso nei confronti della popolazione», aggiunge questo ex diplomatico di 60 anni che fu ambasciatore della Confederazione elvetica all’Onu. La legione di 14mila operatori che oggi dirige opera in circa 100 Paesi, affaccendata a salvare vite in conflitti esterni e interni ma anche ad aiutare i migranti e a sorvegliare lo stato dei detenuti nelle carceri più dure.

Presidente Maurer, nello Yemen i caccia sauditi bombardano la popolazione civile come fanno quelli russi e del regime di Damasco ad Aleppo e Idlib. Ma la neutralità del Cicr non confligge con il dovere di denunciare un crimine?

«Lavoriamo sul terreno e siamo quindi testimoni di molte violazioni e di molte violenze. E le assicuro che all’interno della comunità umanitaria siamo tra i primi a denunciare questo genere di misfatti, anche se non lo facciamo per forza pubblicamente. Ma è anche vero che teniamo sempre a mente il fatto che il nostro primo compito non è denunciare ma assistere le popolazioni. Perciò se denunciando viene limitato il nostro campo d’azione allora preferiamo ricorrere a metodi più diplomatici. Ci sono altre organizzazione la cui specifica missione è quella di denunciare gli abusi».

Nel mondo si contano 56 milioni di persone che scappano da guerre o miseria. Come si è giunti a questo record agghiacciante?
«Basti pensare che in nessuno dei maggiori conflitti nei quali è coinvolta la Croce rossa si percepisce una dinamica positiva. In nessuno di essi c’è un cessate il fuoco duraturo né s’intravede uno spiraglio di pace. E quindi, dal Medio Oriente al Corno d’Africa, dal Sahel alla regione del Lago Ciad all’Afghanistan assistiamo a enormi spostamenti di folle di civili in fuga. Nel mondo d’oggi chi sta bene sta sempre meglio, chi sta male sta sempre peggio».

Come giudica l’accordo con la Turchia e l’atteggiamento dell’Europa di fronte alla crisi dei migranti?
«Sono molto preoccupato. I miei dubbi sul nostro comportamento riguardano sia l’accordo turco-europeo sia alcune politiche unilaterali adottate da Paesi dell’Unione. Due i problemi: anzitutto la brutta figura che facciamo con il resto del mondo, che accusa noi europei di non essere abbastanza generosi; c’è poi l’enorme scarto tra quanto scritto nell’accordo e la sua attuazione sul terreno, con migliaia di persone rimaste prigioniere tra la Turchia e l’Europa senza nessuna assistenza legale ».

Ha ragione papa Francesco quando parla dell’universalizzazione dell’indifferenza?«C’è una forte discrepanza tra gli interessi della comunità internazionale, le problematiche dei Paesi in guerra e le risorse necessarie a ripararle. Purtroppo, là dove c’è bisogno, queste non ci sono mai, perché manca l’attenzione delle grandi potenze economiche. All’inizio del millennio, c’eravamo tutti illusi che una volta risolto il flagello della povertà avremmo costruito un mondo migliore. Quindici anni dopo, la gente è più ricca ma nel pianeta ci sono anche più violenza e più distruzione. Oggi, non sono i poveri all’origine delle guerre ma piuttosto le profonde ingiustizie della società, e l’incapacità dei leader a sanarle. La gravità e la vastità dei conflitti in corso contribuiscono a creare la peggiore situazione dalla fine della Seconda guerra mondiale».

Riferimenti
Vedi, in eddyburg, l'articolo di Eyel Wezman, l'architetto israeliano ricercato da Israele per la sua attività di denuncia. E vedi soprattutto il sito di Forensic Architecture.

«Il manifesto,


Carlo Crosato, Dal laicismo alla laicità. La via dell’inclusione dialogica: possibilità e criticità, Armando editore, Roma 2016, 12,00€

Affrontare l’idea di un dialogo incentrato sul rispetto dell’uomo e del suo intimo logos, o la cura meticolosa verso le molteplici istanze sollevate da singoli e gruppi all’interno di un orizzonte democratico, sono temi disossati certo da diversa letteratura. Carlo Crosato ha tuttavia il merito scientifico di aver approfondito con chiarezza di stile e di contenuto il tema elusivo della laicità e di aver rispolverato un importante scambio epistolare avvenuto tra due filosofi di ascendenza gentiliana come Guido Calogero e Ugo Spirito.

Nel suo ultimo libro dal titolo Dal laicismo alla laicità. La via dell’inclusione dialogica: possibilità e criticità (Armando Ed., pp. 143, euro 12), Crosato prende subito di mira il laicismo di Paolo Flores d’Arcais, «colpevole» di aver estromesso «Dio» dal dibattito pubblico e di aver irrigidito i luoghi democratici a causa di una fede scambiata per ragionevolezza.

Il culto del metodo scientifico, l’evidenza dei fatti e il fazioso ateismo non divergono da una qualunque «dottrina comprensiva». Il laicismo consiglia di interiorizzare la trascendenza e custodisce i minimi principi repubblicani con una politica culturale dai toni asettici. La laicità, quale fondamento della democrazia, accetta l’ipotesi relativista ma boccia il nichilismo di chi non sente l’urgenza di capire l’altro.

Incoraggiato dalla lezione liberalsocialista di Calogero, l’autore propone di retrocedere, cioè di «sospendere» la nostra libertà affinché altri possano esplicitare la propria presenza. La combinazione tra il «bene pubblico» e il «bene comune», tra la struttura imparziale del modello costituzionale e la giustizia sostanziale a suo parere costituisce il vero traguardo degli eredi di Socrate.

La laicità si rivela l’unico metodo che consente di entrare in confidenza con le «differenze» e di denunciare il muro delle «diversità». La scuola pubblica ha il nobile compito di perfezionare questa distinzione e di normalizzare la funzione dialogica. L’«agire comunicativo» e il richiamo al «tu» promuovono l’incontro delle libere voci e rimproverano il falso cosmopolitismo manovrato dalla lex mercatoria.

La sospettosa ignoranza del laicista, che insegue la razionalità a tutti i costi, può essere sconfitta dalla pazienza e dal coraggio dell’inclusione. E la soluzione di Spirito, aggiunge Crosato, non è sufficiente in quanto richiede, ai fini di un’autentica relazione dialogica, un tasso elevato di competenza che produce l’ennesima azione dogmatica.

La democrazia, lievitata dal messaggio laico e dal ritmo dialettico, ignora l’ultima parola nelle decisioni singole o collettive e presta attenzione al paradosso dell’uomo. L’individuo oscilla infatti tra la dimensione universale e quella particolare: l’assenza dell’universale esalta lo scontro tra noiosi «monopolisti della fede» e innesca un meccanismo di autoreferenzialità; l’assenza del particolare anticipa il fenomeno della ghettizzazione e tradisce il sano pluralismo.

«Medici Senza Frontiere chiede a tutte le parti del conflitto, e soprattutto alla coalizione a guida saudita responsabile del bombardamento, di garantire che attacchi simili non accadano più».

Articolo21 online, 16 agosto 2016 (c.m.c.)

L’ospedale di Abs, nel governatorato di Hajjah in Yemen nord-occidentale, è stato colpito ieri da un attacco aereo che ha ucciso almeno 11 persone e ne ha ferite almeno 19. L’esplosione ha ucciso sul colpo nove persone, tra cui un membro dello staff di MSF, e altri due pazienti sono morti mentre venivano trasferiti all’ospedale di Al Jamhouri.

L’ospedale di Abs, supportato da MSF dal luglio 2015, è stato parzialmente distrutto e tutti i pazienti e il personale sopravvissuti sono stati evacuati. Le coordinate GPS dell’ospedale erano state condivise più volte con tutte le parti in conflitto tra cui la coalizione a guida saudita, e la sua localizzazione era ben nota. «È il quarto attacco contro una struttura MSF in Yemen in meno di 12 mesi. Ancora una volta, abbiamo visto le tragiche conseguenze del bombardamento di un ospedale.

Ancora una volta un ospedale in funzione, pieno di pazienti e di staff MSF nazionale e internazionale, è stato bombardato in una guerra che non mostra alcun rispetto per le strutture mediche e i pazienti. Un bombardamento aereo ha colpito il compound dell’ospedale, togliendo la vita a 11 persone» ha detto Teresa Sancristóval, responsabile dell’unità di emergenza in Yemen. «“Nonostante la recente risoluzione delle Nazioni Unite che chiede di porre fine agli attacchi contro le strutture mediche e nonostante le dichiarazioni di alto livello perché sia rispettato il Diritto Internazionale Umanitario, non sembra venga fatto nulla perché le parti coinvolte nel conflitto in Yemen rispettino il personale medico e i pazienti. Senza azioni, questi gesti pubblici restano privi di significato per le vittime di oggi. Sia che si tratti di intenzionalità che di negligenza, tutto questo è inaccettabile.»

«Le persone in Yemen continuano a essere uccise e ferite mentre cercano di essere curate. La violenza in Yemen sta avendo un peso sproporzionato sui civili. Proviamo enorme rabbia perché ancora una volta dobbiamo mandare le condoglianze alle famiglie del nostro collega e di 10 pazienti, che dovevano essere al sicuro all’interno di un ospedale».

MSF chiede a tutte le parti del conflitto, e soprattutto alla coalizione a guida saudita responsabile del bombardamento, di garantire che attacchi simili non accadano più.

Da luglio 2015 l’ospedale di Abs, principale centro sanitario in funzione nell’area occidentale del governatorato di Hajjah, ha curato 4.611 pazienti. Aveva un pronto soccorso con 14 posti letto, un reparto di maternità e uno di chirurgia. Nelle ultime settimane l’ospedale aveva visto un aumento di pazienti feriti, soprattutto vittime dei recenti combattimenti e della campagna di attacchi aerei nell’area. Al momento del bombardamento, c’erano 23 pazienti in chirurgia, 25 nel reparto di maternità – tra cui 13 neonati – e 12 in pediatria.

L’ospedale aveva ricoverato in giornata diversi feriti di guerra. Il numero di pazienti che si trovavano nel pronto soccorso potrebbe variare dopo ulteriori verifiche in corso.

In Yemen MSF lavora in 11 ospedali e centri sanitari e fornisce supporto ad altri 18 ospedali o centri sanitari in otto governatorati (Aden, Al-Dhale’, Taiz, Saada, Amran, Hajjah, Ibb e Sana’a). Nel paese lavorano più di 2.000 operatori di MSF, tra cui 90 internazionali.

«». Contribuiamo ad ammazzare, ma intanto il PIL cresce. Altraeconomia , 16 agosto 2016 (c.m.c)

Fino a qualche mese fa Domusnovas -piccolo centro sardo di 6.300 abitanti in provincia di Carbonia-Iglesias- era conosciuto solo da qualche turista per le sue bellissime grotte carsiche. La presenza delle grotte di San Giovanni è ben segnalata già nei cartelli della statale 130, che collega Cagliari al paese, e arriva fino a Iglesias. Dallo scorso ottobre, però, Domusnovas è diventata nota per un’altra presenza: quella della fabbrica di armi della società Rwm Spa.

Nessun cartello sulla 130 la segnala nonostante anch’essa si trovi a pochi chilometri dal centro. Per trovarla è necessario chiedere a qualche passante, che appena sente il nome della fabbrica cambia espressione, salvo poi indicare la via dellocalità Matt’è Conti. Attraversando le campagne sulcitane si raggiunge un parcheggio antistante il caseggiato; se non fosse per le sbarre su tutte le finestre che si affacciano sul piazzale -e il filo spinato sopra ai muri- sembrerebbe uno stabilimento qualsiasi.

E invece dai cancelli della Rwm Spa sono partiti razzi, siluri e bombe verso varie destinazioni, tra le quali figura anche l’Arabia Saudita, come si legge nella Relazione sulle operazioni autorizzate di controllo materiale di armamento 2015 del governo. La fabbrica ha iniziato a comparire sulle cronache quando il deputato Muro Pili, il 29 ottobre 2015, ha pubblicato video e fotografie che davano conto del carico di missili in partenza dallo scalo civile di Elmas, denunciando il mancato adempimento delle norme di sicurezza che regolano il trasporto delle armi. Il carico era pronto all’imbarco poco lontano dalla pista di decollo degli aerei di linea.

Amnesty International, la Rete Disarmo e l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia (OPAL) hanno chiesto conto al governo, mentre alcuni deputati e senatori appartenenti a vari schieramenti hanno presentato interrogazioni, soprattutto per quanto riguarda l’invio del materiale bellico a Paesi in guerra, in palese violazione della legge 185/90. A tentare di fugare i dubbi sulla sicurezza dell’esportazione è intervenuto l’Ente nazionale aviazione civile, cui ha fatto seguito -a proposito della legalità dell’operazione- la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Secondo il governo, la Germania sarebbe stata la responsabile ultima della decisione, vista l’appartenenza di Rwm Italia a un gruppo tedesco.

Tesi che è stata però smentita dalle risposte ufficiali di Berlino. “È chiaro che si tratta di una questione tutta italiana -ha spiegato a Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo, Jan van Aken, deputato della Linke al Parlamento tedesco-, perché Rwm già produceva queste bombe prima dell’acquisizione da parte di Rheinmetall. E una richiesta formale di autorizzazione alla Germania deve essere fatta solo se c’è trasferimento di know-how. Nonostante ciò, dopo aver letto le notizie che rimbalzavano anche qui dalla Sardegna, abbiamo voluto una conferma ufficiale.

E la risposta è stata chiara”. Spiega Vignarca: «Il governo Merkel ha infatti risposto all’interpellanza di Van Anken dichiarando che ‘nessuna competente autorizzazione’ era stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas» (è possibile leggere qui i documenti del governo tedesco, che Altreconomia pubblica in esclusiva).

Le esportazioni, in ogni caso, sono andate avanti. Ancora nel marzo 2016, OPAL ha dato conto di nuove partenze di bombe da Cagliari verso l’Arabia Saudita per 5 milioni di euro.

Qui a Domusnovas, però, la questione più rilevante è quella occupazionale. La Rwm Spa con sede legale a Ghedi (BS) ha un capitale sociale di 2 milioni di euro interamente detenuto dalla Rheinmetall waffe munition Gmbh (Rheinmetall Defence), occupa in Sardegna 74 addetti, e nel 2015 ha fatturato 54,5 milioni di euro. Lo stabilimento sorge negli stessi spazi dove nel 1933 nacque la Società Esplosivi Industriali Spa (SEI) per fare fronte alle richieste dell’industria mineraria, allora settore trainante del Sulcis. Ora non produce più esplosivi per miniere e il gruppo cui fa riferimento, Rheinmetall Defence, è un colosso da 25mila dipendenti e un fatturato consolidato che nel 2015 ha superato i 5 miliardi di euro.

L’attenzione mediatica da queste parti non è affatto gradita. Le persone che accettano di parlare pretendono i microfoni spenti. I dipendenti, poi, potrebbero incorrere nelle sanzioni del “codice etico” aziendale, che all’articolo 22 prevede il licenziamento per la diffusione di informazioni riservate. Chi spera di trovare lavoro nella fabbrica, invece, preferisce evitare i giornalisti. Qui tutti contano un parente o un conoscente impiegato alla Rwm e la preoccupazione è che anche questa fabbrica possa chiudere o decidere di delocalizzare la produzione.

Dal punto di vista occupazionale questo è un territorio già molto provato dalla dismissione delle miniere e dalle vertenze Carbosulcis, Alcoa, Euroallumina e Portovesme Srl per le quali ancora si sta cercando una soluzione alternativa al licenziamento. La chiusura dell’ennesimo stabilimento sarebbe un’altro duro colpo all’economia della zona. Gli ultimi dati Istat dicono che qui la disoccupazione è al 17% con quella giovanile che supera il 60%, e se nel 2014 il Pil procapite del Sud Italia era di 16.761 euro -circa la metà rispetto a quello del Nord- nel Sulcis è di soli 8.800 euro.

I giovani rappresentano il 30% della popolazione e questa, insieme a quella di Oristano, è la zona che ha perso più abitanti nell’ultimo anno, per lo più giovani e qualificati, alla ricerca di qualche opportunità, soprattutto all’estero. Anche perché alla riconversione non crede più nessuno. Alcuni qui a Domusnovas si dichiarano sì contro le guerre, ma sono anche convinti che se chiudessero la Rwm le armi continuerebbero ad essere prodotte da qualche altra parte, mentre certamente loro perderebbero il lavoro.

La questione più controversa però rimane quella etica. Da ottobre scorso ad oggi ci sono state tre manifestazioni davanti alla fabbrica, sempre per chiederne la chiusura e lo smantellamento. All’ultima, nel maggio scorso, hanno partecipato un centinaio di persone. Il comitato “No bombe” parla di ricatto occupazionale: «Sappiamo perfettamente che le multinazionali fanno i migliori investimenti nei Paesi con più difficoltà economiche, non per ultimo in Sardegna, dove il lavoro non è mai stato un’opportunità bensì un ricatto. La possibilità di perdere alcuni posti di lavoro in un territorio devastato economicamente e socialmente crea ansia, lo possiamo capire, ma non per questo accettare». Quello stesso giorno, gruppi antimilitaristi tedeschi hanno manifestato a Berlino durante l’assemblea generale degli azionisti della Rheinmetall Defence.

Franco Uda è il coordinatore della Tavola della Pace Sarda, una rete di 30 associazioni. È convinto che sviluppare un conflitto tra lavoratori sia inutile. Insieme alla Rete italiana per il Disarmo la Tavola inviato a 10 Procure di tutta Italia, comprese Cagliari e Brescia, un esposto contro il governo italiano per la violazione della legge 185/90 che è quella che regola l’export di armi.

«Nel passato questa norme veniva aggirata attraverso le triangolazioni -ricorda Uda-, per cui l’Italia vendeva armi all’Egitto e l’Egitto poi le vendeva all’Arabia Saudita che era in guerra contro lo Yemen. Mentre ora, anche questo elemento di pudore viene completamente saltato. Oggi l’Italia vende direttamente all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen». Per Salvatore Drago, dell’Unione sindacale di base, l’unica soluzione è dare alternative -come la riconversione della fabbrica-, anche se è convinto che spetti ai lavoratori assumersi delle responsabilità.

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