Comune.info, 2 settembre 2016 (c.m.c.)
Se oikos, nel tempo presente della “modernità globalizzata” (Habermann), è diventato la casa-mondo, allora i nomos, le regole, gli accordi, le leggi che stabiliscono le modalità d’uso della casa comune dovrebbero essere improntati alla cura dello spazio vitale, limitato e fragile. Una constatazione, questa, che Ina Praetorius nel suo L’economia è cura (traduzione di Adriana Maestro, edizioni IOD, marzo 2016, con licenza Creative Commons, scaricabile gratuitamente dal web grazie alla Società Consortile Mediterraneo Sociale) considera ovvia.
Se l’economia (oikonomia) è la scienza sociale che studia come poter soddisfare i bisogni di tutte le persone presenti e future ospitabili sulla faccia della terra, allora le prime attività di cui si dovrebbe occupare sono quelle che riguardano il mantenimento delle precondizioni della vita, la riproduzione, il nutrimento e l’allevamento dei figli, l’accudimento degli anziani, la tenuta in buon ordine degli habitat naturali, l’ascolto, l’inclusione e la custodia di ogni diversità, le buone relazioni tra le persone e tra queste e la natura. Insomma, tutto ciò che dà un senso al vivere in pace e con dignità. Secondo Praetorius, invece, nel corso dei secoli è avvenuta una tremenda distorsione pratica e teorica del concetto di economia.
La metà (almeno) del lavoro socialmente necessario alla soddisfazione dei bisogni (e dei desideri) umani fondamentali non viene contemplato dalle scienze economiche convenzionali. Si tratta delle prestazioni “fuori mercato” fornite in ambito domestico dalle donne (in grandissima prevalenza non o male retribuite) e dai popoli indigeni che preservano i “servizi ecosistemici” forniti dai cicli biologici naturali. L’economia, con l’avvento del capitalismo industriale, si è ridotta ad essere un prontuario per massimizzare lo sfruttamento delle risorse umane e naturali trattate come mezzi e strumenti – al pari delle macchine e del denaro – che devono essere impiegate (sacrificate) nel processo produttivo delle merci.
Avviene così un rovesciamento dei fini: gli scopi della cooperazione sociale non sono più il miglioramento della “vita buona” delle persone, la joia de vivre, il buen vivir, il Sumak kawsay andino, ma l’estrazione, l’appropriazione e l’accumulazione di denaro.
L’economia oggi concepisce e codifica solo due tipi di rapporti umani: la prestazione in cambio di denaro e l’estorsione diretta previa costrizione di persone discriminate a causa del genere, del luogo di nascita, dell’età, del censo.
Per Praetorius all’origine di tutto ciò vi sono duemilacinquecento anni di “ordine dicotomico” patriarcale, di dualismo tra uomo-maschio-bianco-possidente-capofamiglia-libero e natura-femminile ridotta a materia sottomessa. La Care Revultion è un nuovo movimento e un nuovo paradigma scientifico che chiede di mettere al centro dell’economia le buone pratiche concrete di vita quotidiana, “il bisogno di qualità di relazioni soddisfacenti”. Quando sentiamo parlare la sindaca di Barcellona, Ada Colau, di ecofemminismo, troviamo molta economia della cura.
Che cosa significa utilizzare il proprio cervello critico? Le giovani generazioni si trovano davanti a scelte difficili da decifrare. Occorre scommettere sulla "terapia" della scuola».
Il manifesto, 3 settembre 2016 (p.d.)
Risultano perciò inaccettabili alla logica prima ancora che all’etica i privilegi di chi nasce ricco e ha goduto delle facilitazioni di un ambiente adeguato, ma anche di amicizie, di favori più o meno leciti. La loro condizione di privilegio si mantiene grazie alla esistenza dei molti che invece di privilegi non ne hanno e con la loro opera rendono possibile i loro salari stratosferici e perfino i loro comportamenti offensivi con cui ostentano la loro ricchezza per mostrare il loro potere e diversità, manifestazioni volgari che gridano vendetta davanti a Dio.
Ricordo a proposito alcune parti dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito (…) Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?»
L’onesto è relegato alla posizione di una sottospecie di fessi non degni di salire nella casta dei furbi. Il cervello, il buon senso, la critica, l’onestà sono in rivolta. La mia non è una ribellione violenta, perché la violenza genera violenza, ma è un richiamo all’uso del cervello pensante e critico, è la rivolta della ragione contro quel’1 per cento della popolazione che possiede più ricchezze del restante 99 per cento (rapporto Oxfam 2016). Ho raccolto queste riflessioni in un mio piccolo libro Elogio della ribellione uscito per Il Mulino.
In questo spirito di inquietudine e di rivolta rifletto su alcuni aspetti del mondo moderno, sulla globalizzazione, sul rapido invasivo sviluppo delle tecnologie che hanno procurato vantaggi ma anche problemi.
Le tecnologie della comunicazione hanno creato un nuovo tipo di solitudine, che possiamo chiamare paradossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.
La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.
Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.
La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.
La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.
Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.
Adall'archivio di
eddyburgarticoli che ci sembra meritino oggi di essere riproposti. Questo episodio , raccontato da Lello Parise su laRepubblica del 29 settembre 2007, non ha bisogno di commento.
«Voglio assolutamente avere una copia di quella lettera». Baldina Di Vittorio è emozionata, felice. Suona orgogliosa al telefono da Roma la voce della figlia del mitico "Peppino", l’ immarcescibile leader dalla Cgil: «Quel manoscritto rivela più di qualsiasi altra cosa il carattere di mio padre, onesto e coraggioso». Di Vittorio che gentilmente rifiuta un pacco-dono del conte Giuseppe Pavoncelli, proprietario terriero di Cerignola e che su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa " Lafalce" spiega le ragioni di quel rifiuto: «Io e lei siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia immagine politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. E’ necessaria anche l’ onestà esteriore». Ecco perché «a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo moltissimo, sono costretto a non accettare il regalo. Perciò la prego di mandarmi qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati». Eppure era un cadeau goloso: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia, era l’epoca della povertà assoluta. Sì, insomma, non era facile rifiutare quel po’ di ben di Dio, come scrive papà. Alla vigilia di Natale, poi...».
La data della missiva, che era rimasta inedita fino all’altro giorno, è quella del 24 dicembre 1920. Racconta la signora Baldina: «E’ l’anno in cui io sono nata e per me questo documento acquista un valore particolare. Ne avevo sentito parlare in famiglia, di quelle poche righe indirizzate al conte Pavoncelli, titolare di un’azienda che continua ad essere viva e vegeta e che produce olive la cui qualità è famosa in tutto il mondo: la "Bella di Cerignola", così si chiamano. In fondo è grazie al nipote Stefano che salta fuori questo biglietto da cui emerge la generosità e la correttezza di Giuseppe Di Vittorio». Altri tempi? «No, un uomo diverso rispetto a quelli dei giorni nostri. I tempi, inevitabilmente, cambiano. Non voglio fare paragoni, per carità, con gli uomini politici e i sindacalisti di questo nuovo secolo. Però sono convinta che mio padre avrebbe seguito le stesse regole, soprattutto morali, rispettate scrupolosamente quando era in vita». "Peppino" muore esattamente cinquant’ anni fa. La Rai gli dedicherà un film, che in parte sarà girato proprio a Cerignola. Fa sapere l’ indomabile Baldina, che indossa i suoi 87 anni con la leggerezza di un’adolescente: «Proporrò agli sceneggiatori d’inserire questo episodio nella pellicola. Sì, loro già lo conoscono perché durante i sopralluoghi nella città natale di papà prima di cominciare le riprese hanno incontrato Stefano Pavoncelli, che gli ha fatto vedere l’epistola. Sì, sarebbe bello se fosse immortalata in questo lavoro cinematografico. Perché è istruttiva e mette in risalto comportamenti che devono essere validi perfino nel terzo millennio».
Baldina Di Vittorio è un fiume in piena e l’età non tradisce la freschezza delle sue parole. Insiste: «Comportamenti, visti a distanza di quasi novant’anni, che non sono quelli di un marziano. Piuttosto, sono naturali. Mio padre predicava l’opportunità di avere rapporti con tutti, ma non tollerava l’ incoerenza. Negli altri e meno che mai da parte sua». L’essere e l’apparire, insomma, dovevano rappresentare il "lato A" e il "lato B" della stessa medaglia. Come la moglie di Cesare, bisognava essere al di sopra di ogni sospetto. «è un insegnamento che io stessa non dimentico, ma che tutti dovrebbero ricordare. Più degli altri, quelli che rappresentano il popolo. O la gente, come si dice adesso».
Internazionale online, 1 settembre 2016 (c.m.c.)
In un’Italia sommersa dalle immagini di valanghe di rovine e di cadaveri, che vengano da Amatrice o da Aleppo (nessuno l’ha notato, ma sono pressoché sovrapponibili). In un’Italia ossessionata dalla fobia dei migranti, che non si sa mai dove mettere e che sarebbero l’unica garanzia contro la crescita zero, demografica ed economica. In un’Italia massacrata da una crisi economica senza uscita, dove i diritti sociali sono carta straccia, il welfare è un vago ricordo e la precarietà è diventata una forma di vita.
In un’Italia depressa, ansiosa e rancorosa, dove la politica non offre più canali positivi all’insoddisfazione sociale. In un’Italia che puzza di vecchio, per la senescenza delle idee e per la depressione delle energie più che per l’età media della popolazione. In un’Italia dove sembra che più nulla di pubblico possa essere detto nella lingua materna, il governo lancia una campagna pubblicitaria per un “Fertility Day” che fa venire voglia ai pochi che ci viviamo ancora di fare le valigie, altro che allestire culle con trine e merletti.
Ci vogliono riportare agli anni cinquanta, paventano molte reazioni femminili sui social. Sì e no. È vero che la tipa (triste) con la clessidra in mano della prima cartolina pubblicitaria ricorda le ragazze (allegre) con la bottiglia di Coca-Cola in mano del decennio del boom, ma l’intera serie delle cartoline ministeriali va a pesca nell’immaginario di parecchi decenni, compreso quello attuale. Evoca l’imperativo fascista di fare figli degli anni venti e trenta, tanto per cominciare: dato che siamo in Italia, dove il fascismo è sempre endemico, si va sul sicuro.
Ma strizza l’occhio allo slang della sinistra radicale, con lo slogan “la fertilità è un bene comune”. E solletica l’etica neoliberale, col riferimento alla “creatività” delle generazioni precarie. Che volete di più da una campagna ministeriale? L’agenzia di comunicazione che l’ha prodotta deve averci pensato su bene. Col risultato di mandare in bestia tutte, e molti: c’è un troppo che storpia, e suona più o meno come una presa per i fondelli. Un messaggio di pedagogia autoritaria camuffato da pedagogia auto-imprenditoriale, in perfetto stile neolib-neocon. Troppo smaccato: perfino Renzi ha dovuto prenderne le distanze.
Epperò dev’essere vero che ogni società ha il governo che si merita. Perché le reazioni contro la pubblicità-regresso riescono a essere a loro volta non meno regressive del messaggio ministeriale. Si va dalle proteste, alla Saviano, contro l’uso statuale della fertilità come “bene comune”, che sarebbe lesivo della sua intangibilità individuale e privata, alle sollevazioni femministe contro l’ingiunzione a procreare in un paese in cui tutto, dalla disoccupazione ai bassi stipendi e dalla precarietà alla mancanza degli asili nido, fa ostacolo al desiderio di maternità.
Su tutto domina un linguaggio statistico-economico che con la lingua del desiderio ha pochissimo a che fare: è vero, il problema c’è, in Italia il tasso di natalità è troppo basso, il paese invecchia, i giovani tardano a farsi una famiglia, le donne non ce la fanno a tirare avanti lavoro (quando c’è, ma non c’è) e figli, ci vogliono politiche per la famiglia non campagne pubblicitarie a effetto… Ma siamo sicure?
Tanto per cominciare, il problema della bassa crescita, o della decrescita, demografica è un classico problema che andrebbe affrontato in termini globali e non nazionali. E in termini globali, notoriamente, il problema non c’è, semmai c’è il problema opposto. Che l’Italia, e l’Europa tutta, invecchino e mettano al mondo pochi bambini non è solo un effetto della crisi economica e dello smantellamento del welfare: è anche un effetto dei muri che si alzano, dell’arroccamento xenofobo e razzista, di politiche dell’immigrazione ossessionate dalla sicurezza e senza alcuna sensibilità demografica, di politiche militari incuranti della vita che nasce e cresce oltreconfine, per tacere di altri fattori culturali che pesano come macigni, dalla crisi dell’idea di futuro al declino dell’egemonia occidentale.
In secondo luogo, il calo della fertilità non è attribuibile solo a ostacoli di natura economica. Non si può affrontare il tema come se il desiderio di maternità fosse un dato certo, ostacolato dalla mancanza di reddito, sussidi e strutture. Un lavoro fisso, uno stipendio e un asilo nido sotto casa di certo incoraggiano a mettere al mondo un figlio più di quanto scoraggino la disoccupazione, il precariato e l’assenza di incentivi, ma poi, anzi prima, c’è dell’altro.
C’è la logica, e l’ambivalenza, del desiderio, che non è mai un dato certo: c’è e non c’è, ci può essere e può non esserci, va e viene, può imporsi e può fallire, senza per questo diminuire la pienezze della vita di una donna. C’è la logica, e la fragilità, delle relazioni fra i sessi scosse dalla fine del patriarcato, che si ripercuote per vie spesso insondabili sull’infertilità delle coppie. Ci sono le incertezze dell’identità sessuale, il gender trouble che non si sa perché siamo tutte pronte a rivendicare come fattore di libertà ma non sempre facendoci carico del trouble che comporta anche sul piano procreativo. C’è la logica imprevedibile della sessualità, che ha che fare con le ragioni dell’inconscio e non con la contabilità della spesa sociale. C’è la logica più prevedibile ma tutt’altro che certa delle tecnologie riproduttive che l’infertilità ambirebbero a risolverla. E c’è, su tutto, la libertà di non fare figli, che nel femminismo abbiamo guadagnato come libertà di grado non inferiore a quella di farli.
Quando si parla di fertilità e crescita, o decrescita, demografica, il catalogo è questo, non, o non solo, quello di un esercizio di buona volontà, come vorrebbe la pubblicità-regresso del governo, o quello delle politiche sociali inesistenti, come vorrebbe chi la contesta. È il catalogo che fu scoperchiato, agli albori del femminismo, dalla pratica dell’autocoscienza, una pratica che ci insegnò fra l’altro, vorrei dire a Roberto Saviano, come si rende politico un problema personale senza per questo renderlo disponibile a imposizioni statuali. È quel catalogo che va ripreso in mano contro l’album delle cartoline ministeriali: a patto di non pararsi, questo invece vorrei dirlo alle giovani amiche femministe, dietro una retorica di auto-vittimizzazione economica che non aiuta l’economia del desiderio.
«È inaccettabile che una società politica che non ha mai compreso e riflettuto sui cambiamenti avvenuti nella vita delle donne, e quindi di tutti, entri nel merito solo per stigmatizzarlo. E per ricondurre le donne al loro essere corpo e natura».
Il manifesto, 2 settembre 2016
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Ora che Renzi ha detto in una intervista a radio RTL 102.5 «non ne sapevo niente», il flop del fertility day sembrerebbe definitivo. Il sito è collassato, le cartoline non sono più accessibili, solo la ministra della Salute Beatrice Lorenzin si ostina a dare appuntamento al 22 settembre, la data fatale.
Ma a parte Matteo Renzi, sempre pronto ad allontanare da sé tutto quello che profuma di fallimento, non si può proprio tacere sullo stile, sul modo di raccontare e comunicare un tema che potrebbe perfino avere qualche interesse. Anche se non si capisce perché lo si debba chiamare fertilità, e non parlare di una più complessa e articolata educazione sessuale. Non sono i punti di informazione-conoscenza a essere offensivi. Lo sono le immagini, lo sono le parole. A cominciare dal lezioso cuoricino rosa, penetrato dallo spermatozoo-fumetto, trasposizione bamboleggiante dei crudi fotogrammi della fecondazione artificiale, allusione senza ironia, neanche un’eco del viaggio avventuroso raccontato da Woody Allen travestito da spermatozoo in «Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere» (1972).
Peccato che l’immagine clou della campagna sia un’enorme clessidra in primo piano, una giovane donna che si tiene il ventre con una mano, e lo slogan: «La bellezza non ha età, la fertilità invece sì». Che sembra ideato da un team di untori, pronti a spargere l’ansia e la paura ovunque. Ma dove si rivela del tutto l’ideologia che sottintende a questi messaggi è in «fertilità bene comune», o il definitivo «prepara una culla per il tuo futuro», primo piano di una pancia femminile appena piena, con l’universale gesto della mano che la sostiene, quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca, per intenderci.
L’elemento pericoloso è che a questa conclusione si arriva dopo una perlopiù corretta esposizione, utilizzando le serie statistiche fornite dall’Istat. È della donna italiana contemporanea di cui si parla: quella che studia a lungo, che è più istruita degli uomini, che coltiva e persegue progetti di parità, di realizzazione di sé, di libertà. Eppure si conclude: «Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, pero, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternita?».
È inaccettabile che una società politica che non ha mai compreso e riflettuto sui cambiamenti avvenuti nella vita delle donne, e quindi di tutti, entri nel merito solo per stigmatizzarlo. E ricondurre le donne al loro essere corpo e natura. Non è una tendenza isolata. La libertà delle donne suscita inquietudini profonde, se il premier francese Manuel Valls, per sostenere che le occidentali si spogliano perché sono libere, non ha trovato nulla di meglio che dire che la Marianna, il simbolo della Francia, è a seno nudo perché «lei nutre il popolo».
Inquietudini e rovesciamenti che investono in pieno la cultura che un tempo si definiva progressista. E soprattutto mettono a dura prova i femminismi. Sono molte le femministe che sostengono che l’essere madri è assecondare la natura autentica della donna, il suo essere corpo. Un ribaltamento di tutte le battaglie fatte. E se perfino Renzi riesce a dire che per favorire la fertilità occorrono interventi di sostegno sociale, non farsi ricacciare nella natura riguarda tutte. E tutti, perfino.
Riparto allora da un esempio dall’attualità. Sergio Marchionne, nel suo endorsement a favore della «deforma» costituzionale, così si è espresso : «Non voglio giudicare se la soluzione è perfetta, ma è una mossa nella direzione giusta e io sono a livello personale per il Sì, serve stabilità». A lui quindi non interessano i dettagli e neppure gli strumenti con cui affermare l’obiettivo che gli sta a cuore, ovvero quella stabilità del sistema politico che coincide con il rigor mortis della democrazia ma assicura libertà di manovra al mercato.
Si tratta di un obiettivo politico ambizioso, per il quale le classi dirigenti stanno lavorando da decenni, dal primo proclama della Mont Pelerin Society nell’immediato dopoguerra, passando poi attraverso i vari Gruppo Bilderberg, la Trilateral Commission, la Loggia P2, versione nostrana e un po’ maccaronica di quello stesso progetto fino al berlusconismo dal lungo corso e via dicendo.
Strada facendo quel disegno a-democratico e oligarchico si è fatto sempre più spavaldo. Ha avuto sempre meno bisogno di esprimersi all’interno di think tank, più o meno segreti o aperti a giornalisti embedded, e si è manifestato direttamente, attraverso la voce diretta degli attori economici dominanti e dei poteri finanziari. Così siamo giunti al famoso documento della JP Morgan del giugno 2013, vera matrice della «deforma» costituzionale portata avanti con intemerata energia dal governo Renzi.
Ma ciò non toglie che siamo di fronte a una potente e tenace costruzione politica, a un pensiero che si è fatto interprete degli spiriti animali del capitalismo nell’epoca della globalizzazione e del dominio della finanza.
Non si è trattato di semplice conservazione, ma di una rivoluzione restauratrice. Ovvero la categoria più alta della politica, cioè la rivoluzione, è stata curvata verso fini ad essa contrari. Di conseguenza il riformismo è diventato la foglia di fico di corpose controriforme.Ben scavato, vecchia talpa! Ci tocca riconoscere.
Il neoliberismo non si è mai privato, anche nei suoi momenti di massimo fulgore e non solo nella crisi attuale, dell’aiuto determinante dello stato. Le logiche di mercato da sole non ce l’avrebbero fatta. La prova sta proprio nel fatto che per prevalere esse hanno bisogno di smontare Costituzioni, violentare leggi elettorali, strozzare canali democratici, cancellare spazi giuridici internazionali e crearne dei propri (come si tenta di fare con il Ttip, oggi per fortuna ad una battuta d’arresto).
Senza rinunciare a colpi di stato, a dittature, a populismi rivoluzionari manipolati dall’alto nelle zone del mondo di maggiore frizione, tutto ciò viene fatto – almeno nei paesi a capitalismo maturo – prevalentemente con le armi della politica, solidamente fondata su una disgregazione del fronte sociale avverso, attraverso le modificazioni dell’organizzazione del lavoro e conseguentemente della società. Una politica da cui è stata espunta qualunque forma di dialettica, che quindi si pone l’obiettivo della distruzione della democrazia nella teoria e nella prassi.
Naturalmente questa politica subisce anche i suoi rovesci. Si scontra contro resistenze e resilienze. Non c’è un deserto pacificato. La stabilità si trasforma spesso in cronica instabilità, a tutti i livelli. Gli status e i confini delle e fra le cose si confondono o spariscono. Persino quelli tra la guerra e la pace. Metaforicamente si può dire che il mondo viva oggi in uno stato «quantico».
È a sinistra che invece si può parlare di morte della politica. Il che ha permesso alle destre, nelle loro variegate versioni, di affondare i propri colpi in un ventre molle.
Questo è accaduto per una sorta di rovesciamento delle parti. Mentre la destra pensava a come travolgere le regole e i confini di quel mondo che gli era stato consegnato dagli esiti della seconda guerra mondiale, la sinistra, non senza lodevoli e significative eccezioni, si prometteva di conservarlo, al massimo di fare opera di manutenzione, in qualche caso di troppo timida e fragile trasformazione.
Una costruzione troppo debole per reggere l’offensiva avversaria. Per di più minata dal frantumarsi di un modello di riferimento con la crisi autodistruttiva del cd. socialismo reale e contemporaneamente da una letale separazione della cultura dalla politica che ha costituito una versione capovolta di quel «tradimento dei chierici» di cui scriveva Julien Benda alla fine degli anni venti.
Se per cultura si intende ciò che una generazione storica trasmette all’altra come risultato della sua autoproduzione umana e che la seconda modifica e prosegue secondo le nuove condizioni, si avverte un vero e proprio iato attorno alla fine degli anni settanta. I nodi sono venuti al pettine alla fine dei «trenta anni gloriosi», che colsero la sinistra nella sua parte preponderante priva di strumenti analitici per comprendere il significato di quel periodo.
In Italia qualcosa si avvertì – si ricordino i convegni dell’istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano e europeo – ma troppo poco e non furono le analisi e le tesi migliori a prevalere. Non parliamo poi dell’incapacità di leggere la crisi attuale, sia nel suo sopraggiungere che nel suo svilupparsi.
Ora non si tratta di stringere i bulloni sulle vecchie viti. C’è un «a capo» da cui dobbiamo ricominciare. Ed è l’analisi concreta della situazione concreta a livello mondiale. L’elenco fatto da Burgio sarà parziale, ma è già prezioso. Il capitalismo galleggia – che altro è la stagnazione secolare di cui si parla? – sul fallimento del suo modello di società. Se sprofonda, in assenza di alternativa, trascina tutti con sé. Non possiamo quindi accontentarci di una «terza via» fra il pessimismo di un Robert J. Gordon, di cui ha parlato PierLuigi Ciocca, e la ripetitiva fiducia nelle «magnifiche e progressive sorti» dell’innovazione di un Alec Ross, consigliere della Clinton. Né possiamo farci imbrigliare da polemiche un po’ nominalistiche a proposito del carattere postcapitalistico (Paul Mason) o precapitalistico (Evgenji Morozov) di alcune esperienze produttive autonome e dal basso.
L’alternativa non può essere cercata solo nel campo della politica e una certa sperimentazione di nuovi rapporti sociali e produttivi va iniziata da subito. La politica ci è appunto indispensabile per legare nuove esperienze pratiche alla delineazione di una idea modello produttivo e di società.
Quando era ufficiale, Tolstoj ammonì un graduato che fustigava un sottoposto che non teneva la fila: «Non si vergogna a trattare così un suo simile? Non conosce il Vangelo?» E l’altro: «E lei, non ha letto i regolamenti militari?». Ma di «regolamenti» a sinistra si muore.
Gli altri articoli del dibattito:
Repubblica, 1 settembre 2016 (c.m.c.)
Il mito liberale e quello anarchico si incontrano in un punto: la possibilità e la desiderabilità che la società si governi da sola, senza un governo politico né una classe politica separata che ne diagnostichi i bisogni e imponga soluzioni.
Robert Nozick dedicò a questa utopia anarco-liberista riflessioni importanti e più che mai attuali. Pochi anni fa il Belgio riuscì a cavarsela egregiamente senza un esecutivo per un anno e mezzo. Oggi una simile situazione si ripropone in Spagna, dove la società civile sembra farcela molto bene pur senza un esecutivo che funzioni e con la prospettiva di una nuova tornata elettorale che, si spera, faccia uscire il Paese dal blocco del tripolarismo. Dallo scorso dicembre la Spagna è senza un governo stabile eppure, scriveva Ettore Livini ieri su Repubblica, non vi è alcuna catastrofe: il Pil cresce “a ritmi da tigre asiatica”, crescono i posti di lavoro, lo spread con i Bund è più basso di quello dell’Italia.
Certo, la deregulation è dominante, il lavoro è precario, e la sicurezza pensionistica un sogno. Eppure tutto sembra andare per il meglio, come nel paese di Pangloss.
Le discussioni politiche sulla necessità di governi forti corrono parallele alla cronaca di queste rare situazioni in cui sembra imporsi il mito di un apparato immateriale di norme condivise capace di tenere insieme la società con lacci meno arbitrari di quelli imposti dalla politica, dominata dalle volontà elettorali e dalle trattative tra i partiti. Ovviamente si deve presumere che la società sia coesa abbastanza da procedere pacificamente, con interventi coercitivi minimi o isolati. In tale condizione di forte omogeneità egemonica, la relazione tra governo politico e società civile può allentarsi. Questa è la premonizione del movimento liberista.
Commentando il collasso dei regimi socialisti e la conseguente consunzione delle ideologie politiche classiche nei Paesi occidentali, Francis Fukuyama sosteneva anni fa che queste trasformazioni post-democratiche avrebbero rafforzato la percezione che non solo non ci sarebbe stata alternativa al dominio neoliberale, ma inoltre che questo dominio sarebbe stato essenzialmente di natura non politica, capace di sopravvivere senza un governo centrale come quello messo in essere dagli Stati nel corso degli ultimi due secoli. Il declino della motivazione individuale a partecipare alla vita politica elettorale era secondo Fukuyama un fenomeno correlato al costituzionalismo funzionale di una società che si autogestisce. E gli esempi rari ma non irrilevanti come quelli del Belgio e della Spagna sono indicazioni conturbanti di quanto poco irrealistico sia il mito del nuovo ordine della self- governace society.
È interessante anche osservare come questi fenomeni eccentrici di autogovernance procedano paralleli all’argomento pressante a favore di esecutivi forti che vadano a correggere la democrazia parlamentare classica, iperpolitica e basata su una società strutturata per corpi intermedi e partiti. In entrambi i casi si auspica un minimalismo democratico.
Un’aspirazione che gli estensori del documento sulla Crisis of democracy per la Commissione Trilaterale avevano caldeggiato già nel 1975: per correggere una società civile troppo politicizzata e con una rappresentanza politica troppo direttamente nadprotagonista nelle scelte dei governi. Interrompere questo circolo vizioso tra società e politica era possibile, si legge nel documento della Trilaterale, correggendo il sistema istituzionale in senso esecutivista e nello stesso tempo liberando la società civile dai vincoli delle politiche redistributive e dallo stato sociale. Il minimalismo democratico è coerente con questo progetto di depoliticizzazione. In questa diagnosi, il declino della partecipazione nei partiti e nella politica elettorale non è soltanto desiderabile, ma segno della funzionalità dell’ordine sociale: l’apatia politica è indice di buona salute del sistema e di autonomia della società civile dallo Stato.
Tale concezione della governabilità nel volgere di pochi anni è entrata a far parte del discorso pubblico corrente, legata a un’idea secondo la quale gli individui sono meno desiderosi di associarsi, soprattutto in partiti, assorbiti dal perseguimento delle loro carriere. La politica è sempre più un orpello dunque e, come nel caso spagnolo, quasi il residuo di un mondo disfunzionale e antico.
Antonio Arroyo, 24 anni e una laurea in Economia aziendale mai sfruttata così sintetizza lo stato delle cose nell’intervista di Livini: «La politica ha fallito. Siamo orfani del bipolarismo. In questi giorni i partiti litigano persino su dove sedersi in Parlamento eppure le cose non vanno proprio male: da quando la Spagna non ha più medici al capezzale sta molto meglio!».
Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2016 (p.d.)
Quando è successo l'ultima volta?
Si preannuncia pericoloso?
Quale sarà il tuo itinerario?
Spiegaci cosa significa essere un toy smuggler, un 'trafficante di giocattoli'.
Come parte la missione?
Per la prossima missione quanti ne porterai?
Quando hai iniziato questa attività particolare?
C'è la storia di un bimbo che ti ha colpito in particolare?
Oltre ai giocattoli, porti anche altri aiuti?
Durante i tuoi viaggi in Siria, sei costretto ad assistere a scene inenarrabili, a incontrare gente che soffre; come si superano questi choc?
Cosa pensi della situazione attuale in Siria, ad Aleppo?
«Il nuovo saggio della filosofa femminista Judith Butler affronta l’irrompere dei movimenti sociali e del genere nel campo perimetrato dello stato nazionale. Ma ne rimuove l’irriducibilità alla teoria democratica del pluralismo e della rappresentanza».
Il manifesto, 31 agosto 2016
A ispirare l’ultimo lavoro della filosofa femminista Judith Butler – Notes toward a Performative Theory of Assembly (Harvard University Press, 2015) – sono i movimenti sociali che hanno attraversato le strade e le piazze del globo negli ultimi dieci anni. Le grandi manifestazioni dei migranti latinos negli Stati Uniti, Occupy Wall Street, gli Indignados, le «Primavere arabe» e Black Lives Matter pongono per lei domande fondamentali sulla democrazia. Questa non è semplicemente intesa come una forma di governo, ma è pensata nel campo di tensione tra la sovranità popolare e quella rappresentativa, tra le dinamiche del riconoscimento e una battaglia etica per estendere i confini della «riconoscibilità».
I protagonisti di questa battaglia sono soggetti «precari» che non godono della protezione del diritto né di sostegno economico e sociale da parte delle istituzioni e che, nonostante tutto, non sono ridotti alla paralisi politica della «nuda vita». Al contrario il loro assembramento nello spazio pubblico costituisce per Butler un momento capace di trasformare lo stato di cose esistente ponendo in questione le norme e le gerarchie che lo costituiscono. Butler stabilisce così un nesso tra la lotta contro la precarietà e la democrazia che sembra rispondere all’esigenza di pensare una politica di massa al di là dei confini dello Stato. Eppure, a ben guardare, la sua performance è ancora legata a una logica tutta moderna, che fa dello Stato l’autorità incaricata di sancire ogni trasformazione e dà per scontata la sua capacità di garantire una continua inclusione, persino all’interno delle coordinate globali che hanno drasticamente modificato il suo spazio d’azione.
Dentro e fuori la legge
La teoria approssimata in queste pagine attinge a quella della performatività di genere che attraversa la vasta produzione di Butler. Se il genere è l’effetto di una combinazione di poteri discorsivi e istituzionali che si impongono normativamente attraverso la ripetizione nel tempo da parte dei soggetti, l’iterazione di comportamenti difformi rispetto alle norme di genere è capace di alterarne la presa coercitiva. La performance è quel momento paradossale in cui l’atto di riproduzione di una norma è al contempo una deviazione dalla norma e una forma di resistenza. In quanto è sempre una negoziazione di potere, la riproduzione del genere esprime una tensione a estendere i confini dell’umano creando le condizioni affinché anche coloro che non sono conformi alla norma possano essere riconoscibili e apparire liberamente negli spazi pubblici e privati. Proprio perché investe le condizioni della «riconoscibilità» dei soggetti, la performatività di genere è legata alla precarietà.
Questa è la situazione di quanti sono esposti alla fame o alla morte violenta, alla violenza dello Stato o a quella che il diritto non può evitare o correggere. La precarietà non è semplicemente una condizione di lavoro, ma può riguardare anche il lavoro. Essa non coincide con la vulnerabilità – che indica la dipendenza costitutiva, per quanto storicamente definita, del soggetto dagli altri e dall’ambiente – ma è «indotta politicamente», è l’effetto di una distribuzione iniqua delle condizioni sociali, economiche e politiche necessarie a esistere e persistere. Come la performance di genere riformula o rompe le condizioni dell’«apparizione», così coloro che non sono riconosciuti perché non sono contemplati come soggetti all’interno di una specifica concezione normativa dell’umano diventano riconoscibili l’uno per l’altra incontrandosi nell’assemblea.
Le norme che regolano l’apparizione nella sfera pubblica e la loro rottura – come quella praticata dai migranti messicani che a milioni nel 2006 hanno manifestato negli Stati Uniti, sfidando l’invisibilità imposta loro dallo status di clandestini – diventano quindi il centro della riflessione di Butler: l’apparizione diviene performance nel momento in cui nessuna legge la tutela e la garantisce.
In questo quadro, lo spazio pubblico è per Butler il significante delle norme e gerarchie che organizzano la vita. Ciò che rileva in questo spazio non è tanto la parola, ovvero le rivendicazioni esplicitamente avanzate dalla collettività che scende in strada, ma il fatto che una pluralità di corpi si riunisca alla luce di una comune condizione di precarietà per contestarla.
L’organizzazione della «persistenza» dei corpi nello spazio pubblico – esemplificata dalla costruzione di dormitori e cucine da campo che hanno permesso ai manifestanti di rimanere in piazza Tarhir o a disoccupati e sfrattati di partecipare alle mobilitazioni degli Indignados – è una contestazione performativa del confine tra pubblico e privato, della divisione sessuale del lavoro, così come un’esposizione delle condizioni economiche e sociali che sono necessarie alla vita, che non sono riconosciute dalle istituzioni e che dovrebbero esserlo. Affermare che vi sia politica prima della parola significa criticare l’idea – che Butler discute attraverso Hannah Arendt – che la sfera della libertà cominci là dove termina quella della necessità.
Questa concezione non solo nasconde il lavoro riproduttivo, connotato sessualmente e razzialmente, necessario per consentire ad alcuni di liberarsi dal bisogno e prendere parola, ma anche disconosce la centralità del corpo come nucleo politico. Le rivendicazioni fatte in nome del corpo (protezione dalla violenza, servizi, nutrimento, mobilità, libertà di espressione) sono invece il presupposto e il segno di una prospettiva etica che pensa ogni soggetto nella sua relazione vitale e costitutiva con gli altri, con l’ambiente e con le tecnologie. La vulnerabilità, in questo senso, non è il nome di un’insuperabile debolezza, non è un principio di vittimizzazione, non coincide con l’inerzia della «nuda vita». Essa al contrario è il principio etico che consente un’azione collettiva che riconosce la dipendenza di ciascuno dagli altri e dal mondo e di contestare la precarietà rivendicando l’uguaglianza necessaria affinché ciascuno viva una vita buona.
La politica dei corpi prima della politica della parola permette a Butler di proporre un’idea dell’obbligazione etica fondata sulla precarietà. Questa è la condizione che ci lega oggettivamente a coloro con cui siamo riuniti in assemblea – che neppure conosciamo o con i quali potremmo anche essere in conflitto – o a tutti quelli che con noi abitano la terra, ma che non abbiamo scelto. L’obbligazione etica deriva dal riconoscimento dell’eterogeneità della popolazione terrestre con cui siamo in una relazione costitutiva, una relazione che ci impone di salvaguardare l’uguale diritto ad abitare la terra al di là delle differenze nazionali, razziali, religiose o di cittadinanza. Dalla coabitazione non scelta deriverebbe, in altri termini, una rivendicazione universalistica che prescrive istituzioni per le quali nessuna parte della popolazione possa essere «socialmente morta». Ciò impone inevitabilmente di criticare lo Stato-nazione, perché il nazionalismo si configura come ordine discorsivo fondato su «esclusioni costitutive», ma non conduce a una comprensione delle dinamiche transnazionali che oggi condizionano l’azione dello Stato o delle istituzioni che sarebbero chiamate a garantire il riconoscimento.
Così, mentre contesta la precarizzazione prodotta dalle «istituzioni governamentali ed economiche» e auspica istituzioni a venire che siano realmente capaci di inclusione, Butler tratta la precarizzazione come una sorta di «errore» contingente, che può sempre essere corretto attraverso la spinta performativa dei movimenti sociali. Proprio in quanto le condizioni della sua azione non sono sottoposte a scrutinio, lo Stato resta la controparte unica, necessaria e privilegiata dei movimenti sociali e la sua capacità di inclusione – quanto meno in crisi sotto la spinta del capitale globale – è semplicemente data per scontata.
La performance dei movimenti si risolve così per Butler in una funzione interna all’ordine sovrano. Questo può modificarsi e allargare i confini dell’inclusione, ma la logica del riconoscimento impone in ogni caso la necessità di un’autorità capace di metterlo in pratica. Per lei non sembra rilevante che il riconoscimento reciproco come uguali che ha, o dovrebbe avere luogo tra gli uomini e le donne che vivono la stessa condizione possa esprimersi in un rapporto con l’autorità caratterizzato anche dall’antagonismo anche radicale. Sebbene non pensi il «popolo» come figura identitaria ma come significante di una lotta costante per l’inclusione e come espressione della pluralità dei corpi che si assembrano pubblicamente, Butler propone un discorso tutto moderno sulla legittimazione democratica del potere costituito riducendo la performance a un momento, necessario benché problematico, della sua riproduzione.
La gabbia dell’universalismo
In questo ordine del discorso non trovano spazio la complessità e le contraddizioni che i movimenti sociali portano con sé. Per Butler non è rilevante la loro critica al capitalismo, alla politica e alla sua rappresentazione statale, né la possibilità che l’oggettiva e occasionale convergenza dei corpi si traduca in un progetto politico condiviso. Dare spazio al discorso dei movimenti sociali, d’altra parte, significherebbe farsi carico di tensioni che non sono facilmente riducibili al combinato di universalismo e pluralismo cui rimanda l’etica della precarietà. Dopo tutto, mentre mettevano in discussione la divisione sessuale del lavoro nelle cucine da campo, alcuni degli uomini di piazza Tarhir hanno cercato di impedire alle donne, anche attraverso la violenza, di prendere parte alla sollevazione. A Zuccotti Park, a Plaza del Sol, a Place de la République, all’interno di ogni movimento che abbia lottato e continui a lottare per l’uguaglianza, può affermarsi una considerazione patriarcale della libertà e del corpo delle donne.
Dare voce a queste contraddizioni senza affogarle nel pluralismo democratico è la sfida che ha di fronte ogni discorso che abbia la pretesa di essere espansivo, ovvero praticabile da chi, assembrandosi in massa, rifiuta la propria precarietà.
Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016
E' una fortuna che la Festa del Fatto a Roma si sia tenuta sabato e domenica, perché ieri è uscito un articolo del ragionier Claudio Cerasa, direttore del Foglio e noto scienziato della più moderna sismologia, che inchioda con dovizia di prove l’organizzatore occulto del recente terremoto e di chissà quanti altri passati: Salvatore Settis. Se l’articolo, putacaso, fosse uscito venerdì o sabato, le forze dell’ordine non avrebbero avuto altra scelta che irrompere al Foro Boario, circondare il nostro palco e arrestare il professor Settis lì davanti a tutti. Invece la cattura del putribondo untore sismico avverrà – ne siamo certi – nelle prossime ore, a festa ormai chiusa. Va da sé che, se avessimo appreso per tempo le responsabilità del facinoroso cattedratico, ben ci saremmo guardati dall’invitarlo alla festa. Ma, purtroppo, non si riesce mai a pensar male di certa gente ed è una fortuna che il giornalismo investigativo ci regali ancora pagine di denuncia di così alto valore civile. Già il titolo cerasiano è da Pulitzer: “Il sisma e i danni dell’Agenda Settis”. Ecco cos’era quel quadernetto che sabato gli abbiamo visto estrarre furtivamente, con fare sospetto, dalla borsa: l’Agenda Settis. Prima di sfoderare le prove a suo carico, il rag. Cerasa la prende un po’alla lontana: “Parte dell’opinione pubblica italiana tende a negare che possano esistere delle tragedie naturali, in cui non esiste altro colpevole se non la forza della natura”.
Sante parole: c’è un sacco di gente strana che si fa domande bizzarre, tipo perché in Giappone i terremoti di magnitudo 6 o 7 non fanno cadere un calcinaccio e non ammazzano neppure un moribondo, mentre da noi ogni volta è un disastro e una strage. Complottisti d’accatto, iscritti al “giustiziere collettivo, alla ricerca ossessiva di un capro espiatorio”. Incapaci “di accettare un dolore che non si può imputare a nessuno se non, come direbbe Giacomo Leopardi, alla ‘natura matrigna’” (segue citazione dal trattato di sismologia “A Silvia”). Siccome, “con tutta la tecnologia migliore del mondo, il terremoto non sarà mai a rischio zero”, è inutile cercare di ridurre i pericoli al minimo, costruendo case antisismiche. Anzi, molto meglio continuare a edificare con la sabbia e la cartapesta, anche se l’ideale sarebbe proprio tornare alle palafitte e alle capanne di fango, così si risparmia sui lavori e si mettono da parte i soldi per i funerali, che sono l’unica certezza della vita. Tanto prima o poi bisogna morire: chi può si porti avanti col lavoro, vuoi mettere la soddisfazione di crepare imprecando alla natura matrigna?
Chi poi cercasse altri colpevoli, distolga lo sguardo dai costruttori senza scrupoli e conservi lo sdegno per i veri responsabili: l’“internazionale del benecomunismo” che da decenni “inietta un virus nelle arterie del nostro paese”. Un virus che ci porta a pensare che “la modernità è un problema, il progresso ci ha corrotto e il ritorno al passato, allo stato di natura, quando tutti eravamo felici e non c’erano ogm, non c’era acqua privata, non c’erano treni ad alta velocità, non c’erano palazzi moderni costruiti ovviamente da affaristi e costruttori vicini alle mafie, è l’unica soluzione possibile”. Eccoci a Settis: il quale deve aver sostenuto da qualche parte – non sappiamo dove né quando, ma se lo dice il rag. Cerasa dev’essere vero – che senza ogm, acqua privata e Tav non ci sarebbero terremoti. E che “la colpa è sempre del progresso, mai della natura e mai tantomeno – come ha ricordato sul Foglio Umberto Minopoli – degli ambientalisti che hanno imposto al paese battaglie farlocche”.
Capito che fa, quel diavolo di Settis? Per depistare le indagini e occultare le prove delle sue colpe nei terremoti, non solo ignora gli scritti di Minopoli (il che è già grave), ma dà pure un’intervista al Fatto da cui il rag. Cerasa desume che “i terremoti creano danni perché l’Italia ha perso tempo a inseguire il progresso costruendo treni ad alta velocità”. Mentre è universalmente noto che l’unico antidoto ai danni sismici è fare migliaia di Tav. E poi cementificare e asfaltare tutto, pure i fiumi e possibilmente il mare, così ogni pioggerellina diventa alluvione. E sradicare quelle poche, orrende piante rimaste a frenare la libera iniziativa delle frane. La natura matrigna va privata di ogni laccio e lacciuolo per innescare il meccanismo virtuoso dei terremoti, delle alluvioni e delle frane, dunque delle ricostruzioni. Solo così si aiuta il progresso, la crescita e il Pil, rilanciando l’edilizia e un altro settore in crisi: quello delle casse da morto. Chi pensa che il progresso consista nel costruire o ristrutturare le case con le più moderne tecnologie antisismiche – come hanfatto in Giappone e in California, ma anche a Norcia, luoghi purtroppo contaminati dal più ottuso benecomunismo – si vergogni e arrossisca. Se le case non crollano e non si può più costruire sui greti dei torrenti, alle pendici dei vulcani e sugli orli dei burroni, dove andremo a finire?
A questo punto qualcuno si domanderà dall’alto di quale cattedra il rag. Cerasa insegni a vivere a Settis, noto incompetente che insegna archeologia da una vita, ha diretto la Normale di Pisa e il Getty Center for the History of Art and the Humanities, è membro dei Lincei e di una dozzina di accademie europee e americane, ha guidato il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, ha una Cátedra al Prado e presiede il consiglio scientifico del Louvre. Robetta, dinanzi al curriculum del nostro ragioniere che – come scrive di se medesimo – “lavora al Foglio da 10 anni, è interista, ma soprattutto palermitano, va pazzo per i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate”. Ma, soprattutto, “è su Twitter”. Settis gli fa una pippa.
La Repubblica, 30 agosto 2016 (c.m.c.)
L’intervento turco in Siria rende inevitabile una resa dei conti o quanto meno una chiarificazione diplomatica “energica” fra Ankara e Washington. Le truppe inviate da Recep Tayyp Erdogan sono entrate profondamente dentro i confini siriani, e avanzano verso Sud affiancando i ribelli anti-Damasco. Ma la zona dove lo sforzo militare è maggiore, con carri armati, artiglieria e cacciabombardieri, è in realtà controllata dalle Forze democratiche siriane (Sdf), una coalizione che comprende le milizie curde dell’Ypg e che era stata sostenuta dagli Stati Uniti contro gli integralisti del sedicente Stato islamico.
Quindi le vittime dei bombardamenti turchi — una quarantina, secondo le Ong siriane della zona — non sono uomini di Abubkar al-Baghdadi, ma militanti curdi. E il governo turco lo riconosce senza difficoltà, tanto che il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu accusa l’Ypg di voler realizzare una «pulizia etnica» nella zona e ammonisce i combattenti curdi perché si ritirino al di là dell’Eufrate.
Washington ha invitato l’alleato Nato a fermare l’offensiva, perché - ha detto Brett Mc-Gurk, inviato speciale della Casa Bianca per la lotta allo Stato Islamico - «questi scontri sono del tutto inaccettabili e fonti di seria preoccupazione ». A poco servirà anche il richiamo di ieri di Ashton Carter, segretario alla Difesa, perché l’azione militare turca si concentri sullo Stato islamico e non sulle forze Sdf. Ma lo stato delle relazioni fra Turchia e Stati Uniti non rende l’obiettivo particolarmente facile in questo momento. Anzi, è difficile non vedere nell’offensiva sul territorio siriano una sfumatura di provocazione da parte di Erdogan nei confronti dell’alleato americano, che non ha mostrato grande solidarietà nei giorni del tentato golpe e per il momento non sembra disponibile a estradare il presunto organizzatore, Fethullah Gülen.
Senza più troppi scrupoli verso l’atteggiamento dell’America, Erdogan sembra deciso a farla finita anche con i sogni dei curdi. L’attacco in profondità dovrebbe servire a ripulire la regione dai miliziani dell’Is, ma allo stesso tempo a evitare che siano proprio i curdi a riempire il vuoto nella zona accanto al confine turco. La prospettiva della nascita di uno Stato curdo è vista come inaccettabile dal governo di Ankara. La Turchia considera intoccabili i propri confini e dunque non accetta il rischio di una loro ridiscussione da parte della minoranza curda, che potrebbe essere tentata di “aderire” al nuovo Stato.
I fedelissimi di Erdogan hanno messo le mani avanti per evitare ogni ambiguità: «Nessuno ci deve dire quali terroristi possiamo combattere e quali no», ha detto il ministro degli Affari europei Omer Celik. E il premier Numan Kurtulmus ha sottolineato che le truppe turche non resteranno in Siria, «perché la Turchia non è un Paese di occupazione ».
Washington deve però evitare a tutti i costi una rottura grave con Ankara, tanto più adesso che Erdogan ha riaperto i canali di comunicazione con la Russia e con l’Iran. Così Barack Obama ha deciso di mettere sul piatto la sua credibilità personale in un incontro diretto con l’uomo forte di Ankara a margine della riunione del G20 alla fine della prossima settimana. Che questo basti a raffreddare l’irritazione del presidente turco, resta da vedere.
«Il merito delle riforme non conta nulla. La guerra è dichiarata per proteggere i simboli minacciati. E tutti i rappresentanti di accanite agenzie mondiali del denaro accorrono a difesa del simbolo diventato per loro più sacro di tutti: il potere in ultima istanza di sua maestà il mercato».
Il manifesto, 30 agosto 2016
Non poteva mancare la voce grossa del padrone che getta il suo pesante pullover blu sulla bilancia del referendum. «Marchionne è per il sì, personalmente» dice, parlando di sé, il manager di Detroit. Le truppe schierate per il governo sono molteplici, e impressionano per la loro potenza di fuoco: influenti giornali economici internazionali, grandi banchieri, spericolati finanzieri, Confindustria, cooperative arcobaleno. I poteri forti sono tutti in riga al presentat arm, altro che rottamazione strappata da un manipolo di ragazzi incontaminati.
Per garantire il controllo totale dell’informazione, già da un pezzo omologata alla narrazione del governo, è stata rimossa Berlinguer dalla tv pubblica e persino il battitore libero Belpietro è stato detronizzato dalla carta stampata privata. Oltre alle parabole immateriali dell’immaginario che si sintonizzano sulle frequenze dei media amici, il governo si avvale anche delle truppe di terra. La Coldiretti è stata arruolata per aggiungere un tocco di Vandea bianca, proprio della vecchia bonomiana, in una competizione che altrimenti avrebbe consegnato la difesa del governo soltanto ai signori della finanza e alle sentinelle del rigore.
La portata della battaglia è, dal loro punto di vista, palese nella sua drammaticità: il pericoloso risveglio di una sovranità dei cittadini contro la bella dittatura del denaro che neanche la grande contrazione economica è riuscita a scalfire imputandole i suoi disastri. Nel tramonto dei ceti politici europei, ridotti a maschere che giocano battaglie surreali (il costume da bagno sulle spiagge) e non osano ribellarsi agli ordini impartiti dal capitale per la potatura dei diritti di cittadinanza, il referendum è una delle ultime eccentricità, una dismisura, un intoppo che allarma non poco.
Qualcuno, per incutere timore agli elettori, dice che il referendum di novembre è ancora più importante di quello inglese per le sue implicazioni su scala continentale. Può essere, ma non perché il voto a sostegno della Carta evochi un salto nel buio. I cittadini, rigettando la negazione del principio della sovranità popolare nella designazione di un organo di rappresentanza, hanno la possibilità di rimediare al fallimento dei ceti politici europei che hanno strappato ogni apertura sociale e quindi lanciano il populismo delle destre come risorsa plausibile per i marginali, i perdenti, gli esclusi.
Si chiama “Scudo dell’Eufrate“ed è l’operazione militare lanciata oggi dalla Turchia nel nord della Siria: l’obiettivo è cacciare l’Isis dalla cittadina di confine di Jarablus e frenare l’avanzata dei curdi siriani del Ypg.
Immediata la replica di Saleh Moslem, il leader dei curdi siriani del Pyd, che su twitter scrive: “La Turchia è nel pantano siriano. Sarà sconfitta come Daesh”. Dello stesso tenore le parole di Redur Xelil, portavoce delle milizie curde Forze di difesa popolari (Ypg), che definisce l’intervento militare turco in Siria come “una palese aggressione negli affari interni siriani”. Xelil ha spiegato che la richiesta turca di ritiro a est dell’Eufrate delle milizie deve essere esaminata dalle Forze democratiche siriane, coalizione a guida statunitense contro l’Isis in cui il gruppo curdo è una parte importante. Per Ankara, però, sia il Pyd che le milizie del Ypg sono alleate del Pkk, considerate “gruppo terroristico“.
La Repubblica, 29 agosto 2016 (c.m.c.)
La tragedia di questi giorni, con il suo corredo di ricerca delle responsabilità, non per il terremoto, ma per le sue conseguenze evitabili in termini di distruzione e di morte, ci mette di fronte alle troppe semplificazioni con cui si è affrontata e si affronta tuttora, in vista del referendum, la riforma costituzionale, da parte sia di chi è a favore sia di chi è contro. Una delle “ragioni forti” avanzate dai sostenitori della riforma è che, superando il bicameralismo perfetto, si sveltirebbe il processo legislativo, rendendo più efficienti ed efficaci i processi decisionali.
Purtroppo le cose non stanno così. Qualsiasi siano i limiti del bicameralismo perfetto (e ci sono), il processo legislativo in Italia non è rallentato principalmente dalla necessità del doppio passaggio, ma da leggi scritte male, che richiedono “interpretazioni autentiche”, o che individuano male (per superficialità del legislatore, scarsa conoscenza dei fenomeni, cattivo uso delle informazioni) i propri obiettivi e perciò, inevitabilmente, li mancano. Si potrebbero fare diversi esempi in molti settori.
Il caso degli incentivi per l’adeguamento antisismico nelle zone a rischio è, ahimè, esemplare. Da un lato, ci si è affidati alla capacità e volontà dei comuni di informare e incoraggiare i propri abitanti circa questa possibilità, come se la sicurezza fosse un optional affidato esclusivamente all’iniziativa e predilezione privata, non parte di un bene comune di cui tutti siamo responsabili nelle nostre azioni.
Mentre un comune può decidere, in nome del decoro urbano, sul colore delle facciate e delle persiane e se e dove si può appendere il bucato, o anche di mettere le valvole per misurare il calore erogato, non può imporre a un cittadino, a un condominio, di mettere a norma antisismica la sua abitazione, tantomeno controllare se lo ha fatto.
Abbiamo visto come in uno dei comuni distrutti pochissimi avessero fatto richiesta dell’incentivo (e quei pochi sono stati beffati dall’incompetenza di un impiegato). Dall’altro lato, la legge che destina gli incentivi a chi abita nelle zone antisismiche esclude la detrazione del 65 per cento del costo di adeguamento antisismico per le seconde case. Ma nei piccoli centri spesso le seconde case sono la grande maggioranza (il 70 per cento secondo alcune stime), anche se sono divenute tali nel passaggio generazionale.
Lo abbiamo visto e sentito in questi giorni, apprendendo come molti dei paesi distrutti triplicassero ogni estate i propri abitanti, con chi tornava per le vacanze nella casa che era stata dei genitori o dei nonni, quando non si trattava di nipoti in visita dai nonni in attesa che ricomincino le scuole. Il ridotto numero di richieste per gli incentivi può essere in parte dovuto a questa esclusione, che di fatto ha considerato le seconde case un “non rischio” non solo per i loro proprietari, ma anche per i loro vicini.
Un altro esempio, sempre di drammatica attualità dato che riguarda come e da chi sono fatti i lavori, è la riforma degli appalti, cruciale per evitare costruzioni ex novo, o ristrutturazioni, fatte male per negligenza o delinquenza, come sembra sia avvenuto anche in edifici pubblici dei paesi coinvolti. Come si è ricordato su questo giornale, il decreto legislativo 50 è stato sì pubblicato il 19 aprile 2016 sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, nonostante si tratti già di un testo molto ponderoso, rimane un testo di fatto “vuoto”, perché mancano del tutto gli innumerevoli decreti di attuazione. È un fenomeno purtroppo ben noto nel processo legislativo italiano, dove molte leggi rimangono inapplicate non per dolo, ma per mancanza dei regolamenti necessari.
Più che ai guai del bicameralismo siamo di fronte ad un modo di legiferare bizantino, che rimanda sempre ad un altro passaggio, mentre nei vuoti si incuneano la negligenza, l’arroccamento difensivo della burocrazia (meglio non fare per non incorrere in sanzioni), quando non il malaffare. Sono questioni che non riguardano, ovviamente, la Costituzione e la riforma costituzionale. Anche se i “danni collaterali”, le distruzioni e le morti evitabili con una maggiore cura dell’ambiente e delle infrastrutture, con una più diffusa e capillare assunzione di responsabilità, hanno leso i principi costituzionali del diritto alla vita e alla sicurezza. Sono questioni che riguardano, appunto, il processo legislativo.
Mettere tutta l’attenzione sulla riforma costituzionale, come se lì si annidassero tutti i problemi o tutte le soluzioni, rischia di eludere quello che, a mio modesto parere, è il problema centrale del processo legislativo italiano, che andrebbe profondamente ripensato.
«“Rifondazione.it, 29.agosto 2016 (c.m.c.)
C’è voluta la dichiarazione del vice cancelliere tedesco e ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, per mettere la parola fine ai negoziati sul TTIP, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, di cui si è concluso nel luglio scorso a Bruxelles il 14° round negoziale.
In un’intervista alla rete ZDF Gabriel ha dichiarato che i negoziati sul TTIP sono «di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». Un colpo pesante a quei Paesi membri, Italia in testa, che del Trattato Transatlantico era sostenitori in prima persona.
«Una dichiarazione importante perché fa proprie le preoccupazioni della società civile europea e statunitense» dichiara Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia.«Ma c’è comunque da tenere gli occhi aperti: se Sigmar Gabriel sottolinea ciò che da anni hanno sostenuto Stop TTIP Italia e le altre campagne europee, questo non significa che non possa trattarsi di tattica negoziale. Capiremo cosa accade al Consiglio Europeo di Bratislava di settembre dove, tra l’altro, si parlerà anche del preoccupante Accordo con il Canada, il CETA, già approvato ma che grazie alle pressioni dal basso abbiamo ottenuto che venga ratificato anche dai Parlamenti nazionali, senza esautorare i nostri Parlamentari da una decisione così importante per l’economia del nostro Paese. Da Bratislava dovrà uscire un secco stop al TTIP e al CETA, come richiesto dalla maggioranza dei cittadini europei».
«La dichiarazione di Sigmar Gabriel dovrebbe aprire un serio dibattito interno all’Europa e al nostro Governo su come vengano decise le priorità politiche ed economiche» sottolinea Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma l’eventuale e auspicato blocco del negoziato TTIP non risolve il problema: l’accordo con il Canada ormai approvato va bloccato in sede parlamentare, facendo mancare la ratifica da parte di alcuni Paesi membri.
Hanno sempre presentato il CETA come precursore del TTIP: una sua approvazione presenterebbe molti dei problemi che il TTIP portava con sé, a cominciare dal dispositivo di tutela degli investimenti, la cui riforma non ci rassicura per nulla sulla tenuta dei diritti sociali e ambientali».
«Una buona notizia, emersa grazie a milioni di persone che si sono opposte e a una pressione dal basso che ha chiesto a gran voce di non derogare sui diritti e sulla qualità» dichiara Marco Bersani, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia. «Ma un risultato così importante per la società civile non deve farci dimenticare che serve un vero e proprio ribaltamento della politica commerciale europea, ad oggi basata troppo sulla spinta verso la liberalizzazione dei mercati e l’austerità, e troppo poco verso un processo realmente rispettoso delle persone e dell’ambiente».
Non solo fra i seguaci di Salvini ma anche in un pensiero comune, si levano segnali di insofferenza rispetto all’accoglienza riservata in Italia ai profughi e migranti, in relazione soprattutto ora alle condizioni di coloro che hanno subito i danni del terremoto. Se un noto quotidiano cerca di accaparrarsi acquirenti mettendo in copertina le foto contrapposte di “italiani” nelle tendopoli edeleganti migranti davanti ad un albergo commettendo semplicemente il reato di falsa informazione, più subdoli sono i meccanismi che penetrano in maniera viscerale negli ambiti meno informati della società.
Occorrono informazioni semplici per rompere questo meccanismo ed occorre anche fare proposte in avanti, che guardino alla prospettiva e non alla onnipresente emergenza. Proviamo in piccole pillole informative, utili a chi, magari al bar o su un autobus, voglia provare a smentire simili menzogne.
Una premessa, dei circa 111 mila richiedenti asilo o protezione umanitaria presenti in Italia al31/3/2016 (ultimo dato reso noto dal Ministero dell’Interno) oltre il 72% sono in strutture denominate CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) gli altri sono nei diversi centri che corrispondono diverse situazioni. Una parte è in case di accoglienza per minori, 23.000 circa sono nel sistema SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) altri nei CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza) negli Hotspot, nei CARA (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) nei CdA(Centri di accoglienza), meno di 250 sono nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) gli unici incui si potrebbe privare della libertà personale i migranti senza infrangere leggi fallimentari come la Bossi Fini. In realtà l’esperienza di chi ha visitato le altre tipologie di centro si rende conto di quantola libertà sia discrezionale.
Semplificando potremmo dire che esistono di fatto due sistemi paralleli dell’accoglienza, gli SPRAR, gestiti dagli enti locali e i CAS dalle prefetture.
Il sistema Sprar, per quanto in maniera non omogenea, è quello che si è rivelato migliore. Sono i comuni a decidere quante persone prendere, a chi affidare la gestione dei servizi e come impiegare le risorse messe a disposizione. I Comuni debbono anche contribuire direttamente a tale gestione,con il 5% delle spese, garantire accoglienza “integrata” (dai corsi di lingua alla formazione lavoro) rendicontare fino all’ultimo centesimo con fatture ogni spesa effettuata. Molti comuni hanno fatto lascelta meritoria di perseguire l’accoglienza diffusa, predisponendo appartamenti in cui piccoli gruppio nuclei familiari possano costituire una propria indipendenza e autonomia responsabilizzandosi nella gestione dello spazio. In tali contesti gli “operatori” non vengono percepiti come “guardiani” ma amici a cui relazionarsi per risolvere anche problemi di conflittualità, legati ai tempi di attesa per larichiesta di asilo, o semplicemente di sostegno alla costruzione di una normale quotidianità. Quando questo si realizza difficilmente c’è scontro con la comunità ospitante.
Il sistema CAS è invece più problematico. Si tratta sempre di centri (ce ne sono oltre 3000 in tutt’Italia ma il Ministero dell’Interno si rifiuta di rendere pubblico sia dove sono ubicati sia quale è l’ente che li gestisce). L’ubicazione la decide, sentiti magari gli enti locali, alla fine la prefettura. Lo scopo èduplice, da una parte i Comuni si chiamano fuori da qualsiasi responsabilità anche verso i propri elettori, dall’altra le prefetture hanno pressoché mano libera nel decidere sede del CAS ed ente gestore. L’ente gestore percepisce i 35 famosi euro al giorno per persona, senza dover documentarecome li ha spesi ma solo in base al numero degli ospiti. E qui viene il bello?
Chi ha inventato il sistema CAS? Si tratta del noto buonista e bolscevico Roberto Maroni, oggi Presidente della Regione Lombardia all’epoca (2011) ministro dell’Interno. C’era la cosiddetta Emergenza Nord Africa e Maroni istituì i CAI (Centri di Accoglienza per Immigrati). In nome dell’emergenza se ne fecero in ogni luogo e senza controlli e alcuni finirono anche, su richiesta dei proprietari, negli hotel in quel periodo vuoti, Da ricordare il caso di Monte Campione, in provincia di Brescia dove vennero ospitati oltre 200 migranti provenienti da Lampedusa e con indosso magliette e infradito quando la temperatura notturna a luglio era vicina agli zero gradi. Ma l’albergo era vuoto e “casualmente” la società che ne era proprietaria era la stessa che gestiva un famoso albergo Lampedusa in cui alloggiavano sottufficiali e ufficiali delle forze dell’ordine. L’imprenditoria padana anche di stampo leghista non considerava affatto una invasione questa ma un utile stimolo alla propria attività. Lo stesso ragionamento che farà una nota famiglia della criminalità organizzata romana continua ad esser pagata perché mette a disposizione un proprio albergo. Il “caro” Maroni(in senso di costoso) garantiva all’epoca 50 euro al giorno per ogni ospite ma la memoria è corta. Corta e poco pragmatica anche come Presidente di Regione che vorrebbe gli “sfollati” del terremotonell’ex Expo se non spostare addirittura i padiglioni verso le zone colpite dal sisma. Lo stesso Maroni che blatera dicendo che le case popolari se le prendono “gli immigrati” e poi ha tagliato del 50% i fondi per l’edilizia pubblica colpendo tutti i lumbard. Problemi di memoria o furbizia?
I soldi che vanno agli immigrati debbono essere destinati ai terremotati. Si, abbiamo sentito dire anche questo ma peccato che non si dicano alcune cose.
1) Che i soldi per l’accoglienza, oltre che dare lavoro a tanti concittadini, provengono dall’UE e a specifici fondi quindi non utilizzabili per diverse causali.
2) L’UE ha assicurato interventi anche per le zone terremotate, nessuna concorrenza quindi.
3) A tagliare i fondi per le emergenze, magari per comprare gli F35 o salvare le banche, non certo per darli ai profughi, sono stati i nostri governi che non sembrano essere composti da richiedenti asilo.
4) Viene il dubbio che chi tanto si accalora per contrapporre persone in disagio abbia avuto a chefare nel passato o magari aspiri a farlo in futuro, con l’affare della ricostruzione quella che, per dirla col cinismo di Vespa fa girare l’economia. Beh in perfetta malafede viene da pensare che gli occhi andrebbero puntati più che su chi vive in centri di mal accoglienza (a tal proposito si consiglia la lettura del rapporto Accogliere La vera emergenza redatto dalla Campagna LasciateCIEntrare) su chi ha realizzato costruzioni non a norma antisismica e si prepara a fare affari come nelle passate esperienze.
5) A dimostrazione che la legge non è uguale per tutti e che la memoria serve va fatta presente unanotiziola passata sotto silenzio. Dopo il terremoto dell’Emilia del 2012 ci sono ancora nuclei familiari nei container e non per propria scelta ma a cui stanno togliendo anche i pochi spazi di visibilità intorno mentre gli appartamenti promessi non sono ancora pronti. Si tratta esclusivamente di famiglie a basso reddito e nella quasi totalità di origine straniera.
Cosa si potrebbe invece fare? Per evitare tensioni anche comprensibili ma mai giustificabili quando si trasformano in istigazione all’odio razziale basterebbe poco. Basterebbe incentivare il sistema Sprar (quello dei Comuni) garantendo per esempio sgravi fiscali agli enti locali che ospitano o la possibilità di sforare i patti di stabilità che strangolano le amministrazioni. Nulla di rivoluzionario, ovviamente accanto al meccanismo premiale dovrebbe esserne previsto uno punitivo verso chi in nome del proprio diritto al lusso vorrebbe impedire ogni forma di accoglienza (cfr Capalbio).
Questo in una prima fase Occorrerebbe poi che chi ci governa invece di celebrare patetici rituali sulle portaerei al largo di Ventotene per sancire la fine dell’Europa sognata da tanti, ad esempio operasse per l’abolizione del Regolamento Dublino che obbliga le persone a fermarsi nel primo paese UE in cui si arriva, garantire di poter entrare in UE non con il solo stratagemma dell’asilo ma per ricerca occupazione, permettere a chi arriva da zone di guerra di non dover passare nelle mani dei trafficanti. Se accadesse questo (ma è impossibile con l’UE di oggi anche in questo frangente irriformabile) sarebbe più difficile per i tanti populismi xenofobi di cui è pieno il continente, riscuotere successo e lucrare politicamente anche dopo un terremoto.
L'autore èResponsabile immigrazione e pace Prc
. Il manifesto, 28 agosto 2016
Ho avuto un déjà-vu. Lo speciale di Rai1 sul terremoto ha preso nettamente le distanze dal copione consolidato di tv del dolore che, vampirescamente, cerca di estrarre audience dall’esibizione oscena della sofferenza dei morti, dei feriti, dei superstiti. Lo speciale era declinato in tutt’altra chiave.
La disgrazia è, in sé, un’opportunità. Sempre. Perché, in una crisi di consumi dovuta alla svalutazione dei salari, sposta la produzione dal voluttuario al necessario. Dove c’è guerra o morti ci sono consumi coatti: armamenti, ricostruzione edilizia. Ma anche casse da morto, ospitalità e catering degli sfollati, edilizia pubblica.
Una per tutte. La scuola antisismica di Amatrice, la cui messa in sicurezza aveva già rappresentato risorse per l’edilizia è nuovamente crollata per creare, bontà sua, nuovi posti di lavoro. Ed infatti, anche l’interlocutore di Vespa, il ministro Delrio, sembrava consapevole di quanto un governo in crisi debba essere grato alle catastrofi che possono cancellare, in nome della solidarietà, il conflitto sociale e capovolgere, con lo sfruttamento delle industrie della morte, la morte dell’economia.
Tutto questo era un déjà-vu, perché mi ricordava il cinismo di una commedia all’italiana d’epoca, tutta costruita sul personaggio poliedrico di Alberto Sordi, «Finché c’è guerra c’è speranza» in cui, un trafficante d’armi, trae dalla guerra le sue opportunità. C’è però una differenza. Il film era la denuncia del cinismo di un singolo. Qui il ministro Delrio ha dato all’equazione terremoto = opportunità il suo imprinting istituzionale dichiarando: «Oggi l’Aquila è il più grande cantiere d’Europa». E a ben vendere, in un’Italia che ha da tempo privatizzato le sue industrie pesanti, l’unica industria statale produttiva è stata, negli anni scorsi, la Protezione Civile di Bertolaso.
Le reazioni alla trasmissione si possono dividere in due gruppi.
Da un lato lo sdegno della rete che ha bollato Vespa di sciacallaggio. Dall’altro la reazione misurata della stampa che, se non ha ignorato l’evento, si è domandata invece dove risieda lo scandalo.
Vespa ha rivelato verità che qualsiasi economista potrebbe sottoscrivere. Anche Keynes. In una realtà economica ingessata da vincoli di bilancio sulla spesa pubblica, la spesa coatta che scaturisce dal terremoto, rappresenta comunque un’opportunità di lavoro.
Qual è la mia opinione in proposito? Non mi riconosco né nell’una, né nell’altra reazione.
Vespa non è cinico, è cinico il sistema che la trasmissione ha portato alla luce. La riprova è la difesa d’ufficio della stampa nei confronti di Vespa in quanto dice la verità. La verità è sempre legata ad una visione del mondo, un’episteme, uno spirito del tempo.
Rivelando le aspettative del potere in crisi, Vespa non è altro che il fanciullo che denuncia la nudità dell’imperatore, nella famosa favola. E lo fa strizzandogli l’occhio per dire «anch’io ho capito tutto».
Siamo di fronte all’ennesimo caso in cui l’opinione pubblica si spacca perché si muove sulla base di visioni del mondo diverse. La massa risponde ancora a quell’empatia che fa sì che ogni essere vivente, condivida con i suoi neuroni specchio le sofferenze del prossimo. Le élite rivelano invece uno spirito centrato sul bene supremo dell’economia.
Ci sono catastrofi che sacrificando il singolo, giovano alla comunità. Anche Bush, dopo l’11 settembre, ha parlato di opportunità. Ma sono queste le opportunità che vogliamo?
Da tempo abbiamo identificato la casta con chi spende e spande, con chi gira in auto blu e fa la cresta sui pranzi ufficiali.
Il senso è che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che, se questo mondo non funziona è per lo spreco e la corruzione.
E se invece cominciassimo a pensare che un mondo che sacrifica i cittadini per il bene dell’economia, non è il migliore dei mondi possibili perché offende i principi primari di solidarietà e altruismo?
Foucault ci ha insegnato che il potere non è altro che l’applicazione di una forma di sapere. Ha sottoposto a critica il potere che gli era contemporaneo denunciando la biopolitica, la politica sociale, impegnata a mantenere la vita del cittadino ad ogni costo, come una forma di assoggettamento e controllo.
Ma non è forse peggio un sapere che non privilegia la vita di fronte all’esigenze superiori dell’economia?
Vespa da portavoce del sistema ha il pregio di esprimere sempre lo spirito del tempo nella sua nuda realtà. Ed è in grado di farlo perché ha da tempo accantonato l’ipocrisia di chi vuol compiacere le masse.
Ma le masse hanno a loro volta la colpa di essersi adagiate sul pensiero unico. Di fronte ad eventi che squarciano la coltre di retorica di cui il pensiero unico si ammanta per sopravvivere, ci sono due possibili reazioni. O invochiamo censura e repressione nei confronti dell’oscenità del reale, per continuare a vivere con la testa conficcata nella sabbia. O decidiamo che questo non è il migliore dei mondi possibili e nemmeno l’unico mondo possibile, e cominciamo a pensare ad un’alternativa.
C'è un giudice a Parigi: «un grave attentato, manifestamente illegale, alle libertà fondamentali che sono la libertà di spostarsi, la libertà di coscienza e la libertà personale».
Il manifesto, 27 agosto 2016
La decisione è stata presa dai tre giudici del collegio esaminante e dispone l’annullamento dell’ordinanza del Tar di Nizza che convalidava quella del comune della Costa azzurra. A Villeneuve-Loubet, indossare abiti religiosi in spiaggia è di nuovo autorizzato a partire da ieri. Tutto questo dopo l’irruzione dei poliziotti che avevano intimato a una donna di togliersi il burkini; un’immagine che nei giorni scorsi aveva fatto il giro del mondo.
Negli altri comuni che hanno adottato la stessa decisione - una trentina - i divieti restano in vigore fin quando non saranno contestati davanti alla giustizia. La presa di posizione di ieri potrebbe portare all’annullamento di tutti gli altri divieti ancora esistenti.
«Rischia di essere letto in modo frammentario perdendo di vista il significato del viaggio: dagli abissi più terribili alle difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico».
La Repubblica, 27 agosto 2016
È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, Il viaggio di Dante (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto. È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante — non è un mistero per nessuno che la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria — episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito…).
Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante…). Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, — e anche nel senso più letterale del termine — la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale. Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè… Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?). Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, — come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, — infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, — Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice — trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno. Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare. Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, — di tutto il mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, — quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, — senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre tutti, — non solo i pretesi o presunti specialisti, — un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.
«Emergency è un luogo in cui cura e attenzione alle persone si legano alla «bellitudine», anche in zone di guerra».
Il manifesto, 27 agosto 2016 (p.d.)
La «bellitudine» è qualcosa di diverso dalla bellezza, è una parola «sporca», imperfetta, che accoglie le asperità della vita, non ha l’eterea distanza della bellezza. La «bellitudine» sintetizza quello che per noi significa coniugare etica ed estetica.
Ci si stupisce sempre quando si parla di bellezza in progetti d’emergenza come quelli realizzati da Emergency, in realtà ci si dovrebbe stupire del contrario, del perché un ospedale in Africa, in un luogo di guerra, o in una tendopoli post terremoto non dovrebbe essere bello? Non vi è alcun motivo razionale alcuna giustificazione pratica. È semplicemente una questione di cultura e attenzione.
Per questo ci piace parlare di «bellitudine» perché la parola bellezza è troppo «scivolosa», chi decide cos’è bello o meno, in base a quale criterio?
«Bellitudine», invece, si toglie da questa secolare disquisizione, è qualcosa d’altro, più sottotono, modesto: è semplicemente cura delle cose, dei dettagli, delle proporzioni, amore delle persone, in sintesi rispetto. Dal rispetto non può che nascere qualcosa di bello, non può essere altrimenti.
Si è discusso per secoli di bellezza. Alla fine se ne è parlato talmente tanto che ci siamo dimenticati di cosa sia veramente la bellezza. Allora, inventare una nuova parola ci toglie d’impaccio e ci permette di tornare a parlare di bello senza tanti patemi.
In questa prospettiva i progetti «belli» partono da un principio di giustizia. Partono dal presupposto che stare in un luogo, pulito, curato armonioso, anche creativo sia una sorta di diritto.
Non è una questione di costi ma di cultura. La progettazione in zone di crisi ha a che fare con il futuro e non si può che immaginarlo migliore del presente, non avrebbe senso pensarlo altrimenti.
Il futuro ha il respiro ampio dell’utopia non ha nulla a che fare con l’emergenza, deve superarla e basta.
Sono utopie molto concrete: tre alberi in un campo profughi in mezzo al deserto, una parete colorata nel mezzo del grigio di una periferia, un edificio pulito nel mezzo del degrado che sia il post terremoto o il campo profughi, aiuterà le persone ad uscire dalla crisi, dalla disperazione, l’architettura aiuta ad immaginare un futuro (possibilmente migliore).
La «bellitudine» diventa così pratica concreta nei progetti di Emergency, parte dal rispetto delle persone, dei loro diritti di vivere in un luogo accogliente che sia nell’ultima delle periferie, in un campo profughi, o in mezzo alla nuova povertà.
« La Repubblica, 26 agosto 2016 (c.m.c.)
Oggi, a metà agosto 2016, leggo che sono già 2500 i migranti annegati nel Mediterraneo tra gennaio e maggio, un terzo in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E leggo anche che da gennaio in Francia sono morte 68 donne, uccise dai loro compagni o dai loro ex senza che la notizia finisse mai in prima pagina, giusto un caso di cronaca come tanti. Queste statistiche, che sembrano avere in comune soltanto la morte di esseri umani e l’indifferenza, l’accettazione fatalista che essa provoca, mi sono tuttavia parse, in maniera intuitiva, meritevoli di una riflessione.
In quanto donna che sa quanto sia stato lungo il cammino fatto per ottenere l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, che si è rallegrata di vederla figurare tra i “principi fondamentali” dell’Unione Europea, mi sento spesso preda di turbamenti, e scoraggiata. Ci si dice, dati alla mano, che le ragazze hanno un tasso di successo scolastico superiore a quello dei ragazzi, che svolgono ogni professione, che sono “presenti” dappertutto, come se ancora non si trattasse di qualcosa di scontato.
Ma presenti quanto, come? Queste giovani donne con più titoli di studio dei loro colleghi scompaiono per incanto prima di varcare la soglia degli uffici dirigenziali, nelle imprese, in politica, nei consigli di facoltà, nelle giurie letterarie. La lista è lunga. Quanto a quelle che, in maniera comparabile agli uomini, sono riuscite a realizzarsi come ministre, artiste, scrittrici, registe, umoriste, imprenditrici, arriva sempre un momento in cui tutte, chi più chi meno, provano l’impressione confusa di non essere considerate nei rispettivi ambiti “legittime” o “credibili” quanto i loro omologhi maschili, spesso a causa dei modi accondiscendenti, dell’eccessiva confidenza, nonché talvolta della violenza verbale cui sono esposte. Una violenza verbale che risulterebbe scandalosa se a farne le spese fosse un uomo, una violenza che riduce le donne ai loro corpi, le essenzializza.
Edith Cresson, la sola donna che finora abbia ricoperto l’incarico di primo ministro in Francia, constatava: «Se un uomo urla davanti all’Assemblea nazionale si dice: che oratore! Se a farlo è una donna si dice: guarda che isterica!». Non sopportando di essere vittimizzate, il più delle volte queste donne, e ne faccio parte anch’io, oppongono alle aggressioni la loro calma e la loro forza. Ma non fraintendiamoci: ciò che davvero sottintendono questi attacchi è la “normalità” implicitamente riconosciuta del potere maschile, nella sfera pubblica ma anche in quella privata.
Una normalità che autorizza l’accondiscendenza e le frasi umilianti, ma anche — derivanti da un’identica sensazione, dalla convinzione di poterlo fare — i palpeggiamenti, gli stupri e le violenze coniugali. Una normalità che comporta il silenzio di chi la subisce, e l’indifferenza dei media. Per fare i conti con questa realtà abbiamo avuto bisogno che, 13 anni fa tra qualche giorno, morisse un’attrice celebre, Marie Trintignant, per le percosse del suo altrettanto celebre compagno, il cantante Bertrand Cantat: non c’è donna che sia al riparo dalla violenza fisica maschile, fino a morirne.
Qual è il legame tra quanto di peggio possa capitare a una donna — questa espressione estrema di un’egemonia maschile manifesta e condivisa — e i naufragi di migranti nel Mediterraneo? Cercando di vederci più chiaro su quanto mi è venuto da collegare intuitivamente, direi che in gioco c’è il posto delle donne all’interno di un’Europa che si sta via via trasformando in una fortezza. A nessuno sfugge il ripiegamento dei Paesi europei sulle proprie identità nazionali, né il fatto che i migranti vengano percepiti nel migliore dei casi come un “problema”, nel peggiore come un “pericolo”.
Ora, nella Storia il nazionalismo è sempre stato accompagnato da valori virili, in primo luogo quello dell’autorità. Il richiamarsi a un ordine “naturale” e il ritorno alla tradizione, qualunque essa sia, sono sempre andati a svantaggio delle donne, in un modo o nell’altro. Alcune conquiste sono fragili: lo è il diritto alla contraccezione, lo è il diritto all’aborto. E aggiungerei anche il matrimonio omosessuale, a sua volta accusato da chi gli si oppone di essere contro-natura.
Assisto all’avanzata di questa ideologia conservatrice e intollerante giorno dopo giorno. Anche la cronaca francese di questi giorni me ne offre un esempio, insidioso e ingannevole: il divieto di indossare il burkini, emanato e difeso da sindaci — maschi — che lo giustificano adducendo, tra i vari pretesti, anche quello del femminismo, ergendo insomma il bikini a vessillo della nostra libertà.
L’inganno sotteso è quello di avallare in nome della libertà delle donne un tipo di provvedimento che conduce all’esatto contrario, dal momento che proprio a delle donne impedisce di vestirsi come vogliono nello spazio pubblico di una spiaggia. Il provvedimento ha suscitato un dibattito nazionale, cosa che apparirebbe surreale se non fosse evidente che si tratta di un’altra zuffa per il controllo del corpo femminile: è questo il punto a cui siamo nel 2016.
Non posso terminare questo mio breve contributo alla celebrazione di quel manifesto di Ventotene che ha gettato le fondamenta dell’Unione Europea se non auspicando l’avvento di un’Europa sociale e aperta, rivolta verso il mondo, un’Europa che sia la migliore garante della libertà delle donne.
«"». Il manifesto,
Si potrebbe rileggere buona parte della teoria politica del secondo Novecento, non solo marxista, attraverso le interpretazioni di quello straordinario intellettuale e militante che è Antonio Gramsci. Tra gli studiosi italiani più attenti ai mille volti della sua fortuna, Michele Filippini ha recentemente pubblicato il volume Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società (Carocci, pp. 264, euro 26,50).
Uno studio tanto accorto nel ricostruire le diverse tappe teoriche dell’intellettuale comunista, quanto consapevole che l’opera interpretativa è sempre anche una traduzione politica. Filippini analizza i passi dell’opera gramsciana dedicati all’analisi dei mutamenti nel sistema produttivo capitalistico, collocandoli nel contesto della crisi dell’ordine liberale europeo e del progressivo imporsi di una società di massa.
Due sono i temi al centro di questa indagine. Il primo è la scoperta della politicità della sociologia e delle nuove scienze sociali, e quindi il confronto che Gramsci istruisce con autori come Durkheim o Weber. Infatti, pur svolgendo essenzialmente la funzione di consolidare e sostenere la nuova disciplina sociale borghese, questi nuovi saperi gli rivelano le dinamiche specifiche della società di massa e i mutamenti indotti dal nuovo sistema sociale fordista.
Il secondo è l’emergere nel «fordismo» di un nuovo tipo-umano che non è solo il prodotto delle nuove dinamiche produttive, ma è anche il punto di partenza di una nuova teoria marxista della rivoluzione. In questa duplicità di sguardo, Filippini si sofferma quindi sui rapporti di continuità e di opposizione tra le forme del disciplinamento capitalistico e le istanze di autodisciplina operaia.
Gramsci è consapevole che lo studio dei mutamenti indotti dall’irruzione delle masse sulla scena politica mondiale richiede strumenti analitici nuovi. Questo perché l’adesione organica dei partiti di massa alla vita delle masse necessita di «filologia vivente», ossia della capacità di compartecipare attivamente e consapevolmente ai nuovi «sentimenti popolari». Per dotarsi di questa filologia vivente, Gramsci fa propria un’idea di equilibrio proveniente dal confronto teorico tra Bucharin e Bogdanov.
Nell’assumere questo tema, egli però sostituisce al lessico meccanicista di un certo marxismo sovietico alcune suggestioni che gli provenivano dall’organicismo di una parte rilevante della sociologia francese del tempo. In tal modo, egli può studiare la società borghese sia dal punto di vista delle «regolarità», sia da quello delle sue intrinseche divisioni. Gramsci coglie così due grandi processi storici: il prevalere delle politiche di piano sull’iniziativa individuale ed il ruolo crescente degli organismi direttivi collettivi (in particolare i partiti) nella vita politica e sociale. Il futuro del movimento comunista è nella capacità di far convergere l’uso della forza soggettiva-collettiva (il partito) e di quella oggettiva (le nuove forme sociali della produzione e della riproduzione fordista) intorno al tema, per noi ancora decisivo, del «soggetto produttivo».
Gramsci è anche impegnato a contrastare le tesi «elitiste» di Mosca, Pareto e Michels per rivendicare una classe politica, e un partito, che non siano separati ma «organici» al proletariato. Il concetto di organicità è decisivo per comprendere l’insieme delle riflessioni gramsciane sulla società di massa, nonché le relazioni tra le idee di blocco storico, di ideologia e di egemonia. Infatti, l’ideologia intesa come «unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme (Q. p.1378)», non deve essere ridotta alla rappresentazione mistificata dei rapporti di potere, ma costituisce una rete di idee e di comportamenti che dà ordine al sociale.
Al blocco storico borghese è allora necessario opporre un più organico rapporto tra partito e masse costruendo e affermando un orizzonte ideologico alternativo. Determinante in tal senso è la funzione di connessione tra Stato e società esercitata dagli intellettuali. Altrettanto lo è, però, la capacità di conformazione delle società di massa che si fonda sul nuovo tipo umano «fordista» subentrato all’individuo liberale.
Le trasformazioni nel processo sociale di produzione impongono una diversa disciplina del lavoro che comporta un più complessivo disciplinamento della società (l’americanismo, in tal senso, altro non è che una declinazione specifica del fordismo). Filippini sottolinea che Gramsci è però attento a segnalare come quest’opera trovi un limite nell’impossibilità dei lavoratori di modellarsi fino in fondo a questo nuovo tipo umano. Nella società capitalistica il nuovo homo oeconomicus non ha, e non potrà mai avere, un carattere definitivo e pacificato. Le spinte a favore di un pieno disciplinamento della società di massa si scontrano quindi con l’ingovernabilità di una forza lavoro che vive questa spinta alla conformità come un’imposizione.
Compito del movimento comunista è allora quello di dare corpo ad una nuova e più effettiva «disciplina interiorizzata» che vive della partecipazione volontaria di ognuno a un nuovo ordine da costruire collettivamente. Un’esperienza di libertà che deve però saper assumere le forme collettive e organizzate della produzione di un «ordine nuovo».
Questo studio ci mostra un Gramsci che dialoga con le scienze sociali borghesi, interessato ad assumerne alcuni snodi problematici per renderli parte di una nuova scienza socialista. Ricordandoci come molte delle questioni che attraversano il nostro confronto quotidiano – l’homo oeconomicus come soggetto produttivo, la produzione capitalistica come produzione sociale, le forme dell’organizzazione politica di massa – attraversano tutta l’opera gramsciana. Un’opera che resta tra i più importanti strumenti di interpretazione e di cambiamento del mondo a nostra disposizione.
«Non è forse questo il dramma della sinistra? L’aver pensato che, una volta occupato il Palazzo, quello stesso linguaggio usato dagli avversari avrebbe assunto un significato diverso. Bastava, in una parola, prendere il potere e il mondo sarebbe cambiato».
Il manifesto, 24 agosto 2016, con postilla
L’articolo-appello di Valentino Parlato (Economia e politica, una crisi mai vista, il manifesto dell’11 agosto), è un grido di appassionata disperazione (mi si consenta il termine in una accezione non disfattista) contro la «morte della politica, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente». Un pur fugace raffronto con altri tempi (quello dei Togliatti, Nenni, La Malfa e perfino De Gasperi), appare impietoso, fuori misura – sostiene Parlato -, tanto quella attuale è un’epoca di tristi ed effimere passioni, oltre che mediocri figure.
L’articolo denuncia la crisi culturale che accompagna la morte della politica, quasi non si riuscisse più a rappresentarla con la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, i linguaggi con i quali, in passato, sono state raccontati periodi di crisi (si cita, ad esempio, Furore di Steinbeck, a proposito della Grande Crisi del Ventinove). Come ci rappresentiamo oggi? In che modo raccontiamo noi stessi e l’epoca che attraversiamo?
Solo raramente la letteratura, il cinema, l’arte in generale, riescono oggi a raccontare o rappresentare con efficacia vissuti di fragilità, storie minori di comunità accoglienti, piccoli (ma importanti) episodi di solidarietà. Queste narrazioni svolgono una funzione sociale salutare, restando però minoritarie, frammentarie, così che solo in qualche caso sono capaci di indicare, indirettamente, altre strade che la politica potrebbe percorrere, fuori dal rumore delle grandi ideologie, dei dibattiti estenuanti sulla sinistra che non c’è ma che vorremmo.
Nel frattempo, le casematte gramsciane del pensiero critico – scuola e università – venivano occupate, smantellate, convertendole alla più perversa delle ideologie liberiste: quella della valutazione di qualità, del cosiddetto merito individuale misurato a suon di indicatori partoriti da fantomatiche agenzie private.
Non furono i rappresentanti del pensiero liberista a compiere questi misfatti: l’iniziativa fu intrapresa ad opera di politici della sinistra che in un sol colpo cancellarono l’eredita di don Milani, a dimostrazione che l’avversario non veniva da lontano; nasceva e cresceva nel solco della stessa cultura di sinistra.
Fare politica in modo nuovo significa allora rifiutare innanzitutto di assumere le stesse modalità di ciò che si vuole combattere, dice Michela Murgia nel suo ultimo libro dal titolo polemico Futuro interiore. Rifiutare quella logica stringente e perversa del fare, altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi nei luoghi in cui si deve decidere facendolo nell’unico linguaggio che sarà rimasto per farlo e che è quello stesso da cui ci si voleva liberare.
Non è forse questo il dramma della sinistra? L’aver pensato furbescamente, ad esempio, di condizionare i “miracoli” dell’economia finanziaria usandola a proprio vantaggio o l’aver pensato che, una volta occupato il Palazzo, quello stesso linguaggio usato dagli avversari avrebbe assunto un significato diverso. Bastava, in una parola, prendere il potere e il mondo sarebbe cambiato.
Non è ancora questo che si pensa delle Olimpiadi? A sinistra si dice che sono quasi sempre gestite male, ma che se a farlo fosse la sinistra diventerebbero un’opportunità eccezionale; ecco il miracolo! Di più, basta assistere a una qualche discussione politica di qualche nuova sinistra nascente in occasione di elezioni politiche, per capire subito quanto il linguaggio, i metodi e le astuzie usate appartengono al passato respingendo chi si avvicinasse con curiosità e magari speranza.
Questo delirio di onnipotenza e di supponenza ha avuto come esito lo sradicamento totale dell’idea stessa di un’altra possibile via; vale per la l’idea di crescita, di sviluppo, per la globalizzazione e perfino per l’idea di progresso. Miti e riti che rimbalzano da sinistra a destra e viceversa, con gli stessi contenuti, come se a cambiare loro il segno spettasse al Conduttore.
E così la vulgata machiavellica del fine che giustifica i mezzi ha scatenato la ricerca del compromesso ad ogni costo fino alla perversione della sinistra stritolata dalla sua stessa misera furbizia.
Un delitto perfetto dal momento che omicida e vittima sono la stessa persona. Così oggi scopriamo che tanti compagni non nutrono simpatie per i migranti, che condividono l’idea di supremazia dell’Occidente, che hanno una cultura sessista, che sono fiancheggiatori del Mercato, del Privato, che ci hanno concesso la libertà assoluta di avere tutto ciò che desideriamo, che, ancora, tanti compagni mandano i figli a studiare alla Bocconi, mentre con l’altra mano firmano petizioni a favore dell’università pubblica.
E’ mancata una rivoluzione culturale all’altezza della crisi né se ne intravedono segnali. Tanto più allora è da prendere in considerazione la proposta di Parlato quando, dalle pagine di questo giornale, sollecita «una discussione che mobiliti e apra una battaglia culturale e politica». Quali che siano state le colpe e gli errori del passato e quali che siano le difficoltà del presente, esse non ci possono esimere dal prenderci le responsabilità di sognare un futuro diverso.
Ma, per farlo, sforziamoci di utilizzare un linguaggio nuovo, nuovi modi di dialogare tra noi; utilizziamo il linguaggio della tolleranza e della pazienza, considerato che all’orizzonte non si intravedono nuovi profeti che ci salvino dal naufragio in corso.
postilla
L'errore di puntare al potere per il potere è cominciato con D'Alema ed è giunto al punto terminale con Renzi; più giù c'è solo il fascismo. Per costruire una realtà politica e sociale che svolga nel XXI secolo un ruolo simile a ciò che fu la sinistra dei secoli sorsi (cioè una forza antagonista al sistema dominante) occorre saper affrontare problemi nuovi (dall'equilibrio tra uomo e ambiente all'esodo dai Sud ai Nord del mondo) e occorre insieme individuare (e saper mobilitare) una nuova base sociale di riferimento. Il mondo degli sfruttati è oggi diverso da quello dei secoli passati. Hic Rhodus, hic salta .
Il manifesto, 24 agosto 2016 (p.d.)
Questo predominio dei rapporti di forza viene mascherato dall’ideologia neoliberista del mercato e dall’esaltazione del merito. Ma chi giudica del merito altrui? Questa situazione viene percepita come un regime di generale insicurezza che spinge le persone a ripiegarsi su se stesse; a rifugiarsi in un’identità, nazionale, culturale o comunitaria fittizia; come le “radici celtiche” ai tempi di Bossi, quelle “giudaico-cristiane” di Giuliano Ferrara (ma, ovviamente, non solo sue), quelle “british” riemerse nel Regno unito, o il primatismo bianco dei sostenitori di Trump. Di fatto, spinge sulla strada di un crescente razzismo, dapprima inconsapevole, poi sempre più esplicito, da cui è difficile tornare indietro.
Ma rinchiudendosi su se stessi non si sfugge alla legge ferrea della competitività, che continua a dominare anche nelle enclave nazionali, etniche e comunitarie in cui si cerca riparo. Qui produce soprattutto diffidenza: fa del nostro compagno di lavoro un concorrente, del nostro vicino di casa un possibile aggressore, di una donna libera un’aspirante al tradimento, del nostro ex-uomo un potenziale femminicida, dei nostri figli degli usurpatori… È quello stesso meschino sentire autocentrato che ci spinge a disinteressarci sia delle guerre che crescono ai confini dell’Europa, e di cui i nostri governi portano pesanti responsabilità, sia dei profughi che esse generano insieme al dissesto ambientale che spesso le precede e sempre le segue.
Paghi del fatto che in fin dei conti “si ammazzano tra di loro” (ce ne preoccupiamo solo se quelle guerre arrivano a casa nostra sotto forma di terrorismo) e che, se Stati ed eserciti occidentali intervengono, è per legittime operazioni di “polizia internazionale” di cui farsi un merito. Come se non ci fosse “competitività”, e nelle forme più estreme, nella promozione e nella gestione di quelle guerre. In questo modo la dimensione esterna, internazionale, della globalizzazione e quella interna, l’individualismo esasperato, si avvitano in una spirale: in un mondo di orrori.
Impossibile cambiar rotta senza sovvertire la visione del mondo che mette al centro i totem della competitività e del merito, sostituendola, a tutti i livelli, con pratiche, progetti e rivendicazioni improntate a solidarietà e collaborazione. Ma da dove cominciare? Da ciò che sta al centro dello scontro politico, sociale e culturale di oggi, quello da cui dipende il destino dell’Europa: l’accoglienza.
«Non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo» aveva detto Michel Rocard, oggi ripreso da coloro che cercano di dare alle politiche di respingimento un’apparenza di realismo. Nel 2050 – aggiungono – in Africa ci sarà un miliardo di esseri umani in più: se apriamo e porte verranno tutti qui. Certo, tutta la miseria del mondo non possiamo accoglierla: va distribuita equamente per combatterla ovunque. Ma un po’ ne possiamo accogliere. E molta di quella miseria è già qui. L’abbiamo creata noi, senza bisogno di importarla: nei ghetti urbani, con la disoccupazione e il precariato, con i working poor, con le nuove povertà, nell’abbandono dei giovani. Dobbiamo forse respingere altrove anche questa? E dove? E come? Non è che milioni di cittadini europei sono disoccupati o emarginati perché il loro posto, o il loro welfare, o le loro case vengono dati ai profughi. È che si respingono profughi e migranti (o li si tiene a far niente in isolamento, incattivendoli e suscitandone il risentimento) perché si è già verificato che quelle stesse cose si possono fare a milioni di europei. Il riscatto degli uni non può avvenire senza quello degli altri.
Comunque, quel miliardo di esseri umani “in più” non cercherà di venir tutto da noi. Non tutti i profughi dell’Africa e del Medioriente, costretti a fuggire da guerre, miseria o dissesti ambientali, imboccano la via dell’Europa; se possono si fermano il più vicino possibile ai luoghi da cui sono fuggiti, sperando di tornarvi. La maggioranza di loro riempie i campi dei paesi vicini e non i gommoni che cercano di traversare il Mediterraneo. Poi la migrazione verso le città, come quella verso l’Europa è selettiva: partono, con le risorse di intere famiglie, contando di procurarsi un reddito con cui aiutarle, le persone più giovani, più forti, più istruite. E molti di quelli che riescono a raggiungere l’Europa vorrebbero ritornare, se solo si creeranno le condizioni per farlo. È a questo che dovremmo lavorare tutti; non “sulla loro testa”, ma collaborando con loro: sono intraprendenti; conoscono il loro paese e le loro comunità; in poco tempo possono acquisire conoscenze, professionalità, relazioni e persino risorse per fare da ponte tra i nostri paesi, le nostre culture, la nostra economia e le loro; innescare, insieme a tanti giovani europei desiderosi di farlo, circuiti di interscambio per migliorare i rispettivi paesi, rendendo reversibili molti percorsi migratori. Ma occorre che possano organizzarsi, per contribuire da protagonisti a riportare pace e risanamento sociale e ambientale nei loro paesi di origine.
L’Europa ha comunque bisogno di braccia e personale qualificato: senza immigrazione verrebbero a mancare, di qui al 2050, quasi cento milioni di nuovi europei mentre la popolazione rimasta sarà sempre più scarsa, più vecchia, più stanca. Ma l’Europa ha bisogno soprattutto di persone: portatrici di culture differenti, meno impregnate di individualismo, di diffidenza e di rivalità (quelle instillateci dal pensiero unico), più attente ai legami di solidarietà; ma soprattutto portatrici di indicibili storie di sofferenza con cui farci riscoprire la virtù dell’empatia. Dobbiamo far nascere in noi la capacità di confrontarci con ciascuno di loro senza pretese di superiorità; “imparando a imparare” ciascuno da tutti gli altri, come tante esperienze di incontro tra i bambini nelle scuole ci fanno vedere. Le risorse umane per promuovere la solidarietà non mancano: bisogna valorizzarle meglio. Quelle finanziarie neanche; ma sono state sequestrate dalle politiche di austerità. Se gli 80 miliardi che la Bce regala ogni mese alle banche in cambio di carta straccia venissero destinati a progetti di conversione ecologica ci sarebbero occupazione, reddito e futuro per tutti: cittadine e cittadini europei, profughi e migranti.
Il respingimento dei profughi ha davanti solo un futuro di guerre, razzismo, miseria e apartheid. La ricostruzione dell’Europa è invece legata alle opportunità che, pur tra ostacoli e difficoltà, ci offrono i profughi con il loro arrivo, le loro vicende, la loro presenza. Ma anche allo slancio con cui migliaia di persone, e soprattutto di giovani, si adoperano per rendere meno acute le loro sofferenze.