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». Comune.info, 19 settembre 2016 (c.m.c.)

I nuovi colossi accrescono il loro potere nei mercati chiave e si aprono la strada per un incontrollabile aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Avranno inoltre più facilmente le leggi e i regolamenti necessari alla loro guerra contro la sovranità alimentare e l’agricoltura contadina. L’enorme concentrazione in corso non mira tuttavia al solo controllo dei mercati, vuole quello digitale e satellitare dell’intera agricoltura del pianeta. L’offensiva dei colossi dell’agro-business va fermata con ogni mezzo possibile .

Mercoledì 14 settembre, infine, Monsanto ha accettato la terza offerta di acquisto della Bayer. Oltre ad essere una delle maggiori aziende farmaceutiche, adesso Bayer sarà la più grande impresa mondiale nella produzione di sementi e agrotossici. Malgrado abbia grandi dimensioni e conseguenze di ampia portata, questa è solo una delle fusioni recenti tra le imprese transnazionali dell’agro-business. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli. E’ una battaglia per il controllo non solo dei mercati ma anche delle nuove tecnologie, per il controllo digitale e satellitare dell’agricoltura.

Diversi fattori influiscono nell’accelerazione dei processi di fusione cominciati nel 2014. Uno di essi è che le coltivazioni transgeniche si stanno imbattendo in molti problemi, cosa che spinge i giganti dei transgenici a cercare posizioni più solide di fronte a ciò che sembra essere una fonte di vulnerabilità crescente. E’ significativo che un giornale conservatore come The Wall Street Journal riconosca che il mercato è stato debilitato dai “dubbi” degli agricoltori degli Stati Uniti sulle coltivazioni transgeniche, visto che, dopo 20 anni nel mercato, esse mostrano ancora numerosi svantaggi: “erbe super-infestanti” resistenti agli agro-tossici, rendimenti che non si equiparano agli alti costi dei semi transgenici, né al costo dell’applicazione di agrotossici in maggior quantità e concentrazione per uccidere erbe infestanti e parassiti resistenti, né all’aumento del lavoro per controllare le erbe. Il crollo dei prezzi delle commodity agricole ha accelerato il malessere facendo sì che gli agricoltori che seminavano transgenici tornassero a cercare sementi non transgeniche, più convenienti e con maggior rendimento. (The Wall Street Journal, 14/9/16).

Se verrà autorizzata la fusione con Monsanto, Bayer passerà a controllare circa un terzo del commercio globale di agrotossici e di sementi commerciali. L’operazione fa seguito a quella di Syngenta-Chem-China e DuPont-Dow, in un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni nell’industria sementifera-agrochimica. Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf insieme controllano il cento per cento del mercato dei semi transgenici, che adesso resterebbe nelle mani di tre sole imprese. Queste fusioni sono sottoposte al vaglio di varie agenzie anti-monopolistiche, visto che costituiscono blocchi che avranno enorme potere nei mercati chiave e produrranno certamente un aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Forzeranno, inoltre, le leggi e regolamenti a loro favore, contro la sovranità alimentare e le sementi contadine. Soltanto il fatto che tre imprese controlleranno tutte le sementi transgeniche dovrebbe essere argomento sufficiente a qualasiasi paese per rifiutare queste coltivazioni, a causa dell’inaccettabile dipendenza che comportano.

Però il contesto delle operazioni nella catena agroalimentare è più complesso, e include pure gli anelli vicini della catena, così come spiega in modo dettagliato il Gruppo ETC nella sua nalisi della fusione Bayer-Monsanto Sebbene il consolidamento del settore dei semi e degli agrotossici esiste da decenni e sta toccando il suo apice, questi due settori hanno una vendita molto inferiore a quella delle imprese che producono fetilizzanti e macchinari, gruppi che da alcuni anni hanno cominciato a fare incursioni nel mercato dei primi, stabilendo alleanze strategiche. Anche quelle industrie, inoltre, sono in un processo di consolidamento. Poco prima dell’accordo tra Monsanto e Bayer, due delle maggiori imprese di fertilizzanti, Agrium e Potash Corp. haanno deciso di fondersi trasformandosi nella maggiore impresa di fertilizzanti a livello mondiale. Cosa che, secondo gli analisti dell’industria, ha spinto Bayer ad aumentare l’offerta per Monsanto.

Contemporaneamente, nel settore delle macchine rurali – non si tratta solo di trattori e mietitrebbiatrici, ma anche di droni, robot e sistemi Gps che permettono di raccogliere i dati della campagna con i satelliti – è andato sviluppando alleanze con tutti i giganti dei transgenici, che comprendono l’accesso alle banche dati agricole, del suolo, del clima, delle malattie, eccetera. Nel 2015, John Deere, con la maggior impresa di macchine al mondo, si era accordato con Monsanto per comprarle la succursale Precision Planting LLD, azienda di dati agricoli, l’acquisto è stato però sottoposto al Dipartimento della Giustizia, che ha sospeso la vendita perché John Deere sarebbe andato a “dominare il mercato dei sistemi di coltivazione di precisione e avrebbe potuto alzare i prezzi e rallentare l’innovazione, a spese degli agricoltori statunitensi che dipendono da quei sistemi”, giacché Precision Planting LLD e Deere sarebbero passati a controllare l’85 per cento del mercato delle coltivazioni di precisione.(Departamento de Justicia de Estados Unidos, 31/8/16, http://tinyurl.com/j9x6am9).

Siccome questo accordo non è stato concluso, la succursale continua ad essere proprietà di Monsanto e quindi all’interno del pacchetto della nuova fusione, cosa che potrebbe favorire un nuovo ruolo della Bayer nel tema del controllo digitale e muovere tutti pezzi della scacchiera. Ancora una volta, il trattamento dei dati sul suolo, il clima, l’acqua, la genomica delle coltivazioni, le erbe e gli insetti relazionati, sarà ciò che decide chi controlla tutti i primi passi della catena agroalimentare industriale. In questo schema, gli agricoltori sono solo un semplice strumento nella corsa delle imprese per produrre guadagni – non alimenti – cosa che condiziona gravemente la sovranità dei paesi, e non solo quella alimentare.

Morte della politica. Con Stiglitz e Fassina, per restare nell’Unione, superando in modo condiviso e parziale la moneta unica. La democrazia chiede ancora la battaglia politica nazionale».

Il manifesto, 17 settembre 2016 (c.m.c.)

È vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).

Per schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni conservatrici (all’insegna del “non c’è alternativa” all’euro e alle sue regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli Stati uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una contraddizione fra euro e democrazia sociale.

Ma mentre questa opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non può essere che una parentesi), che andranno incontro a una polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.

L’altra fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo – in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e forze antisistema.

Il punto è che le forze antisistema si coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di lettura e d’azione.

Dal dibattito in corso sul manifesto (vedi sotto, ndr) sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina) favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a quello mondiale, iniziando col “disobbedire” alle regole economiche della moneta unica, senza uscirne.

Al di là della sovrapposizione fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la questione del demos –.

Non c’è nulla di nazionalistico o di sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più vasta scala, è senz’altro lo Stato.

La politica su scala continentale ha inizio là dove la politica si condensa significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico, politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza nazionale –.

Se non passa attraverso la scala statale, la lotta sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un nuovo assetto delle relazioni internazionali.

Ci si deve servire dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi? Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.

Lo spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.

«L’intento comune è quello di costituire un organismo che promuova i temi globali e nazionali inerenti il debito e al contempo crei una sorta di supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini». Comune.info, 9 settembre 2016 (c.m.c.)
La leggenda del debito di cui tutti, dal neonato angolano al pastore del Gennargentu, dobbiamo farci carico gode ancora di maggior credibilità di quella del peccato di Eva nel giardino dell’Eden. Per certi versi, però, svolge la stessa funzione: generare senso di colpa.
Il debito pubblico viene agitato su scala internazionale, nazionale e locale per giustificare le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.
Rompere la sua trappola è dunque un passaggio essenziale per avviare un altro modello di società. Qui si racconta di un tentativo serio di costituire in Italia un organismo che ne ridiscuta la natura e gli obiettivi e, soprattutto, dia supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini

Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto. La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura. Nel capitalismo finanziarizzato, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia basata sul debito.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, unita alla convinzione –dettata dalla favola liberista- che il futuro potesse essere sempre e costantemente più copioso e munifico del presente ha indotto i detentori di capitali a prestarli facendo conto su generosi e costanti innalzamenti della redditività finanziaria, a prescindere dall’andamento dei profitti delle attività reali che andavano direttamente o indirettamente a finanziare.

E’ così che le attività finanziarie si sono progressivamente “autonomizzate”, investendo non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone. Le scelte adottate dalle elite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi – che a tutti gli effetti è sistemica – in crisi del debito pubblico. Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.

Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone. Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.

Rompere la trappola del debito diviene dunque l’obiettivo principale per avviare un altro modello di società, basato sulla sovranità, la solidarietà e la cooperazione tra i popoli, la pace, l’eguaglianza, la giustizia sociale e un modello economico ecologicamente e socialmente orientato. Da tempo, il Cadtm (Comitato per l’annullamento del debito illegittimo), rete internazionale fondata in Belgio nel 1990 e presente con comitati in Europa, Africa, America Latina e Asia, agisce in collaborazione con altre organizzazioni e movimenti per una battaglia a tutto campo finalizzata all’annullamento del debito illegittimo e per l’abbandono delle politiche di aggiustamento strutturale e di austerità.

Il Cadtm ha partecipato all’audit del debito pubblico in Ecuador e alla Commissione parlamentare per la verità sul debito pubblico in Grecia e partecipa ai movimenti contro i debiti illegittimi in numerosi paesi. Da tempo riteniamo che, anche in Italia, la questione del debito debba essere al centro dell’azione dei movimenti sociali, perché senza una decostruzione dell’ideologia del debito, e senza un processo di verità sulla sua natura, scopi e legittimità, nessuna riappropriazione sociale di ciò che a tutti appartiene può raggiungere il proprio obiettivo.

Per questo, forti dell’esperienza accumulata in questi anni dentro i percorsi aperti con il Forum per una nuova finanza pubblica e sociale e con l’internità a tutti i movimenti sociali prodottisi a livello locale e nazionale, e dopo un primo accordo di adesione alla rete Cadtm, sottoscritto da Attac Italia in rappresentanza collettiva, nell’Assemblea mondiale di Cadtm a Tunisi dell’aprile 2016, abbiamo deciso di far nascere Cadtm Italia, come luogo plurale e inclusivo di associazioni che condividano l’obiettivo di mettere la contestazione dell’ideologia del debito alla base dell’azione collettiva per una radicale trasformazione della società.

L’intento comune è quello di costituire un organismo che promuova i temi globali e nazionali inerenti il debito e al contempo crei una sorta di supporto alle realtà che hanno avviato o intendono avviare audit cittadini. Un organismo che svolga funzioni di Centro Studi per costruire analisi e informazione alternativa alla narrazione dominante sul debito e che nel contempo agisca da Comitato operativo per il supporto alle inchieste sul debito pubblico promosse a qualsiasi livello. Il convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’ : il Giubileo del debito ?” tenutosi a Genova il 19 luglio 2016, ha ribadito questi impegni, sottoscritti nel documento “Carta di Genova” Perché occorre liberare il presente per riappropriarsi del futuro. E sappiamo che il tempo è ora.

Primi promotori :

Attac Italia – Centro Nuovo Modello di Sviluppo – Commissione per l’audit del debito pubblico di Parma – Communia Network – Cooperativa Bottega Solidale Genova – Fair — Fondazione “Lorenzo Milani” Onlus di Termoli – Pax Christi Italia – e i firmatari della Carta di Genova

«Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari?».

La Repubblica, 18 settembre 2016 (m.p.r.)

L’idea di effettuare l’eutanasia su un minore provoca un rifiuto immediato, anzi un senso di ribellione e poi di condanna per chiunque abbia osato anticipare la morte di un bambino. Anche se a chiederlo sono genitori desiderosi di porre fine all’agonia di un figlio, inutilmente prolungata da terapie dolorose e invasive. È una reazione più che comprensibile in un Paese in cui non c’è un quadro legale per le questioni di fine vita e l’eutanasia, anche se richiesta o addirittura implorata da un malato terminale cosciente e adulto, è un crimine.

Tuttavia nei Paesi che hanno sviluppato una cultura civile e giuridica sui temi del rifiuto dell’eccesso di cure (il cosiddetto accanimento terapeutico) e del rispetto della volontà di dire basta a una vita resa insopportabile da una malattia incurabile, l’atto di porre fine anticipatamente alla vita di un bambino straziata dal dolore, è invece oggetto di dibattito approfondito e di riflessione politica. Il Belgio, dove è stato riportato il caso di eutanasia su minore, è, insieme all’Olanda, uno dei Paesi più avanzati in questo senso, essendo riuscito a controllare le eutanasie clandestine con una legge che disciplina le problematiche di fine vita in modo scientifico, rigoroso e completo.

I casi dei minori sono molto complessi non solo per l’evidente carico emotivo, ma soprattutto perché viene a mancare il principio su cui l’eutanasia si basa, che è la volontà del paziente, a sua volta fondata sul diritto di autodeterminazione individuale. Ovvio che un bambino non può esprimere una volontà cosciente, e dunque la decisione spetta ai genitori, che in genere sono riluttanti a prendere qualsiasi posizione, combattuti come sono tra lo strazio di vedere un bambino soffrire e lo strazio di perderlo per sempre. Anche in queste situazioni drammatiche una buona legge è di grande aiuto, perché sia i genitori che i medici sanno che la società e le istituzioni tutelano le loro decisioni e, ove possibile, le sostengono, creando commissioni di esperti ad hoc e fornendo ogni tipo di assistenza e di consulenza. In Italia i genitori che si trovano in una situazione analoga sono completamente soli nella loro disperazione.
Molti ricorderanno il caso di Davide, il bimbo con la sindrome di Potter, nato cioè senza reni e uretere. I genitori volevano che il neonato vivesse il più a lungo possibile, ma senza arrivare a torturarlo. Quando i medici hanno chiesto l’autorizzazione alla dialisi, pur confermando che per la vita di Davide non c’era nulla da fare, la mamma Maria Rita ha chiesto un giorno per riflettere. Allora i sanitari si sono immediatamente rivolti alla magistratura, che d’ufficio ha tolto ai genitori la patria potestà, aggiungendo l’umiliazione al dolore immenso per Davide. Risultato: Davide ha vissuto 80 giorni alimentato con un sondino alternato al biberon, con dialisi di sette ore quasi ogni giorno e respirazione assistita per le crisi che lo assalivano regolarmente. In più ha subìto interventi invasivi come l’applicazione di un catetere all’ombelico, uno alla giugulare, che il piccolo si è strappato con le sue stesse manine, e anche uno all’inguine.
Dopo questo inutile calvario Davide è morto, mentre intorno al suo corpicino martoriato infuriavano le polemiche sui genitori annichiliti, umiliati e accusati di volerlo assassinare in nome del mito del “bimbo perfetto”. Oggi Maria Rita fa campagne di sensibilizzazione, insieme a Mina Welby, Beppe Englaro e gli altri parenti di vittime dei pregiudizi sociali, oltre che di terribili malattie, che scendono in piazza per evitare che la loro tragedia accada ad altri. Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari? Io credo di no. Ripeto: la libertà di cura (e dunque anche di rifiutare la cura) è un diritto sancito dalla nostra Costituzione. E se c’è un diritto una legge dovrebbe tutelarlo.

«Lo scopo? Archiviare il dossier sulla morte di Giulio Regeni che - per gli anonimi politici egiziani - sarebbero costati al Cairo diversi incidenti diplomatici non solo con Roma, ma anche con altri paesi europei».

La Repubblica, 18 settembre 2016 (m.p.r.)

Roma. Un alto ufficiale della polizia di Giza potrebbe essere il primo imputato in un eventuale processo egiziano sul caso Regeni. L’indiscrezione è pubblicata su Al Arabi al Jadid, quotidiano panarabo, che cita, come fonte, le rivelazioni fatte da alcuni politici egiziani decisi a restare anonimi. Al funzionario della polizia, stando a quanto sostiene il giornale che ha sede a Londra, verrebbe mossa l’accusa di coinvolgimento nelle torture e nell’uccisione del giovane ricercatore italiano. Ma ci sarebbe di più. L’Egitto vorrebbe anche svelare il nome del presunto imputato.

Lo scopo? Archiviare il dossier sulla morte di Giulio Regeni che - per gli anonimi politici egiziani - sarebbero costati al Cairo diversi incidenti diplomatici non solo con Roma, ma anche con altri paesi europei. L’ultimo caso risale al G20 di Hangzhou, in Cina, quando molti leader europei hanno rifiutato incontri bilaterali con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi proprio per il caso Regeni. In poche parole: allontanare le ipotesi di un nuovo depistaggio.

«Siamo in una situazione critica», ha confermato la cancelliera Merkel. «Il rischio di sfaldamento dell’Europa non è mai stato così grande. Parlo proprio della separazione, del ritorno alle frontiere, del rifiuto della solidarietà, della fine dell’euro».

La Repubblica, 17 settembre 2016 (m.p.r.)

Un padre troppo rigido che vuole solo risparmiare. Una madre troppo frivola che pensa solo a spendere. Dei figli ingrati e ribelli che non aiutano in casa e pensano solo alla paghetta. Ora che la vecchia zia inglese, ricca ma rompiscatole, ha annunciato che se ne va, salvatela voi una famiglia così. Poiché l’Unione europea non si è ancora dotata di un consultorio familiare, i leader dei Ventisette si sono trovati ieri a Bratislava per cercare di risolvere «la crisi esistenziale» dell’Europa innescata dalla Brexit. Ma, proprio come succede a certe famiglie disfunzionali, non hanno trovato soluzione migliore che ignorare i troppi motivi di contrasto per concentrarsi sui pochissimi punti di possibile consenso. Non c’è da stupirsi che Renzi, ieri, abbia usato toni così duri nella conferenza stampa finale, prendendo le distanze da Berlino e Parigi e sottolineando senza perifrasi la sua insoddisfazione.

Tra i potenziali terreni di intesa c’è il rafforzamento di una vera Difesa europea, sulla base di un documento messo a punto dall’Alta rappresentante Federica Mogherini e ripreso da una lettera congiunta di Merkel e Hollande. Potrebbe essere un passo avanti molto importante sulla via dell’integrazione. Ma certo da solo non basta per tenere insieme una famiglia che appare sempre più divisa. E se la compagine non ritrova le ragioni della propria convivenza, anche la Difesa comune, in prospettiva, va a farsi benedire.

Uno dei pochi segnali veramente incoraggianti che è arrivato dal vertice informale di ieri, il primo senza la partecipazione degli inglesi, è nel linguaggio usato dai capi di governo. Per una volta, i leader europei hanno smesso di fare finta di nulla, hanno riconosciuto la profondità dei fossati che li separano e hanno ammesso esplicitamente la gravità del momento. «Siamo in una situazione critica», ha confermato la cancelliera Merkel. «Il rischio di sfaldamento dell’Europa non è mai stato così grande. Parlo proprio della separazione, del ritorno alle frontiere, del rifiuto della solidarietà, della fine dell’euro», ha detto Hollande che, forse perché è il più debole, appare anche il più sincero.
Alla fine, Merkel e Hollande hanno scelto di tenere una conferenza stampa congiunta. Anche questo, nonostante l’irritazione di Renzi, è un buon segnale, perché mostra che l’asse franco tedesco, nonostante tutto, continua a resistere. Se Francia e Germania reggeranno l’urto dell’ondata populista alle elezioni dell’anno prossimo, e non è detto che accada, c’è speranza che il nocciolo duro dell’Europa possa continuare a garantire l’Unione.
Dietro i troppi silenzi del vertice di Bratislava, proprio questa è infatti la partita che si sta delineando sul dopo Brexit. Una partita che avrà tempi necessariamente molto più lunghi della scadenza di marzo che si sono dati i capi di governo. L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, tema che ieri è stato sfiorato solo di sfuggita, dimostra infatti che l’idea di una Europa troppo elastica, capace di allargarsi all’infinito diluendo le ragioni di fondo del proprio esistere, non è in grado di reggere alle tensioni politiche che genera. Oggi la Ue non può permettersi nuove secessioni. Ma in prospettiva la soluzione di un nucleo centrale più ristretto, attorno al quale possano trovare una collocazione i Paesi che non vogliono più condividere la loro sovranità politica, come appunto gli inglesi e la galassia dell’Europa centro-orientale, appare come l’unica strada possibile a chi non vuole perdere quanto finora è stato costruito.
Sono stati proprio i Paesi del “gruppo di Visegrad”, Polonia, Slovacchia, Cechia, Ungheria, a porre ieri con più forza la necessità di ridefinire gli equilibri tra sovranità nazionali e sovranità europea. È una questione vitale, ma che la Vecchia Europa non può affrontare adesso per due motivi. Il primo è che deve innanzitutto sopravvivere alla sfida dei populisti, che dominerà nel prossimo anno le elezioni olandesi, francesi e tedesche. Il secondo è che in questa fase il patto fiduciario, indispensabile per ricompattare il nocciolo duro, è reso impossibile dalle crescenti divergenze sulla strategia economica da seguire. Il danno che deriva dall’incomprensione tra “falchi” e “colombe” sull’austerità va ben al di là dell’ambito contabile in cui si è formato. È diventato unvulnus politico, un deficit generale di fiducia che rende impossibile continuare sulla strada dell’integrazione, come dimostrano i toni irritati usati ieri dal presidente del Consiglio Renzi.
Come nelle vere famiglie, occorre che il padre avaro e la madre spendacciona ritrovino le ragioni del vincolo di fiducia e di solidarietà che li unisce. Solo a quel punto, se ci arriveranno, potranno confrontarsi con i figli. E costringerli a scegliere se restare in famiglia accettandone le regole e la coesione, oppure uscirne e decidere quale strada imboccare per il loro futuro. Ma, a Bratislava, questo momento della verità appare ancora lontano nel tempo.

«Dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco dopo il crollo dell'Urss?» Una riflessione a due voci tra due autorevoli esponenti del versante politico e del versante sociale del mondo operaio del secolo scorso, che fornisce utili materiali al dibattito della sinistra oggi. il manifesto, 16 settembre 2016

«Ma dove sta, alla fine, il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss e del suo impero, ma più largamente a una sconfitta del movimento operaio mondiale nel chiudersi di questo secolo: insomma dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco? Sta nella linea della dittatura militare imboccata subito e fatalmente dai bolscevichi nel 1917? Oppure ha la sua fonte nello stesso marxismo e socialismo europeo, prima ancora di Lenin, facendo salva (ma non proprio tanto) la barba augusta di Karl Marx?».

Sono domande che si rivolge Pietro Ingrao nel quindicesimo (e penultimo) capitolo, «Liberazione e statalismo», di un volume inedito concluso nel luglio del 1998. Il libro, con il titolo «Promemoria», è in corso di stampa presso la casa editrice Ediesse nella collana Carte Pietro Ingrao.

Gli interrogativi che si pone Ingrao costituiscono il costante riferimento problematico che dà senso, ed orienta, le riflessioni sulle vicende e le scelte del Pci e della sinistra italiana negli anni della Repubblica, fino all’assassinio di Aldo Moro.

Ma, in questo capitolo finale, quelle domande e la tematica relativa alla ‘liberazione’ (così presente nell’impegno politico di Ingrao) sono mosse dalle argomentazioni che Bruno Trentin svolge ne «La città del lavoro», pubblicato da Feltrinelli nell’autunno del 1997: «La tesi centrale del libro, scrive Ingrao, è che, nella sinistra europea, già a partire dalla sua culla tedesca, c’è stata una lettura ‘statalista’ del processo di liberazione della classe operaia».

Una scelta che secondo Trentin, riassume Ingrao, «opacizza le nuove, radicali forme di alienazione del lavoro subordinato e che, alla fine, affida la fuoruscita dall’oppressione capitalistica e la transizione verso una società socialista alla conquista dello Stato. È così elusa e alla fine cancellata – sostiene Trentin – la questione essenziale della liberazione del lavoro subordinato, espropriato della sua creatività nel luogo della produzione, e quindi ferito nella sua identità umana, schiacciata dall’universo macchinale».

Ne «La città del lavoro» Trentin illustra bene la dinamica di quella che considera una fatale deriva. La sinistra ha spostato la ‘rivoluzione’ sociale dal cuore della ‘società civile’, ovvero dal conflitto nel luogo di produzione, alla conquista dello Stato.

Trentin, pertanto, contrappone nettamente la ‘società civile’ all’ambito e alla azione del potere politico statale. Ingrao ritiene che non corrisponda ai fatti descrivere, come fa Trentin, una ‘società civile’ che si possa affermare «a sé», distinta da «un potere pubblico che ha il volto (e la complessità articolata) che la sfera dello Stato è venuta via via assumendo nella modernità».

Il nesso tra ‘pubblico’ e ‘privato’ è destinato a dilatarsi. Così Ingrao ritiene necessaria, da parte degli attori sociali, «più politica, ma anche più connessioni fra iniziativa nell’intimo della produzione (per usare l’antico termine gramsciano) e un’immaginazione nuova (oggi quasi inesistente) di istituzioni».

Trentin vede nella ‘creatività’ del lavoro la fonte viva di una liberazione piena della ‘individualità’. Ingrao replica che il «tragico» Novecento ha svelato «una complicazione della soggettività umana».

Allora l’«individualità», «rimanda a un universo assai complesso e multiforme, radicalmente ambiguo ed oscillante: mescolare di più le sfere della vita e del produrre, se vogliamo fare i conti con queste complicazioni e oscurità e se non vogliamo che il nodo del lavoro resti drammaticamente isolato e frantumato, e alla fine perdente».

Due punti di vista (di Ferruccio De Bortoli e di Matteo Bortolon) su una persona che fu diversamente decisiva in diverse fasi della storia nazionale: negli anni della resistenza al nazifascismo e in quelli della globalizzazione capitalista.

Corriere della Sera il manifesto, 17 settembre 2016


Corriere Della Sera
L’ORGOGLIO DI SERVIRE IL SUO PAESE
di Ferruccio de Bortoli

«È la migliore intervista che ho fatto». «Quale presidente? Non l’ho letta». «E forse non la leggerà mai». Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal ‘79 al ‘93), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal ‘99 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere.

In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. «Mi concentro su una cosa alla volta, con calma».

La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso.

In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano.

Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve.

Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di «falchi» come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione Europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione Europea libertà e benessere.

Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato - e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà - il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la Guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. «Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli». Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale.

L’economista Ciampi, che era laureato in Lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere , in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. «Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore». Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia.

il manifesto
DUE COSE SU CIAMPI

di Matteo Bortolon

«Carlo Azeglio Ciampi fu (anche) economista e banchiere. A lui si devono due scelte che l'Italia sta ancora pagando con costi pesantissimi. Il "divorzio" di Bankitalia e Tesoro (deciso con Andreatta) nel sostegno al debito pubblico degli anni '80 e la liberalizzazione totale del mercato finanziario negli anni '90»

Buona parte della stampa traccia oggi un ritratto dell’appena scomparso Carlo Azeglio Ciampi. Grande statista, grande premier, giusto, elegante, sobrio. Se la sobrietà era una delle sue qualità altrettanto non si può dire dei suoi elogiatori attuali.

A destra si sottolinea il patriottismo con le forti connessioni con il Risorgimento. A sinistra l’esser stato partigiano, l’europeismo, «uomo delle istituzioni», l’aver portato l’Italia nell’euro. Per trovare delle critiche bisogna ridursi a cercare nell’area destra radicale – Lega. Ovviamente il bilancio di una eredità politica non potrà che essere più meditato, magari includendo qualche parte un po’ meno «entusiasmante» come il ripristino della parata militare il 2 giugno…

In questo spazio si intendono ricordare due questioni direttamente riconducibili all’azione politica di Ciampi, che presumibilmente non entreranno molto nel dibattito. Le cui pesantissime conseguenze l’Italia sta tutt’ora vivendo.

Carlo Azeglio Ciampi è stato economista e banchiere. Fra il 1979-1993 ha ricoperto la carica di governatore della Banca d’Italia. In questa veste ha promosso un evento che ai più è rimasto completamente inosservato: il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia. Come spiegherà qualche anno più tardi l’altro comprimario di tale atto, Beniamino Andreatta, nel 1981, lui in qualità di ministro delle Finanze si mise d’accordo con l’allora governatore per sancire il fatto che Bankitalia non avrebbe più sostenuto il debito pubblico italiano acquistando i titoli andati invenduti, e così abbassandone il prezzo.

Si trattò in pratica di una liberalizzazione del settore finanziario interno, per cui solo il mercato avrebbe deciso il costo dell’indebitamento dello stato. L’ex ministro lo dirà esplicitamente in un’intervista anni più tardi: «Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale».

Un anno prima del «divorzio», Ciampi aveva esposto con una sinistra chiarezza il nuovo assetto da costruire: «L’ultimo decennio ha visto crescere ancora la somma delle domande sociali rivolte alle strutture pubbliche. E’ giunto a un punto di tensione il movimento che prese avvio dalla crisi degli anni trenta e che portò in tutti i paesi ad assegnare alla politica economica e sociale un ruolo centrale e permanente».

Tali parole sono del 1980. Si avviava il processo che avrebbe reso indipendente la banca centrale consegnando il famoso potere del mercato sullo stato in materia di titoli pubblici – che anni più tardi si sarebbe reso famoso come il famoso spread. I due protagonisti intendevano così rendere l’Italia adeguata all’Europa in costruzione, liberista e oramai già incardinata nello Sme che il Pci aveva a sua volta contrastato.

L’effetto fu l’indebitamento crescente delle casse pubbliche in virtù di un atto che costruiva, come ribadisce lo stesso Andreatta, il «potere monetario» come quarto potere indipendente dagli altri. Un effetto ulteriore fu però di ingigantire la rendita di chi si poteva permettere di prestare soldi allo stato – a meno che non si abbassasse drammaticamente la spesa sociale – e di aumentare la disoccupazione dirigendo risorse nell’investimento finanziario.

Buona parte del dominio della finanza deriva da tale processo. E sarebbe giunto a compimento quando ai primi anni Novanta si sarebbe proibito con direttiva europea ogni vincolo alla libera circolazione di capitali, e poco dopo approvato una legge che demoliva la distinzione fra banche d’affari e d’investimento, saggiamente stabilita ai tempi di Roosevelt e recepita nella legge italiana nel 1936. E chi la fece la nuova legge? Carlo Azeglio Ciampi. C’è molto di che riflettere sulla sua memoria.

«La Repubblica, 17 settembre 2016

Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede. Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da Jung parla, Adelphi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre?

Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio.

La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia.

Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» (Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo » (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale.

A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità.

E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere.

Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta.

Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.

«La distanza tra le due verità è enorme. Così enorme che non si riesce a farla rientrare nel fisiologico arco dei diversi punti di vista di chi racconta un fatto».

La Repubblica, 17 settembre 2017 (m.p.r.)

,Abdel Salam El Danaf, operaio egiziano di 53 anni, padre di cinque figli, è morto schiacciato da un camion nel piazzale di carico e scarico dell’azienda Gls, Piacenza, settore logistica. I suoi colleghi di lavoro dicono che era in corso una manifestazione sindacale e che il camionista è stato esortato da imprecisati “dirigenti dell’azienda” a forzare il picchetto. La magistratura inquirente sostiene che non c’era nessun picchetto e si è trattato di un omicidio stradale come ce ne sono tanti.

La distanza tra le due verità è enorme. Così enorme che non si riesce a farla rientrare nel fisiologico arco dei diversi punti di vista di chi racconta un fatto. Così enorme che è inevitabile pensare alla distanza crescente tra la voce operaia - che sta tornando a essere di debolezza ottocentesca, quasi presindacale - e un palcoscenico sociale che sembra averla relegata dietro le quinte: come un rumore di fondo. È esattamente nel nome di questa debolezza, politica e mediatica, che è indispensabile parlare di Abdel. E di pretendere che gli attori sociali toccati dalla vicenda - la Procura di Piacenza, il governo e in specie il Ministero del Lavoro, l’azienda presso la quale Abdel lavorava e davanti alla quale Abdel è morto, i media - cerchino di ricomporre i brandelli di verità disponibili, con la stessa pietà e lo stesso rispetto con il quale si ricompone il corpo di una vittima.

Il manifesto, 15 settembre 2016

Il trionfalismo dell’establishment non riesce a nascondere la realtà: la nuova linea ferroviaria Torino-Lione, come hanno spiegato domenica scorsa su queste pagine Pagliassotti e Vittone, è ancora di là da venire. Intanto, dopo ventisette anni, i No Tav, gli «indiani di Valle» non demordono e anzi rilanciano, contrapponendo all’alta velocità l’alta felicità (per riprendere il titolo della grande festa di Venaus del luglio scorso che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone e di artisti di prim’ordine). A sostegno dell’opera resta una repressione crescente e sempre più scoperta. Non bastavano l’evocazione di una valle di black bloc, i 1.500 indagati negli ultimi sei anni e mezzo (con una punta di 327 nel 2011 e di 183 dal luglio 2015 al giugno 2016: più di un indagato ogni due giorni), un centinaio di misure cautelari, una gamma di reati che vanno dalle violazioni della zona rossa a fantasiosi attentati con finalità di terrorismo (dichiarati infine insussistenti, dopo lunghe carcerazioni in isolamento, dai giudici di merito e dalla Cassazione). Non bastavano e, puntuali, sono arrivati nuovi dispositivi repressivi. Un caso per tutti, tra i molti quest’estate.

Chiunque è stato in Valsusa sulle tracce del movimento No Tav conosce l’osteria «La Credenza» di Bussoleno (luogo di incontro e di confronto di persone provenienti da ogni dove) e la sua animatrice, Nicoletta Dosio, per tutti semplicemente Nicoletta, già professoressa nel locale liceo, esponente politica della sinistra non omologata, personaggio di primo piano nell’opposizione al Tav. Ebbene, con ordinanza 26 maggio 2016 del gip di Torino, a Nicoletta è stata imposta la misura cautelare dell’obbligo di presentazione quotidiana all’autorità di polizia per fatti commessi un anno prima di fronte al cantiere di Chiomonte, integranti, nell’ipotesi accusatoria, il delitto di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (consistente nel lancio di oggetti contundenti e di artifici pirotecnici). Nicoletta non ha lanciato pietre o alcunché ed era, come sempre, a viso scoperto. Ciò che le viene contestato è altro: aver «contribuito a consegnare una fune munita di arpione ad altra persona che, arrampicata sulla griglia di un betafence, agganciato l’arpione alla griglia, ne determinava il successivo abbattimento». La battitura e l’abbattimento delle reti e delle strutture connesse è, come tutti sanno, uno degli obiettivi di sempre del movimento per dimostrare che il cantiere può essere violato e che la determinazione della valle è più forte della militarizzazione.

Ma per pubblici ministeri e giudici della cautela tutto ciò scompare e quella condotta non ha finalità dirette ma è strumentale «a disturbare le forze di polizia ed a consentire ad altri di compiere i lanci di pietre e ordigni direttamente sulle forze dell’ordine senza necessità che il lancio dovesse, con una parabola, superare il betafence». Di più, «l’avvicinarsi non travisati, impugnanti palloncini rosa, striscioni e bandiere», lungi dall’essere una modalità di protesta responsabile e civile è un subdolo inganno «per far credere alle forze dell’ordine che l’intenzione fosse di manifestare pacificamente con grida e al più compiere la c.d. battitura delle reti».
Così il cerchio si chiude e Nicoletta diventa concorrente nel reato di resistenza perché, contribuendo ad abbattere il betafence, ha fatto sì che altri potessero lanciare degli oggetti contro la polizia con una traiettoria rettilinea anziché con la parabola necessaria a superare un ostacolo dell’altezza di poco più di due metri. Non è la prima imputazione singolare elevata dalla procura torinese ma prudenza avrebbe almeno voluto che la verifica di una costruzione fattuale e giuridica tanto opinabile venisse sottoposta al giudice del dibattimento con l’imputata (reperibilissima e prossima ai 70 anni) in stato di libertà. E invece no: il pubblico ministero chiede addirittura l’obbligo di dimora e il gip dispone la presentazione quotidiana all’autorità di polizia!
Ma le torsioni della legge della Valsusa non finiscono qui. I valsusini, come noto, vivono la militarizzazione del territorio e la valanga di processi e misure cautelari come una vessazione e da tempo hanno deciso di non subirla passivamente. Di conseguenza Nicoletta rifiuta, e lo dichiara pubblicamente, di collaborare all’esecuzione della misura («Che sia chiaro, io non accetterò di andare tutti i giorni a chiedere scusa ai carabinieri, non accetterò che la mia casa diventi la mia prigione. Io a firmare non ci vado e nemmeno starò chiusa in casa ad aspettare che vengano a controllare se ci sono o non ci sono!»). Dopo qualche settimana, in considerazione «della personalità dell’imputata estremamente negativa, intollerante delle regole e totalmente priva del minimo spirito collaborativo», la misura cautelare viene trasformata in obbligo di dimora, aprendo la strada a ulteriori possibili aggravamenti fino alla custodia in carcere. Il copione è scolastico (e destinato a estendersi ad altri esponenti No Tav). Tutti dicono che Nicoletta può manifestare liberamente la sua opposizione alla grande opera ma, poi, le modalità – per quanto la riguarda – pacifiche di tale protesta vengono parificate ad azioni violente. Nessuno penserebbe di applicarle in prima battuta la custodia in carcere (non foss’altro per la scarsa rilevanza della condotta e per l’età) ma a tale esito si può arrivare per la sua mancata “collaborazione”: secondo lo schema del diritto penale del nemico quel che rileva non sono le esigenze cautelari ma la mancata collaborazione dell’imputata, la sua alterità al sistema.
Così si compie lo snaturamento delle misure cautelari non detentive. Introdotte per limitare la custodia carceraria ai casi di assoluta necessità, esse vengono applicate a imputati che, in loro assenza, sarebbero non in carcere ma in libertà e si convertono così da alternativa al carcere in sua anticamera.
Parallelamente, in particolare con l’applicazione di obblighi tanto gravosi quanto immotivati, si realizza, in sintonia con le prassi dei regimi autoritari, la trasformazione dei provvedimenti cautelari in misure di sicurezza, la cui unica finalità è la neutralizzazione del “nemico”: a sorreggerle non c’è alcuna esigenza cautelare in senso proprio (mancando ogni pericolo di fuga o di inquinamento delle prove) ma solo la previsione che gli indagati possano commettere (non delitti di particolare allarme sociale ma) ulteriori reati della stessa specie, cioè partecipare ad altre manifestazione di protesta…

La posta in gioco, anche in termini generali, è elevata e ben chiara ai valsusini, che hanno lanciato la campagna «mettiamoci la faccia» facendosi fotografare a centinaia con il manifesto: «Io sto con chi resiste violando le imposizioni ingiuste del tribunale di Torino».

Quando un segno di vita della cultura garantista e dei magistrati democratici?

Virginia Tonfoni intervista Noam Chomsky. La tragedia dei profughi rivela «la profonda crisi morale di tutti i paesi occidentali: gli stessi, Italia inclusa, che hanno creato le condizioni per questo conflitto, che hanno fornito armi e copertura diplomatica».

Il manifesto, 15 settembre 2016

Noam Chomsky è in questi giorni in Italia ospite del convegno «DICE2016» organizzato dall’Università di Pisa e il Comune di Rosignano «Spacetime-Matter-Quantum Mechanics». Lo abbiamo incontrato in un incontro riservato alla stampa e abbiamo avuto occasione di parlare dello stato politico ed economico mondiale.

Professor Chomsky, qual è la condizione della democrazia statunitense alle porte delle presidenziali?

«Parlare dei candidati in termini di popolarità non ha senso, visto la loro impopolarità…ma questo non deve portarci fuori strada, poiché l’insoddisfazione verso le istituzioni negli Stati uniti è estesa. Se chiedete le impressioni sul Congresso, la maggioranza delle persone vi dirà che sono tutti da mandare a casa: tutti odiano banche, multinazionali, governo etc.

«L’unica istituzione che sembra essere sempre rispettata è quella militare. Le ricerche scientifico politiche, non finanziate perché scomode, dimostrano che il 70% della popolazione, che ha il reddito più basso, non trova riscontro effettivo tra le sue attitudini e le posizioni dei suoi rappresentanti politici; come ci spostiamo un po’ più su nello spettro di reddito si ha progressivamente più attinenza, fino ad arrivare a quella frazione dell’1% che non ha bisogno di leggere le scienze politiche perché è perfettamente rappresentata.

«Questo genera effetti tremendi, che in Europa conoscete bene, come il crollo dei governi e un violento declino della democrazia che si traducono in disillusione e rabbia e che si mostrano in modi anche piuttosto spaventosi in certi casi: penso al partito neo nazi canadese, alle elezioni in Austria…un po’ la stessa cosa accade anche negli Stati Uniti in misura minore.

«Queste elezioni correnti sono sorprendenti: Hillary Clinton è una figura politica mainstrem, è una democratica, ma in altri tempi si sarebbe chiamata una repubblicana moderna: entrambi i partiti si sono spostati molto a destra nel periodo delle politiche neoliberali, divenendo poco riconoscibili.

«A proposito del cambio climatico, ogni singolo candidato alle primarie ne nega l’esistenza e perciò non se ne parla più. Donald Trump, invece pensa che dobbiamo incrementare l’uso dei combustibili fossili, specialmente di carbone, eliminare le restrizioni, smantellare la COP21, e rifiutare ogni assistenza ai paesi poveri che tentano di investire nelle energie sostenibili. La sua campagna sta inoltre facendo emergere situazioni analoghe a quelle del nord Europa con episodi di xenofobia, rabbia, paura: la popolazione bianca, che ha una forte tradizione di supremazia bianca, è attraversata però da un inquietante e nuovo fenomeno demografico: c’è un aumento del tasso di mortalità tra i maschi bianchi della classe lavoratrice (35-55 anni) e questo non era mai accaduto in un paese sviluppato e non in guerra… Non è così semplice risalire da questa situazione».

C’è relazione tra il crollo dei grandi modelli culturali, come quello raccontato nel suo documentario «Requiem for the American Dream» e la crescente xenofobia?

«Sì, anche in Europa. Un paio di giorni fa la Merkel ha subito un duro colpo nelle regionali da un partito di ultra destra; la Danimarca è un paese con una percentuale credo pari all’1% di popolazione migrante e sta letteralmente collassando poiché l’idea che qualsiasi cosa possa interferire con la loro purezza è inaccettabile. Quando mi riferisco al crollo del sogno americano alludo a problemi sociali ed economici molto rilevanti per la classe operaia, i cui salari sono uguali a quelli di 40 anni fa; nonostante la crescita del PIL, negli ultimi 15 anni il 95% della ricchezza prodotta è andata nelle tasche di appena l’1% della popolazione.

«Gli Stati Uniti sono il paese più ricco del mondo, ma se consideriamo il Pil rispetto alle misure di giustizia sociale, nelle statistiche dell’Ocse, il loro posto è molto in basso, alla stregua di paesi come la Grecia e la Turchia. Non ci sono ammortizzatori sociali, i salari sono bloccati e i lavori diventano temporanei invece che permanenti. Si perdono lavori nell’industria manifatturiera in parte per i progressi tecnologici e in parte perché le multinazionali scelgono di produrre all’estero dove i salari sono più bassi.

«Ma gli immigrati non c’entrano, anzi migliorano lo stato dell’economia: lavorano, pagano le tasse, in qualche caso investono. Per questo è inquietante che in paesi europei come la Germania, dove il tasso di migranti è alto, il razzismo invece di diminuire, aumenti».

Quali sono i rischi per la ricerca scientifica nel mondo contemporaneo?


«La scienza negli stati totalitari corre dei rischi molto seri , ma anche in altri ambiti ci possono essere forti limitazioni, a volte molto difficili da superare. Negli Stati uniti, per esempio, ci sono barriere per quanto riguarda la ricerca sulla cellule staminali, soprattutto barriere culturali e sociali. In campi più affini alla ricerca scientifica il contenzioso politico è molto più evidente, ad esempio nel dibattito sul cambio climatico, che riguarda tutti: il partito repubblicano si limita a negare la sua esistenza.

«Lamar Smith, un rappresentante repubblicano, cristiano evangelico, assilla gli scienziati richiedendo loro di fornire i tabulati delle loro mail tra colleghi, in cerca di una traccia di cospirazione, che tagliando il consumo di combustibili fossili, distruggerebbe l’economia. Anche nelle scienze politiche, come in quelle politico-sociali, le ripercussioni possono essere molto importanti; le ricerche sulle relazioni tra opinione pubblica e politiche pubbliche, come dicevo, non sono quasi mai finanziate, visto che portano spesso alla scomoda conclusione che l’opinione pubblica è poca cosa in politica.

Il 24 settembre si terrà a Roma una grande manifestazione di solidarietà contro l’attacco di Erdogan al popolo curdo; qual è la sua opinione al riguardo?

«Il conflitto risale agli anni ’90: migliaia di persone uccise, centinaia di villaggi distrutti, centinaia di migliaia di persone fuggirono e tutte queste operazioni sono state appoggiate dagli Stati Uniti e paesi Nato. Tra le orribili atrocità ci furono anche processi sommari, come quello al mio editore del tempo, per un mio libro in cui erano contenute 5 pagine sulle repressioni in Turchia.

«Dopo un momento di maggiore tolleranza – uno dei miei ultimi viaggi è stato per un intervento in memoria del coraggioso editore Hrant Dink che voleva far luce sul massacro degli armeni e che fu ucciso – nell’ultimo anno la repressione si è accentuata: ci sono stati attacchi contro la popolazione curda, centinaia di intellettuali sono stati minacciati, licenziati, imprigionati; gli attacchi in Siria, teoricamente contro l’Isis, si sono dimostrati rivolti ai curdo siriani per impedire loro il controllo del confine con la Turchia.

«È un conflitto molto aspro che non accenna a migliorare ed è vergognosa la poca attenzione dell’Europa, dovuta probabilmente alle negoziazioni ciniche che sta portando avanti per tenere lontani i profughi siriani. Gli Usa hanno accolto 10.000 profughi, un numero esiguo che rivela la profonda crisi morale di tutti i paesi occidentali: gli stessi, Italia inclusa, che hanno creato le condizioni per questo conflitto, che hanno fornito armi e copertura diplomatica. In termini di responsabilità, è una crisi umanitaria davvero molto pesante per i paesi Nato».

Se il genere umano vuole progredire e non spegnersi non basta far funzionare meglio le macchinette che hanno fatto diventar ricchi e ricchissimi i pochi e poveri e poverissimi i molti. «Una riflessione su scuola discipline umanistiche e formazione dei cittadini. Estratto del libro

Il presente non basta (Mondadori). La Repubblica, 15 settembre 2016

La parola «scuola» evoca una stagione della nostra vita, un titolo di studio, la Cenerentola dei nostri Ministeri, il ricordo di un ottimo insegnante, l’origine dei nostri fallimenti o successi. Non si ricorderà mai abbastanza che «scuola» deriva da «scholé», parola greca che indica il tempo che il cittadino riservava alla propria formazione, quella che i Greci chiamavano «paideía» e che volevano non specialistica e monoculturale, bensì completa e integrale: «enkýklios», «circolare». Secondo questa prospettiva originaria, la scuola è il contrappeso di certa modernità polarizzata sul «presente», sull’«adesso», sull’«ora» (modo, da cui appunto derivano sia «moderno» che «moda»). Essa è il luogo dove si formano i cittadini completi e non semplicemente — direbbe Nietzsche — «utili impiegati ». In un Paese civile e colto, centrale è la figura dell’insegnante, del docente, del maestro ( magister), vale a dire «colui che sa di più e vale di più» ( magis) e che si mette in relazione con gli altri (- ter); in opposizione a minister, «colui che sa e vale meno». Sono termini del linguaggio religioso: magister era il celebrante principale, minister era il celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi abbiamo sostituito al rispetto per i Maestri l’ossequio per i Ministri.

Alternativa ciclicamente ricorrente è quella che si chiede se la scuola deve avere lo sguardo rivolto al passato o al futuro, privilegiare la conoscenza o la competenza, mirare alla formazione o alla professione. A chi sostiene che la scienza è destinata a scalzare inesorabilmente le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà rispondere che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere della domanda; e pertanto tra scienza e humanities ha da essere un’alleanza naturale e necessaria, perché i linguaggi sono molteplici ma la cultura è una. Steve Jobs ci ha ricordato la necessità del ritorno alla figura dell’ingegnere rinascimentale.

Ma cosa rispondere a chi – pur consapevole che la scuola, intesa come scholé, ha il compito di insegnare ciò che non si apprende né dalla famiglia né dalla società né dalle istituzioni – deve fare i conti con la realtà aggressiva e incontrovertibile di un mondo extrascolastico parallelo, di un’altra educazione, di un altro apprendimento? Di fronte a questo nuovo scenario giova continuare a credere che la scuola è l’unico luogo di incontro reale rispetto al mondo immateriale dei nuovi media? Che siamo in presenza di puri strumenti, mentre i valori sono altri? O piuttosto sarà bene riconoscere che con la realtà «fisica» convive la realtà «digitale» e che le tecnologie e i social network creano un nuovo «ambiente», il che significa nuovi pensieri, nuove relazioni, nuovi stili che entrano nella vita di tutti i giorni?

Indubbiamente questa nuova cultura e formazione ha rischi seri: su tutti, quello che Eliot chiamava «il provincialismo di tempo », proprio di chi crede che la vita e il mondo inizino con noi e col nostro presente; e quello che Byung-Chul Han chiama «l’inferno dell’Uguale»: un mondo senza il pathos della distanza e l’esperienza dell’alterità. Cosa sa del presente chi conosce solo il presente? Cosa sa di tecnologia chi conosce soltanto la tecnologia? Cosa sa dell’altro chi con un clic ne vede la faccia ma non il volto?

Solo la scuola può - e, io aggiungo, deve - comporre tale querelle, coniugare il momento «noto» dell’insegnamento dell’aula (docere) con quello «nuovo» dell’apprendimento della rete (discere), tradurre ( trans-ducere) la comunicazione in comunione e fare dei tanti «io» il «noi», che dovrà essere il pronome del terzo millennio. Compito della scuola è insegnare che le scorciatoie tecnologiche uccidono la scrittura; ricordare ai ragazzi che la vita è una cosa seria e non tutto un like; formare cittadini digitali consapevoli, come essa ha fatto con i cittadini agricoli, i cittadini industriali, i cittadini elettronici; convincere che la macchina non può sostituire l’insegnante; dimostrare che libro e tablet non sono alternativi e rivali ma diversi perché il libro racconta, il tablet rendiconta. Una sfida tanto auspicabile quanto utile sarebbe la compresenza del professore di «latino» - e in generale dei professori delle discipline umanistiche - e del professore di «digitale», ora infelicemente denominato dalla burocrazia ministeriale «animatore digitale», come se si trattasse di un ruolo ludico e ricreativo. Da tale confronto i ragazzi capirebbero sia la differenza tra il tempo e lo spazio sia la necessità della coabitazione tra l’hic et nunc («qui e ora») e l’ubique et semper («ovunque e sempre»).

Non ho mai capito la rovinosa alternativa per cui l’inglese o l’informatica debbano sostituire, e non piuttosto integrare, altre discipline come il greco e il latino. Errore ben rappresentato da quanto proponeva l’ex ministro Luigi Berlinguer: «Rendere opzionale il latino, dando così spazio alla necessaria accentuazione scientifica». Ma io dico: cosa di più arricchente e convincente di un liceo classico dove il ventaglio dei saperi umanistici si dispieghi e si coniughi con quelli scientifici? Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre; et et e non aut aut deve essere la misura della scuola. Questo è possibile con provvedimenti seri e investimenti veri: dilatando gli orari scolastici, abolendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti. L’unica riforma degna della scuola: crocevia del futuro.

Il nostro Paese, fino a non molti anni or sono, ha conosciuto – e riconosciuto anche economicamente – l’importanza e la nobiltà della figura dell’insegnante, del docente, del professore: colui che «professa» (dal latino profiteri) la ricerca, il fondamento e la trasmissione del sapere e dei saperi. Figura cardine di un Paese civile che abbia il futuro nel sangue: da riscoprire e riabilitare, perché oggi maldestramente delegittimata da politici e famiglie e sciaguratamente derubricata a dimensioni amministrative e mansioni burocratiche. Peggio: ridotta al ruolo di «facilitatore», una sorta di «super-capoclasse»; e così si fa un torto triplice: agli insegnanti, che sanno che per alcuni traguardi culturali occorre munirsi – avrebbe detto Mandel’stam – di «scarponi chiodati»; agli studenti, che chiedono testimonianze di coerenza e verità; e alla scuola, che non è e non deve essere il luogo dove si attenuano o si occultano le difficoltà; dove, per una malintesa idea di democrazia o egualitarismo, si rendono deboli i saperi anziché forti gli allievi.

L’autore, latinista, è stato rettore dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

«Il manifesto, 14 settembre 2016

L’insistenza di Confindustria e governo sulla «produttività del lavoro» potrebbe far sperare in un loro ritorno ai Classici dell’economia politica: se non a Karl Marx, almeno ad Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».

Un concetto che si ritrova nel primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Si potrebbe anche sperare che così si voglia riconoscere al lavoro di essere l’unico «fattore produttivo» capace di produrre un sovrappiù.

Temo, tuttavia, che non sia così. Lo slogan del Presidente della Confindustria, il suo «grido di guerra» ampiamente ripreso, è «Vogliamo una più alta produttività per pagare salari più alti»: una esortazione a che, prima di tutto, i lavoratori si mettano a lavorare di più.

Il vero slogan dovrebbe invece essere: «Pagheremo salari più alti perché vogliamo una più alta produttività».

Dalla crisi del ‘29 Italia e Germania uscirono con il fascismo e il nazismo; gli Stati Uniti proprio con una politica di alti salari, con il «Fordismo» di Henry Ford e di Franklin Delano Roosvelt, cui Gramsci dedicò grande attenzione. Come lo stesso Gramsci aveva previsto, la lunga stagione del Fordismo non poteva durare in eterno, e così fu; né il Fordismo può essere preso oggi a modello per tentare di uscire dalla lunga serie di crisi che alla sua fine seguì, dai primi anni Ottanta del secolo scorso. Tanto meno in Italia, dove non c’è né un Ford né un FDR.

Tuttavia il Fordismo contiene una lezione per il nostro presente, proprio per quanto riguarda la questione della produttività del lavoro.

A misura della «produttività del lavoro» normalmente si prende il rapporto tra Pil e numero di ore lavorate. Questa misura, in verità molto rozza, nulla però ci dice circa le determinanti della produttività del lavoro. Una e ovvia, che ho il sospetto sia quella implicita nello slogan «Vogliamo una più alta produttività per pagare salari più alti», è la voglia di lavorare dei lavoratori. Le vere determinanti sono però altre e più complesse, di ordine qualitativo: il così detto «progresso tecnico» e il contesto in cui il lavoro viene prestato: l’impresa e lo Stato.

Ho messo tra virgolette «progresso tecnico», perché sarebbe meglio parlare di «cambiamento tecnico».

La prima locuzione suggerisce che un cambiamento nelle tecniche di produzione comporti un miglioramento nelle condizioni di vita dell’intera società, ma poiché la scelta delle tecniche di produzione è riservata ai proprietari delle macchine, e non anche a chi a le fa funzionare, quell’esito è improbabile.

Fin dal 1930 Keynes aveva avvertito che «Siamo colpiti da una nuova malattia: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera».

Per medicare le conseguenze patologiche del «progresso tecnico» occorrerebbe dunque che le imprese si assumessero le loro responsabilità, per quanto riguarda la qualità della produttività del lavoro, e che altrettanto facesse lo Stato per quanto riguarda le condizioni di vita dei lavoratori in quanto cittadini.

Pochi, tuttavia, sono nel nostro paese gli imprenditori che ciò fanno, e per miopia: poiché ciò sarebbe anche nel loro interesse. E pochissimi sono gli imprenditori «schumpeteriani», che a differenza dei tanti imprenditori-rentier non si riconoscono nell’insulsa definizione del nostro codice civile all’articolo 2082: «È imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi»; imprenditori «schumpeteriani» che creano e realizzano nuovi prodotti o nuove qualità di prodotti, che introducono nuovi metodi di produzione, che creano nuove forme organizzative dell’industria, che aprono nuovi mercati di sbocco e nuove fonti di approvvigionamento.

Assenti, in Italia, un Ford e un FDR, e in presenza di pochi veri imprenditori, tutto ricade sulla spalle dello Stato; ma dovrebbe essere uno Stato che provvedesse a risanare, sviluppare e consolidare quel poco di stato sociale che ancora c’è: Scuola Università Ricerca Sanità Assistenza, e questo non con la beneficenza ma con nuovi investimenti.

Al presidente della Confindustria di recente è stato chiesto: «Come pensa che possa risalire il Pil senza sostenere la domanda?»; il Presidente rispose: «Alla domanda ci si arriva attraverso la politica dell’offerta e non facendo l’inverso.» È questa una tesi, la così detta «legge degli sbocchi», che risale al Jean-Baptiste Say del suo Traité d’économie politique (1803): una «legge dell’economia» che nessuno rispetta, né nella teoria né nella pratica.

Ora un governo che davvero volesse fare ciò (risanare il contesto, e rilanciare la produttività e la domanda effettiva), ciò potrebbe fare. Mi aspetto l’obiezione: «Dove si trovano i fondi, senza trasgredire le regole comunitarie?».

La domanda è legittima, ma la risposta è semplice: i fondi si troverebbero rispettando e facendo rispettare l’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un articolo che questo governo non ha rispettato con molti suoi provvedimenti: dall’abolizione dell’IMU alla Voluntary disclosure. Termine, quest’ultimo, che evoca il Manuale del confessore: «Dóminus noster Jesus Christus te absólvat et ego absólvo te a vínculo excommunicatiónis, in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen».

Se invece quell’articolo si rispettasse e si facesse rispettare come si deve, poiché l’evasione fiscale è un furto, si rimedierebbe all’ingiusta distribuzione del reddito e della ricchezza, che è una delle cause della forma attuale e più perniciosa delle crisi economiche: la deflazione; e inoltre una redistribuzione del reddito (sia chiaro: dai ricchi ai poveri) farebbe aumentare la domanda per consumi, e dunque degli investimenti; e rimarrebbero ancora fondi per rendere più civile questo povero paese.

La risposta meritata da un ambasciatore che non sa fare il suo mestiere. A qualcuno viene il dubbio che sia condizionatodai nemici di Re Matteo.

L'Espresso online. blog "Piovono rane", 14 settembre 2016

Gentile ambasciatore Phillips,

personalmente non sono tra quelli che che si scandalizzano per il suo intervento di ieri sul referendum italiano: anzi, qui si apprezza la franchezza nell'ammettere che gli Stati Uniti continuano a condizionare la politica italiana, come hanno sempre fatto da quando ci liberarono dai nazifascisti.

Tra l'altro, cinquant'anni fa a interferire eravate solo voi e il Vaticano: oggi i poteri esterni che limitano la democrazia in Italia (e non solo) sono molto di più - e spesso si tratta di concentrati finanziari indecifrabili, senza volto, senza nome. Al confronto dei quali il suo intervento fa quasi tenerezza, perché ci fa sentire tutti più giovani, ci rimanda a un mondo più semplice.

Semmai quello che mi ha stupito è che nessuno l'abbia avvertita, avvocato Phillips, dell'"effetto boomerang": con tutto il rispetto e l'ammirazione per gli Stati Uniti, l'idea che la maggiore potenza del mondo voglia cambiare la Costituzione italiana forse a qualche italiano non sembra piacevolissima.

Mi chiedo quindi che consiglieri abbia, lì in via Veneto. Da da quali fonti tragga la sua lettura delle cose nostrane.

E qui viene il punto, ambasciatore. Le sue fonti, i suoi informatori. È la questione fondamentale.

Vede, quando sei anni fa WikiLeaks pubblicò una serie di cablogrammi della diplomazia americana, qui ci si è tutti divertiti a scoprire che consideravate Berlusconi "un clown" ma non si è guardato abbastanza al punto più stupefacente che emergeva da tutta la vicenda: cioè, appunto, la qualità delle vostre fonti.

Abbiamo cioè scoperto che l'ambasciata Usa informava Washington sulle cose italiane ritagliando e traducendo articoli di giornali. E con criteri di scelta - diciamo - un po' superficiali. Noi, che forse abbiamo letto troppa letteratura spionistica, pensavamo che per sapere cosa succedeva in Italia gli Usa si avvalessero di chissà quali teste d'uovo, chissà quali infiltrati nei gangli di potere, chissà quali iniziati alle segrete cose. Invece ritagliavate un po' di editoriali, poi li mandavate al Dipartimento di Stato con quattro notarelle di commento. By the way, nel casino dei cablogrammi a un certo punto ho appreso che avevate classificato come "confidential" pure una cosa che avevo scritto io su questo blog, e le confesso che ci ho riso una settimana, con gli amici.

Ecco, tutto questo per dire che forse il suo intervento sul referendum costituzionale è frutto di un increscioso equivoco. Di qualche informazione letta in giro, ma poco approfondita. Chessò, tipo un editoriale di Panebianco, per capirci.

Le spiego: sì, le intenzioni iniziali di Matteo Renzi erano più o meno quelle che dice lei, cioè aumentare la governabilità anche a discapito della rappresentanza, velocizzare l'iter legislativo, accrescere il potere del premier rispetto al Parlamento. Questo obiettivo può piacere o non piacere (a me, ad esempio, non piaceva), ma era sicuramente l'intenzione del nostro attuale premier. E, se il disegno fosse andato in porto così come concepito, avrebbe probabilmente avvicinato l'Italia al sistema americano, anzi forse avrebbe ridotto ancora di più i contrappesi di potere rispetto a quelli di cui godete voi oltreoceano.

Ma, ambasciatore, il punto è che poi non è andata così.

Qui siamo in Italia. Che è un posto complicato. Dove oltre ai partiti ci sono le correnti, le cordate, i transfughi. E soprattutto una subcultura dell'arzigogolo che a Bisanzio in confronto era tutto lineare.

Quindi la legge che aveva in testa Renzi - a forza di mediare con Verdini, di cercare la quadra con Bersani e di accontentare Alfano - si è trasformata in una cosa che non velocizza affatto l'iter legislativo ma anzi lo complica, creando un'infinità di varianti, di de cuius, di possibilità diverse. La vaghezza della norma finale - insieme alla pessima forma in cui è stata scritta - lascia spazio a interpretazioni quasi infinite, quindi a potenziali dispute altrettanto eterne. E se - Dio non volesse - di qui ai prossimi anni dovessimo avere in Camera e Senato maggioranze e presidenti di opposti partiti, il tutto si declinerà in una montagna di conflitti davanti alla Corte Costituzionale. La quale sarà in ogni caso impegnata notte e giorno a dirimere le competenze tra Stato e Regioni in questioni relative a industria, agricoltura, artigianato, per esempio.

Se non ci crede, ambasciatore, si faccia tradurre il testo della Renzi-Boschi. In particolare l'articolo 70. Con tanti auguri ai traduttori, perché già chi è madrelingua italiano fatica a comprenderlo.

Ecco, avvocato Phillips, io temo fortemente che lei sia caduto in un tranello per la cattiva informazione che le hanno riportato.

Così come probabilmente per scarsa capacità di lettura delle cose italiane non le hanno detto che il problema degli investimenti stranieri nel nostro Paese è direttamente collegato non con la Costituzione della Repubblica (che parla d'altro) bensì con gli ostacoli concreti e reali che tutti gli investitori del mondo si trovano davanti al naso quando mettono dei soldi nello Stivale: corruzione diffusa, malavita organizzata e non, burocrazia farraginosa, incertezza delle norme, lungaggini nella loro applicazione, ritardi grotteschi nei pagamenti delle fatture e così via.

Insomma, se qui arrivano pochi investimenti è per via della parte peggiore dell'Italia, avvocato Phillips, non per la Carta del '48: che è invece una delle cose migliori prodotte da questo Paese.

Sono certo che lei, se ben informato, saprà distinguere: così come passeggiando per Roma ha imparato negli anni a distinguere le bellezza dei suoi vicoli e dei suoi monumenti dalla bruttezza della sua monnezza e del suo traffico.

Con la più viva cordialità e i migliori auguri di buon lavoro.

Un giusto colpo di frusta da parte di chi aprì sul giornale comunista lil dibattito sulla "morte della politica" e sulla liquefazione della sinistra novecentesca , e insieme alcuni punti dai quali ripartire.

Ilmanifesto, 14 settembre 2016

C’è un fatto curioso e significativo. Benché sia evidente e foriero di nuove disfatte, il vuoto desolante nel quale ci troviamo stenta a essere riconosciuto nella sua radicalità, per così dire epocale. Così il discorso sulla «morte della politica», che potrebbe e dovrebbe offrire le premesse per ripensare in tempo utile natura e funzioni delle soggettività della sinistra – compreso questo piccolo glorioso giornale – in un contesto totalmente mutato dagli anni della cosiddetta prima Repubblica e del bipolarismo mondiale della Guerra fredda, questo discorso è derubricato a faccenda di ordinaria amministrazione, quando non frainteso nel ricorso a puntualizzazioni fini a se stesse.

Queste ultime – la politica non muore perché tutto è politica – lasciano il tempo che trovano, e il tempo è prezioso.

Noi cerchiamo di correre contro di esso perché sentiamo che è in gioco anche una questione in senso largo generazionale. Chi non ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, chi è venuto all’età della ragione quando la politica era già, nel mondo, lo scatenamento neoliberale degli spiriti animali e, in Italia, la mercificazione berlusconica delle istituzioni – in una parola la post-democrazia – ha motivo oggi di identificare l’esistente con l’orizzonte del possibile o di scambiare tutt’al più le proprie aspirazioni soggettive per istanze critiche.

Ma in questa polverizzazione molecolare la sinistra evapora. E nella rassegnata introiezione del dato come unico quadro di senso, la politica – la politica come pratica storico-critica volta alla trasformazione – muore o si riduce a simulacro.

Non dovrebbe essere dunque difficile intendere che questa nostra discussione investe temi vitali. Che ne va, ormai a breve, della sopravvivenza dei residui della sinistra politica, al netto delle grottesche autoinvestiture renziane o bersaniane.

Negli Stati Uniti, che restano di fatto un modello trainante della società europea, la sinistra è da sempre «puro pensiero» critico per dir così disincarnato, annidato nelle Università e nei think tank, affidato paradossalmente al samisdat di ristrette élites intellettuali. È un eccesso preconizzare che nel giro di pochi anni anche in Europa e nella provincia italiana – finalmente normalizzata – sarà questo lo scenario, a meno di mutamenti oggi imprevedibili? Se non lo è, abbiamo dinanzi un destino ineluttabile o un terreno disponibile all’analisi e all’intervento pratico?

Benché la stessa resistenza a riconoscerla, prima ancora che a farsene carico, testimoni l’intensità della crisi, un minimo di lungimiranza consiglierebbe, a mio avviso, di assumere seriamente la questione, con tutto il suo portato quotidiano di frustranti evidenze.

Il punto è: da dove cominciare finalmente questo discorso, consapevoli della sua urgenza e della sua complessità? La crisi della sinistra italiana ed europea è – su questo in molti conveniamo – «organica». Cioè profonda, strutturale. E pervasiva: trasversale agli spazi della cultura e della moralità dei soggetti individuali e collettivi, oltre che incombente sul grado della loro efficacia materiale.

Forse, allora, è proprio da qui che conviene muovere: dalla qualità del «fattore soggettivo», che al dunque rappresenta sempre un aspetto decisivo nello sviluppo delle crisi.

Vorrei fare qualche nome, per entrare a questo punto in medias res. Proprio Gramsci, la cui lezione spesso ritualmente evochiamo; ma anche altri nostri maggiori a cavallo tra l’Otto e il Novecento (Lenin e Lukács, per esempio; e Antonio Labriola) insistettero sull’importanza dell’autonomia culturale e ideologica delle organizzazioni del movimento operaio. Scorgendovi non un corollario ma l’aspetto determinante la loro costituzione e capacità d’intervento.

Autonomia, per un verso, dall’ideologia (e dalla moralità) dominante. Costruzione autonoma, per altro verso, di strumenti concettuali e di criteri di giudizio per la determinazione delle finalità della prassi politica.

Quel che era indispensabile ieri lo è forse meno oggi? O oggi lo è semmai in maggior misura, dato che molto è mutato nel frattempo nelle coordinate di fondo della realtà economica, sociale e politica in cui si tratta di operare? Passaggi di alcuni interventi nella nostra discussione sembrano variamente convenirne.

Valentino Parlato muove dal silenzio assordante della cultura critica; Alfonso Gianni lamenta l’incapacità di leggere la crisi attuale; Stefano Fassina l’assenza di ragioni fondative in una riflessione stagnante. Da ultimo, per contrasto, Luciana Castellina rivendica la densità della presa di coscienza collettiva degli effetti perversi della modernizzazione capitalistica che, all’altezza del ’68-69 e nel decennio successivo, sorresse la sinistra di classe in Italia.

Mi pare che una diagnosi comune circoli in queste considerazioni e che da questa dovremmo partire, senza indulgenza.

Siamo oggi innegabilmente al cospetto di una pochezza disarmante di cui andrebbero individuate le cause. Il respiro corto della politica politicante non è innocuo né – suppongo – accidentale: risente di certo di una fase storica regressiva segnata dall’accentrarsi della sovranità presso oligarchie sottratte al controllo democratico e dal crollo delle grandi ipotesi trasformative; ma tradisce anche le motivazioni di buona parte di un ceto politico e sindacale balbettante e disorientato, sganciato dal conflitto, non di rado disponibile alle seduzioni dell’opportunismo.

Al tempo stesso il silenzio apolitico o il conformismo di quella che fu la cultura democratica impegnata al fianco delle lotte operaie e studentesche pongono un problema di prima grandezza, a meno di non assumere deterministicamente l’inerzia complice dell’intellettualità.

Insomma, forse è arrivato il momento di fare tesoro di un’intuizione che segnò secoli addietro la nascita dell’antropologia moderna: partire da noi senza vie di fuga ed esorcismi di comodo è indispensabile per comprendere le ragioni della crisi della sinistra e scongiurare la morte della grande politica.

Intervista di Tommaso Di Francesco allo storico del nostro colonialismo Angelo Del Boca: «Il governo può chiamarlo sanitario-militare ma è un intervento di soldati a terra. Ci infiliamo dentro la seconda guerra civile libica, in un imbuto rischioso e senza fine». Il manifesto, 14 settembre 2015


Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica e sul ruolo dell’Italia ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italianio, esperto di Libia e di Africa e autore tra l’altro di una biografia di Gheddafi.
Ieri alla camere, la ministra della difesa Pinotti e il ministro degli esteri Gentiloni hanno presentato il piano del governo sulla Libia, subito operativo. Il Parlamento è ridotto ad ascoltatore, non decide nulla. E la portaerei Garibaldi con il suo carico è già partita.

Interverremo in Libia con una missione «sanitaria-militare» che si chiama Ippocrate, con «60 sanitari tra medici e personale infermieristico» ma con «135 uomini a supporto logistico e 100 parà» della Folgore, più i droni e i cacciabombadieri della base di Trapani, più la portaerei Garibaldi. Che ne pensi?
«Direi che siamo in guerra e stavolta con i soldati sul terreno, non si tratta più solo di raid dall’alto dei cieli. E un intervento sanitario dovrebbe essere caratterizzato da una presenza militare più che ridimensionata, assolutamente diversa e di supporto. Qui è proprio il contrario: i militari appaiono predominanti. In genere si comincia così, poi si aggiungono sempre altri soldati».

Che cosa è accaduto perché si arrivasse a questa decisione, in qualche modo annunciata e che diventa operativa nel momento, ci pare, peggiore visto che in Libia è sempre più caos e guerra civile?
«È accaduto che la battaglia di Sirte non sta andando come si immaginava. Da più di un mese la città è data, anche dai media, per caduta e nelle mani delle truppe fedeli a Tripoli, e invece le milizie dello Stato islamico non cedono. Si è sottovalutato la struttura quasi blindata della città, costruita così da Gheddafi come la nuova Tripoli ma turrita e di cemento.

«Tra l’altro continuiamo a presentare le milizie di Misurata che combattono a Sirte come l'"esercito libico", quando sono solo alleate del governo di Al Serraj, ora internazionalmente riconosciuto anche dall’Onu, un governo che non controlla nemmeno tutta la Tripolitania e che si è insediato solo per chiedere l’intervento internazionale e perché vuole l’unità nazionale. Probabilmente è il peggior momento anche per Serraj».

Qual è la situazione sul terreno e quali schieramenti si contrappongono?
«Dall’inizio di agosto è cominciata una nuova fase della guerra. In appoggio a Serraj sono intervenuti anche gli Stati uniti con massicci bombardamenti aerei che, vista la struttura della città di Sirte, a quanto pare non hanno sortito l’effetto definitivo, nonostante le tante perdite dell’Isis. Misurata, dove arrivano centinaia di feriti, morti e vittime dei combattimenti, è sempre più in prima linea, non è solo una retrovia di intelligence, vettovaglie, addestramento, ospedali.

«È iniziata ora la fase concreta della spartizione della Libia. Perché intanto, dall’altra parte, la Francia, che ha mire sulla Cirenaica e sul Fezzan collegato alle crisi africane di Mali, Ciad e Niger, insieme all’Egitto di Al Sisi, tanto esaltato da Matteo Renzi, stanno appoggiando anche militarmente il generale Khalifa Haftar, il leader militare del governo di Tobruk. Che non riconosce quello di Tripoli e che rivendica il fatto che, un anno fa, era proprio l’esecutivo della capitale della Cirenaica ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale che diffidava degli islamisti al potere a Tripoli.
«Proprio in questi giorni il generale Haftar, mentre continua a bombardare Derna in mano alle milizie di Al Qaeda, è all’attacco e sta conquistando città e porti petroliferi libici decisivi per la continuazione della guerra e del controllo futuro della Libia. Come di ogni possibile trattativa diplomatica sul campo. Ecco perché inviare ora tanti soldati a copertura di una esigua missione sanitaria vuol dire partecipare alla seconda guerra civile libica, infilarci dentro un imbuto rischioso e senza fine».

Ma il governo italiano sostiene che l’invio dei nostri soldati è un «obbligo morale» perché non possiamo permettere che al di là delle sponde del Mediterraneo si rafforzi lo Stato islamico
«È un’affermazione perfino giustificabile. Se non ci fosse di mezzo il piccolo particolare davvero immorale: che l’Italia con i partner della Nato, in primis la Francia e in seguito gli Stati uniti, sono responsabili del disastro dello Stato libico. Qualcuno dovrà prima o poi ammettere ufficialmente il fallimento dell’intervento militare internazionale della Nato nel 2011 che abbatté Gheddafi garante almeno dell’unità del Paese. E che, pochi giorni prima di venire ucciso, ammoniva che se fosse stato eliminato lui allora sarebbero arrivati i veri nemici integralisti dell’Occidente.

«Siamo in guerra. Stavolta non la chiamano umanitaria ma sanitaria-militare, "Ippocrate", c’è una evoluzione. La chiamassero come vogliono, di fatto stiamo partecipando della spartizione della Libia e delle sue preziose fonti petrolifere».

».

Il manifesto, 14 settembre 2016 (c.m.c.)

Riuscirà oggi Jean-Claude Juncker a trovare le parole per riportare un po’ di coesione e solidarietà in un’Europa in parte ancora affossata nella crisi economica, ferita dal terrorismo e lacerata al suo interno sulla questione dei rifugiati?

Alla vigilia del discorso del presidente della Commissione sullo stato dell’Unione di fronte all’Europarlamento, sono volate parole grosse. Il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, ha affermato che l’Ungheria di Viktor Orban «dovrebbe venire esclusa temporaneamente o, se necessario, per sempre dalla Ue», sanzione da applicare a chi «come l’Ungheria, costruisce barriere contro i rifugiati che fuggono dalle guerre o viola la libertà di stampa e l’indipendenza della giustizia». È questo il «solo modo per preservare la coesione e i valori della Ue».

Per Asselborn, Budapest tratta i rifugiati «peggio degli animali», come testimoniano le numerose inchieste realizzate da organizzazioni umanitarie. Orban ha rifiutato il piano Ue di redistribuzione dei rifugiati: Budapest avrebbe dovuto accogliere 1.294 profughi. Ma finora la Ue non ha reagito alle provocazioni del premier ungherese. Per Human Rights Watch, Bruxelles è rimasta «virtualmente silenziosa», mentre avrebbe gli strumenti per opporsi alla politica repressiva di Budapest. Potrebbe usare l’arma finanziaria (l’Ungheria rigetta le regole dell’Ue, ma ne accoglie con favore i finanziamenti), fino a portare l’Ungheria di fronte alla Corte di giustizia.

Reazione violenta contro Asselborn da parte del ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto: il collega lussemburghese sarebbe un «intellettuale di poco peso», «un frustrato che predica e fa commenti pomposi». Szijjarto se l’è presa anche con il presidente della Commissione, ormai la bestia nera – con Angela Merkel – del fronte anti-rifugiati: «È curioso che Asselborn e Juncker, entrambi vengono dal paese dell’ottimizzazione fiscale, parlino di condividere il fardello. Capiamo cosa vogliono dire davvero: l’Ungheria deve farsi carico del fardello creato da errori di altri».

Il 2 ottobre, in Ungheria ci sarà un referendum sul piano europeo di redistribuzione dei rifugiati, con una domanda che contiene praticamente già la risposta negativa al quesito. Il governo ha spedito a casa delle famiglie ungheresi un libretto di 18 pagine dove sono contenuti tutti i pregiudizi contro i rifugiati: «gli insediamenti forzati insidiano la nostra cultura e le nostre tradizioni». Per Szijjarto, l’Ungheria ha diritto di scegliere con chi vivere e nessuno, tanto meno i burocrati di Bruxelles, può impedirlo. Il libretto del governo di Budapest si è ispirato, in peggio, alla propaganda fatta in Gran Bretagna dall’Ukip prima del Brexit, entrambi riportano un fotomontaggio con una lunga fila di profughi alle porte.

Un anno fa, nel settembre 2015 quando è stata proposta la redistribuzione dei profughi sbarcati in Italia e in Grecia, Orban era isolato. Ma dodici mesi dopo, a essere isolata è soprattutto la Germania, che ha guidato l’apertura ai rifugiati (anche se ora sta chiudendo progressivamente le porte). Orban ha ormai un gruppo compatto di paesi, il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, che ora ha la presidenza di turno semestrale del Consiglio Ue e venerdì organizza un vertice a 27 – senza Gran Bretagna – a Bratislava).

Il gruppo di Visegrad, nato nel ’91 a tre (la Cecoslovacchia era un solo paese) per favorire la futura integrazione prima nella Nato poi nella Ue, nel settembre 2015 si manifesta come un blocco nazionalista, con una dichiarazione di guerra alle quote di rifugiati. Ora l’obiettivo è allargare questo fronte nazionalista. Già l’Austria, che ha voltato le spalle alla Germania sui profughi, si sta convertendo alla chiusura.

. La Repubblica, 26 settembre 2016 (c.m.c.)

La decisione di Renzi di fissare il rapporto deficit-Pil del prossimo anno al 2,3 (e, se riuscirà ad ottenere da Bruxelles il via libera, al 2,4) rende meno complicata la strada del governo, ma prepariamoci ugualmente a stringere la cinta per circa 7 miliardi: dalla sanità, ai beni e servizi, alle partecipate. Risorse anche da nuove entrate come il rientro dei capitali-bis, la lotta all’evasione dell’Iva, giochi e frequenze.

Il Consiglio dei ministri previsto per oggi si occuperà di referendum: slitta dunque a domani la riunione per l’aggiornamento del Def. Intanto si rifanno i conti: i nuovi margini dovuti alle circostanze eccezionali (terremoto, migranti e minore crescita) ci consentiranno di sterilizzare l’aumento dell’Iva e di scongiurarlo definitivamente (il valore è 0,9 del Pil circa 15 miliardi). A scanso di equivoci il governo non molla la presa su Bruxelles: la flessibilità «ce la siamo guadagnata perché abbiamo fatto riforme e investimenti » ed è «sbagliato» non prolungarla nel tempo, ha detto il ministro per lo Sviluppo Calenda a L’intervista di Sky Tg24.

Sostanzialmente la questione dell’Iva sarà risolta aumentando il deficit e spostando il livello del fatidico rapporto con il Pil al 2,3-2,4 per cento: in questo modo si coprirà completamente la differenza con il vecchio deficit tendenziale dell’aprile scorso (1,4-1,5 per cento: rapporto così basso perché dava per effettuato il pericoloso aumento dell’Iva di 2 punti) e superando di slancio l’1,8 programmatico che aveva già avuto un mezzo via libera da Bruxelles. Insomma per evitare l’aumento dell’Iva non dobbiamo fare tagli ma ci basta aumentare il deficit.

La boccata di respiro c’è, necessaria per rilanciare la nostra economia, ma per arrivare ai 22-24 miliardi di manovra lorda (cioè il mancato aumento dell’Iva per 15 miliardi coperto con la nuova flessibilità più i 7-8 di nuovi interventi sull’economia) restano da trovare ancora nuove risorse. Si tratta infatti di finanziare le misure sulle pensioni, i contratti degli statali, povertà, Industria 4.0 (superammortamento, imposta unica per le società di persone, salario di produttività), ecobonus e interventi sui condomini, bonus scuola-bis, investimenti, terremoto.

Dunque la “nuova flessibilità” o comunque la decisione di portare l’asticella del deficit più in alto non basterà e si dovrà mettere mano alle forbici, operazione che tuttavia potrà essere indicata solo sommariamente nell’imminente “nota“ al Def e che sarà contenuta nella legge di Bilancio che potrà arrivare in Parlamento entro un paio di settimane.

La caccia ai 7-8 miliardi è aperta da tempo, ma stando alle ultime indicazioni il menù si starebbe focalizzando. Non è affatto escluso il taglio, o aumento ridotto, al fondo sanitario nazionale pari ad un miliardo. Il complesso della spending review resta ben saldo anche se la cifra dovrebbe assestarsi intorno ai 2 miliardi tra operazione tradizionale sull’acquisto di beni e servizi e ed altri risparmi cui vanno aggiunti 500 milioni dalla chiusura delle società partecipate. Il resto verrà da maggiori entrate: la prima misura in ballo è la voluntary disclosure [cioè un premio agli evasori fiscali che si pentono un po'- n.d.r.]- bis per la quale si stimano 1,5 miliardi di gettito sulla base di una ipotesi di capitali da recuperare fino a 30 miliardi.

L’altra posta sulla quale conta molto il governo è il cosiddetto split payment, una norma che consente da circa un anno all’amministrazione pubblica di trattenere l’Iva dei fornitori assicurando un versamento sicuro e integrale: il gettito sarebbe maggiore del previsto e potrebbe essere cifrato in 1,5 miliardi. Il resto verrà da interventi fiscali sui giochi e dalle frequenze per circa 500 milioni.

Un appello di Eugenio Scalfari su Repubblica ci sollecita a pubblicare questo reportage, pubblicato domenica scorsa. Si tratta di uno scandalo denunciato da tempo da chi segue le vicende delle migrazioni, di cui trovate ampia documentazione su questo sito (vedi in calce). L'Espresso, 12 settembre 2016

Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centrodi accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge nonesiste.. Ecco il suo diario
La quinta notte apro la portasull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa earroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa didecine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Nientelenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte dilana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sonosparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischiodi calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica dadue fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare alavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.

No, questa non è una bidonville. È unghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centrod’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce nesono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengonosfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” dellaLega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”,amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione,incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona,quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto intre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze delmomento.

La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto igangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da farprostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria adasciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion perl’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non lapolizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico delcancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille.Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nellarecinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso,una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Unasettimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il miodiario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato.


Telecamere e buchi nella rete

Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazionedi fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianuraai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza.Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’èun varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entranoaddirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritornodalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungola pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sonousciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Unastratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltorifoggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli èarrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hannoaperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notteil riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttostointegralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio chevende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista,appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione delGhetto di Stato.

I fari sono puntati a terra e letelecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Ilprimo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati.Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri perdue, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello.Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirlabrutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazzacentrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moscheae i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondocapannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in unadozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte,alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietrocancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altraschiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lousano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che ilsecondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lìvigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione delCara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornatadi sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso possoentrare.

I fantasmi respinti

Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah èil più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro ediciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musicaafro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fannoprostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommatelungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlavacosì forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamanoalla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci deimuezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’iniziodel massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduticome schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche dicerti fanatici islamisti di oggi.

Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova adormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro nonc’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman,24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumacheaggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani lecomprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Maservono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiestoasilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositoreperseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere idocumenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so.E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento dicollaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano dellalotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere miasorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. Laterra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi èquest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No.«Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie.«Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anchemangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tuvieni in moschea?».


Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare neipochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire allapovertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale proteggesoltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali emaliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Sulemanverrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia difantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori.

Gli schiavi in bicicletta

Un altro giorno è passato. È laseconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il lorotormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è giàla coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con lebottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmenol’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricolturapugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedentiasilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporalinigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista:per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro algiorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherriitaliani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Cosìmolti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli.

Le biciclette nel Cara sono groviglidi manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcunonelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsirubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, ilguadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Statovengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata,piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto ealloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensionetra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati,disposti a lavorare a meno.

Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti arifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri seraquasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti dalavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualchecompagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente adormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietrol’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spallail muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio comebersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti.
Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo,in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta èrespinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”.Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati,analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa allacooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari,una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinatosi aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba.

Le spie dei gangster nigeriani


«Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 annianche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Vieneda Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dallanotte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta dellamensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», hainsistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o laGermania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europeechiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca.Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amicia bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte.Meglio non esporsi troppo.

Precauzione inutile. La polizia non si è mai fattavedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco conla faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibiliconfini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corsodella notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con duepakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato azona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento,arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza dibirra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà siarrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amicinigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con unmaterasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sulsuo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso.Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici checosa fai qui?».

I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lohanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato finoa farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con unmachete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga,il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parloinglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adessochiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per iltelefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vaivia” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sulmaterasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanerenel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia.Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo delmuezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non simuove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco.

L'assalto dei cani randagi

Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondocui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Allaprefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questoGhetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato dicani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori.Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono inbicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le lorosagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiamaun’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono unadecina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentementetornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro.

Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una seraparliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzalevicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra.È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme allaPista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare iprezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani paganobene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiegaNasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In seianni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito unabella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiestoasilo in Italia».


Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Unamacchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per unanotifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Leragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se sianoospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavatanell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causadell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. Escompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le lucicolorate, la palla di specchi al centro del soffitto.

La corrente la rubano dalla rete di illuminazionepubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, aloro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attentiai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e incostruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonvillee il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro dabanalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bellascarica.

Benvenuti all'inferno


Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbeessere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovonascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo piùsicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato alreggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghierasfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Siricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dalbuio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila dibraccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamonel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengonotutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere.Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato difogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono albuio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce deifari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, maancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Unragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata allacolonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiottosotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita ètutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchiotelevisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suoorizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti.

Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati comematerassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando dueuova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e unrotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, unpiatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nelcortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo diCumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’ariaintorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. Èstata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchiodi cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne egli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro diaccoglienza.


Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sonouscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastranoprima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire anon far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio,questa è una trappola.

Lo sconto sulla dignità

I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiatodei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce nesono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane,accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllanogli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestiniper i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hannostrappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catenaalimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire alloscoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, prepararei richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, irisultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un repartooncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadinio moriremo da clandestini?

Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noiitaliani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti perpensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale arendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova giànella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribassopercentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra dipartenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo”di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassatola diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. Lalogica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefetturadi Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coopsapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunqueil ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti diqualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senzagara. Così perfino lo sconto è rimborsato.

La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per contodi “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo.Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazioneannuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono allamissione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categoriepiù bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce èaccesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti peri campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonnacentrale, che martella la vista: «Benvenuti».


Riferimenti

Su eddyburg vedi i molti articoli nella nella cartella EsodoXXI . Sulla prima accoglienza vedi in particolare l'intervento di Gianna De Masi, l'articolo di Stefano Galen Breve storia dei 35 euro , l'appello per la chiusura dei CIE, Sull'analisi della questione delle migrazioni e le risposte vedi Ospitalità e cittadinanza: un diritto e un dovere di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici, Edoardo Salzano, e i numerosi scritti di Guido Viale ospitati in questo sito

«L’organizzazione Medici per i diritti umani (Medu) ha presentato una mappa interattiva, realizzata sulla base delle testimonianze di mille migranti arrivati in Italia dall’Africa negli ultimi tre anni (2014-2016)».

Internazionale.online, 13 settembre2016 (c.m.c.)

Dall’inizio del 2016 in Italia sono arrivate 124.475 persone attraversando il Mediterraneo, la maggior parte di loro proviene dall’Africa subsahariana e ha alle spalle un lungo viaggio attraverso l’Africa, di cui la traversata è solo l’ultima tappa. Il 13 settembre a Roma l’organizzazione Medici per i diritti umani (Medu) ha presentato una mappa interattiva, realizzata sulla base delle testimonianze di mille migranti arrivati in Italia dall’Africa negli ultimi tre anni (2014-2016).

Le rotte più battute.

La rotta principale percorsa dai migranti dall’Africa occidentale passa attraverso il Niger e la Libia per poi arrivare in Italia attraverso il Canale di Sicilia (rotta occidentale-est). Dal Senegal, Gambia, Guinea e Costa d’Avorio i migranti si spostano prima a Bamako, in Mali, per poi passare da Ouagadougou in Burkina Faso e raggiungere il Niger. Una via alternativa passa da Bamako a Gao, in Mali, per poi arrivare a Niamey, in Niger.

Molti nigeriani raggiungono il Niger attraverso Kano. Alcuni migranti provenienti dal Camerun hanno raccontato di aver attraversato il Ciad per raggiungere Madama in Niger e proseguire fino in Libia. Da Agadez a Sabah comincia un tratto di rotta nel deserto chiamato “la strada verso l’inferno”, che tutti i migranti sono costretti ad affrontare per raggiungere la Libia. La durata media del viaggio dal paese di origine è di venti mesi. Il tempo medio di permanenza in Libia è di 14 mesi.

Le rotte orientali.

La principale rotta dal Corno d’Africa passa attraverso il Sudan e la Libia per raggiungere l’Italia attraverso il canale di Sicilia (Rotta orientale-centro). Dopo aver attraversato il confine tra Eritrea e Sudan, che è molto pericoloso, la maggior parte dei migranti raggiunge Kassala o il campo profughi di Shagrab in Sudan oppure il campo di Mai Aini in Etiopia. Una volta raggiunta Khartoum, i migranti attraversano il deserto verso la Libia con i pick-up. Un percorso alternativo e più breve attraverso il deserto parte dalla città di Dongola a nord di Khartoum.

Generalmente, un primo pick-up lascia i migranti al confine con la Libia, per poi tornare indietro verso Khartoum. I migranti vengono quindi fatti salire su un altro pick-up gestito dai trafficanti libici. Il costo del viaggio dal Sudan fino alla Libia varia da mille a 1.500 dollari. La maggior parte dei migranti raggiunge poi Agedabia situata in Cirenaica, a pochi chilometri dalla costa mediterranea. Dal nord della Libia i migranti cercano di raggiungere la costa a Bengasi (nel nordest) oppure a Zuwara e Sabratha (a ovest di Tripoli e più vicine alla Sicilia) per poi imbarcarsi.

La durata media del viaggio dal paese di origine è di 15 mesi. Il tempo medio di permanenza in Libia per i migranti del Corno d’Africa (la maggior parte eritrei) è di tre mesi. L’Etiopia e il Sudan sono i paesi dove i migranti eritrei rimangono più a lungo. Le tratte sono gestite da intermediari e trafficanti. La somme pagate dai migranti per affrontare queste rotte, in genere più alte dal Corno d’Africa, possono variare. In Libia, Niger e Sudan i migranti rischiano di essere sequestrati e messi in carcere.

La diffusione della tortura.

I traumi estremi come la tortura e le violenze sono un’esperienza comune durante il viaggio. Più del 90 per cento dei migranti intervistati ha raccontato di essere stato vittima di violenza, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine e lungo la rotta migratoria, in particolare in luoghi di detenzione e sequestro in Libia.

La privazione di cibo e acqua, le pessime condizioni igieniche sanitarie, le frequenti percosse e altri tipi di traumi sono le forme più comuni e generalizzate di maltrattamenti. Ci sono altre forme di tortura più specifiche sia fisiche sia psicologiche a cui sono sottoposti i migranti. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato.

Le ferite invisibili.

Nei centri di accoglienza in Sicilia (Mineo, Ragusa), l’82 per cento dei richiedenti asilo seguiti da Medu (162 pazienti) presentava ancora segni fisici compatibili con le violenze raccontate. Tra i disturbi psichici più frequenti registrati dai medici e dagli psicologi di Medu: il disturbo da stress post traumatico (ptsd) e altri disturbi legati a eventi traumatici, ma anche da disturbi depressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno.

Quando Shiva, una bambinadi dieci anni proveniente dalla Liberia, disegna il mare, lo colora sempre di nero, perché per lei, sopravvissuta a un naufragio per raggiungere l’Europa, il Mediterraneo rappresenta il dolore. Spesso questi disturbi ricevono meno attenzione delle malattie fisiche, sono ignorati o diagnosticati in ritardo. Questo, oltre a comportare un peggioramento e una cronicizzazione del quadro clinico, provoca gravi difficoltà al percorso di integrazione dei migranti nei paesi di asilo.

In fuga dalla persecuzione e dai lavori forzati.

I racconti sono stati raccolti dagli operatori e dei volontari dell’organizzazione in diversi centri diaccoglienza, in particolare in Sicilia, ma anche a Roma nei luoghi informali di accoglienza e presso il centro Psychè per la riabilitazione delle vittime di tortura, o a Ventimiglia e in Egitto. Tra i migranti provenienti dal Corno d’Africa, e in particolare dall’Eritrea, il motivo principale della fuga è il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato, un sistema paragonabile ai lavori forzati. I fattori che spingono alla migrazione dai paesi dell’Africa subsahariana occidentale sono più eterogenei: tra le persone intervistate la prima causa è la persecuzione politica, mentre le motivazioni economiche sono alla base del viaggio per il 10 per cento dei migranti.

«Zona euro. Per contrastare a tutti i livelli praticabili il potere della finanza sulle nostre vite vanno moltiplicati i circuiti autogestiti. In attesa delle prossime trasformazioni ».

Il manifesto, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

Non viviamo più da tempo in un’economia di sussistenza, dove ogni comunità si sostenta con beni prodotti al proprio interno. Oggi cibo, energia, casa e altri fattori essenziali alla vita civile come salute, istruzione, assistenza, mobilità si comprano; oppure possono essere forniti dallo Stato, che a sua volta li paga con il ricavato delle nostre imposte. Senza denaro anche la cosiddetta «nuda vita» si ferma.

Quando il denaro era costituito esclusivamente da monete metalliche, le emetteva lo Stato, che poteva anche truccarle (e lo faceva) alterandone il contenuto. Ma nessuno se non chi le possedeva poteva poi controllare come, quante e quando spenderle. Ma oggi monete e carta moneta non sono più del tre-quattro per cento della circolazione monetaria. Tutte le altre transazioni avvengono tramite banca. Bloccare le banche vuol dire bloccare tutta la vita economica.

Poi, finché è rimasta in vigore la separazione tra banche commerciali e di investimento introdotta dal New Deal, l’attività delle prime, cioè la circolazione monetaria, era sì regolata dallo Stato o dalla Banca centrale attraverso il tasso di sconto e l’obbligo della riserva, ma bloccarla era molto difficile. Infine, finché l’attività della Banca centrale è stata regolata dallo Stato e ne era di fatto una branca – prima, cioè, del “divorzio” tra Governo e Banca centrale, poi esteso anche alla Bce – lo Stato che spendeva in deficit più di quanto incassava con le imposte si indebitava di fatto con se stesso; o solo con chi accettava di prestargli del denaro alle condizioni decise dal Governo.

Non era facile speculare sulle emissioni di Stato: era il Governo, e non la finanza, a fissarne il rendimento. Un deficit eccessivo poteva sì provocare inflazione: è la motivazione con cui quel “divorzio” è stato imposto. Ma allora controllarne gli effetti era più facile che non ora, con i deficit in mano a una finanza extraterritoriale.

Oggi tutti i livelli della circolazione monetaria – spese quotidiane delle famiglie; depositi e risparmi; bonifici, fidi e anticipi di cassa delle imprese; spesa pubblica e relativi deficit; investimenti, sia speculativi che non – sono pezzi di un’unica piramide in mano all’alta finanza: una entità anonima, anche se governata da persone in carne e ossa, con nome, cognome e patrimonio personale di ampia entità.

È la privatizzazione totale, nelle mani di un numero sempre più ristretto di «operatori» e beneficiari, di tutto ciò che facciamo, che abbiamo, che siamo: i nostri redditi; i servizi forniti da Governo, Regioni e Comuni; le attività delle aziende, sottoposte ad alti e bassi del credito che rispondono più agli andamenti dei mercati finanziari che ai risultati delle imprese produttive; ma anche le attività di ogni comune cittadino o cittadina che, indipendentemente dai suoi guadagni e dal suo indebitamento personale (mutui, acquisti a rate, prestiti d’onore, cessione del quinto, scoperti bancari) è comunque titolare di una quota di debito pubblico che impone prelievi annuali per pagare interessi che si accumulano con la legge dell’interesse composto.

Il gigantesco debito pubblico italiano è minore degli interessi pagati su di esso dall’anno del divorzio tra Governo e Banca centrale. Ma non è all’impossibile restituzione di quel debito che si punta, bensì a usarlo per imporre la vendita – per ridurre, si dice, quel debito – di tutto ciò che di pubblico o di comune presenta un interesse economico. E questo, anche se in Italia la vendita di tutte le imprese pubbliche non basterebbe a pagare ai detentori del suo debito gli interessi di un anno. L’anno successivo però quegli interessi vanno pagati di nuovo, ma quelle imprese e i loro proventi non ci sarebbero più.

Come uscire da questo circolo vizioso? Per gli economisti mainstream non c’è altra strada che riportare il debito a un livello sostenibile rimborsandolo un po’ per volta, nonostante che quasi mai nella storia i debiti degli Stati siano stati saldati: il loro peso sul Pil veniva riassorbito in tutto o in gran parte dalla crescita o dall’inflazione; oppure venivano condonati; o azzerati con un default: evento molto frequente nella storia, anche se più difficile da sostenere oggi in un’economia globalizzata; perché oggi i creditori degli Stati non stanno in nessun luogo particolare, ma possono palesarsi ovunque e le ritorsioni, anche preventive, che possono attivare sono ubique. Così, nel luglio del 2015, Draghi e la Bce avevano dimostrato alla Grecia che chiudendo i rubinetti del credito si può paralizzare la vita di un intero paese.

Così, se entrare nell’euro può essere stato un errore, l’idea di uscirne unilateralmente, pensando di riconquistare competitività internazionale e sovranità monetaria, non fa i conti con le sanzioni e i costi che ciò comporterebbe; né con le difficoltà tecniche di un’operazione che lascerebbe per mesi, se non anni, mani libere alla speculazione; né, soprattutto, con il mutato contesto internazionale, dove contano sempre di più i meri rapporti di forza. Tutto ciò la rende non solo una strada impraticabile, ma denota anche la sua permanenza all’interno di un orizzonte “liberista”, dove la competitività è una panacea e il governo centralistico della moneta non fa problema.

Per questo, invece di demonizzare le scelte con cui il governo Tsipras ha cercato di far fronte a quel ricatto, in attesa che una parte almeno dell’Europa lo affiancasse nell’opposizione alle politiche della Trojka, sarebbe opportuno ripercorrere a ritroso il filo delle sue scelte, a partire anche da quelle precedenti all’avvento di Syriza al governo. Con il senno di poi, questa rivisitazione non può che confrontarsi con la necessità di costruire, dentro il contesto sociale esistente, circuiti di autonomia monetaria e finanziaria per restituire al denaro, o a una parte di esso, la sua natura di “bene comune” o, per dirla con Karl Polanyi, di «merce fittizia»: un bene che, come il lavoro e la terra (oggi diremmo l’ambiente), non si può comprare e vendere come qualsiasi altra merce, pena la dissoluzione dei legami che tengono insieme convivenza e società.

Si tratta allora, mentre lo si combatte anche in altri modi, di erodere a tutti i livelli praticabili il potere della finanza sulle nostre vite, moltiplicando circuiti monetari il più possibile autonomi e autogestiti: sul territorio, con monete locali oggi largamente sperimentate in diversi contesti e diversi continenti e, come già negli anni ’30 del ‘900, con maggior successo dove hanno il sostegno delle amministrazioni locali (ma oggi, in più, con il vantaggio di poter essere gestite con internet).

A livello interaziendale, con una moneta studiata per aver corso solo nell’interscambio tra imprese, ovviamente, anche qui con una garanzia pubblica. Ed è anche l’ambito in cui si è sviluppato il Sardex: una delle versioni odierne di autonomia monetaria, in questo caso elettronica, introdotta con successo da alcuni anni in Sardegna e che si sta espandendo in diverse regioni italiane, viene studiato in tutto il mondo e sta gradualmente conquistando anche i circuiti del commercio al minuto.

Per quanto riguarda la spesa pubblica, infine, integrandola con soluzioni come i certificati fiscali proposti da Luciano Gallino ed Enrico Grazzini, che consentirebbero il trasferimento di un potere di acquisto aggiuntivo alle piccole imprese e alle fasce più deboli anche senza violare le regole europee. Certo, fino alla sua possibile dissoluzione, di giorno in giorno più probabile, l’euro rimarrebbe il mezzo di pagamento principale (ed esclusivo nelle transazioni internazionali). Ma intanto, in vista di successive trasformazioni, una buona dose di autonomia monetaria sarebbe conquistata.

È questo il risvolto monetario di un programma per favorire e promuovere l’unica alternativa praticabile alla globalizzazione attuale, fondata sulla corsa al ribasso di salari, servizi pubblici, tutele ambientali e solidarietà: l’alternativa della riterritorializzazione o rilocalizzazione di una quota crescente di processi produttivi, di relazioni di mercato, di rapporti di lavoro. Una componente essenziale della conversione ecologica che va affrontata proprio a partire dalla dimensione locale.

«La femminilizzazione della sfera pubblica, può comportare l’attenuazione e perfino la scomparsa del conflitto tra i sessi. Lascia aperto il dubbio che finisca per essere invece la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica»

Comune.info,11 settembre 2016 (c.m.c.)

Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili — l’economia, la politica, la scienza, ecc.— faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella “naturale” o “divina missione,” che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine,» oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalla mura domestiche.

Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica — quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.

Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il sole24ore, non c’è giorno che non si elogi il “valore D,” il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di “supermamme,” capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera.

Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarietà, «quel profondo, benché irrazionale istinto» — come ha scritto Virginia Woolf— a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, provoca «la massima soddisfazione,» rende la mente «fertile e creativa.» Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco, o per nulla indagate dal femminismo, queste zone più intime del rapporto tra i sessi, ricompaiono oggi, deformate, sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale.

Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnate come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come «fuga dal femminile» screditato, oggi è il femminile stesso – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale, e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile alla cultura maschile.

Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi, e come nell’illusione amorosa, fa balenare la possibilità di una ‘tregua.’ Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu nel suo libro, Il dominio maschile (Feltrinelli 1998), la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica.

Quella che vediamo oggi sulla scena pubblica è una situazione molto diversa, si potrebbe dire capovolta, rispetto agli anni Settanta, e molto lontana dai cambiamenti che si prospettava il femminismo, sia riguardo al rapporto uomo-donna, sia riguardo ai legami da riscoprire tra ‘personale’ e ‘politico.’

Il corpo, e tutte le vicende che lo attraversano —nascita, morte, sessualità, maternità, malattia, invecchiamento, ecc— non è più il rimosso della sfera pubblica, la parte, pur essenziale, dei bisogni e dei comportamenti umani che è stata svalutata, perché più vicina alla natura, a pulsioni incontrollabili, consegnata al sesso femminile come destino, sottoposta a un potere patriarcale più feroce e illimitato di quello pubblico.

Particolarmente sovraesposto è il corpo femminile, come corpo vittima di violenza manifesta e psicologica — stupri, maltrattamenti, omicidi domestici, molestie, finalmente denunciati dalle donne stesse —, ma anche come corpo al centro di forme di prostituzione più o meno esplicite: corpo mercificato, usato come ‘risorsa,’ ‘capitale’ che le donne impugnano a proprio vantaggio, scambiandolo con carriere, denaro, successo.

Nasce allora spontanea una domanda provocatoria: i corpi femminili che vediamo muoversi nel luogo da cui sono stati a lungo banditi sono corpi liberati o corpi prostituiti? Sono donne che si sono riappropriate della propria vita, sciogliendola da un ‘destino naturale’ e disponendone liberamente, o sono schiave volontarie, donne che decidono di impugnare attivamente e nel proprio interesse quella che è stata storicamente la condizione del loro asservimento: il corpo oggetto, messo al servizio dell’uomo? La richiesta di ‘doti femminili,’ come ‘valore aggiunto,’ viene oggi dagli ambiti più diversi e più imprevedibili della società maschile — dall’industria dello spettacolo e dalla pubblicità, ma anche dall’economia, da una politica sempre più mediatica. Non meraviglia che siano le donne stesse a decidere di ‘usarle,’ ‘metterle al lavoro,’ ricavarne un beneficio.

A prendere rilievo sono i due attributi del ‘femminile,’ considerati a lungo ‘naturali’: la seduzione e la maternità. Se nel primo caso è più facile lo slittamento verso forme vicine alla prostituzione, a cui rimandano in parte le figure delle ‘escort,’ delle ‘veline,’ delle ‘donne immagine,’ nell’altro, quello che ha a che fare con la produzione e che valorizza le capacità relazionali, la flessibilità, le competenze ‘domestiche’ femminili, la retorica del materno impedisce di vedere l’aspetto di subalternità, di messa a servizio, che conferma, nella vita pubblica, il destino famigliare della donna, quel lavoro gratuito di cura, gratuito e invisibile perché confuso con l’amore. Non si esce, in entrambi i casi, da una soggettività femminile vista come ‘oggetto,’ merce preziosa, che resta, nonostante l’uso che oggi tendono a farne le donne stesse, in una posizione di asservimento rispetto al sesso dominante.

Femminilità al lavoro

Mentre il privato avanza minaccioso a minare le istituzioni della vita pubblica, nell’ambito lavorativo la presenza femminile, il sapere maturato in quel luogo ‘altro’ dalla polis che è la casa, appare imprevedibilmente come la via d’uscita alla crisi di un sistema produttivo rimasto storicamente il caposaldo del dominio maschile. La «potenza dell’amore» e la «coercizione al lavoro,» dopo essersi fatte a lungo la guerra, sembrano oggi destinate a un ideale ricongiungimento, per effetto della rivoluzione che sta attraversando l’economia e per l’opportunità che essa potrebbe offrire alle donne di far riconoscere il valore del talento femminile, a lungo ignorato. «Professionalità sensuale,» «intelligenza emotiva,» «pensiero emozionale,» sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore —armonia di nature opposte e complementari— , quando si trasferisce dalla relazione di coppia all’ambito lavorativo.

Il mito dell’interezza, che accompagna da sempre la cultura maschile, come nostalgica immaginaria riparazione a tutti i dualismi che ha prodotto, a partire dal diverso destino riservato a uomini e donne, viene oggi reclamato da versanti apparentemente opposti: da un lato, la centralità che stanno prendendo nel sistema produttivo le relazioni e i servizi alla persona, e di conseguenza il corpo, la dimensione affettiva e sessuale; dall’altro, l’affermarsi di un “desiderio” femminile che rifiuta l’alternativa tra la cura dei figli, della casa, e la volontà di «stare nel mondo,» che pensa di poter fare dell’esperienza della quotidianità «una leva per cambiare il mercato del lavoro.»

Il venir meno dei confini tra la casa e la pòlis sembra aver aperto il campo ad una ambigua ‘femminilizzazione’ dello spazio pubblico, e ad una non meno ambigua mercantilizzazione della vita intima. Se la precarizzazione, la perdita di diritti e garanzie certe, la pluralità imprevedibile delle occupazioni, fanno apparire il tempo di lavoro sempre più pervasivo e soffocante, e il capitalismo globale “un vampiro,” l’ingresso delle donne in ruoli manageriali di grandi aziende accende al contrario la speranza di poter ridefinire con un segno proprio poteri e regole organizzative della produzione, tradizionalmente riservati agli uomini.

Una volta cadute le barriere che hanno tenuto le donne, e tutto ciò che dell’umano è stato identificato col loro destino, confinati in una sorta di natura immobile, ignorata per quanto essenziale alla conservazione della specie, era inevitabile che la “differenza femminile” si mostrasse in tutta la sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettate e poste al servizio dell’uomo, manodopera di riserva subordinata alle necessità del ciclo produttivo, libertà e creatività esaltate nell’immaginario e storicamente insignificanti.

La riflessione prodotta dal femminismo sulle esperienze lavorative di donne di età e collocazione sociale diversa hanno oscillato, non a caso, tra marcare il “vantaggio,” il “di più” di competenza che verrebbe oggi al femminile dalla nuova economia, e ammettere invece la deriva verso forme di autosfruttamento, estese alla vita intera. L’Eros, che insieme alle donne e alle attitudini un tempo nascoste nel privato si fa strada dentro le rigide, impersonali impalcature delle organizzazione del lavoro, conserva il suo volto duplice trasferendosi contemporaneamente in “lavori marchetta” e in materia emozionale, creativa, per forme inedite, armoniose, di un potere non più separato dalla vita.

Se c’è chi cerca di svincolarsi dal coinvolgimento eccessivo, scegliendo lavori che non offrono «possibilità di grande soddisfazione,» e tanto meno conferme identitarie, altre fanno dell’azienda il luogo tanto atteso della «costruzione di sé,» di una affermazione di esistenza, prima ancora che di riuscita professionale: Si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa corporeità, ammiccante e sorridente.

E’ possibile che si vada creando un contesto prostituzionale allargato, legato al fatto che, quando l’attività relazionale tende a prendere il sopravvento, il soggetto debba anche lasciare agire, usare, sfruttare le capacità del corpo e la mimica della profferta sessuale … Nei lavori atipici la componente personale e relazionale ha un peso sempre più importante, sia nel contesto del lavoro che nella relazione contrattuale col padrone. Debbo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro.

La discussione che riguarda le donne e il lavoro, da qualunque parte venga fatta, non riesce a sottrarsi al binomio uguaglianza/differenza, che ha contagiato anche parte del femminismo, nonostante si sia affermata da tempo la consapevolezza che si tratta di un falso dilemma imposto dal potere maschile. Se è stato facile, per la generazione degli anni ’70, prendere distanza da un’idea di emancipazione che andava a confondersi con modelli virili, più tortuoso e tuttora incerto si è dimostrato il processo di liberazione che avrebbe dovuto criticare ogni forma di dualismo, di complementarietà, di riunificazione degli opposti.

Colpisce il fatto che siano proprio le donne, nel momento in cui si sfrangiano e si eclissano le identità e le appartenenze di ogni tipo, a impugnare, come rivalsa o affermazione di autorevolezza, una ‘natura’ o un ‘genere’ femminile usati dalla civiltà dell’uomo per tenere le donne in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica. Ma forse sta proprio in questa “incongruenza” uno dei nodi irrisolti della questione dei sessi. D’incongruenze e contraddizioni sono piene, non a caso, le analisi che più esplicitamente si sono poste l’obiettivo della «valorizzazione delle differenze di genere.»

La conciliazione di amore, cure materne e lavoro, la ricerca dell’interezza della persona, nonostante le evidenti ricadute “ancillari,” sia nel privato che nel pubblico, continua a essere perseguita dalle donne stesse, incuranti delle fatiche e delusioni a cui vanno incontro. All’accanimento nel volere che sia riconosciuta l’ “autorevolezza” femminile anche in ambito produttivo, fa riscontro la messa in ombra del potere, ancora saldamente in mano maschile, e degli interessi economici dominanti.

Ma è solo il bisogno di essere amate, l’attesa di una contropartita affettiva, a tenere le donne ancorate al sogno di una «armoniosa famiglia integrata»? Nel capovolgimento delle parti, non è forse una femminile onnipotenza -accedere al potere pubblico senza rinunciare a quello privato, seduttivo e materno- che inconsciamente le donne desiderano e gli uomini temono?

L’interrogativo si potrebbe formulare anche in un altro modo. Se oggi è il sistema produttivo, la nuova economia, ad aver bisogno del “valore D,” come vanno ripetendo da tempo i giornali della Confindustria, perché le donne in carriera notano tanta resistenza dei loro “capi” a riconoscere l’apporto creativo a un migliore funzionamento dell’azienda che esse possono dare? Perché prevale la tendenza a “usare” la loro dedizione materna, la “sovrabbondanza” del loro impegno lavorativo, come avviene per quel ‘dono d’amore’ che è, nella famiglia, il lavoro di cura?

E’ come se ci fosse, dentro l’economia capitalista, un residuo patriarcale che ne frena lo sviluppo: i dirigenti, coloro che hanno il potere di decidere avanzamenti di carriera, definire i criteri di valutazione, sono innanzitutto uomini, che non hanno alcun interesse a lasciarsi crescere al fianco, nei luoghi storici della loro autonomia, una potenza femminile più libera e più forte di quella conosciuta nel privato.

Oggi, pur restando ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere ‘competenze’ femminili, capacità relazionale, flessibilità, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale. Alla ‘differenza’ femminile si aprono territori inaspettati, ma ancora una volta può fare la sua comparsa solo come ‘risorsa,’ ‘merce preziosa,’ ‘valore aggiunto’ e complementare di un ‘intero’ che non cambia volto, mentre potenzia, nella riunificazione dei due rami della specie umana, le sue capacità.

La scena pubblica viene a prendere la figura di un doppio, l’uomo-femmina, da sempre presente nei miti della cultura maschile, come ricomposizione armoniosa di ciò che la storia ha separato e contrapposto secondo un preciso ordine gerarchico. Il corpo femminile, nella sua duplice valenza — erotica e materna— entra prepotentemente nell’economia e nella politica, dalla televisione al mercato pubblicitario, dai Palazzi del potere alla produzione industriale.

Con un’unica differenza: mentre il corpo nudo della ‘donna-immagine,’ della ‘escort’ o della ‘velina,’ provocano sussulti di indignazione, non accade altrettanto per l’uso, a costo zero, che il potere aziendale fa delle ‘doti materne’ – cura dei rapporti interpersonali, fluidificazione dei contrasti, dispensa di affetti e di attenzione.

Contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio di molte donne di conciliare maternità e lavoro, il “doppio sì” di cui parla il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano nel Quaderno di Via Dogana 2008. La ‘cura,’ che le donne prodigano gratuitamente all’interno delle case, svalutata per la contaminazione col corpo e con la dipendenza, con i bisogni essenziali della persona, cambia segno, diventa il valore sulla base del quale rivendicare il part-time come «gesto di libertà femminile,» «autodeterminazione dei tempi di lavoro.»

Il paradosso del femminile, già descritto lucidamente da Virginia Woolf come «insignificanza storica ed esaltazione immaginativa» delle donne, prende nuovi nomi ma non cambia nella sostanza. Una nuova forma di emancipazione, scoppiettante di promesse, rivincite, privilegi inaspettati, viene a prendere il posto delle «oscure carriere» che la Woolf aveva previsto per le generazioni future di donne impegnate nella vita pubblica. Allo sforzo di somigliare all’uomo si sostituisce una strada più facile e più rapida, incoraggiata a quanto sembra da entrambi i sessi: valorizzazione delle attrattive che l’uomo ha visto nel corpo femminile e che, cadute alcune barriere di controllo patriarcale e di pudore, possono essere oggi impugnate dalle donne stesse come ‘rivalsa’ e come ‘capitale’ da far fruttare sul mercato del denaro e del successo.

Lo scambio sessuo-economico, venuto alla ribalta con le vicende berlusconiane, è solo l’aspetto più vistoso di un processo che vede il corpo, la sessualità, ma anche la maternità, emanciparsi in quanto tali. La donna celebra il suo ingresso nella polis come ‘genere’ portatore di ‘valori’ divenuti indispensabili, ma pur sempre ‘aggiuntivi.’ Il bisogno di migliorare i profitti si viene a sposare con quel desiderio di maternità «inscritto nel corpo e nella mente delle donne.»

L’ondata di critiche e di appelli, che giustamente si sono alzati contro il sessismo di Stato e contro la misoginia diffusa nei media, rischia dunque di far passare in ombra una ‘conciliazione’ senza conflitti tra la forza lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere patriarcale e capitalistico. Amore e lavoro, riunificati nello spazio pubblico, possono far calare di nuovo sulle coscienze il lungo sonno che ha impedito fino alle soglie della modernità di sottrarre alla natura il dominio di un sesso sull’altro.

Riportare alla maternità – come tempo da dedicare a un figlio e piacere di vederlo crescere – la mole di lavoro senza sosta che comporta la quotidiana vita famigliare, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati e adulti perfettamente sani, avvezzi ad avere chi si preoccupa del loro buon vivere, significa, di fatto, lasciare che continui a pesare essenzialmente sulle donne la responsabilità delle condizioni indispensabili per la continuità della vita, confermare la loro ‘natura’ salvifica e la loro complementarietà rispetto a un modello dominante maschile a cui si chiede solo di farsi più attento ai desideri dell’altro sesso.

Tornare a nominare, come è stato fatto da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo, nel momento in cui le case si riempiono di collaboratrici domestiche e di ‘badanti’ straniere. Ma se si prende in mano un volantino di quegli anni, ci si può accorgere facilmente che la monetizzazione, là dove lo consentono le condizioni sociali, di una parte di lavoro domestico non ha sciolto né l’intreccio di lavoro e di affetti, né la svalutazione che porta ad assegnare la ‘cura’ alla parte svantaggiata della popolazione, né la convenienza per il capitalismo di avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro dell’etica pubblica e della responsabilità politica.

». La Repubblica, 22 settembre 2016 (c.m.c.)

Sei milioni di persone fuggono ogni anno dalle proprie case. Sono profughi “fantasma” senza tutele, né protezioni. Li chiamano “rifugiati ambientali”: uomini e donne invisibili alle leggi e alle convenzioni internazionali, vittime di calamità naturali e cambiamenti climatici. Entro il 2050 saranno 200-250 milioni. Peccato che la Convenzione di Ginevra non riconosca loro lo status di rifugiato: così oggi chi scappa dalla guerra può chiedere asilo, chi fugge da fame o sete resta senza diritti.

I numeri sono impressionanti: secondo il Centre for research on the epidemiology of disasters, negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case. Le migrazioni ambientali sono in gran parte migrazioni interne: solo nel 2015 il numero di sfollati per calamità naturali è stato 19,2 milioni in 113 diversi Paesi. L’ultimo caso è quello della Lousiana: nelle alluvioni del mese scorso sono state distrutte 60mila case. E i senzatetto sono stati più di 7mila.
I rifugiati ambientali sono stati di recente anche al centro dell’attenzione del Papa: «I cambiamenti climatici contribuiscono alla straziante crisi dei migranti forzati. I poveri del mondo, i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono i più vulnerabili e ne subiscono gli effetti », ha detto Francesco due settimane fa in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato.
Lo straordinario aumento di sfollati e profughi, fra l’altro, è dovuto anche a conflitti scatenati da politiche di appropriazione di risorse. Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali.

A questo popolo invisibile è dedicato il convegno internazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali?”, organizzato da Barbara Spinelli, a Milano il 24 settembre (registrazione su rifugiatiambientali@ gmail.com). «Sono rifugiati ambientali quelli che sono costretti a fuggire da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche — spiega Spinelli — come lo sono coloro che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema attribuibili a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di “villaggizzazione” forzata, che negli anni Ottanta causarono la morte di un milione di persone per carestia in Etiopia, e ancora inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici, scorie radioattive risultanti da bombardamenti».

Il pericolo? È che questo popolo resti “trasparente” agli occhi delle leggi internazionali: né la Convenzione di Ginevra, né il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status di rifugiato a chi fugge a causa di catastrofi ambientali. Svezia e Finlandia sono gli unici Paesi europei ad aver incluso i profughi ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali. Secondo le principali ong, tra le azioni da intraprendere resta centrale il riconoscimento giuridico. «Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre, persecuzioni politiche, religiose o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile — sostiene ancora Spinelli — è pretestuoso e miope considerare queste popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto “approccio hotspot”, che istituisce due categorie di migranti: i profughi di guerra, ai quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i migranti economici da rimpatriare automaticamente senza aver seriamente esaminato le eventuali loro legittime domande di asilo e senza concedere loro la possibilità di ricorso in caso di respingimento». Per il politologo francese, François Gemenne (tra i relatori del convegno), «che le migrazioni indotte dal clima costituiscano in futuro un fallimento o un successo, dipenderà non solo dall’impatto climatico, ma soprattutto dalle scelte politiche che facciamo oggi».



Riferimenti

Qui la locandina del convegno internazionale con l'elenco delle relazioni. Vedi anche, su eddyburg, gli articoli di Fabio Balocco, Guglielmo Ragozzino, Guido Viale.
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