Avvenire,
Della strage di palestinesi di lunedì, al confine tra Gaza e Israele, ha parlato con toni preoccupati papa Francesco al termine dell'udienza generale del mercoledì. «Sono molto preoccupato per l'acuirsi delle tensioni in Terra Santa e in Medio Oriente, e per la spirale di violenza che allontana sempre più dalla via della pace, del dialogo e dei negoziati» ha detto il Pontefice. «Esprimo il mio grande dolore per i morti e i feriti e sono vicino con la preghiera e l'affetto a tutti coloro che soffrono - ha proseguito -. Ribadisco che non è mai l'uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». «Invito tutte le parti in causa e la comunità internazionale a rinnovare l'impegno perché prevalgano il dialogo, la giustizia e la pace. Invochiamo Maria, Regina della pace», ha concluso.
Uccisa dai lacrimogeni bimba di 8 mesi
Il giorno dopo il massacro più pesante da anni nei Territori palestinesi, ieri a Gaza si è dato sepoltura ai morti (saliti a 61) nelle proteste scatenate dal trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme.
Intanto, secondo fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti hanno bloccato all'Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza, dove lunedì sono morti 58 palestinesi (e altri 3 sono deceduti ieri) per mano dell'esercito dello Stato ebraico e oltre 2.800 sono rimasti feriti. È morta anche una bimba di appena otto mesi, perché aveva inalato gas lacrimogeni. I genitori l'avevano portata nella zona degli scontri per non lasciarla a casa da sola, hanno detto.
Dopo la strage, la più grave dalla guerra del 2014, il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha proclamato uno sciopero generale e tre giorni di lutto. Mentre lo Shin Bet, la sicurezza interna di Israele, e l'esercito hanno rivelato che almeno 24 dei manifestanti palestinesi uccisi lunedì «erano terroristi nell'atto di compiere atti di terrore». La maggior parte di questi - hanno aggiunto - erano di Hamas e altri della Jihad islamica.
Martedì i palestinesi ricordavano il 70esimo anniversario della Nakba, la catastrofe, l'esodo forzato dalle terre arabe confiscate da Israele con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948. Nel corso di una manifestazione un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani a est del campo profughi di Al-Bureij nella parte centrale di Gaza. L'uomo è stato identificato in Nasser Aourab, 51 anni.
Pizzaballa condanna l'uso di «violenza sproporzionata»
Sulla «ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa» è intervenuto martedì l'Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che ha espresso «condanna di ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata». «La vita di tanti giovani ancora una volta - ha scritto Pizzaballa - è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace! Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l'uno all'altro». Da qui l'invito dell'arcivescovo a tutta la comunità cristiana della diocesi «a unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto».
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il Fatto Quotidiano,
Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): «Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve». Che pensa che «il fascismo ha fatto tante cose buone»(gennaio 2018). Che vuole «un cittadino su due armato» (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.
D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.
È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).
Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.
Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.
Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.
Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.
È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.
Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere «democratici sempre in allarme»». E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?
La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega
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NenaNews, 15 maggio 2018
«Parla l’analista Mukreir Abu Saada: siamo stati abbandonati anche dal mondo arabo, in questo contesto sfavorevole i palestinesi hanno diritto a leader migliori di quelli attuali che non si impegnano per la riconciliazione»
La decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme è stato il motivo scatenante delle ultime manifestazioni di protesta palestinesi a Gaza. I morti solo nelle ultime ore sono stati oltre 50, eppure fate fatica a far sentire la vostra voce.
Il mondo non riesce a capire che queste manifestazioni palestinesi a ridosso delle linee con Israele non sono frutto di macchinazioni politiche ma l’esito di 11 anni di assedio totale di Gaza che colpisce due milioni di persone innocenti. La condizione di Gaza non è più sostenibile, la popolazione non ce la fa più. Certe forze politiche sono coinvolte, senza dubbio, ma i palestinesi vanno al confine con Israele per chiedere una una vita normale, per avere la libertà. Le manifestazioni andranno avanti spontaneamente e non perché sia tutto telecomandato a distanza come sostiene Israele. Qualcuno deve intervenire, la comunità internazionale o i Paesi della regione, non lo so ma qualcuno deve agire per mettere fine a tutto questo.
Questo intervento internazionale non sembra all’orizzonte e il governo israeliano agisce in un contesto molto favorevole. Gli Stati uniti hanno trasferito la loro ambasciata a Gerusalemme e alcuni Paesi arabi, in particolare l’Arabia saudita ed altre monarchie del Golfo, rafforzano le relazioni con Israele. Per i palestinesi non sarà facile far emergere le loro ragioni.
Un nuovo massacro di palestinesi è avvenuto qui a Gaza nel giorno del passaggio da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata statunitense e a poche ore dal 70esimo anniversario della Nakba. Di fronte a tutto ciò il mondo arabo tace, al massimo balbetta, non fa nulla per proteggere i palestinesi. Non si può negare, ci hanno dimenticato. Certo, capisco che alcuni dei Paesi arabi fanno i conti con crisi interne, conflitti e problemi economici e sociali molto gravi. Altri, come le monarchie del Golfo, sono occupati dal loro scontro a distanza con l’Iran e per loro la questione palestinese non ha più rilevanza. Israele e Usa prendono vantaggio da questa situazione e dalle divisioni esplose in questi anni tra i Paesi arabi.
Neppure la strage di decine di civili di Gaza pare aprire la strada alla riconciliazione tra il movimento islamico Hamas e l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.
E’ sconcertante. Neppure di fronte al sangue che è stato sparso a Gaza Hamas e Abu Mazen riescono a trovare l’intesa auspicata da tutti per realizzare la riconciliazione nazionale. Il popolo palestinese merita una leadership migliore, e mi riferisco ad entrambe le parti. Sino ad oggi il nostro popolo non è stato in grado di darsi una nuova direzione politica e di rinnovare i leader che controllano la loro vita quotidiana. L’unica speranza è che la continuazione delle proteste e della manifestazioni (lungo le linee con Israele, ndr) metta sotto pressione l’Anp e Hamas fino a spingere queste due forze a fare i conti con la realtà e ad agire soltanto nell’interesse del popolo palestinese. Però non sono ottimista perché negli ultimi 11 anni, Israele ha lanciato tre grandi operazione militari contro Gaza e altre più piccole facendo migliaia di morti e feriti. Neppure questo ha indotto le fazioni palestinesi rivali a ricucire lo strappo e a dare vita a una politica nuova, ecco perché guardo con un certo distacco alla possibilità della riconciliazione. Temo che ci vorrà molto di più per convincere l’Anp e Hamas a voltare pagina.
il manifesto,
Mentre la crisi italiana dopo il voto del 4 marzo getta la maschera, con la rischiosa trattativa di governo tra le due forze populiste vincenti ed emergenti, all’ombra dello «statista» Berlusconi, ecco che subito si riaffaccia la voragine di un’altra guerra. Stavolta con l’Iran come target e Israele come protagonista.
Sono decine le persone uccise nei raid israeliani della notte scorsa in Siria «contro obiettivi iraniani»; l’esercito israeliano – che sostiene di aver reagito al lancio di venti razzi sul Golan (che è territorio siriano occupato da Israele) – ha colpito con 70 missili complessivi, 60 con 28 jet F15 ed F16 e dieci con missili tattici terra-terra dal territorio israeliano. È la prova generale di un’altra guerra su vasta scala e diretta, dopo le tante in Siria «per procura».
Alla nuova deflagrazione ha dato il via libera Trump con la denuncia dell’accordo sul nucleare civile dell’Iran faticosamente raggiunto da Obama insieme ai 5 più 1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e definito da Mogherini «storico». Lo ha fatto con l’annuncio peggiore di nuove sanzioni non solo contro l’Iran ma anche contro chi avrà rapporti con Teheran.
Che quella di Trump sia una scelta di guerra, lo ha denunciato anche il segretario dell’Onu Antònio Guterres. Ma per Trump è di più: è una promessa elettorale da rovesciare nella voragine mediorientale. Come del resto l’altro «ordigno» che lancerà tra poche ore: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Perché l’intento della Casa bianca è lasciare incandescente il «forno» del conflitto tra sciiti e sunniti, eredità delle guerre bipartisan contro l’Iraq.
La guerra in Siria non deve finire con la sconfitta – invece cogente – dello jihadismo alimentato in primis dall’Arabia saudita alleato storico d’acciaio degli Stati uniti. Per questo Trump è diventato un piazzista di armi. A fine 2017 ha riunito il fronte sunnita a Riyadh per schierarlo contro l’Iran, portando in dote alla petromonarchia dei Saud una fornitura di armi di 100 miliardi di dollari. E qui, tra Mediterraneo, fossa comune di migranti e martoriato Medio Oriente non c’è nemmeno la Cina a garantirgli la scena per una trattativa con il cattivo di turno, come accade nella penisola coreana.
Direttore d’orchestra il premier israeliano Benjamin Netanyhau, che aizza contro il nucleare civile dell’Iran mentre Israele possiede centinaia di atomiche (alcune puntate su Teheran) e che va al conflitto, e al tiro al piccione dei palestinesi – dopo aver fatto scempio di ogni possibilità di pace interna – perfino «in bicicletta», sponsorizzato dai media occidentali dopo le tre tappe israeliane del Giro d’Italia (povero Ginettaccio).
Unica voce alternativa al mondo Amnesty International che, dopo un rapporto agghiacciante sui corpi devastati a Gaza dai proiettili israeliani, chiede con forza l’embargo di armi per Israele. Il dossier nucleare di Netanyahu è pari alla sua faccia tosta: Israele è l’unica potenza atomica del Medio Oriente e detta legge sul nucleare civile altrui; eppure «Bibi», con uno spettacolo da comico di crociera, ha «rivelato» al mondo le presunte preparazioni atomiche dell’Iran che l’atomica non ce l’ha, ma aderisce a controlli e Trattati, e vuole solo diversificare le fonti energetiche per la crisi economica che l’attanaglia anche per il peso delle sanzioni Usa.
Mentre in queste ore l’Arabia saudita – fomentatrice del jihadismo sunnita e alleata d’Israele – avverte: «Se Teheran avrà l’atomica anche noi l’avremo». Tra gli altri effetti collaterali, la scena sembra pronta per l’intervento diplomatico di Putin, grande alleato della presidenza Rohani,- del resto Putin venne pubblicamente ringraziato da Obama nel 2015 per la sua decisiva mediazione.
Alternativa alla guerra sembra stavolta la reazione dell’Unione europea che di quell’accordo è stata in parte artefice. Ora, almeno a parole, da Macron a Mogherini, da Merkel all’uscente Gentiloni, si conferma uno schieramento contrario perfino con l’atlantica May. Tutti presi a schiaffi in faccia da Trump. Ma che accadrà quando le capitali europee dovranno fare i conti con lo spettro che già terrorizza, vale a dire l’annunciato embargo americano alle transazioni con l’Iran? Ci vorrebbe allora un’Europa non atlantica.
Perché mentre l’Unione europea si barcamena solo sulle vicende monetarie ed economiche perseguendo coi vincoli di bilancio le già scarse politiche sociali dei Paesi comunitari, la sua politica estera fin qui resta avventurista o apre fronti tardo-coloniali, come fa Macron in Africa; oppure pensa alla difesa europea ma come doppio subalterno (nelle spese e nelle finalità) all’unica realtà sovranazionale d’Europa: la Nato.
Teheran intanto minimizza. Ma s’incendiano nuovi fronti. Così si prepara al peggio. Che non è solo il conflitto in Siria, ma l’attesa provocazione di un raid aereo israeliano su siti nucleari iraniani – un déjà-vu che stavolta sarebbe un detonatore – del quale già si intravvede la traiettoria.
Siamo nella voragine. Ci stiamo dentro nel vuoto di contenuti e di forze che assumano la pace e il rispetto della Costituzione come condizione senza la quale non c’è governo possibile.
Il Fatto Quotidiano
Nella rissa tra i semi-vincitori delle elezioni del 4 marzo è veramente difficile schierarsi per l’uno o per l’altro. Rappresentano tutti differenti sfaccettature di un’Italia che non ci piace affatto. Così come, del resto, non ci piace il clamoroso sconfitto, il renzista Matteo Renzi, ex leader d’un partito che si è fatto suicidare. Vogliamo comunque sottolineare un elemento che, nel pattume generale, ci sembra positivo: c’è ancora qualche resistenza contro operazioni che sono certamente nefaste per il territorio e i suoi abitanti. Ne riferisce l’articolo di Carlo Di Foggia, che riprendiamo da il Fatto quotidiano del 15 maggio 2015 (e.s.)
Governo M5s-Lega, il vero scontro è su
vincoli Ue, grandi opere e futuro di Ilva
di Carlo Di Foggia
«Programma - Il M5S vorrebbe rinviare al futuro le discussioni sul deficit. Ma la Lega: senza addio al Fiscal compact quel contratto è “un libro dei sogni” E tra poco l’Ue vuole 5 miliardi»
L’unica certezza è che nel week end il “contatto di governo” verrà sottoposto a referendum nei gazebo allestiti dalla Lega e forse prima al voto degli iscritti sulla piattaforma Russeau del Movimento 5 Stelle. Per il resto le distanze restano tante e “la quadra” non c’è. Non c’è sulla infrastrutture, non c’è sui migranti e nemmeno sulla giustizia ma, soprattutto, non c’è sui vincoli di bilancio europei. Gli sherpa (guidati da Laura Castelli per M5S e Claudio Borghi Aquilini per la Lega) affideranno la lista dei punti su cui non c’è accordo a Matteo Salvini e Luigi Di Maio: toccherà a loro sciogliere i nodi. O non si parte.
Da ieri è noto che il contratto a cui mancavano “solo le virgole” difetta invece “su qualche punto importante” (Salvini dixit). Ma c’è un punto più importante degli altri, da cui tutto discende: che posizione avere con l’Europa. “Io devo sbloccare la possibilità di spendere soldi bloccati da vincoli e regole esterne. O riesco a dar vita a un governo che ridiscute i vincoli Ue oppure è un libro dei sogni”, ha spiegato ieri Salvini.
Finora Lega e 5Stelle hanno discusso sull’impegno formale a ridiscutere i trattati europei (serve l’unanimità dei governi) e i vincoli fiscali. Per farlo occorre tempo, e sul punto ci sarebbe l’accordo dell’intero arco parlamentare che nella scorsa legislatura ha votato per superare il Fiscal compact con mozioni presentate da tutti i partiti. La realtà è che servono subito margini di manovra di bilancio per mantenere le promesse fissate nel contratto, dalla “flat tax” al reddito di cittadinanza.
Come noto, il governo Gentiloni ha messo nel Documento di economia e finanza (Def) una correzione da 30 miliardi in due anni, portando il deficit pubblico al pareggio di bilancio nel 2020. La stretta fiscale sconta gli aumenti automatici dell’Iva per 15 miliardi quest’anno e 19 quello dopo, per portare il deficit dal 2,3% all’1,6% del Pil quest’anno e azzerarlo fra due anni. Il contratto prevede il superamento della legge Fornero, la partenza del reddito di cittadinanza e di una riforma fiscale che riduca le aliquote (impropriamente chiamata flat tax).
La Lega vuole che il contratto fissi subito il punto che il deficit non scenderà e punta a discutere in autunno, nella legge di Bilancio, una manovra da 40 miliardi, portando il deficit al 2,8%, poco sotto il tetto di Maastricht. I 5Stelle sono molto più cauti, non vogliono neanche menzionare il superamento del pareggio di bilancio del Fiscal compact (inserito pure nella Carta). La strategia è questa: impegno formale a rispettare il deficit fissato dal Def di Gentiloni per poi ridiscutere i margini in autunno. “Io non prendo in giro gli italiani”, è sbottato ieri Salvini. Anche perché il primo banco di prova potrebbe arrivare con la manovra correttiva da 5 miliardi che Bruxelles è pronta a chiedere all’Italia a maggio.
Su infrastrutture e grandi opere la distanza è più esplicita. I 5Stelle vogliono chiudere quelle che considerano inutili come il Tav Torino-Lione e il Tap, il gasdotto che dall’Azerbaigian dovrebbe portare il gas sulle coste pugliesi. La Lega no. Va peggio sull’Ilva, dove lo scontro dura da giorni. I 5Stelle restano sulla posizione della chiusura del siderurgico, ma l’intesa si può trovare sull’impegno formale a una “riconversione ecologica”. Tradotto: niente spegnimento.
Le distanze restano anche sui migranti. “Nel rispetto dei diritti umani, vogliamo mano libera per smantellare il business sulla pelle di queste persone”, ha spiegato Salvini. Il Carroccio vorrebbe una linea ancora più dura di quella scelta da Marco Minniti, con salvataggi dei migranti in mare ma riaccompagnamento immediato dalle coste di provenienza, mentre il M5S è favorevole al rimpatrio degli irregolari, ma solo dopo l’approdo nel più vicino porto sicuro.
Resta poi il nodo della Giustizia. Il tema, manco a dirlo, è la prescrizione: il Movimento vuole che si fermi all’inizio del processo, ma su questo punto Salvini brucerebbe il rapporto “benevolo” promessogli da Silvio Berlusconi.
La discussione andrà avanti. Molti sono ancora i temi da definire. Tra i punti concordati ci sarà una legge sul conflitto d’interessi, una stretta sull’evasione fiscale con “il carcere per chi evade” e una nuova sanatoria sulle cartelle di Equitalia. I 5 Stelle puntano poi a inserire una legge per l’uso dell’“agente provocatore” per combattere la corruzione nella Pubblica amministrazione e una per tutelare la gestione pubblica dell’acqua in linea con quanto sancito dal referendum del 2011. Restano fuori la revisione della riforma delle carceri e la riforma dei tetti pubblicitari alle tv (avrebbe fatto infuriare Silvio…).
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Avvenire,
C'è chi sostiene - secondo noi a ragione - che la ripresa dell'antica guerra tra mondo giudaico-cristiano e mondo islamico iniziò, nel 1917, quando Germania, Francia e Gran Bretagna chiesero aiuto a Wall street per ottenere l'alleanza degli Usa nella guerra mondiale contro la Russia degli Zar, stipulando il cosiddetto accordo Balfour e concedendo a Wall street un pezzo della colonia britannica dell'impero ottomano, la Palestina, autorizzando la costituzione dello stato di Israele. E' passato un secolo, e il fuoco continua a bruciare e il sangue a scorrere. Quell'angolo del Mediterraneo rimane l'epitome di una cace che, pur essendo nei cuori dei popoli e sulle bocche di tutti i governanti, non riesce a prevale contro gli interessi dei Signori della morte (e.s.)
Uccisi almeno 41 palestinesi, oltre 1.900 i feriti. È il giorno più sanguinoso nel conflitto israelo-palestinese dalla guerra del 2014. È un bollettino di guerra, che si aggrava di ora in ora. Almeno 41palestinesi sono stati uccisi e oltre 1.900 feriti negli scontri esplosi stamani fra manifestanti della Striscia di Gaza e soldati israeliani lungo la barriera che segna il confine con Israele, nel giorno dell'inaugurazione dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme e nel 70° anniversario della fondazione di
Israele. A fornire il bilancio delle vittime è il ministero della Sanità di Gaza.
Si tratta del giorno più sanguinoso nel conflitto israelo-palestinese dalla guerra del 2014. Gli ospedali di Gaza hanno lanciato appelli alla popolazione affinché giunga in massa per donare sangue. Le autorità hanno chiesto all'Egitto aiuti medici immediati e l'autorizzazione a trasferire oltre frontiera i feriti più gravi.
Israele sostiene di aver aperto il fuoco solo quando necessario per fermare attacchi, danni alla barriera di confine e tentativi di infiltrazione sul suo territorio. Il primo a morire è stato un 21enne, Anas Qudieh, a Khan Yunis, nel sud della Striscia. Poi un 28enne identificato come Musab Abu Leila, ucciso a Jabalya, a nord. Successivamente il ministero della Salute ha fornito l'identità di altri cinque morti, tra cui un minorenne: Izaldin Musa Al Samak, di 14 anni; Obaidan Salem Farhan, di 30; Mohamed Ashraf Abu Stah, 26; Izaldin Nahid al Aweiti, 23; Bilal Ahmed Abu Daqa, 26. Almeno 250 feriti sarebbero stati colpiti da fuoco vivo, altre centinaia sono intossicati da gas lacrimogeni.
In precedenza, erano 54 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza da spari israeliani dall'inizio della Marcia del Ritorno, il 30 marzo, organizzata ogni venerdì lungo la barriera per chiedere il "diritto al ritorno" a 70 anni dall'esodo del 1948.
L'esercito: «Sventato attentato terrorista di Hamas»
L'esercito israeliano accusa Hamas di «dirigere un'operazione terroristica sotto la copertura di masse di persone in 10 località a Gaza». In particolare l'esercito afferma di aver sventato un attentato vicino a Rafah, nel sud della Striscia. «Un commando di tre terroristi armati - ha detto un portavoce - stava cercando di deporre un ordigno. Le nostre forze hanno reagito e i tre sono morti». Secondo i media, i militari hanno fatto ricorso a un carro armato.
Il portavoce ha aggiunto che velivoli israeliani hanno colpito anche un obiettivo di Hamas a Jabalya, dopo che da lì erano partiti spari. Fonti locali riferiscono inoltre che un aereo da combattimento israeliano ha colpito con almeno un missile un obiettivo nel Nord della Striscia.
L'Anp chiede un intervento internazionale
Il governo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) accusa Israele di avere commesso un «terribile massacro». In una dichiarazione, il portavoce del governo palestinese Yusuf al-Mahmoud ha chiesto «un intervento internazionale immediato per fermare il terribile massacro a Gaza commesso dalle forze di occupazione israeliane contro il nostro popolo eroico». Il governo palestinese ha base a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.
Nella Striscia sciopero e mobilitazione di massa
Fin dal mattino migliaia di palestinesi si erano radunati in diversi punti della barriera, mentre cecchini israeliani erano posizionati dall'altra parte. Piccoli gruppi di manifestanti hanno cominciato a lanciare pietre verso i soldati, che hanno risposto sparando.
Nella Striscia è sciopero generale, mentre mezzi pesanti trasportano i manifestanti al confine e dagli altoparlanti delle moschee i muezzin esortano a raggiungere il milione di presenze alla protesta di massa. In concomitanza con il 70° anniversario della fondazione d'Israele, i palestinesi commemorano domani la Nakba, il ricordo delle oltre 700 mila persone costrette a lasciare le proprie case nel 1948.
Massimo dispiegamento di forze israeliane
L'esercito israeliano ha raddoppiato gli uomini sia in Cisgiordania sia al confine con la Striscia di Gaza. Un migliaio di poliziotti sono stati dispiegati a Gerusalemme per garantire la sicurezza dell'ambasciata. Jet dell'esercito israeliano hanno lanciato volantini sull'enclave palestinese esortando gli abitanti a non lasciarsi manovrare da Hamase a restare lontani dal confine. «L'esercito israeliano - si legge nel volantino in arabo - è pronto ad affrontare qualsiasi scenario e agirà contro ogni tentativo di danneggiare la barriera di sicurezza o colpire militari o civili israeliani».
Hamas: «Non moriremo da soli». Al-Qaeda chiama al jihad
Avvertimenti simili ma di segno opposto sono stati lanciati da Hamas nei giorni scorsi: in un video in ebraico il movimento si è rivolto ai residenti delle comunità israeliane vicino al confine con Gaza, esortandoli ad andarsene. «Siete stati avvisati, attraverseremo il confine e raggiungeremo tutte le vostre comunità. Non moriremo da soli». Anche il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha lanciato un appello al jihad, sottolineando che Trump, «è stato chiaro ed esplicito, e ha rivelato la vera faccia della Crociata moderna: l'essere accomodante non funziona con loro, ma solo la resistenza attraverso il jihad».
Inaugurata l'ambasciata Usa, Trump: «È un grande giorno»
È toccato a Ivanka Trump il compito di togliere il velo allo stemma sul muro della legazione americana a Gerusalemme. «A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America - ha detto la figlia di Trump - vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta all'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, capitale di Israele».
Dopo l'inno nazionale l'ambasciatore Usa in Israele, David Friedman, ha preso la parola e, quando ha menzionato Donald Trump, per il presidente Usa c'è stata una standing ovation. Friedman si è riferito alla sede dell'ambasciata parlando di «Gerusalemme, Israele», suscitando un applauso scrosciante. «Oggi manteniamo la promessa fatta al popolo americano e accordiamo a Israele lo stesso diritto che accordiamo a tutti i Paesi, cioè il diritto di designare la sua capitale», ha dichiarato l'ambasciatore.
La delegazione presidenziale alla cerimonia è guidata dal vice segretario di Stato John Sullivan; ne fanno parte anche la figlia e il genero di Trump, rispettivamente Ivanka Trump e Jared Kushner, entrambi collaboratori della Casa Bianca, nonché il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin. Partecipano circa 800 ospiti.«La nostra più grande speranza è la pace» ha detto Trump, in un messaggio preregistrato. «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - rimangono pienamenteimpegnati a facilitare un accordo di pace duraturo».
Tra i 32 Paesi rappresentati presenti anche 4 Paesi europei (Austria, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania) nonostante la ferma condanna di Bruxelles per la decisione di Washington. Nessun delegato invece dell'Unione Europea, né di Russia, Egitto e Messico. Calorosi ringraziamenti a Trump erano già stati espressi ieri dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha esortato altri Paesi a trasferire le proprie ambasciate a Gerusalemme.
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Nena News,
«Intervista a Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex presidente della Knesset: "La società israeliana si è radicalizzata perché, come nel resto del mondo, il welfare è stato demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale da politiche identitarie"»
«Bombe israeliane su Damasco (ormai di una frequenza inquietante), missili siriani sul Golan, decisioni unilaterali dell’amministrazione Usa stanno conducendo la regione verso una pericolosa escalation bellica. Ne abbiamo discusso con Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, già presidente della Knesset, ex membro del Partito laburista e oggi della formazione di sinistra Hadash.
I
l conflitto che Israele sta costruendo contro l’Iran si fa concreto. Quali sono gli obiettivi del governo Netanyahu?
Sono diversi. La prima ragione delle manovre tra due dei principali attori regionali, Israele e Iran, è l’immediato futuro della Siria, una lotta tattica e strategica. Spostandoci sul medio termine, la motivazione di Israele è evitare la libanizzazione della Siria, con milizie in stile Hezbollah, e dunque evitare che proxy dell’Iran si stabilizzino ai confini israeliani. La motivazione iraniana è opposta: una striscia di terra che dall’Iran passi per le zone sciite irachene, la Siria fino al Libano. Il terzo elemento, quello di lungo periodo, è la creazione da parte israeliana di una zona di influenza, in contrasto con quella iraniana: una coalizione Usa, Israele, Egitto e Arabia saudita, dove i sauditi giochino da pivot della coalizione.
Di nuovo giovedì il ministro della difesa israeliano Lieberman ha lanciato un appello ai paesi del Golfo per la creazione di un asse anti-Teheran.
Non sono però così certo che una tale alleanza possa reggere. Il Medio Oriente non è quello che si vede, è luogo pieno di specchi: non sai mai qual è l’oggetto reale e quale il suo riflesso. Di base, se si vuole dividerlo tra sciiti e sunniti, è chiaro che Israele ha scelto il secondo fronte. Ma se si va a vedere in profondità non è così semplice. Un esempio: l’Iran sostiene Hamas che è una formazione sunnita. Il Medio Oriente è come il caffè arabo: bisogna aspettare che la polvere si posi in fondo alla tazzina per capire. Per questo non sono affatto sicuro che una simile alleanza possa davvero realizzarsi: in mezzo ci sono diversi elementi che potrebbero interferire, a partire dal ruolo della Turchia.
In tale contesto la società israeliana ha vissuto una polarizzazione ulteriore, dagli anni ’90 si è spostata a destra, si è radicalizzata. Un effetto delle politiche dei governi post-laburisti o la trasformazione è avvenuta alla base?
Se si guarda al processo vissuto dall’Italia negli ultimi 20 anni è piuttosto simile a quello in Israele: le politiche di Berlusconi e Netanyahu sono entrambe state fondate sull’apparenza mediatica, mentre il welfare veniva demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale distrutta da politiche identitarie. Il processo è identico, globale. La differenza sta nella presenza, in Israele, di un conflitto con i palestinesi che si sviluppa nell’ambito di dinamiche di trasformazione delle società e frammentazione della solidarietà interna.
Il nemico interno collante di una società frammentata sul piano socio-economico: i palestinesi sono lo strumento per evitare l’esplosione di conflitti interni?
Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione interna israeliana e la radicalizzazione dell’attitudine verso i palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità di interessi da parte dei paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa bianca e un’Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con Oslo, che sostengano l’apertura di un dialogo.
Viene meno anche la legalità internazionale: il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, lunedì, è un atto simbolico o il preludio a cambiamenti strutturali?
Trump non ha una politica chiara, è impossibile definirlo e comprenderlo. È possibile che oggi ripaghi i suoi amici conservatori in America e in Israele e che domani invece «ricatti» Israele: ho spostato l’ambasciata, ho creato un conflitto con l’Iran, ora dovete accordarvi con i palestinesi. Chissà. Di certo l’Occidente ha perso il controllo su tutto e Israele fa quel che vuole. A muovere i fili in Medio Oriente sono i vari imperi e i loro alleati locali, l’impero americano, il russo, il persiano e quello neo-ottomano.
Israele, allo stesso tempo, gode ancora di appoggio in Europa per la crescente islamofobia e perché visto come modello di sicurezza.
Non esiste un’Europa sola, ma due: un’Europa dell’est che d’improvviso si scopre «giudeofila» per giustificare la sua islamofobia; e poi un’Europa dell’ovest preda di poteri nuovi come in Italia i 5stelle, che non hanno idea della questione. In tale caos dominato dalla paura, in nome di una falsa sicurezza si sacrificano i diritti. E il modello è Israele.
La destra che sta approdando al governo della povera Italia è la destra più radicale e più omogenea ai più ricchi e potenti di quante questo paese abbia conosciuto. È un capolavoro di demagogia, perché si presenta come una proposta che riduce le tasse a tutti, mentre favorisce solo i più ricchi. È un capolavoro di truffa, sostiene che non ridurrebbe l’ammontare complessivo delle tasse versate dai contribuenti perché la riduzione dell’aliquota sarebbe compensata dall’emersione dell’evasione fiscale.
Ma il punto centrale è che l’abbassamento della voce attiva del bilancio pubblico derivante dall’abbassamento del gettiti fiscale obbligherebbe a ridurre ancora il livello di welfare. Conseguenza inevitabile sarebbe infatti la diminuzione della spesa pubblica per l’assistenza sanitaria, la scuola pubblica e l’università, la tutela del paesaggio e dei beni culturali, la difesa del suolo. Tutti i settori gia penalizzati dalle politiche di austerity sarebbero ulteriormente penalizzati, mantre crescerebbe ancora la forbice tra ricchi e poveri. Il dramma è che i poveri non sono aiutati dai meda a comprendere, e quindi non conoscendo, non sono nella condizione di ribellarsi.
Per aiutare a comprendere che cosa dovrà essere la flat tax riprendiamo da il Post un articolo (8 gennaio 2018) che chiarisce l’argomento (e.s.)
Cos’è la “flat tax” proposta dal centrodestra
il Post, 8 gennaio 2018
«Prevede un'imposta sul reddito ad aliquota unica e secondo i suoi sostenitori avrebbe solo effetti positivi, ma ci sono dei ma»
L’introduzione di una “flat tax” al posto dell’attuale imposta sul reddito, l’IRPEF, è da ieri è uno dei punti ufficiali del programma della coalizione di centrodestra. Lo hanno annunciato i leader della coalizione, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni che si sono incontrati domenica nella villa di Berlusconi ad Arcore, vicino Milano. Il centrodestra promette di dimezzare l’imposta sui redditi per milioni di cittadini e, nel contempo, assicura che riuscirà a recuperare miliardi di euro di evasione fiscale.
Una “flat tax” come quella che vorrebbe introdurre il centrodestra è un’imposta con aliquota unica, in cui la percentuale che viene pagata in tasse è fissa e non cresce con l’aumentare dell’imponibile. Nel caso di una flat tax sul reddito, la percentuale pagata in tasse da chi guadagna diecimila euro è uguale a quella di chi ne guadagna centomila, anche se deduzioni e detrazioni per i redditi più bassi possono contribuire a rendere la flat tax in qualche misura progressiva (chi guadagna di più paga in tasse in maniera più che proporzionale).
Al momento non abbiamo molti dettagli sulla proposta unitaria del centrodestra, ma sappiamo qualcosa di più sulle singole proposte che avevano formulato i partiti della coalizione. La Lega Nord ha da tempo elaborato una proposta di flat tax “estrema” che prevede di sostituire l’attuale imposta sul reddito, che ha aliquote che vanno dal 23 al 43 per cento, con un’unica imposta con aliquota fissa al 15 per cento. Forza Italia ha proposto una versione più moderata, con aliquota al 23 per cento. Entrambe prevedono dei sistemi di deduzioni e detrazioni per i più poveri. A guadagnarci di più, però, saranno comunque i più ricchi. Nel caso delle proposta della Lega Nord, i più ricchi tra coloro che oggi pagano l’aliquota più alta del 43 per cento potrebbe risparmiare anche due terzi di quello che pagano oggi. Nel caso della proposta di Forza Italia, i più poveri, quelli con l’aliquota al 23 per cento, non vedranno migliorare la loro situazione.
Gli obiettivi della flat tax sono essenzialmente due: tagliare le tasse e rendere più semplice il sistema fiscale. Gli effetti positivi sarebbero quindi duplici. Da un lato la minore imposizione fiscale porterebbe a maggiori investimenti e crescita economica, dall’alt
ro il sistema più semplice e leggero renderebbe più conveniente pagare le tasse rispetto a evaderle. Secondo i più ottimisti tra i suoi sostenitori, la flat tax sarebbe una misura a costo zero che si ripaga da sola, poiché diventerebbe così conveniente pagare le tasse che la perdita di gettito dovuta all’abbassamento delle aliquote sarebbe automaticamente compensate dalle maggiori entrate dovute all’abbattimento dell’evasione fiscale. Sia Berlusconi che Salvini hanno detto in più di un’occasione che per questo motivo non è necessario prevedere coperture finanziarie particolarmente solide per la loro proposta.
Non sono molti i paesi al mondo in cui le principali imposte sul reddito sono ad aliquota unica, e in nessun caso si tratta di economie particolarmente avanzate. I casi più noti sono Russia, Lettonia, Lituania, Serbia, Ucraina, Georgia e Romania. La Slovacchia introdusse una flat tax sul reddito nei primi anni Duemila, ma l’ha cancellata nel 2013. La Russia, che unificò le sue imposte sul reddito nel 2001, è uno degli esempi più citati dai sostenitori della flat tax, perché all’indomani dell’introduzione della nuova imposta le sue entrate fiscali crebbero del 26 per cento. Come scrive il Fondo Monetario Internazionale, però, non è affatto chiaro quanta parte del merito fu della flat tax e quanto della complessiva riforma del fisco, che comprese anche maggiori e più stringenti controlli. In generale, la maggior parte degli economisti ritiene che sia molto difficile pareggiare in maniera automatica l’abbassamento delle aliquote con la lotta all’evasione fiscale, soprattutto in paesi moderni e sviluppati che dispongono già di efficaci strumenti di lotta all’evasione.
In ogni caso, sembra comunque difficile replicare il risultato della Russia in Italia. L’IRPEF, cioè l’imposta sul reddito che sarebbe sostituita dalla flat tax, è una delle imposte che nel nostro paese vengono pagate con maggior regolarità. Come ha notatol’economista dell’Università di Bologna, ed ex consulente del governo Renzi, Luigi Marattin:«Il ragionamento (comunque sbagliato) dell’emersione del sommerso vale per le imposte dove è concentrata evasione e elusione. In Italia si tratta soprattutto dell’Iva, che secondo molte stime nasconde più di 100 miliardi di evasione. La “flat tax” riguarda invece l’Irpef, un’imposta la cui platea di contribuenti è per circa il 90% è costituita da lavoratori dipendenti e pensionati. Vale a dire, contribuenti che non possono evadere, visto che hanno le trattenute direttamente in busta paga. Quindi la “magia” dell’emersione del sommerso sarebbe comunque assolutamente marginale.
Anche i sostenitori della flat tax, come i membri dell’Istituto Bruno Leoni, un think tank economico di idee liberali, hanno molto criticato le proposte del centrodestra, pur sostenendo una versione di flat tax che ritengono più praticabile. Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento studi dell’Istituto Bruno Leoni, ha definito la proposta del centrodestra «non credibile» e «totalmente carente sia sotto il profilo delle coperture sia sotto quello della visione più generale del sistema fiscale». Stagnaro sostiene però la proposta di flat tax del suo istituto, che prevede un’aliquota unica al 25 per cento e una riforma complessiva del fisco italiano. Secondo l’istituto, questa riforma costerebbe circa 30 miliardi di euro l’anno (Salvini e Berlusconi, come abbiamo visto, sostengono invece che la loro misura si ripagherebbe da sola).
Altri hanno criticato la flat tax perché sarebbe a rischio di incostituzionalità. All’articolo 53, infatti, la Costituzione esplicita che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Significa che chi ha redditi più alti deve pagare le imposte in maniera più che proporzionale rispetto a chi ne guadagna di meno. Questo sistema, oggi, è in parte assicurato dal meccanismo dell’IRPEF che prevede aliquote più alte al crescere del reddito. I difensori della flat tax sostengono però che la Costituzione prevede un sistema “complessivamente” progressivo, mentre le singole imposte possono non esserlo (e moltissime infatti sono “flat”, cioè prevedono un’aliquota unica: per esempio le imposte su redditi da capitale).
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il manifesto, 13 maggio 2018. Una delle perniciose conseguenze del generale accordo dei vincitori delle elezioni del 4 marzo, che riguarda il devastante slogan: pagare meno tasse è bello
«Fisco. Il sistema nazionale sarebbe per sempre compromesso. Invece di allargare la base imponibile dell’Irpef, i proponenti vogliono essere proprio sicuri che si ritorni alla pre-riforma Cosciani del 1973»
Partiamo dalla fortissima convergenza tra M5S e Lega sulla flat tax per l’Irpef a vantaggio del così detto ceto medio. Costo? 45-50 miliardi che sarebbero coperti con la maxi-rottamazione delle vecchie cartelle, spending review e taglio alle tax expenditures. Sebbene qualcuno accarezzi l’idea che, in fondo, qualcosa dal proprio reddito (da lavoro e pensione) si possa strappare dalla rimodulazione dell’Irpef, il sistema fiscale nazionale sarebbe per sempre compromessoSe le proposte di riforma avanzate in campagna elettorale erano inattuabili, forse non lo sono nemmeno dopo la campagna elettorale. Invece di allargare la base imponibile dell’Irpef, i proponenti vogliono essere proprio sicuri che il fisco italiano ritorni ad essere sempre più simile a quello pre-riforma Cosciani del 1973.
A fronte dell’ottimismo sulle condizioni del nostro paese, tutti gli indici economici parlano di una ripresa lenta e soprattutto diseguale. In campagna elettorale si sono sentite le proposte più diverse relativamente al fisco. Non c’è solo un problema di onerosità, piuttosto si tratta di proposte addirittura fuori dal contesto costituzionale e ignoranti della natura stessa del sistema fiscale italiano. La nostra struttura fiscale è, infatti, molto particolare e sensibile all’andamento degli scaglioni e delle aliquote e, soprattutto, molto sensibile ai presupposti d’imposta.
Il tema della redistribuzione di reddito e ricchezza ovviamente resta, ma bisogna prima valutare alcuni aspetti. Di solito s’immagina la ridistribuzione esclusivamente attraverso un nuovo disegno delle aliquote fiscali che fanno capo all’Irpef. Invece, occorre considerare che c’è una distribuzione che interviene nel mercato, cioè prima delle imposte, e una distribuzione del carico tributario, quando il reddito è stato già maturato. Sulla prima questione c’è un problema di norme e regole che hanno delegittimato il ruolo del sindacato, sulla seconda occorre sottolineare che l’Irpef è composta all’85% dal lavoro dipendente. Aumentare o ridurre la progressività per un solo reddito, quindi, non porterebbe a mutamenti sostanziali nella distribuzione del carico tributario.
Se non ridisegniamo i presupposti d’imposta dell’Irpef, cioè se non allarghiamo la base imponibile, modificare o meno gli scaglioni non servirebbe a molto nella redistribuzione del reddito, perché l’Irpef intercetta una sola categoria di reddito. La vera riforma fiscale non può essere attuata semplicemente abbassando le tasse sul reddito da lavoro, piuttosto occorre allargare la base imponibile, reintroducendo nell’Irpef i redditi che oggi sono sottoposti a cedolare secca. Tra l’altro, l’Irpef è oggi l’unica imposta progressiva, mentre tutte le altre imposte sono ridotte a cedolare secca e non hanno nessuna progressività.
Nel fisco, nei diritti e nell’economia italiana esistono dei problemi di struttura mai affrontati dagli ultimi governi. L’Italia ha una struttura produttiva che lavora a margine, giocando sulla differenza tra costi e ricavi, e non occupa quote di mercato emergenti come fanno altri paesi. Col passare del tempo l’Italia non produce valore aggiunto e, quindi, i salari si abbassano. Su questo la Cgil ha fatto un’ottima operazione con il Piano del lavoro: un piano industriale che offre delle risposte al problema industriale ed economico del Paese. Sebbene la questione del salariale sia un problema drammatico, è altrettanto vero che dipende dal sistema economico nel quale è inserito.
Salario e sistema economico sono due facce della stessa medaglia che vanno governate insieme. Negli ultimi 15 anni, chi ha guidato il Paese non solo non l’ha immaginato, ma ha usato il fisco per fare propaganda, dimenticando che il fisco lavora a margine dei redditi prodotti. Alla fine, la rivoluzione del prossimo governo sarà quella di chiudere per sempre la riforma fiscale immaginata nel 1973. Meno tasse per tutti e la rivoluzione è compiuta: la Stato esce per sempre dall’economia.
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la Stampa,
Non è sintomo di grande intelligenza politica non aver compreso fino a oggi che Matteo Renzi non è mai stato un uomo di Sinistra, (seppure si voglia continuare a dare il nome di "sinistra" a quel bizzarro coacervo che fu costruita dai sedicenti eredi del Pci dopo la svolta di Occhetto). Se non hanno ancora compreso che con il renzismo ciò che rimaneva della vecchia sinistra si è sdraiato sul letto morbido del pensiero e della prassi neoliberista c'è da temere che non andranno lontano, se non nella compartecipazione a una qualche residuo di potere istituzionale (e.s.)
Il Pd si interroga per progettare una riscossa
di Andrea Carugati
iUn pomeriggio intero alla ricerca della «fiammella» della sinistra, travolta dalle urne del 4 marzo. Molti big di quelli che furono i Ds si ritrovano in un teatro di Roma nelle ore in cui prende forma il governo Lega-M5S. Invitati da Goffredo Bettini, arrivano Anna Finocchiaro, Antonio Bassolino, Livia Turco, Massimo Brutti, Mario Tronti. Ci sono i giovani Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, che prende appunti diligentemente. Si fa l’analisi del voto, «quella che nel Pd ancora non siamo riusciti a fare», ma soprattutto si progetta la riscossa. Dentro o fuori il Pd, questo si vedrà.
«Accenderemo un forte conflitto politico», mette in guardia Finocchiaro. «Questo non è odio o spirito di divisione, ma un parto doloroso per essere legittimati a giustificare la nostra pretesa di esserci come forza politica». Secondo l’ex ministra, infatti, chiudendo a ogni dialogo col M5S, il Pd «si è condannato all’irrilevanza, dimostrando una incapacità politica che va valutata con serietà».
La decisione imposta da Renzi al Pd, quella di fare gli «osservatori» e non gli «attori» della scena politica, viene bombardata in ogni modo. Bettini è sarcastico: «Moro parlava di come Dc e Pci si fossero positivamente influenzati, Togliatti addirittura si rivolgeva ai ragazzi di Salò. E con quelli non ci si era insultati, si sparava…il Pd invece guarda con malcelata soddisfazione alla nascita del peggiore governo della storia repubblicana…».
«Tra i dirigenti si nota la mancanza di sofferenza per la sconfitta», fa notare Bassolino. «Abbiamo dato alla destra la più larga base di massa dal Dopoguerra, i milioni di elettori del M5S», attacca Orlando. «Come fai ad annunciare opposizione durissima se hai fatto il tifo perché questo governo nascesse?».
In oltre tre ore di discussione tornano parole come «lotta di classe», «critica al capitalismo», «subalternità al dominio del mercato». Si fa autocritica per non aver capito le conseguenze della globalizzazione, l’aumento della forbice tra ricchi e poveri, per aver trascurato la «questione sociale».
Bassolino squaderna un concetto caro a molti: non è solo il renzismo a essere stato travolto nelle urne. «In discussione c’è un’intera storia a partire dall’Ulivo, ora dobbiamo ridare al Paese una sinistra». Massimo Brutti è ancora più lapidario: «Oggi non c’è in Italia una forza politica erede del movimento operaio e capace di stare vicino ai più deboli». E’ questo l’assillo per i mesi che verranno.
I dubbi circolano insistenti. «La spinta propulsiva del Pd si è esaurita», dice Roberto Morassut. Andrea Orlando, che tiene le conclusioni, mette un punto interrogativo: «Il Pd è ancora uno strumento utile?». Massimo Brutti lo accusa: «Come puoi pensare di costruire nuovo consenso se non riuscite neppure a dare battaglia in direzione e votate all’unanimità?». Orlando non si scompone: «Abbiamo votato la relazione di Martina, che ha garantito un percorso ordinato alla discussione verso il congresso». Una discussione, dice Orlando, che «può portare anche a conseguenze radicali». E quando dal palco Ugo Papi racconta le difficoltà a spiegare agli amici della Corea del Sud le vicende del Pd, il ministro uscente della Giustizia dalla platea suggerisce: «Devi dire che il Pd è un partito della Corea del Nord…».
La convivenza tra Renzi e il gruppo degli ex Pci sembra sempre più appesa a un filo. Tornano i Ds? «Magari», sorride Livia Turco. Zingaretti se ne sta in fondo e non interviene. Ma gli viene tributato un lungo applauso. E’ lui, il governatore del Lazio, ex giovane diessino, con la sua candidatura alle primarie, l’ultima possibile scommessa per tenere questo popolo dentro il Pd. «La sua presenza ci fa pensare a una possibile ripartenza dentro il Pd», conclude Bettini. «Non siamo ancora al
de profundis…».
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Sbilanciamoci.info
«Chi è il popolo, cosa vuole, come si rappresenta. Inchiesta di un gruppo di ricercatori nelle periferie di quattro grandi città, battute tra novembre e marzo attraverso focus group e interviste in profondità. Risultati a tratti sorprendenti con una richiesta forte di intervento allo Stato ma non alla politica».
Nell’Italia degli anni post-crisi, le questioni del lavoro (mancanza o peggioramento delle condizioni), della sanità (assenza di servizi o sempre più costosi) e della casa (degrado infrastrutturale o affitti non più sostenibili) sembrano ancora rappresentare i problemi centrali vissuti quotidianamente dai settori popolari della società. Questo è ciò che emerge da una ricerca realizzata da una rete di ricercatori e attivisti (“Il Cantiere delle Idee”), che tra novembre e marzo hanno letteralmente girato l’Italia e visitato le periferie di quattro città (Milano, Firenze, Roma e Cosenza) incontrando e intervistando circa 50 persone (tramite focus group e interviste in profondità) per approfondire le condizioni sociali e il rapporto con la politica di un ampio settore, quello con maggiori difficoltà economiche, della popolazione italiana.
Sabato 19 maggio dalle 10 alle 17 a Firenze (Palazzo Bastogi – Regione Toscana, Sala delle Feste, Via Cavour 18), i/le ricercatori/ricercatrici e gli/le attivisti/e del Cantiere presenteranno pubblicamente i risultati della ricerca in un evento significativamente titolato Popolo? Chi? Al lavoro per nuove idee, partendo da un’indagine sulle classi popolari.
Il quadro che emerge dalle interviste è per molti aspetti inedito e sorprendente, e merita una seria e approfondita riflessione da parte della classe politica, in particolare di quelle forze politiche che hanno storicamente avuto nella funzione di rappresentanza del popolo e dei settori socialmente più svantaggiati, la loro ragione di esistere.
Il lavoro – dicevamo – o meglio, la sua mancanza e/o la sua precarizzazione, sembra essere la questione dirimente nel vissuto della larga maggioranza degli intervistati. Dal Nord al Sud, dalle periferie della metropoli a quelle della città di provincia, non c’è nessuno che non abbia sottolineato le difficoltà incontrate al lavoro (dall’intervistato/a medesimo/o e/o riferite ai suoi cari, vedi alla voce figli, amici e genitori) come il problema principale delle loro vita. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Dieci anni di crisi economica e, soprattutto, di soluzioni politiche inadeguate alla risoluzione di questi problemi non potevano che generare e perpetrare questa generalizzata situazione di “povertà” lavorativa e sociale.
Il dato però sorprendente che emerge dalle interviste è la completa assenza della speranza di migliorare le proprie condizioni di lavoro e sociali tramite il coinvolgimento in prima persona in organizzazioni, sociali, sindacali o politiche, capaci, se non di rovesciare, almeno di modificare in meglio lo stato di cose presente.
In altre parole, ciò che emerge dalla ricerca è la tendenza alla “privatizzazione” e alla “individualizzazione” dei rapporti sociali e di lavoro e, soprattutto, dei problemi ad essi connessi. Sembra che non ci sia più una diffusa consapevolezza tra le classi popolari che i problemi connessi alla propria condizione lavorativa siano problemi sociali e, quindi in senso lato, politici, cioè capaci di essere contrastati e risolti dal coinvolgimento personale in mobilitazioni collettive (intervistato Cosenza: “uno fa così tanta fatica ad arrivare a fine mese che i pensieri te li porti nella tua sfera privata ed è difficile che ti metti a pensare anche se sono cose che ti riguardano, però hai il pensiero di arrivare a fine mese, che alla fine la sfera esterna te la senti scivolare addosso…”).
Adottando le categorie tradizionali della sociologia politica si potrebbe quasi dire che il quadro descritto evidenzi un declino, se non proprio una vera assenza, di progetti e identità collettive con cui identificarsi, a partire dalla materialità delle proprie condizioni di lavoro e di vita, per sovvertire i rapporti sociali esistenti. Come ben sintetizzato da un intervistato romano: “L’aspetto più brutto, più triste, è che non ci sono, o almeno non si avvertono, non si sentono progetti politici, di prospettiva, anche su base ideologica”.
Questo quadro ci sembra quindi suggerire la fine delle identità sociali organizzate sul e dalla condizione lavorativa, tratto caratterizzante della politica del Novecento, (il “non più”), e l’incapacità di prefigurare cosa ci aspetterà nei prossimi anni (il “non ancora”).
La stessa tendenza individualizzante sottolineata parlando di mondo del lavoro, è stata riscontrata anche rispetto alla dimensione politica. La disaffezione nei confronti della classe politica attuale, il tramonto delle ideologie novecentesche e la scomparsa della frattura destra/sinistra sono elementi oramai consolidati nel sentire comune e nel discorso pubblico, e sono stati confermati dalle interviste condotte.
Quello che invece colpisce di più (pur non rappresentando nemmeno in questo caso un elemento del tutto inatteso) è la mancanza di una traduzione collettiva e “dal basso” di questo sentimento. L’ormai nota e dibattuta retorica popolo/élite è stata confermata in tutta la sua attualità. In modo più specifico, i politici vengono individuati come subordinati al potere economico-finanziario, e percepiti come privilegiati più che come potenti: il loro ruolo resta ancillare rispetto a chi veramente tesse le fila del presente e del futuro, ossia banchieri, grandi corporations, interessi privati ed eventualmente le istituzioni transnazionali (la disaffezione nei confronti dell’Euro e la nostalgia per la lira è stata sottolineata da diversi fra gli intervistati).
Tuttavia questa percezione non si traduce nello sviluppo di forme di resistenza collettiva dal basso e di proposte di modelli alternativi. Anzi: la richiesta di politica è raramente stata forte come oggi, e va di pari passo al rifiuto e alla nausea per l’attuale classe dirigente dei partiti.
Tradotto: il “popolo” vuole più politica, vuole una guida precisa e soluzioni concrete, specie in riferimento ad aspetti collegati alla vita quotidiana, ma anche quando il discorso si sposti su un piano più esteso. Che i movimenti sociali vivano un periodo di magra è risaputo, e i dati raccolti lo confermano: la voglia di partecipare e costruire percorsi non interessa più le classi popolari come succedeva soltanto qualche anno fa, e anzi la politica è vista come un’attività passiva, come un servizio di cui usufruire e da cui ottenere qualcosa, e non invece come uno spazio di partecipazione. Si è persa quasi del tutto la dimensione di attivazione diretta e dal basso.
Se la stagione delle mobilitazioni collettive guardava a un passo indietro delle istituzioni, oggi siamo invece in uno scenario completamente diverso: la richiesta è quella di più Stato e più servizi pubblici. La fiducia nel sistema democratico e nel sistema di delega resta un perno e ancor più un orizzonte difficilmente valicabile. La richiesta è magari di “nuovi” partiti, nuove figure che possano riempire di credibilità uno schema che comunque non viene messo in discussione nelle sue radici ultime.
Si vota perché si deve, ma senza una reale speranza di miglioramento: queste figure alternative ancora non esistono, e nemmeno si pensa che le sorti siano future e progressive, per lo meno nel domani più prossimo. La speranza, dunque, resta l’ultima a morire, ma al momento non assume nessun contenuto specifico, nessuna forma concreta, nessun volto reale: non più certo, ma non ancora. Detto brutalmente, siamo all’anno zero della politica dal basso.
la Repubblica 9 maggio 2018. Federico Rampini intervista il premio Nobel per l'economia Joseph Stigliz, attento critico delle politiche economiche mainstream e animatore delle principali campagne contro il neoliberismo, sulla tendenza dominante nell'impero Usa e i suoi rapporti con la Cina
«La nuova globalizzazione rischia di essere un sistema che definirei il Wto meno uno: con gli Stati Uniti come nazione pirata, che si sottrae alle regole anziché farle rispettare».
Donald Trump ha una fissazione con i rapporti commerciali bilaterali, è una visione primitiva dell’economia. Un’altra sua ossessione riguarda il manifatturiero, gli scambi di merci, ma anche questo è anacronistico perché l’economia americana è forte nei servizi, come l’istruzione, noi siamo una nazione che esporta corsi di laurea universitari». Chi parla è stato uno dei primi e forse il più autorevole tra i pensatori critici della globalizzazione, Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, scrisse La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi) in tempi non sospetti: nel 2002, quando aveva da poco lasciato l’incarico di chief economist della Banca Mondiale.
È stato un punto di riferimento del movimento no-global, di Occupy Wall Street, degli anti-euro. Del suo libro uscirà fra un mese l’edizione italiana aggiornata all’èra di Trump. Perché adesso che un “no-global” siede alla Casa Bianca, Stiglitz si ritrova nuovamente all’opposizione, non condivide l’offensiva protezionista del presidente.
Lo incontro a New York assieme all’economista John Lipsky a una conferenza del China Institute, dove ovviamente l’attenzione è concentrata sulla tensione Usa-Cina. Ma sullo sfondo c’è la spallata che Trump sta sferrando all’architettura complessiva del commercio internazionale, incluse le relazioni con l’Unione europea.
Cominciamo dalla questione più generale: che cosa significa oggi essere anti globalizzazione nell’era di Donald Trump?
«Bisogna prendere atto che le fondamenta dell’ordine internazionale traballano, oggi sono molto meno sicure. E questa crisi risale a prima dell’elezione di Trump. La vera linea di frattura, il momento chiave di questa crisi, è il 2008. Le regole della finanza mondiale imposte dagli Stati Uniti hanno contribuito a scatenare lo shock sistemico del 2008. E’ lì che si è rotto un modello, e la rottura è avvenuta a partire dagli Stati Uniti».
Trump e il suo consigliere sul commercio estero Peter Navarro dicono che la Cina bara al gioco, non rispetta neppure quelle regole del Wto (World Trade Organization, l’organizzazione del commercio mondiale) che pure continua a invocare. Non hanno tutti i torti, le violazioni cinesi sono note da tempo, no?
«E allora che l’Amministrazione Trump si muova per farle rispettare, quelle regole. Invece non lo fa, non sta appellandosi al Wto perché faccia valere le norme. Al contrario, in questo momento è la Cina che presenta più ricorsi al Wto. Ed è l’America che rischia probabilmente di essere colta a violare le regole del sistema che ha fondato.
«Washington ha bloccato perfino molte nomine di giudici nei tribunali del commercio mondiale. Per questo dico che rischiamo di avviarci verso un sistema del “Wto meno uno”, con gli Stati Uniti ai margini della legalità. Trump predilige i confronti bilaterali, perché è convinto che lì i rapporti di forze siano sempre favorevoli agli Stati Uniti. Prima ancora che arrivasse lui alla Casa Bianca, il Congresso a maggioranza repubblicana aveva bocciato importanti riforme del Fondo monetario e della Banca mondiale, che Barack Obama avrebbe voluto. C’è uno scetticismo generale della destra Usa verso tutto ciò che è multilaterale».
Ma l’America resta un grande mercato molto aperto, mentre altre economie non la trattano con reciprocità. L’America accumula disavanzi; Cina e Germania hanno attivi commerciali enormi.
«La fissazione con le bilance commerciali bilaterali nasce da una visione primitiva dell’economia. La Cina potrebbe risolvere la questione e dare soddisfazione a Trump, importando di colpo 100 miliardi di dollari di petrolio estratto negli Stati Uniti, per poi rivenderli subito ad altri paesi, in una partita di giro. Noi non avremmo risolto nulla. In quanto ai dazi sull’acciaio: è evidente che qui lo scopo è tutto politico, Trump li ha scelti per fare un favore alla sua base elettorale, alla Rust Belt. Ma il peso della siderurgia, o del settore minerario, o del manifatturiero in generale, sta declinando nel mondo intero, Cina inclusa. Trump sembra non rendersene conto».
Resta il fatto che la Cina deruba di know how tante imprese straniere, americane e non. Impone a chi investe sul suo territorio (almeno in alcuni settori) di creare una joint venture con un socio cinese e trasferirgli il sapere tecnologico, la proprietà intellettuale. Furto di proprietà intellettuale.
«Quando il Wto venne negoziato, non includeva regole sugli investimenti. Ma anche se la Cina impose le joint venture e il trasferimento di tecnologie, molte multinazionali americane decisero di andarci. Nessuno le obbligava. Furono spinte dall’avidità, dall’attrazione di quel mercato enorme. Quando la Cina entrò nel Wto nel 2001 fu vista come una miniera d’oro. Ora molte cose sono cambiate, le imprese cinesi sono divenute delle formidabili concorrenti, e certi benefici per le aziende americane si sono attenuati.
«Comunque il reddito pro capite dei cinesi rimane un quinto di quello americano. Devono avere il diritto di svilupparsi. Le nazioni emergenti sono in una situazione diversa rispetto a noi, una piena reciprocità e una totale simmetria non possiamo pretenderle. Se noi avessimo un’Amministrazione ragionevole, ci sarebbe spazio per un buon accordo su molti terreni».
Avvenire, 9 maggio 2018. Inguaribilmente prigioniero d'una parossistica passione per la violenza bellica, capace di mentire spudoratamente più ancora dei suoi più bugiardi predecessori, Trump agita verso il mondo il manganello della guerra nucleare.
Il Piano d'azione congiunto globale (in inglese Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo JCPOA) è un accordo quadro tra l’Iran da un lato, e dall’altro lato i 5 paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè Cina, i, Russia, Regno unito, Stati uniti, più la Germania e l’Unione europea, riguardanti i limiti e le condizioni accuratamente stabiliti entro i quali l’Iran deve contenere e i suoi programmi di utilizzazione dell’energia nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto dell'accordo da parte dell'Iran, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) avrebbe avuto regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani. In cambio del rispetto dei suoi impegni, l’Iran avrebbe ottenuto la cessazione delle sanzioni economiche precedentemente stabilite.
L'accordo è stato finora rispettato da tutti i contraenti. Il gesto folle dell’attuale presidente degli Usa di uscire unilateramente dall’accordo significa che, mentre il resto del mondo rimane vincolato a quell’accordo, solo l’Impero statunitense può agitare il manganello della guerra nucleare e utilizzarne i mortiferi strumenti. (e.s.)
Di seguito l'articolo di Riccardo Redaelli, da Avvenire del 9 maggio 2018, che abbiamo scelto tra i diversi commenti apparsi oggi sulla stampa italiana
E quindi se ne vanno. Come ampiamente previsto e temuto, Donald J. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti si ritirano dal Jcpoa, il compromesso sul nucleare iraniano faticosamente siglato nel 2015 dall’allora presidente Barack Obama sotto l’egida delle Nazioni Unite con l’lran. Non sono bastasti gli appelli dell’Europa e dell’Onu, e neppure le dichiarazioni dell’Agenzia atomica internazionale che attestano come Teheran non stia violando i termini dell’accordo. Neppure l’ultimo tentativo di Londra di convincere Washington è servito, a dimostrazione di quanto si sia deteriorato – con questa amministrazione – anche lo storico "legame speciale" tra quelle due capitali.
Da tempo è già partita la grancassa retorica per giustificare la rottura: l’accordo (che, invece, era e rimane un compromesso ragionevole) è un disastro, non ha fermato i programmi missilistici né l’attivismo regionale iraniani. Discorsi strumentali, dato che il tema delle trattative da sempre era concentrato sulla questione nucleare, non su altro. In verità, sono diverse le ragioni di questo nuovo strappo con il sistema internazionale: le pressioni saudite e israeliane, l’ostilità contro Teheran che la destra statunitense ha sempre dimostrato, la forza persuasiva della lobby anti-iraniana che è fortissima nei palazzi del potere di Washington. Ma non va sottovalutata la fanatica determinazione con cui i falchi attorno al presidente sembrano voler smantellare ogni eredità degli otto anni della presidenza Obama, un uomo e un politico verso cui nutrono un’ostilità irriducibile.
E neppure la debolezza del Dipartimento di Stato, umiliato da pesantissimi tagli finanziari, privo da più di un anno di molti vertici tecnici mai nominati dal nuovo presidente, e con a capo un politico ruvido come Mike Pompeo, distante anni luce dallo stile e dal linguaggio della diplomazia internazionale.
Non si può non guardare con preoccupazione al crescendo di mosse unilaterali di Trump, il quale sembra voler sfuggire al crescente gossip "pornografico" interno, alle inchieste del Fbi, alla frustrazione di dover eternamente negoziare con un mondo istituzionale che fatica ad accettarlo, lanciando in continuazione il guanto di sfida alla comunità internazionale. Prima la denuncia dell’accordo sul clima, poi i dazi commerciali minacciati e a volte applicati per difendere «i posti di lavoro americani», a cui la Cina ha già risposto con perfida efficacia annullando contratti di acquisto di beni agricoli per miliardi di dollari, colpendo duramente proprio quegli stati del Midwest che hanno garantito la vittoria elettorale di "The Donald". Ora il nucleare iraniano.
In realtà, si vedrà solo nelle prossime settimane la reale portata di questo annuncio. Perché come sempre, al di là dei roboanti proclami, contano i dettagli tecnici. Di fatto, già Obama aveva disatteso nella sostanza, se non nella forma, alcune parti dell’accordo, non eliminando una serie di sanzioni finanziarie e commerciali. Tanto che qualcuno ha ironizzato dicendo che Trump uccide un accordo mai entrato veramente in funzione. Vedremo quanto gli americani vorranno giocare pesante con l’Iran e quanto saranno disposti a irritare gli europei re-imponendo nuove sanzioni contro chi commercia con il Paese degli ayatollah. È comunque indubbio che l’Unione Europea non possa rimanere in silenzio o piegarsi supinamente alle decisioni statunitensi. Già nel mondo noi europei siamo ormai considerati sostanzialmente irrilevanti nelle questioni politiche che contano. Se non reagiremo ai ventilati dazi commerciali e alle nuove sanzioni contro Teheran certificheremo una nullità politica.
Ma fondamentale sarà capire come reagirà l’Iran. Per il presidente moderato Rohani e per i riformisti iraniani, maggioritari nel paese ma marginalizzati politicamente dal regime, si tratta di una umiliazione che li indebolisce.
Per i conservatori, gli ultra-radicali e i pasdaran, che avevano digerito a fatica questo accordo, il ritiro statunitense è un aiuto insperato. Serve a loro per dimostrare che ogni intesa con l’Occidente è tempo e fatica sprecata, perché l’obiettivo non è accordarsi con la Repubblica islamica ma distruggerla. E che i moderati che vogliono negoziare, dal nucleare alle politiche regionali, sono o degli 'utili idioti' o dei traditori dei valori rivoluzionari. La speranza europea è che a Teheran ci si accontenti di qualche dichiarazione roboante, mantenendo intatta la sostanza dell’accordo. In ogni caso, un nuova pessima decisione presa Oltreatlantico, che allarga ancora la distanza fra le due sponde di questo oceano, che è stato per decenni un ponte saldo e protettivo fra le diverse anime dell’Occidente.
Nigrizia,
Qui al rione Sanità uno dei problemi più gravi che la gente deve affrontare è quello della mancanza di lavoro. Vedo tanta gente che non sa come sbarcare il lunario. Capita che bussino alla porta, si siedano e chiedano semplicemente un lavoro. E non si tratta di ragazzi. Spesso sono persone oltre i 40, che hanno perso il lavoro e che magari non hanno una grande istruzione né formazione professionale. Ma non pretendono nulla, cercano un lavoro qualsiasi. Talvolta mi fermano per strada delle madri e dei padri e l’argomento è quasi sempre quello: la possibilità per il figlio o la figlia di trovare da lavorare.
E le cose vanno peggiorando, come sottolinea una indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Dice che in Italia in generale, ma il particolare al sud, sta crescendo il numero degli individui e delle famiglie a rischio povertà. Ancora più preoccupante il rapporto dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno: afferma che dal 2001 al 2016 se ne sono andati dal sud in cerca di lavoro circa 500mila persone di cui 200mila laureati, il che si traduce in un ulteriore impoverimento del sud.
La cosa grave è che la politica non dà nessuna risposta. E la rabbia si è riversata nel voto del 4 marzo. Peggio di così non poteva andare per i partiti che hanno dominato la scena negli ultimi anni. Al sud in molti hanno deciso di votare per il Movimento 5 Stelle. Non credo che siano stati semplicemente attratti dal reddito di cittadinanza, ma che abbiamo manifestato la voglia di cambiamento. Sono stanchi di parole e di una politica che non c’è (sia il governo centrale sia gli amministratori locali) e vogliono qualcuno che risponda concretamente ai bisogni della gente.
La politica, se è politica, deve partire dagli ultimi, da chi non ce la fa più, da chi è senza lavoro.
Qui a Napoli ci sarebbe la possibilità di creare anche del lavoro socialmente utile. Penso all’enorme questione dei rifiuti, che non è gestita a dovere non solo nel capoluogo ma in tutta la Campania. Le infiltrazioni della camorra sono sotto gli occhi di tutti…
Che cosa ci vuole a creare piccole cooperative per la raccolta differenziata porta a porta? Non c’è altra maniera nei vicoli di Napoli, se davvero si vogliono raccogliere accuratamente i rifiuti. Invece di spendere tanti soldi, come avviene ora, l’amministrazione ci guadagnerebbe dalla gestione oculata di questo servizio.
Un esempio. Come realtà di base, un paio d’anni fa avevamo avviato una cooperativa per raccolta del cartone. Sostenuta dalla cooperativa Arcobaleno di Torino, l’iniziativa ha creato 5 posti di lavoro e raccoglieva 2,5 tonnellate di cartone al giorno e facendo molto meglio della altre imprese scelte dal comune. Dopo un anno, la cooperativa è dovuta andare a gara d’appalto e l’ha persa. Mi sono arrabbiato e ho scritto a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il quale ha verificato che qualcosa non andava. Oggi c’è una sanzione interdittiva a carico della ditta che ha vinto l’appalto, ma intanto la cooperativa è ferma.
Ricordiamo le parole di papa Francesco: «La mancanza di lavoro è molto di più del venir meno di una sorgente di reddito, è assenza di dignità».
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Sbilanciamoci,
Un “bilancio di un’Europa che protegge, dà forza e difende”, scegliendo come priorità strategiche, coerentemente con quanto già anticipato nel Libro bianco sul futuro dell’Europa presentato nel marzo 2017, ricerca, migrazione, controllo delle frontiere e difesa: è la proposta di QFP (Quadro finanziario pluriennale) dell’Unione Europea per il periodo 2021-2027, presentata ieri dal presidente della Commissione europea Junker all’Europarlamento. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dal Consiglio nei prossimi mesi.
1.135 miliardi di euro in impegni (espressi in prezzi del 2018) per il periodo 2021-2027, pari all’1,11 % del reddito nazionale lordo dell’UE-27 che si traducono in 1.105 miliardi di euro (l’1,08% del reddito nazionale lordo) in termini di pagamenti (a prezzi 2018): queste le dimensioni di una proposta condizionata dalla Brexit e dal mantenimento di un approccio che opta ancora una volta per “fare di più con meno” , mantenendo la barra dritta sulle politiche di austerità. Tutto il contrario di quanto chiedono da tempo molte organizzazioni della società civile, suggerendo, ad esempio, di portare le dimensioni del bilancio europeo almeno al 4% del Pil europeo.
In termini assoluti, la proposta licenziata dalla Commissione mantiene dimensioni analoghe a quelle del bilancio pluriennale 2014-2020, nonostante la Brexit, grazie ad alcuni tagli proposti per i finanziamenti della politica agricola comune e delle politiche di coesione, alla diversificazione delle fonti di entrata (che dovrebbe prevedere l’introduzione di nuove risorse proprie), alla riduzione e riorganizzazione dei programmi di finanziamento (gli attuali 58 dovrebbero ridursi a 37) e all’inclusione nel Quadro finanziario pluriennale del Fondo europeo di sviluppo.
Questo Fondo, che finanzia la cooperazione allo sviluppo con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, è finora stato solo un accordo intergovernativo: nel nuovo budget Ue, varrebbe circa 9,2 miliardi, un po’ meno dei 13 che mancheranno a seguito della Brexit.
Tra le novità positive: il raddoppiamento delle risorse destinate al programma Erasmus+ (30 miliardi di euro) e l’aumento dei fondi per ricerca, agenda digitale e investimenti strategici (187,4 miliardi).
La Commissione propone anche di aumentare le risorse destinate alle migrazioni e al controllo delle frontiere esterne portandole a 34,9 milioni di euro e stanziamenti per la difesa pari a 27,5 miliardi di euro. Occorrerà attendere il dettaglio dei diversi programmi di spesa per capire quanto l’attenzione dedicata alle politiche migratorie e sull’asilo si tradurrà in politiche di accoglienza e inclusione o, invece, in un ulteriore barricamento della Fortezza Europa, come sembra trapelare da alcune notizie di stampa.
Ad esempio, il budget destinato all’agenzia Frontex, cui spetta il controllo dei mari e delle frontiere esterne, dovrebbe aumentare ulteriormente e consentire di portare l’organico dell’agenzia fino a 10mila agenti. D’altra parte, il passato recente insegna che molti progetti europei finanziati con i fondi destinati alla ricerca hanno avuto l’obiettivo di sviluppare nuovi sistemi tecnologici di sorveglianza proprio al fine di intercettare (e fermare) i flussi migratori.
Per ora i dati pubblicati dalla Commissione evidenziano, oltre alle risorse sopra indicate, la costituzione di una “Riserva dell’Unione” di 4,7 miliardi di euro per affrontare meglio gli imprevisti e le situazioni di emergenza connessi alle migrazioni e alla sicurezza. Sembrerebbe ad oggi esclusa l’opzione di penalizzare gli Stati membri (come quelli del gruppo di Visegrad) che non sono disponibili ad accogliere i migranti, mentre sarebbe al vaglio l’ipotesi di premiare quelli maggiormente esposti ai fenomeni migratori (come l’Italia e la Grecia).
Intanto, il prossimo Consiglio europeo degli Affari interni, che si occuperà di migrazioni e gestione delle frontiere, è convocato per il 12 giugno e avrà il compito di specificare le priorità politiche dell’Unione sulle migrazioni e sull’asilo dei prossimi anni.
Certo è che quel “vincolo di solidarietà” evocato ieri dal presidente della Commissione, come principio cardine dell’Unione del futuro, stenta a divenire realtà in questo ambito: il piano di ricollocazioni concordato nel 2015 è ancora ampiamente disatteso e il progetto di riforma del Regolamento Dublino III rischia di essere bloccato a causa delle resistenze dei paesi del gruppo di Visegrad, ostili alla previsione di quote obbligatorie e automatiche di redistribuzione dei migranti tra i Paesi membri.
Avvenire,
«Elena Molinari, inviata a Newhaven (Connecticut) domenica 6 maggio 2018»
I giovani tornano a marciare. E contestano le scelte del governo. Tra i promotori c'è Lane Murdock, 16 anni, che si racconta: «Siamo ancora qui, e non ce ne andremo finché le nostre voci non saranno ascoltate ». Due mesi e mezzo dopo la strage di Parkland e la nascita di un movimento nazionale di adolescenti che esigono un maggiore controllo delle armi negli Stati Uniti, la persistenza di questi giovanissimi sulla scena nazionale ha dell’incredibile.
Al gruppo originale del liceo in Florida, dove 17 persone sono morte sotto i colpi dell’onnipresente AR 15, si sono uniti altri ragazzi. Come Lane Murdock, una sedicenne del Connecticut che due settimane fa ha lanciato, con un successo insperato, uno sciopero di una giornata di tutte le scuole superiori del Paese per ricordare a politici, ai media e alla lobby delle armi, la Nra, che la mobilitazione è tutt’altro che finita.
Lane è comparsa in televisione, con la stessa espressione calma ma appassionata alla quale ci hanno abituati gli studenti di Parkland, spiegando che quando aveva dieci anni un malato di mente crivellò decine di bambini a Sandy Hook, una scuola elementare vicina alla sua, e che da allora tre volte all’anno partecipa in classe a simulazioni da «presenza di attaccante armato». Si è talmente abituata a questa routine, ripete ad , che la notizia della strage in Florida all’inizio non la sconvolse. «Lì per lì mi sono detta: ah, un’altra sparatoria – dice –. Poi mi sono resa conto quanto fosse assurdo e ho scritto la petizione per lo sciopero del 20 aprile». Nel giro di una settimana, 2.500 istituti avevano aderito.
Lane ha scelto l’anniversario del massacro di Columbine, in Colorado, un evento che gli attivisti che si battono per il controllo delle armi considerano uno spartiacque. Diciannove anni fa, infatti, per la prima volta l’opinione pubblica americana domandò alle amministrazioni locali e federali di fare qualcosa affinché una carneficina simile non si ripetesse «mai più». Da allora la maggior parte scuole americane si sono trasformate in fortezze. Hanno installato metal detector e telecamere di sicurezza, vietato gli zaini, richiesto agli studenti di portare documenti di identità e schierato polizia nei corridoi.
Ma questo non ha impedito che 33 persone venissero falciate sul campus di Virginia Tech o 26, appunto, a Sandy Hook. Ogni tragedia ha risvegliato lo stesso orrore, nessuna ha generato svolte reali, e al Congresso americano non sono mai stati eletti abbastanza deputati e senatori disposti ad approvare misure che li mettessero in rotta di collisione con la National Rifle Association (Nra), che rappresenta i produttori e distributori di armi in America e i cui iscritti sono aumentati negli anni, toccando ira i sei milioni. Col tempo, allora, il «mai più» di 19 anni fa si è trasformato in «no, non ancora».
Fino a oggi. Nel corso degli ultimi mesi – qualcuno dice dalla campagna presidenziale del 2016 – migliaia di adolescenti hanno dimostrato di non voler accettare lo status quo. E non solo per il controllo delle armi. I liceali hanno marciato con le donne dopo l’elezione di Trump e tenuto in vita il movimento #MeToo contro gli abusi sessuali. Hanno affiancato le rivendicazioni anti-razzismo di Black Lives Matter. Hanno protestato contro i divieti dell’Amministrazione repubblicana all’ingresso di musulmani negli Usa. Per il clima.
Se le armi sono diventate il loro biglietto da visita, consapevoli della loro abilità di creare ponti sui social media, questi ragazzi hanno trovato forza nell’unione di cause limitrofe. I Peace Warriors, associazione anti-violenza di Chicago, si sono già recati in Florida per coordinare i loro sforzi con i coetanei di Parkland. E un gruppo in Oregon, che ha fatto causa all’Amministrazione Trump per la sua estrazione di combustibili fossili, ha fatto lega con un’associazione di giovanissimi in Colorado impegnata in una simile battaglia legale. Intanto 13 coalizioni di adolescenti si sono unite in una rete che difende il diritto di molte «città santuario» di dare rifugio agli immigrati senza documenti, nonostante le minacce del governo di tagliare loro i fondi federali.
Non sono cause nuove, e per molti aspetti i ragazzi che le hanno impugnate non sono diversi dagli adolescenti idealisti che prima di loro hanno cercato di cambiare il mondo, per poi scoprire che non è facile. Sono già riusciti a mantenere viva l’attenzione nazionale sulle loro cause più a lungo del brevissimo ciclo delle notizie via ma è legittimo porsi la domanda: quanto dureranno?
Nelle prossime settimane, Avvenire cercherà di scoprirlo con un viaggio nell’attivismo della Generazione Z. Che ha già dimostrato un’impressionante abilità nell’usare Internet per rivolgersi a un pubblico ampio e nell’attaccare i suoi avversari senza esclusione di colpi.
Ieri ad esempio, pochi minuti dopo che Donald Trump, parlando alla convention della Nra, aveva deriso la proposta di vietare i fucili semiautomatici, chiedendosi se non si debba anche vietare «i furgoni, i camion e smettere di vendere auto», i giovanissimi del movimento Never Again hanno inondato Twitter con commenti che mettevano in ridicolo il presidente degli Stati Uniti. «L’energia giovanile c’è sempre stata, gli strumenti che abbiamo sono nuovi – conclude Lane Murdock –. Per questo siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci».
1.Continua
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la Repubblica,
Tra le cose giuste che ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella c’è indubbiamente la nomina di Liliana Segre a senatrice a vita. Poche persone hanno titoli così preziosi per essere membri del Senato. Liliana, di famiglia ebraica, fu vittima dell’odio razzista fin dall’età di 13 anni, quando fu rinchiusa dai nazisti nel campo di sterminio di Auschwitz, dopo l’assassinio dei suoi genitori e nonni. Porta ancora inciso sull’avambraccio il numero di matricola 75190. Sopravvisse allo sterminio e fu liberata dall’Armata rossa il 1° maggio 1945. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, Liliana fu tra i venticinque sopravvissuti. Dalla Liberazione ha studiato, lavorato e insegnato costantemente, anche a livello universitario, per mantener viva nei giovani la memoria dei crimini compiuti dall’odio razzista. Tra le sue recenti proposte, quella di istituire una “Commissione contro il razzismo, che di seguito è illustrata dalle sue stesse parole pronunciate a un incontro con i giovani (e.s.)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro. La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare. Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe.
È questo il momento giusto!
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il manifesto
«Intervista alla "capa politica" di Potere al Popolo. Siamo pronti a tornare al voto ma il fine è il mutualismo non il palazzo. Da Lega e 5stelle solo chiacchiere, cancellino la Fornero. I ceti popolari non si accorgono di non avere un governo: ormai l’Europa ci guida con il pilota automatico»
«Diciamolo: siamo nel pantano. A due mesi dal voto, la matassa si aggroviglia sempre di più. Nessuno ha i voti per governare da solo, né 5 Stelle né centrodestra. Tutti sostengono di fare l’interesse del paese, di mettere al centro delle trattative i temi. Bene. Sarebbe salutare. Ma sono parole. Con buona pace delle classi popolari, vere vittime di questo chiacchiericcio quotidiano». Non che Viola Carofalo, ’capa politica’ di Potere al popolo sia una fan dei ’tavoli’.
Tifavate per un’alleanza di governo? Pd e M5S?«No, tutte le opzioni non ci piacevano. Ci fa solo piacere che questo stallo ha svelato la bugia del voto utile»
Le ’classi popolari’ si accorgono che non c’è un governo?
«Direi di no. Perché ormai nell’Unione Europea si viaggia col pilota automatico. La verità è che stentiamo ad accorgerci finanche dei cambi di governo visto che, tranne rare eccezioni, portano avanti le stesse politiche».
Salvini sale nei sondaggi. Il prossimo voto sarà lo spareggio tra Lega e 5 Stelle?
«Il consenso non è più stabile, basta poco a sgonfiare fenomeni che sembrano inarrestabili. E non dimentichiamoci che il Pd di Renzi è in stato disastroso ma non si è estinto. Renzi potrebbe tentare la mossa alla Macron per raccogliere l’eredità di Forza Italia».
E voi? In caso di voto PaP ci sarà?
«Senza dubbio. Vuoi che rinunciamo ora che già abbiamo fatto il rodaggio?»
Imbarcherete altri? Leu ha già perso pezzi che guardano a voi.
«Siamo un progetto aperto e siamo convinti di aver cominciato a costruire un confronto con una fetta del nostro soggetto sociale di riferimento, ma che non siamo arrivati a tutti».
L’1% in effetti sembrava un po’ poco per i vostri festeggiamenti della sera del voto.
«È stata mal interpretata la nostra allegria. Era poco, ma considerato che siamo appena nati e il contesto, eravamo contenti di poter dire ’ci siamo’».
Ci siete davvero?
«Dal 5 marzo stiamo incontrando nuove associazioni, collettivi, persone pronte a contribuire ad un progetto di riscatto sociale. Vogliamo allargarci con chi sui territori costruisce pratiche di resistenza e controffensiva. Un’Italia che c’è ma stenta ancora a conoscersi e riconoscersi. Chi invece ha il feticcio di un’unità fra gruppi dirigenti si riconsegnerà a un inevitabile fallimento».
Eppure il Prc toscano vi accusa di dirigismo e chiusura.
«Un problema c’è stato. Ma invito a non drammatizzare: è normale, siamo plurali, fra noi ci sono partiti, collettivi e gruppi. A fine mese facciamo un’assemblea anche per trovare le modalità di discussione comuni. Spero che la vicenda toscana si risolva».
E se invece la sconfitta vi avesse bloccato la spinta propulsiva?
«Non è così. Già il 18 marzo, a Roma, 1500 persone si sono riunite per fare un passo in avanti nella costruzione di Pap. Decine di interventi, entusiasmo. In tante e tanti hanno capito che non è un progetto elettorale. Le elezioni per noi sono uno strumento, il fine è costruire pratiche di mutualismo, reti di solidarietà, organizzazione».
In concreto?
«Abbiamo cominciato ad aprire “case del popolo”, dal Sud al Nord, che possano esser lo spazio fisico per incontrarsi, conoscersi, sperimentare attività di mutualismo. Dove siamo presenti, sosteniamo le battaglie per l’ambiente, per il lavoro. Stiamo predisponendo una piattaforma web per affiancare le assemblee territoriali. Il 26 e 27 maggio terremo da noi, all’ex Opg Je so’ Pazzo di Napoli, una due giorni di discussione sul tema del mutualismo, del lavoro, dell’Europa e delle forme organizzative possibili».
Alle amministrative vi presenterete?
«Solo in 15 città, quelle in cui le assemblee locali hanno scelto di farlo».
E poi ci saranno le Europee. Avete già deciso come vi presenterete?«Oggi ci concentriamo a radicare il progetto. Alle europee saremo presenti ma non vogliamo sfiancarci in discussioni infinite su alchimie e improbabili carrozzoni. Il futuro europeo non è una discussione tattica. Riprendiamo a respirare e a ragionare. Siamo d’accordo o no che i trattati UE siano un peso sul groppone di qualsivoglia tentativo di costruzione di una società in cui l’uguaglianza non sia solo una parola scritta e la lotta alla povertà una formula ipocrita? Da domande come queste discendono risposte che non sono “facciamo la lista tizio o caio”. Per questo abbiamo raccolto l’appello di Lisbona per una “rivoluzione democratica”, lanciato da Podemos, France Insoumise e Bloco de Esquerda, “per organizzare la difesa dei nostri diritti e della sovranità dei nostri popoli”. Faremo un dibattito quanto più ampio possibile per decidere come affrontare il voto europee. Porte spalancate chiunque accetti questa sfida».
la Repubblica, il PD non c'è più. Se rivotiamo con quella legge siamo fottuti.
No, non ci serve un governo. Ci serve uno psichiatra. E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello. Difatti la crisi di governo, quel ramo al quale siamo ormai impiccati da due mesi, deriva da un’allucinazione, da una falsa percezione delle cose. Anzi: le allucinazioni sono quattro, come le malattie mentali di cui soffrono i politici italiani.
Primo: la sindrome del vincitore. Malattia contagiosa, dato che in questo caso i vincitori sono almeno due. Salvini, a capo della coalizione più votata; Di Maio, a capo del partito più votato. Insomma, il campionato delle ultime elezioni ha assegnato due scudetti. Dopo di che, se vinci lo scudetto, pretendi il trofeo di palazzo Chigi. Pretesa ovvia, come no.
Ma per soddisfarla ci vorrebbe un consolato, sulla falsariga dell’antica Roma. Nella Roma moderna (vabbè, le buche sulle strade consolari hanno un che d’antico) invece non si può. Però stavolta la colpa non ricade su Virginia Raggi, bensì su Ettore Rosato, meglio noto come Rosatellum. Perché ha scritto una legge elettorale con il torcicollum: proporzionale (prima Repubblica), coalizioni (seconda Repubblica). Senza l’impianto proporzionale della legge, Salvini avrebbe già indossato una casacca da presidente del Consiglio. Senza vincolo di coalizione (eredità del maggioritario), quel trofeo sarebbe stato conquistato da Di Maio, magari in alleanza con Salvini, libero da ogni vincolo verso Berlusconi. Invece ci troviamo con due mezzi vincitori e un Paese dimezzato.
Secondo: la sindrome del perdente. Che non è +Europa (e meno Italia, a giudicare dai risultati elettorali), né Liberi e uguali (liberi forse sì, uguali agli altri partiti è un azzardo matematico). No, il perdente per antonomasia si chiama Pd. Che ha fatto della sconfitta una bandiera, dal momento che i suoi leader (plurale maiestatis) intonano un solo ritornello: «Abbiamo perso, dunque non ci resta che l’opposizione». Sillogismo illogico, e per almeno due ragioni. Uno: si sta all’opposizione rispetto a un governo, ma se il governo non c’è ancora, a chi s’oppone l’opponente? Due: dichiarare la sconfitta (o la vittoria) ha senso con un maggioritario, non con un proporzionale, qual è in sostanza il Rosatellum. In un sistema così non vince nessuno, perché la maggioranza assoluta diventa una chimera; non la raggiunse mai neppure la Dc, il cui miglior risultato fu il 48,5% dei consensi alle politiche del 1948. Insomma, con il proporzionale vai meglio o peggio rispetto all’elezione precedente, ma poi il governo è un’altra cosa. Nel 1972 il Movimento sociale raddoppiò i propri voti, restando fuori da palazzo Chigi; il Partito liberale, al contrario, ne perse la metà, tuttavia entrò nel nuovo esecutivo, dopo un’assenza durata 15 anni.
Terzo: la sindrome dell’appestato. «Vengo anch’io. No, tu no», cantava Enzo Jannacci nel 1968. Mezzo secolo più tardi, questa canzonetta è tornata di moda. Tu no, dicono i 5 Stelle a Berlusconi. Tu no, dice Salvini al Pd. Tu no, dice il Pd a se stesso. Un torneo a eliminazione, quando la democrazia parlamentare presupporrebbe l’inclusione. Però c’è forse un’esigenza sotto questa intransigenza. Magari c’è il bisogno di ritagliarsi un’identità per sottrazione, per opposizione. Perché i nostri partiti hanno fisionomie deboli, sfocate. E perché dopotutto la politica — diceva Carl Schmitt — si nutre della distinzione fra amico e nemico. Se la ragione è questa, urge cambiare qualche denominazione. Il nuovo nome della Lega, che s’oppone al Pd? “Partito antidemocratico”. E i 5 Stelle, contro Forza Italia? “Abbasso Italia”.
Quarto: la sindrome del ragioniere. Che alle nostre latitudini sragiona sempre sul medesimo argomento: la legge elettorale. Una nevrosi antica quanto lo Stato italiano, come mostra l’altalena dei congegni brevettati e cestinati. Esordimmo, durante la metà dell’Ottocento, con un maggioritario a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale. Fino alla legge fascistissima del 1923 (supermaggioritaria) e a quella democraticissima del 1946 (superproporzionale). Dopo di che abbiamo via via sperimentato altre sei leggi elettorali (nel 1948, 1953, 1993, 2005, 2016, 2017) e altrettanti referendum sulla materia (nel 1991, 1993, 1995, 1999, 2000, 2009). Insomma, una tira l’altra, come le ciliegie. Ogni legge sbagliata rende necessario lo sbaglio successivo. E infatti adesso c’è bisogno di un’altra ciliegina, per rimediare ai guai del Rosatellum. Evviva.
Comune.info-net, 2
La Corte dei Conti ha certificato che nel 2016 la spesa complessiva dello stato italiano ha totalizzato 829 miliardi coperti per l’86,5 per cento da entrate fiscali, ossia ricchezza prelevata ai cittadini, e per il restante 13,5 per cento da altre entrate come affitti, concessioni, vendite di immobili, indebitamento.
Le entrate fiscali comprendono tre grandi categorie: i contributi sociali, le imposte dirette e le imposte indirette. I contributi sociali sono prelievi sulla produzione, in parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro, e sono utilizzati per pensioni e altre provvidenze di carattere sociale. Le imposte dirette sono prelievi sugli introiti dei cittadini. Le imposte indirette sono prelievi sugli acquisti per beni e servizi. L’analisi dei dati rivela che oggi i tre settori contribuiscono al gettito fiscale in misura quasi paritaria. Più precisamente nel 2016 i contributi sociali hanno rappresentato il 31 per cento del gettito fiscale, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 34 per cento. Situazione piuttosto diversa da quella del 1982 quando i contributi sociali rappresentavano il 40 per cento di tutte le entrate fiscali, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 25 per cento.
Ma per capire come sia cambiata la politica fiscale in Italia, più che concentrarci sulla composizione del gettito fiscale, conviene focalizzarci sulla pressione fiscale, il valore che indica la porzione di prodotto nazionale assorbita dal prelievo.
Nel 2016 la quota complessiva prelevata dalla pubblica amministrazione è stata pari al 42,9 per cento del Pil, il 10,5 per cento in più di quella prelevata nel 1982 quando era al 32,4 per cento. Ma l’aumento non è stato omogeneo per i tre canali. Per la verità la pressione fiscale dei contributi sociali è rimasta pressoché stabile nel tempo al 13 per cento del Pil. Il vero balzo in avanti l’hanno fatto le imposte indirette che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1 per cento, passando dall’8,1 per cento al 14,4 per cento del Pil. Quanto alle imposte dirette, nello stesso periodo la loro pressione è aumentata solo del 3,6 per cento passando dall’11,2 al 14,8 per cento del Pil.
Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60 per cento dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18 per cento nel 1982 al 22 per cento nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano. Uno schiaffo che brucia ancora di più se consideriamo che sulle imposte dirette è stata operata una certa regressività a vantaggio dei redditi più alti.
Si prenda come esempio l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche che rappresenta il 73 per cento dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali al 72 per cento oltre 252mila euro. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65 per cento oltre 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43 per cento oltre 75mila euro. Il risultato è che se nel 1983 su un imponibile di 252mila euro, non da lavoro dipendente, si pagavano 143mila euro di IRPEF, oggi se ne pagano 104 mila, praticamente 40mila euro in meno.
Al contrario chi guadagnava 13mila euro nel 1983, 3mila euro pagava allora e 3mila euro paga oggi. Stante la situazione non deve sorprendere se l’82 per cento dell’intero gettito IRPEF è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati.
I ricchi sono stati favoriti non solo grazie all’accorpamento e all’abbattimento delle aliquote, ma anche perché non tutti i redditi concorrono al reddito complessivo su cui si calcola l’IRPEF. Un esempio è rappresentato dagli affitti su cui si può scegliere di pagare una cedolare secca del 21 per cento. Altri esempi sono gli interessi bancari o i dividendi obbligazionari, su cui si applica un prelievo secco del 26 per cento.
E se è impossibile calcolare la perdita per le casse pubbliche di questa serie di favori accordati alle classi più agiate, di sicuro si può dire che contribuiscono ad aggravare le disuguaglianze perché favoriscono l’accumulo di ricchezza nelle mani di una minoranza. Basti dire che l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 21,5 per cento del patrimonio privato, mentre il 60 per cento più povero non arriva al 15 per cento.
E poiché lo scandalo si fa sempre più grave, perfino l’OCSE invita a considerare l’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio. In particolare sostiene che «ci potrebbe essere lo spazio per una tassa patrimoniale nei Paesi in cui la tassazione sul reddito da capitale è bassa e dove non ci sono tasse di successione». Un’esortazione che sembra diretta in maniera particolare all’Italia dal momento che non sono previsti cumuli, né per i redditi da capitale né per i valori patrimoniali, mentre l’imposta di successione è quasi inesistente. Se seguissimo il consiglio dell’OCSE, renderemmo un servizio non solo all’equità, ma anche alla sostenibilità dei conti pubblici da tutti invocata in nome del debito pubblico. Finalmente dalla parte dei cittadini più deboli come prescrive la Costituzione.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Potere al popolo-Firenze,
«In una città colonizzata dallemultinazionali dell’industria turistica, dove le case del centro sono sottrattealla residenza e i grandi edifici pubblici trasformati in alberghi di lusso, ilsindaco di Firenze imputa alle famiglie straniere l’emergenza casa.» Così Potere al popolo-Firenze che prosegue:«Sulle pagine del Corriere fiorentino, Nardella si abbandona adichiarazioni degne del peggior repertorio programmatico destrorso. Il registroè quello classico: “prima la casa agli italiani”, “troppi gli stranieri”. Lapriorità degli italiani nell’accesso ai servizi è un caposaldo delle politichediscriminatorie della destra. Da guerra tra poveri».
Il bonus di residenzialità proposto daNardella, che darebbe la priorità agli italiani nell’accesso alle case popolari(già ribattezzato la “scala mobile della toscanità”) è infatti un punto deiprogrammi della destra. Salvini twitta, e la Meloni rivendica orgogliosamentela paternità del provvedimento. La misura favorirebbe la risalita dellefamiglie “toscane” nell’assegnazione della casa, mentre a quelle migrantiresterebbe l’inferno della residenzialità precaria e delle occupazioniclandestine.
Grave, nelle dichiarazioni di Nardella,l’assenza di una progettualità in merito al diritto alla casa. Non è con unamisura poliziesca e discriminatoria che si risolve il problema annoso deldisagio abitativo e della penuria di appartamenti sociali. Per di più aFirenze, città da centrotrenta sfratti esecutivi al mese (nel 2016), dove sonopiù di duemila le famiglie in graduatoria. E dove si contano a centinaia glialloggi pubblici vuoti in attesa di ristrutturazione.
La soluzione al disagio abitativo non stanella svendita del patrimonio residenziale pubblico che trasforma i residentiin proprietari. Sta semmai nell’acquisizione di nuovi appartamenti da destinarealla residenza popolare, e nella riconversione degli edifici di proprietàpubblica in residenze provvisorie e in alloggi ERP: ex caserme, ex conventi, exmanifatture, ex carceri. Non sta nella trasformazione dei volumi edilizi infunzioni di lusso, ma nella loro restituzione all’uso collettivo.
È urgente, da parte dello stato,l’applicazione di una giusta tassazione all’edificato tuttora invenduto edesentasse: si tratta di milioni di metri cubi che costituiscono il capitalefisso su cui le imprese accedono ai prestiti bancari per poter continuare acostruire e a produrre invenduto."
Conclude Potere al popolo: «È necessarioun investimento consistente nell’edilizia residenziale pubblica e farla finitacon la farsa del social housing che ha affidato ai grandi gruppi bancari laquestione irrisolta dell’edilizia popolare, gettandola sul mercato.
Nardella chieda questo al governosopravvivente. Non poteri straordinari che tramutano le questioni di civileconvivenza in questioni di ordine pubblico.»
Contatti Lorenzo Alba 305938661
Avvenire, 4 maggio 2018. Chiacchierano per fare un governo. Ma quanto tempo sarà ancora necessario per averne uno che elimini lo schiavismo dei "datori di lavoro" italiani che imperversano in ogni angolo della Penisola?
«Denuncia di Medici per i diritti umani: nella Piana di Gioia Tauro braccianti sfruttati e abbandonati alla miseria»
I negrieri della porta accanto non hanno il cuore tenero. La fatica è da bestie. La paga è da fame. Chi si ribella può anche andarsene. Ma se resta tra i filari degli aranceti a reclamare un euro in più, potrebbe finirgli male. Tanto c’è sempre qualcuno più affamato di lui pronto a prenderne la misera paga.
Gli schiavi con permesso di soggiorno sono almeno 3.500: braccianti stagionali che forniscono manodopera a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi vivono in insediamenti informali, tendopoli o capannoni abbandonati. A otto anni dalla rivolta di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro è cambiato poco e niente. «I grandi ghetti di lavoratori migranti rappresentano uno scandalo italiano rimosso dalle forze politiche», denuncia Medici per i diritti Umani (Medu) che da cinque anni con una clinica mobile segue le loro condizioni di salute.
Il 'ghetto' più grande è quello della zona industriale di San Ferdinandoche, in un capannone e nella vecchia fabbrica a ridosso, accoglie il 60% degli stagionali. Rovistano tra cumuli e roghi di rifiuti. Medu, che ha pubblicato il dossier dal titolo «I dannati della Terra», ha operato nella zona da dicembre ad aprile curando 484 persone: giovani lavoratori con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa subsahariana, tra cui un centinaio di donne dalla Nigeria, il 90% dei quali regolarmente soggiornanti.
«È stato un periodo funestato da incendi, uno dei quali tragico, in cui è morta una giovane donna nigeriana, Becky Moses – spiega Alberto Barbieri, di Medu –. Una dignità negata per tanti migranti ma anche per noi cittadini italiani ed europei. In una palude di mancanza di cambiamento ci sono anche esperienze che dimostrano che è possibile fare integrazione con pochi mezzi, come a Drosi, dove gli alloggi sfitti sono stati inseriti in un progetto di affitti a basso costo». Un’esperienza che Medu chiede di replicare, con programmi pluriennali di housing sociale.
Le precarie condizioni di vita, oltre che quelle di lavoro, minacciano la salute fisica e mentale: le patologie più frequenti riguardano l’apparato respiratorio e digerente, in alcuni casi i medici quest’inverno hanno riscontrato principi di congelamento degli arti.
Solo 3 persone su 10 lavorano con un contratto, le altre vengono pagate a cottimo o a giornata, tramite caporali. «In otto anni – sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – nulla è cambiato ma è cambiato il clima che c’è intorno all’immigrazione: la campagna elettorale è stata intrisa di xenofobia e di messaggi d’odio. Dopo le elezioni il tema è sparito».
Gli interventi istituzionali restano «frammentari, parziali e inefficaci – scrive Medu –. Nel mese di agosto dell’anno scorso è stata allestita un’ennesima tendopoli, la terza in ordine di tempo, che non ha tuttavia fornito una risposta adeguata (dal punto di vista numerico, logistico e dei servizi offerti) ai bisogni alloggiativi dei lavoratori migranti: con 500 posti disponibili a fronte delle oltre 3.000 persone presenti, in assenza di assistenza medica, sanitaria e socio-legale e di mediatori culturali, si tratta ancora una volta di una soluzione di carattere puramente emergenziale, che confina le persone in una zona isolata e lontana da qualsiasi possibilità di integrazione ed inserimento sociale».
La ’ndrangheta non sta a guardare. In passato non sono mancate minacce e raid contro i raccoglitori. Anche per questo molti non se la sentono di protestare. Il pagamento a cottimo è il più diffuso: 0,50 centesimi per ogni cassetta di arance, 1 euro per i mandarini. Chi viene pagato a giornata percepisce tra i 25 ed i 30 euro. Il 34% delle persone lavora 7 giorni la settimana. Perché agli schiavi non è permesso riposare.