«Perché, si avverte ancora in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privato?»La
Repubblica, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)
IL “Gender” è la traccia, nemmeno tanto sotterranea, che tiene insieme molti luoghi dell’opinione, culturale e politica, apparentemente lontani tra loro. È decisamente al centro della campagna elettorale americana, dove le offensive e a tratti violente esternazioni del candidato repubblicano hanno mosso non semplicemente il senso del disgusto, ma la determinazione a reagire.
Il genere conta. Conta anche a guardare la politica americana da parte democratica: perché vi è la possibilità concreta che una donna diventi commander in chief della prima superpotenza. Da un lato le donne sono trattate come “ pussycat” da prendere e usare, secondo una visione del mondo che ci porta molto indietro nel tempo, ai cliché insopportabili dei mad men che come despoti toccano, aggrediscono, usano e promuovono. Dall’altro, sempre più donne, come Michelle Obama, sentono l’urgenza di farsi politiche per ristabilire l’ordine della decenza e della libertà, spiegando dalla tribuna della campagna per Hillary Clinton che non è ammissibile che la vulnerabilità diventi arma di potere nelle mani di un uomo, e che è offensivo per gli uomini che uno di loro li metta tutti insieme nel modello dei “discorsi da spogliatoio”. « Enough is enough » ha scandito Michelle Obama.
Perché il genere produce tanto scompiglio? Perché, dopo decenni di più o meno efficace aggiustamento dei sistemi politici e giuridici alla pratica e alla cultura dei diritti civili, si avverte in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e, soprattutto, nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privato?
Parlando dalla Georgia alcune settimane fa, papa Francesco ha fatto sue le preoccupazioni dei cristiani tradizionalisti che animano ogni anno il Family Day. Anche lui ha chiamato in causa la «teoria del gender», una «colonizzazione ideologica» che tenta di ridefinire i contorni naturali del matrimonio tra uomo e donna, sovvertendo l’ordine delle cose.
Il gender però non è una «teoria», non un’arma polemica da usare contro; è invece una cultura dei diritti civili che mette al primo posto la dignità della persona, nella sua specificità, la sovranità della decisione individuale e della scelta. È una cultura della maturità e della responsabilità, non della ludica irresponsabilità. Il genere mette a dura prova le culture sedimentate di ruoli e valori, non mobilita il mondo delle donne contro quello degli uomini. Critica abiti mentali, ruoli istituzionalizzati e linguaggi, e invita, donne e uomini, a leggerli come indicatori di un mondo gerarchico che offende e svaluta una parte dell’umanità, qui quindi tutta l’umanitá.
C’è bisogno di una cultura di genere, anche perché l’appello ai diritti e all’imparzialità della giustizia non ha da solo avuto la forza di cogliere le specificità delle condizioni di dominio e di violenza, di richiamare l’attenzione sul rovesciamento della diversità sessuale in subordinazione. Il genere consente di recuperare la dignità della donna come persona, senza dover azzerare la sua specificità e senza confinare l’esperienza femminile allo spazio del privato.
Questa categoria ci invita a pensare che l’opposto del truculento mondo da spogliatoio di Trump non è la devozione sacrificale della donna ai ruoli domestici. Aspirare alla Casa Bianca è una delle strade che si diramano dalla cultura del genere; una, non la sola. È la pluralità dei percorsi di vita, la stessa pluralità che ogni persona rivendica, la prospettiva che la cultura dei diritti ha contribuito a consolidare.
Guardare il mondo sociale dalla prospettiva del genere fa vedere e sentire come insopportabile ogni forma di discriminazione e di diseguaglianza, da quella che permane nell’uso ordinario della lingua a quella che si sperimenta nel mondo del lavoro e nella forza degli stereotipi. Anche quando il diritto ha acquistato piena cittadinanza in tutte le pieghe della vita sociale. La cultura del genere può svolgere questo ruolo critico perché fondata sul principio della dignità della singola donna e del singolo uomo. Da questa radice hanno preso forza le parole « enough is enough », scandite da Michelle Obama: non si possono tollerare narrazioni di subordinazione, immagini di donne deboli che l’uomo marchia. La forza della cultura del genere si prova qui.
«In un sussidiario per le quinte si spiega così il funzionamento delle Camere: “I deputati vengono scelti, i senatori indicati dalle Regioni”».
Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2016 (p.d.)
Il potere legislativo è il potere di decidere le leggi, che sono le regole che valgono per tutta la nazione. In Italia è affidato al Parlamento, diviso in due Camere”.
E fin qui, la lezione di Costituzione e società presente su un sussidiario per le quinte elementari è corretta. Poi, la descrizione. “La Camera dei deputati: i suoi componenti sono eletti diretta mente dai cittadini con le elezioni”. E, anche in questo caso i bambini di 10 anni, possono dirsi soddisfatti. Un po’ meno quando si affronta il nodo della seconda camera. “Il Senato della Repubblica: i suoi componenti sono indicati dalle diverse Regioni in cui è suddiviso il territorio Italiano”.
Tutto questo è a pagina 85, nella sezione Geografia, che si occupa pure dell’Organizzazione politica dello Stato. Il libro, o meglio il sussidiario, si chiama Imparo facile ed è pubblicato dalla casa editrice milanese Cetem che è specializzata in prodotti per la scuola primaria fin dal 1945 e che fa parte del gruppo editoriale Principato. Nelle sue pagine (segnalate anche al Comitato per il No), la vittoria del Sì al referendum costituzionale di dicembre, e quindi la conseguente applicazione della riforma, è data per scontata. La causa, secondo chi lavora nel settore, è la probabilità del cambiamento. Così, chi deve redigere, scegliere e vendere i libri scolastici (che presumibilmente, non dovrebbero scadere, non almeno durante l’anno della loro adozione) si trova a fare una scelta.
Così, nel caso di una nuova edizione da lanciare nell'anno referendario, si scommette: e, in questo caso, si è scommesso sulla vittoria del Sì. Il Fatto ha provato a contattare sia la casa editrice che il curatore della parte che contiene questo testo. “Verifichiamo quanto segnalato e le faremo sapere in giornata”, la risposta di Cetem.
Non si tratta però di un evento isolato: già a maggio era stata pubblicata dalla Simone Editore una guida per gli studenti dal titolo La Nuova Costituzione spiegata ai ragazzi.
Anche in quel caso si parlava di modifiche e nuova forma. E l’autore – nonché editore – si era giustificato incolpando il redattore della sezione scolastica di una scelta poco felice. Impegnandosi a ritirare il volume. A rapida verifica, risulta ancora in commercio con lo stesso nome. Ma negli store, la sua presentazione è stata modificata: da “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo investirà il nostro ordinamento costituzionale” a “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo probabilmente investirà il nostro ordinamento costituzionale”. Un avverbio, ma che fa la differenza.

«». connessioni precarie online
Dal 21 al 23 ottobre si svolgerà a Parigi il secondo meeting della Transnational Social Strike Platform. L’incontro avrà luogo a tre settimane di distanza dallo sciopero delle donne polacche contro la proposta di riforma della legge sull’aborto e a pochi mesi dalla grande sollevazione francese contro la loi travail e il suo mondo.
In entrambi i casi lo sciopero è andato ben oltre la pratica istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale. Esso è stato politicamente più significativo della momentanea rottura di un rapporto di forza nei luoghi di lavoro. I primi grandi scioperi francesi contro la riforma si sono riversati nelle strade e nelle piazze coinvolgendo milioni di persone, rifiutando il brutale dominio sul presente e sul futuro di intere generazioni.
Lo sciopero in Francia è stato sociale perché ha connesso segmenti altrimenti separati del lavoro vivo investiti dalla loi travail e dall’austerità europea. Le donne polacche hanno mostrato che la parola d’ordine dello sciopero mantiene il suo potentissimo richiamo anche al di fuori dei luoghi di lavoro.
La rivendicazione della libertà di aborto non ha soltanto prodotto grandi manifestazioni di piazza e la forzatura dei limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero. Essa ha ridefinito le posizioni individuali e messo in discussione le gerarchie sessuali e sociali, stabilendo le connessioni che hanno portato così tante donne e molti uomini a esprimersi contro un modo complessivo di governare che non riguarda solo la società polacca. Lo sciopero in Polonia non è stato sociale perché ha difeso un diritto più o meno universale, ma perché la rivolta di una parte della società ha fatto valere una differenza contro un ordine complessivo dei rapporti sociali e sessuali.
In questi ultimi mesi, da est a ovest, attraversando i confini e in contesti radicalmente diversi, lo sciopero è stato la condizione grazie alla quale donne e uomini, precarie, operai e migranti hanno potuto prendere parola in prima persona e in massa contro le condizioni politiche che determinano la loro oppressione e il loro sfruttamento.
Da più di un anno la Transnational Social Strike Platform agisce per fare dello sciopero l’articolazione politica delle differenze che attraversano il lavoro vivo contemporaneo e quindi per stabilire una prospettiva condivisa del rifiuto soggettivo delle condizioni della nostra oppressione. Per raggiungere questo scopo, lo sciopero deve essere logistico, industriale e metropolitano. Sono queste le modalità in cui donne e uomini, precarie, operai e migranti si scontrano con la furia accumulatrice del capitale e con le coazioni della riproduzione sociale.Sono questi i tre fronti sui quali ogni giorno le strategie individuali e collettive di insubordinazione si scontrano con quelle messe in atto dai governi europei per garantire il dominio del capitale.
In questo campo di tensione, in cui la mobilità del lavoro fronteggia quella del capitale, il punto d’impatto può continuamente cambiare e, con esso, anche i comportamenti soggettivi di precarie, operai e migranti.
In ognuna di queste congiunture, perciò, lo sciopero può assumere una forma diversa, rimanendo però una pratica per sottrarsi alla coazione quotidiana, per colpire le diverse facce del padrone collettivo, per ampliare e approfondire le connessioni con tutti coloro che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro. La distinzione dello sciopero in logistico, industriale e metropolitano è quindi direttamente politica, perché dà conto delle molteplici forme del lavoro sociale, cogliendole nei loro differenti punti di impatto con il capitale.
Essa non riguarda soltanto la categoria politica del lavoro salariato, ma ambisce a dare espressione a posizioni tanto specifiche quanto essenziali alla produzione e riproduzione sociale nel suo complesso, da quella delle donne – che con il loro lavoro domestico sono obbligate a sostenere le trasformazioni contemporanee del welfare e la ristrutturazione neoliberale delle gerarchie sessuali – a quella dei migranti, il cui lavoro è sottoposto a un’autorizzazione politica e a un razzismo istituzionale che impongono loro obblighi che altri lavoratori semplicemente non conoscono. Ciò conferma d’altra parte l’insufficienza pratica di categorie universali che pretendono di unificare i lavori a partire da un loro carattere più o meno diffuso, come può essere il loro contenuto di conoscenza.
La frammentazione e l’isolamento sono le caratteristiche fondamentali del lavoro sociale contemporaneo. Il sapere, il comando diretto, l’organizzazione complessiva del lavoro mirano costantemente a questo risultato. Spetta a noi produrre la forza politica in grado di opporsi a questa realtà.
Logistico, industriale e metropolitano non rimandano alla combinazione o al coordinamento di tre diversi settori (smistamento e trasporto, produzione di merci, servizi) e neppure di conseguenza a tre diverse pratiche di sciopero (il blocco della circolazione, della catena di montaggio, dell’ordine delle città). Logistico, industriale e metropolitano sono tre modalità di organizzazione del capitale che dobbiamo essere in grado di aggredire simultaneamente.
La logistica non è semplicemente l’infrastruttura di servizio per lo smistamento di materie prime, mezzi di produzione e merci nel mercato globale. Essa è la logica che il capitale assume nel processo della sua costante globalizzazione. Il capitale scopre la logistica quando ha bisogno di inseguire il profitto e quando deve trovare nuova forza lavoro da sfruttare. Questa sua inesausta ricerca produce le condizioni dello sfruttamento negli hub e nei porti. Tuttavia non sono solo i facchini, i portuali, i marinai o gli addetti alle spedizioni a incontrare e a ribellarsi al comando logistico. Esso estende la propria presa su tutta l’organizzazione del lavoro. Quella che per il capitale è l’estensione nello spazio del suo domino, per noi è un’incessante intensificazione dello sfruttamento, è la costante valutazione di quello che facciamo, è il codice a barre che ci marchia per renderci compatibili con le altre merci, è l’algoritmo che fraziona all’infinito il nostro lavoro.
La logistica è per noi il lavoro «uberizzato» che fa di apparenti imprenditori indipendenti delle frazioni di lavoro comandato dalla logica immanente del capitale. La logistica è per noi la pretesa del capitale di avere un comando assoluto sul tempo per garantire il movimento incessante dei suoi traffici globali. Contro questo tempo assoluto lo sciopero sociale è dunque logistico non solo perché interrompe i flussi, ma perché è il rifiuto della rapina incessante di tempo e di tutte quelle procedure che scaricano sui singoli lavoratori i costi sociali della produzione. Lo sciopero logistico avviene in luoghi precisi, ma anche e soprattutto dove si manifesta il rifiuto alla piena e costante disponibilità del proprio tempo.
Il comando logistico esercita la propria forza in maniera particolarmente feroce sul lavoro industriale che per noi, e per l’evidenza empirica, non è un residuo del passato. In occasione della Brexit e durante le lotte contro la loi travail qualcuno ha scoperto che la classe operaia esiste ancora. Persino l’ascesa di Donald Trump è addebitata alla classe operaia bianca statunitense. Lontani dai miti di destra e di sinistra, noi registriamo più semplicemente che il lavoro manifatturiero non è scomparso. Qualcuno produce materialmente le merci non solo nelle lontane fabbriche cinesi o indiane, ma anche in Europa.
Non a caso il precedente incontro del TSS si è svolto a Poznan con lo scopo di stabilire contatti e connessioni con quei luoghi dove il lavoro operaio è stato delocalizzato o dove sta tornando dopo i suoi viaggi in Oriente. Quale capitale incontrano gli operai dell’industria? Incontrano come sempre la dura legge della fabbrica, nella quale però il comando logistico definisce i tempi del profitto su quelli delle catene transnazionali del valore. Incontrano la realtà della delocalizzazione, che da una parte del confine è utilizzata come minaccia per peggiorare costantemente le condizioni del lavoro mentre dall’altra apre la strada a un nuovo sfruttamento e a nuovi terreni di lotta operaia.
Attraverso e lungo i confini, il lavoro operaio è mobile e precario, senza certezze e con assicurazioni minime se non assenti. Da un lato e dall’altro del confine, la mobilità del capitale impone una sistematica intensificazione del tempo dello sfruttamento. Sciopero industriale significa allora interrompere questo tempo, colpire l’origine del profitto, ma anche l’isolamento sociale a cui la fabbrica è stata condannata. Per il lavoro industriale sciopero significa più che mai stabilire connessioni che smettano di fare apparire gli operai una costante sorpresa sociale.
I lavoratori dell’industria non sono fuori dello spazio metropolitano. Con quelli dei servizi e del terziario essi danno forma a una geografia conflittuale, nella quale la produzione e la riproduzione sociale stabiliscono una connessione sistematica e dominata tra le diverse figure del lavoro vivo proprio perché non coincidono con i limiti della singola città. Nello spazio metropolitano una moltitudine di lavoratori e di lavoratrici ha l’occasione in incontrare la faccia politica del capitale, quella che li obbliga amministrativamente a subire la loro condizione. In questo spazio il welfare non ha più la funzione di produrre una relativa uguaglianza tra i cittadini, ma stabilisce continuamente differenze tra diverse figure del lavoro assegnando posizioni funzionali tanto alla riproduzione sociale quanto al governo della mobilità.
Nello spazio metropolitano, come lavoratrici salariate o gratuitamente, nelle scuole, negli ospedali o nelle case, le donne garantiscono le condizioni generali di riproduzione di una forza lavoro che è transnazionale anche quando può essere puntualmente localizzata. Nello spazio metropolitano il lavoro migrante è governato attraverso norme europee, nazionali e locali che pretendono di farne un segmento separato della forza lavoro e completamente disponibile allo sfruttamento.
Lo spazio metropolitano è quindi uno spazio di movimento nel quale i precari di un call center spagnolo, le operaie di una fabbrica tessile in Polonia, le lavoratrici domestiche, i facchini di un deposito merci francese, i marinai di un cargo attraccato al Pireo, i migranti costretti a lavorare con salari da 1€ l’ora per pagare il prezzo dell’accoglienza in Germania possono riconoscersi come uguali, nonostante tutte le differenze dei loro lavori e delle loro vite, a partire dal rifiuto delle condizioni politiche e amministrative che li costringono alla subordinazione e allo sfruttamento.
Nello spazio metropolitano i diversi lavori possono andare oltre la coazione salariale, oltre le gerarchie che le accompagnano, contro le forme politiche che le legittimano. Lo sciopero è metropolitano perché dà voce al rifiuto di essere frammenti di un ordine, andando oltre le stesse differenze imposte dal lavoro. Lo sciopero metropolitano è uno sciopero contro il lavoro e le divisioni che esso impone. Scioperare nello spazio metropolitano significa restituire al capitale la sua frammentazione sotto forma di progetto comune.
Per tutte queste ragioni le tre dimensioni dello sciopero non possono essere separate. La logistica, la fabbrica e la metropoli rimandano in continuazione l’una all’altra. Sono il segno tangibile della mobilità del capitale e di quella opposta e riottosa di milioni di uomini e donne. Non basta bloccare un hub della distribuzione per sabotare i circuiti del profitto, quando l’infrastruttura logistica è capace di adattarsi in tempi sempre più rapidi riattivando i suoi flussi. Non è sufficiente interrompere la produzione in un intero settore su scala nazionale, quando un segmento di quella produzione continuerà a funzionare al di là del confine e all’interno di ogni fabbrica s’intrecciano figure del lavoro che non rientrano in un’unica categoria.
Non è possibile pensare a una figura del lavoro egemone e capace di ricomporre politicamente tutte le altre, quando il lavoro di un creativo italiano o un ingegnere francese dipende dalla produzione di microchip nelle fabbriche dormitorio della Repubblica Ceca o dal lavoro domestico di una donna migrante. Lo sciopero logistico, industriale e metropolitano è dunque sociale perché trasforma le connessioni globali dello sfruttamento in una comunicazione costante e sistematica tra i diversi segmenti della produzione e riproduzione sociale.
Lo sciopero sociale non è uno sciopero generale, che mira a interrompere in un singolo momento la produzione attraverso l’azione simultanea e confederata di diverse categorie di lavoratori. Lo sciopero è sociale perché connette esperienze soggettive di insubordinazione al lavoro che altrimenti non potrebbero comunicare. Lo sciopero è sociale perché produce un livello di comunicazione che prima non c’era. Lo sciopero sociale connette i tempi diversi della mobilità del lavoro vivo. Lo sciopero sociale agita nel tempo i sonni apparentemente tranquilli del capitale e dei governi europei.
Questa è per noi la scommessa della Transnational Social Strike Platform. Essa non può essere semplicemente una rete o una coalizione per quanto europea di segmenti di movimento e la somma delle loro diverse rivendicazioni. Essa è un processo in cui il rifiuto dell’oppressione logistica, industriale e metropolitana che in modo frammentato e sconnesso già attraversa l’Europa si possa riconoscere in una comune direzione politica. Individuare rivendicazioni condivise – un salario minimo, un welfare e un permesso di soggiorno europei – è essenziale per identificare i punti di impatto con il capitale incidendo sul tempo e sullo spazio in cui esso pretende di imporre il suo dominio, ma anche per aggredire le politiche neoliberali dell’Unione Europea che di quel dominio stabiliscono sistematicamente le condizioni politiche.
Attraverso queste rivendicazioni, la separazione imposta dal capitale tra i segmenti di una stessa catena del valore che va dalla Polonia alla Francia o dalla Germania alla Grecia può essere superata, così come singoli momenti di insubordinazione possono legarsi in un processo comune. Pretendere un salario minimo europeo significa inceppare la strategia logistica del capitale, che si muove per inseguire lavoro a basso costo attraverso i confini. Significa impedire il ricatto che viene imposto nella fabbrica della mobilità.
Conquistare un welfare europeo significa rifiutare le gerarchie che attraversano lo spazio metropolitano ed esprimere il rifiuto della divisione sessuale del lavoro che sostiene la riproduzione sociale transnazionale. Ottenere un permesso di soggiorno europeo senza condizioni significa rifiutare la piena disponibilità al lavoro di centinaia di migliaia di uomini e di donne che altrimenti per restare in Europa devono rinunciare a disporre delle proprie vite.
Contro la presunta opposizione tra un Est isolazionista e rinnegato e un Ovest in cerca di riscatto, queste rivendicazioni puntano a stabilire le connessioni per fare della quotidiana insubordinazione che già esiste un processo collettivo, sociale e transnazionale, per rifiutare l’oppressione che ci divide. Lo sciopero sociale europeo è possibile. Possiamo contrapporre i nostri tempi a quelli del capitale e dei suoi governi. Noi possiamo avere il coraggio di osare.

». Sbilanciamoci.info online, 17 ottobre 2016 (c.m.c.)
Sabato 8 ottobre una cinquantina di lavoratori di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato dell’azione dei lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della cosiddetta sharing economy.
Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa.
Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attività é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di o “economia dei lavoretti” (gig).
La protesta dei lavoratori di Foodora, inizialmente partita da un contenzioso sulle biciclette (i mezzi così come la manutenzione sono a carico dei lavoratori), si è poi allargata su tre fronti. In primis i lavoratori contestano il passaggio da una retribuzione oraria di 5,40 euro ad una retribuzione a cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha implementato per tutti i neo assunti e che avrebbe progressivamente coperto l’intera forza lavoro.
In secondo luogo ad essere messo in discussione è il tipo di contratto: i fattorini e i promoter (ossia coloro che si occupano di fare pubblicità all’azienda) che lavorano per Foodora non sono dipendenti ma risultano essere liberi professionisti assunti con un co.co.co. Non hanno quindi alcun diritto a ferie o malattie pagate. I lavoratori sostengono però che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, un rapporto subordinato: lo dimostrano il fatto di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo di partenza per le consegne prefissato (per essere “connesso al sistema” un lavoratore deve trovarsi in una determinata piazza di Torino).
Su questa base, i lavoratori rivendicano il diritto ad essere inquadrati all’interno di un contratto collettivo nazionale di lavoro. Fra i motivi della protesta vi è infine il licenziamento di due ragazze che lavoravano come promoter, colpevoli a quanto pare di aver partecipato ad una delle assemblee tramite cui i rider di Foodora hanno organizzato lo sciopero di sabato. Secondo quanto riportato dalla Stampa, il licenziamento è avvenuto tramite la disconnessione delle due lavoratrici dalla app tramite la quale si organizzano i turni di lavoro.
Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda da vicino quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats, la piattaforma di consegna lanciata dalla statunitense Uber (nota in Italia per il contenzioso con i taxisti). Anche in questo caso le proteste erano originate dal tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria ad una a cottimo.
Come già avvenuto a Londra nel caso di UberEats, all’inizio dell’attività le imprese utilizzano un compenso orario. Ma il sistema di consegne a domicilio sul modello di Foodora o Deliveroo utilizza il meccanismo dell’algoritmo per gestire la fluttuazione della domanda: si basa sull’avere a disposizione una forza lavoro flessibile, che può venire mobilizzata o smobilizzata a seconda della domanda dei consumatori. Il tentativo delle imprese di passare ad un sistema di compensi stabilito a prestazione piuttosto che all’ora permette alle piattaforme di esternalizzare totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi, operando dunque una stretta al ribasso sui costi del lavoro.
In questo senso, il modello Foodora ha molto in comune con le strette sui salari del mondo della logistica – in cui la maggior parte dei profitti vengono estratti attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi dei facchini.
Il vecchio e il nuovo
Come è inevitabile nel caso di tematiche che comprendano l’uso di tecnologie di ultima generazione, molto del dibattito sul tema Foodora si è concentrato sugli aspetti di novità di questo tipo di attività lavorativa. Questo probabilmente spiega anche il grande risalto che ha avuto questa vicenda, che tutto sommato coinvolge un numero di lavoratori piuttosto ristretto. È necessario tuttavia fare chiarezza su cosa sia nuovo e cosa non lo sia.
Non è certamente un fatto nuovo, ma è bene ribadirlo, che l’attività dei fattorini e dei promoter di Foodora sia una prestazione lavorativa a tutti gli effetti, e non «un’opportunità per andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come hanno provato a sostenere i responsabili italiani di Foodora. Come ha ricordato il giurista Valerio Di Stefano, fra i primi in Italia ad occuparsi di queste tematiche, i rider di Foodora svolgono «un vero lavoro che comporta tutte le contraddizioni del caso: il rispetto della professionalità, la responsabilità e la fatica fisica».
Il fatto poi che il livello di paga sia troppo basso per permettere ad un lavoratore di sopravvivere lavorando esclusivamente per Foodora (lo stipendio difficilmente supera i 4-500 euro al mese) non significa che il rapporto di lavoro non sia tale, ma soltanto che si tratti di un cattivo lavoro: malpagato e ultraprecario. La logica che accomuna prestazioni lavorative di questo, ossia esternalizzare sui lavoratori il rischio e i costi dei tempi morti, è la stessa per cui in Italia si fa un uso massiccio dei voucher, il cui utilizzo è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi anni e non accenna a fermarsi anche nel 2016. Proprio per questo appaiono particolarmente ipocrite le dichiarazioni del Ministro del Lavoro Poletti, che ha preso le difese dei lavoratori Foodora.
Di per sé, la logica che sta dietro alla gestione del processo di lavoro in una piattaforma come Foodora è un principio neo-taylorista: frammentazione del processo di lavoro in compiti misurabili e in cui tutti i lavoratori sono perfettamente sostituibili; privazione del controllo sul processo e i tempi di lavoro da parte del lavoratore, che viene costantemente monitorato tramite la app. Questo è coerente con alcune evidenze empiriche a livello europeo, che mostrano un aumento del grado di routine e standardizzazione in molte occupazioni. Sotto questo aspetto, più che essere innovativa, la gig economy rappresenta semplicemente una reincarnazione dei principi del management ‘scientifico’ che risalgono ai primi del Novecento.
Quello che è nuovo è certamente il mezzo attraverso cui il rapporto e il processo di lavoro sono gestiti: l’algoritmo, e le conseguenze ambigue che l’utilizzo dell’algoritmo ha per quanto riguarda le relazioni di lavoro. La gestione dei lavoratori tramite algoritmo offusca l’esistenza di un rapporto di lavoro standard, visto che a livello formale non ci sono impiegati ma solo, per usare una terminologia cara al management di Foodora, “collaboratori”. Questo permette di aggirare molte delle regolamentazioni previste dai contratti collettivi, come il diritto alla malattia.
Questo nonostante le pratiche di controllo, la gestione dei tempi e delle modalità di lavoro siano in tutto e per tutto simili a quelle di un rapporto di lavoro dipendente: obbligo di indossare la divisa aziendale, paga determinata dall’azienda, ritmi di lavoro ‘abituali’ imposti dall’algoritmo, varie regole e procedure da seguire, e così via.
L’uso della piattaforma digitale come mezzo di gestione del rapporto e del processo lavorativo crea altre opportunità per nuove forme di controllo e coercizione della forza lavoro. La valutazione dei lavoratori della gig economy secondo criteri di performance viene portata all’estremo dall’utilizzo della tecnologia, tramite la quale è possibile monitorare costantemente il lavoratore durante lo svolgimento dell’attività e misurare la sua velocità e efficacia. C’è poi un’individualizzazione totale del rapporto di gestione del lavoratore: i turni vengono dettati dall’algoritmo più che da un interlocutore fisico con cui confrontarsi, e anche i rapporti con i colleghi vengono frammentati e ridotti al minimo, perché ognuno interagisce direttamente con la propria app.
L’unica eccezione è data dai pochi minuti in cui i fattorini si ritrovano in un punto comune in attesa di un ordine, ed infatti è lì che sono nate le proteste dei lavoratori di Foodora, come ha raccontato uno di loro. In questo senso, è interessante notare come i casi di sciopero nella gig economy siano per ora rimasti concentrati in quei servizi in cui c’è ancora un aspetto di compresenza fisica dei lavoratori – come nel caso dei rider di Foodora e Deliveroo. Questo è molto più difficile nel caso di piattaforme in cui la prestazione lavorativa si svolge totalmente tramite mezzo digitale – come TaskRabbit e MechanicalTurk – benché anche in questo caso vi siano stati dei tentativi di organizzazione da parte dei lavoratori.
Dato il meccanismo di individualizzazione del rapporto di lavoro che abbiamo delineato non sorprende quindi che i responsabili di Foodora avessero inizialmente dichiarato di voler trattare esclusivamente a livello individuale con i lavoratori, una tattica per togliere forza ad una vertenza collettiva. Tuttavia, a causa della pressione mediatica generata dall’azione di protesta dei lavoratori, i gestori della piattaforma si sono visti costretti ad incontrare una rappresentanza collettiva dei rider, che hanno così segnato un primo punto a loro favore, anche se a questo non è seguita un’apertura di trattativa e i lavoratori hanno annunciato ulteriori azioni di protesta.
Un altro inquietante elemento di novità è il fatto che l’azienda abbia la possibilità di licenziare un lavoratore semplicemente disconnettendolo dal sistema, come è avvenuto nel caso delle due promoter licenziate. Basta un clic per negare al lavoratore l’accesso ai mezzi di produzione – un’operazione che costituirebbe mobbing in un rapporto di lavoro standard, e che diventa invece possibile nel caso di lavoro ‘autonomo’ pagato a cottimo.
La minaccia della ‘disattivazione’ e il potere totale che la piattaforma ha nel decidere chi possa averne o meno accesso è stata largamente documentata nel caso degli autisti di Uber – ed usata anche come base legale per sostenere che a tutti gli effetti la piattaforma avesse instaurato nei confronti dei propri contractor un rapporto di lavoro di lavoro di tipo subordinato.
Come ultimo elemento di novità, l’utilizzo delle valutazioni del servizio offerto da parte degli utenti, parte centrale del modello di performance management usato da imprese come Uber, aggiunge un’ulteriore fonte di controllo spostando il meccanismo di disciplina sul lavoratore dal manager al cliente, anche se questo magari non se ne rende conto.
In effetti l’uso della piattaforma digitale come forma di intermediazione lavorativa rende il lavoro che sta al suo interno a tutti gli effetti invisibile. Come già nel caso della logistica e dei servizi di consegna di altri prodotti, l’utente-cliente clicca, il cibo arriva a casa e nessuno si chiede come abbia fatto ad arrivare così velocemente e soprattutto come facciano
I costi a rimanere così bassi. L’invisibilità del lavoro che sta dietro al funzionamento della piattaforma facilita la permanenza di condizioni lavorative ai limiti del legale, e rende queste aziende più attrattive agli occhi degli investitori perché permette loro di presentarsi come start-up tecnologiche – e dunque, in teoria, innovative – piuttosto che come semplici intermediari di lavoro che estraggono profitti tramite meccanismi vecchi quanto il capitalismo stesso: l’intensificazione dei ritmi lavorativi e il ribasso dei salari.
L’invito dei rider di Foodora a boicottare la piattaforma in supporto alla loro protesta é dunque particolarmente efficace perché chiama in causa anche i consumatori come parte complice, e forza il lavoro invisibile a essere riconosciuto. In questo senso, ancora una volta, il fatto che i lavoratori di Foodora si possano vedere ed essere visti fisicamente aiuta a dare forza alla loro protesta.
Ed ora?
La protesta dei lavoratori e le lavoratrici di Foodora ha giustamente suscitato molto interesse, anche perché i lavoratori della gig economy sono spesso considerati ‘inorganizzabili’ a causa della frammentazione e del carattere transitorio della forza lavoro. Va sottolineato che il lavoratore tipo di questa azienda è solitamente alle prime esperienze lavorative.
La paga bassa e le condizioni di estrema precarietà fanno sì che la percezione sia quella di aver poco da perdere: come ha dichiarato un altro intervistato, «c’è un punto di non ritorno passato il quale la ritorsione non è più efficace». Non va quindi sottovalutata l’importanza di questa mobilitazione, anche per l’oggettivo elemento di novità. Secondo un articolo di Wired il settore del food delivery in Italia vale ad oggi 400 milioni di euro, con altre aziende come Deliveroo o Just Eat presenti oltre a Foodora. Non è quindi da escludersi che sull’onda della protesta di Torino le lotte per le rivendicazioni salariali si allarghino anche ad altre aziende e altre città.
Come nel caso inglese, dove i sindacati di base UWGB e UWW hanno giocato un ruolo importante per dare alla lotta una rivendicazione collettiva, e in maniera simile alle lotte nei magazzini della logistica a Piacenza e oltre, è probabile che anche in questa situazione sarà importante l’intervento delle forze sindacali. Anche nel caso di Foodora, come già nel settore della logistica, i sindacati confederali sembrano giocare un ruolo minore, probabilmente per la diffidenza da parte di una componente giovane e precaria e le difficoltà nell’organizzare i lavoratori in assenza di canali tradizionali di intermediazione.
Ma qualsiasi sia la forza sindacale che si occuperà della questione, il punto su cui impostare la lotta è l’oggettivo elemento di rigidità del sistema: che servono (ancora) lavoratori umani per far arrivare le merci ai consumatori e realizzare il loro valore, e senza di essi Foodora o Deliveroo non possono esistere. Dare visibilità a questi lavoratori e facilitare la loro organizzazione collettiva, superando l’individualizzazione del rapporto di lavoro facilitata dalla piattaforma digitale, rappresenta la chiave di volta per costruire una mobilitazione a lungo termine che non rimanga soltanto un fuoco di paglia.
E forse l’indignazione collettiva del pubblico italiano nei confronti della vicenda Foodora può costituire un punto di partenza per mettere finalmente in discussione in maniera più fondamentale il modello di mercato del lavoro italiano, in cui la precarietà é all’ordine del giorno, anche quando non gestita tramite una app.
La legge sancisce che l’esportazione di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e devono essere regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione
. omune-info, 16 ottobre 2016 (c.m.c.)
E’ italiana la fabbricazione della bomba che ha causato anche l’ultima strage di massa a Sana’a nello Yemen, almeno 150 morti e 530 feriti, colpiti durante una cerimonia funebre? E’ molto probabile e la cosa, francamente, non dovrebbe più stupire. Il perché lo spiega, ancora una volta in modo indiscutibile, questo articolo di Giorgio Beretta. La ministra Pinotti, ancora una volta oltre il senso del pudore, si premura di precisare: «La ditta Rwm Italia ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente». Anche il fatto che il massacro yemenita colpisca di proposito e soprattutto la popolazione civile inerme dovrebbe ormai essere cosa nota.
Quel che tendiamo spesso a dimenticare, semmai, sono i numeri del business, annegati come sono in una palude oceanica di cifre insanguinate. Stavolta ne isoliamo solo due: nel bienno 2014-15 il ministero degli esteri italiano ha autorizzato l’esportazione verso l’Arabia Saudita di un arsenale militare per un valore complessivo di quasi 420 milioni di euro. Il catalogo è nell’articolo. Nello stesso periodo, alle forze armate saudite sono stati consegnati sistemi e materiali militari per oltre 478 milioni di euro. Per una volta, forse, sarà meglio non aggiungere altro.
Potrebbero essere di fabbricazione italiana le bombe che sabato scorso hanno colpito l’edificio a Sana’a in Yemen dove era in corso una cerimonia funebre causando 155 morti e più di 530 feriti. Il corrispondente della tv britannica ITV, Neil Connery, che è entrato nell’edifico poco dopo il bombardamento, ha infatti pubblicato via twitter la foto di una componente di una bomba che, secondo un ufficiale yemenita, sarebbe del tipo Mark 82 (MK 82). Altre immagini pubblicate via twitter sono più precise: riportano la targhetta staccatasi da una bomba con la scritta: «For use on MK82, FIN guided bomb». Segue un numero seriale: 96214ASSY837760-4. L’ordigno sarebbe stato prodotto su licenza dell’azienda statunitense Raytheon per essere usato su una bomba MK82. Ma non è chiara l’azienda produttrice e il paese esportatore. Che potrebbe essere anche l’Italia.
Bombe del tipo MK82, infatti, sono prodotte nella fabbrica di Domusnovas in Sardegna dalla Rwm Italia, azienda tedesca del colosso Rheinmetall, che ha la sua sede legale a Ghedi, in provincia di Brescia. E sono state esportate dall’Italia, con l’autorizzazione da parte dell’Unità per le autorizzazioni di materiali d’armamento (Uama). La conferma, seppur in modo indiretto, l’ha data mercoledì scorso (il 12 ottobre) la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, rispondendo a una interrogazione del deputato Luca Frusone (M5S): «La ditta Rwm Italia – ha detto la ministra Pinotti – ha esportato in Arabia Saudita in forza di una licenza rilasciata in base alla normativa vigente».
All’azienda Rwm Italia nel biennio 2012-13 sono state infatti rilasciate da parte dell’Uama autorizzazioni all’esportazione per bombe aeree di tipo MK82 e MK83 destinate all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 86 milioni di euro. Impossibile invece sapere quante e quali bombe siano state esportate dall’Italia all’Arabia Saudita nell’ultimo biennio: le voluminose relazioni inviate al parlamento dal governo Renzi riportano infatti solo il valore complessivo delle autorizzazioni all’esportazione verso i singoli paesi e le generiche tipologie di armamento (munizioni, veicoli terrestri, navi, aeromobili, ecc.).
Nel biennio 2014-15 il ministero degli Esteri ha autorizzato l’esportazione verso l’Arabia Saudita di un vero arsenale militare per un valore complessivo di quasi 420 milioni di euro. Tra questi figurano «armi automatiche» che possono essere utilizzate per la repressione interna, «munizioni», «bombe, siluri, razzi e missili», «apparecchiature per la direzione del tiro», «esplosivi», «aeromobili» tra cui componenti per gli Eurifighter «Al Salam», i Tornado «Al Yamamah» e gli elicotteri EH-101, «apparecchiature elettroniche» e «apparecchiatire specializzate per l’addestramenti militare».
Nel medesimo biennio sono stati consegnati alle reali forze armate saudite sistemi e materiali militari per oltre 478 milioni di euro. Anche le dettagliate tabelle compilate dal ministero degli Esteri allegate alla relazione governativa che riportano tutte le singole autorizzazioni rilasciate alle aziende produttrici mancano di un dato fondamentale: il paese destinatario. Si può cioè sapere, ad esempio, che nel 2015 alla Rwm Italia sono state rilasciate 24 autorizzazioni per un valore complessivo di oltre 28 milioni di euro, ma non si possono sapere i paesi destinatari.
E si può sapere che, sempre nel 2015, alla RWM Italia è stata concessa la licenza ad esportare 250 bombe inerti MK82 da 500 libbre insieme ad altre 150 bombe inerti MK 84 per un valore complessivo di oltre 3 milioni di euro, ma la tabella ministeriale non riporta il paese acquirente, rendendo così impossibile il controllo parlamentare e dei centri di ricerca. Informazioni che erano invece riportate fin dai tempi delle prime relazioni inviate al parlamento dai governi Andreotti. E che, incrociando le tabelle dei vari ministeri, si potevano evincere fino ai governi Berlusconi. Ha un bel dire la ministra Pinotti che la relazione governativa al parlamento consentirebbe «l’attività di verifica e di controllo così come spetta al parlamento»: se non sa cosa di preciso si esporta verso un paese, come fa il Parlamento a controllare?
Un dato però è certo: nel biennio 2014-5 il governo Renzi ha autorizzato esportazioni verso l’Arabia Saudita per un valore complessivo di quasi 419 milioni di euro: un chiaro “salto di qualità” se si pensa che una decina di anni fa le autorizzazioni per armamenti destinati alle forze militari saudite non superavano i dieci milioni di euro. Ma c’è un altro fatto certo. Nei mesi tra ottobre e dicembre dello scorso anno dall’aeroporto civile di Elmas a Cagliari sono partiti almeno quattro aerei Boeing 747 cargo della compagnia azera Silk Way carichi di bombe prodotte nella fabbrica Rwm Italia di Domusnovas in Sardegna: i cargo sono atterrati alla base della Royal Saudi Air Force di Taif in Arabia Saudita.
È proprio su queste spedizioni e su tutti i sistemi militari che l’Italia sta inviando in Arabia Saudita che lo scorso gennaio la Rete italiana per il disarmo ha presentato un esposto in varie Procure. Esposto sul quale in Viceprocuratore di Brescia, Fabio Salamone, ha aperto un’inchiesta “verso ignoti” per presunte violazioni della legge sulle esportazioni di materiali miliari. La Legge n. 185 del 9 luglio 1990 sancisce che l’esportazione «di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e che «tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
La Legge vieta specificamente l’esportazione di materiali di armamento «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere», nonché «verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione».
Dal marzo del 2015, infatti, l’Arabia Saudita si è posta a capo di una coalizione che, senza alcun mandato internazionale, è intervenuta militarmente nel conflitto in corso in Yemen. La risoluzione n. 2216 approvata il 14 aprile del 2015 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu non legittima, né condanna, l’intervento della coalizione a guida saudita: solo «prende atto» della richiesta del presidente dello Yemen agli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo di «intervenire con tutti i mezzi necessari, compreso quello militare, per proteggere lo Yemen e la sua popolazione dall’aggressione degli Houti». Cosa sia successo da quel momento è sotto gli occhi di tutti: ad oggi sono almeno 4.125 i civili uccisi e oltre 7.200 i feriti. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha ripetutamente condannato i raid aerei sauditi che hanno colpito centri abitati, scuole, mercati e strutture ospedaliere, come quelle di Medici senza Frontiere: un terzo dei loro raid ha fatto centro proprio su obiettivi civili. «Effetti collaterali», hanno commentato i sauditi.
Lo scorso agosto, l’Alto commissario per i diritti umani, il principe Zeid bin Ra’ad Al Hussein ha chiesto di avviare un’inchiesta indipendente e imparziale sulle violazioni del diritto umanitario perpetrare da tutte le parti attive nel conflitto in Yemen. La richiesta era sostenuta dai paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, ma poi è stata ritirata dall’Ue senza alcuna motivazione. A seguito delle pressioni saudite la proposta è stata accantonata e pertanto si continuerà con l’inchiesta da parte delle autorità yemenite.
A fronte della catastrofe umanitaria che sta subendo la popolazione yemenita, già lo scorso febbraio il Parlamento europeo ha votato ad ampia maggioranza una risoluzione con cui ha chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, di «avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Unione europea e di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», alla luce delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Risoluzione che la ministra Pinotti non ha menzionato nel suo intervento in Parlamento. Forse anche perché finora è rimasta inattuata. Sono continuate invece le esportazioni di armamenti dei paesi europei e gli affari militari con le monarchie del Golfo. Per combattere l’Isis, viene detto; che però approfittando del conflitto ha guadagnato terreno anche in Yemen.
«il manifesto, ottobre 29016
Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese.
Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.
Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori.
Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano.
Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità.
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.
* Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele
«»La Repubblica
La notizia è clamorosa: sulla base di una direttiva del presidente Obama la Cia avrebbe iniziato a programmare un attacco cibernetico alla Russia come rappresaglia per le intrusioni nelle comunicazioni interne del Partito democratico, diffuse successivamente da Wikileaks.
È ormai da tempo che si parla dell’impiego della cibernetica come strumento di un confronto militare, e non è un mistero che gli stati maggiori dei principali Paesi includano la cibernetica nelle loro pianificazioni strategiche. Ufficialmente (non per niente quelli che un tempo si chiamavano “ministeri della guerra” sono stati ribattezzati “ministeri della difesa”) per preparare adeguate difese contro un attacco nemico che potrebbe paralizzare le comunicazioni non solo militari ma anche i servizi pubblici e in particolare l’erogazione di energia, con effetti paralizzanti sull’intero Paese. Ma è ovvio che assieme alla difesa si prepara anche l’attacco.
Oltre agli scenari della “guerra cibernetica” abbiamo anche l’uso della cibernetica nel campo dell’intelligence, dove strumenti iper-sofisticati permettono di penetrare i sistemi dell’avversario per ricavarne informazioni non solo militari, ma anche economiche e politiche. Uno dei dipartimenti della Cia si chiama “Center for Cyber Intelligence”, e si fa molta fatica a credere che i livelli operativi raggiunti in questo campo dagli americani siano secondi a quelli di qualsiasi altro Paese, a partire dalla Russia.
La polemica di questi ultimi giorni, tuttavia, non si riferisce né alla guerra cibernetica né alle operazioni d’intelligence. Che militari e spie operino al massimo livello tecnologico non è certo né un mistero né viene comunemente ritenuto scandaloso. Oggi si parla di qualcosa di molto diverso, della interferenza da parte della Russia nello stesso processo politico americano in un momento particolarmente delicato, quello delle elezioni presidenziali. Gli americani, e personalmente Obama, sono convinti che chi ha intercettato lo scambio di mail fra Hillary Clinton e i responsabili del Partito democratico non siano soggetti privati, ma lo Stato russo.
I russi (ovviamente) negano, ma il tema è diventato politicamente surriscaldato soprattutto in relazione alla bizzarra affinità fra Putin e Trump. Trump non ama certo la Russia, ma sembra essere autenticamente attratto dallo stile autoritario e macho di Vladimir Putin in contrasto con quella che lui palesemente considera la “mancanza di attributi” che caratterizza Obama e in genere i Democratici, che adesso addirittura pretenderebbero di fare eleggere una donna (una donna!) alla presidenza degli Stati Uniti.
E Putin? Come è noto, il presidente russo appoggia, e in parte finanzia, populisti di destra come Marine Le Pen, sia nell’intento di evitare un totale isolamento internazionale sia perché, essendo lui stesso sul piano ideologico un populista reazionario, questo non gli risulta difficile. Se, come sembra, sull’hacking contro Hillary Clinton ci sono davvero le sue impronte digitali, questo si può spiegare in modo analogo, ma anche sulla base di qualcosa che si relaziona in modo specifico ai rapporti fra Russia e America.
Non avendo mai accettato di non essere più considerato un avversario/ interlocutore paritario con gli Stati Uniti, Putin cerca in ogni modo (dalla politica medio-orientale al flirt con personaggi della destra europea e americana) di dimostrare che la Russia può fare tutto quello che fa l’America: non solo intervenire militarmente ovunque ma anche cercare di influire sulle situazioni interne degli altri Paesi.
L’hacking di Stato minacciato da Obama contro la Russia non riveste una dimensione bellica, e nemmeno si tratta di ordinaria intelligence. L’hacking della Cia sarebbe infatti diretto, si apprende ufficiosamente, a raccogliere — in chiave di ritorsione — elementi capaci di mettere in imbarazzo il governo russo, e personalmente Putin.
Si situa quindi sul terreno della politica. Politica sporca, politica provocatoria, politica pericolosa: sarebbe opportuno che, visto che nessuno può considerarsi al riparo da questo tipo di intrusioni, si pensasse seriamente a passare dalla rappresaglia a misure di “disarmo bilaterale” anche su questo terreno. L’hacking non può essere “disinventato”, ma si dovrebbero accettare, in chiave di reciprocità, alcuni limiti.
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«Costituzionalisti e giuristi, una giornata di riflessione sulle ragioni del No. Rodotà: la convivenza è basata sui principi comuni. La riforma è divisiva. E dal 5 dicembre ciascuno potrebbe dire "la mia Costituzione". Carlassare: la maggioranza-minoranza pigliatutto? La legge Truffa non si spinse così avanti. Pace: modifica illegittima, eversione costituzionale fatta da un parlamento che doveva dimettersi».
il manifesto, 16 ottobre 2016
La Costituzione è un «terreno comune», il luogo in cui «soggetti diversi si confrontano e trovano le opportunità per la convivenza sulla base di principi comuni». E invece la riforma Renzi-Boschi, «divisiva nel merito e nel metodo con cui è stata votata» «mette a rischio proprio questo terreno comune. Per questo dal 5 dicembre potrà succedere che ciascuno dica ’la mia Costituzione’». L’allarme di Stefano Rodotà è di quelli impegnativi per un giurista.
Usa parole pesanti e lo fa davanti e insieme a un plotoncino di giuristi, costituzionalisti, esperti di diritto e filosofi della politica chiamati a Roma, alla sala Capranichetta, a confrontare le ragioni del No al referendum. Organizza la Scuola per la buona politica di Torino e la Fondazione Basso presieduta da Elena Paciotti, già presidente Anm (associazione nazionale magistrati) ed ex eurodeputata. «Non era successo niente di simile neanche durante il dibattito della Costituente, quando i comunisti e i socialisti furono esclusi dal governo ma i lavori proseguirono con la stessa logica del confronto», continua Rodotà. Non che le differenze di opinione in campo di principi costituzionali non siano previste, naturalmente.
Il dibattito della Costituente ne è formidabile testimonianza. Ma la logica seguita dal governo Renzi – una modifica costituzionale promossa dal governo è già un controsenso perché le Costituzioni hanno una funzione «contromaggioritaria», ricorda Paciotti, e cioè «di limitare l’accentramento del potere politico, separare i poteri pubblici, controllare quelli privati, garantire i diritti fondamentali dei cittadini e delle minoranze» – la logica di Renzi insomma «è quella di far prevalere il proprio punto di vista indebolendo le garanzie», spiega Lorenza Carlassare. In varie maniere, tanto più in combinato con l’Italicum (che è legge dello stato e anche con tutte gli auguri per la sua modifica al momento non può essere ignorata): «Indebolendo la rappresentanza delle minoranze, indebolendo le garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica», attribuendo un premio di maggioranza a una minoranza, «cosa che non si permise di fare nel ’53 neanche Alcide De Gasperi» con la famosa legge Scelba detta ’legge truffa’ (il cui premio non scattò appunto perché nessuno raggiunse la maggioranza). Nella giornata «di riflessione» si parla anche di «tirannia della maggioranza» (Michelangelo Bovero), di «verticalizzazione del potere verso la figura del premier (Carlassare e altri), del confuso e confusivo nuovo bicameralismo e dell’improbabile rappresentanza territoriale affidata al nuovo senato (Mauro Volpi, Francesco Pallante, Valentina Pazé). Ma il filo rosso è per tutti l’idea di una Carta come «terreno comune» o, come dice Luigi Ferrajoli, «precondizione condivisa per il vivere civile», «patto di convivenza in cui tutti si riconoscono» sostituita – se vincesse il Sì – dall’idea esattamente opposta «del chi vince prende tutto, e chi vince non è neanche la maggioranza ma la maggiore minoranza». «Il rischio è altissimo», misura le parole un altro costituzionalista, Gaetano Azzariti: «Perdere un bene inestimabile, un valore supremo, quello che nel ’48 rappresentò una carta d’identità per un’Italia che usciva divisa e lacerata dalla guerra e dal Ventennio».
Rischio respinto da uno dei due discussant del Sì invitati al dibattito, Cesare Pinelli, che invita a non drammatizzare i toni e a ricordare che nel 2005 dopo la battaglia per il No al referendum sulla riforma Berlusconi «non ci siamo così divisi, oggi sta a tutti riuscire a conservare le ragioni dello stare insieme dopo il 4 dicembre». Ma nel 2005 era difficile trovare un costituzionalista a favore del pasticciaccio del Cavaliere. Lo stesso Pinelli rivendica di aver militato per il No all’epoca. Oggi è diverso, e questo stupisce soprattutto ora che anche dal partito di governo viene rivendicata la derivazione della modifica Renzi-Boschi da quella berlusconiana, ormai senza più disagio.
Se vincerà il No la riforma «così lontana dal costituzionalismo» sarà archiviata e con essa la stagione politica di cui è figlia. Anche se, avverte Azzariti, da quel No bisognerà ripartire per porre rimedio alla «crisi del parlamentarismo» e quella «della rappresentanza e dei rappresentati, bisognerà rimediare al lungo regresso che questa riforma vorrebbe costituzionalizzare».
Se invece vincerà il Sì, invece. quello dei fautori della maggioranza che è una minoranza «piglia tutto», la situazione sarà invece molto delicata. Da questa sala rullano tamburi: «La modifica è illegittima, anzi è eversione costituzionale», dice il professore Alessandro Pace, «una violazione di inaudita gravità» prodotta da «una legislatura drogata» dal premio di maggioranza attribuito dal Porcellum, «indegna di affrontare la revisione costituzionale».
Anche Pace usa parole pesanti. Non solo le sue, cita anche quelle del deputato a 5 stelle Vito Crimi: «La revisione è un azzardo costituzionale». O quelle assai più autorevoli del costituzionalista Giuseppe Ugo Rescigno all’indomani della sentenza della Consulta numero 1 del 2014 che dichiarò incostituzionale quel premio di maggioranza: «Mi stupisco che milioni di cittadini non siano scesi in strada per esigere l’immediato scioglimento di un parlamento illegittimo».
C
L'ignobile spreco di risorse, che permette al governo fantoccio di indirizzare verso lo straniero la rabbia che cresce per il continuo taglio delle spese per le esigenze di tutti: dalla scuola alla salute, dal territorio alla previdenza, dal lavoro alla giustizia fiscale
.il manifesto, 15 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se il nostro presidente del Consiglio fosse uno statista potrebbe sparigliare le carte, con una mossa che toglierebbe il sonno a non pochi governi. Il ritiro unilaterale dei nostri soldati, circa 4.500, dai vari teatri di guerra e il disimpegno economico del nostro stato in spese belliche: oltre 29 miliardi di euro nell’anno 2015, circa 80 milioni al giorno, secondo i dati dell’agenzia indipendente Stockolm International Peace Research.
Tutto il contrario di quel che sta accadendo con lo schieramento dei paesi Nato ai confini della Russia, e con un contingente di nostri militari che andrà in Lettonia. Uno sperpero di denaro pubblico con cui potremmo organizzare una dignitosa accoglienza dei migranti.
Non solo, e sarebbe già moltissimo. Ma potremmo fare di questo fiume di denaro la leva demografica e sociale per la riorganizzazione del nostro territorio, dando un nuovo slancio alla vita economica e sociale dell’intero paese. Lo sforzo che oggi l’Italia sostiene per fare guerre camuffate dovrebbe essere interamente rivolto all’interno, a fronteggiare la più grande sfida che il paese ha davanti a sé nel suo immediato futuro. Dovrebbe apparire chiaro, infatti, che le chiusure sempre più ottuse e feroci degli stati del Nord Europa ai disperati che fuggono da guerra e miseria, trasformeranno l’Italia da paese di transito in meta finale e permanente.
Il passo che un vero statista dovrebbe compiere è uscire dalla Nato. Oggi esistono buone ragioni per disfare la struttura dell’Alleanza atlantica. Essa non aveva più ragioni di esistere dopo il tracollo del Patto di Varsavia. Eppure sotto il dominio americano essa ha continuato la sua opera, provocando danni immensi e incalcolabili all’umanità intera.
Rammentiamo qui brevemente, tralasciando le guerre balcaniche, che sotto lo scudo statunitense, almeno una parte di paesi Nato ha invaso l’Afghanistan, intrapreso la rovinosa guerra in Iraq ( dalle cui macerie è sorta l’Isis, il più sanguinario fenomeno di terrorismo internazionale dei nostri tempi), ha invaso e devastato la Libia. Ma anche in Europa, la politica americana della Nato è fonte di tensioni crescenti e di conflitti armati (Ucraina e i confini del Baltico). Rinfocolando i risentimenti antirussi di molti paesi dell’Est, ha fatto rinascere antichi nazionalismi e spinto la Russia verso un irrigidimento sempre più autoritario, favorendo platealmente il potere personale di Putin.
Chi possiede intelligenza delle cose del mondo deve riconoscere che gli Usa hanno necessità di ricreare la figura di un grande Nemico esterno, venuto a mancare dopo il crollo dell’Urss. Ne hanno bisogno per ragioni di politica interna, per mantenere il consenso tra il popolo americano, sempre più deluso e lacerato. E per conservare il loro blocco di alleanze internazionali.
Ma anche per ragioni economiche: la costosissima macchina industriale-militare degli Usa ha bisogno di utilizzare, con guerre locali, ma anche di vendere i suoi prodotti. E i paesi Nato costituiscono la sua migliore (anche se non unica) clientela. Il caso degli acquisti dei caccia F35 da parte dell’Italia – paese che per norma costituzionale ripudia la guerra – è la spia più clamorosa della disposizione e della pratica servile dei nostri governanti verso questo potere opaco e dispendioso che sfugge a ogni controllo democratico.
L’uscita dalla Nato potrebbe favorire il processo di unificazione dell’Europa. Dopo la Brexit sarebbe più agevole la costituzione di una difesa europea comune, una difesa leggera, assai meno dispendiosa di quella affidata ai singoli stati, non soggetta agli interessi commerciali Usa. L’Italia, insieme alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia potrebbe mettersi alla testa di questa coraggiosa svolta politica, in grado di trascinare anche la Francia, se il senso del bene comune tornasse a brillare tra i socialisti di quel paese. Noi ne abbiamo necessità vitale.
Il modo in cui evolverà il continente africano deciderà molte cose dell’avvenire del nostro Paese. Occorre una grande politica verso i paesi del Mediterraneo e non la si può realizzare con i dogmi fallimentari dell’ordoliberalismo tedesco. Mentre su questo blocco di paesi si potrebbe progettare un euro.2, una moneta euromediterranea, che segni una via d’uscita dal più grave errore fondativo dell’Unione europea.
il manifesto
, 15 ottobre 2016
Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.
Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.
A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?
Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.
In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone».
Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre.
Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti.
Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime.
Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio.
L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.
il manifesto e Corriere della Sera, 14 ottobre 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
IO NON SONO UN MODERATO!
di Dario Fo
Il manifesto scritto da Dario Fo nel 2006 per presentare la sua candidatura a sindaco di Milano
Se cercate un moderato state attenti a votare per me,
perché con me si rischia!
Ma veramente volete un sindaco moderato?
Il moderato è forte con i deboli e debole con i forti.
Il moderato finge di risolvere i problemi senza
affrontarli!
Il moderato chiude un occhio sulle speculazioni edilizie.
Il moderato caccia gli inquilini dalle case in centro
e poi le rivende ai magnati della speculazione.
Il moderato trasforma in ghetto la periferia.
Il moderato accetta una scuola per ricchi e una per i
poveri.
Il moderato lascia intristire la città, e applaude ai
grattacieli.
Il moderato teme di dispiacere ai cittadini che contano
E non concede la parola a quelli che non hanno voce.
Il moderato non cambierà mai nulla.
Il moderato non risolverà il problema dell’inquinamento
di Milano, non salverà i polmoni da settantenni dei
bambini di 5 anni.
Il moderato non vi libererà dal traffico, dal milione
di automobili spernacchianti che hanno trasformato la
città in una camera a gas.
Oggi sembra che non essere moderati sia un difetto o un
delitto; oppure che sia un privilegio dei giovani.
Ma ci vogliono tanti anni… per diventare veramente
giovani!
Milano, se la mi musica è troppo forte, allora vuol dire
che stai diventando troppo vecchia.
Nessun moderato ha mai fatto la storia,
e nessun moderato ha mai preso un Nobel.
Io non sono un moderato!
Sarò un sindaco che rischia.
Perché credo che il rischio del cambiamento sia l’unica
risposta corretta per chi investe il suo voto in un
progetto per Milano.
Se scegliete di votare per me, rischiate molto… rischiate persino di trovarvi finalmente a vivere in una
città migliore!
Coraggio Milano!
Corriere della Sera
LA SINISTRA ANARCHICA, IL PCI, GRILLO
LA POLITICA DI FO, PASSIONE ESTREMA
di Marco Imarisio
«Alle fine dell’ultima Guerra mondiale, nel giorno della Liberazione, ci fu una festa come questa. C’era tanta gente come voi, felici, pieni di gioia. Credevano che si sarebbe rovesciato tutto, ma noi non ci siamo riusciti. Fatelo voi, per favore».
Era il tardo pomeriggio del 19 febbraio 2013, piazza del Duomo era piena che non ci stava neanche uno spillo. Quel comizio, e quella folla, furono il segnale di ciò che sarebbe accaduto alle elezioni politiche. Dario Fo aveva già manifestato la sua simpatia per il movimento creato dall’amico Beppe Grillo. «Ci conosciamo da quarant’anni» ripetevano entrambi, anche se nessuno dei due ricordava l’anno esatto del primo incontro. «In fondo siamo due giullari, fatti per capirsi» ripeteva spesso il Premio Nobel.
L’enfasi di quel discorso fatto dal palco a ridosso della statua di Vittorio Emanuele II non fu dettata solo dall’entusiasmo del momento. L’estremismo declinato come completo abbandono alla causa sposata di volta in volta è sempre stato la cifra del suo impegno politico. Nell’ideologia di Fo c’erano ingredienti diversi e spesso non amalgamabili tra loro.
Anticlericalismo e antiautoritarismo, democrazia diretta, anarchismo, maoismo. Un rapporto di amore e odio con il Pci, più il secondo del primo. Si spese molto, con studenti, operai, movimenti extraparlamentari. Sbagliò altrettanto, a cominciare dalla campagna denigratoria contro il commissario Luigi Calabresi, definito commissario Cavalcioni con esplicito riferimento alla finestra dalla quale precipitò l’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel 1974 fondò Soccorso rosso, associazione nata per dare assistenza legale ai militanti ma spesso accusata di aiutare personaggi in odor di terrorismo, compresi i tre autori del rogo di Primavalle.
La sua Milano rappresentò ancora una volta il debutto ufficiale di una nuova passione politica. Fino a quel momento aveva oscillato seguendo i propri umori e mai una linea precisa. Nel 2005 si presentò alle primarie milanesi del centrosinistra contro il candidato ufficiale del Ds, Bruno Ferrante. A sostenerlo c’era anche il gruppo «Amici di Beppe Grillo», un embrione di M5S.
Persino in quel 2013 il suo sostegno venne diviso a metà con la Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. La matrice della militanza pentastellata di Fo è sempre stata chiara. In alto a sinistra, talvolta salutava così i giornalisti che lo disturbavano al telefono. «Non sono un moderato e non lo sarò mai» era un altro dei suoi tormentoni. Le sue poche uscite pubbliche in disaccordo con Grillo sono avvenute su quelle che lui stesso definiva come scivolate a destra del comico ligure, a cominciare dalla questione dello ius soli . «Compagno Dario, che ci facevi su quel palco?» gli chiese il disegnatore Vauro dopo il Vaffa day genovese del dicembre 2013, durante il quale Grillo parafrasò Mussolini con un «Vincere, e vinceremo».
Il successo dei Cinque Stelle alle politiche del 2013 lo prese alla sprovvista. Fo si era sempre trovato su posizioni minoritarie. «Adesso scopro che siamo quasi maggioranza. La mia prima volta, a 87 anni...». Negli ultimi tempi, dopo il passo di lato fatto da Grillo e la morte di Casaleggio, un uomo che lo ha sempre incuriosito molto, era diventato un punto di riferimento per consiglieri comunali e regionali lombardi che gli chiedevano lumi e consigli. Aveva organizzato una vendita dei suoi quadri per sostenere i candidati alle ultime elezioni comunali.
La sua ultima uscita in pubblico con Grillo risale allo scorso 6 agosto a Cesenatico. I Cinque Stelle organizzavano una serata in spiaggia per parlare di Costituzione. Lui era reduce dalla presentazione di Darwin, la mostra delle sue opere recenti. Era stanco. Si era comunque seduto tra il pubblico sorbendosi fino all’ultimo tre ore buone di dibattito. Fo ha rappresentato l’anima di sinistra del Movimento. M5S non perde soltanto il suo volto più conosciuto nel mondo, ma un pezzo della sua identità.

Novant’anni compiuti pochi mesi fa; una vita vissuta certo «pericolosamente» (sempre all’opposizione di ogni potere costituito), ma anche piena di grandi soddisfazioni, perfino quelle planetarie come il premio Nobel; sempre impegnato a intrecciare l’arte con la politica in modo che si rafforzassero e motivassero l’una con l’altra, per generazioni sempre nuove di spettatori.
Un impegno che, come la padronanza di linguaggi artistici diversi (dalla recitazione alla scrittura al disegno, con studi originari di architettura e di belle arti a Brera) era a tutto campo. E il fatto non marginale di essere l’autore italiano contemporaneo più rappresentato al mondo. È stato davvero un uomo da record Dario Fo, morto ieri a Milano. Aveva appunto 90 anni (nato il 24 marzo del 1926 in provincia di Varese) che certo potevano trasparire a vederlo fuori dal palcoscenico, mentre scomparivano del tutto nella grinta che lo possedeva quando era in scena, ancora pochissimi mesi fa sotto il cielo dell’Auditorium romano per migliaia di spettatori. O negli interventi appassionati e virulenti, anche recentissimi, contro chi attaccava i 5 Stelle per i quali si era schierato.
Il suo sodalizio con Franca Rame (figlia d’arte, bellezza strepitosa e vamp del teatro brillante), nato nei primi anni ’50, ha costituito un unicum nella storia culturale del nostro paese. Ne ha attraversato tutti i settori, sempre con una maestria (e un affiatamento tra loro) che faceva stupire solo chi li invidiava, in un orizzonte sempre più vasto, che dal teatro comico si è allargato alla musica e alle canzoni con Jannacci o Fiorenzo Carpi (entrate nei modi di dire del linguaggio comune), alla commedia musicale e al kolossal (i titoli apparentemente astrusi che riempivano l’Odeon a Milano e il Sistina a Roma), e ancora l’affondo nella canzone popolare naturalmente schierata, con il pubblico tradizionale prima sconcertato e poi affascinato dalle melodie di Ci ragiono e canto, che raccoglieva le meglio voci da piazza e da cortile di tutta Italia. Fino alla grande svolta degli anni attorno al ’68, se svolta si può dire.
Perché già tutta la loro storia era stata «schierata» e manifesta: dal Dito nell’occhio che lui con Franco Parenti e Giustino Durano infilava nelle visioni credulone che immaginavano facile la rinascita del dopoguerra, alle commedie brillanti che già dal titolo non la contavano giusta: Settimo ruba un po’ meno, Chi ruba un piede è fortunato in amore, Isabella tre caravelle e un cacciaballe ovvero Cristoforo Colombo a rapporto col potere, La signora è da buttare, che alludeva neanche a dirlo alla strapotenza americana.
In compenso ebbero una sorta di proscrizione nazionale, sul palcoscenico già molto politicizzato della Rai. Chiamati a condurre la Canzonissima del 1962, furono cacciati e radiati per molti anni dalle trasmissioni televisive: si erano ostinati a voler parlare di morti sul lavoro. E ottennero di essere censurati per motivi squisitamente politici (fino a quel momento era successo solo per motivi «morali», se non letteralmente sacramentali, da Mina a Pani, da Volonté alla Gravina). Dario e Franca torneranno sul piccolo schermo soltanto a Rai riformata, nel 1977, quando sul secondo canale andò in onda Mistero buffo, con un boom di ascolti.
Poi sono stati protagonisti di molte serate importanti: ancora in queste settimane su Rai5 Fo legge le grandi opere d’arte, prima tra tutte la pittura rinascimentale, dando inusitate chiavi di lettura, e aprendo scenari e intrecci davvero affascinanti. Un episodio che forse qualcuno non ricorda, a fine anni ’80 nel remake dei Promessi sposi sceneggiati, è il suo azzeccatissimo Azzeccagarbugli, in un cast stellare che andava da Burt Lancaster a Helmut Berger.
Si era aperta alla fine degli anni ’60 la fase del loro teatro che li ha portati nella storia civile del nostro paese, e nei botteghini di tutte le sale del mondo. Con tutto il loro bagaglio di tecniche artistiche (tempi, canto, mimica, commedia dell’arte), scelsero di farlo ardere assieme alla loro coscienza civile. Lo facevano da sempre, ma c’era necessità di trovare nuove forme e nuovi spazi dove quella scintilla scoccasse contemporaneamente anche nel pubblico. Fuori quindi dai teatri e dai circuiti ufficiali, con la loro gloriosa Comune teatrale disegnarono una vera mappa altra dei luoghi di spettacolo nelle città. Ancora adesso, chi allora c’era, può continuare a ripercorrere quelle serate eroiche in cui ci si ritrovava in migliaia: cinema di periferia, capannoni abbandonati, strutture che andavano in degrado.
E si imparava a ridere anche dentro i ragionamenti più maledettamente seri. L’ironia e la satira di Fo e Rame non avevano limiti, ma neanche la loro umanità. Solo con i loro spettacoli era possibile capire, davanti ai muri e ai depistaggi alzati dalla magistratura e dai servizi, quello che poteva esserci dietro a la strage di piazza Fontana, o gli attentati sanguinari ai treni e alle stazioni. Quegli spettacoli così «teatrali» eppure così civili quanto a impegno, hanno costituito un fenomeno unico nel 900 italiano, e non solo, in un insuperato mix di farsa e Brecht, di surrealismo e tradizione medievale. Tanto da arrivare al verdetto della giuria di Stoccolma, nel 1997, che in una stringata sintesi racchiudeva per il Nobel il segreto di quella sterminata profusione artistica: «Nella tradizione dei giullari medievali, fustiga i potenti e ridà dignità agli oppressi».
E non c’è stato campo cui quella artistica magia non si sia applicata. E ogni titolo può evocare tanti sorrisi quanto altrettanti pensieri e ragionamenti: Mistero buffo innanzitutto, nelle sue innumerevoli riscritture; il programmatico L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone; il sempre attuale Morte accidentale di un anarchico ovvero Giuseppe Pinelli; Fedayn; Pum pum chi è? La polizia; Non si paga non si paga; Il Fanfani rapito, irresistibile; L’opera dello sghignazzo; Tutta casa letto e chiesa, nato dal dolore e dalla violenza, veri, subiti da Franca e divenuti manifesto di tutte le donne. Tanti titoli (e ce ne sarebbero tanti altri), che alleviano la commozione per la sua scomparsa. Perché ci garantiscono che la sua lezione teatrale e politica resterà sempre ben presente.

«».
il
manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Si avvertì d’improvviso uno scoppio tanto potente da far tremare i vetri delle finestre. In pochi minuti sapemmo che a Piazza Venezia era esplosa una bomba. Franca prese il telefono e chiamò la polizia:«Sono stati i fascisti?» – chiese. «Macché fascisti e fascisti, signora»- fu la risposta sprezzante della Questura. Telefonò a Dario, che era a Milano. E così sapemmo della contemporanea bomba di Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura. Da allora, e per molti anni, il 12 dicembre divenne la scadenza principale di tutto il movimento: a ricordare la data dell’inizio della strategia del terrore.
Per anni, prima di allora, ci eravamo incontrati nei teatrini dei circoli dell’Arci dove era emigrato quando aveva abbandonato i teatri che lui chiamava «borghesi». Perché, diceva, «non voglio essere l’alcaselzer della borghesia che ride un po’ su se stessa per autoassolversi». In realtà il successo della sua straordinaria invenzione teatrale fu n crescendo, non importa dove lui e Franca andavano a recitare.
Sì, all’inizio dell’avventura del Dario e Franca ci erano stati subito compagni. Un incontro naturale per chi, come loro, e al massimo dell’espressione artistica, si era proposto «di prendere per i fondelli il potere», di «dargli fastidio». Proprio per questo, dopo il travolgente successo di Canzonissima, la Rai emise il bando che li allontanò da tutti i programmi dell’emittente pubblica per ben 15 anni, dal 1962 al 1977!
Fummo proprio noi del manifesto a riportarlo su quegli schermi, surrettiziamente, almeno per mezz’ora: non come regista e/o attore, bensì come partecipe della breve trasmissione televisiva che fu concessa alla nostra lista nelle elezioni del 1972. Parlò, assieme a Rossana e a Lucio, di quanto ci proponevamo con quella (non fortunata) partecipazione alla campagna elettorale – rimettere al centro dell’attenzione politica i contratti operai – e però soprattutto di Valpreda, nostro capolista arbitrariamente imprigionato dagli insabbiatori per deviare l’inchiesta sui responsabili dell’eccidio della banca dell’Agricoltura. Dario aveva peraltro portato in scena la vicenda strettamente correlata: «Morte accidentale di un anarchico».
Non fu la sola partecipazione televisivo-elettorale di Dario con le nostre liste: tornò, come mattatore, a quella per le elezioni del 1976 cui concorremmo come Democrazia Proletaria, e una bellissima immagine la trovate anche su Internet: Dario al centro assieme a Rossana, e accanto una folla di candidati che non tutti riesco più a riconoscere perché sembrano tutti teenager.
Poi ci fu «Soccorso Rosso», la palazzina Liberty a Milano occupata e usata come quartier generale della controinformazione, e tante altre vicende, tutta la storia della nuova sinistra.
Infine il più sovversivo riconoscimento mai concesso dal consiglio che aggiudica il Nobel della letteratura: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».
L’ho visto per l’ultima volta solo pochi mesi fa, in occasione di «Terra madre giovani», a Milano al termine dell’Expo. Non dentro l’Expo, ma fuori, al nuovo mercato di Porta Genova dove si tenne l’inaugurazione del grande raduno che Slowfood aveva voluto con la nuova generazione di agricoltori di tutto il mondo – molti contadini «di ritorno» – per parlare finalmente come si deve del cibo. Eravamo seduti vicini e dopo aver parlato un po’ di quanto era bravo il nostro comune compagno e amico Carlin Petrini (al quale lui era legatissimo), abbiamo anche scambiato qualche battuta sui suoi grillini.
L’avevo trovato un po’ invecchiato, ma sempre militante: e infatti era lì, a testimoniare con la sua autorevolissima presenza, dell’importanza di battersi contro i big dell’alimentazione. Come sempre: dare fastidio al potere.
12 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il 14-15 ottobre al monastero di Sezano si terrà la prima Conferenza nazionale sull’Utopia, con laboratori, proclamazione di dottori honoris causa in utopia, cena utopica oltre ad esperienze di impossibili resi possibili. Una iniziativa stimolante che ci facciamo raccontare da padre Silvano Nicoletto, stimmatino.
In una società pragmatica e competitiva stupisce sentire parlare di utopia….
«Stupisce, ma in realtà ce n’è un estremo bisogno. Viviamo in una società dove un imperante cinismo riduce tutto a denaro e successo, con una visione di politiche dall’esito immediato: prendi e porta via; una monocultura basata sulla predazione dei diritti, della vita, dei beni comuni e dell’ambiente. Rompere con questi mondi chiusi non è uno scherzo, ma occorre rendere possibili altri scenari dove l’umanità e gli esseri possano semplicemente vivere gli uni assieme agli altri e gli uni per gli altri».
Qual è l’utopia di cui si parlerà nella conferenza?
«C’è bisogno innanzitutto di prendere congedo da una concezione sprezzante dell’utopia, quasi si trattasse di sogni irrealizzabili. L’utopia di cui si parlerà nella conferenza invece è concreta ed ha a che fare con progetti di vita e di società che attendono di essere realizzati come superamento delle attuali prospettive a corta veduta».
Da quale visione parte il sogno utopico di questo progetto?
«Il punto di partenza coincide con una visione che considera come bene comune la possibilità per tutti di vivere insieme. Il sogno (che non va inteso come una chimera) è la realizzazione di una umanità che non toglie a nessuno i beni necessari alla vita per destinarli alle logiche del mercato. Si tratta di un altro modo di vivere più rispettoso di tutto e di tutti, in armonia con tutto ciò che abita e si muove nella “casa comune”». Il Monastero di Sezano (Verona)
Il monastero di Sezano capitale nazionale dell’utopia ? Non sarà troppo ambiziosa questa iniziativa?
«Oltre che ambiziosa, se così fosse, sarebbe anche presuntuosa e per questo il monastero di Sezano non sarà mai capitale nazionale dell’utopia. Tuttavia questo è un luogo (topos) in cui le utopie che già anticipano futuro si danno appuntamento, si confrontano e si sviluppano attraverso una feconda relazione».
Come è nata questa iniziativa, e cosa intende valorizzare?
«La causa remota è il quinto centenario dello scritto di Thomas More sull’utopia. Ma oggi intendiamo dare voce ai molti percorsi che in questi anni i diversi movimenti della terra, della conoscenza, della resistenza al predominio finanziario, dei beni comuni come l’acqua, il suolo, l’energia, l’aria e l’ambiente, hanno realizzato con esperienze di nuove narrazioni del mondo e della vita».
Utopia e realismo contrapposti quindi?
«Non contrapposti ma proposta di nuovi e altri progetti rispetto alla narrazione stantia e scontata che i maestri del realismo continuano a ripetere senza apportare una virgola di miglioramento ai problemi del mondo, ed anzi provocando processi di impoverimento, di squilibri e di guerre».
Sabato pomeriggio ci sarà la proclamazione di alcuni dottori honoris causa in utopia per il 2016…
«Sì, è ormai nella prassi del Monastero del Bene comune, in collaborazione con l’Università del Bene Comune assegnare il dottorato honoris causa in utopia a quelle persone o a quei gruppi che in concreto hanno realizzato azioni ed esperienze in diversi ambiti (economico, lavorativo, educativo, sociale, …) capaci di testimoniare che l’utopia (non luogo) può diventare eutopia (buon luogo)».
Chi sono i nuovi dottori in utopia?
«Quest’anno è stato deciso di premiare la cooperativa sociale New Hope, che sta dando dignità e speranza a tante giovani immigrate; Jürgen Grässlin, pacifista tedesco indomito oppositore dell’industria delle armi e Bernard Tirtiaux, maestro vetraio, scultore, artista, musicista, poeta e scrittore belga». Bernard Tirtiaux
Con che criterio sono stati scelti ?
«Il primo criterio è senz’altro la qualità delle esperienze che rappresentano, vale a dire esperienze capaci di infrangere i dogmi del pensare e del vivere attuali. Un altro criterio individua in persone e in gruppi non necessariamente appartenenti al mondo accademico i candidati per questo riconoscimento. Esiste un mondo complesso di esperienze innovative che necessitano di venire alla luce ed essere riconosciute».
Nel programma dei lavori si legge “Incontro con l’audacia mondiale” …
«In effetti questa sollecitazione dell’incontro con l’audacia mondiale viene proposta nell’ultimo libro, non ancora pubblicato in Italia, di Riccardo Petrella, Au nom de l’humanité. L’autore parla di tre audace: la prima “Dichiarare illegale la povertà” (ovvero i processi che generano impoverimento), la seconda “Disarmare la guerra” e la terza “Mettere fine alla finanza attuale”».
Sembra una scommessa impossibile…
«L’impressione è quella di un’impresa titanica, ma è altrettanto vero che molte micro e macro realtà si stanno muovendo in disobbedienza a questi codici e non è detto che il gigante così possente e terribile alla fine non abbia i piedi d’argilla».
Nel programma della conferenza è prevista anche una cena utopica, di cosa si tratta?
«La conferenza inizierà con una cena curata dallo chef Fulvio De Santa, il cui menù è talmente “utopico” da scartare i prodotti artificiali per gustare i prodotti naturali tramandati dalla saggezza di chi ha lavorato la terra con rispetto e amore, e dei giovani “contadini resistenti”che continuano questa tradizione».
Non solo conferenza quindi, ma festa…
«Certo, non solo conferenza, ma soprattutto festa perché la festa non è un accidente dell’utopia ma fa parte della sua sostanza».
«Dal Referendum del 4 dicembre dipende anche il destino della prima parte della Carta. Compito della sinistra è spiegarlo al Paese e preparare una strategia per rivitalizzare la Democrazia italiana».
centroriformastato online, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ci sono senz’altro molte e diverse ragioni per votare NO al Referendum del 4 dicembre. Non solo ragioni di sinistra, fortunatamente, ché altrimenti vincere il referendum sarebbe quasi impossibile. Compito di ciò che resta della sinistra politica italiana, però, se vuole fare dell’auspicata vittoria nei NO anche un momento ricostituente per sé e per le Istituzioni democratiche, è quello di spiegare al Paese e a quello che dovrebbe essere il proprio blocco sociale le ragioni specifiche del suo NO.
Ragioni che, perché sia efficace il contributo della sinistra alla campagna referendaria, devono necessariamente accompagnare quelle più “tecniche” e trasversali sulle tante disfunzionalità e illogicità presenti nel testo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini.
Proviamo a dirla nella maniera più esplicita: il Referendum del 4 dicembre sulla modifica della seconda parte della Costituzione proposta dal Governo è in realtà un Referendum sul destino della prima parte della Carta, quella dei principi fondamentali (art. 1-12) e quella dei diritti e doveri dei cittadini (art. 13-54).
Questi infatti si leggono e si reggono solo in relazione all’assetto istituzionale e all’equilibrio tra i poteri disegnato nella seconda parte. La parte programmatica della Costituzione del ’48 indica un solco in base al quale orientare l’azione dello Stato le politiche dei Governi: un solco che parla di progressivo ampliamento della platea di accesso a risorse, diritti e potere. In sostanza: più uguaglianza, più libertà, più democrazia.
Nella prima fase della storia repubblicana dell’Italia (’48-’92) ciò si è per lo più verificato. Progressivamente, attraverso politiche di governo e atti riformatori, si andava realizzando ciò che comandava lo Spirito della Costituzione: dalla scuola media unificata all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, dallo Statuto dei Lavoratori al regionalismo, dalla riforma del Diritto di Famiglia alla legge sul divorzio.
Non è vero, come dice certa propaganda, che non si facevano “le riforme”; si facevano certe riforme, che tendevano a rafforzare uguaglianza, diritti e democrazia. La contrapposizione politica e sociale, certamente tra alti e bassi e comunque passando per momenti conflittuali, portava a un graduale avanzamento delle condizioni di vita per i lavoratori, per le donne, per i giovani, per i più deboli. Esattamente come prescrive la prima parte della Costituzione.
La possibilità che questo avvenisse era data dal fatto che gli equilibri politici che avevano prodotto la Costituzione e l’assetto istituzionale che questa aveva definito erano tali da consentire che il punto di vista di grandi masse popolari risiedesse, con tutta la sua benefica vitalità, nel cuore delle Istituzioni grazie a un dispositivo incentrato su tre pilastri strettamente connessi tra loro che si alimentavano vicendevolmente: centralità del Parlamento, sistema elettorale proporzionale, protagonismo dei partiti di massa.
Quando la tendenza si invertì e si imposero le spinte restauratrici del neoliberalismo, che muovevano dalle classi dirigenti conservatrici sul piano internazionale e nazionale, iniziando ad allontanare l’orientamento dello Stato e delle politiche dei Governi dal solco della Costituzione, quando cioè si sono cominciati a restringere diritti e tutele per allargare gli spazi a disposizione degli spiriti animali del mercato, quando si è ricominciato a favorire privilegi e disuguaglianza, il processo fu innanzitutto segnato dall’attacco a quel dispositivo politico-istituzionale che garantiva la possibilità per le masse di essere realmente rappresentate nei luoghi del potere e così di poter incidere direttamente sulle scelte politiche: i partiti di massa sostituiti da partiti personali e dai partiti-azienda; il sistema proporzionale sostituito da distorsivi maggioritari sempre più lesivi del principio di rappresentatività.
A più riprese vennero messi in campo anche tentativi di contro-riformare la stessa Costituzione al fine di colpire la residua centralità del Parlamento, ultimo fondamentale pilastro del sistema voluto dai Costituenti.
La Costituzione del ’48 seppe resistere, sia in ragione di fattori legati alla contingenza politica sia perché in una parte larga del popolo italiano restava traccia di quel patriottismo costituzionale che per lungo tempo aveva accomunato le culture cristiano-democratiche, liberal-progressiste e social-comuniste.
Non è un caso che oggi il più violento e spregiudicato tentativo di manomettere l’assetto istituzionale fondato sulla centralità del Parlamento venga portato avanti a partire da un luogo -il principale Partito che si proclama erede di quelle tradizioni politiche- da cui è più facile dividere quello che è stato negli ultimi decenni lo “zoccolo duro” dell’ampio fronte sociale, politico e culturale che si è posto a guardia della Costituzione del ’48.
Questo è il senso più profondo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini: completare l’opera, iniziata ufficialmente in Italia al principio degli anni ’90, di espulsione delle masse dai luoghi della decisione politica, dal cuore delle Istituzioni democratiche. Anche nella confusione del dibattito, infatti, appaiono chiari i tratti caratterizzanti dell’operazione che si sta tentando: compressione degli spazi di partecipazione e rappresentanza dei cittadini; verticalizzazione e accentramento del potere.
Tutto perfettamente coerente con quella tradizione del pensiero elitista e conservatore delle classi agiate che già negli anni ’70 parlava di un “eccesso di democrazia” e che da ultimo trova espressione dell’ormai famoso documento della JP Morgan sulle Costituzioni europee, oltre che nelle prese di posizione in favore del SI’ di importanti attori finanziari e grandi industriali.
Votare NO il 4 dicembre può e deve essere innanzitutto il nostro modo per respingere, come cittadini appartenenti a una comunità nazionale legati alla parte migliore della sua storia e come militanti di una parte che di quella storia è stata e può tornare protagonista, il tentativo finale di chiudere definitivamente i conti con il processo di avanzamento e progresso sociale avviato dalla Liberazione, dall’approvazione della Costituzione del ’48 e dal dispiegamento concreto di quell’idea alta che chiamavamo democrazia progressiva; chiudere i conti con la storia che le masse popolari organizzate dai partiti e dai movimenti socialisti, comunisti e cattolici hanno animato nel corso del Novecento.
Da questo punto di vista, la vittoria del NO può fare del Referendum un punto di svolta che sul fronte italiano inverte l’inerzia della guerra aperta contro il lavoro e la democrazia dalla contro-rivoluzione neoliberale. Ma, dopo aver respinto l’attacco, occorrerà far partire la controffensiva: imbracciando la bandiera del lavoro organizzato e della democrazia sostanziale, puntando come primo grande obiettivo strategico a fare di nuovo delle Istituzioni democratiche dei luoghi vivi, nei quali risuonino i battiti di una società quanto mai inquieta e sofferente.
Dopo la necessaria vittoria del NO, sulla quale siamo tutti chiamati a lavorare fino al momento in cui verrà chiuso l’ultimo seggio elettorale d’Italia, bisognerà avviare una battaglia strategica volta all’approvazione di una legge elettorale proporzionale che consenta alle forze politiche di ogni orientamento lo sforzo di ricostruirsi come partiti, cioè come organizzazioni rappresentative degli interessi, delle aspirazioni e delle istanze plurali di soggetti sociali reali. Partiti in grado di stare nella società e nelle Istituzioni, di organizzare il conflitto e praticare la mediazione.
Ciò che serve alla sinistra da qui al 4 dicembre è una strategia per il dopo. Proprio sulla capacità dei gruppi dirigenti e dei militanti della sinistra di mettere in campo -dentro e oltre la campagna referendaria- una strategia all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte, si misureranno le possibilità di esistenza di una forza della sinistra in grado di essere utile al suo blocco sociale, alla rivitalizzazione della democrazia italiana e alla sua possibile riforma in senso progressivo.
Una strategia insieme realista e radicale, che guardi alle condizioni materiali del Paese e dei suoi ceti subalterni, alle tendenze di fase del sistema e allo stato di salute della democrazia in Italia e in Occidente. Senza lasciarsi ingabbiare né dalle logiche stanche del tatticismo politicista né dal ricatto delle compatibilità di sistema.
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2016 (p.d.)
Il mio paese è un paradiso terrestre per tutte le risorse che offre ma da vent’anni è diventato un inferno”. A parlare è John Mpaliza, congolese originario di Bukavu, in Italia dal 1993. Negli ultimi 6 anni l’ex ingegnere informatico di Parma ha percorso 10.000 chilometri da Reggio Emilia fino a Bruxelles, Reggio Calabria e Helsinki. Camminare per sensibilizzare e tenere alta l’attenzione sulla crisi senza fine della Repubblica democratica del Congo.
È da 20 anni che gruppi armati locali e stranieri compiono violenze quotidiane ai danni dei civili. Si autofinanziano con lo sfruttamento illegale dei minerali. Coltan, cassiterite, tungsteno e cobalto utilizzati per fabbricare oggetti del nostro quotidiano, dai tablet alle auto. Le miniere delle regioni meridionali e dell’Est – Nord e Sud Kivu – sono in mano alle multinazionali straniere. Mentre queste firme realizzano profitti stimati in almeno 125 miliardi di dollari l’anno, nel solo 2014 secondo l’Unicef 40.000 bambini sono stati sfruttati nelle miniere e almeno 80 sono morti. “Il compromesso politico raggiunto a Bruxelles lo scorso giugno introduce una tracciabilità dei minerali solo parziale. Ancora una volta gli interessi economici sono prevalsi sui diritti umani” deplora John.
Altra spina nel fianco è la presenza di un focolaio islamico proprio nel Nord Kivu, al confine con Rwanda e Uganda. Negli ultimi due anni la società civile di Butembo Beni ha denunciato la “selvaggia uccisione” di almeno 1116 persone, il rapimento e la scomparsa di 1470 civili, 35.000 famiglie sfollate, centinaia di abitazioni, scuole, centri di salute e interi villaggi incendiati, saccheggiati o occupati. Una strategia del terrore attribuita alle Adf-Nalu, sopranno minata Muslim Defense International (Mdi), ribellione nata negli anni 90 contro il presidente ugandese Yoweri Museveni e stabilita nell’est congolese.
Nei campi di addestramento transitano giovani congolesi e stranieri, che poi tornano a combattere e commettere attentati nei paesi di origine. “Ragazzi sottratti alla strada con la promessa di un’alternativa alla povertà. Molti di loro sono orfani. Altri sono stati affidati ai fondamentalisti dalle famiglie convinte che i propri figli avrebbero ricevuto un’istruzione in Europa, Medio Oriente o Canada” ha riferito l’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). Per il vescovo di Butembo-Beni, monsignor Melchisedech Sikuli Paluko, è in atto “un genocidio teso a cacciare la popolazione per avere il controllo del territorio, sfruttarne le risorse, creare campi di addestramento e indottrinamento (…) per installare centri di integralismo islamico sul modello di Boko Haram in Nigeria”. Il vescovo ha puntato il dito contro la missione Onu, assicurando che “tra i caschi blu ci sono stati musulmani fondamentalisti del Pakistan e del Nepal che hanno fondato scuole coraniche e costruito moschee” nei pressi delle basi.
“A Mutwanga i giovani scompaiono e ritornano dopo 6 mesi, diventati imam. Si sono convertiti in cambio della promessa di ricevere 100 dollari al mese per il resto della loro vita, una somma cospicua in ambito rurale. A Butembo le ragazze sono costrette a portare il velo”, racconta Cyril Musila, professore all’Università di Kinshasa e ricercatore all’Istituto francese delle relazioni internazionali (Ifri). Una corrente islamica che va “contro la cultura locale, in particolare contro l’etnia Nande (…) il jihadismo all’opera in quel territorio è uno strumento di sterminio a colorazione religiosa, con la complicità di altri gruppi armati, soldati regolari e esponenti di governo”, conclude lo studioso congolese.
Ma al centro della cronaca delle ultime settimane c’è il rischio sempre più concreto che il capo di stato uscente Joseph Kabila, in carica dal 2001, possa aggrapparsi al potere oltre la scadenza del mandato il 19 dicembre.Di sicuro le elezioni in agenda per fine anno non si faranno. Mancano i soldi e il censimento non è terminato. Queste le spiegazioni ufficiali. Il 19 e il 20 settembre a Kinshasa una protesta dell’opposizione è stata brutalmente repressa: 32 morti, secondo il bilancio governativo. Tra 50 e 100 vittime, migliaia di feriti e arresti quotidiani per ong e oppositori. Un Kabila nell’occhio del ciclone è stato ricevuto da Papa Francesco tre settimane fa.
A porre sotto i riflettori le sorti del gigante africano in bilico sono migliaia di congolesi della diaspora con la Congo Week: da domenica al 23 ottobre una settimana per “rompere il silenzio sulla crisi dimenticata”.
In Italia l’iniziativa coinvolgerà associazioni e scuole in cinque province, con un convegno nazionale a Bologna e una marcia a staffetta per la pace a Beni, tra Reggio Emilia e Bruxelles. Intanto a Kinshasa “vige un clima di terrore e la tensione è alle stelle. Abbiamo paura e non sappiamo cosa accadrà al Paese da qui al 19 dicembre, ma soprattutto dopo quella data”, avverte una fonte locale anonima per motivi di sicurezza.

omune-info, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Non è piacevole guardare l’orrore, è più difficile ancora capirci qualcosa. Cosa vogliamo per la Siria? E cosa possiamo fare? Primo, non semplificare, dicono in questo articolo molto prezioso (che preghiamo vivamente i lettori di Comune di leggere fino in fondo) Santiago Alba Rico e Carlos Varea. «Il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria è un problema mondiale» hanno scritto, a ragione, gli artisti e gli intellettuali siriani…Ecco, potremmo cominciare ad ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, le dittature locali e il terrorismo jihadista.
Lo sa bene Assad e lo sanno tutti i responsabili del fiume di sangue che scorre: la violenza è utilissima, funziona, impedisce di ricordare e non permette che la società civile si organizzi. Perché la società e la guerra sono incompatibili. E anche la resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Ci sono persone “normali” che in Siria lottano per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa. Ci sono e sono ancora migliaia.
E’ bastata una breve tregua, a febbraio, perché uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade – le rovine – risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica. Non è assolutamente vero che non ci siano interlocutori che potremmo appoggiare apertamente. Prima che vengano uccisi tutti.
Ogni volta che scriviamo sulla Siria è per aggiungere morti e rovine ad una lista infinita. I bombardamenti indiscriminati su Aleppo delle ultime settimane e la situazione stessa della città, assediata e affamata dal regime e dai suoi alleati, difesa da milizie ribelli diverse e talvolta contrapposte tra loro, danno la misura esatta della tragedia che la Siria sta vivendo e della complessità crescente che la guerra alimenta. A ogni morto aumentano le tensioni incrociate, si aggrava la responsabilità di tutti gli attori, si allontana la pace e con lei, naturalmente, la giustizia e la democrazia. Come diceva un manifesto firmato a metà settembre da 150 artisti e scrittori siriani, «il mondo oggi è un problema siriano, come la Siria oggi è un problema mondiale».
Si tratta indubbiamente di una questione complessa. E quando, dall’Europa, si affronta una questione complessa, è necessario porsi due domande. La prima è: cosa vogliamo. La seconda è: cosa possiamo fare.
Sicuramente in una situazione complessa non potremo mai ottenere tutto quello che vogliamo, ma è bene sapere cos’è. Cosa vogliamo per la Siria? Le stesse cose che vogliamo per qualsiasi altro Paese del mondo, le stesse cose per le quali lottiamo nei nostri Paesi: sovranità economica, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani, democrazia piena, un futuro per i nostri figli e figlie.
Cosa possiamo fare? Prima di tutto, se riconosciamo che si tratta di una situazione complessa, possiamo fare una cosa: non semplificarla. Ciò implica riconoscere che gli ostacoli che si frappongono tra noi e quello che vogliamo – sovranità, giustizia, diritti umani, democrazia – sono molti e intricati, e non si lasciano imbrigliare in un racconto lineare. Cinque anni e mezzo fa, quando ebbe inizio la rivoluzione siriana, le cose erano più semplici. L’ostacolo era principalmente uno: il regime dinastico degli Assad, contro il quale buona parte del popolo siriano si sollevò pacificamente.
Cinque anni e mezzo dopo, con la Siria trasformata in un poligono di tiro di decine di milizie e più di sessanta paesi, quel regime – insieme ai suoi alleati – continua ad essere il responsabile della maggior parte delle vittime civili (fino al 95%), della maggior parte delle violazioni di diritti umani (almeno 6.786 detenuti morti sotto tortura), della maggior parte dei rifugiati esterni e interni (rispettivamente 5 e 12 milioni), di 287 sui 346 attacchi compiuti contro strutture sanitarie e di 667 sui 705 morti tra il personale sanitario, nonchè dell’assedio che affama villaggi e città con centinaia di migliaia di abitanti, sempre secondo fonti pienamente affidabili.
Nemmeno lo Stato colombiano è arrivato mai a tanto contro il suo popolo; forse solo Franco, durante e subito dopo la guerra civile spagnola. Ma questo per la Siria non è solo il passato: continua ad essere il suo presente, e la più elementare decenza dovrebbe impedirci di dimenticarlo.
Ma cinque anni e mezzo dopo ci sono ancora altri ostacoli. Se parliamo del regime, è indubbio che questo sarebbe stato sconfitto già da tempo se non ci fossero stati gli interventi della Russia, dell’Iran e di Hezbollah che occupano letteralmente il Paese e determinano sia il corso della guerra, con le loro bombe e le loro truppe, sia la politica di Bachir Assad. Non è molto diverso quello che accadde in Iraq, quando gli occupanti statunitensi permisero che alcuni tra questi stessi attori distruggessero il tessuto sociale resistente, puntellando così il regime nato dall’invasione. Sono gli stessi che mantengono in piedi la dittatura in virtù di interessi diversi che a volte si traducono anche in piccoli conflitti sotterranei.
La Russia, il cui Parlamento ha da poco approvato la presenza permanente di basi russe in Siria, mantiene il polso fermo con gli USA e con l’Unione Europea ai quali fa scontare l’aggressiva e sbagliata politica anti-russa in Europa, con lo sguardo puntato più che altro sull’Ucraina. Ma la Russia è un alleato fondamentale di Israele e ha impedito che l’Iran installasse una base logistica vicino alle alture del Golan occupato, mentre l’Iran, che ha negoziato con gli USA la questione nucleare, è considerato da Israele -e considera Israele- come un nemico irriducibile. La Russia, in ogni caso, è direttamente responsabile della morte di migliaia di civili in tutta la Siria e in particolare ad Aleppo, città contro la quale ha scatenato nelle ultime settimane un’offensiva aerea indiscriminata.
Un altro ostacolo rilevante è ovviamente lo Stato Islamico, oggi in ritirata, utilizzato come un jolly da tutti quelli che ufficialmente dicono di combatterlo: a partire dal regime siriano al quale interessava radicalizzare il conflitto militare e che ha attaccato molto poco il gruppo di Al-Baghdadi, per arrivare alla Turchia, alleata dell’UE e degli USA, molto compiacente verso i jihadisti, dei quali si è servita nella sua guerra contro i curdi.
Accanto allo Stato Islamico, atroce padrone di se stesso, ci sono altri gruppi islamisti dipendenti da potenze regionali che ostacolano un progetto di sovranità e democrazia e che complicano ancora di più la situazione. Il più conosciuto di tutti, e il più forte, è Jabhat Fath Al-Sham, già Jabhat-al-Nusra, fino a qualche mese fa diramazione siriana di Al Qaeda. Le milizie di Abu Mohamed al-Jolani hanno fagocitato altri gruppi e rafforzato la propria influenza grazie ai finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, soprattutto dall’Arabia Saudita ed anche perchè, a differenza dell’autistico Stato Islamico nel suo territorio parallelo, combattono senza sosta contro il regime e contro gli eserciti occupanti.
Infine, ad ostacolare la pace e la democrazia, c’è Israele, molto compiaciuta dell’agonia siriana, che gestisce il caos a distanza e intanto consolida l’occupazione della Palestina e asfissia silenziosamente i palestinesi; c’è la Turchia, la cui priorità è quella di combattere i curdi, appoggiati dagli USA (un’altra contraddizione spesso ignorata) e che, dopo il contro-golpe di Erdogan, in caduta libera verso la dittatura, si avvicina alla Russia, all’Iran e perfino al regime di Assad; c’è l’Unione Europea, inutile e narcisista, preoccupata solo degli attentati sul suo territorio e dell’arrivo dei rifugiati, due problemi che essa stessa aggrava con le sue politiche antiterroriste; e naturalmente ci sono gli Stati Uniti, padri di tutte le miserie, che nel 2003 invasero l’Iraq per “ragioni umanitarie” aprendo la porta ai cavalieri dell’Apocalisse e che, come già fatto con Israele e Palestina, abbandonano ora i siriani nelle mani di Bachir Assad nonché, indirettamente, del jihadismo finanziato dai loro alleati: gli interessi di Washington non passavano, e non passano, dalla democratizzazione della Siria.
Quando gli USA sono alla fine intervenuti, lo hanno fatto per trasformare la Siria in un falso campo di battaglia della “guerra globale contro il terrorismo”, rilegittimando il ruolo di Assad e sganciando bombe che, come già dimostrato in passato, oltre ad uccidere persone innocenti, fungono da lievito per la violenza che dicono di voler combattere. Bisogna ripetere ancora una volta che l’espansione dello Stato Islamico, sia in Iraq che in Siria, è la conseguenza e non la causa della precedente demolizione dello stato sociale che invasori, regimi e agenti regionali hanno portato a termine coscienziosamente per consolidare il proprio dominio ed evitare un cambiamento in senso democratico nella regione.
Giustificare il mantenimento dei regimi di Damasco e di Baghdad, illegittimi, criminali e corrotti, con l’espansione dello Stato Islamico (idea sulla quale convergono gli USA e alcuni settori della sinistra europea) è una paurosa dimostrazione di cinismo o di ignoranza: è falsa, così come è pericolosa la dicotomia tra il regime di Bachir Assad e lo Stato Islamico. Ed è certo che gli USA, che hanno finanziato ed addestrato in Giordania le milizie che combattono contro Assad, hanno finanziato ed addestrato anche le milizie sciite irachene che lo sostengono.
Cosa possiamo fare di fronte a un problema complesso, che sta costando migliaia di vite umane? Prima di tutto, non semplificare. Le righe che precedono costituiscono, ci sembra, un piccolo campionario delle complessità che bisogna affrontare e che non possono ridursi a una cifra gestibile con un abracadabra geopolitico del XX secolo. Se vogliamo per la Siria le stesse cose che vogliamo per noi – giustizia, sovranità, diritti umani, democrazia, un futuro per i nostri figli e figlie – è necessario comprendere, a partire da questi dati, che la soluzione passa dalla rottura del ciclo “intervento/ dittature locali/ jihadismo terrorista”, come si è cercato di fare durante le rivolte del 2011 e che questo esclude, realisticamente, qualunque ruolo della dinastia Assad dal futuro della Siria.
Come ripete instancabilmente la nostra ammirevole Leila Nachawatii: “più Assad, più Stato Islamico” e quindi, aggiungiamo noi, più interventi esterni. Nè l’etica nè la politica, e tanto meno una commistione delle due, può concedere – per principio o per pragmatismo geostrategico – un solo centimetro del timone a un criminale di guerra che la maggioranza del popolo non accetta più come governante e con il quale non è disposta a negoziare.
Gli USA devono tenere ferma l’Arabia Saudita (e Israele), ma sono la Russia e l’Iran gli unici che possono sbloccare la situazione tirando fuori Assad dal palazzo di Damasco. In questo senso, è molto triste che una parte della sinistra europea continui ad allinearsi con l’estrema destra a favore del regime siriano e della Russia di Putin, e che si esprima in questo senso perfino al Parlamento Europeo. Come abbiamo già evidenziato altrove, se non bastasse l’attuale azione genocida contro il suo popolo, c’è il passato di questa dinastia, il suo ruolo di gendarme regionale, la sua complicità con Israele e il suo appoggio agli USA durante la prima e la seconda guerra del Golfo, a rendere ancora più sciocco l’atteggiamento di questa sinistra che si può attribuire ormai solo ad un riflesso pavloviano ereditato dall’eclissata Guerra Fredda.
E allora, cosa possiamo fare? Non semplificare e tirare delle conclusioni. Ma possiamo fare anche di più. Possiamo ascoltare i siriani che lottano per le stesse cose per cui lottiamo noi, però giocandosi la vita; quelli che vogliono giustizia, autodeterminazione, diritti umani e democrazia, quelli che scommettono di poter spezzare il ciclo di interventi multinazionali, dittature locali e terrorismo jihadista. Lo sa molto bene Bachir Assad, come lo hanno sempre saputo molto bene gli Stati Uniti: la violenza è utilissima, la violenza funziona, la violenza rinnova tutte le pulsioni e impedisce di ricordare i motivi della lotta e impedisce anche che, a partire da quel ricordo, la società civile si organizzi. La società e la guerra sono incompatibili.
La resistenza civile e la guerra sono incompatibili. Forse non ci sono dei siriani normali che lottano in Siria per le stesse cose per le quali noi lottiamo in Europa? Ci sono e sono ancora migliaia. E’ bastata una breve tregua a febbraio perchè uscissero nuovamente in strada, a manifestare contro il regime e contro l’Isis, e anche contro Jabhat Al-Nusra nella provincia di Idlib, dando vita a un movimento che resiste ancora. Altrettanto è successo durante la più recente e precaria tregua, dopo l’accordo -già rotto- tra Russia e USA: basta un momento di pace, una sospensione dello tsunami assassino, perché le strade -le rovine- risuonino di resistenza civile e volontà di organizzazione politica.
Il ricercatore Félix Legrand, in un lavoro molto meticoloso, analizza la strategia di Jabhat Al-Nusra nei diversi territori e mostra un rapporto direttamente proporzionale tra le tregue e l’indebolimento della sua legittimazione sociale. La conclusione di Legrand è che a Jabhat-al-Nusra, così come al regime ed ai suoi alleati russi, non interessano le tregue: la dittatura e i jihadisti possono respirare solo in battaglia. Entrambi sanno che appena cessano di cadere bombe su una città, la società civile superstite riprende terreno con le sue richieste di pace e democrazia contro, al tempo stesso, il regime di Assad, gli interventi multinazionali ed i jihadisti.
Non è vero, non è assolutamente vero che non ci sia un interlocutore sociale, politico e militare siriano che potremmo appoggiare apertamente: non lo vediamo forse tutti i giorni? Non vogliamo vederlo tutti giorni, sotto l’atroce violenza che il popolo siriano subisce da cinque anni e mezzo? Chi ha ancora qualche dubbio in proposito, che non ne abbia sul fatto che il silenzio o la complicità reale di alcuni settori della sinistra europea stanno contribuendo a far sì che questo interlocutore si dissolva, impotente, tra le ondate di rifugiati e le montagne di cadaveri.
Possiamo quindi capire, trarre conclusioni e solidarizzare con i siriani che soffrono e, in particolare, con quelli che soffrono perchè ambiscono alle stesse cose cui ambiamo noi: sì, proprio le nostre stesse cose. E’ vergognoso che la destra governante europea, che soffia sul fuoco, si sia impadronita del discorso sulla Siria, in termini oscenamente “umanitari”, mentre una parte della sinistra non solo glielo consegna, ma “reprime” le mobilitazioni contro la guerra e criminalizza quelli che si rifiutano di fare distinzioni tra le bombe della Russia e quelle degli USA, quando entrambe uccidono bambini e impediscono la democratizzazione e l’autodeterminazione nell’area.
Mentre l’Arabia Saudita appoggiava le milizie più retrograde e assassine, la sinistra spagnola, in buona compagnia dei fascisti francesi, polacchi o italiani, sosteneva Bachir Assad e visitava il suo palazzo. Nel frattempo la sinistra siriana (pensiamo a Yassin Al Haj Saleh o a Salameh Keileh, ancora vivi) perdeva logicamente la battaglia sul fronte interno; e la minoranza superstite, decimata dall’esilio e dalla morte, insieme al popolo siriano maciullato, continua a lottare contro tutti i nemici del mondo, compresi quei sinistrorsi europei che tanto hanno gridato, giustamente, contro l’invasione dell’Iraq e ora tacciono davanti ai crimini della Russia.
l manifesto, 13 ottobre 2016
«Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente e i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’ sui loro cacciabombardieri perché è osceno”: così parla nel finale di Apocalipse Now il maggiore dei Berretti verdi Kurz (Marlon Brando). La frase sintetizza bene l’attuale ipocrisia occidentale. Oscena dovrebbe essere la guerra, ma indignano solo le parole, quelle del magnate isolazionista Donald Trump, sessista e razzista, il peggio dell’America e forse proprio per questo candidato repubblicano alle presidenziali Usa. Che decidono il destino-declino americano, ridotto a scontro su infedeltà coniugali contrapposte, che chiamano in causa anche le responsabilità di Hillary Clinton, private e pubbliche.
Non ha indignato infatti che i due si siano rincorsi a chi dava più ragione a Netanyahu su come opprimere meglio i palestinesi. The Donald promettendo che con lui presidente «Gerusalemme sarà capitale indivisa dello Stato d’Israele». Un’altra bomba in Medio Oriente, come la dichiarazione di Clinton di «non intromissione tra le parti», mentre il governo israeliano estende le colonie, l’Anp perde ogni autorità e la situazione nei Territori occupati degenera.
Né è osceno che Trump riapra la partita nel cortile di casa, dal muro anti-migranti con il Messico alla sospensione degli accordi con Cuba, del resto mai definiti.
Né ripugna l’allegro teatrino sulla Siria, con schieramento atlantico al completo ad accusare solo la Russia di crimini di guerra per Aleppo. Ha cominciato Obama, poi sul finire di un mandato inutile Ban Ki-moon, subito Gentiloni si è accodato, poi è arrivato Hollande e ieri il ministro degli esteri britannico Johnson, quello della Brexit. Ma voi accettereste che un serial killer salga con autorevolezza sul banco dell’accusa per denunciare un altro serial killer? Perché ci dimentichiamo degli ospedali afghani, yemeniti e siriani colpiti dai raid americani negli ultimi mesi?
Sono crimini di guerra anche quelli, ma gli Usa si scusano, e basta. Certo, i raid aerei russi sono criminali, vanno denunciati, perché si aprano corridoi umanitari per i civili, perché fanno strage di inermi. Urge un cessate il fuoco, implorato in queste ore dal papa che nel settembre 2013 impedì con la preghiera del mondo un altro intervento americano. Mentre scriviamo intanto si annuncia la ripresa del dialogo per sabato. Perché l’obiettivo, almeno quello dichiarato non era forse quello di sconfiggere lo Stato islamico che tiene in ostaggio - dell’espressione scudi umani si è fatto spreco, ma ora non la dice nessuno - gli abitanti della bella e martoriata Aleppo?
E’ così vero che lo stesso inviato dell’Onu Staffan De Mistura ha invitato Al Nusra (Al Qaeda) ad uscire da quell’assedio offrendosi di scortarne altrove i miliziani qaedisti.Insomma, è osceno che nella fase attuale e in procinto delle presidenziali Usa, sia sparito dall’agenda l’Isis. Probabilmente perché emergerebbero le responsabilità occidentali e dell’Amministrazione Usa che ha ereditato le devastazioni politiche delle guerre precedenti, di Bush e di Bill Clinton, in Iraq e in Afghanistan, innestando nuove avventure militari in Libia e poi in Siria.
Per entrambe Obama era riottoso ma venne tirato dentro proprio dall’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton (non solo con le mail). Adesso Obama la sponsorizza nei comizi, preoccupato del «mondezzaio Trump», ma solo a marzo denunciava lo «spettacolo di merda» dato dagli Stati uniti con il fallimento della guerra del 2011 che spodestò nel sangue Gheddafi.
Fatto da non dimenticare la Russia è arrivata un anno fa nella crisi siriana a togliere le castagne dal fuoco proprio agli Usa, impantanati in un altro fallimento, con l’assenza di legami con l’opposizione armata che volevano sostenere, l’ammissione di avere, più o meno consapevolmente, sostenuto il jihadismo armato, in più con la delega sostanziale della crisi all’alleata Turchia del Sultano Erdogan. Che intanto riprendeva la strategia ottomana, sostenendo il jihadismo con armi e traffici di petrolio e rioccupando parti dell’Iraq e della Siria. Tornò sulla scena Putin, dopo l’abbattimento dellaereo civile russo, quasi d’accordo con Obama, cominciando a coordinare le azioni militari sia con gli Usa e con la Francia, che bombardava dopo gli attacchi terroristi sul suolo francese.
Ora la Russia sembra al bando, Il Corriere della Sera ieri apriva in modo poco veritiero con «Il clima di guerra in Russia, incitata dal Cremlino a prepararsi allo scontro con l’Occidente», torna a forza la semi-guerra fredda, un vintage destinato solo a peggiorare. Putin torna, come in Ucraina, a vestire i panni del nemico ritrovato.
Ripetiamolo: i suoi bombardamenti sono criminali, com’è crimine di guerra colpire un ospedale. Ma quanti ospedali hanno bombardato gli Stati uniti in quest’ultimo periodo facendo stragi di civili? L’osceno della guerra naturalmente è di parte. Mentre si nasconde che a far fallire la tregua – difficile se non impossibile, basata sul riconoscimento sul campo di chi era estremista e chi no – stabilita solennemente il 10 settembre da Serghei Lavrov e John Kerry, è stato il bombardamento americano, «per errore», del 17 settembre scorso di una caserma di Assad a Deir Er Zour, assediata dai jihadisti, provocando la morte di 90 soldati siriani. Da lì è apparso chiaro che la battaglia di Aleppo (con quella di Mosul in Iraq e di Sirte in Libia che da agosto non cade) è entrata nella campagna elettorale americana.
Chi vince ad Aleppo ha vinto la guerra, impossibile quindi subire la sconfitta e lasciare l’eredità di uno smacco. La battaglia dunque deve oscenamente continuare, pur sapendo che non ci sarà tavolo negoziale, perché l’opposizione «democratica» non esiste e coordina il suo ruolo militare con i jihadisti e con Al Nusra (ha cambiato nome ma è sempre affiliata ad al Qaeda). E nessuno riesce ad immaginare di negoziare la pace con il peggiore jihadismo armato. Ma lasciare alla Russia la patente di essere rimasta l’unica a combattere davvero l’Isis può essere ancora più miope e pericoloso. Del resto di questo approfitta Putin, che recupera economicamente il Sultano Erdogan e mina l’alleanza militare occidentale con l’Egitto.
Di questo smacco Usa approfitta il ripugnante Trump per «tornar a fare grande l’America». Un caos osceno. Quello della guerra.
L'infamia di una guerra che da decenni priva d'ogni diritto un popolo incolpevole, vittima di un governo immemore della tragedia che ha provocato il suo approdo in una terra d'altri. La Repubblica, 13 ottobre 2016
UN SOLE impietoso picchia sulla tettoia del lungo percorso forzato — una gabbia lunga 1 chilometro e mezzo — che bisogna percorrere per entrare a Gaza dal valico di Erez. È deserto per chi entra, ma anche per chi fa il percorso inverso. Una tigre, alcune tartarughe, uno struzzo e due scimmie sono stati salvati da morte sicura e sono usciti da qui, diretti verso altri zoo in Cisgiordania o in Giordania nelle scorse settimane.
Questa è l’unica buona notizia che si può dare da Gaza, la prigione più affollata del mondo. Insieme a loro solo una manciata di umani in queste settimane ha ricevuto da Israele il permesso di uscita. Permessi umanitari, patrocinati dalla Cri, di malati terminali bisognosi di cure in ospedali più attrezzati dell’Al Shifa di Gaza City. «Hai visto che le scimmie possono uscire e i gazawi no?», ci scherzano su gli abitanti della Striscia. Ironia e creatività ancora non sono andati perduti. Negli ultimi sei mesi Israele ha rafforzato i divieti di uscita già ridotti al minimo, nella convinzione che Hamas “sfrutti quelli che possono uscire per i loro scopi”. Questa lingua di sabbia, che secondo l’Unicef è il posto peggiore dove venire al mondo per un ragazzino, ha giusto superato ieri con un neonato di Rafah, Walid, i due milioni di abitanti.
Negli ultimi anni Israele dopo 4 guerre (2006, 2009, 2012, 2014) ha reso soffocante l’assedio. I gazawi non ce la fanno a lavorare per sostenersi perché l’esportazione da Gaza non è consentita, aumentare la produzione è impossibile dopo le distruzioni belliche e nessuno può lasciare la Striscia. Gaza è impantanata nei suoi liquami perché non è permessa l’importazione di pompe e idrovore. I 100.000 senza tetto della guerra del 2014 vivono ancora in tende sulle macerie della loro casa. Hamas si impadronisce del cemento per i tunnel, accusano gli israeliani, ed è vero. Ma è anche vero che quei 100.000 senza tetto non hanno niente a che vedere con gli islamisti, le case dei miliziani sono già state riparate o ricostruite da tempo. L’acqua resta imbevibile perché Gaza deve accontentarsi della sua falda acquifera costiera, rovinata dal pompaggio selvaggio, dai liquami e dalle infiltrazioni di acqua salmastra. Malnutrizione, parassiti e altre malattie combinate con povertà, disoccupazione e inquinamento ambientale renderanno questo posto un luogo inabitabile entro i prossimi tre anni, prevede l’Onu. Il 2020 è solo dopodomani. Se fosse uno Stato, Gaza sarebbe tra gli ultimi del mondo insieme a Haiti e al Burkina Faso.
Adesso anche chi entra affronta una palese ostilità. Per entrare nella “Repubblica Islamica di Hamas” serve un visto che i barbuti che governano la Striscia difficilmente rilasciano, all’ingresso si viene sottoposti a un interrogatorio stringente come quando un occidentale tentava di passare a Berlino Est negli anni ’60 e ’70. Il funzionario prende appunti fitti su un’agenda rossa. I reporter stranieri sono assimilati al nemico, questo il mantra che viene ripetuto in ogni momento. Hamas non vuole che occhi stranieri vedano che non sta ricostruendo Gaza, ma solo le proprie capacità militari. «Un’altra guerra», dice infatti l’Idf, «è solo questione di tempo». Per questo Israele è in corsa contro il tempo per completare una barriera di cemento alta 9 metri sopra il suolo e che penetra per altri 6 nelle sabbie lungo tutto il perimetro della Striscia, nella convinzione che così i tunnel si possano bloccare.
Di questa guerra subiranno le conseguenze prima ancora dei miliziani di Hamas i due milioni di abitanti della Striscia, seicentomila dei quali ha meno di 16 anni. Una gioventù spalmata su tre generazioni che ha conosciuto solo guerre. L’esplosione demografica – oltre il 4% - e le distruzioni di molti edifici scolastici obbliga i ragazzi a tre turni al giorno. Un milione e 100.000 abitanti della Striscia sono attualmente assistiti dall’Unrwa, senza l’Onu non mangerebbero due pasti al giorno.
In questo dramma umano collettivo, Hamas che ha visto crollare i suoi introiti sul contrabbando dai tunnel con l’Egitto ha imposto nuove tasse per tutti, sul latte, sulle sigarette, la frutta, la farina e la verdura.
Alla fine il movimento islamista è quasi l’unico imprenditore per cui lavorare se a Gaza non vuoi morire di fame. Attualmente il mestiere meglio pagato è quello di “desert rat”, il topo che scava le gallerie, i tunnel nella sabbia. Sono 2500-3000 shekel al mese (500 dollari Usa), uno stipendione per la Striscia, e la certezza che se si muore nel crollo la famiglia verrà indennizzata. I “desert rats” sono quasi 2.000 e ricevono premi e incentivi se riescono a rispettare i tempi. È un’attività che viaggia 24 ore su 24. Basta una rischiosa passeggiata – sul limitare del confine con Israele, dove si vedono nettamente le fattorie e i kibbutz dall’alto lato della rete spinata - per sentire con frequenza tremolii nel terreno, colpi sordi che si ripercuotono nella notte. «Ecco», mi dice il mio accompagnatore, «questi sono i tamburi di guerra di Hamas». Qui si stanno scavando i tunnel di “attacco” contro Israele, che nel 2014 furono la vera sorpresa di Hamas, altri mascherati fra le macerie vengono scavati a Gaza City. Una rete di tunnel attraversa la città in diversi sensi, sono depositi per pick-up, armerie, alloggi per i boss islamisti e perfino un ospedale da campo. Tutti sanno del “mondo di sotto” qui a Gaza ma nessuno ne parla, perché anche il proprietario di un campo agricolo o di una casa sa di essere il padrone soltanto “sopra” perché “sotto” comanda Hamas.
Il campo profughi di Shati si affaccia sulle acque inquinate del Mediterraneo. Fino a qualche settimana fa anche solo per transitare nella zona si veniva sottoposti a un minuzioso controllo da parte di miliziani armati fino ai denti. La sicurezza del “premier” Ismail Haniyeh vegliava su quel reticolo di strade dove abitava insieme alla sua famiglia. Adesso i gabbiotti sono vuoti e qualcuno si fa perfino un selfie sulla sua porta di casa. Scortato da dieci guardie del corpo Haniyeh – che entro la fine dell’anno sarà eletto alla guida di Hamas rimpiazzando Khaled Meshaal – ha passato il confine con l’Egitto ed è già in Qatar dove il movimento ha messo il suo Quartier Generale dopo la “fuga” dalla Siria. Uno stile diverso per il leader di Gaza, villa, grandi alberghi, viaggi nel Golfo, privilegi e Mercedes blindate. Un’altra vita.
Su chi riempirà il vuoto che lascia Haniyeh ci sono pochi dubbi, l’ala militare di Hamas che già agisce come un corpo separato dall’ala politica prenderà il sopravvento. “The Shadow”, Mohammed Deif, che i missili israeliani hanno provato per sei volte a uccidere è al timone delle brigate Ezzedin al Qassam, Yahia Sinwar serve come “ministro della Difesa” e da collegamento con l’ala politica. Sotto di loro, Marwan Issa – l’aiutante di campo di Deif – si occupa delle capacità militari del movimento, delle brigate e dei rifornimenti di armi, con un bilancio che si aggira sui 100 milioni di dollari l’anno. A titolo di confronto il budget dell’ultimo governo di Hamas – che si sciolse nell’aprile 2014 – è stato di 530 milioni di dollari.
Nonostante l’impegno del governo egiziano che ha allagato oltre cinquecento tunnel lungo la frontiera di 13 chilometri segnata dalla Philadelphia Road, i tunnel continuano ad essere in attività. Certo, nel ventre scavato di Rafah non passano più auto e camion come ai “tempi d’oro”, ma sotto il naso dei soldati egiziani i tunnel sono ancora decine. Lo scorso mese ne è stato scoperto uno lungo 2,5 chilometri. In questo business del contrabbando gli emiri dello Stato Islamico del Sinai svolgono un ruolo attivo, lavorando a stretto contatto con i comandanti militari di Hamas del sud. Il movimento nega relazioni con l’Isis ma alcuni islamisti egiziani responsabili del coordinamento con Hamas risiedono nell’enclave costiera “ospiti” dell’ala militare. Il contagio salafita si sta diffondendo, l’ultima delle piaghe di Gaza.

». il manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Davvero è sempre tutto grasso che cola? Prendiamo in esame la città dove tutto sembra risplendere, il laboratorio dell’innovazione che dovrebbe prendere per mano l’Italia – come dice il presidente del Consiglio. Qui, a Milano, tutti gli indicatori promettono benessere e una certa spensieratezza. I turisti accorrono (7,7 milioni nel 2016, 14esima città del mondo più visitata, un paio di posizioni sopra Roma), la popolazione cresce (172 mila abitanti in più negli ultimi dieci anni), i giovani laureati trovano lavoro e il reddito pro capite continua ad aumentare anche in tempo di crisi (negli altri capoluoghi lombardi è accaduto il contrario). Bene.
Ma non è tutto. Ci sono altri indicatori che raccontano la città, solo che vengono sbandierati con meno insistenza: a Milano, per esempio, 13 mila minorenni non hanno da mangiare e ricevono il cibo da strutture assistenziali. Il dato è stato fornito ieri dal Banco Alimentare che ha dipinto un quadro a dir poco desolante, per l’Italia intera. Secondo l’associazione, gli indigenti lombardi sono 670 mila (100 mila in più rispetto all’anno precedente).
Fra questi, circa 60 mila non hanno ancora compiuto 18 anni. A livello nazionale, i minori che patiscono la fame sono un milione e 131 mila. Dal 2008 ad oggi l’incidenza della povertà assoluta sulle famiglie con più figli a carico è aumentata del 250%: “La loro crescente vulnerabilità è legata alla disoccupazione dei genitori”. In tutta Italia (dati Istat) si contano quasi 4 milioni e 600 mila poveri. In totale, i pasti inseriti nei pacchi viveri sono stati 29 milioni e 5 milioni quelli cucinati dalle associazioni: 93.400 pasti distribuiti ogni giorno (lo spreco di cibo in Italia viene quantificato in 5,1 milioni di tonnellate all’anno).
Tocca all’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, approcciarsi in qualche modo con l’altra Milano che non riesce a raccogliere nemmeno le briciole. “Stiamo per partire con un’iniziativa di sostegno per le famiglie impoverite dalla crisi, con buoni spesa che mettiamo a disposizione delle famiglie più bisognose che possono essere spesi presso alcuni negozi accreditati, perché il rischio è che la povertà si abbatta tra i più fragili, cioè i figli piccoli delle famiglie povere”. Per gli ultimi due mesi dell’anno Palazzo Marino mette a disposizione 750 mila euro. Nel 2017 l’intervento di sostegno dovrebbe essere reiterato.

«i». Il Fatto Quotidiano online\F2 Magazine/ Attualità,12 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il male di vivere mai nascosto, una malinconia spessa e nebbiosa come le strade d’inverno della sua Monterosso, «poesia che molto all’ingrosso si può dire metafisica», l’odore dei limoni. Eugenio Montale lo studi a scuola e poi quasi te ne dimentichi, conservando il vago ricordo di quella che a tredici anni t’era sembrata una cupezza troppo incombente.
Te ne dimentichi, come sembra essersene dimenticata la sua Genova: «Il centoventesimo compleanno di Eugenio Montale, nato a Genova il 12 ottobre del 1896 – scrive Donatella Alfonso su Repubblica – passa praticamente sotto silenzio. In corso Dogali, sul grande palazzo in curva dove il poeta era nato, una targa in marmo sbiadisce tra sole e pioggia».
Autodidatta, Montale pubblica la sua prima raccolta di liriche nel 1925, Ossi di seppia. Alla fine della Seconda Guerra mondiale si iscrive al Partito d’Azione e inizia un’intensa attività giornalistica per il Corriere della Sera. Senatore a vita nel 1967, nel 1975 arriva il Nobel per la Letteratura. Nel suo 120esimo compleanno, alcune poesie e aneddoti, per provare a colorare quei ricordi adolescenti fatti di banchi troppo piccoli e cattedre incombenti.
Ho sceso dandoti il braccio (Composta nel 1967 è dedicata alla moglie Drusilla Tanzi. E’ la poesia n.5 di Xenia II)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Prima del viaggio (Satura 1962 – 1970)
Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le prenotazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio s’informa
qualche amico o parente, si controllano
valige e passaporti, si completail corredo,
si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un’occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla; prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
E ora, che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
ch’è una stoltezza dirselo.
«Il criterio seguito da Bergoglio è quello di una rappresentanza non ancorata al prestigio, alla forza o alla tradizione cattolica di una nazione».Internazionale online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)
Superata la boa dei tre anni e mezzo di pontificato e mentre si avvicina la fine del giubileo della misericordia (il 20 novembre), Jorge Mario Bergoglio prosegue nel suo tentativo di capovolgere le gerarchie e i poteri che governano la chiesa. Su questa strada sta incontrando oppositori interni e consensi. Il metodo scelto da Bergoglio è in ogni caso quello di una trasformazione progressiva e non traumatica, destinata a lasciare il segno, almeno nelle intenzioni, per lungo tempo. Resta da vedere se la riforma riuscirà sul serio a prendere il largo e a rafforzarsi, se insomma nel futuro della chiesa ci sarà un Pio XIII – per dirla con il regista Paolo Sorrentino – o invece un altro vescovo che viene dalla “fine del mondo”.
Il papa una strada l’ha indicata, come emerge anche dall’ultima serie di nomine cardinalizie da lui annunciate all’angelus di domenica 9 ottobre. La cerimonia di consegna delle berrette rosse avverrà il giorno prima della fine dell’anno santo della misericordia, il 19 novembre in piazza San Pietro. Francesco si appresta dunque a dare 17 nuovi cardinali alla chiesa universale, ma i nuovi elettori in un eventuale conclave – cioè quelli con meno di 80 anni – sono 13.
Tra di loro c’è un solo italiano, monsignor Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. Zenari tuttavia non viene “premiato” con la dignità cardinalizia per aver terminato il suo incarico, ma resta – come ha precisato il papa – «nell’amata e martoriata Siria». Al nunzio, uomo super partes, non colluso né con il regime di Assad e i suoi alleati né con i gruppi ribelli, e tanto meno con il gruppo Stato islamico, resta il compito di ricordare al mondo la ferocia di un conflitto interminabile. Lo stesso diplomatico vaticano ha più volte ripetuto che le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario di guerra hanno provocato enormi sofferenze alla popolazione civile siriana di tutte le fedi e di tutti i gruppi etnici. La scelta di Zenari da parte del papa, inoltre, indica un metodo generale: la nomina cardinalizia non può essere il punto d’arrivo di fortunate carriere, ma deve connotare un servizio alla chiesa.
Con le ultime nomine, a partire dal 19 novembre i cardinali elettori saranno 121 (228 compresi quelli che non entreranno in conclave). Nei suoi tre concistori Francesco ha nominato finora 56 cardinali, di cui 44 con diritto di voto. Il fattore Bergoglio, insomma, comincia a sentirsi nel sacro collegio ed è destinato ad avere il suo peso nel conclave del futuro. Anche perché nei prossimi mesi diversi altri porporati supereranno la fatidica soglia degli 80 anni, per cui è immaginabile che il papa, se sarà ancora al suo posto, procederà a colmare quei vuoti. Il numero da tenere presente è quello di 120 elettori, indicato da Paolo VI come riferimento.
Ma i numeri ci dicono pure altro e aiutano a capire come stanno cambiando le cose. Degli attuali 121 elettori, 54 sono europei, 17 nordamericani, 13 latinoamericani, 4 centroamericani, 15 africani, 14 asiatici, 2 dell’Oceania. Con questi dati è possibile fare varie combinazioni, tuttavia un fatto risulta evidente: esiste una maggioranza extraeuropea significativa. Di certo il criterio dell’appartenenza geografica non è l’unico da tenere presente, ci sono diversità d’opinione e di sensibilità trasversali, eppure la tendenza è chiara: l’asse della chiesa si sta spostando al di fuori del vecchio continente che tuttavia continua ad avere ancora il suo peso.
Non solo: se “periferie” è parola chiave del pontificato, guardando all’insieme delle scelte cardinalizie, il criterio seguito in modo costante da Bergoglio è quello di una rappresentanza quanto più possibile vasta e articolata e non ancorata per forza al prestigio, alla forza o alla tradizione cattolica di una nazione. Così Haiti, Tonga, le isola Maurizio, la Papua Nuova Guinea, Panama, il Burkina Faso, l’Etiopia, solo per citare alcuni casi, hanno un cardinale che porta la voce di queste realtà nel mondo.
Si tenga presente, inoltre, che nei tre concistori, il papa ha nominato solo tre cardinali già vescovi diocesani. Le altre nomine italiane hanno riguardato soprattutto uomini di curia scelti tra i più stretti collaboratori del papa e in molti casi ex nunzi apostolici. Invece, tra i nuovi cardinali appena nominati vanno segnalati Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui (Repubblica Centrafricana), la città dove il papa – a sorpresa – aprì il giubileo della misericordia, in una terra segnata anche dai conflitti interreligiosi. Blase J. Cupich, arcivescovo di Chicago, il primo cardinale nettamente di tendenze liberal in un episcopato dai tratti decisamente conservatori; quindi due nomine europee di peso a Madrid e Bruxelles – Carlos Osoro Sierra e Jozef De Kesel – che pure segnano il ritorno di un cattolicesimo più aperto e in linea con il magistero di Francesco in diocesi importanti del vecchio continente.
La casa bruciava
Nel frattempo, sul fronte per così dire più interno della battaglia tra chi spinge per un ritorno al passato e chi sostiene il cambiamento, si distingue l’ex segretario di Joseph Ratzinger, don Georg Gänswein, la cui appartenenza ai circoli vaticani più conservatori è cosa nota. Il papa emerito ha scritto di recente, con il giornalista tedesco suo amico Peter Seewald, un libro che ha il sapore di un testamento pubblico, Ultime conversazioni. Ratzinger tende a giustificare e addomesticare, forse un po’ troppo, molti passaggi tra i più delicati del suo pontificato: un tentativo di mettere a posto le cose nel quale tra l’altro ammette, e non è la prima volta, di avere scarsa attitudine al governo. Don Georg, da parte sua, ha cercato di trasformare le dimissioni di Benedetto XVI, obiettivamente uno dei fatti storici più clamorosi degli ultimi secoli nella vita della chiesa, in un semplice problema medico-sanitario.
In questo è stato in parte aiutato dalla versione che lo stesso papa emerito ha dato nel libro in questione. Sul Corriere della Sera, ripercorrendo quei passaggi, Gänswein ha infatti scritto: «Il papa emerito continua a chiarire: non si trattò di una fuga, Roma non bruciava, non c’erano lupi che ululavano sotto la sua finestra e la sua casa era in ordine quando riconsegnò il testimone nelle mani dei carissimi fratelli del collegio cardinalizio. Il medico gli aveva detto che non poteva più attraversare l’Atlantico. Ma la Giornata mondiale della gioventù successiva che avrebbe dovuto aver luogo nel 2014 era stata anticipata al 2013 (a Rio de Janeiro, ndr) a causa dei Mondiali di calcio. Altrimenti avrebbe cercato di resistere fino al 2014». Insomma, non potendo fare voli troppo lunghi, il papa lasciava il suo incarico per la prima volta dopo secoli. Una versione quanto meno improbabile ma con la quale si è cercato di accreditare una presunta normalità dell’evento e quindi l’assenza di una crisi gravissima che l’avrebbe determinato.
D’altro canto la casa bruciava eccome, ne è simbolo la celebre foto che immortala Ratzinger mentre consegna a Francesco uno scatolone pieno di carte raccolte dalla commissione interna al Vaticano, composta da tre cardinali e istituita dallo stesso Benedetto XVI, che aveva ricevuto dal papa il compito di indagare – senza fermarsi davanti a nessuna porta – sugli scandali della curia il cui clamore stava mettendo a dura prova la credibilità della chiesa. È poi storia che lo stesso Ratzinger, a dimissioni già annunciate e quindi libero da condizionamenti, nominò a sorpresa il nuovo presidente dello Ior, la banca vaticana, fuori da ogni schema preordinato di potere, nella figura del tedesco Ernst von Freyberg: da lì è cominciato un lungo lavoro di pulizia non ancora concluso.

«».
il
manifesto, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)
Lo sguardo dell’uomo sul Mondo, diceva Walter Benjamin, riflette la forma dei rapporti di produzione. E se i «rapporti di produzione», elabora Foucault, sono governati dalla biopolitica, cioè dalla riduzione della vita al suo valore di scambio, di merce, è facile capire quanto la politica che gestisce gli affari europei non possa vedere i fenomeni migratori nella loro dimensione umana.
Generando così quella solidarietà empatica che darebbe luogo a pratiche di accoglienza radicalmente diverse dalle attuali.
Eccitati ed accecati dall’idea di perdere i privilegi accumulati in secoli di dominio sul resto del mondo «in via di sviluppo», i sempre più cittadini europei si rivolgono alle destre populiste che promettono loro di fermare i migranti «sul bagnasciuga», come nel secolo scorso già affermava il fascismo.
Ma l’eccitazione superficiale, agitata e servita calda dai vari demagoghi continentali, nasconde nella sua profondità una altrettanto grande depressione, generata dall’oscura consapevolezza che ciò che oggi capita ai migranti, domani , ma forse già oggi, potrebbe accadere a chi ancora crede di cavarsela con i muri. Perché se è vero che la Storia non insegna nulla, è altrettanto vero che l’anima non dimentica, che i traumi personali e collettivi vissuti dai singoli e da intere popolazioni, restano nel profondo e riemergono costantemente a ricordare tutto quello checiò che si è vissuto.
Ma per far sì che questa memoria collettiva, fatta di quando l’Europa era un continente di migranti, di bombardati, di sottoposti a feroci dittature, di razzismi verso gli italiani o gli irlandesi, di guerre civili a sfondo religioso, ma anche di resistenza, di affermazione dei diritti umani, di abbattimenti di frontiere, di dialogo, di aiuto ai popoli che uscivano dal colonialismo, possa riemergere come forma della politica, e prima ancora della consapevolezza, bisogna tornare a vedere con gli occhi ciò che abbiamo sotto gli occhi, cambiare lo sguardo sulle cose. Non è forse l’occultamento dei corpi migranti uno dei dispositivi fondanti di questa fase biopolitica? Non è la riduzione dei singoli individui ed individue, di bambini e bambine con nomi, storie, vite, vissuti, diversi, nel grande calderone dei «migranti», morti anche nella ridda dei numeri e delle statistiche?
Rovesciando la logica del respingimento, delle barriere, dell’esternalizzazione dei confini spinati, le associazioni che si impegnano nelle gestione dei migranti sulle banchine siciliane o greche, restituiscono come prima priorità a queste persone il loro volto, la loro identità unica ed irripetibile, non solo la speranza che il dolore vissuto sia servito a qualcosa per le loro esistenze, ma che serva anche a chi li accoglie per cambiare la sua prospettiva sull’ordine delle cose. Perché siamo noi, quelli pronti a gettare al vento secoli di democrazia e convivenza, ad aver bisogno della forza di queste vite almeno tanto quanto loro hanno bisogno di noi.
La politica è prima di tutto uno sguardo. Dallo sguardo attento nasce il riguardo, il guardare due volte, e di conseguenza il rispetto che ha, non a caso, la stessa radice. Il cambiamento parte da una cambio di paradigma per quello che concerne le priorità da affrontare, che non sono più quelle della contraddizione capitale lavoro, ma quelle tra uomo e ambiente e tra generi, genti e generazioni.
Da come si riorganizzeranno le forze antagoniste attorno alle gestione e soprattutto alla soluzione delle emergenze migratorie, si misurerà la possibilità che esista un futuro per tutti e non la pura sopravvivenza di una parte minoritaria sulla maggioranza del vivente.
. La Repubblica
, 12 ottobre 2016 (c.m.c.)
Si sentono come dei fantasmi nel paese in cui sono nati e cresciuti, in cui hanno studiato, di cui parlano la lingua e spesso conoscono le usanze e le leggi molto più di quanto conoscano la lingua, le leggi e le usanze del paese da cui provengono i loro genitori. Sono i ragazzi e i giovani impropriamente definiti della seconda generazione di migranti. Impropriamente perché la maggior parte di loro non è affatto venuta in Italia da un altro paese, ma è nata e cresciuta qui, analogamente ai coetanei italiani. Oppure sono venuti quando erano ancora bambini e qui hanno frequentato le scuole e hanno condiviso esperienze con i coetanei autoctoni.
È passato un anno da quando alla Camera è stata approvata in prima lettura una nuova legge sulla cittadinanza che introduce quello che è stato definito uno ius soli temperato, ovvero con più vincoli di quello in vigore in Francia o Stati Uniti.
Non basta, infatti, nascere in Italia per avere la cittadinanza. Occorre, per i minori nati in Italia, non solo che venga fatta una formale richiesta da parte dei genitori, ma anche che almeno uno dei genitori abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo o, in alternativa, che il minore abbia frequentato almeno un ciclo di studi. Lo stesso requisito, da soddisfare entro i sedici anni di età, è richiesto per i minori arrivati prima dei dodici anni. Per i più vecchi (fino ai venti anni) il requisito si allunga.
Come si vede, si è ben lontani da ogni automatismo, fino a far ritenere a qualcuno che questi vincoli violino sia i diritti dei minori sia il principio di eguaglianza. Eppure, dopo essere stata approvata alla Camera della legge non si è più sentito parlare.
Sommersa da oltre duemila emendamenti, giace al Senato senza che sia annunciata alcuna calendarizzazione, stretta tra la feroce opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, il disinteresse del Movimento Cinquestelle (che alla Camera si è astenuto) e il timore dei partiti governativi di riaprire al proprio interno conflitti irrisolti. A meno che, come qualcuno maliziosamente potrebbe sospettare, i partiti di maggioranza non vogliano utilizzare questo blocco per dimostrare i limiti del bicameralismo perfetto, portando acqua al mulino del sì al referendum costituzionale.
Qualsiasi siano le ragioni, il Parlamento italiano sta dando un’ennesima prova di quanto i diritti civili nel nostro paese godano raramente di attenzione, a fasi alterne e sempre e solo uno per volta, creando sgradevoli gerarchie di priorità oltre che attese lunghissime. È passata, faticosamente, la legge sulle unioni civili, che gli stranieri aspettino pazientemente il proprio turno, se e quando questo arriverà.
I nostri pensosi rappresentanti non sembra siano sfiorati dal sospetto che continuare a tenere ai margini una fetta importante delle giovani generazioni che abitano il nostro paese da tempo avviato al declino demografico non è solo una ennesima dimostrazione che questo è un paese che non investe sui bambini e giovani in generale, non solo su quelli stranieri, un paese occupato dell’oggi e senza attenzione per il futuro. È anche una politica miope proprio nei confronti della integrazione tanto sbandierata come necessità per una immigrazione ben regolata.
Continuare a tenere ai margini, come estranei da non ammettere ad una appartenenza comune, dei bambini, adolescenti, giovani che aspirano a questa appartenenza rischia di farli sentire e comportarsi come tali: senza obblighi perché privi di reciprocità, risentiti, ostili.
È una meraviglia che, nonostante la miopia della politica e un discorso pubblico sui migranti e le loro famiglie non sempre civile e pacato, questi ragazzi e giovani continuino ostinatamente a rivendicare la propria italianità. Sono, di fatto, italiani molto più di molti che sono nati all’estero da cittadini italiani e all’estero sono cresciuti e vivono, spesso non conoscendo la lingua italiana. E pure hanno tutti i diritti dei cittadini italiani, incluso il diritto di voto, anche sulla riforma costituzionale, i cui effetti positivi o negativi non li toccherà per nulla.