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Ieri non abbiamo trovato altri articoli su queata devastante iniziativa politica del governo Renzi. Il servilismo agli USA è davvero straordinario, fa impallidire il ricordo di quello della Dc di De Gasperi, ben più dignitoso. Urgono iniziative popolari per la pace e l'uscita dalla NATO. il manifesto, 30 ottobre 2016
Allucinante Matteo Renzi. Allucinante Paolo Gentiloni. Ieri notte era all’ordine del giorno dell’Assemblea generale dell’Onu un voto davvero importante: una risoluzione perché dal 2017 partano i negoziati per un Trattato internazionale che vieti le armi nucleari.

La risoluzione è stata approvata da 123 Paesi, 16 Stati si sono astenuti ma 37 Paesi hanno votato contro, tra cui l’Italia. In compagnia di quasi tutte le nazioni nucleari del mondo e tanti alleati degli Stati uniti che, come l’Italia, hanno sul proprio territorio ogive nucleari. Si badi, non armi atomiche vintage della “passata” Guerra fredda, ma rinnovati sistemi d’arma per le quali il Nobel della Pace Obama ha speso diversi miliardi di dollari: si chiamano bombe B61-12 e potranno essere montate sugli F35 che – a proposito di “costi della politica” – ci costano più di 15 miliardi di euro. I primi due F35 arriveranno nella base di Amendola l’8 novembre prossimo, il giorno delle presidenziali americane, e senza know how di attivazione: quello lo controllano dagli Usa.
Qui, nel ridente Belpaese, ce ne sono ben 70 di bombe atomiche, 20 a Ghedi e 50 ad Aviano.

Sono lontani i tempi in cui il Parlamento europeo chiedeva espressamente agli Stati uniti di sbaraccare dal territorio europeo l’armamentario disseminato di circa 300 armi nucleari. Adesso se nazioni come Austria, Brasile, Irlanda, Messico, Sudafrica e Nigeria (primi firmatari della risoluzione votata all’Onu) propongono di avviare un trattato vincolante per mettere al bando le armi atomiche, l’Italia si sente in dovere di votare contro. E purtroppo non è una barzelletta del tragi-comico Benigni, eccellenza italiana al mega ricevimento alla Casa bianca.

Molte verità nella riflessione sul "cadavere della democrazia" presentata sotto la maschera di un'intervista di Stefano Benni a se stesso. Il potere in un mondo non abitato più da cittadini, ma da clienti, connessi, degenti, spettatori, fanatici e fuggiaschi. Il

Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2016

Il tono paradossale delle risposte del Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria.

Il primo capitolo del suo controverso libro si chiama: “Il cadavere delle democrazie”. Un po’ forte, non crede?
«Niente affatto. Le democrazie non esistono più, anche se il pensiero politico si rifiuta di ammetterlo. Per anni, nell’ambitus della differenza tra democrazia e dittatura, è nata e ha prosperato l’illusione di una forma politica “migliore” o “meno peggio” delle altre. L’illusione è caduta, ma la parola democrazia viene ancora abbondantemente usata anche se questa forma di governo, nel senso di “governo del popolo” o di “volontà dei più” non ha più nessun riscontro nella realtà. La pluricrazia è la forma di governo, anzi la forma di occupazione del pianeta che l’ha sostituita. Gli alieni sono scesi sulla terra e siamo noi».
Come dobbiamo intendere il suo termine “pluricrazia”?
«Sarebbe più corretto dire system of pluricracies o SOP, secondo l’orrenda sigla coniata dai miei divulgatori. Una forma di potere globale non eletta e non elettiva, con fini e mezzi diversi dalla democrazia. Potremmo dire che è parassitaria della democrazia, anche se per i greci il termine “parassita” aveva un significato diverso da quello moderno. Le democrazie rimandavano a una forma di Stato che accoglieva le richieste e i bisogni dei cittadini, prometteva di proteggerli e pur con mille imperfezioni, dava alle diverse morali, e alle contrapposte esigenze, una risposta unica, o ritenuta unica. Ora tutti possono vedere che in ogni parte del mondo sono nate forme di potere-occupazione, strutturate come veri apparati statali, con parlamenti, gerarchie, forze militari, costituzioni interne. Non si ispirano a nessuna idea di democrazia e fanno a meno di lei senza sforzo».

Potrebbe farci qualche esempio?
«La tecnocrazia, la plutocrazia finanziaria più o meno mafiosa, la teocrazia, persino la farmacocrazia e le ludocrazie-onagrocrazie culturali. Agiscono tutte con progetti, scopi e morali proprie. Preferiscono a volte operare in una finzione di democrazia, o allinearsi a una dittatura, ma la loro ideologia è quanto di più lontano ci possa essere dal rispetto del volere popolare. Il consumatore, il cliente, il connesso, il degente, lo spettatore, il fanatico sono i loro sudditi, non il cittadino. Li chiamano talvolta poteri forti ma sono piuttosto poteri folli, che disprezzano la vecchia ratio del bene comune. Anche se talvolta scelgono un volto per apparire, preferiscono essere invisibili. Ascoltano solo voci selezionate da loro: la banca dati, l’audience, il sondaggio, il call center hanno sostituito la piazza. Recentemente ho sentito il termine social-democrazia, col trattino, per celebrare il web. Invenzione dolce e consolatoria. Il web è un’oligarchia, anzi ha creato gli ultimi monarchi. Steve Jobs è l’ultimo dei semi-dei prometeici».

Uno dei suoi concetti più dibattuti è quello di Stato-schermo. Quindi lo Stato esiste ancora?
«Anche un anarchico non può fare a meno di una bandiera, diceva De Selby. Lo Stato è uno schermo sul quale le pluricrazie proiettano la loro immagine in modo rassicurante. Ma lo Stato non ha più nessun contenuto, è fatto di trame scritte altrove, di recite dove ruotano i cast di maggioranza e opposizione, di attori brillanti o tragici. Se mi chiedessero a cosa somigliano Trump e Hillary, direi Gambadilegno e la fata di Cenerentola. Ogni vera decisione è presa dal SOP, che la trasferisce allo Stato-schermo perché la trasmetta ai cittadini. Le pluricrazie sanno bene che cose come il voto, la legge, l’esercito, i confini, la bandiera e la Nazionale di calcio sono rassicuranti. Essere in balia dell’informe spaventerebbe. Si accetta che la squadra del cuore venga comprata da un miliardario russo o da uno sceicco, ma guai a cambiare i colori della maglia. Bisogna avere uno schermo su cui proiettare lamenti e rabbia, nell’illusione di essere considerati. L’ultima forma della democrazia è la frenocrazia, la possibilità per ognuno di lagnarsi e dare la colpa a qualcuno della propria infelicità. Ma è un Paraclausithyron, un lamento a una porta chiusa».

Lei è totalmente pessimista. Ma è possibile il progresso o la pace con le pluricrazie?
«Il progresso di tutti non esiste più, esiste soltanto il progressivo rafforzamento delle pluricrazie. In quanto alla pace la guerra moderna non è più tra Stati, basta vedere la frammentazione del conflitto mediorientale per rendersene conto. È un continuo scontro tra avidità contrapposte, ammantato di motivazioni religiose, storiche o etniche, più complesso e imprevedibile delle guerre del passato. Uno Stato potrebbe volere la pace, ma lo spingeranno in guerra i suoi petrolieri o i produttori di armi, i suoi servizi segreti deviati o un gruppo religioso bramoso di anime e di territorio, un impero mafioso, o un’azienda che ha bisogno di materie prime e nuovi mercati. È più facile immaginare una guerra nucleare tra Google e Microsoft, o tra AT&T e Verizon, o tra Hollywood e Bollywood, che tra Usa e Russia».

E le dittature?
Neanche le dittature esistono più. Sono film un po’ più pulp, schermi in cui ha grande importanza il primattore, una figura unica di leader, con l’aggiunta degli effetti speciali di un poderoso apparato militare e un controllo dei media più spietato. Ma nessun dittatore può permettersi di andare contro il SOP, nessun tiranno ha più l’esclusiva della tortura, o della censura. Per restare sul suo trono deve piegarsi a una o più pluricrazie, spesso è soltanto un componente del loro consiglio di amministrazione.».

Quindi lei non ha soluzioni?
«No, e se le avessi me le avrebbero già prese con la forza. Le pluricrazie hanno vinto. Non so se troveranno una forma di convivenza o distruggeranno il pianeta nella battaglia per la supremazia. Quello che è certo è che non lasceranno più spazio a nessuna forma democratica che non sia secondaria e sottomessa. Il parassita ha divorato l’ospite. Solo la nascita di una nuova coscienza della libertà, una totale disconnessione della nostra vita dal sistema pluricratico potrebbe salvarci, ma io non spero più. Singoli gruppi possono inserirsi negli spazi vuoti dell’invasione del SOP, ma questi spazi sono sempre più stretti e stritolanti»

Si dice che lei sia consigliere di Bill Gates e di Putin. Ma che consigli potrebbero avere da lei?
«Sono calunnie. Io riesco a malapena a consigliare qualche libro ai miei alunni. Sono un pensatore, e come tutte le forme di intelligenza autonoma, sono destinato a scomparire. Ho deciso di lasciare qualcosa di scritto perché per un attimo potrebbe intralciare le pluricrazie e costringerle a uno sforzo per disinnescare il mio discorso. Ma entro pochi mesi, il mio pensiero sarà ingoiato dal loro magma, oppure in nome delle mie parole nascerà una pluricrazia perversa».

Lei detesta, ricambiato, quasi tutti i suoi colleghi. Ma nella sua teoria si è ispirato a qualcuno?
«La mia non è teoria, è opsis. All’inizio ho seguito con interesse De Selby, Deleuze, Jankelevith e Starobinski, ma anche loro sono rimasti prigionieri del democentrismo. Penso che la scomparsa di Laurel e Hardy, e poi il grido di Bacon abbiano annunciato il declino del pensiero occidentale. Ma la data che segna la fine dell’illusione democratica è la morte di John Lennon. Voi italiani siete adoratori della parola “Vip” ma contate meno di un miliardario cinese».
E la Cina?
«Finirà in pezzi. Adesso basta, devo andare a mangiare, oggi c’è il purè».

Un’ultima domanda : il dramma dei migranti?
«Non si “emigra” più, si fugge e basta, Al SOP di tutto questo non frega nulla, le pluricrazie non hanno né patria né confini né ricordi. A loro non interessa la sofferenza degli individui, ma quella dei bilanci. Le pluricrazie rendono invivibili i Paesi con sfruttamento e guerre costringendo la gente a fuggire, poi costringono gli Stati-schermo e i volonterosi a occuparsene. Sono agenzie turistiche sataniche.

Una parola di speranza?
«La chieda alle pluricrazie, ne hanno di diverse e molto seducenti»

La
Alberto Menichelli, che farà 88 anni a dicembre, s’interrompe e si rivolge alla figlia Laura: “La fiaschetta l’ho conservata da qualche parte”. Non aspetta la risposta. Si alza, si dirige verso un mobile del soggiorno e lo apre. “Eccola qua”. Una fiaschetta per liquori, rivestita di unUn'itervivita all'autista colore argento e dal collo nero, consumato. “Pensa un po’, è ancora piena”. Whisky. Una fiaschetta che è una reliquia. Ci beveva Enrico Berlinguer. Un sorso prima di ogni comizio. “Quando vedeva quelle folle sterminate, Berlinguer aveva una stretta allo stomaco. Fu il suo medico, Ciccio Ingrao, a consigliargli questo rimedio. Io la riempivo, ma allungavo il whisky con l’acqua. Pensa un po’, è ancora piena. Senti che odore”.

La nostalgia per Enrico Berlinguer è come l’odore che proviene da questa antica fiaschetta dal collo morsicato. È un profumo forte, che si sente ancora. Menichelli ha vissuto tre lustri con Berlinguer. Molto più di un autista. Fu il suo angelo custode dal 1969 al 1984, l’anno della morte del compagno segretario del grande Partito comunista italiano. Menichelli faceva parte della Vigilanza del Partito, tutto con la maiuscola e fu assegnato a Berlinguer quando questi era stato da poco scelto come vicesegretario e successore di Luigi Longo, al posto del favorito Giorgio Napolitano. Era il 1969. Romano di borgata, Menichelli era arrivato alla Direzione, nel mitico Bottegone, nel 1964. La sua sezione Pci, quella di Villaggio Breda, fece una lettera di presentazione. In una riunione del comitato direttivo era stata esaminata “la biografia del compagno Menichelli Alberto” e l’esito fu positivo: “Il comitato direttivo dà parere favorevole, considerandolo un compagno serio, onesto (identico giudizio si dà sulla famiglia)”. Più di mezzo secolo dopo, Menichelli presiede l’associazione culturale intitolata a Berlinguer nel suo quartiere romano, a Cinecittà.

Quanti iscritti avete?
Trecento. L’altro giorno abbiamo chiuso la mostra.

Ovviamente dedicata a Berlinguer.
È un’iniziativa partita nel 1990 a Pescara, adesso va a Latina. Tantissimi sono venuti a vederla in sezione.

Sezione?
Circolo, mi scusi, sono abituato a chiamarla sezione. Sono anche presidente del comitato del No e leggo il Fatto perché siete rimasti voi a difendere la sinistra e i lavoratori.

La passione per Berlinguer è senza partito, ormai.
Alla mostra, mi ha colpito la presenza di molti giovani. È un dato incredibile se pensa che Berlinguer è morto 34 anni fa, quando loro non erano ancora nati.

Il suo impatto con lui come fu?
Ero teso, Berlinguer non voleva l’autista, fu costretto dal Partito, nel ’69 c’era stata la strage di piazza Fontana, cominciava un periodo di grandi paure. A lui piaceva guidare. Aveva una Fiat 1100. Era pignolo, quando arrivava a Botteghe Oscure parcheggiava da solo e saliva su.

Allora lei gli portò via un piacere quotidiano.
La prima settimana fu di silenzio totale. Solo “buongiorno” e “buonasera”. Ero timido, lui riservato.

La giornata tipo?
Al mattino ritiravo la mazzetta dei giornali e alle 7 e 30 ero da lui. Lo trovavo in pigiama, preparava la colazione per la famiglia. All’epoca abitavano ancora in viale Tiziano.

Una volta, Forattini fece una perfida vignetta con Berlinguer in pigiama.
Sì, la ricordo. Con questa storia del pigiama c’era un fotografo che mi perseguitava.

Immagino.
Voleva rifilarmi una macchinetta speciale per fotografare Berlinguer in pigiama. Diceva: “Famo un sacco di soldi”.

Prima dei soldi, c’era la lealtà verso il Partito.
Quello che diceva il Partito non si discuteva. Per me era un onore accompagnare Berlinguer, era l’uomo che rappresentava noi comunisti italiani.

Il rito dei quotidiani come si svolgeva?
A questo punto, Menichelli declama l’ordine di lettura dei quotidiani come se fosse una formazione di calcio). Leggeva Unità e Paese Sera. Poi Messaggero, Popolo e Tempo; Avanti!, Avvenire e Secolo d’Italia; Corriere della Sera, Stampa, Giorno e Umanità. Aveva anche due giornali francesi: Le Monde e L’Humanité. Nel frattempo accompagnavo Marco e Maria a scuola (due dei quattro figli di Letizia ed Enrico Berlinguer, ndr) e quando tornavo alle nove lo accompagnavo alla Direzione.

I vostri discorsi in auto fecero progressi?
Dopo due mesi avevamo preso confidenza. Berlinguer era una persona schiva ma non triste come è stato detto. Era essenziale e di un’onestà esemplare. Una mattina cominciammo a cercare i cartelli con su scritto “Affittasi”. Doveva lasciare la casa di viale Tiziano e cercava un nuovo appartamento.

Berlinguer cerca casa.
Andai da Cossutta, che all’epoca guidava l’Organizzazione. Era il 1974. Gli posi il problema così: “Vi sembra normale che il segretario del Partito (Berlinguer divenne segretario nel 1972, ndr) debba cercare casa da solo?”

E Cossutta?
Mi rispose: “Mica lo sapevo”. “Ecco adesso lo sai”, gli ribattei. Attivò il compagno dell’Economato. Prima gli proposero una villetta alla Camilluccia, ma lui rifiutò: voleva un appartamento più modesto. E così venne fuori la casa di via Ronciglione 12. A una condizione però.

Quale?

Doveva pagare lui l’affitto, non il Partito, altrimenti avremmo continuato a cercare noi i cartelli “Affittasi”. Così ogni mese io portavo una busta coi soldi a Botteghe Oscure.

In tempi di Casta, lei ha descritto una scena lunare.
Berlinguer era questo. Se non eravamo fuori Roma, cenava sempre a casa. Ogni sera, prima di ritirarci, comprava un litro di latte. Un giorno glielo chiesi: “Perché prendi il latte?”.

Cosa rispose?

Mi disse: “Mi premunisco, a quest’ora il frigo è quasi sempre vuoto”.

Il frigo vuoto!
Pagava il latte coi soldi sempre ciancicati, perciò gli regalai un portamonete. Una volta lo trovai seduto per terra nel salone. Attorno a lui tanti libri. Gli dissi: “Ma che stai combinando?”. Lui brusco: “Stai zitto che non mi ricordo più in quale libro ho nascosto 50 mila lire”.

Un materialista poco attento alle cose materiali.
Completamente disinteressato. Un giorno dovevamo andare a Torino. C’era uno sciopero aereo e fummo costretti a prendere il treno. Peraltro io avevo paura di volare. Berlinguer mi prendeva in giro: “Hai messo il paracadute?”. Quel giorno avevamo preso uno scompartimento, eravamo alla stazione Termini di Roma e io aspettavo sul binario il resto della scorta. All’improvviso vedo un poliziotto venire verso di me. “Che c’è?”, gli faccio. Lui mi risponde: “Il segretario ha due scarpe diverse”. Così salgo sul treno e vado da lui. Mi guarda e io: “Le scarpe sono spaiate”. Lui portava sempre i mocassini.

Partiste?

Crto. Chiuse la questione a modo suo: “Non sono tanto diverse, nessuno se ne accorgerà”. Un’altra volta perse il cappotto. Era un paltò verde talmente consumato che le asole erano diventate buchi. Lo dimenticò alla Camera per la fretta di tornare a Botteghe Oscure. Pensai: “Meno male, così ne prende uno nuovo”.

Invece lo ritrovò.
Esatto. Per dirle che persona era. Non gliene importava nulla. Anna (Azzolini, la storica segretaria di Berlinguer, ndr) mi raccontò che un famoso stilista dell’epoca, Litrico, aveva mandato una lettera. Voleva vestire gratis il segretario. Berlinguer rifiutò senza pensarci.

Nonostante tutto, piaceva molto. Anche alle donne.
Reichlin lo invidiava: “Le donne vengono sempre da te”. Ma lui era timidissimo. Ricordo che ad Avezzano fece una conferenza stampa in piazza. In prima fila c’era una signora matura, molto piacente. La rividi a Roma, a un comizio. Lo dissi a Tatò: “Quella signora era anche ad Avezzano”. Decisi di avvicinarla. Era un’americana, affascinata dal personaggio di Berlinguer.

Riferì al segretario?
Sì e gli dissi: “La prossima volta te la presento”.

Accettò?
Per niente. Mi fulminò: “Aho che porti!?!”.

Un monaco.
Per nulla triste, ripeto. Scherzava spesso e si preoccupava sempre per noi della Vigilanza. Abbiamo festeggiato tante volte Natale e Capodanno insieme, con le nostre famiglie, alle Frattocchie (la zona dei Castelli Romani dove il Pci aveva la sua “scuola”, ndr). Poi c’è l’episodio di Parigi.

Racconti.
Eravamo all’aeroporto De Gaulle, per tornare in Italia, e mi fa: “Vogliamo portare un regalino alle nostre mogli?”. Così entriamo in un negozio di profumi. La commessa ci indica una boccetta e ci spiega che è molto richiesta dalle signore italiane. Diciamo che va bene e andiamo alla cassa. Ci prese un colpo: costava 18 mila lire, un quarto del mio stipendio di allora, ma nessuno dei due disse nulla, per il timore di apparire provinciali. Pagammo e zitti.

I viaggi lunghi in auto come si svolgevano?
Lui si sedeva avanti. Gli avevo predisposto un tavolinetto per lavorare. Non staccava mai, si preparava tutto e scriveva a mano. Non parlava a braccio, non improvvisava come oggi Renzi. Quando poi doveva fare relazioni o discorsi di una certa importanza si rifugiava dalla zia Ines a Grottaferrata. Gli articoli per Rinascita sul compromesso storico li scrisse lì, dalla zia Ines, che per lui era come una mamma.

Il 1976 è l’anno decisivo.
Fu l’anno in cui aumentò la scorta a Berlinguer. Per le Br era un obiettivo e cominciammo a girare con due auto qui a Roma. Io ero sempre con lui, insieme con Lauro Righi. Davanti, nell’altra auto, c’erano Dante Franceschini e Pietro Alessandrelli. Ogni volta un percorso diverso. A causa dei terroristi cambiammo anche il lattaio. I terroristi avevano studiato la zona vicino a casa sua e così iniziò a prendere il latte da Vezio (leggendario bar comunista, a Botteghe Oscure, ndr).

Che auto era?
Un’Alfa 2000 blindatissima. La scorta di Moro ce la invidiava.

Già.
Berlinguer e Moro fecero due incontri segreti, sempre a casa del segretario del leader democristiano. Il secondo finì alle quattro di mattina. Vedemmo la lucina accendersi sopra il portone e ci preparammo. Era Moro che scendeva. Uscì e s’infilò per sbaglio nella nostra auto.

Un tragico lapsus preveggente.
Nelle lunghe ore di attesa, conobbi il maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Volle vedere le nostre auto dall’interno e mi confidò che gli rinviavano sempre la richiesta di un’auto blindata. Io e i miei colleghi maturammo una convinzione.

Quale?
Se lo portavamo noi, Moro, non succedeva nulla. Con le nostre due auto, le Br non avrebbero mai potuto fare l’azione di via Fani.

Invece finì con la Renault rossa in via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sede della Dc.
Il giorno del ritrovamento, Berlinguer mi chiama e mi dice: “Dall’Unità dicono che bisogna cercare un’auto rossa qui vicino”. Io vado da Vezio al bar e lui mi manda da un suo amico al primo piano. Saliamo e mi affaccio. Ero al telefono con Berlinguer per descrivergli tutto. E quando vedo la polizia aprire lo sportellone della Renault, lui attacca senza dire più nulla. Aveva già capito. Da quel momento cambiò per sempre. Nemmeno nel 1970, quando dormivo spesso a casa sua per la paura di un colpo di Stato, l’avevo visto così.

Inizia il cosiddetto “ultimo Berlinguer”.
Gli sentii pure dire che era assurdo che il segretario del Pci fosse a vita, che bisognasse aspettare la sua morte.

Una profezia su se stesso.
Quel giorno a Padova mi fece anche uno scherzo.

Stava bene.
Benissimo. Eravamo pronti per andare al comizio ma lui non scendeva dalla camera d’albergo. Vado su e non lo trovo. Ritorno giù, trafelato, e lo vedo spuntare nella hall, che rientra da una passeggiata. Mi dice: “Stavolta t’ho buggerato”.

Dopo l’interruzione del comizio, rientraste persino in albergo.
Sul palco, gli misi l’impermeabile sulle spalle e lui mi sussurrò di prendere i suoi appunti. In albergo era già in coma.

Trentaquattro anni fa.

Il mio Partito morì allora.

«». il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

Tonino Perna, ragionando su Calais, nei giorni scorsi si domandava da queste colonne «chi invade chi?». Una domanda che merita una risposta articolata, non semplicistica, che in parte lui stesso ha provato a dare. E sulla quale ritengo utile tornare dato che oramai l’assenza di buon senso nel dibattito pubblico sull’accoglienza pare essere l’unico dato di fatto incontrovertibile. Unito, sembra, a una generale ignoranza sulla materia tanto che secondo una recente ricerca del Centro Studi di Confindustria la presenza di cittadini migranti nel nostro Paese appare «sovrapercepita»: da una presenza reale nel 2015 dell’8,2%, la percezione dell’opinione pubblica si attesta al 26%.

C’è dunque una dominanza del mondo dell’opinione su quello della matematica, se la vogliamo mettere così, e ciò non aiuta a trovare soluzioni adeguate a problematiche oggettivamente complesse ma che, al tempo stesso, toccano la vecchia Europa e il nostro Paese solo minimamente. È la stessa Unhcr a dirci che nel 2015 sono stati oltre 65 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, di cui poco più di 1 milione in Europa e circa 200mila in Italia. Si può parlare dunque di invasione? Di difficoltà nella gestione di grandi numeri? Se entriamo nello specifico dobbiamo registrare che ad oggi, in tutto il Paese, sono poco più di 145mila le persone accolte nelle strutture di accoglienza. E noi siamo 60 milioni. Una percentuale attorno allo 0,24%.

Di nuovo, poco? Tanto? La statistica direbbe insignificante ma, nonostante ciò, il tema accoglienza è considerato il problema per eccellenza. Si è costruito un immaginario secondo il quale se non accogliessimo quelle 145 mila persone questo Paese starebbe meglio. Ci sarebbero pensioni migliori, città più pulite, più lavoro, più servizi sociali, più asili nido. Ma sappiamo, sempre scorrendo i dati e la storia di questo Paese, che non è così.

Dove stanno i problemi allora? Senza voler scomodare la sociologia una prima risposta c’è, concreta e molto matematica: dal 2007 al 2013 questo Paese ha tagliato il fondo per le politiche sociali di quasi l’80%: si è passati da 2 miliardi di euro a 280 milioni senza che nessuno se ne sia accorto. Almeno così pare. Quel fondo alimentava i trasferimenti agli enti locali, oggi – non casualmente – in ginocchio, senza risorse, strangolati dal patto di stabilità e sui quali ricade per intero il peso dell’accoglienza. Tutto ciò nonostante l’apporto dei cittadini migranti sia diventato imprescindibile, come dimostrano tutti gli indicatori economici pubblici e privati.

Ma allora, di nuovo, perché prendersela con i richiedenti asilo? Perché sono il capro espiatorio preferito dalla politica da 25 anni a questa parte e anche perché, in questi anni, lo Stato non è stato in grado di strutturare un vero e proprio sistema di accoglienza (per non parlare di un vero piano sull’immigrazione) degno di questo nome, ma ha preferito, nella migliore delle tradizioni nostrane, la logica emergenziale per gestire un fenomeno epocale. La responsabilità sta qui e sta nella ‘furbizia’ di quei sindaci (purtroppo tanti) che non si sono assunti la responsabilità di concorrere all’accoglienza, scaricando su quei pochi che lo hanno fatto tutte le problematiche del caso.

Di comuni come Gorino o Capalbio ne abbiamo troppi in giro per il Paese e anche qui la matematica può chiarire meglio di tante parole: se ciascuno degli 8003 comuni italiani avesse dato il suo piccolo contributo oggi quelle 145 mila persone sarebbero accolte in piccoli nuclei da 18 (la famosa accoglienza diffusa), che si tratti di Gorino o di Milano. E con una semplice operazione perequativa potremmo gestire il tutto con più serenità e maggiore capacità d’integrazione.

Sarebbe un paese forse meno accattivante per media e classe politica in generale – che invece preferiscono le invasioni barbariche – ma forse più efficace nell’affrontare con serietà i problemi del nostro tempo e del nostro Paese.

Anche a sinistra dobbiamo avere il coraggio di prendere questa strada, riportando il tutto alla realtà. Senza giustificazionismi di sorta che assomigliano sempre più a una resa culturale all’egoismo e al razzismo.

«La stella rossa sovrastava una stazione ferroviaria della ex Jugoslavia è trasportata a Palazzo Madama, a Roma, dove è stata oggetto di un’esposizione insieme ad altre testimonianze della Storia dell’ultimo secolo».

La Repubblica 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

«È finita la benzina, non ne abbiamo più per continuare il viaggio». Il militante socialista francese, al quartier generale, parla così della presidenza di Hollande e del suo partito davanti ai cronisti. E descrive le riunioni come un «funerale di famiglia». Ma questa cupa atmosfera tra i socialisti riguarda solo la Francia? A Parigi piangono, ma anche a Madrid, Londra e Berlino hanno poco da festeggiare. I momenti della sinistra “gloom and doom” — come li chiamava Eric Hobsbawm, avvilimento e senso di fosco destino — non sono nuovi, ma stavolta la speranza non trova varchi.

Nella capitale francese i sondaggi confermano il militante scoraggiato. Alle prossime presidenziali il leader socialista in carica non arriverebbe al ballottaggio, dietro a Le Pen e Juppé (o Sarkozy?) e forse persino a Mélenchon. Il suo indice di gradimento ha raggiunto il minimo depressionario del 4%. Altrove in Europa le percentuali sono più alte, ma nessuno appare in corsa per la vittoria, come accadeva non tanto tempo fa.

Pedro Sánchez si è dimesso dopo 9 mesi di tormentosa resistenza all’idea di appoggiare il governo Rajoy; ora il Psoe ne consentirà, con l’astensione, la nascita. Che sia o no una vera coalizione, sarà Podemos a trarne beneficio. E la sinistra aggraverà le sue divisioni.

La Spd di Sigmar Gabriel naviga anche lei con le vele ammosciate intorno al 20 per cento; il suo elettorato è saccheggiato dalla Linke e dai populisti, gli iscritti sono scesi da un milione a 400mila, ed è al governo, ma solo perché sta sulla scia della Merkel.

Il Labour di Jeremy Corbyn appare sempre più lontano dal governo. Il leader dell’opposizione britannica ha vinto il congresso nonostante lo scontro con il gruppo parlamentare e il gabinetto ombra. Ha potuto proclamare il suo come «il più grande partito socialista dell’Europa occidentale». Detto da lui sembra una buona notizia, che esalta il nucleo dei suoi sostenitori, ma quelle parole segnano anche un cambiamento radicale, la fine del New Labour inteso come grande partito di centrosinistra, capace di tenere i conservatori all’opposizione per tre mandati. Socialismo per Corbyn significa nazionalizzazioni e dunque rappresenta un’inversione di marcia che sta portando il gruppo dirigente fino al rischio di una scissione.

Questi quattro grandi partiti sono presi nella morsa degli interrogativi sulla propria identità: forze con un passato di governo, con un seguito e un’organizzazione imponente, e oggi assediate dal voto populista e ristrette in dimensioni e ruoli minori. Non hanno retto al cambio di paradigma dell’economia e della politica. La perdita di chiari connotati sociali o ideologici, la frammentazione sociale e comunicativa, l’aggregarsi del consenso in forme volatili intorno a leadership con poche, o senza, mediazioni organizzate, tutto questo scatena reazioni nostalgiche. E la sinistra italiana?

Se il Labour aveva fatto il salto nella nuova dimensione nel ‘98, il Partito democratico italiano l’ha cominciato 9 anni dopo, nel 2007, assumendo con Veltroni la forma attuale, disegnata per conquistare la maggioranza senza coalizione, e completandola con Renzi che ha allargato i consensi nel bacino elettorale del centro. Ma i laburisti hanno ora praticamente revocato l’innovazione e nei sondaggi stanno a distanze abissali dal governo.

Quanto al PD, invece, la difende ancora, anche se l’erosione populista e la minaccia permanente di una guerra civile interna ad opera della minoranza tendono a riportarlo al passato. Per aprire, nel 2013, con la vittoria di Renzi, la prospettiva di un partito piglia-tutto, sono state decisive le primarie aperte potenzialmente a tutto l’elettorato e non solo agli affiliati (come invece per il Labour). Non è un caso che siano proprio le primarie il punto di attacco della vecchia guardia, che vorrebbe ricondurre la scelta del segretario ai soli iscritti, per rimettere le cose “al loro posto” e ritornare nel vecchio alveo degli elettori d’antan (nel frattempo fisiologicamente diminuiti). Un ritorno alla “normalità’”, insomma, che viene implacabilmente desiderato, da alcuni, come un destino di ridimensionamento.

Per quanto strano, la struggente ambizione di evitare il governo può fiorire anche a sinistra, non solo tra i populisti dell’antipolitica (il sindaco di Roma ne sa qualcosa). E quando si perdono consensi ci si ritrova, come accade ora ai socialisti francesi, a desiderare di influire sulle primarie degli altri, cioè della destra, per poter votare Juppé, in modo da evitare di ritrovarsi al ballottaggio Sarkozy come unica alternativa a Marine Le Pen (e forse più facilmente con lei soccombente).

Anche l’economista Thomas Piketty, giunti a questo punto, come ha confessato al Nouvel Observateur, è pronto a firmare la carta dei valori della destra (condizione per partecipare alle primarie) pur di assicurarsi il meno peggio, per tutti.

È giusto utilizzare quel tantum di stupidità che c'è in ciascuno di noi sudditi (e quindi aumentarlo) per raggiungere un po' più efficacemente obiettivi politici virtuosi? Qualcuno, giustamente, dice di no, e ricorda il meccanismo che portò alla Shoa.

il manifesto, 28 ottobre 2016

Per effetto della legge di stabilità, dal 2018 lo scontrino (se accompagnato dal codice fiscale dell’acquirente) darà diritto a partecipare all’estrazione a sorte di premi nazionali, non si sa se in beni o in denaro. Non è un’idea originale del nostro Governo: le lotterie fiscali rappresentano forse il più noto esempio di applicazione delle teorie comportamentiste alle politiche pubbliche. Sperimentate per la prima volta qualche anno fa in Gran Bretagna, le lotterie fiscali figurano oggi in prima fila tra le best practice che gli studi dell’Unione europea e raccomandano agli Stati membri ai fini di una Better Regulation. L’Unione, sulla scia di raccomandazioni della Banca Mondiale, e sulle orme di Obama, che con un Executive Order ha recentemente invitato le amministrazioni americane a fare uso di metodi comportamentisti, ha creato da qualche tempo un organismo (Foresight and Behavioural Insights Unit) ai fini dell’esplorazione e dell’implementazione del comportamentismo nel policy making. Sui Behavioural Insights Applied to Policy (BIs) questo organismo ha prodotto un significativo Report nel 2016.

Il succo è presto detto: le teorie comportamentiste si basano sulla premessa che il comportamento umano non solo non è razionale, ma neppure molto intelligente. Le persone sono preda di pregiudizi, sono condizionate dal comportamento altrui, si sopravvalutano e tendono a fare tante altre cose sciocche, come ingigantire la minuscola probabilità di successo legata all’estrazione di una lotteria; le politiche pubbliche possono sfruttare questi difetti della ‘natura umana’ per migliorare la propria efficienza in termini di raggiungimento dello scopo e prevedibilità del rapporto spese-risultati. Detto altrimenti, e per quanto paradossale sia, le politiche pubbliche basate sul comportamentismo sono politiche (che si reputano) ‘intelligenti’ in quanto sfruttano l’idiozia della gente comune, che danno per scontata. Non solo: esse considerano la povertà intellettuale delle persone, postulata come dato di natura, non come un problema da affrontare – per esempio con l’educazione, no? – ma come una risorsa da mantenere e anzi da accrescere il più possibile, dal momento che può essere facilmente sfruttata per raggiungere risultati. Il presupposto del comportamentismo applicato alle politiche pubbliche è che sopra stanno i policy makers, intelligenti e consapevoli, sotto la gente, sciocca e condizionabile: il padrone premia il cane mentre lo addestra (salvo smettere di premiarlo quando avrà imparato bene) e la ‘natura umana’ si scinde in due. Una, quella vera e propria, razionale e libera, chi governa la riconosce a se stesso (o meglio, agli apparati in cui si spersonalizza, apparati che, come oggi si dice, ’riflettono’, dunque sono animati da intelligenza); l’altra, di tipo animale, spetta al resto dell’umanità, ammasso di bestioline, che siccome non sanno concepire il bene e il giusto, vanno addestrate sfruttando le loro ingenue, animalesche fantasie, come quella di arricchirsi a buon mercato che per loro, si sa, vale come uno zuccherino. Sotto il volto furbetto e ‘smart’ di queste politiche lavora più dura che mai l’istanza di disciplinamento compagna di ogni tentazione autoritaria, agisce la rinuncia deliberata a un progetto di convivenza civile.

Combattere l’evasione fiscale, onde aumentarne il gettito, o perseguire qualunque altro fine, pur di per sé condivisibile, adottando politiche basate sul comportamentismo è scelta che dovrebbe essere circondata da un ampio dibattito, perché investe questioni più decisive di qualche punto percentuale nel saldo di bilancio.

E’ problematica la compatibilità di questi metodi con le premesse di democrazie che affermano la pari dignità di tutti i cittadini (e di essi rispetto a chi li governa), tutelano il libero sviluppo della personalità, si propongono pari opportunità per tutti (l’opportunità di sviluppare la propria intelligenza, per esempio) e pertanto vietano la strumentalizzazione degli individui ai fini propri degli apparati governanti.

Sono democrazie, le nostre, nate dalla ‘catastrofe’: orrificate dal campo di sterminio, esse ci avvertono che ogni concezione concentrazionaria inizia con la riduzione dell’individuo a elemento statistico. Invece, riceviamo queste politiche come prodotto finito di una elaborazione che tiene la società ai margini perché la colloca al di sotto di sé, e avviene in modo autoreferenziale (c’è anche l’apposito gruppo di esperti in-house incaricato di sancire la ‘compatibilità etica’ di queste scelte).

Una risata vi sommergerà? Oggi è il potere che ride di noi, ma se ride di noi, come potrà rispettarci? Non è mai troppo tardi per chiederselo.

«Nessuno è in grado di spiegare quali siano le differenze tra la "valorizzazione" (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la "promozione" (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso».

La Repubblica 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

Con il referendum d’autunno saremo chiamati a decidere anche del futuro dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Non molti lo sanno, perché il dibattito sulla riforma costituzionale non ha finora lasciato spazio all’analisi dell’impatto che essa avrà su quest’ambito cruciale. Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze rilevanti.

Come è ben noto, l’assetto attuale di quell’articolo è frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega. Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali ».

Una mediazione che ha funzionato solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica. Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del patrimonio culturale.

Una riforma di quella riforma era dunque auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno dividendo le competenze con chiarezza.

Non è questo, purtroppo, l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una parte l’articolo 117 ricompone l’unità naturale assegnando (condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici », dall’altra lo stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici».

Esattamente come nel caso, ben più noto, dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso commerciale nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso.

Ma cosa ha in mente il riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di promozione? Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che, d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti ufficiali del Mibact arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del 2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo».

Se, dunque, la promozione è questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario, l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.

La grave approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle competenze — strettamente collegate — in materia di governo del territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei piani paesaggistici.

L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Tutte materie, queste, che l’articolo 116 esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua, invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il paesaggio.

La ratio di queste norme era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle.

E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria. Insomma: se si tratta di decidere come consumare il suolo, le Regioni vengono escluse. Ma vengono invece riammesse al banchetto della mercificazione del patrimonio culturale. C’è evidentemente del metodo in questa, pur confusa, revisione costituzionale: ma è un metodo che rafforza le ragioni di chi si appresta a votare no.

Disperante rendersi conto di quanto siano antiquati i residui della sinistra novecentesca, se ancora il discrimine è se allearsi o meno (e semmai quanto) con il capitalismo neoliberista rappresentato da Matteo Renzi...

il manifesto, 28 ottobre 2016

Sel chiude i battenti. Entro fine anno la creatura politica nata nel 2009 da una scissione del Prc guidata da Nichi Vendola si scioglierà ufficialmente per confluire in Sinistra italiana. La morte del partito-movimento è annunciata, ma alle esequie la famiglia potrebbe presentarsi meno unita di quanto ci si augura in un’occasione del genere. Se n’è discusso in due tappe ieri e l’altro ieri a Montecitorio. L’appuntamento era riservato ai deputati e ai senatori della vecchia Sel, ed è stato concluso da Nichi Vendola, tutt’ora presidente del partito morituro benché da tempo assente dalla scena per note ragioni familiari (ha avuto un bambino e si è preso un periodo sabbatico dalla militanza).

Oggetto del confronto, che a sinistra finisce sempre per essere un eufemismo, è il modo con cui sarà sciolta Sel, «superata» o «liquidata» a seconda di chi parla. La liturgia dovrebbe essere breve, c’è chi sostiene anche troppo sbrigativa: una riunione di presidenza il 4 novembre, poi un’assemblea nazionale il 6 con la proposta da parte di Vendola di un documento di scioglimento che a stretto giro sarà sottoposto alla consultazione degli ex iscritti nelle assemblee provinciali.

Ma la road map ha raccolto dissensi prima in segreteria e poi anche fra i parlamentari. È pacifico lo scioglimento di un partito di fatto già inesistente (un po’ ovunque, ma non dappertutto, i militanti sono passati sotto le nuove insegne di Sinistra italiana). Non è pacifica invece la modalità del travaso o della «trasformazione» in Sinistra italiana, dove l’eredità di Sel – quella ideale ma anche quella materiale – dovrebbe riversarsi, in teoria, in un contenitore più ampio. Ma c’è chi si preoccupa delle defezioni di peso: dall’ex sindaco Pisapia a quasi tutto il partito sardo, Massimo Zedda in testa, fino alla presidente della camera Laura Boldrini, fredda forse non solo per motivi istituzionali. Uomini e donne della nouvelle vague vendoliana, quella dei tempi del movimento arancione e della coalizione Italia bene comune. Chi resta, chi va e perché: temi delicati da affrontare – altra critica avanzata – nel pieno della «battaglia della vita» e cioè la campagna referendaria il cui esito cambierà comunque tutto il quadro politico italiano. Differenze, «articolazioni», le chiama Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel e front man di Si, rimandando tutto all’assemblea, e poi al congresso fondazione del nuovo soggetto, a febbraio.

Perché il vero busillis resta questo: se il nuovo partito debba essere uno dei soggetti della sinistra, magari per stringere poi un cartello elettorale con i compagni di questa strada (Prc, Possibile, Altra europa con Tsipras); o se debba invece tentare il «big bang», vecchio cavallo di battaglia vendoliano, con i militanti e gli elettori in fuga dal renzismo ma fin qui non attratti dalla nuova bandiera. Le due ipotesi vengono vissute in alternativa; non è detto che lo siano. Molto dipenderà dall’esito referendario e da quello che succede nell’adiacente campo del Pd.

Dove intanto qualcosa stavolta pare si muova davvero. Massimo D’Alema ormai parla esplicitamente di «nuovo soggetto di sinistra» e sarà ospite del battesimo a Roma dell’associazione Alternative, che nascerà il secondo week end di novembre dall’interno di Sel per «uscire fuori dal recinto». Il governatore Enrico Rossi, che vota sì «turandosi il naso», cerca sponde a sinistra oltre la Toscana, e infatti oggi a Roma presenterà il suo libro Rivoluzione socialista con Massimiliano Smeriglio (Sel-Si). E poi c’è Pisapia che tenta di «ricostruire un centro-sinistra, o magari una sinistra-centro». Con la benedizione del Pd, renziano e non, per una nuova formazione di sinistra ’alleabile’.

«Il sindaco del comune emiliano e il collega di Ferrara: disponibili ad accogliere, ma lo Stato non sequestri spazi. La Lega: eroi i rivoltosi». La Repubblica 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

Gli uomini sono tornati in mare, i bimbi a scuola, le barricate non ci sono più. Ma i pezzi di comunità da rimettere assieme sono tanti. Si cerca il dialogo adesso a Gorino, il paese che lunedì notte ha respinto un bus con a bordo dodici profughe per impedire che venissero ospitate in ostello. I sindaci di Goro e Ferrara stanno lavorando per fare incontrare i cittadini e le migranti, che lanciano un appello: «Non abbiate paura di noi». Ma intanto questa vicenda potrebbe costare il posto al prefetto Michele Tortora, che ora rischia il trasferimento.

«Non appena le acque si saranno calmate, vorremmo organizzare un incontro tra le ragazze e gli abitanti del paese» spiega il primo cittadino di Ferrara e presidente della Provincia Tiziano Tagliani, che in queste ore è in contatto con il collega di Goro Diego Viviani per trovare una mediazione. «I miei concittadini – scandisce quest’ultimo - sono disponibili ad accogliere i profughi, ma con un coinvolgimento diverso da parte dello Stato, senza nessun sequestro improvviso di altri alloggi e venendo informati ».

Pronte a parlarsi e guardarsi in faccia anche le migranti che erano sul pullmino respinto dai goresi: quattro di loro ora vivono in una casa famiglia di Codigoro, a venti chilometri dalle barricate. «Avere paura degli immigrati capita ovunque, ma la gente di qui non ha nulla da temere. Possiamo incontrarli per spiegare la nostra storia, così capiranno », sorride Aminatu, 36 anni, della Costa d’Avorio. Lei, per esempio, è partita perché non riusciva più a mantenere i suoi quattro figli dopo che il marito se n’è andato. Sanogo, 19 anni, invece è fuggita per non essere data in moglie a un uomo molto più vecchio. Dosso, seduta accanto a lei, mentre racconta la sua storia scoppia a piangere: «I miei genitori sono morti e io rischiavo la vita, ora sono pronta a fare qualsiasi lavoro». Poi c’è Ebrugbe, 20 anni, viene dalla Nigeria, dov’era stata condannata a morte per omosessualità: «Quando ho visto che il pullman tornava indietro da Goro – racconta - ho pregato che Dio ci aiutasse ».

Lunedì notte, a manifestare contro di lei c’era anche Fausto Gianella, 52 anni, una vita da pescatore con una parentesi da assessore e consigliere comunale. «In presenza del sindaco siamo disponibili a incontrare le migranti per spiegare che nessuno ce l’ha con loro. Ma non chiedo scusa: noi ci siamo ribellati perché ci hanno sequestrato l’ostello, l’unico punto di ritrovo che abbiamo in paese. E perché qui non abbiamo niente. Già prima, se ci avessero detto di ospitare tre o quattro ragazze, probabilmente non sarebbe successo nulla. Ragazze, però». Non c’entra il razzismo? «La giovane che gestisce l’ostello requisito è serba, e l’abbiamo accolta anni fa. Ma quale razzismo? È stato un cortocircuito ».

Le polemiche però non si fermano. Il ministro dell’Interno Alfano assicura che i fatti di Goro «non saranno un precedente ». Nessun arretramento da parte dello Stato, è il messaggio, mentre pare sempre più in bilico il posto del prefetto di Ferrara Michele Tortora: «Le cose – osserva Alfano - si possono sempre gestire meglio o peggio, però quello che si è verificato non è lo specchio dell’Italia».

Immediata la replica di Ap, il “sindacato” dei prefetti: «Tortora non diventi un capro espiatorio». Anche la Lega Nord continua a soffiare sul fuoco: il capogruppo in Regione Emilia-Romagna Alan Fabbri definisce «eroi e non fascisti » i manifestanti di Goro e i sindaci in camicia verde dei comuni colpiti dal terremoto avvertono: «Nessuno si azzardi a imporci l’accoglienza dei migranti ».

La Repubblica, 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il vento è una grande figura biblica. È il Soffio che accarezza il mondo vuoto, la Voce dell’impalpabile silenzio che parla ai profeti, l’irruento Respiro che divide il mare della liberazione. Ed è un vento di questa caratura biblica quello che percorrerà l’Europa e porterà il Papa di Roma a Lund,in Svezia, luogo di fondazione, della federazione mondiale delle Chiese evangeliche — quelle che il gergo chiama protestanti o luterane.

Francesco infatti parteciperà ad un giubileo non suo: quello che prepara il 500° anniversario dell’inizio della riforma di Lutero (quando, si racconta, vennero affisse le 95 tesi alla porta del duomo di Wittenberg), con cui egli manifestava cos’è la sete cristiana di salvezza e l’insofferenza per l’abuso nella chiesa.

Quello di Francesco sarà «un gesto senza precedenti», ripeteranno enfaticamente tutti. Pur sapendo che vedere un Papa fare qualcosa di mai fatto prima, non sorprende ormai nessuno. E anzi, volendo andare di fino, si potrebbe dire che anche questa usuale ricerca dell’inusuale potrebbe apparire come una scivolosa analogia col registro della politica e della sua fame di exploit, e potrebbe far correre al magistero il rischio di venir ascoltato quando fa cose strane e di venir ignorato — come ad esempio accade davanti alla tragedia di Aleppo o di Mosul — quando annuncia il vangelo della pace.

In realtà ciò che c’è di storico nel gesto di Lund non consiste nel fare a favore di telecamera qualcosa di “nuovo”: ma nel dimostrare che alla fine del mondo latinoamericano, dove la teologia europea ha spesso visto dilettantismi e pericoli, una chiesa aveva custodito i grandi semi del Concilio e del Novecento, vivi e vitali. E fra quei semi c’è l’ecumenismo.

Un movimento che in Occidente s’è talmente rinsecchito fra cortesie di capi e negoziati fra teologi che il termine ha finito per essere utilizzato da non pochi cialtroni per indicare il rapporto fra cristianesimo e religioni.

Però il seme ecumenico che Francesco riporta al centro della scena era ed è altro: non compromessi tessuti all’ombra dei rapporti di forza, ma il desiderio di sperimentare che anche la Chiesa può vivere una unità come tensione che continuamente la riforma e la aduna.

Per i cattolici era stata una gigantesca conversione dall’utopia del “ritorno” dei fratelli separati alla chiesa del papa alla ricerca. Nella quale la maggiore o minore prossimità rituale e dottrinale costituiva un banco di prova: Roma si sarebbe fermata al dialogo apparentemente più “facile” con l’ortodossia o avrebbe cercato l’unità anche con le Chiese della e dopo la riforma?
Questa domanda ha segnato la primavera ecumenica del cattolicesimo romano: e ha avuto un grande peso nel dialogo cattolico- luterano. Il centenario della nascita di Lutero nel 1983 fu l’occasione per un primo grande passo: grazie a un lavoro storico intenso l’intensità cristiana di Lutero ricominciava a parlare ad entrambe le chiese. Liberava Lutero dai miti e dagli anti-miti e consegnava a tutte le Chiese la passione di un un uomo che dopo un secolo in cui la riforma da tutti attesa era stata rinviata, la imboccava a proprio rischio e pericolo, ritenendo ogni compromesso impossibile in vista della salvezza.

Questa testimonianza luminosa e irruenta, non portò però a passi di comunione fra le Chiese: neppure il fondamentale accordo sulla dottrina della giustificazione del 1999, che riconosceva come le due dottrine sulle quali i cristiani si erano divisi e uccisi erano compatibili e convergenti, veniva seguito da gesti di comunione effettiva. Fornendo argomenti non piccoli a chi riteneva che l’ecumenismo fosse giunto al capolinea: o perché aveva conseguito l’enorme risultato di disarmare cristiani che si erano odiati e che imparavano a stimarsi; o perché aveva fallito l’unità dell’altare, celebrando ancora e sempre eucarestie divise. A Lund, dunque, il papato di Francesco riprende il filo di quella ricerca: a partire da una dimensione del Corpo di Cristo, che è il Corpo del povero.

Là dove era stata massima per Roma l’asimmetria fra il rapporto con l’Oriente e il rapporto coi Protestanti, Francesco reinventa un ecumenismo nel corpo del povero e del rifugiato. Questo, che sarà uno dei contenuti della dichiarazione di Lund siglata dal Papa di Roma e dal presidente della Federazione Luterana mondiale può avere due significati: trovare ancora una volta un modo per evitare il problema di fondo — e cioè quanta unità dottrinale serve per poter celebrare la stessa eucarestia; o un modo per aprire quel capitolo a partire da un corpo nel quale c’è una presenza reale del Cristo.

In attesa che da quella sottomissione alla verità cristiana spiri un altro Vento che darà alla Chiesa quella unità che non serve ad avanzare pretese più violente, ma a mostrare al mondo che è il soffio del perdono che ne impedisce il crollo sotto il peso della crudeltà e della indifferenza umane.

«L’inchiesta dello Spiegel rivela che nell’attraversare il Mediterraneo perentrare in Europa più di diecimila persone sono annegate dal 2013 e un sacco dimiliardi sono finiti nelle tasche di una rete di trafficanti che ha le sue basiin Germania, Italia e Libia». Internazionale

È il trafficante diesseri umani più ricercato del mondo. Di lui non esistono fotografie, solol’identikit disegnato per gli investigatori. Mostra un uomo tarchiato con untaglio di capelli corto e preciso. Sembra che sia un etiope sulla quarantina eche sia attivo da dieci anni. Al telefono la sua voce suona cupa e gutturale.Sceglie le parole con cura. All’arabo mescola espressioni inglesi smozzicate.Dopo che una delle sue imbarcazioni è affondata al largo di Lampedusa, il 3ottobre 2013, le sue conversazioni sono state intercettate. Lo si sente parlareirritato di life jackets, giubbotti di salvataggio. “Io non gli ho mai datolife jackets, chiaro?”
Quel 3 ottobre, al largodell’isola siciliana, sono affogate 366 persone che stavano quasi perraggiungere la loro meta, l’Europa. Quando l’ha saputo, l’uomo che avevaorganizzato il viaggio si è infuriato più per il danno alla sua reputazione cheper i morti. “Tanti migranti sono partiti con altri organizzatori e sono finitiin pasto ai pesci”, esclama. “Ma nessuno ne parla”. Solo a lui danno la caccia.Lui: Ermias Ghermay. Da quel “giorno delle lacrime”, come lo ha definito papaFrancesco, nel Mediterraneo sono morti altri diecimila migranti: in media unoogni tre ore. Ma nello stesso periodo circa cinquecentomila persone hannoraggiunto le coste italiane. Questo significa che, nel giro di tre anni, nellecasse dei trafficanti africani sono entrati miliardi di euro.

In questo business dimorte, a dettare le regole sono gli etiopi, i sudanesi, i libici e gli eritrei.L’Eritrea è uno dei paesi più poveri del mondo, una dittatura a partito unicoche l’ong Human Rights Watch ha definito “una gigantesca prigione”. Più di unmilione di eritrei sono fuggiti all’estero. Un mercato enorme per i trafficantidi esseri umani eritrei, molti dei quali gestiscono il business dei profughilungo la rotta centrale, quella che attraversa il Mediterraneo. Come dimostranole intercettazioni telefoniche effettuate dalle procure italiane, gli emissaridei trafficanti a Khartoum, Tripoli, Palermo, Roma e Francoforte fanno parte diuna rete efficientissima. Sparsi lungo il percorso, guidano i loro connazionaliverso nord e incassano milioni di euro.
Colpa del destino
Tra tutti gli africani,gli eritrei sono quelli che presentano il maggior numero di richieste di asiloin Germania, dove parallelamente sta aumentando anche il numero di trafficanti.Come quello di armi e di droga, anche il traffico di esseri umani è ormai unodei business più redditizi della criminalità organizzata ed è finito in granparte sotto il controllo degli eritrei. Il tutto sotto il naso delle autoritàtedesche, la cui passività di fronte a questi sviluppi lascia sbigottiti gliinvestigatori italiani. Lo Spiegel ha svolto le sue ricerche per mesi in Libia,in Italia, a Berlino e a Francoforte. Ha studiato più di mille pagine di attigiudiziari italiani, ha consultato dossier riservati e interrogato i migrantisopravvissuti alla traversata. Da questo lavoro è emersa un’immagine più chiaradei trafficanti di esseri umani, che sono disposti ad accettare la morte dimigliaia di persone, sequestrano i profughi e li vendono come bestie.

Uno deipiù famigerati esponenti di questa categoria è Ermias Ghermay. La sede dell’unitàspeciale Tarik al Sika si trova sull’omonima strada nel centro di Tripoli, lacapitale della Libia. È qui che viene coordinata la lotta a Ghermay e aglialtri trafficanti. Finora nessuno straniero aveva mai avuto accesso a questastruttura. Per entrare nel cortile bisogna passare una porta d’acciaio. Asinistra ci sono gli unici degli investigatori e delle forze speciali, a destrale celle. La Tarik al Sika è un’unità di élite che si occupa d’individuare itrafficanti di esseri umani e gli esponenti delle milizie estremiste. Inconfronto al caos che ormai è la norma in Libia, qui regna l’ordine. Allaparete sono affissi i turni di servizio. I dossier delle operazioni sono classificatie organizzati in raccoglitori.

Il capoturno Hussam (ilcognome non lo rivela per motivi di sicurezza) non indossa l’uniforme, ma jeanse maglietta. Porta la barba secondo l’uso della coalizione Alba libica:accuratamente rasata a formare un semicerchio che va da un orecchio all’altrosotto il labbro inferiore. I suoi capelli sono legati in una coda.“Sappiamo dove sinascondono Ermias e i suoi uomini, conosciamo quelli con cui lavorano eseguiamo i loro spostamenti”, dice Hussam. Poi tira fuori un dossier e legge: fino al 2015 Ghermay ha vissuto a Tripoli in un quartiere popolatoprevalentemente da migranti africani e noto per essere un centro di smistamentodi droga, armi e alcol. Hussam spiega che la sua unità ha fatto irruzione duevolte nell’appartamento di Ghermay, che però è riuscito a scappare in entrambii casi: ora il trafficante risiede a Sabrata, sulla costa occidentale dellaLibia, protetto da guardie armate fino ai denti. Purtroppo, spiega Hussam, leautorità libiche non hanno abbastanza uomini e armi per affrontarlo lì. Molti trafficanti diesseri umani si vantano di avere ottimi rapporti con la polizia libica esostengono di poter tirare fuori di prigione chiunque semplicemente pagando gliagenti. Hussam ammette che queste cose in Libia succedono davvero, ma non nellasua unità.
“Ghermay è un etiope conpassaporto eritreo e va in giro in jeans e maglietta per non dare nell’occhio”,racconta Yonas, un ex intermediario del trafficante. Qualche mese fa la Tarikal Sika lo ha arrestato alla mensa dell’ambasciata eritrea a Tripoli, dovelavorava. Da allora Yonas (uno pseudonimo per nascondere la sua identità)collabora con le forze speciali libiche, che lo hanno usato come testimone.Yonas ha dichiarato che per ogni eritreo che passava Ghermay incassava circa 30euro, e che a bordo del barcone affondato al largo di Lampedusa c’erano anchepersone mandate da lui.

La notte dopo ilnaufragio, racconta Yonas, “Ghermay ha fatto passare sotto la portadell’ambasciata Eritrea la lista dei passeggeri, in modo da avvisare iparenti”. Nelle intercettazioni telefoniche Ghermay si vanta di questo gesto: iparenti delle vittime, in prevalenza eritrei, sono stati “informati”tempestivamente. Queste cose fanno bene agli affari. “Subito dopo ladisgrazia”, racconta Yonas, “gli ho telefonato e gli ho detto di venire allamensa. Volevo che risarcisse le famiglie delle persone annegate. Lui è venutoall’appuntamento, ma ha rimborsato solo il prezzo della traversata”.
In una telefonata a untrafficante Sudanese Ghermay dice che se i profughi sono morti è colpa loro:non hanno seguito le sue istruzioni e hanno stupidamente fatto capovolgere ilbarcone. Ghermay ha la coscienza a posto: “Ho seguito le regole, ma loro sonomorti lo stesso. Si vede che era destino”. Il sudanese concorda: “Non si puòfare appello contro il giudizio di Dio”.
Collaborazione redditizia
Le rovine dell’anticoteatro di Sabrata si vedono da molto lontano. Dichiarate patrimoniodell’umanità dall’Unesco, sono la testimonianza dello splendore raggiuntodall’impero romano sotto il filosofo Marco Aurelio. Oggi questa cittàmillenaria è uno degli snodi della criminalità internazionale e un centro dismistamento delle ricchezze guadagnate grazie al traffico di esseri umani. Daqui passa la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, eda qui partono molte delle imbarcazioni dirette in Italia. Quando arrivano aSabrata i migranti hanno già affrontato un viaggio di migliaia di chilometri.Gli eritrei che sono riusciti a raggiungere il Sudan orientale passando perl’Etiopia pagano ino a seimila dollari per poter proseguire dalla capitalesudanese Khartoum ino alla costa mediterranea della Libia. Per quasi tutti, ilviaggio è una sofferenza. Molti sono sequestrati nel Sahara, rinchiusi esottoposti a maltrattamenti sistematici, finché i familiari non mandano i soldiper la tappa successiva.

Fanos Okba, 18 anni,sopravvissuta al naufragio di Lampedusa, è stata violentata in uno di questicampi di prigionia. “Eravamo costretti a stare in piedi tutto il giorno mentresotto i nostri occhi gli altri migranti venivano torturati in mille modi:scosse elettriche, colpi sulle piante dei piedi”, racconta. “Ad alcuni venivalegata una corda intorno al collo e alle gambe, in modo che al minimo movimentosi strangolavano”.

Per porre fine a queitormenti, i parenti devono versare denaro su conti bancari in Sudan, in Israeleo a Dubai, oppure con l’hawala, un sistema di trasferimento molto usato inMedio Oriente. È un sistema che si basa sulla fiducia: una persona riceve unasomma e un’altra versa la stessa cifra al destinatario in un’altra parte delmondo. Dopo che il denaro è arrivato a destinazione la famiglia del migrantericeve un codice, che dev’essere mandato al cellulare dei trafficanti. Soloallora il viaggio verso nord può continuare.

Una volta arrivati sullacosta libica, i clienti di Ghermay vengono nuovamente rinchiusi, di solito inqualche magazzino a Sabrata o alla periferia di Tripoli. Per facilitare lacontabilità i migranti ricevono un numero d’identificazione un po’ come succedenel commercio del bestiame. Secondo le carte degli inquirenti italiani, Ghermayintrattiene “contatti diretti con trafficanti nell’Africa subsahariana”. Inquesto modo riesce a “comprare carichi” da altri trafficanti “per aumentare iprofitti”.
I luogotenenti diGhermay, che si fanno chiamare “colonnelli”, impongono una disciplinaseverissima. Tenere i migranti nei magazzini costa: per questo chi non è ingrado di pagarsi subito il passaggio verso l’Italia viene picchiato etorturato.

Tutto questo succede inun paese a cui ad aprile l’Unione europea ha offerto un
pacchetto di aiuti delvalore di cento milioni di euro. Succede mentre le navi dell’operazione europeaSophia operano così vicino alle coste libiche che i trafficanti riescono aportare a destinazione i loro carichi spendendo una miseria: bastano un barconemalconcio, pochi litri di gasolio e un telefono satellitare per fare lachiamata d’emergenza. Gli investigatori della Tarik al Sika non riescono asmantellare l’organizzazione di Sabrata perché i trafficanti e le potentimilizie locali lavorano a stretto contatto. I miliziani hanno bisogno di denaroe i trafficanti di protezione: una collaborazione redditizia per entrambe leparti. E il mercato promette bene: di recente l’inviato speciale delle NazioniUnite Martin Kobler ha dichiarato che sulle coste libiche 235mila personeaspettano di partire per l’Italia.

Secondo gli investigatorilibici, Ghermay si è stabilito in un quartiere vicino alla torre idrica diSabrata. “Si sposta da una città all’altra”, spiega il maggiore Bassam Bashir,che dirige l’unità incaricata d’indagare sul traico di migranti nella città.“Le nostre fonti indicano che è qui”. Di recente l’amministrazione cittadina haavvisato che l’obitorio comunale non può più accettare cadaveri di stranieri:l’edificio è troppo piccolo per contenere i corpi di tutti i migranti africaniritrovati sulle spiagge di Sabrata. A luglio sono stati più di 120 e, secondoil sindaco, in un solo giorno ne sono stati trovati 53. Bashir conferma cheGhermay non è l’unico trafficante che vive a Sabrata: c’è anche un imprenditorechiamato Mosaab Abu Grein. Secondo gli inquirenti di Tripoli, è lui il vero redel traffico di esseri umani in Libia. Gli abitanti del posto dicono che AbuGrein ha 33 anni e due figli maschi, è una persona rispettabile e ha un’ottimareputazione, almeno ufficialmente. Sulla sua testa non pende nessun mandato dicattura internazionale ed è il proprietario dello stabilimento balneare piùgrande di Sabrata, ma ha scelto di non rispondere alle accuse degli inquirenti.Un suo ex complice, che ora collabora con le autorità, afferma che solo nel2015 Abu Grein avrebbe fatto arrivare clandestinamente in Europa 45milapersone, quasi un terzo del totale. A quanto pare anche prima della caduta diMuammar Gheddafi il ricco imprenditore aveva ottimi rapporti con la mafiaitaliana e un ruolo di primo piano nel traffico di esseri umani. Secondo gliinquirenti, oggi Ghermay gestisce gli affari di Abu Grein con l’Etiopia,l’Eritrea e il Sudan. Quando gli chiediamo se le autorità europee sono aconoscenza delle indagini dei loro colleghi libici, Hussam scuote il capo. “Voieuropei non fate che lamentarvi dei migranti che vengono dall’Africa”, dice,“ma nessun procuratore italiano o tedesco è mai venuto a Tripoli a chiederecosa succede qui”.
Testimone chiave
Ha il viso largo e gliocchi neri e porta una collana di perline di plastica: secondo il mandatod’arresto spiccato dalle autorità italiane, Atta Wehabrebi intratteneva“rapporti diretti con i trafficanti di esseri umani in Libia, compreso ErmiasGhermay”. Il procuratore Calogero Ferrara sostiene che Wehabrebi è un“testimone chiave”. Ferrara, abbronzato e con un sigaro in bocca, è orgoglioso.È qui nel suo ufficio di Palermo che Wehabrebi ha parlato per la prima volta,nell’aprile del 2015. Le dichiarazioni dell’eritreo, dice Ferrara, sonopreziose come quelle dei capi mafiosi pentiti.

Ferrara lavora per la squadraantimafia della procura di Palermo. Ogni mattina, quando raggiunge il suo ufficioal secondo piano del palazzo di giustizia, passa davanti a una targa checommemora alcuni dei suoi predecessori assassinati. In questo edificiolavoravano anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi nel1992. “In Italia ci sono tante cose che non funzionano”, dice Ferrara, “ma dilotta alla criminalità organizzata qualcosa ne capiamo”. Secondo gli inquirentisiciliani i crimini dei trafficanti di esseri umani richiedono misure drastichecome quelle adottate contro la mafia.

La giustizia italiana consente agliinvestigatori di usare intercettazioni telefoniche e riprese video. I testimonichiave sono trattati con generosità e godono di programmi di protezione. Finorala procura di Palermo ha condotto tre operazioni – Glauco 1, 2 e 3 – persmantellare le cellule della rete di Ghermay. Sono stati emessi 71 mandati dicattura. Nell’ultima grande operazione, a giugno, due terzi dei 38 arrestatierano eritrei. Ci sono già state delle condanne, tra cui quella di Wehabrebi,che ora vive sotto protezione. “Tutto ciò che sappiamo su questa rete lodobbiamo a lui”, spiega Ferrara. Wehabrebi è arrivato in Libia dall’Eritreaquando aveva 13 anni, e a Tripoli viveva nella stessa strada di Ghermay, in unquartiere borghese. Ai tempi di Gheddafi gestiva un bar dove i migranti sifermavano prima di cominciare la traversata del Mediterraneo. Wehabrebi sifaceva dare i soldi e li mandava ai trafficanti. Nel 2007 Wehabrebi è arrivato inItalia e ha deciso di mettere a frutto i suoi contatti con i capi del trafficodi esseri umani. Ha scalato le gerarchie e, secondo il mandato di cattura, èdiventato “uno dei boss e dei fondatori” dell’organizzazione criminale, insiemea Ghermay e a un sudanese di nome John Mahray. Wehabrebi era responsabile delleattività in Italia e si occupava di far proseguire verso nord i migrantisbarcati in Sicilia. Doveva farli partire prima che le autorità italianepotessero prendergli le impronte digitali. Senza impronte è difficilerintracciare i migranti: le autorità tedesche non possono ricostruire chiproviene da dove.

Anche se non aveva lapatente, Wehabrebi accompagnava in auto alcuni dei migranti in Germania e perfinoin Scandinavia: un gioco da ragazzi in un’Europa senza controlli allefrontiere. Altre volte se ne occupavano i suoi complici, che partivano da Bolognaalle nove di sera diretti a Rosenheim, nel sud della Germania. “Alle sei di mattinasei già tornato e hai guadagnato mille euro”, gli diceva Wehabrebi. “Se itedeschi ti fermano, di’ che non conosci la gente che hai in macchina, e ilgiorno dopo sei libero”. Secondo Wehabrebi, un business particolarmente redditizioera quello del commercio di documenti falsi. Racconta che alcuni dei suoicomplici eritrei avevano chiesto in cinque diverse prefetture italiane ilricongiungimento familiare per cinque diverse mogli che dicevano di aver lasciatoin Eritrea. Con questo stratagemma le donne, che ricevevano il visto dientrata, si risparmiavano la pericolosa traversata via mare ma dovevano pagarefino a 15mila dollari per il finto matrimonio. Secondo Wehabrebi tutto questosistema funziona anche perché le prefetture italiane non incrociano i dati traloro.

Gli italiani possonopermettersi di essere negligenti. Anche se solo nel 2015 più di 38mila eritreisono arrivati illegalmente in Italia il numero di eritrei è calato del 30 per centorispetto al 2011 fino agli attuali 9.600. Ogni anno decine di migliaia dieritrei sbarcati in Italia proseguono verso la Svizzera, la Svezia o laGermania. Tra loro ci sono moltissimi disperati, ma anche ricchi trafficanti. SecondoFerrara le autorità tedesche sono a conoscenza di questo traffico grazie aEurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea, ma sembrache la cosa le lasci indifferenti. “Noi italiani svolgiamo indagini, emettiamomandati di cattura e chiediamo riunioni di coordinamento. Abbiamo documenti dacui risulta che la rete ha contatti con la Germania”. Ferrara dice di avermandato ai suoi colleghi in altri paesi dell’Unione quarantamila trascrizionid’intercettazioni telefoniche attraverso l’Europol. Il procuratore ha chiesto aiutoper individuare i vari legami all’interno della rete criminale. I britannici,gli svedesi e gli olandesi hanno valutato i dati e hanno avviato delle indagini,racconta, “ma i tedeschi non hanno fatto niente. Non sembravano troppo interessati.A una delle riunioni di Eurojust hanno mandato una praticante. Li ho sentitidire cento volte la frase: ‘Siamo pronti ad aiutare i colleghi italiani’, eonestamente non ne posso più”.
Arroganza o ingenuità?Ferrara propende per quest’ultima: “Mi ricorda un po’ le mie indagini sulla mafia.Anche in questo caso i tedeschi tendono a dire: ‘La mafia? Da noi non esiste’.Chiudono gli occhi davanti alla realtà, anche se gli abbiamo fornito prove sufficienti”.Gli inquirenti tedeschi sostengono di essere stati informati troppo tardi. Gliitaliani avrebbero condiviso i risultati delle indagini solo dopo che leoperazioni Glauco 1 e 2 erano terminate. E le differenze strutturali tra ilsistema tedesco e quello italiano avrebbero complicato il tutto.
L’eccezione tedesca
Un cordiale signore cheha il suo ufficio vicino alla cattedrale di Palermo si mostra particolarmentecritico nei confronti dei tedeschi. Si chiama Carmine Mosca e dirige un repartospeciale per la lotta contro il traffico di esseri umani istituito presso lasquadra mobile della polizia italiana. A giugno Mosca è andato a Khartoum persupervisionare l’estradizione di un trafficante. Loda la collaborazione con laNational Crime Agency britannica, che ha contribuito alla cattura del sospetto,e con le autorità olandesi, che ascoltano sempre le richieste italiane. Maquando si parla dei tedeschi trattiene a stento la rabbia. Non sarebbe troppodifficile arrestare gente come Ghermay, dice Mosca, ma i suoi uomini devonosuperare ostacoli inutili. Per esempio, normalmente una nave che partecipaall’operazione Sophia attracca in un porto della Sicilia con centinaia dimigranti a bordo. “Noi andiamo lì e indaghiamo”, dice Mosca. “Chiediamo chisono i trafficanti e i contatti telefonici in Libia per poterli mettere sottocontrollo. Quasi tutti gli equipaggi, irlandesi, spagnoli o norvegesi, sono benorganizzati e collaborativi”. L’unica eccezione sono i tedeschi.

Una volta lafregata Hessen è arrivata con un carico di migranti: “Gli ufficiali non cihanno neanche lasciato salire a bordo. Non ci hanno dato nessuna informazione.Non abbiamo catturato neanche un trafficante”, dice. Tutto ciò nonostante Moscaavesse con sé tre procuratori italiani: anche loro sono stati respinti daitedeschi. “Siamo in Italia, ci portano dei migranti e non ci lasciano neanchesalire a bordo per capire com’è andato il salvataggio”, dice Mosca. Quandoabbiamo contattato il comandante della Hessen, ha risposto di non ricordarenessun caso in cui sia stato negato alle autorità italiane di salire a bordo.Il ministero della difesa tedesco afferma che a metà del 2015 “non c’era ancoranessun mandato per combattere i trafficanti nel Mediterraneo” e che, nel corsodelle operazioni congiunte, l’accesso a bordo è sempre consentito “senecessario”. In Sicilia è diventato impossibile ignorare le conseguenzedell’arrivo di migliaia di sopravvissuti ai naufragi. Basta seguire le tracceche Wehabrebi ha fornito agli inquirenti. Per esempio a Palermo, nel vicolosanta Rosalia. Qui, in un bar come gli altri, i trafficanti hanno tenuto i lorocarichi di esseri umani fino a luglio, quando c’è stata una retata. Oggi igiovani guardano in strada con gli occhi vitrei e le guance gonfie di qat, unadroga molto comune in Africa orientale.

A Roma gli eritrei hanno la loro basenel palazzo Selam, un edificio in vetro che ospitava la Facoltà di lettere e filosofiadell’università Tor Vergata e ora offre riparo a circa duemila migranti. Duedei trafficanti ricercati a giugno erano domiciliati qui, altri presso ilcentro per i rifugiati dei gesuiti.
Dietro la porta verde divia degli Astalli 14 i religiosi non offrono solo pasti caldi: i migranti senzaissa dimora possono usare il loro indirizzo per presentare la richiesta di asiloo di un permesso di soggiorno. Dei 38 mandati di cattura emessi all’internodell’operazione Glauco, tre sono stati recapitati ai gesuiti. Wehabrebi, che quandofaceva il trafficante viveva a Roma in un palazzo borghese con vista sui colliAlbani, ha fornito anche altre informazioni durante il suo interrogatorio didieci ore. Una parte delle sue dichiarazioni è ancora secretata. “Stiamo giàpreparando l’operazione Glauco 4”, dice Ferrara. “Stavolta ci occupiamo dei flussi di denaro. Abbiamo chiesto la collaborazione dei servizi d’intelligence.Anche qui vale il motto del giudice Falcone: ‘Segui la pista dei soldi’”.

Per capire dove finisconoi milioni raccolti dai trafficanti bisogna cercare Mana Ibrahim, la moglie diGhermay. Secondo Wehabrebi ha fatto richiesta d’asilo in Germania: “Vive vicinoa Francoforte. Tutto il denaro guadagnato da Ghermay è in Germania”. La procuradi Palermo sostiene di aver trasmesso le informazioni sulla moglie di Ghermayai colleghi tedeschi, ma in Germania nessuno sa niente di Ibrahim. La procuradi Francoforte spiega che la città è indubbiamente “uno dei nodi nella rete deitrafficanti eritrei”, e che ultimamente sono stati aperti “tra i 10 e i 15procedimenti” al riguardo. L’ufficio che si occupa di criminalità organizzataavrebbe indagato più volte sul traffico di stranieri, ma finora sono statearrestate solo persone di secondo piano. Gli inquirenti di Palermo sostengonoche diversi grossi trafficanti dell’organizzazione di Ghermay sono ancora apiede libero in Germania, nonostante sul loro capo penda un mandato di cattura.Già negli anni scorsi esponenti di primo piano della rete dei trafficanti sonostati ricercati in Germania solo su richiesta delle autorità italiane. Tra loroc’è Measho Tesfamariam, considerato responsabile di una traversata avvenuta nelgiugno del 2014 e terminata con la scomparsa di 244 migranti. In seguitol’eritreo è arrivato in Germania e ha chiesto asilo. Nel dicembre del 2014 gliinquirenti lo hanno trovato a Müncheberg, nel Brandeburgo. Un altro esempio è YonasRedae, una figura di primo piano della rete che opera in Sicilia, arrestato afebbraio a Göttingen, dove viveva dopo aver fatto richiesta di asilo. OppureMulubrahan Gurum, tesoriere di una delle organizzazioni più potenti, che ino alsuo arresto nell’agosto del 2015 ha vissuto a Worms.
In Italia sono statepresentate denunce per stupro, lesioni personali, violazione di domicilio efurto contro Gurum, che ha negato tutte le accuse. Ha fatto richiesta d’asilo inGermania con il suo vero nome. Quando sulla sua scrivania è arrivata unarichiesta di estradizione, il procuratore capo di Coblenza, Mario Mannweiler, hapensato che fosse un normale caso di collaborazione amministrativa. Tra lemotivazioni si leggeva: “Appartenenza a un’associazione criminale”. Ma leprocure tedesche, dice Mannweiler, sono sovraccariche di lavoro: “Non è faciletrovare qualcuno che s’interessi al caso e sia disposto a scavare più a fondo”.Quindi i tedeschi preferiscono chiudere gli occhi sui criminali che arrivanonel loro paese attraverso la Libia e l’Italia? O è colpa delle leggi tedesche?In Italia appartenere alla mafia è di per sé un reato penale, in Germania no:prima di arrestare qualcuno bisogna dimostrare che abbia commesso un crimine. ABerlino un agente dell’intelligence tedesca ammette: “Siamo molto preoccupatiper l’alto numero di profughi non censiti presenti in Germania. Siamo ancheallarmati dalla cooperazione fra trafficanti, milizie e gruppi estremisti nelSahara”. La stessa fonte riferisce che ci sono cellule del gruppo Statoislamico in città come Tripoli e Sabrata, dove sembra che viva Ghermay.L’Unione europea spera che la crisi dei profughi possa essere risolta con isoldi. Il cosiddetto processo di Khartoum, lanciato nel 2014 per favorire lacollaborazione tra Unione europea e paesi di transito e di origine deimigranti, dovrebbe fornire aiuti finanziari ai paesi dell’Africa orientale eagli altri stati attraversati dalle rotte dei migranti. Tra i beneficiari c’èanche il dittatore sudanese Omar al Bashir: anche lui dovrebbe ricevere milionidi euro da Bruxelles. Un piano d’azione europeo prevede di rafforzare leistituzioni e il personale dell’Eritrea, il cui governo è accusato da Amnesty Internationald’infliggere un “trattamento crudele, disumano e degradante” a chiunque osimetterlo in discussione. Ma per fermare l’esodo degli eritrei non basteràun’iniezione di denaro. A Francoforte esistono già una comunità religiosaeritrea e una etiope e un consolato eritreo, e intorno alla stazione ci sonobar e ristoranti dove si ritrovano gli eritrei. Uno di loro racconta di averconosciuto Ghermay a Khartoum grazie a un amico che fa parte del giro dei trafficanti.“Come molti trafficanti, in autunno Ghermay si trasferisce in Sudan e frequentale cerchie più elevate”, racconta il ragazzo. Secondo lui nella maggior partedei casi cercare di coinvolgere i governi africani nella lotta ai trafficanti èassurdo: “In Sudan i generali in uniforme trattano Ghermay come un amicostretto. È sotto la loro protezione e quando torna in Libia è protetto dailibici”. Nel cimitero situato poco lontano dalla città di Zawiya, in Libia, le filedi mucchietti di sabbia sembrano infinite. I migranti senza nome che il mare hatrascinato a riva hanno tombe senza lapidi, solo con dei mattoni bianchi. Sonocentinaia, forse mille. Pochi chilometri più avanti un gruppo di uomini dellaguardia costiera di Zawiya osserva il mare. Il loro portavoce, che chiamanocolonnello Naji, si sforza di essere all’altezza del suo nuovo ruolo diresponsabile della lotta al traffico di esseri umani.

Dal 30 agosto le squadrecome la sua sono addestrate dall’Unione europea. Quando avvistano un barconecarico di migranti hanno il compito di riportarlo a riva. Ma è difficilestabilire da che parte stiano questi uomini. I migranti dicono che la primadomanda che gli fanno è: “Di chi siete?”. Come dire: quale trafficante avetepagato? In base alla risposta decidono se il barcone può proseguire verso lenavi dell’operazione Sophia o se invece sarà rimorchiato a riva. Sembra che certitrafficanti siano in buoni rapporti con la guardia costiera, e altri invece noncurino abbastanza questi contatti.
Naji è contento che laGermania aiuti i suoi uomini nella lotta contro i trafficanti.
Ma ha un consiglio pergli amici del nord: “Dovete cambiare le vostre leggi. I trafficanti vi usanocome dei tassisti che vengono a prendere i loro clienti davanti alle coste libiche,in tutta sicurezza e senza chiedere un soldo”.
Il servizio di Der Spiegel è firmato da Alexander Bühler, Susanne Koelbl, Sandro Mattioli e Walter Mayr
«Si tratta di un movimento sinistro che sta montando nel ventre d’Europa contro gli stranieri. La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario».

il manifesto, 27 ottobre 2016


La rivolta del paesotto del Ferrarese contro dodici donne e otto bambini è stata definita dalla curia una «notte ripugnante». Non si potrebbe chiamare altrimenti. Bisognerebbe andare a vedere con che faccia questa brava gente di Gorino, o come diavolo di chiama il villaggio, andrà a messa, domenica prima di pranzo, e confesserà qualche peccatuccio o toccatina e farà la comunione e se ne tornerà a casa a divorare un bel piatto di lasagne. Abbiamo paura! Ecco il grido rituale che risuona da venticinque anni nel regno di Padania, aizzato da politicanti con la bava alla bocca e giornalacci scandalistici.

Paura di dodici donne, tra cui una incinta, e otto bambini? Eh già, ma poi arrivano i padri, i mariti, i fratelli e con loro i criminali, gli imam e poi i tagliagole dell’Isis… Come no. Una ventina d’anni fa i sociologi scrivevano che i migranti delinquono perché sono senza famiglia, allo sbando. Se invece le famiglie si riuniscono, dilaga la poligamia. Se arrivano uomini, sono potenziali terroristi. Se arrivano le donne, sono avanguardia di un’invasione. Se tutti questi difensori ringhianti del campanile e dell’orto di casa avessero il coraggio di dire che provano disgusto per neri, marocchini, siriani e qualsiasi altro alieno perché è alieno, punto e basta, tutto sarebbe più onesto e più semplice.E invece no, mica sono razzisti, loro. Hanno paura.

Ma avranno provato a immaginare la paura di quelle donne e quei bambini quando, sopravvissuti a deserti e tempeste, venivano sballottati tra autobus e caserme dei carabinieri?

Certo, tutti a singhiozzare davanti al corpicino della bambina su una spiaggia turca. Però, che questi orrori restino là, a qualche migliaia di chilometri dai nostri paesini operosi, o sulle remote spiagge di Sicilia, perché qui non li vogliamo, i loro bambini. E così, grazie alle mitologie della paura, la parola “profugo”, che significa una persona che fugge, una vittima, è diventata sinonimo di minaccia. Di fronte alla quale, chiunque si barrica in casa e afferra, per ora solo metaforicamente, lo schioppo.

Qualche giorno fa, un giornale tedesco, e nemmeno troppo di sinistra, davanti all’ennesima manifestazione dei partiti xenofobi (Pegida, Afd ecc.), si è chiesto con un gran titolo: “Ma i tedeschi sono idioti?” E ha risposto: sì, i cittadini che manifestano sono idioti, la polizia è brutale e i politici sono entrambe le cose. Se consideriamo la situazione europea, dall’Egeo alla Manica, dal mare del nord al Mediterraneo, dovremmo ammettete che l’idiozia dilaga, nelle forme più creative e pittoresche. Il filo spinato macedone, i muri di Orbàn, il cattolicesimo ultra-reazionario e iper-nazionalista polacco, le rivolte in Sassonia contro i profughi, il referendum svizzero contro i comaschi, la chiusura del campo di Calais, il Brexit contro gli operai polacchi. Dico idiozia perché quasi tutte queste decisioni o proteste si ritorcono alla lunga contro chi le promuove. L’Europa si sta decomponendo e questo non faciliterà la vita nemmeno agli elettori di Orbàn, né agli xenofobi sassoni, né ai pensionati di Gorino. E tantomeno ai furbissimi inglesi che hanno votato contro l’Europa e ora rischiano, nell’acre soddisfazione dei continentali, di andare alla deriva con la loro isola sempre più ridimensionata.

Ma in realtà non si tratta di idiozia, tranne che in alcuni casi di leader politici. Si tratta di un movimento sinistro che sta montando nel ventre d’Europa contro gli stranieri, ingrossato anche da anziani, soggetti socialmente deboli e diseredati, che scaricano su quelli che non conoscono la disoccupazione, la precarietà, la frustrazione, la solitudine o la mancanza di prospettive. E questo è un frutto avvelenato, potenzialmente letale, del cedimento dei governi, socialdemocratici in testa, alla voracità delle banche, dei cosiddetti mercati e del capitalismo globale.

La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario.
Un confronto tra Raniero La Valle e Michele Serra su un argomento rilevante del dibattito politico di queste settimane; nonché sul futuro di noi tutti.

La Repubblica, 26 ottobre 2016, con postilla


LA DOMANDA
di Raniero La Valle

CARO Serra, su “L’amaca” di domenica scorsa, lei si è mostrato d’accordo — e la ringrazio — con la mia “spiegazione” (citata da Micromega), secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lei definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lei stesso si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto. Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione per votare “Sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.

È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata su Repubblica. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica. Ma nel passaggio dello scettro dal popolo ai signori del Mercato non c’è solo la sconfitta della sinistra, c’è la sconfitta di tutto il costituzionalismo moderno e dello stesso Stato di diritto: il popolo sovrano è il cardine stesso della democrazia e della Costituzione. Mettere super partes la nuova realtà per cui esso è tolto dal trono, sottrarre questo mutamento alla lotta politica, accettarlo come un fatto compiuto e finale, non è solo un efficientismo da quarantenni, è una scelta. E se a farlo è la sinistra, non è solo una sconfitta, è una caduta nella “sindrome di Stoccolma”, è un suicidio, ma col giubbotto esplosivo addosso, che distrugge insieme alla sinistra la politica, la democrazia e la libertà.

LA RISPOSTA
di Michele Serra

CARO La Valle, io credo che la riforma Boschi- Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la “sovranità dei mercati”) già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.

Credo anche che di quei mutamenti strutturali della società occidentale, in specie della fine della centralità operaia e del lavoro salariato a tempo determinato, Renzi non sia certo il fautore, né, per dirla con una battuta, l’utilizzatore finale. Al massimo gli si può imputare di esserne il gestore a cose fatte, ma al pari di TUTTA la politica corrente, che appare succube degli assetti economici e con un margine di intervento minimo. Veda un poco, come vicenda amaramente esemplare, il pochissimo che è riuscito a fare il governo di sinistra-sinistra insediatosi in Grecia con la speranza, evidentemente eccessiva, di un cambiamento paradigmatico rispetto alle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.

Infine, per utilizzare il suo stesso metro di valutazione, le dirò che la “sovranità del popolo” non mi pare sia stata efficacemente rappresentata e tutelata dai precedenti assetti normativo-funzionali delle nostre istituzioni, a meno che i 62 governi (in neanche settant’anni) che hanno preceduto questo siano da considerarsi il sintomo di una estrema vivacità politica del popolo italiano.

postilla

Una risposta davvero deludente quella di Michele Serra. Ecco un altro che crede nella “fatalità” di una politica che si accoda agli eventi invece di cercar di guidarli, magari contrastandoli. Ecco un altro che crede nel primato della difesa dell’economia data (l’ultima incarnazione del capitalismo) su ogni ricerca di possibili alternativa. Ed ecco un altro che parla della riforma Renzi-Boschi senza averla studiata, se scrive, come scrive, di leggervi una semplificazione degli iter legislativi; e che comunque non la legge nel contesto in cui viene imposta, se scrive di un “blando rafforzamento” dell’esecutivo, e non del consolidamento di un processo avviato da Renzi fin dal giorno del suo impadronirsi del PD.

Deludente infine quando poi misura la “sovranità popolare” nel numero di governi succedutisi in 70 anni, anziché nel suggello che la Costituzione del 1948 seppe dare al lavoro iniziato dai tempi della rivoluzione borghese (come ricorda La Valle), ripreso e sviluppato con la Resistenza e condotto a un primo traguardo nella comprensione del valore della democrazia come strumento per la costruzione di una società pluralista.

Noterelle sulle lacerazioni tra i diversi "socialismi" (se così si può dire) europei.

L'Espresso, blog "Piovono rane", 25 ottobre 2016

Mentre in Spagna il Psoe fa nascere un nuovo governo di centrodestra, in Belgio il partito socialista vallone inceppa la macchina del Ceta, l'accordo mercatista cugino del Ttip. È curioso che le due cose (Spagna e Belgio) avvengano negli stessi giorni, proprio a esemplificare la lacerante crisi d'identità del socialismo europeo: da un lato chi vuole proseguire sulla strada intrapresa ai tempi di Tony Blair (cioè l'emulazione del centrodestra liberista), dall'altra chi da questa strada vuole fuoriuscire, se non altro perché eccessive sono diventate le diseguaglianze create da quel modello e dalla sua tecno-finanziarizzazione.

Se guardate altri partiti socialisti europei (e non solo), vedete che la dinamica è spesso simile. Il Labour - quello che vent'anni fa ha aperto la strada alla "sinistra che fa cose di destra" - si è spaccato due volte sull'elezione di Corbyn, osteggiatissima dal suo gruppo parlamentare ma fortemente voluta dalla maggioranza dei suoi iscritti (61.8%). In Francia, François Hollande ha conquistato la leadership e l'Eliseo con un programma fortemente di sinistra, poi ha fatto tutto il contrario e oggi è in caduta libera nei sondaggi; alle primarie del Ps sarà sfidato dall'ex ministro dell'Economia Arnaud Montebourg, alfiere della lotta al capitalismo mondializzato e fatto fuori da Hollande proprio perché - secondo lui - troppo di sinistra. Negli Stati Uniti i socialisti come partito non esistono ma la dinamica delle primarie democratiche non è stata così lontana da quella europea: grossolanamente, con un candidato anti-establishment (Sanders) versus un candidato più centrista (Hillary). In Portogallo i socialisti di António Costa hanno scelto di governare con i due partiti della sinistra più radicale: un esecutivo che cammina in bilico tra gli obblighi imposti dalla Troika e il rispetto degli ideali ridistribuitivi della sinistra.

Sull'Italia non voglio dilungarmi troppo per non generare inutili flame su Renzi, cioè il Blair nostrano: basti ricordare che l'elettorato di sinistra è ormai diasporizzato tra l'astensione, il M5s, l'abbrivo affettivo al Pd e i cascami sparsi della cosiddetta sinistra radicale. E va aggiunto che anche dentro al Pd convivono anime blairiane e corbyniane, per capirci.

Più in generale, la situazione dei socialisti nel mondo è nota da tempo: la globalizzazione ne ha ridotto drasticamente i margini di azione, quindi il senso stesso, la ragione sociale. «Partigiani inflessibili del compromesso tra il capitale e il lavoro, i socialdemocratici non possono ritrovare la forza che avevano nel dopoguerra perché oggi i dipendenti non hanno più la possibilità di imporre concessioni sociali al capitale. Questo perché una nuova rivoluzione industriale ha smantellato le grandi fortezze operaie e perché la riduzione delle distanze permette al capitale di sfuggire alle leggi nazionali andando a cercare altrove terreno fertile per i suoi investimenti. L’unico modo che avrebbero i dipendenti e la socialdemocrazia per modificare questa situazione sarebbe quello di favorire l’emergere di una potenza pubblica europea, le cui dimensioni continentali potrebbero piegare anche le più grandi aziende» (Bernard Guetta).

Quello che dice Guetta (l'ultima parte qui citata, intendo) è un po' il tentativo che sta facendo Yanis Varoufakis, con Diem25, ma lo stesso Guetta ne mette in luce le difficoltà, perché oggi se dici "Europa" ai ceti popolari questi mettono mano alla pistola, pensando a Juncker e Merkel, e chi può dargli torto. Di qui comunque tutte le lacerazioni, le spaccature, le discrasie evidenti: come in Gran Bretagna. O come l'ultima, tra la decisione dei socialisti spagnoli e quella dei loro cugini francesi.

E insomma, certo, ha ragione Guetta: l'ipotesi di essere socialisti facendo i socialisti è faticosissima, irta di ostacoli immensi, a rischio di musate clamorose. E potrebbe finire male.

In alternativa c'è l'altra strada, quella assai più comoda percorsa negli ultimi vent'anni, cioè essere socialisti facendo i liberisti, con il plauso della finanza e dei mercati - e il graduale allontanamento dei cittadini. Ma in questo caso - lo insegna bene il Pasok - l'estinzione non è un rischio: è, sul lungo, quasi una certezza.

». il manifesto, 26 ottobre 2016 (c.m.c.)

Se dovessi lasciare la tua casa in una notte cosa porteresti? Se le uniche opzioni fossero il fuoco di un cecchino o un destino da scudo umano cosa sceglieresti? Domande a cui nessuno di noi è costretto a pensare, ma che sono i dubbi martellanti di un milione e mezzo di persone. È il dramma di Mosul, stretta tra la prospettiva della battaglia finale e una fuga fatta di campi minati e campi profughi.

Fuggono in pochi dalla città, sotto l’assillante controllo dello Stato Islamico intenzionato a difendere ad ogni costo la sua roccaforte. Qualcuno ce la fa: secondo l’Onu sarebbero 6mila i civili scappati dalla periferia di Mosul, con peshmerga e truppe governative a 5 km dalla città.

Dove vanno? I timori delle organizzazioni umanitarie oggi sono cruda realtà: non c’è posto per gli sfollati in un paese che in due anni ne ha accumulati quasi 4 milioni su 33, il 12% della popolazione. Ma bisognosi di assistenza, dopo decenni di guerre globali, sono molti di più: secondo l’Onu, oltre 8.5 milioni necessitano di cure mediche, 6.6 di acqua, 2.4 di cibo.

Di campi fuori dalla città di Mosul ne sono stati messi in piedi pochi perché le risorse mancano. «Stiamo mobilitando risorse importanti per fornire aiuti gli sfollati. C’è grande incertezza intorno alla situazione militare. La protezione dei civili è l’elemento più importante di questa operazione», è il commento di Filippo Grandi, alto commissario Onu ai rifugiati.

L’Unhcr ha aperto 5 campi per 45mila persone e ne ha pianificati altri 6 per un totale di 120mila sfollati. Fornirà anche 50mila kit per costruire rifugi d’emergenza per altre 30mila persone, ma il problema restano i fondi: il budget dell’agenzia Onu per Mosul richiederebbe quasi 200 milioni di dollari ma al momento solo il 38% è stato finanziato. Da tempo l’Onu soffre per carenza di fondi, promessi dagli Stati membri ma versati solo in minima parte: è stato donato solo il 58% dei 861 milioni chiesti per l’Iraq.

Ma l’inverno è vicino e la convinzione è che la battaglia sarà lunga. E allora dove si va? A Baghdad è impossibile, la capitale è lontana e off limits per i sunniti. A Erbil lo stesso: dopo l’iniziale politica delle porte aperte, le autorità kurde hanno sigillato i confini e entra solo chi ha uno sponsor. O sei kurdo o sei cristiano.

E allora si scappa verso ovest, la frontiera con la Siria, un’altra trappola. Subito oltre il confine, in territorio siriano, c’è il campo di al-Hol. Zona rossa: qui gli scontri sono quotidiani, tra combattenti peshmerga da un lato e kurdi siriani dall’altro e miliziani islamisti che tentano la via della fuga o l’ultima carta, l’attentato suicida. Da 10 giorni centinaia di iracheni sono bloccati qui, senza poter raggiungere al-Hol, già strabordante di profughi siriani. Solo 912 iracheni sono riusciti a passare ma di posto non ce n’è.

I funzionari dicono agli sfollati di aspettare: devono controllare che tra loro non ci siano infiltrati. Le famiglie attendono sotto il sole ancora cocente di ottobre e usano coperte per ripararsi dal caldo di giorno e dal freddo di notte. Il loro numero aumenterà: è possibile che a breve saranno 100-200mila gli iracheni che tenteranno di raggiungere la Siria, un paese – se possibile – ancora più devastato. Cinque milioni di siriani sono profughi all’estero, altri 7 sfollati all’interno. Metà della popolazione non vive più nella propria casa, nella propria comunità.

Gli occhi di tutti sono oggi concentrati su Aleppo, ma qui la fuga di massa è stata precedente alla battaglia di questi ultimi mesi: ora andarsene è quasi un sogno. Dai quartieri est non si esce, vuoi per timore delle rappresaglie del governo vuoi per i missili delle opposizioni. Se vivi ad Aleppo, poi, l’unica via di fuga concreta è il confine turco, ma è sigillato: le pallottole della gendarmeria di Ankara hanno ucciso decine di rifugiati, ricordando ai siriani che non sono i benvenuti.

Chi è già dentro, 2.2 milioni di persone che guardavano all’Europa, vivono in condizioni miserabili. Condizioni alimentate, di nuovo, dall’Occidente: se da una parte la Ue paga profumantamente il presidente Erdogan perché non faccia passare nessuno, dall’altra le multinazionali fanno affari sul lavoro sottopagato di chi ha poca scelta.

La denuncia è nel rapporto dell’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Center: molti marchi europei d’abbigliamento sfruttano indirettamente i rifugiati siriani ignorando «abusi endemici» in Turchia. Lavoro minorile, nessun diritto, salari irrisori.

«Qui non c'entra l'essere credenti o atei, religiosi o laici. La salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni».

Huffington post online, 26 ottobre 2016

La visione del "Giudizio finale" nel Vangelo di Matteo fa parte della cultura universale. Ci ha pensato Michelangelo, con il magnifico affresco della Cappella Sistina, capolavoro assoluto dell'arte, a fissarla indelebilmente nella mente di ciascuno.

Di qua gli eletti, di là i dannati, nel mezzo Cristo giudice. Sono le parole di Gesù il metro con cui misurare il destino dell'umanità: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi". Tutto qui: sei azioni concrete per avere in eredità il Regno.

La parabola è tanto chiara quanto antica. In fondo è il cuore della nonviolenza attiva. Se accogli e ti apri al prossimo, ognuno vivrà meglio. Il luogo dove sperimentare questa verità è la "casa comune", il mondo in cui viviamo, che diventa Terra promessa, Regno di Dio, se i sei precetti (opere di misericordia corporale, dice la dottrina) vengono rispettati; se invece per paura o egoismo le sei buone azioni vengono disattese, la casa comune diventa un supplizio, un inferno ("ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato: via da me, maledetti!").

Qui non c'entra l'essere credenti o atei, religiosi o laici, è l'esperienza concreta che ci dice chiaramente quanto sia vero l'insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: la salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni.

L'Europa di oggi lo sta sperimentando, sta vivendo questa prova decisiva di masse "straniere" che arrivano da lontano e chiedono di entrare. Si può tentare di chiudere la porta (muri, fili spinati, leggi escludenti, respingimenti, ecc.) ma verrebbe fatalmente sfondata, oppure tenerla aperta (governare il fenomeno con politiche di accoglienza, di cooperazione, creazione di opportunità, libertà di movimento, ecc.).

Il vecchio continente si gioca su questo il proprio futuro: se si chiude sarà condannato al declino. La fuga in atto dall'Africa e dal Medio Oriente ha cause ben precise, anche storiche, che sono di origine economica, un'economia distorta che uccide e provoca guerre. Il movente sono le materie prime e le fonti energetiche: non solo petrolio e gas, ma anche oro, uranio, coltan e altri minerali preziosi necessari all'elettronica. Dopo le conquiste e le colonie dei secoli scorsi, oggi assistiamo ad una nuova depredazione in atto, cui questa volta partecipa anche la Cina.

Territori impoveriti, deviazioni di bacini acquiferi, immissioni di gas serra in atmosfera, hanno causato variazioni climatiche, surriscaldamento, desertificazioni che aggiungono profughi ambientali ai profughi politici, profughi di guerra, profughi economici.

La geo-politica mondiale ha bisogno di essere difesa militarmente con le armi. Il nostro paese, schierato politicamente con l'alleanza atlantica, ma proiettato geograficamente nel Mediterraneo, ha un ruolo importante come accesso all'Europa per milioni di persone.

Siamo pienamente coinvolti, nel bene e nel male. Da una parte facciamo salvataggi, dall'altra esportiamo bombe. E dunque, in definitiva, piantiamo semi di guerra e raccogliamo rifugiati. Dentro alla grande storia delle migrazioni di oggi, ci sono milioni di storie individuali. Storie annegate in fondo al mare (saremo mai perdonati per questo?), o storie di salvezza e di speranza.

Ci vuole un punto di vista particolare per superare la paura, per scoprire storie positive, per mettere in relazione competenze e progetti. L'immigrazione coinvolge i temi dei diritti, dell'ambiente, della pace. Il forestiero che chiede ospitalità è una sfida alla nonviolenza: ci dice che sulla terra nessuno deve essere escluso.

Mao Valpiana è Presidente nazionale del Movimento Nonviolento

«Le rifugiate africane respinte con le barricate a Gorino. La prefettura di Ferrara cede alle proteste e trasferisce 12 donne». Articoli di Andrea Tornago e Marco Zavagli.

Il Fatto Quotidiano e il manifesto, 26 ottobre 2016

Il Fatto Quotidiano

"ABBIAMO LASCIATO L'INFERNO
ORA DOVE POSSIAMO ANDARE"
di Andrea Tornago

L’ultimo tratto del viaggio della speranza è un rettilineo della statale 309 Romea tra Comacchio e Gorino, sul Delta del Po. Quarantadue chilometri al confine tra l’Emilia e il Veneto che dodici ragazze sui vent’anni, scappate dall’Africa in guerra, non sono mai riuscite a percorrere. Per otto ore le richiedenti asilo arrivate dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio e dalla Sierra Leone, sono rimaste bloccate su un pullman nella caserma dei carabinieri di Comacchio, mentre i cittadini di Gorino, frazione di Goro (Ferrara), il paese di pescatori in riva al Po che avrebbe dovuto accoglierle, salivano sulle barricate contro l’ordinanza del prefetto di Ferrara che requisiva l’ostello “Amore e Natura”.

In tutta la provincia ferrarese non c’era nemmeno una struttura disponibile: “Ci dicono tutti che sono al completo anche se è inverno – spiega il prefetto Michele Tortora –. Abbiamo scelto Goro perché non ha mai dato il suo contributo all’accoglienza”. Quasi 300 persone, metà degli abitanti di Gorino, lunedì sera sono scese in strada a bloccare l’unica via d’accesso al paese. È comparsa una barricata. E alla fine le autorità hanno dovuto fare dietrofront, verso mezzanotte, portando le dodici donne di cui una incinta in località rimaste segrete per ore. Abbiamo incontrato tre di loro nella casa di riposo di Ferrara, grazie all’opera di tessitura del sindaco Tiziano Tagliani.

“Mio marito è finito in carcere per motivi politici, poi è riuscito a evadere – racconta Belinda, 22 anni, scappata dalla Sierra Leone –. Ora il governo mi sta cercando perché credono che parli e lo faccia catturare di nuovo. Il mio viaggio per venire qui è durato cinque mesi. Sono rimasta due mesi in Libia, in un campo in cui gli uomini arabi hanno cercato di violentarmi, finché non sono fuggita anche da lì, verso il mare. Dopo due settimane sulla spiaggia, senza cibo e senza un posto in cui dormire, sono riuscita a imbarcarmi per l’Italia”.

Joy è nigeriana, ha solo 20 anni ed è scappata dal suo Paese quando il padre si è convertito alla religione vudù: “Ho incontrato un ragazzo, sono rimasta incinta, mio padre voleva ucciderci. La notte in cui siamo partiti ci hanno pure rapinati, ma siamo riusciti ad arrivare in Libia, intorno al 20 settembre. I libici ci picchiavano, ci lasciavano senza cibo, eravamo nelle loro mani. Siamo scappati una notte verso il mare, abbiamo seguito della gente che andava verso una barca e lì ho perso mio marito. Non so più niente di lui. Si chiama Lamin Dampha. Quelle persone mi hanno fatto salire sulla barca perché aspetto un bambino, hanno avuto pietà di me”.

Anche Faith ha 20 anni ed è partita su un fuoristrada verso il Mali il giorno in cui i miliziani di BokoHaram hanno rastrellato il suo villaggio nel nord della Nigeria: “Non ho notizie della mia famiglia, non so nemmeno se sono vivi o morti. Un uomo si è preso cura di me in Libia, mi ha aiutato a partire sulle barche, inseguiti dalle pattuglie libiche, e sabato scorso sono arrivata in Italia”. Su quell’autobus fermo nella caserma di Comacchio, le ragazze sopravvissute al viaggio più lungo non riuscivano a capire cosa stesse succedendo: “Vedevamo che parlavano concitati, ma l’autista non voleva che sapessimo – continua Faith –, poi abbiamo saputo che la popolazione non ci voleva e ci siamo rimaste malissimo. Se non ci date un posto voi, dove possiamo andare?”.

Gli abitanti di Gorino, ieri, hanno festeggiato. Dopo le barricate contro le richiedenti asilo per protesta non hanno mandato i figli a scuola e non sono andati a vongole, la principale attività economica del posto. “Quel che è più sconcertante è che si è trattato davvero di una protesta di popolo – spiega al Fatto il questore di Ferrara, Antonio Sbordone –. L’apporto di persone venute da fuori, o di militanti politici, non è stato determinante”. Ma il sindaco di Goro, Diego Viviani, difende i suoi concittadini: “Questa comunità non merita di essere definita razzista – ha detto il primo cittadino, eletto con una lista civica di centrosinistra – Gorino ha avuto una reazione che io non condanno, ma adesso dobbiamo dimostrare che non siamo come ci hanno dipinto”.

Sorride intanto Joy, mentre parla del bambino che porta in grembo da otto mesi. Nella barca che l’ha portata in Europa non respirava, la gente le premeva la pancia. All’ospedale di Ferrara, però, le hanno detto che sta bene. Nessuna di loro aveva mai sentito parlare di Lampedusa, di Bologna o di Ferrara prima dello sbarco. Ma se qualcuno adesso chiede loro dove volevano arrivare alla fine del viaggio, lo sguardo si fa serio, gli occhi fissi a terra: “Italy”.

il Manifesto
GORO , LA CACCIATA
DEI PROFUGHI

di Marco Zavagli

Alla fine hanno vinto loro. Gli abitanti di Gorino che pur di non accogliere 12 donne rifugiate con i loro bambini hanno alzato barricate e protestato tutta la notte, accendendo i riflettori su questo paesino del Delta del Po. Il prefetto di Ferrara ha deciso il trasferimento del piccolo gruppo di rifugiati nei comuni vicini senza però riuscire a mettere fine alla protesta che è continuata anche ieri. Un episodio che «non fa onore all’Italia» dice il ministro degli Interni Angelino Alfano, mentre la diocesi parla di una «notte che ripugna alla coscienza cristiana».

Strano destino quello dei pescatori di Gorino. Un tempo rischiavano la vita per salvare donne e bambini dalle acque. Ora respingono chi da altre acque, quelle del Mediterraneo, è riuscito a fuggire. Era la notte del 17 novembre del 1951. Il Po aveva rotto gli argini a Occhiobello, tra Ferrara e Rovigo. I pescatori di Goro risalirono la piena con le proprie barche per portare soccorso a chi era in balia dell’alluvione. «Non esitarono, nessuno esitò – raccontava Fidia Gambetti riportando su l’Unità la cronaca di allora -. Per 48 ore almeno e proprio nei momenti della massima piena, migliaia di vite umane dovettero la loro salvezza soltanto all’audacia, allo sprezzo del pericolo, alla perizia instancabile degli uomini che navigavano su codesti gusci di noce». Alcuni persero la vita. Ma «portarono in salvo 320 fra bambini e donne».

Cosa è rimasto di «questo pugno di uomini intrepidi e da sempre dimenticati su un lembo di terra duramente conquistata giorno per giorno»? Difficile stabilire i contorni umani della rumorosa rivolta contro la decisione della prefettura di Ferrara. Difficile anche riportare i commenti che i manifestanti hanno affidato ai taccuini dei cronisti mentre sbarravano l’accesso a quell’ostello dal nome che suona oggi come crudele beffa, «Amore e natura». Eppure se un intero paese scende in strada spontaneamente per negare accoglienza a dodici giovani donne un motivo ci deve essere.

E allora si prova a scavare nella recente storia di questo paesino di 600 abitanti sperduto nel delta del Po. Fino a dieci anni fa i goresi erano forse tra i pescatori più invidiati dell’alto adriatico. La Sacca sembrava un serbatoio inesauribile di vongole. Il prezzo dei molluschi era alle stelle. Poi il mercato si è incrinato. La natura ha fatto la sua parte. Il cuneo salino e l’aumento delle temperature hanno provocato morie di vongole. A questo si aggiunge una selvaggia pesca abusiva notturna. Tutti elementi che hanno messo in ginocchio l’economia locale.

Bastano i motivi finanziari a giustificare quello sbarramento prima umano che materiale? Una domanda destinata qui a restare senza risposta. Certo fa riflettere la denuncia, etica, del prefetto Michele Tortora: «Abbiamo contattato i privati, tutti gli hotel e strutture ricettive della costa e tutti hanno risposto, appena sentito parlare di profughi, che le strutture sono già al completo». Per la cronaca, in ottobre il turismo sui lidi ferraresi è prossimo allo zero.

L’esasperazione verso quello che, inutile nasconderlo, viene visto da buona parte della popolazione come un «pericolo invasione» trova terreno fertile nella destra. La Lega Nord, con l’appoggio di Casa Pound e Forza Nuova, nel capoluogo amministrato dal Pd, ha ottenuto seguito denunciando il degrado e la microcriminalità in zona stazione. A questo si aggiungono inchieste di procura e corte dei conti sui rapporti tra Comune di Ferrara e cooperative che gestiscono l’accoglienza. Tutto utile a far crescere la diffidenza.

Ferrara un tempo era conosciuta come patrimonio Unesco, città d’arte e di cultura, patria d’adozione dell’Ariosto e del Tasso. E negli ultimi anni? Le cronache nazionali la ricordano per il caso Aldrovandi. Per l’assurda fine di Said Belamel, il 29enne morto di freddo dopo una notte in discoteca mentre chiedeva invano aiuto agli automobilisti di passaggio. Per la madre che ritira la figlia dall’asilo dove lavora un’assistente con la sindrome di Down. Per il medico vicepresidente dell’ordine che le dà ragione, perché «i Down devono stare in cucina e non a scuola». Per i commenti sui social di chi brinda al suicidio sotto un treno di un giovane nigeriano. Per l’esponente di FdI che promette di far fuori tanti profughi quanti ne sbarcano. Per un vescovo che augura a Bergoglio di fare la fine di Giovanni Paolo I.

Ah, è vero. Grande spazio è stato riservato anche al «petaloso» nato dal «bell’errore» del piccolo Matteo. Qualcuno una volta chiedeva di restare umani. Sarebbe già molto tornare bambini.

La Stampa, 24 ottobre 2016, con postilla

Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex-capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà.

Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse -- umane, minerarie, agricole -- inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe.

Schiavi tre su quattro

Nel ‘600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni. Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcool, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ‘700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica).

All’inizio del ‘800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento anti-schiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non e’ la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H.M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie.

L'occupazione

Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa.

Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora.

La II guerra mondiale

Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umanitario drammatico.

Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.

La situazione oggi

Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); da Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vice-presidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese The Economist elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media.

A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti.

Fuga verso l'Occidente [sic]

A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.

postilla

Troppa benevolenza per l'Italia nell'articolo della Stampa. Bastano pochissimi nomi per ricordare la partecipazione dell'Italia d'oggi allo sfruttamento dell'Africa: Eni, Salini, Impregilo, Danieli, Enel Green Power. Lo ricorda, del resto, l'icona che abbiamo scelto per questo articolo

Il manifesto, 25 ottobre 2016 (p.d.)

La cacciata dei migranti dalla cosiddetta «giungla di Calais» è l’ennesimo, odioso, atto di repressione di un governo dell’Unione Europea che pensa di guadagnare consensi usando le maniere forti con i deboli, i disperati, i profughi che scappano dalle guerre che noi abbiamo provocato e gestito. Purtroppo, anche i governi di centrosinistra inseguono la destra estrema sul piano della durezza della repressione verso i migranti, accettando lo slogan diventato un luogo comune: ci stanno invadendo.

Ma, chi invade chi? Quanti migranti entrano in Italia in un anno, quanti sono i rifugiati nella Ue? Non lo sa nemmeno l’1 per mille della popolazione. La stragrande maggioranza della gente non conosce i numeri dei flussi migratori, e viene bombardata ogni giorno dal telegiornale che quantifica gli sbarchi giornalieri, con un ritmo incalzante, ma non fornisce dati sul fenomeno nel suo complesso, sia a livello nazionale che nel bacino del Mediterraneo. In tal modo è stato costruito lentamente, ma costantemente, un immaginario collettivo assolutamente falso e deviante.

Pochissimi sanno, o non vogliono sapere, che su quasi sei milioni di profughi siriani l’Ue ne accoglie solo il 15%, con i suoi 400 milioni di abitanti, per lo più concentrati in Serbia e in Germania, mentre un paese come la Giordania ne accoglie 700mila su una popolazione di 7,5 milioni. E addirittura il Libano ne accoglie 1,3 milioni con una popolazione di 4,5 milioni di abitanti! In proporzione è come se in Italia fossero arrivati 18 milioni di profughi! Provate a immaginare cosa sarebbe successo…

Su questa emergenza inventata si stanno costruendo le fortune politiche di partiti e leader razzisti e carichi di odio, si sta portando tutta l’Europa verso un processo di autodistruzione, strappando la trama istituzionale e culturale che in decenni era stata lavorata. L’Europa dei diritti, del welfare per tutti, del «sogno» che dieci anni fa ci ha raccontato Jeremy Rifkin, si sta sciogliendo velocemente come la neve sull’Etna dopo una giornata di scirocco. Come ci ricorda una famosa poesia di Bertol Brecht, prima è toccato agli ebrei, ai Rom, ai «neri», ora tocca ai profughi e domani… domani toccherà a noi, ai nostri poveri, esclusi, marginalizzati.
Infatti, in tutto l’Occidente, e non solo, si alzano muri per chilometri e chilometri, barriere di filo spinato, controlli spietati alle frontiere per respingere non lo straniero, ma i poveri che scappano dalle guerre e dalla fame.

I ricchi, i trafficanti di armi e droga, di qualunque nazionalità, colore della pelle, hanno invece diritto a entrare in qualunque paese del mondo. Per loro non ci sono muri e barriere che siano siriani o afgani, palestinesi o libici: sono i dannati della terra che devono restare fuori.

È la «nuova guerra ai poveri» che è scoppiata in tutto il mondo e che ci riporta al XVII secolo, il secolo della Grande Reclusione come è stato definito dal grande Fernand Braudel : «Questa ferocia borghese si aggraverà smisuratamente verso la fine del Cinquecento, e ancor più del Seicento. Il problema consisteva nel mettere i poveri in condizione di non nuocere (…) A poco a poco, attraverso tutto l’Occidente si moltiplicano le case per i poveri e indesiderabili, in cui l’internato è condannato al lavoro forzato: le Workhouses come le Zuchthauser, o le Maison de force, sorta di prigioni riunite sotto l’amministrazione del Grande Ospedale di Parigi fondato nel 1656. Questa “grande reclusione” dei poveri, dei pazzi, dei delinquenti, e anche dei minori, è uno degli aspetti psicologici della società razionale, implacabile nella sua ragione, del secolo XVII».

«o». libertàgiustizia,

Va premesso che chi ha redatto il presente documento non è contrario ad ogni riforma costituzionale, ma ritiene che una riforma costituzionale meriti approvazione solo se non si limita a rispettare la lettera dell’art. 138 sulla “revisione della costituzione” ma sia conforme allo spirito dell’intera Carta costituzionale del 1948.

Dichiarare che questa conformità è mantenuta perché la prima parte di quella Carta, che ne definisce i principi, non è stata toccata, è una falsità, perché ovviamente la seconda parte, sull’”ordinamento della Repubblica”, discende dalla parte sui principi. La riforma costituzionale Renzi-Boschi concerne l’assetto statale complessivo, perché limita notevolmente le autonomie locali e regionali, invece di perseguire l’obbiettivo originario di un rapporto equilibrato fra queste autonomie e il potere dello Stato centrale. Anche al di là della sua connessione piuttosto stretta con la legge elettorale denominata Italicum essa sancisce in un modo forse definitivo la crisi di un sistema che voleva essere prima di tutto parlamentare.

La riforma non fa nulla per dare spazio all’iniziativa dei cittadini nel costituirsi in quei corpi intermedi come partiti e sindacati che sono anch’essi manifestamente in crisi e nel regolare la vita democratica al loro interno; non fa nulla per limitare il peso crescente che ha il potere economico e finanziario rispetto a quello politico; tanto meno si cura dell’attuazione di quei principi della carta del 1948 che continuano ad essere poco effettivi.

Infine la nostra Carta fondamentale dovrebbe essere un documento nel quale tutti possano riconoscersi, mentre è manifesto che la riforma sottoposta a referendum è divisiva: il Si o il No prevarranno di poco, e se prevarrà il Si i contrari alla riforma tenderanno a non più riconoscersi nella Carta modificata, se prevarrà il No i favorevoli alla riforma tenderanno a considerare la Carta non modificata come un documento invecchiato e pertanto non meritevole di rispetto.

La prima riserva concerne dunque il metodo: una riforma costituzionale che abbia il massimo consenso deve essere fatta coinvolgendo per quanto è possibile tutte le forze politiche (non semplicemente Berlusconi e i suoi) e tutte le associazioni (come Libertà e Giustizia) che hanno interesse ad una buona riforma, e dando ascolto ai costituzionalisti più reputati – i quali invece per la maggior parte hanno aderito ad un documento di critica della riforma costituzionale – e ad altre persone che sono intervenute con loro proposte.
Com’è stato giustamente rilevato nel documento ora citato, «la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre.»

Non solo non si è proceduto nel modo suddetto, ma è evidente (nonostante quanto sostengono certi suoi fautori come l’ex-presidente Napolitano) che la riforma non discende da un’iniziativa autonoma del Parlamento ma è di iniziativa governativa. La conseguenza di questo modo di procedere così partigiano è che il referendum ha inevitabilmente conseguenze sulla sorte del governo,

Una seconda riserva concerne la scrittura degli articoli facenti parte della riforma: alcuni di essi (come l’art. 70) sono un esempio di scrittura per lo meno laboriosa, fra l’altro con rimandi ad altri articoli e commi. Non si è compreso che la Carta costituzionale ha funzione di indirizzo, mentre i punti più o meno dettagliati di procedura effettiva vanno stabiliti con legge ordinaria. E’ in gioco anche la qualità della nostra legislazione: almeno le principali leggi della Repubblica, a cominciare ovviamente dalla Costituzione, dovrebbero essere scritte in modo da essere comprensibili a tutti i cittadini, mentre vari osservatori notano un continuo peggioramento di quella qualità.

Quanto sta avvenendo è che i parlamentari rinunciano in modo crescente alla loro funzione di legislatori, affidando questo compito al governo, il quale a sua volta si avvale di funzionari, sicché la legislazione è in mano alla burocrazia che si rivolge a se stessa e non ai cittadini. Renzi, prima di diventare premier, predicava la semplificazione, poi si è zittito sul tema. (Non è l’unico e il primo a parlare di semplificazione: memorabile fu il falò di leggi inutili di Calderoli, che, se non fosse stato una burla carnevalesca, ci avrebbe in effetti lasciato del tutto senza leggi.)

Semplificare non è … semplice: richiede idee chiare sugli intenti di una legge in rapporto anche alle altre leggi vigenti, guardando dunque alla coerenza dei testi rispetto a tali intenti. Una funzione che avrebbe potuto essere esercitata da un Senato riformato è appunto di occuparsi della revisione, non semplicemente delle leggi appena approvate dalla Camera, ma di tutte le leggi vigenti, in modo da assicurarne l’uniformità od omogeneità e la comprensibilità, ovviamente riducendo sostanzialmente il loro numero (ogni nuova legge si aggiunge alle vecchie, con una crescita mostruosa del corpus legislativo che non ha paralleli in altri paesi europei).

I conflitti piuttosto frequenti che ci sono fra Stato e Regioni dipendono in larga misura dal fatto che anche queste legiferano senza curarsi di eventuali incompatibilità con le leggi nazionali, sicché pure in questo campo si impone una revisione. Una divisione chiara delle competenze fra Stato e Regioni tramite riforma costituzionale è certamente opportuna, ma risolve solo in parte i problemi. Quanto al famoso ping-pong fra Camera dei deputati e Senato deplorato da Renzi, esso è comunque evitabile con qualche riforma molto semplice (per esempio affidando l’armonizzazione delle leggi come approvate dalle differenti camere ad una commissione mista).

Una terza riserva concerne l’impostazione complessiva della riforma: si tratta di una riforma scombinata. Il nuovo Senato viene detto essere delle autonomie territoriali per come è composto: lo è, in certa misura, sul modello tedesco, ma quella tedesca è una Repubblica federale (Deutsche Bundes-Republik), cioè il nuovo Senato dovrebbe rappresentare un passo verso il federalismo. Invece la revisione del titolo V va in senso contrario, verso un rafforzamento del centralismo, a scapito di ogni autonomia.

A peggiorare le cose viene mantenuta l’autonomia delle regioni a statuto speciale, il cui riconoscimento nell’immediato dopoguerra aveva delle ragioni storiche che, almeno in gran parte (forse con la sola eccezione dell’Alto Adige), sono venute meno, con evidente sperequazione fra le regioni che perdono di autonomia e quelle che la mantengono in pieno. Non si può dire, per fare un esempio, che la regione Sicilia sia stata così bene amministrata da meritarsi questo trattamento speciale. Sono dunque fusi insieme tre sistemi politici di orientamento contrastante: un Senato che rappresenta autonomie quasi inesistenti; centralismo a scapito delle autonomie; autonomie che sussistono per alcune regioni.

A complicare ulteriormente le cose il terzo comma, modificato, dell’art. 116 prevede che, con apposita legge (approvata da entrambe le Camere), ad una certa regione che lo richiede sia concessa una certa maggiore autonomia (rispetto alle altre), purché «sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Ma realizzare tale equilibrio non dovrebbe essere una libera facoltà per singole regioni che viene premiata concedendole maggiore autonomia ma dovrebbe essere un obbligo per tutte le regioni – un obbligo che in effetti è sancito dall’art. 119 ma che, come si sa, è poco rispettato. (Questo comma, salvo l’indicazione di tale condizione, è una sorta di retaggio della riforma del 2001.)

La rappresentatività di un Senato non ottenuto per elezione diretta è ovviamente contestabile; anche la sua composizione poco omogenea (tre categorie diverse: senatori nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti” – cosa ci stanno a fare in un senato delle autonomie? – , consiglieri regionali e sindaci) lo è, come lo è il fatto che l’attività del Senato, che pur riguarda questioni impegnative, sia ridotta ad un lavoro part-time per persone che svolgono un’altra attività.

E’ stato denunciato da vari osservatori (a cominciare dai citati costituzionalisti) che la divisione di competenze fra le due camere è mal definita, per cui presumibilmente darà luogo a dei conflitti o comunque a complicati procedimenti legislativi. Il famoso risparmio nei costi della politica, oltre a non poter costituire un fine prioritario ma un fine in rapporto alle prestazioni, sarebbe stato meglio realizzato con una riduzione di numero sia dei senatori che dei deputati (nessuno dei difensori della riforma ci ha spiegato perché è indispensabile mantenere a 630 il numero dei deputati).

A questo modo si avrebbe un sistema più equilibrato (particolarmente desiderabile quando ci sia da eleggere il presidente della Repubblica), considerato che è ben possibile attribuire al Senato delle competenze utili che la Camera non possiede. Oltre alla competenza già sopra indicata esso potrebbe avere anche la competenza di esercitare una effettiva supervisione sull’attuazione delle leggi: spesso le leggi approvate dal Parlamento, anche perché debbono essere accompagnate da decreti che tardano, rimangono lettera morta o quasi o sono attuate in modo del tutto insoddisfacente, senza che nessuno se ne preoccupi, come se l’unico compito del Parlamento fosse quello di legiferare, legiferare, legiferare … le conseguenze sono lasciate alla provvidenza o al zampino del diavolo.

Come già sopra rilevato, ci si dovrebbe preoccupare anche della piena attuazione della Costituzione del 1948. (Per esempio poco viene fatto per attuare l’art. 9, secondo il quale «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. – Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»)

Un aspetto del rafforzamento del centralismo sta nell’abolizione delle province. Non è affatto ovvio che una riforma del genere, che sta venendo attuata in modo pasticciato, sia necessaria: le province sussistono per esempio nella vicina Svizzera, come unità amministrative intermedie fra i cantoni e i comuni, sotto il nome di distretti (Bezirke), senza che nessuno si sogni di abolirle. Una misura così drastica è apparsa opportuna, e incontra un largo favore, perché c’è stata una crescita eccessiva nel numero delle province e nel personale addetto, spesso scelto come si sa con criteri clientelari. Si elimina così l’effetto del male e non la sua causa. Del resto le province non sono state abolite del tutto, ma sostituite dalle cosiddette Città metropolitane (a tralasciare caritatevolmente il fatto che le Province di Trento e Bolzano continuano a sussistere) di numero assai più ridotto, con funzioni amministrative proprie, sicché non se ne contesta l’utilità.

La situazione è simile nel caso delle regioni, che anch’esse si sono espanse a dismisura nei loro poteri e nel loro personale, perfino stabilendo delle sedi di rappresentanza all’estero. (Oltre a riportare le province al loro numero originale o anche ad un numero più piccolo, si potevano accorpare alcune regioni, che in qualche caso equivalgono ad una o due province.)

Alcuni dei poteri ad esse concessi dalla non felice riforma del titolo V della Costituzione del 2001 sono eccessivi, perché è certamente desiderabile che ci sia una legislazione nazionale abbastanza uniforme: è singolare infatti che istituzioni di uno stesso Stato abbiano sistemi elettorali diversi, e non è opportuno che chi svolge attività (per esempio di trasporto) in più regioni debba sottoporsi a normative discrepanti, con perdita di tempo (come minimo) in adempimenti burocratici. Ma probabilmente sarebbe stato opportuno tornare, almeno in parte e con opportuni aggiornamenti, al testo della Costituzione del 1948, che era ben studiato nello stabilire un equilibrio fra potere centrale e poteri regionali. E’ prevalsa invece la solita volontà di nuovismo.

Deve poi essere rimarcato che, siccome gli amministratori delle Città metropolitane ex-province e i senatori del Nuovo Senato sono eletti in modo indiretto e non direttamente dai cittadini, alla crescita di centralismo si unisce una riduzione della partecipazione democratica. (Anche se non si tratta di una modifica della Costituzione, c’è da segnalare che questo ritorno al centralismo si manifesta anche nell’attribuzione di nuovi poteri ai prefetti tramite la legge Madia, fra l’altro ponendo alla loro dipendenza le Soprintendenze preposte alla tutela del paesaggio e dei beni culturali.)

Per il resto, la questione non è tanto quella di togliere poteri alle regioni e alle province, come se lo Stato centrale fosse sempre in grado di svolgere al meglio le funzioni finora ad esse affidate, ma di istituire un sistema di controlli volto a scoraggiare abusi. Un tipo di controllo desiderabile concerne le loro finanze: il governo Monti ha introdotto l’innovazione di obbligare le regioni a sottoporre i loro bilanci alla Corte dei Conti; ma questa innovazione diventa veramente significativa solo se i responsabili dei bilanci fuori controllo sono sottoposti a sanzioni, in primo luogo pecuniarie: se un Presidente di regione sa che, se sgarra, ci rimette di tasca propria, voglio vedere se non sta attento alle spese fino al centesimo! Infine non si può fare a meno di notare che, non tramite la riforma costituzionale, ma di fatto (com’è stato denunciato per esempio da Cacciari), i comuni stanno perdendo gran parte dei loro poteri a favore dello Stato centrale.

Ciò riguarda in primo luogo i loro bilanci (che ovviamente debbono essere tenuti anch’essi sotto controllo), perché, con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una fonte di finanziamento autonomo è stata eliminata. (Che le tasse sulla casa vadano ai comuni è il sistema che prevale in Europa e che ha una sua ratio, anche perché li incentiva nella lotta all’evasione fiscale. L’europeismo di facciata di Renzi non è accompagnato da atti conformi.) Il quadro dunque è chiaro: anche un federalismo molto temperato non ha più spazio.

Una riforma mancata. Renzi cita a merito della sua riforma il non avere toccato i poteri del presidente del Consiglio dei ministri, a differenza della riforma costituzionale voluta dal Governo Berlusconi e che venne bocciata al referendum del 2006. Tuttavia quella riforma, oltre a toccare altri equilibri, aumentava i poteri del premier in maniera eccessiva, fra l’altro mettendo in sua mano il potere di scioglimento della Camera che dà la fiducia al governo.

Il potere di sostituzione dei ministri, esercitato con l’accordo del Presidente della Repubblica e motivato di fronte al Parlamento, è sulla linea di quanto avviene in altri paesi pienamente democratici e trova la sua ovvia giustificazione nel garantire una ragionevole efficienza al sistema: i ministri che fanno bene vanno promossi, quelli che fanno male vanno sostituiti. (Per esempio l’art. 64 della Costituzione tedesca prevede espressamente che i ministri siano designati e destituiti [entlassen] dal Presidente della Repubblica su proposta del Cancelliere.) Il motivo reale per il quale Renzi ha rinunciato a questa riforma non è tanto quello dichiarato di voler evitare la critica di attribuire un eccessivo potere a se stesso come premier – questo potere non è eccessivo – quanto quello che essa gli è apparsa inutile. Inutile dal suo punto di vista, perché della situazione in cui si troveranno coloro che gli succederanno non si cura.

Una ragione di questa inutilità è quella sulla quale si sono appuntate le critiche di coloro che si dicono contrari a questa riforma se non viene cambiata la legge elettorale: la coincidenza della figura del premier con quella del segretario di un partito che, se vincesse le elezioni, otterrebbe la maggioranza assoluta alla Camera, ha l’effetto, dato il suo potere di scelta dei candidati alle elezioni, di renderlo dominus quasi assoluto su quella stessa maggioranza. Non si può trascurare il fatto che è in corso un processo di involuzione dei partiti che tendono sempre più a trasformarsi in comitati elettorali dell’aspirante premier. Ma c’è anche un’altra ragione, che sembra essere sfuggita al più dei critici della riforma: sta avendo luogo comunque una forte concentrazione del potere politico a Palazzo Chigi.

All’interno del Consiglio dei ministri contano solo quei ministri che vanno d’accordo col suo presidente, mentre gli altri sono tagliati fuori da decisioni importanti (si ricorderanno le lamentele della Guidi quando era ministra). Inoltre il premier ha messo insieme tutto uno staff di collaboratori che lo mettono in grado di elaborare lui l’intera politica del governo, per cui il Consiglio di ministri ha sempre più la funzione di approvare decisioni già prese altrove. Basti pensare alla politica economica del governo: è sotto gli occhi di tutti (o almeno di tutti coloro che vogliono vedere) che questa viene elaborata a Palazzo Chigi (anche i responsabili di una spending review mai attuata veramente rispondono al premier e non al ministro dell’economia) e che il povero Padoan ha il compito ingrato di fare tornare i conti e di contrattare condizioni più favorevoli con Bruxelles – oltre a trovarsi reclutato nella campagna a favore della riforma costituzionale.

C’è da domandarsi se un sistema così ad personam sia desiderabile sia in se stesso, come se bastasse un unico cervello per affrontare i problemi del paese, sia per il futuro, quando il presidente del Consiglio che verrà dopo Renzi (il quale ha comunque promesso di ritirarsi dopo due mandati) si troverà a gestire una macchina di governo poco padroneggiabile. Invece di un aumento dei poteri ottenuto in modo surrettizio è preferibile un aumento dei poteri più limitato e alla luce del sole.

Le due ragioni, messe insieme, mostrano indubbiamente che è in corso un processo di concentrazione del potere politico nelle mani del presidente del Consiglio, con uno sviluppo in senso ‘monarchico’ (‘monarchia’ nel senso prima di tutto letterale di ‘governo di uno solo’), anche nello stile di governo adottato: elargizioni o regalie concesse a suo piacimento dal sovrano ai vari gruppi di cittadini-sudditi (senza curarsi della crescita del debito pubblico), mentre non sono rispettati gli impegni dello Stato (stipendi tenuti bloccati al di là di una situazione eccezionale di emergenza, ritardi nei pagamenti dovuti per servizi resi all’amministrazione pubblica, ecc.). Il rischio per il futuro è quello di un’involuzione non tanto (come qualcuno paventa) in senso oligarchico quanto nel senso di una dittatura dolce o morbida (soft dictatorship), resa possibile da un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione (va ricordato che i principali dittatori del secolo scorso disponevano quasi solo della radio per fare pervenire i loro messaggi ad un pubblico vasto).

Altra riforma mancata: credo che i costituenti abbiano commesso un serio errore nell’affidare il sistema elettorale da adottare a legislazione ordinaria, senza richiedere una maggioranza qualificata ed una procedura più complessa, alla stregua di una legge costituzionale. Il cambiamento di legge elettorale incide sulla vita politica non meno che certe modifiche della costituzione. Così, come di fatto è talvolta avvenuto, ogni maggioranza parlamentare può cambiare la legge a suo piacimento, per ottenerne un proprio vantaggio. Una nuova legge elettorale che venga discussa in Parlamento andrebbe anche sottoposta in modo automatico al vaglio della Corte costituzionale (e non con la procedura prevista dalla riforma Renzi-Boschi).

Non si può non osservare, a proposito delle due riforme mancate ora segnalate, che nel caso di vittoria del Sì il governo non avrà alcun interesse a favorire una modifica dell’attuale legge elettorale, che ha effetti così distorsivi, salvo che non venga obbligato a questo da una sentenza della Corte costituzionale.

Una terza riforma mancata: è singolare il seguente nuovo comma dell’art. 71: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione.» L’articolo della Costituzione che riguarda i referendum popolari è il 75, e sarebbe bastato modificare la sua dizione, precisando appunto che i referendum possono essere non solo abrogativi ma anche propositivi, per ottenere il risultato (l’articolo già precisa i casi in cui un referendum non è ammesso). Tale modifica sarebbe stata opportuna, perché è abbastanza chiaro che i costituenti avevano delle forti riserve verso questo istituto per l’abuso che se ne è fatto nei regimi fascisti.

Così com’è il comma citato presenta equivocamente come cosa fatta quella che è solo una riforma costituzionale promessa. La carta costituzionale così modificata credo costituirebbe un unicum al mondo: una legge che non stabilisce nulla ma promette o contempla come desiderabile una futura legge che non si sa quando, e se mai, verrà approvata. Su quello che passa per la testa di un legislatore che redige una legge del genere si può solo speculare.

Al fine così dichiarato di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche vengono incontro, ma solo in apparenza, alcuni altri provvedimenti previsti dalla riforma. Il primo riguarda le leggi di iniziativa popolare previste sempre dall’art. 71 (attuale comma 2). Una modifica in senso indubbiamente positivo è che si garantiscono tempi certi (anche se non determinati, perché stabilirli spetta ai regolamenti parlamentari): attualmente queste leggi sono lettera morta, perché non vengono quasi mai discusse, tanto meno approvate. (E’ uno scandalo che non avrebbe mai dovuto verificarsi.) Ma viene notevolmente innalzato il numero di firme richieste per la presentazione di una legge del genere: da 50.000 a 150.000, come se ci si aspettasse un’improbabile inondazione di leggi di iniziativa popolare.

Evidentemente ciò che si concede con una mano si toglie con l’altra. Il secondo provvedimento concerne il citato art. 75 che regolamenta i referendum popolari solo abrogativi: di fronte al fatto che questi referendum spesso risultano nulli perché non è stata raggiunta la maggioranza degli aventi diritto, invece di abbassare il quorum (per esempio dal 50 al 40 %), si elimina la richiesta di un quorum nel caso in cui le firme raccolte siano 800.000 invece di 500.000. Non si vede perché i referendum che soddisfano a questo requisito meritino un trattamento speciale, quando manifestamente è una questione di organizzazione e quando per partiti e associazione che non dispongano di molti mezzi è già difficile arrivare alle 500.000 firme autenticate.

Una quarta riforma mancata: l’art. 67, che nella versione non modificata suona «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», e che viene riproposto quasi identico ma cancellando “rappresenta la Nazione” (come se fra le due cose non ci fosse un rapporto), ha bisogno di essere ripensato di fronte ai talvolta anche scandalosi cambi di casacca da parte dei parlamentari. La norma citata si ispira alla molto ottimistica convinzione che i parlamentari sono tutti o quasi tutti dotati di una viva coscienza morale e che, se lasciati liberi di seguirla, opereranno al meglio nell’interesse della Nazione.

Nella realtà prevalgono gli interessi particolari (della propria circoscrizione, del proprio partito, ecc.). Una restrizione che si può proporre (non escludo che si possa proporre di meglio) è che chi abbandona il partito o gruppo (lista civica, ecc.) col quale si è presentato alle elezioni può solo aderire ad un gruppo indipendente e non ad un altro partito o ad un gruppo di diverso orientamento, e tanto meno può entrare a fare parte del governo (se non ne fa già parte).

Come si può vedere, una restrizione del genere non concerne le decisioni che il parlamentare prende di volta in volta ma il suo orientamento politico generale, che è quello in base al quale si era presentato alle elezioni: è contestabile infatti l’idea che egli non debba rispondere in alcun modo di fronte al proprio elettorato, al quale si è presentato con un certo programma (non basta che egli corra il rischio di non essere confermato a successive elezioni).

C’è anche un altro aspetto da rilevare: il frequente ricorso alla votazione di fiducia da parte di tutti i governi recenti ha un effetto ricattatorio sui componenti della maggioranza (‘se non voti la fiducia, il governo cade e c’è il rischio di andare ad elezioni anticipate’), sicché la libertà sancita dall’art. 67 viene di fatto annullata. La richiesta del voto di fiducia (salvo ovviamente alla presentazione di un governo), come la verifica del numero legale, dovrebbe essere uno strumento a tutela delle minoranze, sicché questo abuso andrebbe represso.

Come si può vedere, questa è una materia delicata, che concerne il modo in cui funziona il Parlamento, sicché, in occasione di una riforma costituzionale, si sarebbe dovuto dedicare ad essa una notevole riflessione, per cercare le soluzioni migliori. (C’è da aggiungere che qualche giurista ha notato che, siccome i senatori del Senato riformato non rappresentano più la Nazione, la norma in questione non dovrebbe più applicarsi ad essi.)

Come si può vedere, in questo documento, a differenza della maggior parte dei documenti di critica della riforma costituzionale, ci si sofferma anche sulle riforme mancate. Non è un procedimento scorretto, perché, una volta che si ponga mano ad una riforma del genere, si deve riflettere seriamente su ciò che ha veramente bisogno di essere cambiato, sicché le riforme mancate sono come dei peccati di omissione, che non sempre sono meno gravi degli altri.

Naturalmente sarebbe eccessivo ed ingiusto sostenere che in questa riforma costituzionale non c’è niente di buono. Questo vale per esempio per la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge e, insieme, la determinazione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico. (Tuttavia c’è anche il rischio, segnalato da alcuni costituzionalisti, di ridurre lo spazio all’iniziativa legislativa dei singoli parlamentari.) Vale anche per la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) con l’abrogazione dell’art. 99, dato che questo organo si è rivelato di quasi nulla utilità. (Ma è ridicolo dare tanto rilievo a questa soppressione, presentandola come uno dei caposaldi della riforma.) L’art. 97, comma 2 modificato, sancisce opportunamente l’obbligo di trasparenza delle amministrazioni pubbliche.

Tuttavia serve molto di più (e può essere sufficiente) una legge ordinaria che stabilisca regole precise di trasparenza, in primo luogo obbligando le amministrazioni pubbliche a rendere accessibili (almeno su rete) bilanci precisi, dettagliati e comprensibili al pubblico, che così potrebbe esercitare una funzione di controllo.

Infine, è opportuno il nuovo comma dell’art. 64 secondo il quale “i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”, ma ovviamente è da vedere in che modo questa prescrizione troverà attuazione, data anche la sua indeterminatezza. C’è dunque del buono, ma quanto di buono la riforma contiene non può compensare quanto deve suscitare delle serie riserve.

In conclusione, che la riforma costituzionale Renzi-Boschi non sia la migliore possibile viene spesso concesso anche dai suoi sostenitori che, di fronte a critiche, sono indotti a dire, con qualche imbarazzo, che essa “è perfettibile”. Per un verso si afferma che questa è l’ultima occasione per riformare la Costituzione, per un altro verso, nell’affermare che quanto proposto è perfettibile e nel redigere il citato comma dell’art. 71, si auspica una prossima nuova riforma costituzionale per rimediare a ciò che appare insoddisfacente o incompleto.

Ovviamente tutto ciò che è opera dell’uomo è perfettibile, ma i costituenti non sentivano l’esigenza di giustificarsi a questo modo, perché avevano dedicato le loro migliori energie per ottenere un buon risultato. Tale risultato non è ottenuto se per evitare il bicameralismo perfetto si riduce il Senato ad un’istituzione striminzita ed umbratile: sarebbe stato ancora meglio abolirlo del tutto e ampliare i compiti della Conferenza Stato-Regioni.

Si potrebbe ritenere che si stia dando troppa importanza ad un documento scritto come la Carta costituzionale. Tuttavia c’è da replicare che, quando attorno ad un documento del genere si crea un ‘patriottismo costituzionale’, cioè una condivisione di ideali ed obbiettivi, come avviene negli Stati Uniti (dove c’è fin troppa riluttanza ad introdurre modifiche anche piccole alla Carta), ciò fa non poca differenza per una nazione.

Si può aggiungere che la Germania è riuscita ad uscire senza troppe scosse da un regime simile a quello fascista dal quale è uscita l’Italia anche perché si è dotata di una buona Carta costituzionale, che nessuna persona seria là propone di modificare in modo radicale. (S’intende, nessuna Carta costituzionale può fare miracoli: anche quella della Repubblica di Weimar era buona, ma non ha impedito l’ascesa del nazismo; però il nazismo non ha avuto la forza e il coraggio di proporre una propria Carta costituzionale e si è limitato a sospendere l’esistente adducendo uno stato di emergenza.) E’ nel nostro paese che le forze politiche di vario colore non pretendono semplicemente di aggiornare in modo puntuale e ragionevole la nostra Carta ma ambiscono a sovvertirne l’impianto di fondo. Si va dalla Bicamerale del 1997-99 presieduta da Massimo D’Alema, passando per la riforma del titolo V (1999-2000), per arrivare alla riforma voluta dal Governo Berlusconi (2004-2006).

Fra quest’ultima e quella voluta dal Governo Renzi, che per certi aspetti è una contro-riforma del titolo V, ci sono degli evidenti punti di contatto, e solo il fatto che i poteri del presidente del Consiglio dei ministri non sono toccati (come si è visto, solo nella Carta costituzionale e non nella realtà) può creare l’impressione che sia molto diversa. Lungi dall’essere questa l’ultima occasione per riformare la Costituzione questi precedenti fanno pensare che, se questo tentativo fallisse, presto ce ne sarà uno nuovo, sulla stessa linea.

Questa pervicacia nel voler riformare (in effetti sconvolgere) la Costituzione del 1948 – riforme, riforme, riforme è la parola d’ordine di ogni governo, come se tutte le riforme fossero un bene (la scuola è ormai stata riformata un bel po’ di volte e nessuno può sostenere che è migliorata) – riflette un profondo malessere del paese, che si vuole curare non cercando di individuarne le cause ma con espedienti illusionistici.

». La Repubblica, 24 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Please do not destroy the Jungle». Abdul esce dalla tenda azzurra, e spiega: «Se mi cacciano da qui, andrò a nascondermi da qualche altra parte. Non posso restare in Francia, ho mio fratello a Birmingham». Nonostante l’implorazione del giovane afgano, la Giungla di Calais sarà distrutta. Da oggi il governo organizza lo sgombero totale e definitivo della più grande bidonville d’Europa nella quale vivono almeno 7mila migranti. Una sessantina di pullman arriveranno alle 8 di stamattina nel gigantesco parcheggio ai confini della Giungla.

I passeggeri saranno smistati tra uomini maggiorenni, donne e bambini, minorenni senza famiglia, persone malate o con handicap. Potranno essere accolti in uno degli oltre 250 Cao,Centre d’Accueil et d’Orientation, le strutture organizzate in giro per la Francia nelle ultime settimane proprio per svuotare Calais.
«Starete al caldo e al sicuro» è scritto su un volantino che una funzionaria della Prefettura distribuisce ai migranti per convincerli ad accettare la proposta del governo. I testi sono tradotti in nove lingue, con una parte di spiegazione a fumetti. Le partenze dovrebbero essere volontarie ma molti non si fidano, temono di essere espulsi. La vigilia è tesa. A poche ore dall’inizio dell’operazione, si sono già verificati i primi scontri tra poliziotti e manifestanti No Border che vogliono impedire l’evacuazione. Due militanti sono stati fermati. Il governo ha mobilitato oltre 1200 agenti per garantire sicurezza e flussi. «I problemi saranno probabilmente di notte», avverte Gilles Debove, del sindacato di polizia.
La baraccopoli tra mare e boscaglia nata nella primavera 2015, con la prima crisi di migranti in Europa, assomiglia ormai a una città fantasma. La polizia ha già fatto chiudere il New Kabul e l’Hamid Karzai Restaurant gestiti dagli afgani sul “corso” principale della Giungla. Marc e Eileen, due britannici che avevano costruito due anni fa l’Ecole des Dunes, si sono rassegnati a portare via libri, fotocopiatrici, pannelli solari. Sanno che anche la loro scuola, dove hanno fatto lezione a tanti bambini, sarà distrutta tra qualche giorno. Il Jungle Boxing Club non è più frequentato da nessuno. Da domani arriveranno ruspe e bulldozer. Tutto deve scomparire.
La Prefettura di Calais non parla di sgombero ma di “messa al riparo” dei migranti. Per molte Ong le intenzioni del governo sono poco umanitarie. «È un’operazione elettorale», taglia corto Amin Trouve Baghdouche, coordinatore di Médecins du Monde. A sei mesi dalle elezioni presidenziali la vergogna di Calais deve essere cancellata. «Il problema è che non puoi cambiare la geografia, molti continuano a sperare di andare nel Regno Unito» racconta Christian Salomé, presidente dell’Auberge des Migrants. L’associazione ha lanciato un appello per donare valigie, borse, zaini. È la merce più richiesta. Alcuni migranti partono con un fagotto, altri devono fare un trasloco dopo mesi passati nella Giungla.
Negli ultimi giorni, i tentativi di “passare” la frontiera si sono intensificati, con i trafficanti che hanno quintuplicato i prezzi. «Almeno duemila non se ne vogliono andare » calcola il presidente dell’Auberge des Migrants. Il rischio è che vadano a nascondersi nella regione, per poi tornare. Il Belgio ha rafforzato i controlli al confine non appena è stata annunciata la data dell’evacuazione.
I migranti che non vorranno partire saranno probabilmente portati in centri di detenzione, anche se le autorità finora negano. Insieme alle borse, l’Auberge des Migrants ha fatto anche una scorta di estintori. «Temiamo che ci siano incendi durante l’evacuazione». Difficile che sia un’operazione pacifica come annunciato dal governo.
I curdi che combattono l’Isis sono un popolo in lotta e in fuga perenne. Fra Turchia, Iraq, Iran e Siria. Tra fronti di guerra e campi profughi».

Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2016 (p.d.)

Il Kurdistan non esiste ma si trova in Turchia, in Iraq, in Iran, in Siria. Non è tracciato sulle mappe, ma si trova a sud di Ankara, ad ovest di Bagdad, ad est di Damasco.

Non siede ai tavoli delle trattative né tra gli Stati in guerra né tra quelli in pace e il suo popolo è stato usato prima come testa d’ariete contro Assad, poi da scudo per arginare l’avanzata dei macellai neri dell’Is, quando i curdi siriani, a lungo, sono stati l’unico argine armato tra noi, l’Europa e il Califfato fondato nel 2014 nel cuore della Siriaq.

Mardin combatte – kalashnikov, kefiah e scarpe da corsa – nello Ypg, Yekineyen Parastina Gel, le Unità di protezione del popolo, milizie volontarie e braccio armato del Pyd, il Partito dell’Unione Democratica del Kurdistan.

A nervi saldi e cuore caldo, in perenne fuga da un’enclave militare all’altra, il guerrigliero che sa correre come una lepre sotto le nubi nere della notte anatolica si fa chiamare così in onore della sua città natale. Torrette di controllo dei soldati di Erdogan, cavallo di frisia, si scappa da un lato all’altro solo col buio. Durante la corsa dietro di te lasci la Turchia, davanti a te si spalanca il Rojava, nome della terra curda dell’ovest che si estende a nord est della Siria. Il debutto della loro utopia politica rimane in corso, un mondo in evoluzione mentre in quello arabo continua la rivoluzione. In Siria sono scoppiate due guerre in una sola per la nazione più numerosa del mondo che non ha mai avuto uno Stato ma da sempre ha una lotta, un popolo che non ha mai avuto confini ufficiali eppure li difende con la vita per hèviya azadiyè, speranza di libertà.

Mardin combatte per quel triangolo di terra rovesciato che è il Kurdistan che non ha frontiere riconosciute, se non quelle segnate dal sangue dei suoi martiri. È la terra che non c’è sia per chi scappa dalle bombe sia per chi resta a tirarle, dove rimangono tutti i pronti alla morte per la walateme, la nostra terra, i figli di quello che chiamano Apo. È Abdullah Ocalan l’uomo che ha disegnato per la prima volta il perimetro di questa chimera socialista e vive solo da quasi vent’anni, detenuto unico dell’isola prigione di Imrali nel mar di Marmara. Più di cinquantamila morti curdi fa, tutti ammazzati dall’esercito turco, se Apo nel 1978 non avesse fondato il Pkk, se nel 1984 il Pkk non avesse imbracciato armi e montagne, oggi Mardin, le soldatesse con la treccia che dormono in divisa e al mattino, prima lavarsi la faccia nel fiume, se ne infilano un’altra identica, insieme allo Ypg, non esisterebbero.

Per i civili se non è inferno siriano, è purgatorio iracheno.

Nel campo profughi di Domiz, a Dohuk, l’asta affonda in metri di fango, sotto pioggia battente, mentre sulla bandiera sventola il rosso, verde e bianco, il tricolore del sangue, della terra e dell’uguaglianza, con al centro il sole a ventuno raggi. Dall’inizio della guerra sono migliaia i curdi, insieme alle minoranze di yazidi ed assiri in arrivo da ogni provincia siriana, che si sono rifugiati nella regione tenuta in pugno da Mas’ud Barzani dal 2005, nel campo gestito dall’Unhcr. Le tende sono case, sono cliniche, sono negozi e sono scuole improvvisate di una tendopoli profuga che è ormai una città dentro l’altra, a una paio di chilometri dalla Capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, solo 80 chilometri dalla roccaforte jihadista adesso sotto assedio.

Il popolo che ha insegnato all’Europa che vuol dire resistere a Kobane, ora ricorda che vuol dire avanzare a Mosul. Dei 30mila soldati delle unità musulmane che marciano verso il fortino nelle mani del Califfato dal 2014 in queste ore, sono 4mila i curdi peshmerga tre le milizie sciite, le tribù combattenti sunnite, soldati iraniani ed esercito iracheno.

I Kurdistan ormai sono più di quattro, alcuni fanno sponda in Europa dopo l’esodo mediterraneo, quando alla diaspora fuggita dalle guerre di ieri verso Germania e Scandinavia, si è aggiunta quella di oggi: del milione di siriani scappati attraverso la Turchia nel 2015, sono centinaia di migliaia i non censiti che parlano kurmangi e sorani, dialetti della lingua kurdì. Inshallah Allemagne. Merkel Miracle.Open the borders, maifreen.

A Idomeni, ognuno era “my friend” quando, tenda dopo tenda, si accendevano i falò, si bruciava gomma, legno, scarpe, calava la notte e si alzava la puzza acida di plastica bruciata e piscio. Dall’altro lato, nella Las Vegas macedone, nel deserto di Gevgelija, brillava la luce rossa dei casinò che illuminava il corridoio chiuso del passaggio vietato. Sognare la Germania in Grecia, come facevano i curdi bloccati dalla polizia, era un paradosso per gli ellenici affondati dall’Europa. Mohamed parlava francese, inglese, armeno, turco, arabo, kurmangi e persiano. Per 23 anni era stato un contabile ad Aleppo: “Ora questa è la mia nuova vita. Una ciotola di riso per terra”. Hussein aveva una maglia dei Pink Floyd, un’estensione all’orecchio e le forbici in mano. Era il barbiere della Rojava migrante sui binari di Idomeni. Stava tagliando i capelli a Rudyn: “Io ho un vero nome curdo, un nome socialista. Noi non torniamo indietro, per gli shabab curdi, siriani o iracheni, la morte è sempre turca”. Da campeggio, da circo, militari, da beduini, di plastica, di tappeti: quelle tende ad Idomeni a più di un curdo ricordavano quelle fatte di foglie e rami, nascoste tra i massi, della guerriglia sulle montagne. Chi era arrivato per primo al binario chiuso d’Europa aveva occupato un posto nel treno immobile e tirava su le coperte nella cuccetta viaggiatori ogni sera. Chi ci riusciva, dormiva. E chi dormiva forse sognava che quel vagone arrugginito, fermo da mesi, cominciasse improvvisamente a muoversi per tornare indietro verso la terra che non esiste o ripartire verso nord.

Migliaia di donne palestinesi e israeliane unite per la pace marciano nella travagliata regione spezzata dalla barriera israeliana della West Bank. Una notizia silenziata dei media italiani, che riprendiamo tardivamente da Terra Santa on line, 20 ottobre 2016, con link a un ampio servizio illustrato del Washington Post

Migliaia di donne hanno partecipato a una marcia perchiedere la pace tra Israele e Palestina
Si è conclusa ieri a Gerusalemme, davanti allaresidenza ufficiale del primo ministro israeliano, l'ultima iniziativa delmovimento Donne che fanno la pace. La cui azione prosegue.
«Sapete una cosa? Quando ci si mette dalla parte dellaverità, la pace è destinata ad arrivare». Leymah Gbowee è l’attivista liberianache nel 2011 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace (assieme a Ellen JohnsonSirleaf e alla yemenita Tawakkul Karman) per aver guidato il movimentononviolento composto da donne cristiane e musulmane che è stato cruciale nelporre fine alla guerra civile in Liberia.

Ieri sera però Gbowee non parlava dell’Africa. Dalpalco di fronte alla residenza del primo ministro di Israele a Gerusalemme, sirivolgeva alle migliaia di israeliane e israeliani che si sono radunati perconcludere una marcia pacifica iniziata 15 giorni fa nel nord del paese. LaMarcia della Speranza è l’ultima iniziativa di WomenWage Peace(Le donne fanno la pace), il movimento fondato da un piccolo gruppo diisraeliane nell’estate del 2014, durante l’ultimo attacco a Gaza. Ci siincontrava nelle case per confrontarsi sulla «situazione», pensare a strategiecreative per costringere la politica a rimettere un accordo di pace in cimaall’agenda.

Il gruppo si è allargato nell’arco di poche settimanee oggi Women Wage Peace conta sul sostegno di migliaia di donne in tuttoil Paese. Laiche, religiose, di destra o sinistra, colone, musulmane, ebree ecristiane, donne provenienti da ogni settore della popolazione unite da unarichiesta: «Che i nostri leader politici lavorino con rispetto e coraggio,includendo la partecipazione delle donne per trovare una soluzione alconflitto. Solo un accordo politico onorevole può assicurare il futuro deinostri figli e nipoti».

L’anno scorso in commemorazione dei bombardamenti suGaza del 2014, le donne del movimento organizzarono l’Operazione digiuno,montando una tenda davanti alla residenza del primo ministro e digiunando aturno per 50 giorni - l’equivalente della durata del conflitto. Sotto la tendabianca si fermarono cittadini comuni, membri del Parlamento, come Tzipi Livni eIsaac Herzog, intellettuali come Tszvia Walden, la figlia di Shimon Peres. Unanno dopo il movimento è tornato davanti alla residenza di Benjamin Netanyahuper concludere la Marcia della Speranza. Un evento durato 14 giorni che haincluso micro-marce in tutto Israele e, secondo le organizzatrici, ha coinvolto20 mila persone. Tra queste, anche donne palestinesi e giordane che hannomarciato dalla loro parte del confine.

«Le marce locali sono state meravigliose, ed è statoimportante riuscire a esser attive in tutto il Paese, da Eilat su fino a Metulae Rosh Hanikra. A Gerico eravamo duemila, tra cui molte palestinesi». MichalShamir è una professoressa d’arte, insegna al Sapir College che si trova neldeserto del Neghev, vicino a Sderot. Conosce la vita fatta di sirene cheiniziano a suonare all’improvviso e corse verso i rifugi antiaerei ogni voltache dalla Striscia di Gaza partono i lanci di razzi. Fa parte di Women WagePeace dall’inizio e ora è responsabile del «giorno dopo». «Women WagePeace non si ferma. Costruiremo una sukkah (la struttra temporaneafatta di legno, tende e fogliame che gli ebrei costruiscono per la Festa delleCapanne - Sukkot - che si celebra in questi giorni) e saremo qui finoalla conclusione di Sukkot lunedì prossimo», spiega Michal. Abbiamo unprogramma di eventi, e ospiti che ci faranno visita. Poi fino al 30 ottobre,quando il Parlamento riaprirà i lavori per il nuovo anno, ci sarà un alternarsidi donne che per un’ora staranno a piedi nudi davanti alla casa del premiercome segnale di presenza».

La partecipazione delle donne palestinesi è stataorganizzata da Huda Abuarqoub, attivista nata a Gerusalemme e cresciuta aHebron, direttrice regionale dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente.Parlando dal palco ieri sera ha detto: «Sono qua con donne che hanno sceltocoraggiosamente di intraprendere una strada che non è ancora percorsa. Unastrada di speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimentoreciproco. E sono anche qui per dirvi, sì, avete un partner, lo avete visto».

Anche Leymah Gbowee, che è arrivata dalla Liberia pertrascorrere assieme alle donne di Women Wage Peace gli ultimi tre giornidella marcia ha parlato di inclusione e presenza. «Questi giorni sono stati perme un tonante sì: la pace è possibile. Questi giorni sono una manifestazione eun messaggio: davvero c’è un partner per la pace», ha detto ieri sera dal palcoa Gerusalemme. E martedì durante un incontro alla comunità arabo-ebraica di NevéShalom-Wahat Al-Salam, Gbowee ha lanciato alle donne un messaggio chiaro:«Fare la pace è una cosa difficile, richiede un prezzo. Richiede diavventurarsi in luoghi che non avete mai immaginato assieme alle vostre sorellepalestinesi. Vi farà perdere amici e sacrificare la famiglia. Se non sietepronte, fate un passo indietro». Ieri concludendo il suo intervento ha promessodi fare tutto il possibile per sostenere israeliane e palestinesi nel loropercorso: «Avete alleati in Africa, in Asia, Europa, in tutto il mondo». La piazzaha ascoltato attentamente e gli applausi liberatori non fanno pensare a unpasso indietro.

Qui potete scaricare un ampio servizio illustrato dal Washington Post,del 19 ottobre 2018

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