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«La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie».Ma di quale "sinistra" parla? Renzi, Hollande, Schulz, magari Clinton e Obama

? La Repubblica 16 novembre 2016 (c.m.c.)

Dopo la Brexit, Donald Trump. E in prospettiva, il referendum del 4 dicembre in Italia. L’esito di questo voto, quale che sia, rischia di provocare una rottura irrimediabile in seno al Pd.

Lo stesso giorno, in Austria, il candidato del partito di estrema destra Fpö potrebbe essere eletto presidente della Repubblica. In Olanda, nel marzo 2017 i populisti del Partito per la Libertà di Geert Wilders peseranno sulle elezioni legislative. E a primavera in Francia la sinistra rischia di non arrivare al secondo turno delle presidenziali, che si giocherebbe allora tra il candidato della destra e Marine Le Pen. Infine, in Germania l’Spd guarda con apprensione al voto dell’autunno 2017.

La sinistra è sotto shock. Dopo la crisi del periodo tra le due guerre, quando rischiò di essere annientata non solo dal fascismo e dal nazismo ma anche dalle lacerazioni fratricide tra comunisti e socialisti, oggi affronta una nuova sfida: l’ascesa dei vari populismi, di destra, di sinistra, o anche né di destra né di sinistra, regionalisti, nazionalisti o generati da imprenditori straricchi, come nel caso di Silvio Berlusconi in Italia, e ora in quello di Donald Trump negli Stati Uniti.

Populismi che peraltro non scuotono solo la sinistra, ma anche la destra, sia pure in misura minore. Prima di vincere le presidenziali, Trump aveva battuto i suoi rivali alle primarie e stravolto il partito repubblicano. In Francia Marine Le Pen sottrae voti alla sinistra, e al tempo stesso attira sulle sue tematiche, ma anche sulla sua persona, gran parte della destra. In Italia il Movimento 5 Stelle ha sparigliato il gioco politico captando voti a sinistra e a destra, e riportando una parte degli astensionisti alle urne.

Di fatto, tutte le grandi famiglie politiche di destra, di sinistra e di centro che hanno dominato la competizione politica in Europa e guidato i governi sono destabilizzate. Non solo: i populisti riescono a imporre la loro percezione della realtà. Pretendono di incarnare il popolo unito e portatore di verità contro un’élite che descrivono come omogenea, corrotta, sclerotizzata e malefica. E non pochi osservatori danno credito a tali argomenti, spiegando ad esempio che Trump ha vinto perché il popolo ha voluto punire le élite; ma dimenticano che una maggioranza di americani, ancorché risicata, ha votato per Hillary Clinton. Nel contesto attuale non possiamo accontentarci di spiegazioni semplicistiche, che riportano tutto a un’unica causa.

Se i populismi avanzano ovunque in Europa, è per l’azione congiunta di vari fattori, diversamente articolati a seconda dei Paesi: la globalizzazione senza regole, le disuguaglianze crescenti, una democrazia senza popolo e un’Europa senz’anima né progetto.
Queste le sfide che la sinistra è chiamata ad affrontare. Di concerto con altre forze, dovrà inventare procedure per imporre regole alla globalizzazione, rifiutando al tempo stesso il protezionismo che sta riemergendo ovunque.

E operare per il ritorno della crescita, nel rispetto dell’ambiente, creando posti di lavoro e riducendo la disoccupazione che distrugge i rapporti sociali, condanna alla precarietà intere fasce di popolazione, inasprisce le disuguaglianze sociali, di genere, territoriali, generazionali, culturali (tra laureati e chi non ha un titolo di studio), nonché tra cittadini di un Paese e immigrati. La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione — dagli operai ai ceti medi, ai giovani a basso livello di istruzione o in via di declassamento, che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie.

D’altra parte la sinistra è vittima di una profonda diffidenza nei riguardi delle istituzioni, a livello sia nazionale che europeo, in particolare da parte delle fasce di popolazione meno abbienti a basso livello di istruzione, che guardano alla politica e alle élite dirigenti con disaffezione o addirittura disgusto; e dunque non può più accontentarsi di rivendicare la propria esperienza e responsabilità, né di puntare tutto sulla politica pubblica. Dovrà rilegittimare la politica. Perché esiste nella società una profonda aspirazione a una politica diversa, più trasparente, più aperta, più partecipativa. Ciò presuppone una profonda riconversione dei suoi dirigenti, del suo modo di fare politica, del suo rapporto coi cittadini e delle sue forme organizzative.

Infine, l’Europa è scossa dalla spinta degli egoismi, dalla tentazione del ripiegamento, dall’ascesa del razzismo e della xenofobia, da timori e angosce d’ogni genere, a cominciare dalla paura dello straniero. Questo impone alla sinistra di rilanciare il progetto europeo, e di condurre una coraggiosa battaglia culturale, evitando gli atteggiamenti moralistici e sprezzanti verso chi si sente abbandonato e non sapendo a che santo votarsi presta orecchio agli argomenti più demagogici.

La sinistra del XIX e del XX secolo è acqua passata. Costretta, ancora una volta, ad adattarsi alla realtà per non essere spazzata via, dovrà certamente affrontare terribili lacerazioni interne, e portare avanti una grande opera di ricomposizione politica. In quest’impresa gravida di incognite, dovrà però essere guidata da due valori cardinali: l’uguaglianza, ripensata nelle condizioni attuali, e — per riprendere la parole di Carlo Rosselli — la libertà per i più umili.

Il fondo per l’abbattimento delle barriere architettoniche non sarà rifinanziato neanche nel 2017» -Ma i soldi da spendere per rinforzare le barriere contro i disperati che abbiamo contribuito a sfrattare dalle loro terre si troveranno, come vuole Mogherini. La voce.info, 15 novembre 2016.
Una politica universalistica

Se il disegno di legge di bilancio per il 2017 (atto Camera 4127 del 29 ottobre) non sarà cambiato dal parlamento, per il diciassettesimo anno consecutivo il fondo per l’abbattimento delle barriere architettoniche resterà all’asciutto. Sarà solo colpa dei conti pubblici disastrati o forse dobbiamo pensare che realizzare rampe e mettere ascensori nei palazzi dove vivono persone costrette in carrozzella non rientra tra le priorità della politica?

Il fondo per l’abbattimento delle barriere architettoniche è stato istituito nel 1989 con la legge n. 13 del 9 gennaio: dovrebbe concedere contributi a fondo perduto per la realizzazione di interventi per l’eliminazione delle barriere architettoniche all’interno degli edifici residenziali privati e in quelli pubblici e privati utilizzati come centri per l’assistenza agli invalidi.
Le spese fino a 2.582 euro sono totalmente finanziate del fondo; se si supera questa cifra, e fino a 51.645 euro, la percentuale del contributo decresce per scaglioni di importo della spesa; l’ammontare massimo non può oltrepassare i 7.101 euro.
Quella promossa con la legge 13/1989 è una politica di tipo universalistico: il diritto al contributo pubblico è riconosciuto a tutti gli invalidi che sostengono una spesa per eliminare gradini, allargare porte, installare ascensori o servo-scale, indipendentemente dalla loro condizione economica; il loro reddito è ininfluente anche sull’ammontare della somma loro concessa. L’irrilevanza della situazione economica dei beneficiari è difficilmente giustificabile sul versante dell’equità.
Ogni anno i comuni raccolgono le domande e le inviano alle regioni di appartenenza, che a loro volta quantificano l’ammontare del contributo pubblico da richiedere allo Stato. I comuni si occupano anche del pagamento, agli aventi diritto, dei contributi statali, ricevuti tramite le regioni. La procedura per la quantificazione del fabbisogno deve essere eseguita anche negli anni in cui la legge di bilancio statale non stanzia nemmeno un euro; sarà così anche il prossimo anno, anche se non è previsto il rifinanziamento del fondo.

Il fabbisogno da soddisfare

Il fabbisogno inevaso del prossimo anno si sommerà, quindi, a quello accumulato finora. Da un’indagine svolta dalle regioni, relativa agli anni dal 2010-2015, è risultato che per dare a ogni richiedente il contributo che gli spetterebbe occorrono 450 milioni di euro. Tolti i 150 milioni che le regioni dichiarano di avere tirato fuori dai loro bilanci, lo Stato dovrebbe stanziare 300 milioni per dare agli invalidi quello che la legge promette loro. Ma il fabbisogno complessivo è molto più alto: è dal 2001 che le leggi finanziarie statali non rifinanziano il capitolo di bilancio della legge 13/1989; e anche i fondi iscritti negli anni precedenti non sono mai stati sufficienti a pagare interamente le somme dovute a chi era stato ammesso a ricevere il contributo. È pertanto possibile che ci siano invalidi che aspettano ormai da venti anni di ricevere in tutto o in parte la cifra spettante.

Le regioni sembrano rassegnate a non ricevere più alcun contributo statale per il finanziamento delle politiche per il superamento delle barriere architettoniche. Si accontenterebbero della rimozione dell’obbligo, in capo ai comuni e alle regioni, di raccogliere le richieste di contributo presentate dai cittadini, evitando così di generare aspettative che non potranno essere soddisfatte.

È solo colpa del bilancio?

Se finirà così sarà, però, più per scelta che per necessità di bilancio.
La legge di bilancio per il prossimo anno, conferma (articolo 82) per il 2017 il contributo a favore dei giovani, che compiranno 18 anni, per pagar loro il biglietto del cinema, un cd di musica o un libro. Lo stanziamento sarà uguale e quello previsto per l’anno in corso: 290 milioni di euro. Pure questi soldi sono distribuiti a pioggia anche ai ragazzi appartenenti a famiglie ricche o con redditi che consentono di pagare, senza alcun sacrificio, il cinema ai figli. In due anni saranno spesi quasi 580 milioni di euro (290 quest’anno e altrettanti il prossimo). Una cifra sufficiente a saldare, se non interamente, una parte consistente dei contributi che gli invalidi aspettano da anni. Se continueranno a non riceverli, non è, quindi, per la difficoltà di reperire nel bilancio statale i fondi necessari, ma perché la soluzione del loro disagio è, evidentemente, ritenuta meno importante della cultura cinematografica dei giovani che diventano maggiorenni.

Una scelta difficile da spiegare, se si confronta il merito sociale delle due politiche.

«Ecco l’equivoco da cui dobbiamo liberarci: se neghiamo ai migranti i loro diritti umani, li neghiamo anche a noi stessi. E in ultimo diventiamo più insicuri».

La Repubblica 15 novembre 2016 (c.m.c.)

Donald Trump vorrebbe cacciarne 3 milioni. E noi? Sotto sotto lo approviamo. Perché anche in Italia gli immigrati sono un fiume in piena: negli ultimi 25 anni il loro numero è aumentato 10 volte.

E perchè quest’invasione ci spaventa. Sarà forse un delitto aver paura? Vabbè, le statistiche ci informano che gli stranieri delinquono meno degli italiani e sono pure più istruiti (Dossier statistico immigrazione 2016); ma è un racconto buono per i grulli, noi non ci caschiamo. Vabbè, in un anno la Germania ha assorbito oltre un milione d’immigrati; fatti loro, non vengano a farci la morale. Vabbè, un tempo fummo migranti pure noi italiani. Però è una storia che riguarda i nostri nonni, pace all’anima loro. E poi allora mica c’era il terrorismo, con la sua ferocia senza pari. Adesso c’è, e i politici non sanno trovare soluzioni. Di conseguenza abbiamo perso fiducia nei politici, e forse anche in noi stessi. Ci sentiamo confusi, spaesati. Ma dopotutto reclamiamo soltanto un po’ di sicurezza. È il primo diritto, l’unico davvero fondamentale. O no?

L’uomo moderno — scriveva nel 1929 Sigmund Freud — ha rinunziato alla possibilità d’essere felice in cambio di maggiore sicurezza. Ma sta di fatto che nel terzo millennio l’insicurezza domina la nostra vita pubblica e privata. Perché sperimentiamo matrimoni instabili, lavori precari, trasferimenti di città in città.

E perché al rischio esistenziale si somma un rischio esterno, che la globalizzazione ha elevato alla massima potenza. Il rischio demografico, dato che siamo ormai 7 miliardi sulla faccia della terra. Il rischio ecologico, che s’aggrava insieme al surriscaldamento globale. Il rischio atomico, con 16 mila testate nucleari disseminate ai quattro angoli del mondo (70 in Italia), quando una ventina basterebbero per oscurare il sole. Il rischio idrico (le prossime guerre si combatteranno per il controllo dell’acqua). Il rischio economico, che non deriva solo dalla crisi dei mercati. È la diseguaglianza, è la forbice tra il Nord e il Sud del nostro pianeta (90 a 1, in base al reddito pro capite), che alimenta tensioni nonché — per l’appunto — migrazioni.

Sì, viviamo nella società del rischio, come la definisce Ulrich Beck. E il rischio alleva la paura. Però quest’ultima è una sorella inseparabile della condizione umana. Nel volgere dei secoli cambia l’argomento, non il sentimento. Anche se l’argomento principale è poi sempre lo stesso: paura dell’altro, paura del nemico che t’invade. Tuttavia abbiamo già escogitato un esorcismo, un antidoto contro il trionfo degli istinti. Consiste nelle regole giuridiche, nel rispetto del diritto, dei diritti. A conti fatti, lo Stato di diritto è proprio questo: una fortezza che protegge l’umanità dalla paura. Ma il presupposto sta nella sua capacità di garantire l’esercizio dei diritti. I diritti altrui, non solo i nostri. Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti di nessuno.

Ecco perciò l’equivoco da cui dobbiamo liberarci: se neghiamo ai migranti i loro diritti umani, li neghiamo anche a noi stessi. E in ultimo diventiamo più insicuri. Più deboli, non più forti. La sicurezza, infatti, coincide con la sicurezza dei diritti. Tuttavia non configura un diritto autonomo a sua volta, come pretende un altro equivoco che ci intorbida le menti. Vero: la Déclaration del 1789 sanciva il «diritto alla sicurezza ».

E già un secolo prima Thomas Hobbes, nel Leviatano (1651), v’imperniava la sua dottrina dello Stato. Hanno questa remota origine gli echi che ancora s’incontrano in alcune Costituzioni, come quella finlandese. Si tratta però di formule retoriche, se non anche pleonastiche. È del tutto ovvio, infatti, che ogni Stato debba proteggere i propri cittadini. Se nelle periferie milanesi si moltiplicano gli episodi di violenza, rafforzare i controlli — come ieri ha chiesto il sindaco Sala — è una misura obbligata, non una graziosa concessione dello Stato.

Insomma, la sicurezza non è un diritto, bensì un limite all’esercizio dei diritti. Vale per la privacy, che può ben essere violata quando entra in gioco l’esigenza di perseguire i criminali. Vale per cortei e manifestazioni, vietati se mettono a rischio l’incolumità pubblica. Vale per la libertà di domicilio, così come per ogni altra libertà. Ma se nessun diritto è incondizionato, allora non potrà mai dirsi assoluta la sete di sicurezza, che non assurge nemmeno al rango di diritto.

A differenza del diritto d’asilo, protetto dall’articolo 10 della Costituzione. Da qui la conclusione: se per respingere i migranti proclamiamo uno stato d’assedio permanente, ne va di mezzo la nostra stessa libertà. E in ultimo l’ossessione della sicurezza ci recherà in dono la più acuta insicurezza.

». il manifesto, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

«Ci fu un momento più populista di quello in cui 99 anni fa qualcuno gridò ’pace e pane’»? Si tratta di un’affermazione di Pablo Iglesias, leader di Podemos (Publico.es, 9 novembre). «Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane». Così ha scritto su questo giornale (12 novembre) Leonardo Paggi. Mi sembra del tutto evidente che né Iglesias, né Paggi suggeriscano analogie forti tra Trump e Lenin. Entrambi usano l’analogia come iperbole concettuale, in grado di cogliere affinità tra contenuti assai diversi.

Dice ancora Iglesias: «Il populismo non definisce le opzioni politiche, ma i momenti politici». I populismi sono, per eccellenza, parametri di definizione e di svelamento delle crisi, in particolare di quelle di lungo periodo come l’attuale. Il populismo di Trump, e di tante sue varianti europee, ha certamente tratti parafascisti, ovviamente in contesti (e forme) del tutto diversi dal fascismo storico, ma ci mostra con chiarezza che non esistono possibilità di sbocchi della crisi a «sinistra» senza popolo.

È ancora particolarmente attuale la questione che il responsabile esteri del Partito comunista cinese pose a Bertinotti nel dicembre del 2005: «Mi spiegate come mai vista la vostra intelligenza, poi nel vostro Paese, quando andate alle elezioni prendete poco più del 5 per cento?». Ed oggi anche il 5% è un obbiettivo ambizioso. Ebbene, Paggi nel suo articolo è proprio di questo problema che parla.

Se la nostra sinistra da quel 5%, peraltro nemmeno garantito, vuole iniziare con coerenza e rigore il difficile percorso necessario per acquisire una forza reale, può farlo senza entrare in una comunicazione non monodirezionale con il popolo degli sconfitti dall’attuale fase di accumulazione del capitale? Senza partire dalle condizioni materiali di quel popolo e dagli effetti che quelle condizioni materiali hanno sui modi di espressione politica?

Per questo non basta la critica al neoliberismo e/o all’ordoliberismo, ma è necessario che questa critica coniughi gli aspetti generali dell’analisi con un ri-pensamento di alcune categorie interpretative di questo nostro presente. Ri-pensarle alla luce della possibilità di proposte politiche che siano chiaramente riferibili al complesso delle condizioni materiali di quel popolo che vorremmo ancora nostro.

Ed allora categorie come cosmopolitismo, europeismo, unità monetaria dell’Europa, forme di autonomia nazionale, vanno sottoposte al vaglio di una critica realistica, alla pietra di paragone degli effetti di disgregazione che la loro interpretazione dominante ha avuto sulla vita dei subalterni.

Paggi cita assai opportunamente Karl Polanyi a proposito della necessità di difendere umanità e democrazia dalle tendenze strutturalmente distruttive della società di mercato. Vorrei ricordare che Polany chiama «socialismo» tale azione di autodifesa.

Lo stesso fenomeno delle migrazioni deve essere pensato nella coniugazione delle forme del loro governo. È problema difficilissimo che scuote alle fondamenta la nostra ragione e la nostra coscienza. Ma non possiamo più permetterci di affrontarlo soltanto attraverso pur lodevoli petizioni di principio.

Per certi aspetti si ripropone oggi, in condizioni non certo paragonabili, il problema dell’incontro avvenuto nella seconda metà del XIX secolo, tra movimento operaio, socialismo, teorie critiche del capitalismo. Sarebbe il caso di non dimenticare che uno dei momenti iniziali di quel percorso, il momento fondamentale, fu la fondazione della I Internazionale. Alle origini del meeting tra organizzazioni operaie francesi e Trade Unions, confronto preliminare alla fondazione dell’Internazionale, fu la questione del controllo del mercato del lavoro, a partire dalle possibilità per le Unioni di impedire l’esportazione di lavoro francese (allora nella forma del crumiraggio) in Inghilterra.

Possiamo ignorare una questione, il controllo del mercato del lavoro, che è quasi consustanziale alle ragioni fondative dell’organizzazione operaia?

Una analisi della scelta di voto degli americani e un impegno preciso per il suo partito e un suggerimento difficile da seguire al Partito Democratico.

The New York Times, 11 novembre 2016 (p.d.)

Bernie Sanders, candidato alle primarie presidenziali democratiche e ridotto al ruolo di portatore d'acqua a Clinton, si dice amareggiato ma non sorpreso dalla vittoria di Trump, il quale, per mezzo di una efficace campagna elettorale populista, ha saputo attirare il voto dei lavoratori americani, da trent'anni sempre più schiacciati dalle scelte operate dalle grandi compagnie e dalla finanza di Wall Street.
Trump avrà il coraggio di cambiare verso o si limiterà a scaricare la rabbia degli americani su minoranze, immigrati, poveri e bisognosi? Nel primo caso Sanders si dice ben disposto a collaborare e a presentare proposte di riforma ma, soprattutto, auspica che il Partito Democratico subisca una radicale trasformazione, rompendo i legami che lo stringono agli interessi economici a aprendosi di nuovo a quanti lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale [si ricordi che Clinton e Obama non vollero accettare che fosse Sanders il competitore di Trump, mentre molti ritengono che fosse l'unico capace di raccogliere la rabbia contro l'establishment, sgonfiando così le vele di Trump].


BERNIE SANDERS:

WHERE THE DEMOCRATS

GO FROM HERE
By Bernie Sanders

Millions of Americans registered a protest vote on Tuesday, expressing their fierce opposition to an economic and political system that puts wealthy and corporate interests over their own. I strongly supported Hillary Clinton, campaigned hard on her behalf, and believed she was the right choice on Election Day. But Donald J. Trump won the White House because his campaign rhetoric successfully tapped into a very real and justified anger, an anger that many traditional Democrats feel.

I am saddened, but not surprised, by the outcome. It is no shock to me that millions of people who voted for Mr. Trump did so because they are sick and tired of the economic, political and media status quo.

Working families watch as politicians get campaign financial support from billionaires and corporate interests — and then ignore the needs of ordinary Americans. Over the last 30 years, too many Americans were sold out by their corporate bosses. They work longer hours for lower wages as they see decent paying jobs go to China, Mexico or some other low-wage country. They are tired of having chief executives make 300 times what they do, while 52 percent of all new income goes to the top 1 percent. Many of their once beautiful rural towns have depopulated, their downtown stores are shuttered, and their kids are leaving home because there are no jobs — all while corporations suck the wealth out of their communities and stuff them into offshore accounts.

Working Americans can’t afford decent, quality child care for their children. They can’t send their kids to college, and they have nothing in the bank as they head into retirement. In many parts of the country they can’t find affordable housing, and they find the cost of health insurance much too high. Too many families exist in despair as drugs, alcohol and suicide cut life short for a growing number of people.

President-elect Trump is right: The American people want change. But what kind of change will he be offering them? Will he have the courage to stand up to the most powerful people in this country who are responsible for the economic pain that so many working families feel, or will he turn the anger of the majority against minorities, immigrants, the poor and the helpless?

Will he have the courage to stand up to Wall Street, work to break up the “too big to fail” financial institutions and demand that big banks invest in small businesses and create jobs in rural America and inner cities? Or, will he appoint another Wall Street banker to run the Treasury Department and continue business as usual? Will he, as he promised during the campaign, really take on the pharmaceutical industry and lower the price of prescription drugs?

I am deeply distressed to hear stories of Americans being intimidated and harassed in the wake of Mr. Trump’s victory, and I hear the cries of families who are living in fear of being torn apart. We have come too far as a country in combating discrimination. We are not going back. Rest assured, there is no compromise on racism, bigotry, xenophobia and sexism. We will fight it in all its forms, whenever and wherever it re-emerges.

I will keep an open mind to see what ideas Mr. Trump offers and when and how we can work together. Having lost the nationwide popular vote, however, he would do well to heed the views of progressives. If the president-elect is serious about pursuing policies that improve the lives of working families, I’m going to present some very real opportunities for him to earn my support.

Let’s rebuild our crumbling infrastructure and create millions of well-paying jobs. Let’s raise the minimum wage to a living wage, help students afford to go to college, provide paid family and medical leave and expand Social Security. Let’s reform an economic system that enables billionaires like Mr. Trump not to pay a nickel in federal income taxes. And most important, let’s end the ability of wealthy campaign contributors to buy elections.

In the coming days, I will also provide a series of reforms to reinvigorate the Democratic Party. I believe strongly that the party must break loose from its corporate establishment ties and, once again, become a grass-roots party of working people, the elderly and the poor. We must open the doors of the party to welcome in the idealism and energy of young people and all Americans who are fighting for economic, social, racial and environmental justice. We must have the courage to take on the greed and power of Wall Street, the drug companies, the insurance companies and the fossil fuel industry.

When my presidential campaign came to an end, I pledged to my supporters that the political revolution would continue. And now, more than ever, that must happen. We are the wealthiest nation in the history of the world. When we stand together and don’t let demagogues divide us up by race, gender or national origin, there is nothing we cannot accomplish. We must go forward, not backward.

«Il tentativo di elementi fascisti del governo estremista di vietare il richiamo alla preghiera è una grave violazione e un attacco razzista alla libertà di culto in generale e alla fede musulmana e ai musulmani nello specifico».

Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2016

Nuove tensioni fra Israele e Autorità nazionale palestinese(Anp). Dopo la dichiarazione del ministro dell’educazione israeliano che, esultando per la vittoria di Trump, aveva dichiarato ” è finita l’era dello Stato palestinese”, il nuovo terreno di scontro è una proposta di legge per la rimozione degli altoparlanti dalle moschee.

Il governo di Benyamin Netanyahu ha approvato una proposta di legge per vietare gli altoparlanti nelle moschee – strumento attraverso il quale il muezzin chiama alla preghiera – motivandolo come scelta per proteggere la quiete pubblica. Israele “è impegnato a garantire la libertà di culto per tutte le religioni – ha detto il premier – ma ha anche l’obbligo di proteggere i cittadini dai rumori“.

Il presidente palestinese Abu Mazen ha subito attaccato l’iniziativa che “rischia di far sprofondare la Regione in un baratro”. Mentre il suo portavoce Nabil Abu Rudeina ha annunciato che “la leadership dell’Anp si rivolgerà al Consiglio di Sicurezzadell’Onu e a tutti gli organismi internazionali per fermare queste pratiche provocatorie israeliane”. Puntuale anche la condanna di Hamas, da Gaza.

La proposta di legge è stata approvata all’unanimità dalla Commissione ministeriale per la legislazione. Ora al parlamento israeliano, la Knesset, annunciano battaglia i parlamentari arabi che hanno replicato che già oggi esiste il divieto sui rumori eccessivi in zone pubbliche e che non c’è necessità di una legge solo per le moschee. Il provvedimento, al via nell’iter parlamentare, vuole vietare il ricorso ad altoparlanti nelle moschee ma ammette, a discrezione delle autorità, deroghe locali.

La ‘Lista Araba Congiunta’ alla Knesset ha dichiarato che “il tentativo di elementi fascisti del governo estremista (del premier israeliano Benjamin Netanyahu) di vietare il richiamo alla preghiera è una grave violazione e un attacco razzista alla libertà di culto in generale e alla fede musulmana e ai musulmani nello specifico”.

La Repubblica

Dopo i poveri incoda per la mensa (accusati di portare degrado nel quartiere),la Lega che ha la presidenza del Municipio 2 a Milano adesso ha i fari puntatisugli islamici e sui loro luoghi di culto. Anzi, per estensione, se la prendeanche con gli evangelici e i copti ortodossi. Il primo passo è un censimentodelle moschee abusive e dei centri di preghiera per segnalarli alla Regione,che ha in corso un'inchiesta in materia su tutta la Lombardia, una sorta dimappatura di tutti i luoghi di culto. La richiesta è quella dichiuderli per "problemi di sicurezza" e per la "paura deicittadini che non escono più di casa per la presenza di troppi stranieri".

Il Municipio copre la zona fra via Padova,la stazione centrale, viale Monza e tutta la periferia est: le zone a maggioredensità di stranieri residenti. Lo stesso quartiere dove è avvenutol'accoltellamento al giovane dominicano sabato sera. Un pezzo di città dasempre sotto i fari dell'attenzione politica, con opposte strategie da parte didestra e sinistra. Sotto la Moratti arrivò l'esercito, con Pisapia si puntò invece sulla socialità. Il nuovo presidente del municipio, il leghista, Samuele Piscina, vuole un ritorno al passato. E annuncia che si sostituirà a Palazzo Marino nella segnalazion di quella che secondo lui è una "problematica non irrilevante" cioé "i numerosi luoghi di culto irregolari presenti nel nostro municipio". Dunque anche se "purtroppo il Comune di Milano ha deciso di non presentare questo censimento, il Municipio 2 prende atto diquesta scelta dell'amministrazione comunale, ma non può rimanere a guardarementre le regole non vengono rispettate. Per tale motivo abbiamo iniziato uncensimento dei luoghi di culto del Municipio 2 che avremo cura di trasmettereappena completato a Regione Lombardia".

In realtà Piscina una mappa dei luoghi di culto nella sua zona ce l'ha già. Ed è anche una mappa molto affollata, visto che quelli sui quali lui "governa" sono i quartieri più multietnici della città. Dunque chiede alla Regione di intervenire di "contrastare" la loro presenza che "crea problemi di sicurezza". Scrive Piscina all'assessora regionale alla Sicurezza, Simona Bordonali: "Pur sostenendo il principio della libertà di culto, riteniamo essenziale il rispetto delle normative esistenti che garantiscono la sicurezza di tutti i cittadini. Per tale motivo chiediamo all'assessorato che vengano contrastati i centri di culto irregolari, e quindi senza destinazione d'uso adeguata, presenti nel Municipio 2. Tali luoghi di culto non risultano a norma di legge e creano evidenti problemi di sicurezza (anche urbanistica) sia per chi li frequenta sia per i cittadini che vivono nelle immediate vicinanze".

Di seguito, un primo elenco dei "luoghi di culto irregolari":
- Moschea Bangladesh Cultural &Welfare association di via Cavalcanti 8;
- moschea di via San Mamete 76;
- moschea dell'associazione culturale Al Nur di via Carissimi 19;
- moschea Casa della Cultura islamica, Via Padova, 144;
- moschea Alleanza islamica d'Italia di viale Monza 50;
- moschea di via Arbe 93.

A queste aggiunge anche:
- la chiesa evangelica di via Teocrito 45;
- la chiesa cristiano copta di via Gluck 46;
- la chiesa evangelica cinese di via Antonio Fortunato Stella 2;
- la chiesa Unita Pentecostale Internazionale di via Carta 21;
- chiesa cristiana evangelica delle Assemblee di Dio in Italia di via Matteo Maria Boiardo, 10;
- la missione Evangelica Maranata D'Itália nella via Privata Pericle, 9.

Dura la presa di posizione spiegata in un consiglio di zona straordinario al quale è stata invitata anche l'assessora alla Sicurezza del Comune, Carmela Rozza: "Il Municipio 2 negli ultimi cinque anni è stato totalmente dimenticato sotto il profilo della sicurezza. I problemi sono conosciuti ormai da anni, ma l'amministrazione comunale nel recente passato non è mai intervenuta per tutelare i cittadini che, specialmente in quartieri quali ad esempio via Padova e stazione Centrale, hanno paura di uscire di casa, anche per la presenza dell'hub profughi di via Sammartini. Per tale motivo ci sembra
fondamentale mettere telecamere e riportare sia l'esercito, sia le forze dell'ordine e la polizia locale nelle strade delle periferie, dove sussistono i veri problemi. Importantissimo è in primis trasferire il comando zonale della Polizia locale all'interno del territorio del Municipio 2, dove ci sono i veri problemi dei cittadini, cercando possibilmente una sede lungo l'asse di via Padova". Che notoriamente è la strada simbolo della Milano multirazziale.

«». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

Da alcuni decenni sono tornate a vedersi, prima nelle grandi città arabe e musulmane, poi anche in quelle europee e occidentali, donne velate come prima si potevano incontrare solo negli angoli più emarginati delle zone rurali.

Anche l’estensione della copertura a cui viene sottoposto il loro corpo, dal chador al niqab, al burka, per finire ai guanti, per impedire ogni possibile contatto con mani estranee, è andata crescendo – ben al di là di quanto possa essere ricondotto anche alla più rigida delle tradizioni – come segno della progressione di un riconquistato dominio dell’uomo sul popolo delle donne; un dominio che i contatti con la cultura occidentale, soprattutto dopo l’esplosione del femminismo negli anni ’70, stavano erodendo poco per volta.

Non era difficile riconoscere in questa inversione di tendenza il segno esteriore della rivalsa di una popolazione maschile, di fronte alla constatazione che né la decolonizzazione dei loro paesi, né la strada di un socialismo sui generis, in gran parte di impronta sovietica, né quella del nazionalismo arabo, e nemmeno quella dell’emigrazione in Europa avevano raggiunto i risultati promessi in termini di emancipazione, di diritti, di benessere.

La strada sbarrata dello sviluppo umano in tanti paesi ex coloniali e in tante comunità immigrate e discriminate stava spingendo, una dietro l’altra, le popolazioni che continuavano a subire il predominio della «civiltà» bianca occidentale a compensare questa loro subalternità imponendo alla «loro» altra metà del cielo, e in forme ben più visibili che non in passato, una subalternità altrettanto se non anche più spietata.

L’origine di questo cambio di rotta è di per sé sufficiente a spiegare, anche se non in modo esaustivo, la condivisione o l’accettazione di questa imposizione da parte di molte donne che indossano con orgoglio questi segni della loro subordinazione come manifestazione del rifiuto di tutto ciò che la «civiltà» occidentale ha cercato di imporre anche a loro.

Il fondamentalismo radicale ha poi fatto di questa riconquista dell’uomo sulla donna il centro della propria ideologia, della propria prassi (fino a giustificare lo stupro e la schiavitù delle donne estranee alle proprie comunità) e anche del richiamo nei confronti di giovani maschi alla ricerca di avventure.

Per questo è già stato rilevato più volte che l’arma principale che può disgregare questa vera e propria minaccia per l’umanità, sia quando assume le forme e la consistenza di uno Stato, di un esercito, di una comunità chiusa, sia quando si manifesta nel moltiplicarsi delle iniziative stragiste in tutto il resto del mondo, non può che essere la decisione delle donne di queste comunità di riprendere in mano il loro destino; ovviamente nelle forme che loro stesse decidono di adottare, anche in considerazione dei pesanti vincoli a cui sono sottoposte, e che non coincidono necessariamente con quelle che molti di noi desidererebbero.

Certamente l’esempio che viene dalle aree liberate della Siria curda come il Rojava, e che non si limita solo alla partecipazione delle donne alla guerra di liberazione, ma investe tutti gli ambiti della vita associata, è quello che a noi risulta più chiaro ed efficace. Ma non è detto che sia il solo e che altre strade non possano essere percorse, senza pretendere che il primo passo in questa direzione sia quello di «togliersi il velo».

Ma che ne è dalle nostre parti? Quelle dell’uomo bianco occidentale? Tanto è facile – o sembra – fare l’antropologia delle altrui culture quanto è difficile riconoscere nella nostra i segni vistosi di processi analoghi, che pure sono sotto gli occhi di tutti. Così, prima ancora di individuarvi una manifestazione del rancore della popolazione bianca declassata dalla globalizzazione contro le rispettive élite, ci si dovrebbe chiedere se l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, come l’«irresistibile» avanzata di tanti movimenti xenofobi e di destra nei paesi dell’Unione Europea, non siano innanzitutto manifestazioni di una rimonta di maschilismo, non nelle forme bigotte e cupe imposte dal fondamentalismo islamico, ma in quelle volgari, sboccate e persino pornografiche che da tempo covano sotto la coltre del cosiddetto «politicamente corretto».

Spiegare la vittoria di Trump o l’avanzata delle destre xenofobe solo come una scelta di classi e ceti «dimenticati» urta innanzitutto con il dato, appurato, che a votare per entrambi non sono solo né principalmente i poveri e i declassati; e che anzi, come nella più classica delle analisi sociali, le adesioni ai loro programmi o, meglio, ai loro slogan, cresce col crescere del reddito e della posizione sociale – non con quello dell’istruzione – anche se sono certamente molto ampie tra le persone, qui soprattutto maschi bianchi, che sono vittime della globalizzazione e che rischiano di restare vittime di questa loro forma di ribellione.

Che l’adesione alle prospettive xenofobe e razziste di questi schieramenti abbia molto a che fare con un desiderio di rivalsa nei confronti delle «proprie» donne, e delle donne in generale, è evidente vedendo che la candidatura alla Casa Bianca di una donna ha creato molta diffidenza in tutti le componenti dell’elettorato statunitense, anche se Hillary Clinton si è giocata la carta del genere solo nella parte finale della sua campagna elettorale. Ma l’indizio maggiore di questa volontà di rivalsa tra l’elettorato maschile di tutte le classi – e anche tra quello femminile che vede nella liberazione della donna dai vincoli patriarcali una minaccia per la stabilità della propria collocazione familiare – è il fatto che a sostegno di Trump siano scesi in campo, come a suo tempo con Berlusconi, i settori più estremisti del fondamentalismo cristiano: soprattutto protestante negli Usa, o cattolico – quello di Comunione e Liberazione, ma non solo – in Italia.

Ma lo stesso succede in molti altri paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est. Non c’è stato un semplice «passar sopra» ai vizi conclamati dei loro leader, bensì il riconoscimento, forse inconsapevole, che l’ostentato maschilismo del leader, e non solo suo, è la conferma della riconquista di un potere maschilista e patriarcale sulle donne, che funziona innanzitutto come risarcimento per la perdita di diritti, di benessere e di potere nella vita «globalizzata». Il senso di questa rimonta del maschilismo è confermata dall’aumento verticale dei femminicidi: il Kukluxklan del maschio che lincia la «propria» donna disobbediente.

Per questo razzismo e maschilismo risultano intrecciati anche nel nostro occidente e l’affermazione di uomini come Trump, o l’avanzata dei suoi omologhi europei recano il segno del ripiegamento verso un fondamentalismo occidentale – dove molta parte del cristianesimo, quella non a caso avversa al magistero ecumenico di papa Francesco, gioca un ruolo identitario fondamentale – nei cui confronti la partita decisiva non si potrà giocare senza una vigorosa ripresa del movimento femminista.

«L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione».

La Repubblica, 13 novembre 2016 (m.p.r.)

Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.

Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro - tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.
Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Traduzione di Emilia Benghi The New York Times Company

. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto

». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

È NATA L’ALTERNATIVA A FOODORA
ORA I BIKERS PEDALANO IN COOPERATIVA

Gig Economy in Belgio. Take Eat Easy, start up belga di consegne a domicilio, è fallita a luglio. I ciclo-fattorini si sono organizzati con la società mutualistica Smart. La storia della prima innovazione dal basso nel mondo delle piattaforme digitali

È nata in Belgio l’alternativa a Foodora, Deliveroo o UberEats, le multinazionali statunitensi ed europee che usano i ciclofattorini per le consegne a domicilio. Tutto è iniziato il 26 luglio scorso con il fallimento del gigante Take Eat Easy, l’analogo belga di Foodora o Deliveroo. Pochi giorni dopo, ad agosto, una parte dei bikers hanno deciso di organizzarsi. Alcuni di loro, 434, facevano già parte della «società mutualistica per artisti» Smart, un’impresa di economia sociale composta da diverse entità con personalità giuridiche distinte e una fondazione che le coordina e ne garantisce il fine senza scopo di lucro. Da marzo a oggi sono cresciuti e, insieme ad altri 1.300 che svolgono lo stesso lavoro, parteciperanno alla più grande cooperativa europea composta da lavoratori indipendenti.

A gennaio, infatti, Smart ha deciso di trasformarsi in cooperativa e diventerà uno dei casi di riferimento per il dibattito mondiale sulla nuova cooperazione. I «livreurs» – così vengono chiamati in Belgio i ciclo-fattorini – saranno protagonisti della prima innovazione su base solidale e mutualistica nel mondo della «gig economy», l’economia dei «lavoretti» che in Italia è diventata nota dopo la vertenza dei bikers torinesi della Foodora.

Take Eat Easy era una start up di consegne a domicilio che operava in venti città belghe e con la sua piattaforma metteva in contatto 3200 ristoranti. I bikers impiegati circa 4500. In un solo anno i clienti sono aumentati da 30 mila a 350 mila. Cifre vertiginose per un paese come il Belgio, ma non sufficienti per un’economia altamente finanziarizzata come quella della «gig economy». Adrien e Chloé Roose, co-fondatori di Take Eat Easy, hanno spiegato le ragioni del fallimento. La start-up si è sviluppata troppo lentamente e non è riuscita a trovare nuovi investitori.

Se non ci fosse stata Smart, i 434 «livreurs» non avrebbero ricevuto i compensi, né versamenti degli oneri sociali per una cifra pari a 340 mila euro, come invece è capitato ai loro colleghi. Smart ha versato i soldi ai suoi impiegati senza poterli riscuotere dal committente Take Eat Easy. Forte di 60 mila soci che versano il 6,5% dei guadagni in un fondo di garanzia in cambio di servizi, Smart è riuscita a sostenere il peso delle conseguenze del fallimento e ha allargato il numero dei soci. Nel 2015 erano infatti solo 89 i «livreurs» ad avere aderito all’iniziativa. Oggi le cose sembrano funzionare: sono 50 mila le ore di lavoro prestate dai 1300 fattorini.

Smart aveva già siglato con Take Eat Easy, e con Deliveroo, un protocollo d’intesa che rimedia al principale problema del ciclo-lavoro a domicilio: il tempo di lavoro tra una corsa e l’altra non è remunerata. Il protocollo ha assicurato un salario pari al minimo legale mensile in base alle ore lavorate, il rimborso delle spese di manutenzione per la bicicletta o le spese telefoniche e un’assicurazione contro gli incidenti. Il tutto nel quadro di un contratto di lavoro di cui Smart si è assunta le responsabilità del datore di lavoro.

«Oggi – afferma Sergio Giorgi, project officer di Smart – i livreurs sono impiegati per il tempo che lavorano per Smart, quando non sono in bici svolgono altre attività che possono anche condurre nell’ambito di Smart, dipende dal loro profilo professionale». «Considerata la natura dei beni dell’azienda in fallimento – un database dei livreurs, un software che fa da interfaccia tra loro, i ristoranti e i consumatori – è probabile che i 340 mila euro versati da Smart saranno iscritti tra le perdite e coperti con le sue riserve».

A questo punto viene da chiedersi che cosa guadagnerà la cooperativa da questa operazione. «Insieme agli altri soci contribuiranno alla costruzione dei servizi che permettono di assicurargli la continuità nel lavoro e la protezione sociale – risponde Giorgi – Quando hanno fatto ricorso a Smart i livreurs sono, di fatto, diventati impiegati. In quanto datore di lavoro, Smart ha fatto valere le condizioni minime di lavoro: la durata minima dell’impiego, il sostegno delle spese nei confronti del cliente».

Nelle intenzioni dei promotori dell’operazione c’è il desiderio di «tutelare i lavoratori su base mutualistica dai rischi derivanti della discontinuità del lavoro indipendente, siano essi freelance o abbiano uno statuto patchwork come quello del lavoro nella gig economy. È un’alternativa al modello attuale dove il singolo «auto-imprenditore» vende un servizio all’azienda proprietaria della piattaforma e vede diminuire il livello di protezione e di sicurezza sociale». Nell’esperimento inauguratocon Smart, i livreurs si sono sottratti all’individualismo e hanno iniziato a organizzare direttamente il loro lavoro in bicicletta senza rispondere a un datore di lavoro che gestisce i tempi del cottimo digitale attraverso un telefono.

SMART, LA SFIDA EUROPEA
ALL’UBERIZZAZIONE DEL LAVORO

Dagli intermittenti dello spettacolo ai lavoratori autonomi e freelance. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto. «Stiamo creando un mutualismo a livello continentale che permette ai soci della cooperativa in Belgio di aiutare quelli italiani ed europei a tutelare i loro diritti».

Nel 1998 un gruppo di intermittenti dello spettacolo decise di dare una risposta a una domanda ricorrente tra gli artisti in Belgio: come ottenere un livello dignitoso di protezione sociale quando si percepiscono redditi irregolari, soggetti a ritardi? Un problema che riguarda, ieri come oggi, le professioni dello spettacolo e quelle autonome o precarie.

È nata così Smart che oggi conta 75 mila soci, 12 sedi in Belgio e nove società gemelle in altrettanti stati europei: Francia, Svezia, Italia, Spagna, Germania, Olanda, Austria, Ungheria. A gennaio si concluderà il processo di trasformazione di questa impresa sociale in cooperativa al quale ha partecipato un migliaio di persone. Smart è una delle forme del mutualismo di nuova generazione: eroga ai soci servizi di formazione e strumenti amministrativi, giuridici, fiscali e finanziari per semplificare e legalizzare la loro attività professionale.

A differenza del modello dell’auto-imprenditore che spinge il lavoratore autonomo a considerarsi un’impresa e non come un lavoratore, Smart assume il ruolo di datore di lavoro nei confronti dei soci che diventano impiegati di un’impresa condivisa e per questo accedono alla protezione sociale.

Negli anni è stato elaborato, e perfezionato, un meccanismo basato sul principio della mutualizzazione: grazie all’aumento del fatturato dei soci (sul quale Smart preleva il 6,5%, in Italia l’8,5%) si finanzia un fondo di solidarietà che permette di sostenere i lavoratori sia nel caso di interruzione dell’attività o di diminuzione del reddito, o in quello di creazione di nuovi servizi. In una fase in cui la cosiddetta «uberizzazione» del lavoro si sta espandendo, la durata del lavoro è sempre più determinata e frammentata e le condizioni di accesso alle tutele sociali e previdenziali tendono a restringersi sempre di più, questo modello creato dagli artisti, e oggi esteso a molti altri lavori come quello dei «bikers» di Take Eat Easy, si presenta come un’alternativa.

Agli esponenti di Smart, è stato rimproverato di contribuire alla precarizzazione del lavoro e di sostituire il Welfare con il loro modello. L’accusa viene respinta perché l’esistenza di una cooperativa, che continuerà a funzionare su base democratica, non sostituisce il pubblico ma costituisce un esempio per modificare il Welfare in senso universalistico, alla luce di una trasformazione generale del lavoro. Smart costituisce anche un’autodifesa, elemento determinante nella storia del mutualismo, in attesa di una riforma di tale portata.

Su questi temi il dibattito è ampio e se ne sta discutendo anche a New York dove, in questo fine settimana, si è svolta un’importante conferenza sul platform cooperativism, la nuova cooperazione sulle piattaforme digitali, animata dal ricercatore Trebor Scholz.

Giunta al terzo anno di vita Smart Italia può contare su 490 soci, prevalentemente artisti di teatro, cinema, musica e danza. Con l’associazione Acta ha anche siglato un accordo per gestire le committenze complesse dei freelance. «Il fondo di garanzia fornisce liquità a tasso zero per pagare i soci. È un mutualismo di secondo livello che permette ai soci belgi di aiutare gli italiani a tutelare i loro diritti – sostiene Giulio Stumpo di Smart Italia – La trasformazione in cooperativa sarà una sfida per creare una nuova economia partecipativa e democratica in Europa».

« le nuove via della seta».il manifesto

C’è stato un tempo in cui intraprendenti mercanti si mettevano in viaggio per raggiungere posti lontani per poi tornare carichi di merci pregiate da vendere. Nei loro diari, novelli tripadvisor, descrivevano i percorsi, le tappe, i luoghi dove pernottare e mangiare, ma anche le insidie, i pericoli, i pedaggi da pagare. Un lettore de Il milione di Marco Polo ricorda sicuramente che anche il mercante veneziano annotava notizie e commenti sui paesi che scopriva.

L’esotismo svolge un ruolo centrale in quel libro, ma rilevanti sono invece le riflessioni politiche, sociali, financo antropologiche che Marco Polo – o chi per lui – fa delle realtà incontrate. Il suo diario è da considerare una vera e propria Odissea della merce. Eppure con quel libro, l’espressione «via della seta» perdeva il sapore esotico che l’accompagnava per diventare l’esempio della prima gestione logistica del territorio che faceva proprie le compatibilità politiche – e la logica di potenza – nei rapporti tra imperi e sovranità non ancora statali.

Nel tempo, nonostante guerre, invasioni, l’espressione ha perso il suo fascino per poi essere dimenticata, tag di un passato definitivamente archiviato. Poi, quasi inaspettatamente è tornata a imperversare nella scena pubblica dopo la presentazione dell’ambizioso progetto di Pechino per organizzare un efficiente e veloce sistema di spostamento di merci dalla world factory al resto del mondo, e dal resto del mondo al paese che ambisce a diventare la prima superpotenza economica. È l’esempio di come la logistica sia ormai una componente fondamentale delle «catene di valore» che accompagnano il capitalismo contemporaneo.

Ne scrivono diffusamente due recenti libri, scritti da un filosofo della politica e un filosofo della Rete che vivono a migliaia di chilometri di distanza, accomunanti tuttavia dalla convinzione che la logistica non può essere considerata solo come il mezzo ottimale, e più economico, per collocare le merci sul mercato, ma indispensabile architrave di quello che entrambi chiamano il capitalismo supply chain, cioè quella totalità che vede interagire e compenetrarsi produzione, distribuzione, consumo. E finanza.

Gli autori sono l’italiano Giorgio Grappi (il titolo del suo libro è un austero Logistica, Ediesse, pp. 265, euro 12) e l’australiano Ned Rossiter (il titolo del suo saggio è Software, Infrastructure, Labor, Routledge). Il primo è filosofo della politica alla sua prima opera, il secondo è un media theorist che ha pubblicato un importante testo sulla filosofia della Rete (Organized Networks, edito in Italia da manifestolibri).

La prima curiosità è: perché un filosofo della politica si è occupato di logistica? La risposta è semplice e l’autore la documenta efficacemente nel suo libro: la logistica, parte rilevante del capitalismo supply chain, esercita un potere nel ridefinire l’esercizio della sovranità sui territori, accompagnando i mutamenti della forma-stato e l’emergere di una governance delle forme di vita a livello sovranazionale.

Dunque, modifica i sistemi politici (in India, la democrazia rappresentativa diventa carta straccia in regioni del paesi a causa della militarizzazione del territorio finalizzata alla «messa in sicurezza» delle infrastrutture), introduce metamorfosi nelle relazioni interstatali, con una «cessione» della sovranità alle imprese. Quel che emerge dal libro è dunque una materia che dovrebbe interessare proprio la filosofia della politica.

La seconda curiosità investe poi lo stesso statuto della logistica: da strumento usato inizialmente per spostare truppe militari (con il corollario di alimenti, tende, armi e munizioni) è divenuto uno dei settori economici più importanti, e tuttavia meno studiati, dell’economia mondiale? Anche qui la risposta è semplice: perché la produzione di merci è dislocata su luoghi e continenti diversi.

I microprocessori possono essere prodotti in Cina, poi sono spostati negli Usa per essere assemblati, in attesa che arrivino altri componenti da altri luoghi. Alla fine dagli Usa, ma potrebbe essere Taiwan, Thailandia, Italia, devono essere velocemente, quasi just in time dirottati là dove saranno venduti o nelle case dei consumatori. Il tempo che intercorre dalla produzione alla vendita di una merce deve infatti essere compresso all’inverosimile. Inoltre le vie che seguono i componenti, chiamati corridoi, prevedono una trasformazione radicale della morfologia del territorio.

La terra è espropriata per grandi opere, gli abitanti deportati, il corso dei fiumi alterato radicalmente (Cina e India, sono in questo caso veri e propri case studies), provocando resistenze e rivolte della popolazione che vengono represse con violenza dall’esercito, provocando la militarizzazione del territorio e una sospensione della democrazia nelle regioni coinvolte, come più volte ha denunciato la scrittrice indiana Arundhati Roy.

Giorgio Grappi si sofferma sulla recente storia della logistica «moderna». Ne ricorda la genesi militare – anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – parla della rivoluzione rappresentata dai container e delle innovazioni indotte nel sistema dei trasporti su rotaia e via mare, ma quello che è centrale nel suo libro è l’analisi di come la logistica serva a gestire il rischio di una paralisi nella circolazione delle merci, la sua efficienza – la «razionalità della logistica», secondo il ricercatore italiano -, ma anche quel movimento in divenire che altera e ricompone le gerarchie di potere tanto nel rapporto tra gli stati che all’interno della società.

La logistica è allora un fattore fondamentale dello sviluppo capitalistico, perché non solo opera nel ridisegno della sovranità nazionale, ma anche delle forme di vita, del rapporto tra le classi. È quindi di un fattore di gestione di quel doppio movimento tra diffusione spaziale della produzione – decentramento e outsorcing del processo lavorativo – e accentramento delle strutture decisionali, che hanno nello Stato un fattore non residuale, bensì funziona come un nodo esecutivo di una sovranità imperiale che forza, viola continuamente i confini nazionali.

Le suggestioni sulla costituzione di un Logistical State o di un Logistical Empire (ed è qui che la Cina svolge un ruolo primario con il suo progetto sulle nuove «vie della seta») sono usate in entrambi i libri con molta cautela. Grappi scrive che la presenza di un «Leviatano logistico» ha il pregio di esemplificare non un processo finito, stabilizzato, bensì una tendenza, sottoposta a correzioni nel suo divenire. Il Logistical State è dunque da considerare un obiettivo che vede lo stato e le imprese soggetti alla pari di un progetto che ha sulla sua strada quell’imprevisto che è il lavoro vivo, la sua composizione, le soggettività che si esprimono dentro il settore della logistica.

Altrettanto convincenti e belle sono le pagine di Ned Rossiter sul ruolo svolto dalla computer science nella logistica. Geolocalizzazione, smartphone, dispositivi per la lettura dei codici a barre, reti informatiche non hanno qui lo stesso sapore che hanno nella Rete. Nella logistica c’è ben poco software aperto: gran parte è proprietario e prevede forti e ingenti investimenti, dato che la costituzione di un sistema integrato prevede programmi informatici molti sofisticati che si avvalgono anche di elementi tratti dagli studi sull’intelligenza artificiale, fibre ottiche, satelliti, robot, tablet, smartphone, rilevatori e identificatori numerici. Ovvio che la proprietà intellettuale la faccia da padrone.

La logistica privilegia cioè un business model differente da quello dominante nella comunicazione on line (software aperto e gratuità dell’accesso alla Rete in cambio della cessione dei propri dati personali). Anche se punti di contatto ce ne sono, come quello svolto dalla finanza: le assicurazioni sulle navi e sui carichi, nonché un articolato legame tra borsa, venture capital e banche hanno un ruolo di stabilizzazione, di gestione del rischio, come avviene, certo con altre specificità, nella Rete.

Ned Rossiter si concentra inoltre su come questo modello punti a plasmare anche il lavoro vivo, le sue forme di vita e di socializzazione. Rilevante è anche il tema introdotto delle logistical city, luoghi cioè dove si concentrano la raccolta e lo smistamento delle merci spesso localizzate ai margini delle metropoli, ma che hanno il potere di condizionare lo sviluppo urbano di intere regioni, come emerge nel godibile capitolo dello smaltimento e riciclo dei componenti elettronici.

Difficile immaginare uno sviluppo diversificato di questo dispositivo. I due studiosi fanno un convincente esercizio di ottimismo della ragione, accompagnato però da un pessimismo della volontà, contraddetto dalle mobilitazioni nella logistica che hanno caratterizzato il settore negli ultimi anni, sia che si tratti dei portuali negli Stati Uniti o in Germania che i facchini del distretto italiano della logistica. Una smentita che rallegra, c’è da scommettere, entrambi gli autori.

Scheda. Le catene globali del valore

Il capitalismo supply chain è un’espressione, tra le tante usate per indicare i mutamenti di questo modo di produzione, che indica la centralità delle «catene del valore» per garantire la tenuta dei margini di profitto in una realtà altamente competitiva come è quella dell’economia globale. Interessante è così il volume da poco nelle librerie della economista Lidia Greco (Capitalismo e sviluppo nelle catene globali del valore, Carocci editore). Elaborato all’interno di una griglia dello sviluppo diseguale come fattore fondamentale del capitalismo, il saggio passa in rassegna le innovazioni organizzative che hanno investito, negli ultimi decenni, proprio le catene del valore.

«Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio - non so come riesco a essere calmo - di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno».

La Repubblica, 13 novembre 2016 (m.p.r.)

Come l’epidemia di mucca pazza, la vittoria di Trump ha imbarbarito all’istante il linguaggio in Europa e in Italia. Era prevedibile: i beceri parlano più ad alta voce per strada e nei mezzi pubblici e il web, già saturo di imbecillità, ha dato la stura a nuove ondate di demenza razzista. Ora, siccome le parole sdoganano i fatti, sappiamo in anticipo che dovremo fronteggiare il peggio anche a livello politico e che l’Unione finirà per vedersela brutta. Ma quello che preoccupa, più ancora delle urla di odio, è il silenzio attonito dei benpensanti. Come se non ci fosse nulla da fare, come se il mondo stesse già deragliando.

Homo homini lupus, et dominus vobiscum. Troppo ricorda l’Europa degli anni di Weimar. E allora la domanda da porci subito è: come replicare all’odio verso i profughi? Che parole a caldo può usare il cittadino di buona volontà, specie se impregnato di valori cristiani, contro il tam-tam del rancore — assai più vasto di quanto si creda - che serpeggia via Facebook con parole indecenti? Valide analisi sul come ci siamo ridotti a questo punto ne abbiamo anche troppe. Siamo pieni di libri e analisi. Quello che disperatamente manca è un prontuario, un manualetto, una rubrichetta quotidiana che insegni a rispondere per le rime alla liquidazione della misericordia, a costruire l’anatema dal pulpito giusto, anziché porgere l’altra guancia o trincerarsi in un verginale politicamente corretto. È di questo che abbiamo bisogno ora per attivare una guerra di resistenza.
Che fare? Quando sento quelle urla oscene mi sale la pressione e mi tocca andar dal medico. Il malessere è ormai di vecchia data. È cominciato con la guerra in Bosnia, quando ho sofferto tutta la mia impotenza di reporter non solo nella difesa degli innocenti ma soprattutto nel far capire ai lettori che un giorno sarebbe potuta toccare a noi, perché “loro” erano come noi, e il disastro balcanico non era che l’avvisaglia di un disastro europeo. Oggi è peggio, perché la lezione non è servita a niente. Penso a questo mio Paese che non si indigna più di nulla ma grida contro i poveracci e allora sento una pressione alla bocca dello stomaco che nasce appunto dal mio mancato allenamento a controbattere ai barbari.
Qualche giorno fa ci ho provato a trovarle, le parole, nella mia Trieste. Ecco come è andata. Sono in macchina, fermo a un semaforo del centro. Vedo una famigliola di profughi, forse siriani, che traversa la strada. Mamma, papà, due bimbi di circa tre e cinque anni, una valigetta e uno zaino. Gente distinta, signorile. Sono diretti alla stazione. Ma ecco, accanto a me, arrivare un’utilitaria con una bionda e il suo moroso al volante. Il quale, in un raptus improvviso, abbassa il finestrino e urla: «Stronzi! Non avete capito che non vi vuole nessuno?». Bersaglio facile: i fuggiaschi non reagiscono. Poi si gira verso la ragazza in cerca di un’approvazione. Lei esulta. Ah, che uomo. Mi guardo intorno. Un passante ride. Ma la maggioranza tace, di fronte alla violenza delle parole.
Mi sale il sangue alla testa. Alla mia età non ho ancora raggiunto la pace dei sensi. Scatta il verde, riparto e tengo d’occhio il bellimbusto fino al semaforo successivo. Respiro forte, ho il cuore a mille. Mi passa davanti un film. Sempre lo stesso. Il film dell’Esilio. È da ragazzino che li vedo, a Trieste, quelli con la valigia e i bambini per mano. Prima gli istriani e i dalmati, costretti a vagare per l’Italia, bloccati anche loro da picchetti, presi per fascisti dai “rossi” nelle stazioni. Poi gli jugoslavi in fuga dalle stragi, bollati come “nipotini degli infoibatori” dagli stessi avanguardisti in malafede che a Belgrado trescavano con i massacratori veri. E poi i curdi, gli afghani, i siriani. Ogni volta, uomini e donne in fuga dalla barbarie che venivano presi per barbari con un cinico ribaltamento della realtà. Ieri come oggi capri espiatori perfetti per far voti.
Ora l’auto è di nuovo vicina. Tocca a me abbassare il finestrino. Faccio alla bionda: «Mi scusi, dica a quel signore che preghi Iddio - non so come riesco a essere calmo - di non provare mai una guerra in vita sua e di non avere cinque minuti di tempo per mettere le sue cose in una valigia prima di scappare. E soprattutto di non sentire mai urla come le sue. Buongiorno ». I due restano senza parole, forse stupiti dalla determinazione di uno con la barba bianca. Si riparte, il traffico ci divide. Respiro. Mi sento meglio. Ho rotto il silenzio. Sono certo che parecchie persone hanno udito, e penso che a qualcuna di esse avrò pur dato una voce. Non ci credo che una frontiera come la mia, che ha visto tante disperate migrazioni, abbia perso completamente la memoria.
Rompere il silenzio degli “innocenti” e trovare le parole giuste: è questo il problema pratico da superare per affrontare i tempi nuovi. Se lo facessimo, si creerebbe un fronte. Sapremmo cosa dire ai vigliacchi aggressivi con i deboli e tremebondi con i forti. E allora verrebbe alla luce, come nei Balcani, l’inganno della guerra tra poveri. Il trucco dello scontro etnico costruito per risparmiare la resa dei conti politica ai veri responsabili delle crisi. Gli esiliati parafulmini ideali per depistare la nostra legittima frustrazione su falsi obiettivi. Qualcosa che rende l’odio razziale utile ai poteri senza patria che dettano le regole di un’economia globale di rapina. Per questo è importante rispondere picche a chi cavalca la discordia. Non solo per motivi umanitari, ma per smascherare il Grande Gioco di cui essi sono complici, e talvolta vittime inconsapevoli.

«». La Repubblica 12 novembre 2016 (c.m.c.)

I radar dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che «significa molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione».

I radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere (e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare.

Il giudizio non può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata combinazione di analisi e comprensione critica.

Il New York Times ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare discredito su quella parte di America che più facilmente poteva rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella trappola).

L’America non amata, luogo inospitale per chi è incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata, non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di rappresentare.

Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il popolo (e viceversa).

L’élite non ama il popolo, come si è visto anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica, che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi della società larga è il lavoro dei media.

La rivolta dell’élite contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni sono buone perché prese secondo le procedure condivise non necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi non democratici.

La pre-determinazione della scelta buona ha accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente (come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.

Sapere già tutto in anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società. Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.

Bisogna guardare un po' al di là del "pensiero unico" degli apologeti della globalizzazione capitalista per cogliere la verità di ciò che sta avvenendo«La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali».

Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016 (p.d.)

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. l loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.

Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’ globalizzato, delle politiche neoliberali che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo, i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle,e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. La Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Al contempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana (dalle lotte della classe media), e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.

Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders di marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Usa avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.

Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettori. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a esser qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente”degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto Jp Morgan è divenuto lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby nazionali e transnazionali.

Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico Usa, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.

È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Monti contro il Parlamento e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegele senza remore dichiarò: “Capisco che (i governi) debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles”.

Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto (…) Siamo in una fase pericolosa (…) In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.

Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.

Un’ultima considerazione sul Movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Ue dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.

Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Zizek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”. Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri.

La Repubblica, 11 novembre 2016


LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.

Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?

Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.

Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.

Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.

Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.

La Repubblica, 10 novembre 2016, con postilla

Dopo aver dedicato una vita all’ascolto delle periferie, sono un po’ stufo dello sconcerto dei bempensanti per le bastonate elettorali inflitte dalle Destre al pensiero “no border”. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso brusco risveglio davanti al caffellatte del mattino o al ritorno in ufficio. “Incredibile”, “Non me l’aspettavo”, “Voto shock”, “I sondaggisti hanno sbagliato”, eccetera. È successo in Gran Bretagna col no a Bruxelles, in Francia con la minaccia lepenista, in Est Europa col ritorno dei populismi, persino in Italia col voto alla Lega Nord e poi ai Cinquestelle. Ora torna ad accadere col voto americano.

Eppure è sempre lo stesso film. In Europa come in America vincono le periferie frustrate e senza voce, quelle banlieue spaventate dalla globalizzazione che nessuno ascolta e che riescono a esprimersi solo al momento del voto. Lo schema si ripete da troppo tempo perché io non cominci a sospettare che qui realmente ci sia una coazione all’errore. Che non si voglia capire, e che sia in atto nel pensiero democratico una clamorosa fuga dalla realtà. Mi chiedo: quanto i democratici frequentano realmente questi luoghi, ne ascoltano il malessere e parlano con la gente comune? Come impostano le loro campagne elettorali? Nei club esclusivi o fra la gente?

Se c’è una cosa che ho capito nella mia vita raminga, è che si impara più in tram che dalle analisi di un luminare, più dal bar d’angolo che da un costoso sondaggio. I treni russi mi hanno avvertito con largo anticipo di quello che stava per succedere in Ucraina e le volontà imperiali della Russia di Putin. Il mitico bus “Greyhound” americano mi allertò, a suo tempo, della popolarità di un Reagan cui nessun ufficio studi dava ancora un briciolo di credito. Facendo l’Appia a piedi ho sentito distintamente il crescente influsso della camorra su Roma. Ora io non pretendo che i politici si carichino uno zaino sulle spalle per battere a piedi i loro collegi. Mi basterebbe che salissero su un mezzo di trasporto pubblico per sentire la pancia del Paese.

Tornando all’America – ma in realtà la questione è planetaria - la domanda è: Hillary è mai andata in tram? Temo di no. Non che il miliardario Trump ci sia mai salito se non per farsi filmare dalle tv. Ma Trump parla il linguaggio della gente. Si rivolge alla pancia. Hillary parla alla testa del Paese, con algidi teoremi, competenza, alleanze altolocate e statistiche. Non basta. Il pensiero democratico deve urgentemente dotarsi di un linguaggio diverso per non condannarsi a perdere per altri trent’anni. Per un motivo elementare: tra le ragioni della pancia e quelle della testa, vincono sempre le prime. E allora, come uscirne?

Certo, la Destra populista non ha mai offerto soluzioni ai problemi di queste periferie decisive per le sorti del mondo democratico. Ha venduto quasi sempre illusioni. Ha fornito semplicemente megafoni e amplificatori al malessere. Ha indicato un nemico, anche per evitare che qualcuno mangi la foglia e capisca la sua corresponsabilità nei confronti di quel malessere. Di più: essa trae voti dall’emarginazione che essa stessa crea con la sua ideologia “darwinista”, basata sulla legge del più forte, del pistolero cow-boy. Ma un megafono è meglio di niente. È sempre meglio di un vuoto ripetitore del silenzio e delle quotazioni Nasdaq di Wall Street.

E allora come smascherare questo gioco, come smarcarsi rispetto alle ragioni dello stomaco e alle false promesse degli arruffapopoli? La soluzione sta sempre lì, in quella grande metafora della vita quotidiana che è il trasporto pubblico. Treni di seconda classe, stazioni, fermate d’autobus, sale d’aspetto. Cesare Zavattini disse: il cinema italiano è finito nel momento in cui i registi hanno smesso di andare in tram. Per ragioni analoghe, Berlinguer chiese a Bettino Craxi se era mai andato in tram, e lui rispose altezzoso che no, perché aveva l’autista. Peccato rispose Enrico, impareresti molto. Craxi non volle imparare.

È viaggiando con la gente che impari ad ascoltare, a porti nel modo giusto di fronte ai piccoli drammi del quotidiano che affliggono la maggioranza. Impari a condividere. Familiarizzi con l’abc dell’empatia, che nessun talk show ti darà mai. Soprattutto impari a non tacere di fronte alle bestialità, a replicare con fiammate di passione alle ragioni dell’odio. Impari a rispondere picche alle urla dei beceri, e a farlo in modo nuovo, offrendo a tanta buona gente un esempio cui fare riferimento. Apprendi come usare quella cosa che sta esattamente a metà fra le ragioni della pancia e quelle della testa. Il cuore. La pompa delle nostre passioni, che i democratici sembrano aver perduto.

Papa Francesco, prima di sbarcare in Vaticano, prendeva il tram per spostarsi spesso senza scorta nelle immense periferie di Buenos Aires. È lì che ha imparato prima ad ascoltare e poi a parlare con il cuore. È per questo che oggi egli è più popolare di qualsiasi politico nel mondo dei democratici senza più casa. Quando mi spendo nelle scuole e parlo a aule piene di adolescenti spaesati, spesso saturi di web e senza più maestri nemmeno in famiglia, vedo che essi apprezzano due sole cose in chi li incontra. Non la competenza professorale, ma le scarpe impolverate e la passione ardente del cuore. È grazie a queste sole armi che vedo accendersi i loro occhi.

È quello il passepartout. Quello l’argine fondamentale all’imbarbarimento del linguaggio, alimentato dai “social” e dalla Tv spazzatura, che potrebbe portare molto male all’Europa e al mondo. Andate in tram, cari politici. O vi ci dovrete attaccare.

postilla

Bella la metafora del tram. Il titolo di un libro di un architetto che mi è piaciuto molto e di cui continuo a raccomandare la lettura (Carlo Melograni, Progettare per chi va in tram, 2004) andava nella stessa linea di pensiero delle frasi di Cesare Zavattini e di Enrico Berlinguer, riportate da Rumiz nel suo articolo. Ma i tempi sono cambiati, e così la formazione dei pensieri nelle teste. Adesso le teste degli uomini che vanno in tram sono foggiate dai persuasori occulti che hanno contribuito a formare il "pensiero comune" (leggi qui come).
E i governanti furbi, come il nostro Renzi certamente è, hanno imparato a loro volta il mestiere. La moneta cattiva della bugia ha cacciato la moneta buona della verità. Quanti di quelli che oggi considerano Barack Obama e Hillary Clinton due eroi lo pensano in base alle belle parole che hanno pronunciato, e non sanno di quanto sangue siano coperte le loro mani, quanti uomini e donne abbia ucciso la loro politica nel mondo, quanta morte abbiano portato le loro guerre e quanta miseria il loro sistematico appoggio a Wall Street. È diventato sempre più difficile comprendere "quello che è", e - come ha detto Rosa Luxemburg - è diventato sempre più rivoluzionario

«Che fare? Rimboccarsi le maniche, ovunque, e cercare di uscire dalla deriva personalistica e priva di contenuti di reale cambiamento per avviare un dialogo con le tante persone che chiedono prima di tutto di essere ascoltate e di appartenere ad una comunità politica».

il manifesto, 10 novembre 2016, con postilla

È un fenomeno mondiale, ma che nel contesto americano prende le mosse dall’incapacità del governo Obama di operare in modo incisivo sulle disuguaglianze economiche e identitarie. Si riproduce la dinamica manifestatasi in occasione del «Brexit». Gli «sconfitti» della globalizzazione si ribellano ad un discorso paternalista e rassicurante circa le sconfinate virtù della globalizzazione: la realtà delle lavoratrici e dei lavoratori, in Inghilterra così come negli Stati uniti, è lontana anni luce dalla «narrazione» democratica (negli Usa) o socialdemocratica (in Europa). Su questo fronte, l’unico che era riuscito a smuovere le acque, suscitando entusiasmo e speranze di profondo cambiamento è stato Bernie Sanders: peccato che non fosse in linea con l’establishment del partito democratico che, continuando a ragionare secondo schemi politici che non reggono davvero più a nessuna prova, l’ha bollato come estremista e troppo lontano dal comune sentire degli americani. E ciò ha reso impossibile la sua nomination.

Ora sappiamo che, senza Sanders, il «comune sentire» della maggioranza degli elettori statunitensi è impersonificato da Donald Trump. Cosa ha da offrire Trump? Una narrazione populista, fatta di leadership personalistica e messaggi semplici – e più rassicuranti, indirizzati senza tentennamenti verso il «vero popolo» dell’America profonda. L’America esclusa dalle magnifiche sorti progressive del neoliberismo e della globalizzazione. Leadership personalistica e messaggi semplici: la ricetta che, altrove, ha portato al trionfo altri leader quali Berlusconi e Farage, e in un futuro non troppo lontano potrebbe far trionfare anche un rappresentante della famiglia Le Pen in Francia.

In Italia non stupisce che il Movimento Cinque Stelle a ridosso del voto non abbia preso una chiara posizione sulla contesa presidenziale Usa, salvo poi esultare dopo l’affermazione di Trump: vista la vocazione populista del movimento, diversi suoi rappresentanti hanno visto in lui un outsider da guardare se non con aperta simpatia, certamente senza ostilità. Il populismo di per sé non è un male: dovrebbe essere prima di tutto una categoria analitica.

Il populismo può avere diverse facce: anche Podemos e Syriza possono essere considerati populismi, ma di tutt’altra fattura rispetto a Trump e in parte al M5S. In Spagna e in Grecia si sta sviluppando un populismo «inclusivo» che poco ha a che spartire col populismo «esclusivo» di marca lepenista o trumpiana. Il populismo che ha trionfato ieri notte è sicuramente esclusivo, fortemente chiuso alla voce delle minoranze. E non basta dire che il popolo americano ha voltato le spalle a Hillary Clinton. La sua candidatura era molto problematica: da un lato, è stata nell’amministrazione (e nella politica) statunitense troppo tempo per rappresentare una scelta di cambiamento; dall’altro, nella sua attività di governo, non ha mai brillato per particolare lungimiranza politica – come testimoniano le sue discutibili iniziative in politica estera.

Che fare? Rimboccarsi le maniche, ovunque, e cercare di uscire dalla deriva personalistica e priva di contenuti di reale cambiamento per avviare un dialogo con le tante persone – negli Stati uniti e in Europa – che chiedono prima di tutto di essere ascoltate e di appartenere ad una comunità politica invece sempre più chiusa e autoreferenziale. Per fare questo le forze progressiste debbono rimettere al centro le questioni sociali: lavoro, sicurezza, lotta alle disuguaglianze. Le rivendicazioni dei diritti delle minoranze devono tornare ad intrecciarsi a tali questioni, per troppo tempo sottovalutate. Il successo del populismo esclusivo è una storia che non riguarda solo gli Usa. Può riguardare molti, potenzialmente tutti i paesi europei in un futuro prossimo. C’è tantissimo lavoro da fare per rifondare un campo realmente democratico e progressista in modo inclusivo e incisivo. L’alternativa è il trionfo di tutti i Trump possibili.

postilla

Nelle cose da fare rimboccandosi le maniche dovrebbe esserci anche il raccontare con un po' più di precisione il lavoro che hanno fatto Barack e Hillary per promuovere la pace nel mondo e tagliare le unghie agli interessi economici che provocano morte, miseria e disperazione fuori dai confini del benessere: il lavoro che hanno fatto con le decisioni, non quello che hanno proclamato di voler fare

«». il manifesto, 10 novembre 2016 , con postilla

Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto.

Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe stato «ahimé – il nostro presidente». Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale.

L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.

Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani.

L’establishment – democratico ma anche repubblicano – è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.

È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).

Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro.

Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da «carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio».

Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto.

Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.


Sacrosanto l'appello alla "sinistra" che non c'è. Ma per il resto non c'è mica tanto da illudersi sulla capacità/possibilità dell'establismant e dei «nostri governanti europei», dagli Usa alla Francia alla Germania (e giù giù fino all'Italia di Renzi) ad allearsi con una sinistra che rappresenti davvero gli "sfruttati della Terra" di oggi - o il 99% di Occupy Wall Street. Quelli che dovrebbero ravvedersi e stipulare un'alleanza onesta con i Barnie Sanders, (se ce ne fossero tanti) sono proprio i rappresentanti ufficiali di Wall Street e dintorni. A partire da Hillary Clinton, che il filosofo Slavoy Zizek ha così precisamente descritto.

L'antidiplomatico online,

Slavoy Žižek, enfant terrible della politica e della sociologia, aveva espresso con chiarezza le ragioni per le quali Hillary Clinton è più pericolosa di Donald Trump. Si può essere d’accordo o no sulla scelta elettorale che avrebbe fatto Žižek, ma l’analisi di Hillary Clinton risponde ai fatti. In attesa di altri commenti fuori dal coro pubblichiamo il link all’intervento, formalmente un po’ arruffato, del filosofo sloveno e una sua sintesi
Slavoj Žižekdichiara: "Voterei Donald Trump"

Chi voterebbe alle elezionistatunitensi? "Trump", è la risposta di Žižek, noto filosofo sloveno."Sono orrificato da lui, ma penso che sia Hillary il vero pericolo"."E' una guerriera a sangue freddo, connessa con le banche e che finge diessere progressiva a livello sociale", prosegue. Dopo aver sottolineatoche Trump "disturba" il sistema americano, Žižek conclude: "sedovesse vincere, tutti e due i partiti, democratico e repubblicano, dovrannoripensarsi. Se vince Trump, il paese non diventa un regime fascista ma ci saràun risveglio. Un nuovo processo politico si azionerebbe".

Riferimenti
Altri interventi fuori dal coro, al 9 novembre 2016: di Ida Dominijanni e di Edoardo Salzano. Per altri scritti di Zizek digita "slavoy zizek" sul cerca di eddyburg

Beppe Severgnini, Adriana Cerretelli, Ugo Tramballi, Vittorio Zucconi, commentano il voto americano. Tutti di area e ubbidienza NATO, ovviamente, come le testate su cui scrivono.

Corriere della Sera, il Sole 24 Ore, la Repubblica, 9 novembre 2016
Corriere della Sera
DUE AMERICHE ORA CONTRO

UN PAESE FERITO FINITO IN TRINCEA
di Beppe Severgnini

Due Americhe contro, e il mondo che guarda allibito. Un’America chiusa e delusa, che si riconosce nel repubblicano Donald Trump. Un’altra più aperta, disposta a seguire la democratica Hillary Clinton nel perenne inseguimento del sogno americano. Qualcuno, anche negli Stati Uniti, era convinto che la candidata democratica, più esperta e affidabile, avrebbe battuto facilmente il rivale repubblicano. E’ accaduto l’opposto. Ohio, North Carolina, Iowa. Florida. Texas, tutto il centro e quasi tutto il sud. Michigan, Wisconsin, Pennsylvania – Stati industriali, tradizionalmente democratici - in bilico per ore. Inesorabilmente, nel corso della notte, la macchia rossa sulle mappe elettorali s’è allargata. Donald Trump, il candidato più improbabile in 227 anni di democrazia americana, è alle porte della Casa Bianca. Avrà il controllo il Congresso. Sceglierà il giudice decisivo della Corte Suprema, l’istituzione dove avanzano - o arretrano - i grandi cambiamenti sociali americani. Bruce Springsteen è un artista e non fa politica. Ma ci sono giornate in cui la storia non lascia alternative: schierarsi o nascondersi. Nell’ultima notte prima delle elezioni, il Boss non si è nascosto.

Non avrebbe condiviso il palco con Hillary, probabilmente, se dall’altra parte non ci fosse Trump. Non avrebbe scelto una canzone come Dancing in the dark. Perfetta e profetica, fin dal titolo. Perché l’America, la notte scorsa, ha ballato al buio. E oggi, quando si sono accese le luci, deve accettare chi si trova di fronte. Così dobbiamo fare noi italiani e europei, che dell’America siamo alleati. Sarà dura, ma dobbiamo provarci. Sondaggi, studiosi, mercati e scommettitori indicavano Hillary Clinton. Perfino i repubblicani non ci speravano più. Ma le sorprese elettorali non erano mancate, negli ultimi tempi, attraverso l’Occidente confuso. E gli Stati Uniti sono cambiati molto, negli ultimi otto anni. Barack Obama, presidente gentiluomo, ha visto franare il tradizionale terreno democratico. Stati industriali come Ohio, Michigan e Wisconsin cercavano un veicolo per le proprie frustrazioni. E il veicolo non lo produce la Chrysler (salva anche grazie alla Casa Bianca).

Quel veicolo - ora lo sappiamo - si chiama Donald Trump. È lui la sconvolgente novità. È lui che ha incendiato le incertezze americane. L’ha fatto da solo, senza aiuti, osteggiato nel suo stesso partito. Contro la totalità dei media, giustamente preoccupati dal suo comportamento e dalle sue dichiarazioni. L’ha fatto spaccando la nazione, come mai era accaduto. Donne, non-bianchi e giovani millennials istruiti contro di lui; legioni di bianchi delusi con lui. Donald Trump ha ignorato la demografia e puntato sull’antipatia. Quella che la sua avversaria, Hillary Clinton, è sembrata raccogliere in abbondanza. Ma un presidente, prima d’essere simpatico, dev’essere competente. Da questo punto di vista la distanza tra i contendenti resta immensa. Vedrete quanti, anche in Italia, salteranno beffardi sul carro del vincitore. Ma i fatti restano.
L’uomo d’affari e di televisione Donald Trump non ha mai ricoperto una carica elettiva. Non ha presentato un programma degno di questo nome. Metà delle sue affermazioni si sono rivelate false o inesatte. Sulle questioni internazionali ha mostrato un’incompetenza pari soltanto dall’arroganza. Per questo piace agli avversari dell’America. Sarà stata una notte memorabile al Cremlino. Vladimir Putin ha trovato la sua anima gemella. Dove porteranno il mondo, lo vedremo. L’America silenziosa è esplosa con un boato. Molti elettori - per calcolo, per rabbia, per vergogna - non hanno lasciato capire che avrebbero scelto Donald Trump. Le volgarità, le falsità e la superficialità del candidato? Irrilevanti, apparentemente. Tutto si è deciso, ancora una volta, nei battleground states, gli Stati «terreno di battaglia», per usare la solita metafora bellica.
È la strana democrazia made in Usa: sono quindici, non cinquanta, gli Stati che hanno deciso chi condurrà la nazione fino al 2020. L’America bianca e armata ha difeso l’ultima trincea. Una lunga, sgradevole campagna elettorale si è chiusa con l’elezione del nuovo Presidente. E’ difficile, ma dobbiamo accettarlo. Siamo tutti prigionieri di una fantasia: una storia immobile, in cui domani è una ripetizione di ieri. E’ un modo di sconfiggere l’ansia, ma il mondo non funziona così. La vita di ogni italiano adulto non è segnata solo dalle vicende nazionali, ma da grandi eventi lontani: la fine dell’Urss, l’avvento di internet, l’11 settembre, il tracollo finanziario e il primo presidente afro-americano, il ritorno del terrorismo. Le cose cambiano e la storia corre: negli Usa più che altrove. È accaduto. La nazione di Bruce Springsteen ha ballato al buio, e s’è ritrovata tra le braccia di Donald Trump.


Il Sole 24 Ore

L’EUROPA POST-BREXIT COSTRETTA A DIVENTARE ADULTA
di Adriana Cerretelli

L’America di Barack Obama debuttò nel vecchio continente con uno strappo clamoroso, il rifiuto di incontrare l’Unione europea a Bruxelles, la sua capitale. Arnese vetusto, opaco, incomprensibile: Unione chi, cosa, per fare che?

Era l’aprile del 2009. Il giovane presidente dell’impossibile le preferì Strasburgo e Praga: il vertice Nato e l’abbraccio con la gente europea in una delle città simbolo dell’Europa dell’Est liberata. Per diventare Obama l’europeo, il convinto sponsor del Ttip, il grande patto economico transatlantico oggi arenato, avrebbe aspettato il secondo mandato, il calo della febbre per il Pacifico, le tante delusioni di politica estera, insomma un nuovo debutto: la stagione del realismo.

Anche se poi in parte corretta, la fine non dichiarata dell’eurocentrismo americano nel mondo globale fu uno schiaffo bruciante tra vecchi amici: niente rotture, continuità di dialogo ma in modo più freddo e lontano. Oggi, con il cambio della guardia alla Casa Bianca, la deriva euro-americana potrebbe accentuarsi.

Otto anni dopo quell’aprile del 2009, il mondo non è più lo stesso, l’America è più debole, l’Europa molto ma molto di più. Logica vorrebbe che l’Occidente si ricompattasse, rinserrasse i legami al proprio interno, tra la Cina che sale e la Russia di Putin che recupera influenza a suon di campagne militari in giro nelle grandi aree di crisi ucraino-mediorientali.

Invece accade il contrario. Su entrambe le sponde dell’Atlantico le sue democrazie si fanno più introverse, populiste, protezioniste, nazionaliste, isolazioniste. E anche sgovernate. L’Unione non sta più insieme, si sfalda tra le sue multi-crisi che auto-perpetua, incapace di risolverle. Gli Stati Uniti sembrano “europeizzare” i loro istinti nel senso più deteriore, sfascista invece che pragmatico e costruttivo.

«La verità è che siamo piombati nel mondo post-fatti, nell’era dove sono le emozioni, le paure dei cittadini e non il reality-check a muovere il consenso nelle democrazie» dice un diplomatico europeo. Se il Ttip, la più importante strategia economica occidentale, è finito su un binario morto, è perché i turbamenti caotici e più o meno fondati di alcuni fanno premio sull’interesse collettivo. L’Europa, intanto, continua a pretendere assistenza militare e scudo Nato ma appare sempre più intollerante verso la leadership americana.

Di incongruenze e frizioni con l’America di Obama ce ne sono state tante. Nessuna è però riuscita a interrompere la prevedibilità né la tenuta delle relazioni transatlantiche, garanzia di stabilità nel disordinato pianeta globale.

Da oggi si entra invece in terra incognita. L’America sarà comunque diversa. Lo scontro perdente con la globalizzazione l’ha cambiata cambiando le pulsioni della sua società e della sua democrazia, come la campagna elettorale di violenza senza precedenti ha ampiamente dimostrato.

Per questo anche il teorema europeo finirà per cambiare. Quando e quanto sarà tutto da scoprire. Ma cambierà, chiunque sarà presidente.

Se, 71 anni dopo la fine della guerra, la Nato continuerà a sopravvivere a se stessa, lo farà solo a una condizione: che l’Europa si faccia finalmente carico delle sue responsabilità militari e costi relativi, si doti di una base industriale e di un’intelligence davvero integrati e quindi credibili. Il contribuente americano, democratico o repubblicano che sia, non è più disposto a finanziarla al suo posto. Sono anni che l’America lo chiede ma questa volta la festa è finita davvero.

Sui rapporti con la Russia, una linea più dura potrebbe far saltare l’intesa Germania-Usa di questi anni e minacciare anche su questo lato l’unità transatlantica. Su economia e commercio, il protezionismo è in agguato: la conflittualità potrebbe finire per schiacciare gli interessi comuni.

In un modo o nell’altro, volente o nolente, l’Europa post-Brexit sarà dunque costretta a diventare più adulta, più presente e credibile sulla scena internazionale. Fine delle solidarietà gratuite. Forse questo è l’unico punto davvero fermo dell'America che cambia passo e presidente.


Il Sole 24 Ore

DUE VISIONI SUL RUOLO USA

di Ugo Tramball

«La Nato è uno dei miglior investimenti che l’America abbia mai fatto», aveva detto Hillary Clinton all’università di Stanford, durante la sua campagna. «La Nato ha un problema, è obsoleta. Ci sono molti membri che non pagano il conto», aveva sostenuto Donald Trump in un comizio nel Wisconsin. Le differenze incominciano dall’Alleanza atlantica, il pilastro che dal 1949 sostiene tutta la politica estera degli Stati Uniti.
Ed è difficile trovare su questo terreno una crisi, un conflitto, un sistema di alleanze, un negoziato che i due candidati pensino di affrontare allo stesso modo o quasi. Se la continuità su come affrontare le vicende mondiali è una caratteristica della democrazia americana (in genere di tutte le democrazie), queste elezioni offrono un altro precedente. Hillary presidente sarebbe la continuità certa. Di più: rispetto a Barack Obama che ha affrontato più di una crisi cercando di evitare di essere coinvolto, lei ripristinerebbe l’uso di quella dissuasione militare che ha reso credibile l’America per gli amici e i nemici.
Non è ancora chiaro se Trump pensi a un nuovo isolazionismo globale o a un iper-interventismo. In un modo o nell’altro da presidente rappresenterebbe una rottura completa con quello che l’America è stata in questi 70 anni. Per lui la Nato non sarebbe più inclusiva per natura: escluderebbe tutti quei paesi (l’Italia) che non spendono per la difesa il 2% del loro Pil, come stabilito dall’Alleanza. Il problema è che sono solo quattro le nazioni che ottemperano quell’obbligo. Nel secondo dibattito con Hillary Clinton, il candidato repubblicano aveva detto senza paura di essere frainteso, quali dovrebbero essere oggi i veri alleati degli Stati Uniti, soprattutto nella lotta al terrorismo: la Russia, l’Iran e il regime siriano di Bashar Assad. Cioè gli attuali avversari dell’America in Medio Oriente.
Visioni opposte anche sull’utilità dell’arsenale nucleare per la cui riduzione la candidata democratica riprenderebbe il negoziato avviato da Barack Obama, sebbene con meno entusiasmo. Sostanzialmente, l’arma atomica è stata creata per non essere usata, è uno strumento di difesa, non di attacco. Non per Donald Trump che ha proposto di usarla contro l’Isis se attaccasse. «Le abbiamo fatte? Perché le abbiamo fatte?», ha dichiarato in un’intervista televisiva. Forse le parole dette in campagna elettorale rappresentano parzialmente la volontà del candidato, una volta diventato presidente. Ma ne denunciano i desideri. In realtà Donald Trump ha riempito i giornali di dichiarazioni eclatanti ma non ha offerto un programma coerente di politica estera. Sembrava quasi che ne parlasse solo perché una campagna elettorale lo richiede. George Shultz, che è stato per sei anni segretario di Stato di Ronald Reagan, sosteneva che quando manca una politica si ha sempre la grande tentazione di tenere un discorso.
Dopo aver mestato un po’ con i suoi hackers e approfittato delle debolezze americane in Medio Oriente ed Europa, anche Vladimir Putin preferisce avere a che fare con Hillary Clinton. Forse. Amici e concorrenti si sentirebbero più rassicurati dall’esperienza politica internazionale della candidata democratica che dalle minacce di Trump. Ma se vincerà, dovrà dedicare la prima parte della sua presidenza a convincere che l’America resta il protagonista della scena mondiale. La campagna elettorale così divisiva, mediocre, a volte orrenda, ha probabilmente avuto effetti negativi, se non devastanti, per la credibilità internazionale degli Stati Uniti. Ripristinarne l’autorevolezza dovrebbe essere lo stesso problema del candidato repubblicano. Ma a questo Donald Trump non sembra molto interessato.

La Repubblica
L’AMERICA FERITA

di Vittorio Zucconi

Washington. E adesso, Presidente? Nella solitudine degli 80 metri quadrati dello Studio Ovale davanti alla scrivania che fu di John F. Kennedy, il panorama di un’America straziata e di un mondo sbriciolato si spalancherà in tutta la sua enormità oltre le finestre blindate. Mai, si è detto e ripetuto in questa tossica campagna elettorale, gli Stati Uniti sono stati tanto divisi, il rancore degli sconfitti verso i vincitori tanto acre e la convalescenza tanto precaria. Ma è vero?
La tentazione di annunciare l’Apocalisse americana, di narrare l’Armageddon finale delle contraddizioni culturali, sociali, economiche, razziali di quella insalatiera umana, come la definiva Jimmy Carter, chiamata America è un tema ricorrente nel racconto degli Stati Uniti. L’andamento di questa campagna elettorale 2016 lo ha riportato d’attualità con la prepotenza della retorica di Trump. Mai, nella storia moderna della politica, negli Usa si era sentito il candidato di un partito definire l’avversario, in questo caso l’avversaria, una «farabutta criminale», promettendo di lock ‘ er up, di rinchiuderla in carcere dopo l’elezione tra le ovazioni dei supporter. Mai un candidato aveva messo a priori in dubbio la regolarità del sacrosanto processo elettorale e la legittimità del risultato. Trump è stato il giocatore che contesta l’arbitro «prima che cominci la partita» ha detto Barack Obama.
Ma la profondità delle faglie sismiche che oggi spaccano gli Stati Uniti appare insanabile soltanto se la si osserva nel presente e non nella continuità turbolente di una nazione che continua a cambiare se stessa, generazione dopo generazione. Le lacerazioni che oggi la percorrono sembrano inedite e insanabili soltanto perché uno dei due pretendenti alla corona temporanea ne ha fatto la propria piattaforma di successo, utilizzando l’eco ormai immensa della caverna dei Social network.
Oltre i dispettucci personali, le mani non strette, le volgarità da spogliatoio di palestra, la paranoia delle forze di sicurezza timorose che tanta violenza retorica si materializzasse in proiettili, gli orridi spot televisivi, la realtà sociale e culturale sottostante non è più difficile, né insanabile, di quanto sia stata in altri momenti di crisi e forse sempre. Una serie di miti è riaffiorata, per provare l’abisso sul quale l’America cammina, ma visti da vicino sono, appunto, più miti politici che realtà.
La compressione della “classe media”, intesa come classe media maschile e bianca, non è cominciata con i trattati commerciali di libero scambio o con la delocalizzazione: muove negli anni ’70, quando l’esplosione del prezzo del petrolio coglie completamente impreparate le Sorelle di Detroit, chiuse nelle loro arroganza, e spalanca le porte alle più razionali produzioni giapponesi. L’inquietudine e la frustrazione dei ventenni, i “Millennials” come sono stati battezzati ora, non raggiungono neppure la soglia delle rivolte violente cominciate nei campus universitari degli anni ’60, stimolate dal Vietnam, mentre la brutalità della polizia contro le vite dei neri è una continuazione, non una novità, in una storia che ha visto cani lanciati contro dimostranti pacifici nel Sud. I rari episodi di disordini nei comizi di Trump sono scaramucce rispetto alle giornate di guerriglia sanguinosa attorno alla Convention Democratica di Chicago1968.
Il fatto che si sfrutti il turbamento di una società spregiudicatamente a fini elettorali non lo rende né più letale del passato, né nuovo. Il discredito delle istituzioni è acuto, ma non inaudito a chi visse e ricorda gli anni di Nixon, “Dick il Sudicio”, di Johnson il “killer dei ragazzi americani”, della tragica follia del Maccartismo. Tutto è grave, tutto è importante nella nazione che oggi paga, dopo il passeggero balsamo delle buone intenzioni spalmato con il primo presidente afroamericano, il trauma ritardato di quindici anni terribili, aperti dall’oscenità del 2001, acuiti dall’insensatezza delle guerre lanciate “per scelta” e dal collasso delle banche travolte dalla loro stessa ingordigia incontrollata.
Ma l’America del 2016 che il nuovo Presidente vedrà attraverso le finestre del proprio studio, anch’esso toccato dalla vergogna di uno scandalo umiliante, non è diversa dall’America che Roosevelt ereditò da Hoover, Johson dal Kennedy assassinato, Carter da Ford, Reagan da Carter e Obama da Bush il Giovane. L’abisso fra città e campagne, fra Park Avenue e Main Street dei piccoli paesi, fra le signore in carriera che vivono nei sobborghi nutrendo i figli di buoni cibi nutrienti e le “casalinghe disperate” sparse nel ventre del Grande Ovunque americano senza futuro con le loro micidiali merendine, è sempre stato visibile e incolmabile, agli occhi di chi uscisse dal perimetro delle metropoli e si avventurasse oltre. Ogni presidente, quale che sia il suo colore politico, lo conosce, promette di colmarlo e fallisce.
Speculare sulle contraddizioni dell’America ha fatto vincere molte elezioni, ma non le ha mai sanate, perché esse sono il motore, la natura profonda di una società costruita sul “sogno” che ha l’inevitabile rovescio, “l’incubo”. Gli attacchi del terrorismo pseudo mistico, l’alluvione di immigrati dal Grande Sud hanno agitato l’America bianca e l’hanno incattivita nel panico del sentirsi assediata e minoritaria. “The White Male”, il maschio bianco, si sente ormai specie in via di sottomissione, circondato da nuovi americani sempre meno bianchi e da donne sempre più uguali a lui. Dunque l’America che il 46esimo presidente dovrà guidare è una nazione che si sta, ancora una volta, trasformando e confonde, per alcuni, la trasformazione con la fine. Ma, ancora una volta recuperando Mark Twain, le notizie della sua morte sono grandemente esagerate. They will survive. Sopravviveranno.

«Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo» è quello di Bernie Sanders.

Internazionale on line, 8 novembre 2016 (m.p.r.)

L’America è cinema, e nel grande schermo americano siamo tutti abituati a rispecchiarci e proiettarci da più di un secolo. Dunque non può stupire che nel kolossal della grande corsa alla Casa Bianca ci rispecchiamo anche noi europei, vedendoci ingigantiti tutti i segni della crisi politica e sociale che accomuna le democrazie occidentali di qua e di là dall’Atlantico. Del resto, i ruoli dei protagonisti sono così ben riusciti, anche e soprattutto nelle loro contraddizioni interne, da sembrare pensati a tavolino. Da una parte Donald il populista, businessman alla conquista del potere politico, maschio bianco alla riconquista del potere patriarcale, nativo all’assalto dello straniero, outsider all’arrembaggio del proprio partito; dall’altra parte Hillary la prima donna, politica navigata ma troppo d’establishment, femminista ma troppo moglie, progressista ma troppo neoliberal.

Un plot perfetto per riconoscervi il presente e l’assai probabile futuro prossimo del vecchio continente: populismo contro establishment, fratture sociali contro rappresentanza, leadership personali contro partiti storici, xenofobia contro globalizzazione, muri contro società aperta. Se aggiungiamo il magistrale taglio inserito nella sceneggiatura al momento giusto dal capo dell’Fbi, il quadro si completa con lo scivolamento della divisione dei poteri in imprevedibile guerriglia tra i medesimi, altro guaio che infetta le democrazie costituzionali su tutt’e due le sponde dell’oceano. Di qua e di là il catalogo è questo, ed è quanto basta per lanciarsi nella facile profezia che di là come di qua non ci aspettano tempi facili, anche se, com’è auspicabile, il kolossal americano si concluderà, secondo la regola ferrea dell’happy end, con la magari non facile, magari risicata, magari al cardiopalma vittoria dei buoni sui cattivi, ovvero di Hillary, la prima donna, contro Donald, l’ultimo uomo.

Eppure, a un secondo sguardo, tra il vecchio e il nuovo continente le cose non sono così uguali, né seguono sempre la regola aurea del nuovo che anticipa il vecchio: con le merci, i soldi, le persone e i confini la globalizzazione rimescola anche i tempi, in un’inedita circolarità fatta tanto di sovrapposizioni e somiglianze quanto di scarti e differenze. Prendiamo il fenomeno Trump, tanto nuovo e stupefacente per gli osservatori americani quanto intriso di déjà vu per noialtri marchiati dal ventennio del Cavaliere: del quale Trump ricalca, com’è stato detto e ripetuto, tutto o moltissimo, dal tratto “alieno” del tycoon che piomba sull’arena politica (tratto che Berlusconi a sua volta ricalcava, a proposito di circolarità, da Ross Perot) alla fusione tra l’azione politica e il brand industriale, dal linguaggio rivolto alla pancia più che al cervello alla post-truth politics, dall’ostentazione della trasgressione fiscale all’uso e all’abuso della potenza sessuale come viagra del messaggio politico. Sì che quando i commentatori statunitensi si stupiscono delle identificazioni consce e inconsce che una figura fuori degli standard della moralità e della legalità come Trump riesce a suscitare, noi sappiamo purtroppo molto bene che queste identificazioni con il lato oscuro di un leader sono possibili, e possono essere molto tenaci.

Così come non ci stupisce, come ha scritto qualche giorno fa Jill Filipovic sul New York Times, che le donne statunitensi si siano paradossalmente trovate a pagare la vittoria femminista della prima candidata alla Casa Bianca con la campagna elettorale più sessista della storia. Le rivoluzioni non procedono mai linearmente e quella femminista non fa eccezione: il caso Trump negli Stati Uniti come il precedente Berlusconi in Italia dimostrano che quando gli uomini, cito ancora Filipovic, “non stanno al passo” del cambiamento femminile, la reazione maschile alla perdita di potere e identità può essere selvaggia. Tanto più se, come nel caso americano che in questo è diverso dal nostro, in questa perdita di identità le ragioni legate al mutamento di genere si mescolano a quelle di ordine demografico e razziale, e l’uomo bianco, assediato non solo dal vantaggio femminile ma dalle ex minoranze che diventano maggioranze e dai neri che si sono già presi la Casa Bianca, si sente davvero l’ultimo uomo: non più il metro di misura di tutti i subalterni, superiore per natura e vincente per definizione, ma un precario residuale e declinante. Uno spleen suprematista e razzista che non pare ancora altrettanto diffuso in Europa ma potrebbe diventarlo, come annuncia l’isteria xenofoba che fiorisce per ogni dove.

Passiamo facilmente, da qui, al principale fattore che fa la differenza tra la scena americana e quella europea. E che sta, lo si voglia o no, nell’eredità simbolica della presidenza Obama. Che essa sia in gioco a livelli ben più profondi della continuità di partito e di governo incarnata da Hillary Clinton, lo dimostra precisamente la virulenza dell’attacco di cui è stata ed è oggetto da parte di Trump e dei suoi, con i corollari della guerra ai neri e agli islamici, alla società multiculturale, al policentrismo in politica estera, al “politically correct” sul piano culturale. Il che, invece di condurre all’affrettata conclusione, molto in voga tra i commentatori di casa nostra, di un “fallimento” di Obama, dovrebbe piuttosto farci riflettere sulle modalità sotterranee e carsiche con cui sovente si forma e si esprime il conflitto nella società americana, meno incline di quella europea a dargli immediata rappresentazione politica. Se non bastasse l’esempio attuale dei gruppi di suprematisti, alt right, birtherist, cospirazionisti, antielitisti che hanno preparato l’exploit di Trump su canali extrapolitici come i siti Breitbart, si può tornare con la memoria ai network neocon e teocon che covarono a lungo sotto lo splendore progressista dell’impero clintoniano degli anni novanta, senza che in Europa nessuno ci facesse caso finché non divennero i pilastri ideologici di George W. Bush e della sua politica revanscista successiva all’11 settembre.

Il conflitto, d’altra parte, in questa lunga campagna elettorale non ha avuto solo la faccia di Donald Trump. Ha avuto anche quella di Bernie Sanders, troppo frettolosamente cancellata dalla inevitabile polarizzazione tra i due candidati degli ultimi mesi. Ma Sanders continua a contare, e non solo perché conteranno oggi, uno per uno, i voti dei suoi sostenitori, millennial soprattutto, che riuscirà o non riuscirà a dirottare su Hillary Clinton. Conterà in seguito, se proseguirà la sua battaglia per spostare a sinistra il Partito democratico e obbligherà Hillary a mantenere gli impegni programmatici presi con lui al lato della convention democratica di luglio. Conterà, soprattutto, se riuscirà a mantenere attivo il movimento che ha costruito, o meglio, cui ha saputo dare rappresentanza, non su base estemporanea ma grazie alla sedimentazione di una catena di aggregazioni e di lotte che vanno dalla mobilitazione per la prima elezione di Obama a Occupy Wall street a Black lives matter alle agitazioni nei campus universitari. Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo. E forse l’unico che può riuscire nel miracolo di dare la sveglia alla sinistra europea, prima che a dargliela spunti anche da queste parti un altro Trump.

«». La Repubblica 9 novembre 2016 (c.m.c.)

C’è un luogo comune sull’America che è rimbalzato nei media tradizionali e sui social media in queste settimane: a fronte dei colpi bassi tra i candidati e degli scandali, svelati o annunciati addirittura da agenzie pubbliche come l’Fbi, cadono i miti sull’America delle regole e della democrazia. Un luogo comune che non coglie nel segno perché non è una novità che la politica americana superi l’immaginazione quanto a spietata durezza.

La storia americana è scandita dall’uso di colpi bassi e di violenza in politica: omicidi di presidenti (a partire dal grande Lincoln fino al giovane Kennedy) e candidati (l‘ultimo Robert Kennedy), scandali che hanno fatto cadere presidenti (Nixon), campagne dal linguaggio populista violento e razzista (del democratico Wallace), infine finanziamenti miliardari alle campagne elettorali che servono addirittura a misurare il gradimento dei candidati, per cui chi è semplicemente “popolare” non ha nei fatti le stesse possibilità di vincere di chi ha dalla propria le multinazionali e le oligarchie di partito (un tema che Bernie Sanders ha più volte sollevato nelle primarie contro Hillary Clinton).

Insomma, l’America è ammirevole non per la sua purezza ma per l’esplicita confessione delle impurità della politica e per quella straordinaria forza delle istituzioni e dell’opinione che resistono a scandali e a violenze. Cinismo verso la politica e convinzione della rettitudine delle persone ordinarie: su questo dualismo si è costruito il mito del populismo americano “buono”, che mai ha tracimato dal regime costituzionale. L’immaginario di un eccezionalismo americano nella valutazione del populismo è durato almeno fino a Donald Trump.

La novità immessa nella politica americana — forse la maggiore novità — sta qui: nel fatto che gli americani, ultimi tra tutti i paesi democratici, abbiano scoperto che il populismo “cattivo” è possibile. Il “popolo” può essere personificato da un pessimo leader e identificato con un linguaggio fortemente negativo e negazionista: negativo, come in altri momenti del passato (pensiamo appunto a Wallace) e anche negazionista, come mai prima d’ora. Negazionismo: Trump ha dichiarato da settimane di poter negare il risultato di queste elezioni (se perdesse), perché esito di una campagna condotta in maniera fraudolenta sia da parte della candidata Hillary che da parte dei media liberal, e delle élites acculturate dei college Ivy.

Sugli “errori” di Hillary sappiamo: errori per aver usato, quando era segretario di Stato, telefoni pubblici e privati indifferentemente, senza fare distinzione tra le questioni personali e quelle politiche. Un errore di valutazione e il segno di un’abitudine al potere (che Hillary frequenta a vario titolo, privato e pubblico, da alcuni decenni), che non sembra aver tuttavia messo a repentaglio gli interessi nazionali. Ma a Trump importa poco il fatto materiale.

Il fatto nuovo di questa campagna è, come si diceva, un altro: Trump ha accusato ripetutamente i media “liberal” di aver fatto una campagna tendenziosa, di aver premeditato la disinformazione (lo ha ripetuto anche la moglie Melania in due interviste televisive) per farlo perdere. Il
New York Times è stato la sua bestia nera (effettivamente impegnato in una campagna schieratissima e senza alcuno sforzo di oggettività), ma anche la Cnn, benché meno tendenziosa.

Perché questa reazione al modo in cui è stata condotta la campagna elettorale? Per preparare l’azione anti-Casa Bianca nel caso egli dovesse perdere le elezioni. È questa anticipazione di accusa di illegittimità insieme al turpiloquio linguistico usato quotidianamente il fatto nuovo di questa campagna presidenziale. I timori restano sia in caso di vittoria di Trump (per il carattere e lo stile della sua politica) sia nell’ipotesi di una sua sconfitta (per le conseguenze destabilizzanti che sono state minacciate). Questa è la novità di queste presidenziali: la sistematica campagna denigratoria non solo verso la candidata (questo sarebbe nella norma) ma anche verso le istituzioni.

La virulenza verbale di Trump ha sdoganato il politically incorrect con conseguenze future che possono essere spiacevoli, come l’escalation dell’intolleranza e la discriminazione delle minoranze — gli immigrati (latino- americani soprattutto), i musulmani (stranieri e americani), le donne acculturate che perseguono carriere nelle professioni. Insomma, il cielo del Nuovo Mondo sembra essere gravido di nuvoloni neri, sia che vinca o che perda Trump, una figura di non-politico la cui campagna ha marcato un’escalation notevole nel processo di delegittimazione in un’America che soffre ancora le conseguenze di una politica imperiale improvvida che l’ha impoverita e incattivita.

l testo integrale del primo discorso esplicitamente rivolto da papa Francesco alla politica, di tale forza dirompente da essere del tutto ignorato sia dai media italiani, che parteggiano per la politica che Bergoglio aspramente critica, sia da quelli che forse si vergognano di non aver saputo pronunciare parole simili. Ci riferiamo in particolare ai paragrafi 4 e 5 del testo.


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI PARTECIPANTI AL 3° INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI
Aula Paolo VI Sabato, 5 novembre 2016
Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti. Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente.
Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.
Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.
Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.
Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).
Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.
Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.
1. Il terrore e i muri
Tuttavia, questa germinazione, che è lenta – quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.
Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.
Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità.
Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli?
La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.
2. l'Amore e i ponti

Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.
Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo… soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.
E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.
Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So – e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare – che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.
Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.
3. Bancarotta e salvataggio

Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.

Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico.
So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.
Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli.
Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?
La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).
E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.
Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.
4 Il rapporto tra popolo, democrazia e politica

Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.

Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.
Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.
Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.
Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.
Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’ giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.
A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!
Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.
5. contrastare la paura

Care sorelle e cari fratelli, la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.

Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia dell’amore” – un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.
In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957.
Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie.
© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Riferimenti

Il testo è tratto dal sito del Vaticano. Lo abbiamo ripreso dal sito di Anna Maria Bianchi Missaglia, che ringraziamo di avercelo indicato. Il titolo dell'articolo e i sottotitoli 4 e 5 sono nostri. Potete trovare una sintesi del discorso in eddyburg qui

Finalmente dal mondo del lavoro emerge una organizzazione che si pone al livello della controparte, ed è capace di superare i confini nazionali. Lo testimonia il documento finale del meeting della "Transnational Social Strike Platform" che si è tenuto a Parigi dal 21 al 23 ottobre scorsi. connessioniprecarie,

Centocinquanta persone, lavoratori e attivisti provenienti da Francia, Italia, Regno Unito, Portogallo, Slovenia, Bulgaria, Polonia, Scozia, Svezia, Germania e Belgio hanno partecipato alle tre giornate organizzate dal 21 al 23 ottobre scorsi a Parigi dalla Transnational Social Strike Platform.

Dai protagonisti del movimento francese contro la loi travail ai lavoratori dei magazzini tedeschi, francesi e polacchi di Amazon, dai lavoratori che hanno organizzato lo sciopero di Deliveroo in Gran Bretagna ai migranti che in Italia lottano contro lo sfruttamento e le leggi sull’immigrazione, dai lavoratori tedeschi e svedesi della cura agli uomini e donne che hanno organizzato l’iniziativa per la libertà di movimento lungo la rotta balcanica, dai medici specializzandi che hanno scioperato in Inghilterra alle studentesse e studenti sloveni: un intero mondo di insubordinazione del lavoro si è incontrato a Parigi per discutere di come superare i limiti delle iniziative locali e di come connetterle in un progetto condiviso.

Un anno fa a Poznan abbiamo affermato che l’opposizione allo stato presente dell’Europa non può che partire dal rifiuto dello sfruttamento e delle sue condizioni politiche. Quest’anno a Parigi la scommessa è stata quella di fare un passo avanti nel consolidamento della nostra comune infrastruttura transnazionale.

Per essere efficace, essa deve essere radicata nell’insubordinazione del lavoro che ha luogo in ogni punto d’Europa e deve essere praticata dai soggetti che, individualmente e collettivamente, rifiutano di essere pienamente disponibili per il capitale. L’infrastruttura transnazionale, perciò, non può essere separata dalle sue basi locali ma non può neppure essere ridotta a una loro somma o a un accordo formale tra sindacati e collettivi. Essa è piuttosto uno spazio di organizzazione, dove i flussi di insubordinazione locale possono essere diretti contro nemici comuni nello spazio europeo e dove, allo stesso tempo, ogni punto può acquisire potere e nuovi alleati grazie a questa interconnessione.

Riconosciamo un movimento dello sciopero che attraversa l’Europa e stiamo lavorando alla creazione delle condizioni per uno sciopero sociale e transnazionale. Per noi lo sciopero è il movimento reale che può sovvertire l’attuale equilibrio dei poteri dentro e fuori i posti di lavoro. Vogliamo consolidare un’infrastruttura politica che consenta di fare di ogni sciopero il momento in cui si intensifica l’insubordinazione del lavoro e in cui lavoratori e lavoratrici possono riconoscersi come parte della stessa lotta attraverso le categorie, le condizioni giuridiche e i confini. Per farlo, dobbiamo costruire connessioni più solide intensificando lo scambio di informazioni, la condivisione dei momenti di conflitto e la definizione di direzioni comuni.

Quattro assi sono stati riconosciuti come centrali e sono stati l’oggetto dei quattro workshop i cui report circoleranno nei prossimi giorni: il controllo logistico sul tempo, applicato nei magazzini così come nel lavoro di cura, nelle piattaforme telematiche e nelle fabbriche; la precarizzazione del lavoro, sostenuta dalle politiche europee attuate in ciascun paese; la gestione del welfare come strumento per imporre ai cittadini e ai migranti l’obbedienza e come spazio di un lavoro di cura precario; le politiche migratorie che mostrano come la questione dell’integrazione abbia a che fare con il lavoro a basso costo e lo sfruttamento, a sua volta intensificato dal ricatto del permesso di soggiorno e dal governo della mobilità.

La sottrazione dei lavoratori della cura svedesi al controllo delle app che misurano il loro tempo di lavoro è legato al rifiuto di quello stesso controllo da parte dei lavoratori dei magazzini di Amazon; la lotta contro la loi travail è un segmento di quella organizzata, in diversi paesi, contro le leggi sul lavoro che seguono le linee guide dell’Agenda 2020 dettata dall’Europa; lo sciopero delle infermiere, delle insegnanti e dei medici specializzandi è parte dell’opposizione ai tagli al welfare portata avanti dagli utenti; l’attraversamento dei confini da parte dei migranti lungo la rotta balcanica è connesso alla lotta contro il razzismo istituzionale che pone i migranti interni e quelli extraeuropei in una condizione di ricatto.

La nostra infrastruttura logistica rende queste connessioni visibili e riconoscibili. In questo senso, essa non è solo un modo di mettersi in contatto attraverso i confini, ma anche di superare i limiti delle iniziative locali attraverso lo sviluppo di un terreno comune. Possiamo vedere tutti i giorni, a livello locale, che anche le lotte vicine nello spazio sono di fatto isolate, perché ciascuna è basata su specifiche rivendicazioni o riguarda specifiche categorie del lavoro ormai desuete. Ma il movimento dello sciopero va al di là dei suoi confini istituzionali.

Superando la pratica dello sciopero regolato dalla legge, esperienze come quelle di Deliveroo sono state sostenute da un movimento autonomo che è nato prevalentemente fuori dai sindacati e ha coinvolto lavoratori che tecnicamente non possono scioperare; lo sciopero delle donne in Polonia ha reso concreto ciò che uno sciopero sociale può essere, perché ha creato lo spazio per un rifiuto di massa delle condizioni politiche dell’oppressione e dello sfruttamento. Ogni sciopero può diventare il punto di concentrazione di una più ampia connessione e parte di un movimento transnazionale.

Per rafforzare la nostra infrastruttura, abbiamo bisogno di costruire il nostro spazio e di prenderci il nostro tempo. Vogliamo trasformare lo spazio europeo, con le sue differenze interne, nel nostro spazio di lotta, sapendo che si tratta di un processo lungo. Ciò significa anche costruire un nuovo linguaggio, un nuovo immaginario e la capacità di intervenire in modo tale da rendere le differenze di cui facciamo esperienza dei punti di forza.

A questo dedicheremo i prossimi mesi. Saremo a Londra per prendere parte all’organizzazione di «una giornata senza di noi», lo sciopero che i migranti stanno organizzando nel Regno Unito il prossimo 20 febbraio, portando la nostra prospettiva transnazionale e l’esperienza dello sciopero del lavoro migrante. In quell’occasione, vogliamo sovvertire la logica secondo la quale la soluzione della crisi è quella di liberarsi dai migranti e affermare che questa logica non può essere contrastata soltanto su basi utilitaristiche o solidaristiche.
Saremo a Lubiana per incontrare i migranti e gli attivisti che negli ultimi anni hanno fatto dei Balcani un campo di battaglia politico, insieme al movimento dei lavoratori e degli studenti, confermando la centralità dell’Est nell’attuale costituzione dell’Europa. Infine saremo in Polonia, dove è in cantiere un altro meeting internazionale dei lavoratori di Amazon, per discutere insieme come organizzare scioperi capaci di attraversare i confini e iniziative simboliche che possano viaggiare da un magazzino all’altro.
Affermeremo il nostro progetto comune in tutte le occasioni in cui l’opposizione all’attuale Europa neoliberale sarà discussa e in cui emergerà il rifiuto dello sfruttamento, con l’intento di far sentire ovunque il movimento dello sciopero. Saremo impegnati insieme nella costruzione di momenti di visibilità e di mobilitazione che possano esprimere e dare risonanza al potere comune che stiamo costruendo attraverso i confini.
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