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«In gioco non c'é un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito sino ad ora lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti».

Rifondazione,online 28 novembre 2016 (c.m.c.)

La Costituzione italiana è legge sovraordinata alla legge ordinaria.

La Costituzione è destinata a regolare i rapporti di civile convivenza tra i cittadini e per tale ragione è destinata a durare nel tempo.

La Costituzione contiene norme di carattere generale, cioè riferentisi ad ogni tipo di cittadini, di carattere astratto, cioè a prescindere dalle singole situazioni.

La Costituzione deve essere comprensibile per tutti i cittadini e pertanto deve essere scritta in maniera chiara e sintetica.

La Costituzione italiana è costituzione rigida quanto ai suoi principi, ma non immutabile; può essere modificata nel tempo, ma sempre al fine di realizzare e rispettare i principi fondamentali stabiliti nella prima parte della Costituzione stessa.

La Costituzione può essere modificata nei modi e nei termini previsti dall’art. 138 e le modifiche devono ricercare la più ampia convergenza di opinioni tra le forze politiche.

La Costituzione non si modifica a colpi di maggioranza. La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, ad impulso esclusivo del Parlamento, senza intromissione alcuna del Governo.

Queste sono le caratteristiche di una Costituzione e questi sono i criteri per modificarla.

Ed invece:

La nuova formulazione della Costituzione è stata approvata alla Camera dalla sola maggioranza, con 360 voti su 630 deputati: alla Costituente il testo fu approvato da 458 parlamentari con soli 62 voti contrari.

Il linguaggio usato è prolisso, controverso, ai limiti della incomprensibilità.

Non è vero che sia stato soppresso il bicameralismo perfetto; semplicemente, esso è stato trasformato in un bicameralismo confuso, perché la permanenza del Senato e i nuovi percorsi di formazione delle leggi, nonostante le minori competenze dello stesso Senato, renderanno confuso e ugualmente complesso il percorso di approvazione di una legge, con il rischio di una moltiplicazione dei ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti tra le due Camere.

Non è vero che il bicameralismo perfetto abbia prodotto tempi di approvazione delle leggi superiori alla media dei paesi democratici europei, così come non è vero che sia così diffuso il fenomeno della cosiddetta “navetta” delle leggi tra le due Camere, fenomeno che, in realtà, risulta limitato al 3% delle leggi varate.

La scelta di non far eleggere i senatori dai cittadini incrina il concetto di rappresentatività dei cittadini stessi, sostituendolo con una nomina di natura politica, che nasce all’interno dei gruppi dei Consigli regionali.

La nuova norma costituzionale rischia di escludere la rappresentanza delle Regioni a Statuto Speciale che prevedono l’incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e quello di senatore, obbligando, pertanto, l’eletto in Senato a rassegnare le sue dimissioni dal Consiglio Regionale e restando, così, privo di qualsiasi compenso per la sua attività.

Non è vero che le modifiche alla seconda parte della Costituzione, relativa all’organizzazione della Repubblica, non abbiano incidenza sulla prima parte, che stabilisce i principi fondanti dello Stato e della convivenza civile.

La nuova Costituzione introduce una progressiva sopravalutazione del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo, istituendo una sorta di democrazia esecutiva.

La nuova Costituzione istituisce un ridimensionamento del ruolo della Camera anche in tema di ordine dei lavori, consentendo al Governo di imporre alla Camera di esaminare le leggi ritenute essenziali per il programma governativo entro 70 giorni: è un’umiliazione del ruolo del Parlamento mai visto dall’epoca fascista.

Non è vero che non esista uno stretto rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale: l’Italicum garantisce al partito vincitore delle elezioni al ballottaggio, magari anche solo con una percentuale del 25%, l’attribuzione del 55% dei seggi della Camera con la riduzione delle opposizioni ad un ruolo di mera, impotente tribuna: si pensi solo alla dichiarazione dello stato di guerra, deliberato dalla maggioranza, precostituita ed immodificabile, della sola Camera. Stante, dunque, la rilevanza della legge elettorale ai fini della valutazione dell’impatto della riforma costituzionale sugli assetti istituzionali, sarebbe stato assai utile che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legittimità o meno di quella legge; incomprensibile appare il rinvio a data da destinarsi di quel giudizio.

La volontà della maggioranza di ridurre il ruolo delle opposizioni è emblematicamente rappresentato dall’introduzione all’art. 64 di uno Statuto delle Opposizioni, il cui regolamento sarà deciso dalla maggioranza, in salda mano del partito vincitore delle elezioni, della Camera.

Il quesito referendario appare formulato in maniera manipolatoria e tale, dunque, dall’invitare i cittadini all’approvazione della legge; in particolare, il riferimento alla riduzione dei costi della politica non rientra direttamente tra le modifiche costituzionali, ma ne potrebbe essere esclusivamente una indiretta conseguenza.

Queste sono solo alcune delle criticità della riforma costituzionale; in alcuni casi si tratta di questioni molto tecniche sulle quali, ovviamente, il cittadino medio non è in grado di esprimere un’opinione fondata su un’effettiva conoscenza del problema; fondamentale, comunque, è cercare di fare un’operazione quanto più completa possibile di informazione, ma ciò che soprattutto deve essere chiaro è che i cittadini devono essere ben consci dell’importanza della loro scelta ed ergersi a difensori di quel ruolo di unione del popolo italiano che la Carta Costituzionale ha pienamente rappresentato in questi 70 anni.

OCCORRE, DUNQUE, VOTARE NO NEL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE.

Come giuristi, da sempre impegnati nella difesa dei diritti dei cittadini, in particolare di quelli meno tutelati, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo di informazione ai cittadini, nella convinzione profonda che in gioco non ci sia né un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e, dunque, in definitiva, il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti.

Il Fatto Quootidiano, 29 novembre 2016 (p.d.)

Amalia Signorelli è un’antropologa molto attenta al linguaggio politico. Tempo fa scrisse che mai come negli ultimi anni la politica ha abbandonato il discorso argomentativo, ossia quello che si svolge chiarendo i perché delle scelte, per utilizzare quello assertivo, che afferma, dichiara, prevede e prescrive senza spiegare né il perché né il come né con quali mezzi.

Matteo Renzi quale usa?

Renzi è il maestro dell’asserzione. Io ho coniato per il suo modo di parlare un termine su misura: l’annuncite. Annunci continui senza che ci sia mai un quadro finanziario chiaro associato alle promesse. Questo modo di fare politica è captatio benevolentiae, creazione di consenso, non certo ragionamento.

Però sembra piacere.
Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. Però non rispetta il principio di non contraddizione, quindi restano solo parole al vento.

Lei ha dichiarato che voterà No alla riforma. Perché?

Per tre ragioni: ovviamente per il suo contenuto, poi per l’illegittimità delle procedure e, infine, l’illegittimità dei titolari dell’iniziativa.

Partiamo dal contenuto.

Negli ultimi decenni in Italia, Paese notoriamente privo di senso di responsabilità pubblica e con altissimi tassi di corruzione, una delle poche istituzioni che ha dato qualche frutto in materia di aumento della partecipazione alla vita pubblica è stata l’elezione diretta dei sindaci. La riforma la nella direzione opposta: aumenta la distanza tra elettori ed “eletti”, che risulteranno tali solo attraverso una serie di mediazioni che interrompono questo rapporto diretto. Non parlo solo di quel pastrocchio che sarà il nuovo Senato, dove ancora non sappiamo come saranno eletti, ma anche alla Camera, dove le liste – parlo della legge elettorale attuale, non delle promesse – saranno bloccate.

Con la riforma però le Regioni perderanno potere.

Il problema delle Regioni non è la loro autonomia, ma il fatto di essere governate da delinquenti. Il problema sarebbe sbattere in galera chi ruba, non riformarle.

Cosa pensa dell’accentramento dei poteri allo Stato?

Accentrare il potere in poche mani, in un Paese come l’Italia, significa aumentare il clientelismo della peggior specie: tutti cercheranno un santo protettore. Diventerà ancora di più il Paese delle cordate, delle cosche, delle banche.

La maggioranza ha votato questa riforma, in democrazia funziona così.

Diciamola meglio: votata da una minoranza del Paese che è diventata artificiosamente maggioritaria in Parlamento grazie a una legge elettorale incostituzionale.

A Obama piaceva Renzi.

Sì, come dico sempre: lui è gradito ovunque ma irrilevante dappertutto. Lui piace a certi poteri. Purché, nel fare il simpatico, porti avanti la distruzione della democrazia.

Anche lei vede Renzi strumento dei poteri forti?

Senta, un sindaco che improvvisamente diventa premier senza neanche essere eletto qualcuno che lo appoggia deve averlo. Altrimenti mi dica, su che basi poggia il potere di questo giovinotto?

Me lo dica lei.

Dalle asserzioni di soggetti come Jp Morgan riguardo alle costituzioni mediterranee emerge il disegno di liquidare l’Europa ‘socialdemocratica’, intesa come stile di vita, in quanto cattivo esempio per il mondo. Ecco chi sostiene certe azioni.

Cosa dirà ai suoi nipoti per il 4 dicembre?

Loro sanno già cosa votare. Agli altri direi di non fidarsi di chi gli dice di stare sereno.
«La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla».

Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 28 novembre 2016 (c.m.c.)

L’abbiamo capito. Tutti. Anche chi fa finta di non capire, per interessi personali di vario genere. Questa riforma della Costituzione è voluta dalla finanza (JP Morgan), dagli Usa, dalla Ue e dai mercati. Questi ultimi “guardano con preoccupazione” (sic) all’Italia, temendo che a vincere sia il No. E poi vi è ancora qualcuno che ci ripete che siamo in democrazia: la democrazia sarebbe scelta sovrana del popolo sulle questioni politiche ed economiche. Oggi non siamo in democrazia esattamente per via del ricatto e della dittatura dei mercati e di enti che nessuno ha mai eletto e che decidono in luogo del popolo.

La democrazia – occorre averne contezza – non si risolve nel voto, né nella libertà di espressione, che pure contribuiscono a definirla. La democrazia è anche e soprattutto potere del popolo di determinare sovranamente la vita economica e politica della comunità. La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla.

Come ci ha insegnato la Grecia del referendum del 2015, la democrazia oggi è tollerata fintantoché le scelte del demos ampiamente manipolato coincidono con quelle altrove prese dall’élite finanziaria dominante. In caso di dissidio – ce l’ha insegnato sempre la Grecia col referendum del 2015 – devono essere le scelte dell’élite a prevalere. Stiamo pronti, dunque: l’élite e i mercati hanno scelto chi deve vincere.

E se vincerà invece il No essi saranno pronti a reagire, di modo che il loro dominio non subisca interferenze né limitazioni. L’assolutizzazione del mercato e l’economicizzazione integrale del mondo della vita (Marx) hanno come loro condizione necessaria di realizzazione la neutralizzazione, la spoliticizzazione e la desovranizzazione (Schmitt).

Referendum. Il "Financial Times» profetizza il fallimento di otto banche in caso di sconfitta del Sì. "The Daily Telegraph" insiste sul pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona "The Sunday Times Business". "Figaro Economie" racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari».

il manifesto, 29 novembre 2016

Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».

Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.

Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. Figaro racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.

In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.

Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.

La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi di dollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.

E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.

L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.

Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».

Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.

Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.

«E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”».

Contropiano, da Haramlik, il blog di Lia, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare.

L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre.

Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.

Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi.

L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.

E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba.

Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.

L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: «E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti». In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come «intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.» La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.

Diceva la mia padrona di casa: «Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.» I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto.

E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più.

Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra.

E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.

Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.

Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno.

Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri.

E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.

Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. «Io mi sono laureato a Cuba, gratis!» «Mio padre è stato salvato da un medico cubano!» Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.

E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: «E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.»

Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.

Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia.

Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: «Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli».

Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: «La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano».

E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.

Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici.

E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA.

E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: «Fu più che altro un naufragio»), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: «Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.» E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.

E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.

Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia.

Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.

Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.

Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.

Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.

Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.

Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.

Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.

Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.

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Articoli di Franco Venturini, Roberto Da Rin, Furio Colombo, Gianni Minà, Luciana Castellina.

Internazionale online,Corriere della sera, Il Fatto Quotidiano, il Sole 24 ore, il manifesto, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

Internazionale
LE REAZIONI DEL MONDO
ALLA MORTE DI FIDEL CASTRO

La morte di Fidel Castro, ex presidente cubano e leader della rivoluzione comunista, avvenuta nella notte del 26 novembre, ha suscitato reazioni in tutto il mondo.

Il presidente uscente degli Stati Uniti Barack Obama ha offerto le sue condoglianze alla famiglia Castro in un comunicato. «Sappiamo che questo momento riempie i cuori dei cubani – a Cuba e negli Stati Uniti – di forti emozioni, ricordando gli innumerevoli modi in cui Fidel Castro ha cambiato il corso della vita di individui, di famiglie e della nazione cubana», ha dichiarato Obama, concludendo: «Sarà la storia a ricordare e giudicare le enormi conseguenze che questa figura singolare ha portato nella vita delle persone e del mondo attorno a lui».

In un telegramma al presidente cubano Raúl Castro, il presidente russo Vladimir Putin ha detto: «Il nome di questo illustre statista è giustamente considerato il simbolo di un’era nella moderna storia del mondo», aggiungendo che «Fidel Castro è stato un sincero e affidabile amico della Russia».

Il neoeletto presidente statunitense Donald Trump inizialmente si è limitato a scrivere sul suo profilo Twitter: «Fidel Castro is dead!». Trump ha poi rilasciato la seguente dichiarazione: «Oggi il mondo segna la scomparsa di un brutale dittatore che ha oppresso il suo popolo per quasi sei decenni. L’eredità di Fidel Castro è fatta di plotoni d’esecuzione, furti, sofferenze inimmaginabili, povertà e la negazione di diritti fondamentali». Trump conclude: «Anche se Cuba rimane un’isola totalitaria, spero che oggi sia l’inizio di un allontanamento dagli orrori sopportati per troppo tempo, e un passo avanti verso un futuro in cui gli splendidi abitanti di Cuba potranno finalmente vivere nella libertà che si meritano».

Secondo quanto riportato da Interfax, l’ex leader sovietico Michail Gorbacev ha detto: «Fidel si è battuto per rafforzare il suo paese durante il più duro embargo statunitense, quando su di lui pesava una pressione colossale e nonostante ciò è riuscito a guidare il suo paese su una strada di sviluppo indipendente. Negli ultimi anni, anche quando non era formalmente al potere, Fidel Castro ha avuto un ruolo fondamentale nel rafforzamento di Cuba», aggiungendo inoltre che Castro sarà ricordato come un “politico di spicco” che è riuscito a lasciare “un segno profondo nella storia dell’umanità”.

Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha ringraziato Fidel Castro per il suo sostegno alla lotta contro l’apartheid, dichiarando: «Il presidente Castro si è riconosciuto nella nostra lotta contro l’apartheid. Ha ispirato il popolo cubano a unirsi a noi nella lotta».

Il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che «il popolo cinese ha perso uno stretto compagno e un sincero amico», lodando Castro per il suo contributo allo sviluppo del comunismo a Cuba e nel resto del mondo.

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro, storico alleato di Castro in chiave anti-statunitense, ha dichiarato alla rete televisiva Telesur: «Continueremo a lottare e a vincere. Fidel Castro è un esempio della lotta del popolo mondiale. Porteremo avanti la sua eredità».

Il premier canadese Justin Trudeau ha rilasciato una dichiarazione in cui esprime “profondo dispiacere” per la morte di Fidel Castro. L’ex primo ministro canadese Pierre Trudeau (padre di Justin Trudeau) aveva uno stretto legame con il leader cubano, che nel 2000 aveva presenziato al suo funerale. Queste le parole del primo ministro: «Fidel Castro è stato un leader smisurato che ha servito il suo popolo per quasi mezzo secolo. Un leggendario oratore e rivoluzionario, Castro ha portato significativi miglioramenti all’istruzione e alla sanità del suo paese. Per quanto Castro sia stata una figura controversa, sia i suoi detrattori sia i suoi sostenitori hanno riconosciuto la sua profonda dedizione e il suo intenso amore per il popolo cubano, che ha avuto un affetto profondo e duraturo per el Comandante».

In un telegramma a Raúl Castro, presidente di Cuba e fratello del líder máximo, papa Francesco ha espresso la sua vicinanza per il defunto “dignitario” ai familiari, al governo e al popolo “dell’amata nazione”. Al tempo stesso, il papa ha offerto «preghiere al Signore per il suo riposo» e ha affidato «il popolo cubano alla materna intercessione della Vergine della Carità del Cobre» patrona di Cuba.

Corriere della sera

RIVOLUZIONE E TIRANNIDE
L'UOMO CHE SFIDÒ GLI USA

di Franco Venturini

Il padre di Fidel, Angel Castro, arrivò a Cuba agli albori del Novecento con addosso una divisa militare e nello zaino l’ordine di battersi contro l’indipendenza dell’isola. Non poteva sapere, quel contadino spagnolo, che quasi mezzo secolo più tardi suo figlio sarebbe diventato la bandiera non dell’indipendenza formale già conquistata ma di quella «vera», come dicevano i guerriglieri barbudos che per anni avevano combattuto il dittatore Fulgencio Batista fino ad abbatterlo nel gennaio del 1959.

Il paradosso ha sempre accompagnato la vita di Fidel Castro, sin dalle sue origini galiziane mai rinnegate. Gli studi dai gesuiti e più tardi una militanza comunista che si voleva atea. L’amore per la Revolución accanto a una intransigenza ideologica che più volte ha rischiato di strangolarla. Il nazionalismo, ma anche la sottomissione obbligata (dai bisogni economici) all’Unione Sovietica e ai suoi giochi da Guerra fredda.

Fidel nasce il 13 agosto 1926. Sua madre Lina è stata prima la cameriera e poi la seconda moglie di Angel, che nel frattempo ha rinunciato alle velleità guerriere e avviato nell’isola una piccola piantagione destinata a crescere velocemente. Fidel e suo fratello Raúl vivono con la famiglia in una casa di legno a due piani, giocano come tutti i bambini e imparano a cacciare, dunque a sparare.

La scuola è una scuola cattolica nella città orientale di Santiago e poi nella capitale L’Avana, dove Fidel viene premiato come il miglior studente giocatore di basket di tutta l’isola. E nel baseball, anche se non riceve premi, è quasi allo stesso livello.

Il contatto con la politica avviene all’università, dove Fidel studia legge. Viene fermato diverse volte, e anche sospettato, ma mai incolpato, per la morte del leader di un gruppo studentesco rivale. Da avvocato continua ad essere un militante, ma tutto diventa diverso dopo che il generale Batista anticipa le elezioni impadronendosi del potere con un golpe nel marzo del 1952. Fidel e il fratello Raúl, già avezzi all’uso delle armi, rispondono organizzando un attacco militare alla caserma Moncada di Santiago.

Dei loro 119 compagni di avventura ne sopravvivono 60. Ma ormai per Fidel e il fratello la strada da percorrere è segnata. Fuggono in Messico, reclutano nuovi compagni tra i quali il «Che» Guevara, e nel 1956, a bordo di un barcone chiamato «Granma», sbarcano a Cuba. La prossima tappa è la Sierra Maestra, dalla quale la guerriglia anti-Batista condurrà una campagna sempre più efficace fino alla vittoria dell’8 gennaio 1959.

Fidel si impossessa del potere e continua a battere dei record: il suo primo discorso all’Onu nel 1960 dura 269 minuti, un primato che lui stesso avrebbe successivamente battuto ma non in una sede internazionale. I rapporti con gli Stati Uniti (che utilizzavano la Cuba di Batista alla stregua di un grande parco giochi) sono subito difficili e precipitano rapidamente.

Fidel nazionalizza proprietà americane. L’America risponde con un embargo che dura ancora anche dopo il disgelo tra L’Avana e Washington, perché il Congresso non ha mai accolto la richiesta di Obama di abolirlo. E il risultato, che segnerà i decenni a venire, è che Castro decide di appoggiarsi all’Unione Sovietica e alla sua generosa assistenza.

Paradossi, anche qui. Mentre combatteva sulla Sierra Maestra Fidel negò più di una volta di essere filocomunista. Semmai, il radicale era suo fratello Raúl. E nel viaggio compiuto negli Usa nell’aprile 1959, Fidel ribadì la smentita. Ma gli americani (in particolare il vicepresidente Nixon) non gli credettero, lo presero per un agente di Mosca e lo spinsero in questo modo proprio nelle braccia del Cremlino.

Arrivarono le collettivizzazioni e gli espropri, l’assorbimento dei sindacati nel Partito comunista (partito unico), ci furono tentativi di resistenza e morti. Una delle prime aziende agricole ad essere collettivizzata nell’ambito della riforma agraria fu quella di suo padre Angel.

L’Urss ormai dettava legge all’Avana, e nel 1962 la pretesa sovietica di installare suoi missili a Cuba portò il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare. Fidel stette alla finestra e accettò il compromesso segreto raggiunto tra Washington e Mosca. Il suo potere era ormai saldo e collaudato, dopo la prova della Baia dei Porci nell’aprile del 1961. Con l’appoggio della Cia gli esuli cubani negli Usa avevano organizzato un attacco contro il regime castrista. Ma il promesso appoggio americano dal cielo non arrivò mai, e le forze di Fidel uccisero o catturarono tutta la forza di invasione. Da allora non ci sono stati più tentativi di sbarco, anche se contro Fidel sarebbero stati compiuti numerosi attentati o tentativi di attentato.

Nel 1964 Fidel ammise che nelle carceri cubane c’erano quindicimila prigionieri politici, un numero destinato a diminuire di molto in questi ultimi anni dopo i viaggi di Giovanni Paolo II e di papa Francesco, e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Cuba e Stati Uniti grazie alla mediazione del Vaticano e del Canada.

Ma prima di arrivare a tanto c’è il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, che priva l’economia cubana di sovvenzioni ormai ultradecennali e molto generose. E c’è, in tempi recenti, il crollo economico del Venezuela chavista, che priva Cuba di preziose e privilegiate forniture di petrolio spesso pagate con l’invio di medici e di insegnanti.

Per la società cubana si tratta di due tempeste perfette, anche i beni di prima necessità periodicamente diventano introvabili e così, poco a poco, i cubani imparano ad arrangiarsi per sopravvivere. Il che, tradotto, significa corruzione endemica, furti regolari anche dalle catene di montaggio delle poche aziende di Stato, e una fame di denaro che condiziona i rapporti sociali in direzione esattamente opposta a quella che il sistema castrista aveva auspicato.

Forse anche per queste delusioni, che si aggiungevano alle sue precarie condizioni di salute, Fidel decide nel 2008 di passare il testimone al fratello Raúl. Che si mostrerà più coraggioso o più flessibile di lui, avviando un programma di riforme graduali ma reali.

il sole 24 ore
L’ADDIO DEL MONDO A FIDEL CASTRO
IL LEADER CUBANO CHE SFIDÒ GLI USA

di Roberto Da Rin
«Trump: "Brutale dittatore". Il "dolore" del Papa. . La morte a 90 anni. L’annuncio del fratello Raul, presidente dal 2008

Un eroe romantico e un tiranno. Fidel Castro (foto), 90 anni, è morto a L’Avana. L’annuncio, alle 22,29 di venerdì sera (le 4,29 di ieri mattina, ora italiane), è del fratello Raul che, sciolto nella commozione, ha concluso con «hasta la victoria siempre».

Il lider maximo è stato venerato o detestato, con poche sfumature di grigio. Un carisma indiscusso che gli ha consentito di governare l’isola per 50 anni; poi, nel 2006, per problemi di salute ha ceduto il passo a Raul. Ma Fidel, in questi ultimi 10 anni, non ha mai davvero abdicato alla sua leadership.

Fidel, l’ultimo rivoluzionario, si è ritagliato un ruolo di primo piano nella storia politica americana, del Sud e del Nord; ha visto passare 11 presidenti americani e i suoi “servizi segreti” hanno sventato 637 piani per ucciderlo. All’indomani dell’elezione di Bill Clinton, dichiarò : «Vabbé, vediamo questo come si comporta».

Sull’ultimo, Donald Trump, non si è espresso. Lui invece,il presidente degli Stati Uniti appena eletto, ha calpestato il protocollo, la liturgia delle condoglianze della diplomazia internazionale e ha dichiarato alle agenzie di stampa: «Fidel Castro è stato un brutale dittatore che ha oppresso il suo popolo per quasi sei decenni».

La distanza con la posizione di Papa Francesco è siderale: in un telegramma a Raul esprime «vicinanza ai familiari, al governo e al popolo dell’amata nazione».
Se è vero che le coincidenze non esistono, Fidel muore in un giorno simbolico per Cuba, quello del 60esimo anniversario della partenza dal Messico del Granma. Ovvero la nave con a bordo Ernesto, lo stesso Fidel e 82 uomini che salpò verso Cuba per dare il via alla Revolución che pochi anni dopo spodestò il dittatore Fulgencio Batista.

«No vamos a ser eternos gobernantes», promise Fidel Castro nel 1961. Non saremo governanti eterni.È successo il contrario: Fidel è stato uno dei più longevi al mondo, convinto di incarnare pueblo, Revolución e Nación. Ha incassato successi evidenti ma anche sconfitte amare. Nei primi dieci anni di Revolución ha azzerato l’analfabetismo e costruito un sistema sanitario invidiato dalla maggior parte dei Paesi latinoamericani. Obiettivi centrati e riconosciuti dagli osservatori delle Nazioni Unite in missione a Cuba. Ha perso sul fronte dell’egualitarismo e del benessere: disse che l’isola avrebbe raggiunto un tenore di vita superiore a quello degli Stati Uniti.

In verità la libreta (tessera di razionamento alimentare) con cui si ottiene ogni mese una determinata quantità di cibo, non ha mai garantito una qualità di vita superiore alla sussistenza.

Quello del lider maximo non fu un disegno di rivoluzione socialista, piuttosto un “governo patriottico” di stampo antiimperialista. Peccato che l’America Latina, negli anni Cinquanta e Sessanta, non contemplasse questo tipo di opzione: la tragica conclusione dei governi di Jacobo Arbenz in Guatemala e di Salvador Allende nei primi anni Settanta furono segnali chiari. Il fiuto politico e l’astuzia strategica lo convinsero ad abbracciare il modello socialista, ratificando l’alleanza con l’Unione sovietica.

Da qui una forte contrapposizione politica con gli Stati Uniti, di interessi geopolitici e di modello economico. Azione e reazione: la centralità americana di “consumatori e mercati” e quella cubana di “solidarietà e pianificazione”. Il muro d’acqua tra l’Avana e Miami è troppo stretto per essere tollerato, Washington non lo può abbattere ma impone il castigo dell’embargo. Che vige ancora oggi, anche se Raul e Barack Obama, hanno avviato un promettente disgelo. Impossibile prevedere le prossime mosse di Donald Trump. Una sola certezza, Fidel Castro muore ma Cuba, rimane lì.

Sgangherata e con un’economia da ricostruire. «Il socialismo esportabile? No, non funziona neanche qui», parole di Fidel. Eppure ancora oggi Cuba è considerata da molti Paesi latinoamericani una trincea davanti all’Impero. Il mito della Revolución sopravvive a se stesso.

Il Fatto Quotidiano
SIEMPRE FIDEL
ADDIO ALL'ICONA DELLA REVOLUCION

di Furio Colombo

Il 1961 è l’anno della svolta di Castro, dalla guerriglia nella Sierra alla sfida “atomica” al mondo e il braccio di ferro con gli Usa: il momento di passaggio di un leader che diventa simbolo globale Eccolo Fidel Castro, che tutti a quel tempo chiamano “il comandante”, un po’ Zorro, un po’ Garibaldi, più giovane di quel che ti immagini (poco più di 30 anni) con un saluto allegro che non è da rivoluzionario e neppure da vanto del vincitore.

È l’umore che per forza provoca le battute e le risate dei ragazzi immortali che hanno resistito in prigione, hanno combattuto sulla Sierra e sono scesi all’Avana e all’Hotel Nacional in tempo per il Capodanno del 1959. Fidel Castro, vestito da Sierra (ma con camicia bianca appena stirata) apre la portiera della limousine, forse appartenuta a Fulgencio Batista, forse non più così lucida, per far scendere Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, Jean-Paul Sartre.

Sono i miei compagni di viaggio incontrati sul volo peruviano Lima-L’Avana 421, la vigilia di Capodanno del 1961, loro venuti da Parigi su invito del Comandante per celebrare il primo anno della Rivoluzione, io imbarcato nella “sosta tecnica” di Miami con visto scritto a mano, a matita, sul passaporto da Raulito Castro (figlio di Raul), buon amico al club dei giornalisti dell’Onu, allora un luogo molto simile al leggendario caffè di Casablanca.

Fídel (era già iniziato il culto universale di quel primo nome) vede che, prima di scendere, sto riposizionando la tendina che Sartre aveva quasi strappato per guardar fuori (in auto ci faceva da guida Che Guevara, allora scettico e non felice governatore della ‘Banca centrale’, venuto a nome del governo), nota con divertimento il tentativo (lui che tra poco ci porterà nel suo ufficio) e commenta: «Quando arrivi da me, non ti avvicinare al mio tavolo».

La giornata si divide nell’arrivo del gruppo all’Hotel Nacional, dove tutto sembra intatto dalla notte dell’anno prima, compreso il lungo tavolone nell’atrio, con tante tovaglie d’oro, dove gli invitati avrebbero ritirato il biglietto con l’assegnazione (se Fidel, Raul e il Che non fossero arrivati un po’ prima) di una grande stanza che nessuno ha rivisitato da quella notte e in un secondo giro all’Avana (questa volta in jeep) mentre Che Guevara mi spiegava un sistema di distribuzione dei prodotti agricoli che lui chiamava Tiendas del Pueblo.

E, verso sera, la festa sul tetto dell’Hotel Hilton, abbandonato dai gestori americani e occupato come sede della gioventù cubana. Alla balconata dell’ultimo piano c’erano tutti i compagni-compagni di lotta di Fidel. Il gruppo di ospiti di cui facevo parte (sembra impossibile, ma non ho mai parlato con Sartre, salvo i saluti), Che Guevara ci presentava andando su e già per la fila, e un anziano si accompagnava con la fisarmonica per ripetere una sua canzone di brevi strofe che finivano sempre con la frase “Yankee go home”. Dall’alto si vedeva una folla che si diramava lungo tutte le strade fin dove giungeva lo sguardo, e sarà la stessa, tante generazioni dopo, che vedremo alla cerimonia alla fine di questi giorni di veglia e lutto. Quella sera Fídel è arrivato per ultimo e ha parlato subito, a lungo. Era al vertice ma non parte del governo.

In quel tempo, prima del comunismo, aveva un’idea pannelliana del leader: garantire, non comandare. Quando il presidente Dorticos, uno scrupoloso giurista democratico, ha firmato una legge per multare o arrestare le prostitute, il dissenso di Fídel ha costretto il presidente a lasciare. Ma le minacce continue di Nixon, allora vicepresidente Usa e candidato alle elezioni del 1960, scurivano il cielo.

L’invasione di esuli cubani di destra nella mai dimenticata operazione “Baia dei Porci” (preparata a sorpresa da Nixon, fatta esplodere mentre governa Kennedy, fermata all’ultimo istante dallo storico Arthur Schlesinger nella veste di consigliere politico con delega a prevalere sui militari) è una spinta brutale che Kennedy non può fermare. Fídel va verso l’Unione Sovietica e proprio lui, così diverso, così naturalmente liberal e culturalmente americano, non vuole e non può tornare indietro. E così Fídel, che ha saputo dare dignità alla sua rivoluzione, cade nella trappola come voleva la destra, accetta il rischio pauroso dei missili sovietici a Cuba, e di nuovo sono i Kennedy a salvare Usa, Cuba e il mondo dallo scontro atomico.

Da allora, Fidel resta un grande simbolo di quel glorioso giorno in cui ha occupato l’Hotel Nacional e arrestato o esiliato tutti i padroni del potere e della ricchezza del Paese. Ma non più un simbolo di libertà, che era stato il senso della sua rivoluzione. Molti anni dopo, e prima del cauto governo del fratello Raul, le sue carceri troppo piene, isolate dalle richieste di un mondo da cui aveva avuto sostegno, hanno ridotto la sua straordinaria immagine di Zorro rivoluzionario che arriva in tempo e che lascia il segno.

Due papi e Obama gli hanno cambiato la scena, spostandola verso un dignitoso tipo di pace. Era la sola via d’uscita per un uomo che si era dato come compito di restituire dignità al suo Paese. Nonostante tutto si deve dire che in gran parte ci è riuscito.

il manifesto
IL COMANDANTE CHE HA FATTO UNA RIVOLUZIONE
SENZA PERDERLA

di Gianni Minà

«Hasta siempre Fidel. Ha lasciato un paese in condizioni migliori di quando lo ha liberato dal dittatore Battista»

Con un esempio palese di assoluta discrezione venerdì se ne è andato da questo mondo il Comandante Fidel Castro, l’unico, nel mondo moderno, che abbia fatto una rivoluzione e non l’abbia persa.L ’unico leader che abbia lasciato un paese in condizioni migliori di quando ha rischiato la pelle per liberarlo dalle prepotenze del dittatore Fulgencio Battista, uno che governava sotto braccio alla mafia.

È singolare che queste realtà, inconfutabili per l’America Latina (Piano Condor, desaparecidos) non siano ancora adeguatamente riconosciute e ricordate da una parte del mondo occidentale che pure, in questi ultimi anni, ha toccato tetti inauditi di empietà perseguitando esseri umani come noi e riempiendosi la bocca con le parole «libertà» e «democrazia», quando in realtà il loro unico «merito» era di essere nati nel posto giusto, al momento giusto.

Questa logica invece era stata ben chiara, fin dal tempo delle insurrezioni studentesche, per il giovane avvocato Fidel Castro tanto che, arrestato per le sue sedizioni, si era difeso da solo in tribunale con una frase che avrebbe fatto epoca: «La storia mi assolverà».

In realtà è più che disonesto, da parte dei farisei di casa nostra (i cosiddetti riformisti) ignorare che Cuba ha pagato, per la testardaggine del suo Comandante, un prezzo altissimo con l’assurdo embargo che dura da più di 55 anni. E questo solo per aver rivendicato il diritto di autodeterminazione del proprio popolo scegliendo un sistema che non piaceva agli Stati uniti. Insomma una punizione di assoluta prepotenza.

Questo meccanismo perverso ha significato però che il 70% degli attuali cittadini dell’isola sia cresciuto schiacciato, per molto tempo, dalla repressione dell’embargo nordamericano.

Non è sorprendente dunque che questa resistenza fosse il peccato che qualcuno continuava (e continua) a imputare a Fidel Castro malgrado da 10 anni fosse uscito di scena a causa della salute precaria.

Eppure non è un mistero che quasi tutti i premier e i capi di Stato latinoamericani, da anni, facessero sempre, di ritorno dai meeting del nord (Onu, multinazionali) uno scalo a La Havana per sentire il parere del Comandante sul riscatto dell’America Latina e sul futuro da scegliere nonostante le politiche criminali del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale o della Borsa di New York.

C’è addirittura chi è convinto che il ritiro di Fidel abbia messo in crisi l’evoluzione di alcuni processi politici e sociali di altri paesi del sud del pianeta. Non sorprende quindi che, in quasi tutto il mondo, la notizia della sua dipartita è stata trattata con assoluto rispetto, tranne forse da alcuni gruppuscoli di Miami, quelli che hanno favorito il terrorismo organizzato in Florida e messo in atto a Cuba, come Posada Carriles che continua a passeggiare tranquillamente per Miami. Sarebbe ora, anzi, che qualcuno chiedesse la verità agli stessi Stati uniti.

E non è un caso che proprio la Chiesa, coerente con l’atteggiamento di Papa Francesco contro la violenza e la guerra, abbia scelto di impegnare la propria diplomazia per la soluzione di complicate situazioni ferme da tempo scegliendo, due volte, come luogo di pace, proprio Cuba.

Non nascondo che come cittadino del globo, in caccia di verità, ancor prima che come giornalista, io senta ora la mancanza di un protagonista della storia che i critici diranno che ha spesso sbagliato, ma nello stesso tempo si è sacrificato per rispettare i diritti e la dignità di tutti. Se ne deve essere accorto anche il Papa quando un anno fa è andato in visita privata da Fidel, accompagnato solo da un monsignore e di conseguenza fornendo al mondo un esempio tangibile di sensibilità.

Quella sequenza che ho inserito nel film-documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel» testimonia una tenerezza emozionante. Il Pontefice prendendo la mano di Fidel lo ha esortato: Ehi, de vez en cuando tirame un Padre Nuestro («Qualche volta lanciami un Padre Nostro») ricevendo come risposta dallo stesso Fidel un inatteso: Lo recordaré («Me ne ricorderò»).

Quando 30 anni fa, una combinazione della vita, favorita da Gabriel Garcia Marquez e Jorge Amado (giurati al Festival del Cinema de La Habana), mi permise di conoscere Fidel Castro, mi resi conto subito della personalità di questo protagonista della storia.

Con una ovvia gentilezza gli chiesi prima dell’intervista se, come tutti i capi di Stato, desiderasse conoscere in anticipo le domande. Fu drastico: «No. Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole?».

L’intervista, concessa successivamente, durò 16 ore e fu pubblicata con due prologhi, uno di Garcia Marquez e l’altro di Jorge Amado.

Durante la visita di Papa Francesco a Cuba, a settembre del 2015, ho visto il 90enne Fidel a sorpresa in sedia a rotelle, ma lucidissimo. Qualcuno gli aveva detto che con una troupe stavamo documentando quell’incontro inatteso e pieno di speranze. Ci convocò nella sua villetta e, oltre a spiegarci l’imbarazzante situazione dell’Europa sul problema dei migranti e dei diseredati, si espresse con molto entusiasmo riguardo al Pontefice argentino: «Il suo modo di essere non mi stupisce per niente – spiegò – perché essenzialmente si tratta di una persona molto onesta, molto sincera e disinteressata».

È stata l’ultima volta che l’ho visto. Avevo la promessa di andare, a metà dicembre, al «Festival del Cinema de La Habana» e di portargli una copia del documentario. Non ho avuto tempo di farlo, ma mi ha colpito, qualche mese dopo, il suo intervento al congresso del partito.

Non tanto la frase: «Presto compirò 90 anni. Non mi aveva mai sfiorato una tale idea e non è stato il frutto di uno sforzo, è stato il caso. Presto sarò come tutti gli altri, il turno arriva per tutti».

Mi ha emozionato questa affermazione piena di speranza: «Rimarranno le idee dei comunisti cubani come prova che questo pianeta, se si lavora con fervore e dignità, è in grado di produrre i beni materiali e culturali di cui gli esseri umani necessitano… Alla gente dobbiamo trasmettere che il popolo cubano vincerà».

il manifesto
QUEL LEADER BARBUTO
INCONTRATO PER LA PRIMA VOLTA
IN TIPOGRAFIA

di Luciana Castellina

«Una rivoluzione può essere anche allegra. Solo chi conosce la miseria dell’America centrale capisce il mito di Cuba»

La prima volta che mi sono imbattuta in Fidel è stata mentre ero in una tipografia sulla Tiburtina dove stampavamo il settimanale della FGCI «Nuova Generazione». Stavo impaginando quando, su una delle riviste che avevo sul tavolo perché rubavamo le loro foto (mi pare fosse Newsweek), scorsi l’immagine di un barbuto in un bosco, armato di fucile. Nella didascalia si diceva che si trattava di tal Fidel Castro. Incuriosita, lessi anche l’articolo di accompagnamento. Sicché alla fine invece che solo due righe scrissi due cartelle: riferivo che si trattava di una guerriglia, che mangiavano erba e carne di serpente, e tutto il resto.

Era parecchio prima che conquistassero Cuba. Diventammo subito dei fan. Ancora di più quando per la prima volta incontrammo una delegazione dell’organizzazione giovanile a Mosca, in occasione – era il ’60 – di un grande raduno internazionale per la pace: quelli arrivati dall’isola caraibica anziché sfilare cantavano e ballavano. Scoprimmo così che una rivoluzione poteva essere allegra e non tetra come quella sovietica.

Per molti anni non ebbi occasione di andarci: prima per ragioni casuali, poi per il freddo che intervenne nei rapporti fra il manifesto e il regime castrista, dopo la svolta filo sovietica dei primi anni ’70 che aveva posto fine alla bella stagione rivoluzionaria che aveva reso l’Havana punto di riferimento di tutte le lotte di liberazione del mondo. Ce l’aveva raccontata Rossana, non a caso poi la più colpita dalla svolta, in un lungo reportage su Rinascita, in cui riferiva di un viaggio attraverso l’isola compiuto a bordo di una jeep proprio con Fidel, che aveva entusiasmato molti di noi, e invece un po’ irritato gli ortodossi del Pci.

Poi gli anni passarono e accaddero molte cose. Fu mentre ero a Managua con una delegazione del Parlamento europeo che fui avvicinata da un funzionario dell’ambasciata cubana che mi chiese se fossi stata disposta ad andare con un aereo militare che partiva poco dopo all’Havana per un incontro con Alarcon, presidente del Parlamento. Mi avrebbero riportato indietro dopo 24 ore.

Fu la mia prima visita a Cuba, un record di brevità. Sedemmo attorno al tavolo, io, un po’ imbarazzata, esordii dicendo che i rapporti fra noi non erano stati buonissimi, e che però eccetera. Tagliarono subito corto, dicendo che c’erano comunque tante cose comuni. E mi chiesero consigli su come stabilire un rapporto con la Comunità europea, fino ad allora subalterna agli americani, a differenza di quanto avveniva in rapporto agli altri paesi del centro America, grazie al ruolo assai autonomo giocato dal commissario socialista francese Claude Cheysson, animatore del c.d. processo di Contadora: un aiuto diplomatico alle guerriglie per liberarsi dell’oppressione di Washington.
Nel poco tempo che quella prima volta rimasi all’Havana visitai anche un ospedale. Mi colpì un reparto assai importante e non medico, bensì metallurgico: dove si fabbricavano tutti gli strumenti indispensabili alla chirurgia o alle analisi che non potevano, per via dell’embargo, importare e che Cuba non aveva ancora i mezzi per produrre.

Poi ci furono altre visite, ufficiali (come vicepresidente della delegazione permanente del Parlamento europeo per l’America Centrale), e semiufficiali (come presidente dell’Agenzia per il cinema italiano e poi come Arci). Grazie alle quali mi è capitato di visitare le cooperative create dalla locale Slow Food in campagna; le scuole periferiche finalmente dotate di luce per iniziativa della branca cubana dell’ Associazione Eurosolar; di assistere alle proiezioni (tante, affollatissime) del film «Fragole e cioccolata», prima pellicola in cui apertamente si parlava di omosessualità; di incontrare ministri aperti come Abel Prieto e sconcertanti funzionari imbalsamati; di cenare con intellettuali giustamente insofferenti per le tante ridicole censure; di girare per la città e vedere nugoli di bambini e adolescenti con una bella divisa verde uscire dalle tantissime scuole gratuite.

Ho avuto modo di vedere la fame negli anni successivi al crollo dell’Urss del cui aiuto (soprattutto l’importanzione dello zucchero) Cuba ha a lungo vissuto, più recentemente la miseria dei dipendenti pubblici, anche di quelli di alto grado, chirurghi e/o docenti, per stipendi in moneta locale insufficienti persino a cenare in un ristorante, e facchini dei lussuosi alberghi con le tasche piene di dollari ricevuti come mancia. Ma quello che mi ha fatto meglio capire Cuba è stata la conoscenza degli altri paesi dell’America centrale e del sud. Perché solo dopo aver visto quelle miserie si capisce perché tutt’ora e comunque Fidel e la sua rivoluzione siano rimaste oggetto di venerazione.

Si capisce perché le difficoltà – e gli errori – abbiano potuto sviluppare odii, ma anche come sia possibile che centinaia di migliaia di cubani si siano affollati nelle piazze per ricevere il papa o per ascoltare i Rolling Stones senza che nessuno abbia colto la facile occasione di una protesta politica. Ci sono arresti ingiustificati, certo, ma Cuba non è un regime di polizia. Del resto neppure la Germania dell’est, con le sue Stasi potentissime, ha retto, figuriamoci se avrebbe potuto farlo, solo fidando nei gendarmi, un’isola caraibica. Capire Cuba è più complicato: critica e orgoglio per la propria rivoluzione si intrecciano. E sono certa che oggi saranno milioni quelli che piangeranno con tutto il cuore il loro Comandante supremo.

Lui, Fidel, era del resto davvero un bel personaggio. Di contagiosa simpatia. L’ultima volta che l’ho visto, saranno circa 20 anni fa, gli avevo portato un regalo. Poco prima ero stata a Washington, perché la nostra delegazione europea si incontrava regolarmente col Dipartimento di Stato per confrontare le rispettive politiche. Discutemmo anche con la sottocommissione esteri del Congresso, presieduta dall’orrendo italoamericano on. Torricelli, autore della più disumana legge di embargo verso Cuba. Uscendo dalla sala, ero rimasta in coda, e mi prese l’insensato desiderio di rubare la targhetta disposta sul banco della presidenza con su scritto: on. Torricelli.

Quando consegnai a Fidel il trofeo di guerra lui scoppiò in una bella risata e poi appese il cimelio dietro la sua scrivania. «Ho avuto molti regali – mi disse – ma curioso come questo mai».

Un corteo immenso, di molte generazioni affiancate. È stata una bella giornata di amore, forza e vita , contro violenza e morte, come non si vedeva dagli anni 70 il manifesto, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

«Sì, lo sai, la forza che hai. Sì, lo so, la forza che ho». Dalla testa del corteo della straordinaria manifestazione organizzata ieri a Roma dalla rete Non Una Di Meno era questo lo slogan ripetuto, per dire che – come recitava un altro striscione – «guerriere sempre, vittime mai». O forse non si trattava di uno slogan, bensì erano le voci, le tante voci di numerose generazioni che ieri si sono mostrate, fianco a fianco per dire no alla violenza maschile contro le donne.

E proprio quella forza, inaddomesticata e assertiva, si respirava tra le migliaia di presenze che ieri hanno cominciato a invadere pacificamente piazza Esedra e che hanno sfilato fino a piazza San Giovanni. Non erano lì per rivendicare, ma per dire che – dalle giovani alle meno giovani – sanno di sé. In effetti non è da ieri che lo sanno, sanno quale è il proprio desiderio, quale è il proprio bene senza tutele da parte di uno Stato che decide di proporre un piano antiviolenza senza neppure consultarle e che invece è proprio con quella piazza colma di appassionata radicalità che dovrebbe parlare.

Sanno della loro forza insomma grazie alla fatica, spesso trascurata o ignorata da finanziamenti risicati senza progetti istituzionali lungimiranti, e al lavoro che da anni molte di loro svolgono nei Centri antiviolenza, nei collettivi, nelle associazioni, nei movimenti.

Le parole più utilizzate, presenti nei cartelli, nei visi, negli ombrelli e nelle tele enormi, sorrette da chi si è dato appuntamento a Roma da tutte le parti d’Italia, raccontavano diverse cose. Intanto che il lessico di una grande, potente mobilitazione passa per una reinvenzione del linguaggio.

In parte – si potrà obiettare – una fenomenologia già conosciuta negli slogan più noti come «Io sono mia» – ripetuto più volte e in diversi punti del corteo – oppure «Le strade libere le fanno le donne che le attraversano». D’altro canto invece si è assistito a una presa d’atto che deve molto al femminismo e a ciò che di esso è circolato anche tra le giovani – e giovanissime – generazioni. Non è un fatto anagrafico ma di generazione anche politica che racconta una materialità e un presente davanti a cui porsi in ascolto.

Tra gli striscioni ci sono stati i confronti di questi mesi, e di questi anni, la consapevolezza di una libertà femminile che sa misurarsi con i molti (non moltissimi) uomini presenti ieri in piazza. Anche loro giovani e meno giovani, insieme a bambine e bambini. Sì, perché nel corteo che ha accolto duecentomila anime, per lopiù donne, quelli che brillavano erano almeno due segnali, importanti e ineludibili: il mutamento dell’immaginario a proposito della narrazione della violenza maschile contro le donne di cui farsi carico insieme e le tante generazioni, trasversali, anche negli anni e nelle pratiche.

La grammatica politica che emerge da Non Una Di Meno e nella presenza dei corpi, dei tantissimi colorati e festosi corpi a raccontare che «la libertà delle donne è la libertà di tutti» o che «migliora la vita di tutti». Questo «sommovimento» dei corpi che svettano sulla retorica, capaci di spiazzare per la leggerezza con cui si presentano, l’ha insegnata il movimento degli anni Settanta, lo insegnano quelle che negli anni Settanta e Ottanta ci sono nate e sanno di essere dentro a una storia precisa. Lo sanno sui loro corpi, e dicono «no» a un tentativo di istituzionalizzazione e di stravolgimento della narrazione su quegli stessi corpi.

UDI, La rete DI.RE e Io Decido, le tre realtà che si sono per prime costituite in rete e che hanno dato il via al progetto di Non Una di Meno, hanno chiarito da subito che si sarebbe trattato di un movimento dal basso e così è stato. Un movimento senza sigle di partito, senza patrocini, in cui a sfilare ci sono state almeno quattro generazioni diverse di donne, dalle ragazze che portavano dentro alle fasce i propri bambini piccoli a intere famiglie, arcobaleno e no. Non è decisivo quando alle forme nucleari si preferiscono le comunità politiche.

Attraversando via Cavour, due signore anziane e minute affacciate alla finestra guardano la marea sotto di loro e fanno con le mani il gesto femminista. Prima una, poi anche l’altra prende coraggio. Il «fiume» sotto se ne accorge e cominciano gli applausi. Ma quelle due signore, di cui la foto ora rimbalza sui social, ridevano felici non certo per essere applaudite. Perché sapevano quel che facevano e quel che stava accadendo davanti ai loro occhi. Sapevano forse che le più divertite erano, come recitava un altro piccolo cartello, quelle «nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare».

Ora qualcuno scriverà che si tratta di una rinascita del femminismo, o che finalmente le donne si fanno sentire, che sono tornate. Chissà da dove poi. In realtà la manifestazione di Non Una Di Meno è il frutto maturo di un percorso lunghissimo, che non finirà presto e che domani comincerà la sua seconda fase di discussione attraverso i tavoli. Non finirà, bisogna farsene una ragione.

Il motivo per cui si dovrebbe «tremare» non è allora il «ritorno» delle donne, come delle streghe, ma la consapevolezza, chiara, gioiosa, a tratti commossa che le donne ci sono sempre state. Tremate dunque, tremate. È giusto. Perché le donne non se ne sono mai andate.

«La campagna per il Sì ha virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile».

Huffington Post online, 27 novembre 2016 (m.c.g.)

Sono convinto da mesi che il No al referendum trionferà il 4 dicembre (Renzi è finito, fatevene una ragione). Non certo sulla base dei sondaggi, ai quali non credo e che mesi fa davano il No senza speranze, ma piuttosto osservando dati e fatti reali sotto gli occhi di tutti. Michael Moore sperava tanto d'essere smentito, io No.

1. Se i sondaggi non sono attendibili, esistono tuttavia i dati concreti dei voti espressi quest'anno. Al referendum sulle trivelle del 17 aprile scorso 13 milioni 300 mila italiani si sono presi il disturbo di andare a votare contro il governo per una consultazione poco più che simbolica.

È probabile che tutti costoro tornino a votare il 4 dicembre per una questione assai più importante e altri se ne aggiungano, visto che la percentuale di votanti sarà ben più ampia. Questo significa che la base concreta del No si aggira intorno ai 15 milioni di voti. Renzi deve dunque portare al voto oltre 15 milioni di Sì, impresa matematicamente improbabile.

2. Il coro dei media. La netta prevalenza delle ragioni del Sì sui media, l'endorsement implicito o esplicito di tutti i grandi giornali, la scandalosa faziosità governativa della Rai e quella meno sfacciata di Mediaset, tutto questo coro avrebbe costituito in altri tempi un enorme vantaggio. Ma non in questi, nei quali la credibilità dei media e il loro potere d'influenzare l'opinione pubblica sono prossimi allo zero. Il dilagare su giornali e tv del monologo auto elogiativo di Matteo Renzi produce ormai l'effetto d'ingrossare ogni settimana le fila del No.

3. Il tardo trasformismo di Renzi. La narrazione renziana è rapidamente invecchiata, come ha capito ormai anche il narratore, provando a cambiarla in corsa, ma tardi e male. Quando fu concepita la tenaglia fra riforma costituzionale e Italicum, che avrebbe consegnato al premier un potere immenso, Renzi veniva dal 41 per cento alle Europee ed era sicuro di ottenere un plebiscito, quindi ha personalizzato oltre misura la sfida. Con la progressiva delusione per gli scarsi risultati economici del suo governo, le minacce di dimissioni hanno smesso di essere tali, ma Renzi avrebbe dovuto comunque insistere sulla linea guascona.

Al contrario ha cercato di correggersi tornando democristiano, sorvola sulle dimissioni dal governo e non parla più di ritirarsi dalla politica. Per giunta ha ceduto sulla modifica dell'Italicum, «la legge elettorale più bella del mondo», quella che «tutti ci copieranno in Europa». In questo modo il Rottamatore ha perso il suo fascino principale, per rivelarsi il solito trasformista disposto a cambiare idea su tutto pur di rimanere attaccato alla poltrona. Per dirla con Marx (Groucho): «Questi sono i miei principi, signora. Se non vi piacciono, ne ho degli altri».

4. La paura non funziona più. Il fronte del Sì era partito bene, prospettando una serie di vantaggi in positivo agli elettori. Ma i più seducenti, il risparmio sui costi della politica e la maggior velocità decisionale, si sono persi per strada. L'abile mossa dei 5 Stelle di proporre durante la campagna robusti (e sacrosanti) tagli agli stipendi dei parlamentari, respinta dalla maggioranza, avrebbe procurato risparmi ben maggiori rispetto ai miseri 50 milioni l'anno del nuovo Senato calcolati dalla Ragioneria. Quanto alla rapidità, più veloci per fare che cosa?

La campagna per il Sì ha dunque virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma, come testimoniato dalla Brexit e dalle presidenziali Usa, la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile.

5. Gli italiani votano con saggezza. Detto modestamente da uno che ha quasi sempre votato per i perdenti. I referendum però li ho quasi tutti vinti. Nel voto referendario gli italiani votano con saggezza, con più libertà e ragione. Ed è sicuro che di fronte a una riforma pasticciata e pericolosa, che stravolge un terzo della Costituzione "più bella del mondo" in cambio di una manciatina di risparmi, la ragione, la libertà e la saggezza impongano di dire No.

Poi si potrebbe discutere anche sulla saggezza degli italiani alle politiche, visto che per mezzo secolo i comunisti non avrebbe in nessun caso potuto guidare un paese dell'Occidente e il ventennio berlusconiano è stato in gran parte frutto degli errori del centrosinistra. Nelle due uniche occasioni in cui la sinistra ha trovato un progetto unitario e un leader consistente, Romano Prodi, il berlusconismo è stato sconfitto. Ma questo è un altro discorso.

Al di là del merito e dell'ira di Matteo per la "burocrazia", colpisce il fatto che gli autori della "riforma costituzionale" conoscessero così poco la Costituzione che pretendono di cambiare.

Corriere della sera, 26 novembre 2016

Una doccia fredda sulla riforma Madia della pubblica amministrazione, all’indomani dell’approvazione in Consiglio dei ministri di un ulteriore pacchetto di decreti attuativi della stessa. Ma anche l’ennesimo contenzioso tra Stato e Regioni sul Titolo V della Costituzione, sulla cui modifica si pronunceranno tra l’altro gli italiani nel referendum del 4 dicembre. «La Consulta — ha detto ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, commentando la sentenza 251 della Corte costituzionale — ha dichiarato parzialmente illegittima la norma sui dirigenti perché non abbiamo coinvolto le Regioni. È un Paese in cui siamo bloccati. E poi mi dicono che non devo cambiare il Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente». Esultano invece le opposizioni, accusando il governo di non saper fare le leggi e di non rispettare le autonomie locali. Ieri sera è circolata perfino l’ipotesi di ritiro dei decreti Madia. Ma vediamo cosa è successo.

La riforma Madia parte con la legge delega 124 del 7 agosto 2015 che prevede una serie di decreti legislativi del governo per la sua attuazione. La Regione Veneto, guidata dal leghista Luca Zaia, ha impugnato nell’ottobre del 2015 la legge 124 davanti alla Corte costituzionale, accusandola di non rispettare il Titolo V che richiede su una serie di materie la legislazione concorrente tra Stato e Regioni. La delega infatti prevede che sui decreti attuativi del governo le Regioni diano solo un parere non vincolante. Alla fine, quindi, l’ultima parola è del governo. La Corte ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal Veneto in materia di Codice dell’amministrazione digitale, perché materia riservata allo Stato, ma ha dichiarato l’incostituzionalità della legge delega negli articoli che riguardano altre materie, molto importanti, laddove la 124 prevede appunto che i decreti attuativi siano adottati dal governo sulla base di un «semplice parere, non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali», anziché un «intesa» vera e propria, dice la sentenza. Le materie in questione sono quattro: 1) il «lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni», e quindi il decreto sui licenziamenti (i furbetti del cartellino) entrato in vigore a luglio, oltre che il testo unico sul pubblico impiego, il cui decreto non è stato però ancora emanato; 2) le società partecipate, il cui decreto è anche questo già in vigore; 3) la riforma della dirigenza; 4) i servizi pubblici locali. Per queste ultime due materie i decreti sono stati approvati in Consiglio dei ministri appena l’altro ieri.

Il problema è risolvibile per il testo unico sul pubblico impiego perché qui il governo potrà appunto ricercare l’intesa richiesta dalla Consulta nella Conferenza Stato-Regioni, prima di emanare il decreto. La situazione comincia invece a complicarsi sul decreto partecipate e su quello dei furbetti del cartellino, dove per evitare che essi siano impugnati e dichiarati incostituzionali, il governo dovrà firmare un’intesa con le Regioni da tradurre in un nuovi decreti, correttivi dei precedenti. Più difficile, infine, il problema degli ultimi due decreti (dirigenza e servizi locali) passati in Consiglio dei ministri giovedì. Madia dovrebbe chiudere una formale intesa nella Conferenza Stato-Regioni sui decreti prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Operazione che appare impossibile. Si tenterebbe allora un’altra strada: pubblicare in Gazzetta prima i decreti e poi la sentenza. A quel punto i decreti potrebbero essere corretti in un secondo momento, previa intesa con le Regioni. Se invece fosse pubblicata prima la sentenza, sarebbe impossibile non tenerne conto e i decreti non vedrebbero più la luce perché la delega al governo scade domani. Renato Brunetta (Forza Italia) avverte il presidente della Repubblica: «Che fa ora Sergio Mattarella? Firma un decreto con una legge delega dichiarata incostituzionale?».

Comunque vada, la sorte della riforma, almeno sulla dirigenza, appare segnata. Zaia esulta, mentre i 5 Stelle attaccano Renzi: «Svela il suo volto e arrogante. Vuole forse abrogare la Consulta?». No, dicono da Palazzo Chigi, le critiche sono rivolte a chi ha impugnato la riforma. Ma la sentenza ha riacceso lo scontro sul referendum. «Le sentenze si rispettano — dice Madia — ma se votiamo sì non ci sarà più la possibilità che una Regione blocchi il Paese». Intanto il settimanale Economist si divide e dopo l’editoriale per il No difende con un pezzo del corrispondente da Roma le ragioni del Sì. E Berlusconi dice che Renzi potrà governare anche se vincesse il No.

«il manifesto, 26 novembre 2016 (c.m.c.)

Al di là di quello che realmente farà il nuovo presidente statunitense, è indubbio che gli slogan della sua campagna elettorale hanno trovato ascolto anche fuori dai confini del nord America, in particolare la sua battaglia per difendere i prodotti made in Usa. Ritorna in auge la politica protezionistica, e non è una novità. Sappiamo bene che nel corso della storia il capitalismo ha fatto registrare ondate di globalizzazione dei mercati a cui sono seguite delle contromisure, con innalzamento delle barriere doganali e contingentamento delle importazioni. Anche sul piano teorico, la scienza economica ha visto imporsi, agli inizi del XIX secolo, la teoria dei «vantaggi comparati» di David Ricardo.

Una teoria su cui tutt’ora si basa la vulgata dei vantaggi del “libero scambio” a livello internazionale, a cui trent’anni dopo si è opposta la strategia protezionistica teorizzata da Friedrich List, il promotore di una via tedesca allo sviluppo basata su una articolata barriera doganale che proteggesse i primi germogli dell’industria tedesca nella seconda metà dell’Ottocento.

Come ha messo in evidenza Gianni Toniolo in un acuto editoriale (sul Sole 24 ore), l’ondata di globalizzazione della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei Parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Ancora più dura e drastica fu la risposta politica alla globalizzazione negli anni Trenta, creando le basi dell’intervento forte e deciso dello Stato nell’economia, sia nella versione dell’autarchia fascista e del nazionalsocialismo in Germania , sia del New Deal nordamericano.

Il fallimento delle ondate di globalizzazione dei mercati dimostrano che il mercato “autoregolato” non può durare a lungo senza distruggere la società, come è stato ampiamente documentato da Karl Polanyi. Purtroppo, la risposta sociale e politica agli effetti perversi della globalizzazione ha avuto ed ha ancora oggi una matrice prevalente di Destra. Come molti analisti hanno evidenziato in questi giorni, la vittoria di Trump, ma anche il successo crescente delle destre in Europa, si basa in gran parte su ricette “protezionistiche” che rifiutano il cosiddetto ”libero mercato internazionale” del lavoro e delle merci.

C’è una coerenza e una estrema chiarezza nella proposta politica della destra occidentale: difendere i propri prodotti dalla concorrenza sleale cinese, impedire alle multinazionali con base nei paesi occidentali di andare a produrre all’estero a costi decisamente più bassi per poi rivendere in patria ai prezzi correnti.

Allo stesso modo, bloccare i flussi migratori in quanto il cosiddetto “libero mercato internazionale” del lavoro comporta, soprattutto in una fase di stagnazione, una concorrenza crescente con la forza lavoro locale. Anche negli Usa o in Germania dove la crescita economica negli ultimi dieci anni si è accompagnata alla dequalificazione del lavoro ed una riduzione del salario medio.

In sintesi, la proposta della destra, che si può definire come Neoprotezionismo, perché è un misto di protezionismo verso l’esterno e liberazione/privatizzazione dello Stato all’interno, è molto chiara e popolare e il Neoliberismo “tal quale” finisce per essere sostenuto dalle forze politiche un tempo appartenenti alla sinistra storica (Hollande, Renzi, Obama, e C.).

Paradossalmente la nuova sinistra, o la sola sinistra che è rimasta a criticare il turbocapitalismo neoliberista non è riuscita ad andare oltre quello che i movimenti sociali hanno espresso nei primi meeting internazionali di Porto Alegre.

Il movimento No Global (poi ribattezzato New Global) contestava e denunciava i danni sociali ed ambientali di questa forma di globalizzazione capitalistica, e ne proponeva un’altra, ma in termini generici e volontaristici. In altri termini, né dai movimenti di contestazione né dalle forze politiche della sinistra radicale è scaturita una proposta chiara e comprensibile all’operaio, al lavoratore precario, al disoccupato, che si sentono minacciati, dalle merci e dalla forza lavoro che vengono da lontano. La critica anche aspra del capitalismo se non accompagnata da contromisure credibili, non rappresenta una proposta politica. Né è stato sufficiente il mutamento culturale che ha portato negli ultimi decenni ad una rivalutazione del “prodotto locale”, del consumo a km zero, dei Gruppi di Acquisto Solidale, ecc. Un risposta alla globalizzazione capitalistica dal basso, certamente importante, che però non riesce ad intaccare i grandi numeri dell’economia.

Da molti anni la sinistra italiana, quella rimasta tale, ha proposto un reddito minimo di cittadinanza come misura di protezione sociale, proposta oggi fatta propria dal M5S. Ma, sul piano della concorrenza sleale che per esempio il governo cinese attua da oltre un ventennio, manipolando il tasso di cambio dello yuan, non c’è mai stata una chiara presa di posizione. Come è ormai noto, c’è un accordo tacito tra imprese multinazionali e governo cinese, vietnamita, ecc. di mantenere un tasso di cambio «politicamente» manovrato che conviene ad entrambi i soggetti.

Per spiegarci meglio: un operaio cinese che guadagna 250 euro al mese ha un potere d’acquisto pari a circa 1200 euro in Italia, l’impresa multinazionale che lo ha assunto ha un risparmio sul costo del lavoro per unità prodotta nella Ue di circa il 70%, il governo cinese ha creato in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro ed ha fatto entrare nel paese valuta pregiata con cui oggi compra imprese in Occidente e terre in Africa, e non solo.

Tutti questi attori ci guadagnano, sia pure in misura diversa, ma il resto del mondo? Come si rompe questo meccanismo ? Non certo come propone Trump con i dazi sui prodotti cinesi al 45% , perché oggi la Cina è in grado di colpire al cuore il sistema finanziario statunitense (a partire dai titoli del debito pubblico), ma anche perché queste misure abbasserebbero il tenore di vita della maggioranza dei lavoratori nordamericani. Se non c’è stata più inflazione a due cifre in Europa e negli Usa, dagli anni ’90, è proprio grazie ai bassi prezzi dei prodotti provenienti dall’industria asiatica.

Ma, se non vogliamo consegnare alla destra il futuro della Ue dobbiamo rispondere al neoliberismo con proposte credibili e praticabili, dobbiamo trovare necessariamente un’altra via che non sia quella biecamente neoprotezionistica e nazionalsocialista. E’ sul piano internazionale, delle contraddizioni del nostro tempo, che dobbiamo costruire una proposta chiara e praticabile.

«Il procuratore generale di Palermo spiega quali sono le vere ragioni per cui la Costituzione viene stravolta».

Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2016 (p.d.)


Pubblichiamo stralci dell'intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, al seminario sulla Riforma della Costituzione al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre scorso.

Questa riforma costituzionale non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente (...). Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione. Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’art. 58 che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (…) Questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali (…).

I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori? (…) Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza? (...) Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma la disattivazione del ruolo delle minoranze, condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa. E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel Paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo. (...)

Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido controbilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti (...).

Se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare. Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e necessaria e urgente per risolvere i problemi del Paese. La Ragioneria dello Stato ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione e della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia. (…) Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera e il Senato, quando una delle due Camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra. In questa legislatura sono state sino a oggi approvate 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. (...)

Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella Seconda Repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso? La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un Paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. (…) Il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute a Commissione europea, Bce (e per certi versi al Fondo monetario internazionale) privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario (...).

Una esemplificazione concreta e recente (...) è lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il presidente della Bce inviò al presidente del Consiglio italiano,dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo e il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare. (…) Tutte le leggi indicate dalla Bce sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare: la Salva-Italia di Monti e Fornero in appena 16 giorni; la legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in 5 mesi (con 4 votazioni Camera-Senato-Camera-Senato) (…).

Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”. (...) In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati. (...) I riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico (...). Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue.

Parole semplici per spiegare in modo comprensibile a tutti perche votare NO, nonostante la nuvola di menzogne sollevata da chi comanda.

LiguriTutti, 23 novembre 2016 (c.m.c.)

Non ho nessuna pretesa di dare lezioni. Di scrivere un breviario per il referendum. Ecco semplicemente alcune delle ragioni per cui voterò “no”.

Con una premessa: non si dovrebbe votare “sì” oppure “no” pensando alla sorte di Renzi (è stato il premier, bisogna ricordarlo, a cercare di personalizzare il voto). Qui è in gioco soltanto la Costituzione che è molto più del destino politico di Renzi, della sorte di un partito o di una coalizione.

La Costituzione è il destino di tutti noi cittadini.

Le premesse

Non voterò mai “sì” a una Riforma dove sta scritto nero su bianco che i cittadini non sono tutti uguali. Anzi, che io valgo meno di un altoatesino o un valdostano (che magari non si sentono nemmeno italiani).

Nel nuovo senato infatti la Val d’Aosta che ha 150mila abitanti avrà due senatori. Esattamente come Liguria, Marche, Umbria, regioni che di abitanti ne hanno anche un milione e mezzo. E’ pura matematica: i valdostani hanno un senatore ogni 75mila abitanti. Liguri, marchigiani ecc hanno un senatore ogni 750mila abitanti.

Cioè per la Costituzione un ligure vale un decimo di un valdostano. Basterebbe questo per farmi votare “no”.

Ma c’è molto altro.

Il metodo


Il Governo che rappresenta il potere Esecutivo, non dovrebbe occuparsi della Costituzione (massimo atto del potere Legislativo). Quando nacque la nostra Costituzione del 1948 l’allora premier Alcide De Gasperi partecipò soltanto una volta ai lavori della Costituente. L’attuale Riforma invece nasce addirittura per iniziativa del Governo.

La Costituzione del 1948 rappresentava l’unità del Paese. Quella di oggi la divisione.

La Riforma è stata portata avanti da un Parlamento e un Governo eletti con una legge bocciata dalla Corte Costituzionale. Non solo: si tratta di un Governo guidato da un premier non eletto. E soprattutto di una maggioranza opposta a quella votata dagli italiani nel 2013.

L’approvazione del testo della Riforma è frutto di forzature che di fatto hanno messo a tacere l’opposizione. Alcuni articoli sono stati “liquidati” in un paio d’ore. Un regolamento condominiale richiede più tempo.

I padri costituenti del 1948 – vedi il tanto citato Calamandrei – sono stati sostituiti da figure come Denis Verdini.

Non è vero che “ce lo chiede l’Europa” (e comunque la Costituzione è nostra, e non dell’Europa, degli Stati Uniti o di Jp Morgan). L’Europa vorrebbe piuttosto che l’Italia sconfiggesse la corruzione con norme più severe, che estirpasse la piaga delle mafie o quella dell’evasione fiscale.

Il contenuto

La Riforma cancella il bicameralismo perfetto, ma non il Senato. Proprio come le Province che continuano a esistere.

Il Senato non sarà più elettivo. Siamo sempre meno cittadini. Prima ci hanno tolto il voto per i consiglieri provinciali, adesso anche per i senatori.

In Senato siederanno sindaci e consiglieri regionali che hanno già compiti di grande impegno e responsabilità. Impossibile svolgere contemporaneamente in modo adeguato le due funzioni.

Grazie alla Riforma sindaci e consiglieri regionali – ricordiamo i tanti scandali che hanno toccato le nostre regioni? – godranno di immunità.

Non è vero che la Riforma semplifica, è vero anzi il contrario. Il nuovo articolo 70 (oltre 400 parole invece di 9) prevede fino a tredici iter diversi per l’approvazione delle leggi.

Non è vero che il bicameralismo perfetto paralizza il Parlamento: ogni anno in Italia si approvano più leggi che negli altri paesi europei.

Non è vero che le leggi restano bloccate tra Camera e Senato: su 240 leggi approvate in un anno ben 180 sono passato in prima lettura. Cioè dopo un solo passaggio.

E’ un bene che alcune leggi particolarmente delicate abbiano due letture.
Già adesso ci sono leggi che – purtroppo – sono state approvate con la massima velocità: vedi la legge Fornero (16 giorni). Se i partiti lo vogliono, le leggi procedono spedite.

La “vecchia” Costituzione non è la causa della scarsa governabilità italiana. Soltanto sette governi nella storia repubblicana sono caduti per un voto contrario in Parlamento. Gli altri hanno dovuto soccombere a causa della crisi dei rapporti tra i partiti che li sostenevano.

La Riforma, dice Renzi, taglierà i costi della politica di 500 milioni. Secondo la Ragioneria dello Stato, invece, non arriviamo a 60. Il solo referendum ne costa 300, cinque volte tanto. E comunque sarebbe bastata una legge per ottenere gli stessi risparmi. Non serviva modificare la Costituzione.

E’ giusto tagliare i costi della politica, diverso – e sbagliato – è ridurre i costi della democrazia. Che garantiscono a tutti noi di essere rappresentati e tutelati. Di avere voce e non essere dimenticati.

La Riforma non solo depotenzia il Senato. Ma rende in parte la Camera suddita del Governo che potrà indicare quali provvedimenti dell’Esecutivo dovranno essere oggetto di lettura con tempi certi. In pratica il Governo potrà dettare l’agenda alla Camera dicendo di cosa occuparsi (e di cosa, conseguentemente, non occuparsi) «Adesso o mai più», dice il ministro Boschi. Niente di più falso. Referendum costituzionali ne abbiamo già fatti altri due negli ultimi quindici anni. Di riforme costituzionali ne abbiamo fatto decine. Nulla vieta di proporne altre – i testi sono già pronti – appena dopo il referendum.

Considerazioni politiche

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Questa riforma è stata sostenuta da un’alleanza improponibile che va da Angelino Alfano a Denis Verdini.
Chi occupa posizioni di potere in Italia, come nelle nostre città, vota spesso “sì”.

Dagli industriali, agli attori che sperano in contratti Rai, passando per tutto quel “sottobosco” che vive di nomine e incarichi pubblici. Viene quindi un dubbio: le riforme dovrebbero garantire rinnovamento e alternanza, dare voce a chi ne ha meno, ma qui paiono tanto care a chi il potere lo ha già. E cerca di conservarlo. Ecco il grande paradosso di questa sedicente riforma che invece conserva.

Insomma, chi vuole cambiare farebbe meglio a votare “no” e a difendere la ‘vecchia’ Costituzione.

Cittadini o prostitute? Sia detto con il massimo rispetto per chi fa una vita tanto difficile e dolorosa. Ma viene un dubbio: sabato Matteo Renzi tornerà per l’ennesima volta a Genova con il paniere carico di promesse e denari. Speriamo che non si illuda di comprare il nostro consenso al referendum con i soldi. La Costituzione e il voto libero non si vendono per quattro denari…

Post scriptum

La vecchia cara Costituzione è stata alla base di grandi conquiste che tanti paesi ci invidiano. Dalla riforma sanitaria al diritto di famiglia. Per non dire della rinascita del Dopoguerra che ha portato l’Italia tra le potenze economiche mondiali.

La Costituzione ha permesso tutto questo. Forse prima di cambiarla bisognerebbe conoscerla e applicarla. E magari cambiare un poco noi stessi.

Se volete votare come persone e non come buoi leggete l'intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli.

Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016 (p.d.)

Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [che è già in vigore - n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.

Nella stessa direzione vanno alcuni aspetti della proposta di riforma costituzionale. Essa è assai complessa, riguardando ben 47 articoli sui 139 della Costituzione (un terzo), e perciò la sua stessa estensione (3000 parole) è di per sé una scelta poco democratica, perché rende difficilissimo al cittadino studiarne ogni aspetto, e praticamente impossibile pronunciarsi consapevolmente con un ‘sì’ o un ‘no ’ (...). Esso assume in tal modo un carattere fiduciario e plebiscitario, che espropria i cittadini della propria individuale ragion critica, e chiede loro di pronunciarsi a favore sulla base degli slogan martellati dal governo.

Una volta assicurata alla Camera dei deputati una maggioranza forte al partito di governo (con la legge elettorale), il Senato viene neutralizzato abolendone l’elettività e trasformandolo in un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali che ne saranno membri part-time. Poco importa che gli Statuti di alcune Regioni vietino espressamente ai loro consiglieri regionali di ricoprire qualsiasi altro incarico pubblico; (...) che il nuovo Senato sia a composizione variabile (i suoi membri scadono uno per uno, via via che decadono dal loro incarico regionale o comunale); che l’intricatissimo art. 70, combinato con altri (art. 55) preveda una moltitudine di interazioni Camera-Senato che, a parere di 11 ex presidenti della Corte costituzionale, porteranno a una paralisi del processo legislativo.

Le complicazioni procedurali (presentate come “semplificazioni”), la moltiplicazione dei percorsi di approvazione delle leggi,i potenziali conflitti di competenza avranno per effetto di rendere arduo e lento il funzionamento del Parlamento, con ciò favorendo di fatto la supremazia del governo e il suo potere.

Non è stato dunque abolito il Senato, ma i suoi elettori (cioè i cittadini).Lo stesso è accaduto a livello territoriale con la cosiddetta abolizione delle Province, che di fatto sopravvivono come circoscrizioni amministrative, quanto meno con la figura del Prefetto, funzionario del governo che continua ad avere in ogni capoluogo di provincia funzioni importanti, anzi accresciute dalla legge Madia (al punto di potersi anche sostituire al parere tecnico dei Soprintendenti in materie delicate come gli illeciti paesaggistici). Anche in questo caso, non è la provincia che è stata abolita, bensì i cittadini della provincia. (...).

Con questi e altri artifizi, la nuova proposta di riforma costituzionale accresce i poteri del governo allontanando gli elettori dalla politica, diminuendo le istanze in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi, riducendo l’autorevolezza del capo dello Stato. Temi, questi, che non risultano in alcun modo dalla scheda approntata per il quesito referendario, che riproduce il titolo, abile perché manipolatorio, della legge di riforma.

Per questo il referendum del 4 dicembre sarà un test importante e rivelatore. Ci mostrerà se sta prevalendo in Italia un’idea di politica come meccanismo chiuso e privilegiato che garantisca la governabilità limitando lo spazio della democrazia;ovvero un’idea di democrazia partecipata, dove moltiplicare e non ridurre le istanze di partecipazione attiva dei cittadini, di espressione del voto, di scelta dei candidati, incrementando e non demolendo la forma-partito con la sua democrazia interna, diffondendo informazioni corrette e non manipolate, puntando sulla coscienza critica dei cittadini e non sulla loro obbedienza.

Un'analisi dei possibili scenari post-referendum attraverso considerazioni pragmatiche e soprattutto meno drammatiche che tendono ad alleggerire la tensione delle ultime battute provenienti dai due fronti .

La Repubblica, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
E se invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci attendono. Sono quattro, come le stagioni.

Ma il loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da trent’anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne incroceremo un altro. Quindi l’alternativa è fra rivoluzione e stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5.

Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate, eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l’introduzione del pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile il referendum.

E adesso? Comunque vada, s’apre una stagione di microriforme. Se vince il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando spazio solo a qualche aggiustamento; d’altronde anche il presidente Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta talune imperfezioni da correggere.

Se vince il No, lo stesso. Ne trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni. Se non altro, eviteremo d’inciampare.

Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il «foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l’accordo siglato all’interno del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre l’esigenza d’approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche l’-I-talicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l’esito del voto popolare, non mutano gli effetti.

Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un’eventuale bocciatura: è un esecutivo, non un’Assemblea costituente. E ha davanti un referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato d’elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale. Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo; altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l’azionista di maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c’è Renzi, oppure un renziano.

Quarto: le elezioni. Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera.

Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.




L'associazione della quale sono presidente uscente, "Altra Europa - laboratorio Venezia" ha organizzato a Venezia (Ateneo Veneto, 12 novembre 2012) una presentazione del libro Costituzione! Perchè attuarla è meglio che cambiarla. Dopo la magistrale illustrazione che ne ha fatto l'autore, che ne ha raccontato la storia come se fosse un trascinante libro giallo, ho spiegato perché AE-laboratorio Venezia ha deciso di mutare focus e formato. Ecco perché crediamo oggi più che mai, che la Politica, con la maiuscola, è necessaria

Per una«libera scuola di libera politica

Come ho dettoall’inizio di questo incontro il nostro Laboratorio è nato, un paio d’anni fa,con l’intenzione di proseguire l’esperienza iniziata con la lista L’altraEuropa con Tsipras, ai cui principi ispiratori siamo fedeli. A conclusione diquesto primo periodo di attività stiamo ripensando al focus e al formato nostroimpegno.

1. La politica

Crediamo di aver individuato il focus della nostra attività nel tema – anzi, nella dimensione - della politica, e la forma della nostra attività nella scuola: una scuola in cui tutti siano al tempo stesso discenti e docenti “Libera scuola di libera politica” potrebbe essere il nostro motto, o il nuovo nome della nostra associazione

Vogliamo parlare e ragionare di politica. Bisognerebbe avere una concezione molto ristretta della politica per pensare che essa abbia a che fare solo con i "partiti", e per di più quelli di oggi, e per di più quelli della "sinistra” di oggi. Per noi la Politica è una dimensione della vita e dell'attività della persona umana che viva nella sua realtà sociale.

Ricordando ciò che ha scritto Lorenzo Milani si può affermare che l'esigenza della nasce in ciascuno di noi quando scopre che il suo problema è quello di molti, e che solo mettendosi insieme si può sperare di affrontarlo.

Il contrario della "politica", secondo lo stesso autore, è l'avarizia: il rinchiudersi nella difesa dei propri individuali interessi: che è ciò che stanno producendo l'ideologia del neoliberalismo - avviato Von Hajek e Milton Friedman, Von Mises, e Walter Lippman -e le sue conseguenze politiche,

2. Politicanti e diffidenti

Non molti condividono la nostra visione della politica.

Alcuni, una parte consistente, lo fanno perché hanno una visione della politica diversa dalla nostra: diversa, e anzi opposta. Vedono la politica come mera tecnica di gestione del potere in vista dell’affermazione e del rafforzamento dell’interesse e del potere proprio o del gruppo, sociale o di classe, cui si appartiene

Altri, e sono forse la maggioranza, lo fanno perché non immaginano, scottati dall’esperienza degli ultimo decenni, che sia possibile praticare un’altra poliica

I primi, i “politici politicanti”, sono i nostri avversari. I secondi, i diffidenti, saranno i nostri alleati, se riusciremo a convincerli che un’altra politica, una buona politica, è possibile.

3. Due eventi: Trump e Bergoglio

Due eventi sono accaduti nelle ultime settimane, che danno entrambe conferme alle nostre scelte. Due eventi di segno diverso: le elezioni negli USA; il discorso di papa Bergoglio sulla politica..

Le elezioni in USA

Ciò che è successo nelle elezioni negli USA ci incalza a muoverci in fretta e conferma la nostra direzione di marcia. Il potenziale di rabbia e di disagio sociale che è nato perfino nelle aree del benessere è tale che, se non trova altri canali, dà peso politico alle forze che esprimono quanto c’è di più reazionario, xenofobo, razzista, maschilista nella società di oggi.

Condividiamo le preoccupazioni che la vittoria di Donand Trump ha provocato. Ma non condividiamo affatto l’opinione di chi vede nell’establishment rappresentato da Hillary Clinton e Barack Obama un efficace contrasto ai Trump del mondo.

Chi ha seguito un po’ la geopolitica degli ultimi decenni ha imparato che sia l’ex segreteria di stato sia l’ex presidente degli USA sono stati, nei fatti se non nelle parole, i prosecutori di una vecchia politica della globalizzazione capitalistica. Non hanno abbandonato l’impiego della guerra come strumento per l’accrescimento del potere, né lo sfruttamento delle risorse altrui, né il saccheggio di quelle del pianeta, e neppure gli strumenti dell’imperialismo culturale.

Credo che si possa dire che, al di là delle parole, Obama è stato di fatto il continuatore della dottrina Truman: “il modello del capitalismo occidentale è l’unico valido, abbiamo il dovere e il diritto di esportarlo e imporlo a tutti i popoli, a tutte le civiltà”.

Come si può pensare che persone e aree politiche cha hanno prodotto i danni e le paure che alimentano la demagogia dei Trump siano idonei a combatterle? Lo ha scritto Barbara Spinelli oggi sul Fatto Quotidiano: «La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali»

Il discorso di papa Bergoglio

Spero che abbiate letto il discorso di papa Bergoglio sulla politica. Un papa che ha proclamato a le parole che la sinistra storica non sa più dire, e la pseudosinistra renziana reprime. Vi consiglio di leggerlo nella versione integrale, su eddyburg, dove lo trovate se digitate :”Popolo, Democrazia e Politica”. Ne riporto alcuni passaggi:

«Non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola ha detto Bergoglio alle “organizzazioni degli esclusi. «Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle.»

Nel sollecitare il popolo a entrare nella politica con la maiuscola ha messo in guardia contro due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.

«Finché vi mantenete nella casella delle ‘politiche sociali’ – ha osservato -, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema.
«Invece quando si osa «mettere in discussione le ‘macrorelazioni’, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste».

4. Da dove partire

Partire dal popolo, partire dai movimenti nei quali si esprime in forma collettiva il rifiuto del disagio nel quale la stragrande maggioranza delle persone vive.

Ha completamente ragione chi individua la possibile matrice di una nuova politica nel fiorire ed espandersi della miriade di luoghi, di aree e di problemi che provoca il nascere di organizzazioni e movimenti piccoli o grandi, che si dissolvono in pochi anni o che durano con una tenacia e una continuità maggiore di tanti governi (voglio ricordare la Val di Susa), che vivono nell’isolamento o che sono capaci di aggregarsi in ampie reti (voglio ricordare quella che unisce il pezzo d’ Italia che va da Mestre a Orte)

Ciò che questo vasto e mutevole mondo esprime non è ancora "politica” in senso pieno, ma rappresenta certamente la base di una possibile alternativa al sistema economico-sociale dominante: diciamolo chiaramente: una alternativa al capitalismo le cui velenose radici si esprimono oggi nella figura del neoliberalismo.

5. Historia magistra

Poiché Historia magistra, ci proponiamo anzitutto di riflettere su qual era la forza antagonista a quel sistema nei secoli passati, e su quale era la radice ideale e sociale della sua forza.

Non per crogiolarci in un’atmosfera nostalgica, ma per comprendere, da ciò che stato, come si può pensare e agire in una direzione che sia giusta e possibile .

Io partirei domandami chi erano gli sfruttati ieri e chi sono gli sfruttati oggi. Altri percorsi sono possibili, ma io credo che è dalla storia che occorre partire, facendo in sostanza l’operazione opposta a quella che fece Margaret Thatcher quando, per sostenere che There Is No Alternatives, cancellò la storia, cioè il vivente deposito delle alternative possibili.

Ci proponiamo, ovviamente, una riflessione che non si limiti a esplorare ciò che esiste nei recinti del cosiddetto Primo mondo (Recinti che oggi gli Usa di Trump e l'Europa della UE vogliano munire di più temibili muraglie), ma si estenda alla vastissima area dove moltitudini di persone sono sfrattate dalle loro terre e cacciate verso sponde lontane.

Penso oggi soprattutto al dramma di quelli, più fortunati di moltissimi altri, che arrivano da noi come “migranti” e da noi vengono respinti con odio e paura.

6. Lo spazio pubblico e Venezia
Perché la riflessione sia possibile, occorre che ci sia lo spazio pubblico nel quale essa possa svolgersi liberamente. “Libera scuola di libera politica”, ha bisogno dello spazio pubblico della democrazia: e di una democrazia più sostanziale di quella che abbiamo conosciuto. Una democrazia simile a quella che hanno immaginato i Padri della nostra costituzione del 1949, che i loro successori non hanno saputo completare. Anche per questo il tema della difesa e del completamento della nostra Costituzione ci sembra oggi essenziale, e anche per questo abbiamo chiesto a Salvatore Settis di parlarcene, a partire dal suo ultimo libro.

Ma noi – e tutto il mondo dei movimenti, delle associazioni, delle persone che vogliono lavorare insieme per contribuire a cambiare il mondo) abbiamo bisogno anche di spazi fisici. A Venezia questo è sempre più difficile

Venezia, e soprattutto la città antica, è diventata una città nella quale ogni aspetto dello spazio è sottratto agli usi di tutti (alla contemplazione e all’incontro, alla cultura praticata all’uso alle attrezzature del welfare) a causa delle due facce della peste del 21° secolo: il turismo sregolato di massa e il turismo di lusso, che occludono da una parte e privatizzano all’altra spazi che per secoli sono stati comuni, entrambi tenacemente agevolati da chi ci governa.

Tant’è che oggi, per trovare una sala in cui riunirci abbiamo dovuto affidarci alla cortesia dell’ Ateneo Veneto, e pagarne le spese, in solido con gli amici di “Campo aperto” e di “Scelgo no”, con i quali abbiamo organizzato questo incontro e che ringraziamo molto anche per questo.

Venezia, 12 novembre 2016

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il manifesto, 25 novembre 2016 (c.m.c.)

Contrordine. La vittoria del No non fa più paura. L’Economist, anzi, si schiera apertamente e non ci va leggero: «Gli italiani dovrebbero votare No. Renzi ha sprecato quasi due ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna a occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa. Il nuovo Senato sarebbe un magnete per la peggiore classe politica.

Ogni eventuale beneficio della riforma è secondario rispetto ai rischi, in cima ai quali c’è quello di un uomo solo eletto al comando. Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico come ha fatto tante volte». De profundis. Che arriva dal prestigioso settimanale britannico dell’Economist Group controllato dalla Exor – la holding degli Agnelli – proprio nel giorno in cui Renzi andava a Cassino a raccogliere l’endorsement di Sergio Marchionne.

La Bce è molto più felpata e tuttavia getta a sua volta acqua sul fuoco. «Non si possono prevedere le conseguenze di una vittoria del No e i rendimenti dei titoli di Stato hanno subito movimenti al rialzo perché i mercati iniziano a valutare il rischio referendum», esordisce il vicepresidente Vitor Constancio. Poi però rassicura: «La Bce è pronta a esercitare un ruolo di stabilizzazione come ha sempre fatto». La rete di protezione è pronta.

La strategia della sdrammatizzazione trova pronto riscontro in Italia, anche all’interno del Fronte del Sì e nel Pd. Aveva iniziato Dario Franceschini, mercoledì scorso, ripetendo che anche se la riforma fosse sconfitta Renzi non dovrebbe affatto dimettersi. Rilancia oggi il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Renzi può continuare a governare sostenuto dal partito. Credo che questa, qualunque sia l’esito del referendum, sia l’ipotesi migliore per il Paese e per la sinistra».

Il pompiere numero uno, però, è Silvio Berlusconi. Ripete che non sarà comunque Forza Italia a chiedere la testa del premier: «Ha la maggioranza, quindi sarà una sua decisione». Il leader azzurro sta facendo quel che aveva da tempo annunciato ai suoi. Dopo aver atteso l’ultimo scorcio di campagna è entrato in campo con la massima determinazione occupando quanti più spazi mediatici possibile e sgombrando il campo da ogni voce su un suo sostegno segreto alla riforma: «E’ pericolosa, apre la strada a una possibile deriva autoritaria». Aggiunge di suo la battuta forse più cattiva di cui sia mai stato fatto oggetto Matteo Renzi: «Ha sbagliato lavoro: come presentatore televisivo io lo avrei preso subito».

Ma se fino al referendum l’ex Cavaliere gioca la stessa partita degli altri sostenitori del No, le cose cambieranno un minuto dopo. Soprattutto, ma non esclusivamente, se la riforma verrà sconfitta. I suoi alleati Salvini e Meloni hanno fretta. Vorrebbero capitalizzare l’eventuale successo subito dopo la modifica della legge elettorale e forse persino prima, anche a costo di votare con un sistema diverso per Camera e Senato.

Il dinamico ottantenne è deciso a federarsi con loro, sostiene di avere già un progetto preciso. Ma sui tempi non se ne parla. Con o senza Renzi premier Berlusconi vuole prendere tempo, modificare la legge elettorale, iniziare a discutere di una riforma costituzionale condivisa. E’ certo di avere nella manica l’asso del Quirinale: «Non credo che il presidente potrebbe mai consentire elezioni con l’Italicum. Ci sarebbe il rischio di ritrovarci Grillo al governo».

L’argomento non è precisamente istituzionale e tanto meno corretto, ma ha il suo peso. Non è l’unico però. Il punto essenziale è che il No alla riforma suonerebbe automaticamente come bocciatura anche della legge elettorale. Per Renzi, che ne ha già promesso la modifica, difenderla sarà impossibile. Sulla carta ci sarebbe il tempo per varare una legge nuova e votare in primavera. Nei fatti è quasi impraticabile e una volta superata l’estate sciogliere le Camere con pochi mesi di anticipo non avrebbe senso. Come l’Economist ha indicato, se vincerà il No è quasi certo che la legislatura arriverà alla sua scadenza naturale.

Una delle tante schifezze per far vincere il SI: «La Commissione chiede alla Procura di Napoli informazioni urgenti sull’incontro a porte chiuse in cui il governatore campano diceva ai sindaci di procurare voti per il Sì».

Il manifesto, 24 novembre 2016

L’opposizione ha imposto l’inversione dell’ordine dei lavori così ieri alle nove di sera la commissione Bilancio si è ritrovata a discutere dell’emendamento proposto dal Pd che dovrebbe consentire al governatore campano Vincenzo De Luca di assumere il ruolo di commissario alla Sanità. La nuova formulazione, proposta dal relatore dem Guerra, consente ai presidenti di regione di fare i commissari a patto che ogni 6 mesi si verifichi che l’operato sia conforme ai piani di rientro e che la performance sui livelli essenziali sia positiva. La relazione dovrà essere inviata ai ministri della Salute e dell’Economia e trasmessa al consiglio dei ministri che, eventualmente, potrà revocare la nomina. I 5 Stelle attaccano: «E’ una marchetta, chiediamo il ritiro». E persino per il moderato Bruno Tabacci è «un errore sul piano politico».

«L’emendamento ’di scambio’ tra Renzi e De Luca è l’ennesimo capitolo dei reciproci favori, al centro la sanità campana – attaccano i 5S -. De Luca ha nominato per chiamata diretta i dirigenti delle Asl, in barba alla Delega Madia, grazie a una norma regionale ad hoc. Palazzo Chigi avrebbe potuto impugnarla ma non alzò un dito». L’emendamento è stato inserito nella legge di Stabilità su spinta del governatore e per volontà di Renzi. E De Luca è tra i più attivi nella campagna per il Sì al referendum.

Ieri i pentastellati hanno depositato in tribunale a Napoli un esposto contro il governatore, la denuncia si basa sull’audio (pubblicato da Il fatto) della riunione in cui De Luca invitava 300 sindaci a procurare voti per il referendum: «Audio in cui esalta il sistema clientelare». Il sonoro non è stato però acquisito dalla commissione Antimafia (come avevano chiesto Gal, Fi, Lega, Si, M5S) perché Pd e Ncd si sono opposti. Il governatore non dovrà neppure presentarsi in commissione. Ma la presidente Rosy Bindi chiederà informazioni alla procura di Napoli: «La Commissione, all’unanimità, mi ha incaricato di richiedere preventivamente informazioni urgenti in merito a eventuali indagini in corso, agli atti e ai documenti acquisiti e alla posizione dei soggetti coinvolti, per verificare i presupposti per l’avvio di una inchiesta da parte della nostra Commissione, che naturalmente sono legati al tema mafia. Abbiamo sempre agito così per avviare le nostre inchieste e useremo lo stesso metodo», ha spiegato Bindi. Ma se ne potrà discutere solo dopo il 4 dicembre. «Si può minacciare di morte la presidente dell’Antimafia, incitare al voto clientelare, far assurgere a modello il sindaco di Agropoli e poi fare finta di nulla. Questi sono i nuovi padri costituenti» avevano commentato i 5S all’indirizzo del Pd. La replica era arrivata dal dem Franco Mirabelli: «Non c’è nessuna inchiesta dell’Antimafia su De Luca. Evidente il tentativo di strumentalizzare la vicenda in vista del referendum». E’ stata poi Bindi a precisare.

Anche il ministro Alfano ha difeso il governatore durante il question time alla camera: «La spesa pubblica è sottoposta a rigido controllo. Il giudizio politico e morale non spetta a me ma durante le campagne elettorali agli amministratori si dice ’noi ci impegniamo a favorire il tuo territorio’». Per Si e 5S è un endorsement al «metodo De Luca». Il governatore si è divertito su Fb: «Clamoroso episodio di “voto di scambio” a Pozzuoli: al porto un pescatore ha offerto un merluzzo al presidente De Luca. De Luca si è impegnato a conservare la lisca e a inviarla come corpo del reato a Luigino Di Maio». Ieri però dalla regione è arrivata anche una nota ufficiale: «Apprendiamo della richiesta avanzata dalla Commissione Antimafia. Ci rende curiosi conoscere l’iter per il reato di battuta. Vediamo anche la discussione sull’emendamento “De Luca”. E’ volto a rimuovere una situazione assurda, fino a un anno fa erano commissari per la Sanità i presidenti che avevano determinato il debito, mentre non possono esserlo coloro che lo stanno risanando». Alla riunione con i 300 sindaci De Luca disse: «Il comparto della sanità: qui il 25% è dei privati, migliaia di persone. Io credo, per come ci siamo comportati, che possiamo permetterci di chiedere a ognuno di loro di fare una riunione con i propri dipendenti e di portarli a votare» al referendum.

«Questo testo è l’intervento inviato all’Anpi di Perugia. Ai più giovani ricordiamo che Aldo Tortorella è stato uno dei dirigenti del PCI più vicini a Enrico Berlinguer. Una breve scheda biografica del partigiano Aldo Tortorella la trovate sul sito dell’ANPI».

Rifondazione,online 24 novembre 2016 (c.m.c.)

Care compagne e cari compagni, un malanno invernale, complice l’età, mi impedisce di essere oggi con voi come avrei desiderato per dirvi innanzitutto tutta la mia indignazione per il modo con cui si viene svolgendo questa campagna referendaria da parte di coloro che oggi hanno il governo del Paese.

Trovo scandaloso che i pubblici poteri siano impegnati ad alimentare con ogni mezzo compresi quelli meno leciti una campagna di disinformazione e di falsità. La televisione in ogni ora del giorno e della notte è occupata da questo presidente del consiglio il quale con tutti i problemi che ci sono non ha altro da fare che saltare da un programma all’altro o da un palco all’altro palco a far la sua propaganda e a propagandare se stesso. Più che un uomo di governo abbiamo un attore televisivo, oltre che uno studente bocciato dal suo professore di diritto costituzionale.

Dire che il maggiore problema della repubblica è la presunta lentezza legislativa dovuta al bicameralismo è una favola. In Italia si fanno anche troppe leggi e il guaio è che spesso sono leggi sbagliate. E molte leggi sbagliate sono state e vengono approvate anche troppo rapidamente come è accaduto e accade alle leggi governative definite decreti d’urgenza. Il primato spetta alla sciagurata legge Fornero sulle pensioni approvata in 16 giorni. Tutti i decreti-legge di questo governo sono passati in meno di 44 giorni. Il presidente del consiglio dunque mente sapendo di mentire quando dice che vuole questo stravolgimento della Costituzione per fare presto. Ha fatto anche troppo presto con molte misure dannose per i lavoratori e per il paese.

Sono le leggi di iniziativa parlamentare ad andare lentamente ma il motivo sta non nel bicameralismo ma nelle liti interne alle maggioranze. Un esempio: la legge anticorruzione d’iniziativa parlamentare ha impiegato 798 giorni per essere approvata e cioè due anni e due mesi e si capisce perché: non andava mai abbastanza bene a questo o a quel gruppo di maggioranza. Due anni e due mesi per annacquarla e sciacquarla fino a renderla la più innocua possibile.

La verità è che si vuole una Camera che conti eletta con sistema ultramaggioritario per dare più potere al governo di imporre la propria volontà sopra e contro la rappresentanza popolare. Questa contro riforma della Costituzione stabilisce che il governo ha la priorità su tutte le leggi del suo programma e non più solo sui decreti d’urgenza e ha il potere di fissare il tempo massimo di discussione, 70 giorni. Con questo sistema inaudito in qualsiasi regime liberal-democratico il governo diventerebbe il padrone della rappresentanza parlamentare a sua volta truccata. Già oggi la Camera è eletta con un sistema maggioritario, quello del porcellum, che ha dato la maggioranza assoluta alla coalizione di centro sinistra arrivata di poco avanti alla destra. E la nuova legge elettorale già in vigore è ancora peggio, anche se ora si sono accorti che può essere disastrosa.

Dopo avere giurato sulla sua bontà e averla imposta con tre voti di fiducia ora dicono di volerla cambiare, ma senza toccare il maggioritario. Per difendere la loro controriforma , dicono anche il Pci alla costituente era per una sola camera. Certo, ma con il parlamento “specchio del Paese” e cioè con la legge elettorale proporzionale. E poi il Pci accettò il bicameralismo perché intese che era una garanzia in più nel duro periodo che si veniva aprendo con la rottura dell’unità antifascista e con la guerra fredda iniziata proprio nel 1947, mentre si lavorava alla Costituzione. E comunque, secondo il Pci, il Senato doveva essere eletto dal popolo.

Dunque il presidente del consiglio imbroglia sapendo di imbrogliare quando dice che non ha toccato i poteri del presidente del consiglio. Non li ha toccati perché ha toccato e esaltato il potere del governo e dunque del capo partito che lo guiderà. Già oggi lui governa come espressione di una minoranza del 29 per cento dei voti contro le opposizione che rappresentano il doppio. E con la sua controriforma, domani, un capo partito che può essere un qualsiasi seguace nostrano di Trump o di Le Pen o qualche altro avventuriero può ancor più di lui spadroneggiare l’Italia.

Con le mani di un partito formalmente di centro sinistra si prepara la via al peggio, come successe negli anni 20 del ‘900 al Parlamento della Repubblica democratica di Weimar nata dal crollo dell’impero tedesco seguìto alla prima guerra mondiale. Essendoci molti disordini di piazza, il Parlamento democratico tedesco stabilì che in caso di stato d’eccezione le garanzie costituzionali potevano essere sospese. La coalizione nazista vinse le elezioni, decretò lo stato d’eccezione e iniziò la propria criminale avventura. Diceva un proverbio antico che Dio fa impazzire coloro che vuol perdere. In questo caso, però, la colpa non è di Dio, ma di chi dà ascolto a questi scriteriati saltimbanchi del potere per il potere o a quelli che usano i soldi per il potere e il potere per i soldi.

E non è meno scandaloso dire che si sopprime il Senato, quando non lo si sopprime affatto ma lo si ridicolizza trasformandolo in una Camera di consiglieri regionali e sindaci a tempo perso, in più gravandolo di compiti cosi confusi che i costituzionalisti prevedono forieri di guai. Si dice che così si vuole dar voce ai territori: ma nello stesso tempo si stabilisce che lo stato di guerra adesso sarà deciso dall’unica Camera , cioè da un partito minoritario e dal suo capo. Si vede che in caso di guerra i territori non devono aver niente da dire.

Si sparano cifre assurde di risparmi inesistenti, smentiti dalla ragioneria generale dello stato. Si conduce una campagna qualunquista contro quelli che non vogliono perdere le poltrone, ma io che vi scrivo adesso non ho alcuna poltrona da perdere o da conquistare. Ho solo avuto da conquistare qualche malanno aggirandomi per l’Italia a testimoniare contro questa bruttura, perché penso a chi la Costituzione l’ha conquistata e ci ha lasciato la vita o a chi ha speso tutta l’esistenza a difenderla e ora non può più farlo.

I guai dell’Italia non dipendono dalla Costituzione. Con questa Costituzione abbiamo ricostruito l’Italia garantendone, nel bene e nel male, lo sviluppo, abbiamo conquistato diritti sociali e civili. I guai dell’Italia dipendono piuttosto dal fatto che il programma costituzionale è stato sempre combattuto e in larga misura è rimasto inapplicato. Per cinquant’anni l’Italia è stata una democrazia dimezzata dalla convenzione imposta dall’estero per escludere il più forte partito d’opposizione dal governo, anche quando nessun governo si poteva fare senza i suoi voti. Ma l’obiettivo vero era un altro, era proprio quella Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro e va oltre la eguaglianza formale, pur indispensabile, impegnando lo Stato a rimuovere “gli ostacoli economici e sociali” che limitano di fatto libertà ed eguaglianza, e così statuendo il principio dell’uguaglianza sostanziale.

Di qui viene l’affermazione del lavoro non più come una merce, ma come un diritto da garantire, viene il criterio della retribuzione da adeguare in ogni caso ad una vita libera e dignitosa, viene la indicazione del compito sociale, cioè non egoistico, della stessa proprietà privata. Ecco lo scandalo: questa Costituzione esalta il lavoro e non il capitale. E ciò avvenne perché i costituenti, pur divisi da differenti visioni politiche, venivano in grande maggioranza dalla lotta antifascista e sapevano che il fascismo era stato una creatura incoraggiata, promossa e sostenuta innanzitutto dal capitale finanziario, industriale e agrario.

Fin dai primi anni questa Costituzione fu definita “una trappola” da parte delle forze più conservatrici. E la storia dei primi cinquant’anni di vita repubblicana è segnata, come in nessun altro paese occidentale, da una ininterrotta scia di eversione e di sangue per spiantare questa possibile nuova democrazia: dallo stragismo nero al terrorismo detto rosso che con l’assassinio di Moro compì il capolavoro di portare a compimento il proposito della destra con le mani di supposti rivoluzionari di sinistra. Con quel delitto cadeva il tentativo estremo di Berlinguer e di Moro di dare compiutezza alla democrazia italiana e iniziava il declino.

Ci raccontarono un quarto di secolo fa che il sistema elettorale maggioritario avrebbe dato stabilità, risolto problemi annosi, eliminato i piccoli partiti. Ma i fatti sono stati un ventennio di berlusconismo e l’aggravamento di tutti i problemi, dal debito alla disoccupazione. E mai ci sono stati tanti partiti in Parlamento e così pochi militanti fuori, mai c’è stato un tale trasformismo tra deputati e senatori. Ora c’è l’attacco finale alla Costituzione perché, dicono, offre troppe garanzie. E dicono che si smantella la seconda parte della costituzione ma si salvano i principi della prima parte. Ma questo è un discorso per allocchi.

La seconda parte della Costituzione è l’applicazione della prima. La sovranità popolare si restringe ancora di più con l’accentramento del potere, i principi sociali già calpestati diventano sempre più carta straccia. Ma ci dicono che anche la destra dice di votare no. Certo. E noi facemmo la lotta di liberazione antinazista e antifascista anche con i monarchici. La Costituzione è di tutti, non proprietà di partito. E si dovrebbe essere lieti che proprio quelli della destra che hanno sempre attaccato la Costituzione oggi sono costretti a difenderla perché ne riconoscono finalmente il valore anche per loro, ora che si sentono in minoranza. E c’è piuttosto da temere che dicano di votare no, ma pensino e facciano il contrario, seguendo i Verdini e gli Alfano.

All’origine della stretta autoritaria, voluta non solo in Italia dai ceti più retrivi, sta il fatto che non si riesce a uscire dalla crisi: dalla lunga crisi iniziata dopo gli anni settanta e da quella che rischiava di essere catastrofica iniziata nel 2007. La vittoria globale del capitalismo non ha portato a spegnere i suoi problemi, ma a complicarli.

La globalizzazione crea nuovi squilibri e nuovamente torna la tendenza, come dopo la crisi del 29, alle chiusure nazionaliste, allo sciovinismo, alle guerre. Allora fu la Germania a imboccare la via della razza eletta, adesso il razzismo, per ora a fini interni, ha vinto negli Usa. Alle porte dell’Italia, oltre il mare, c’è la guerra generata dalla ripresa di velleità egemoniche dei paesi nostri alleati nelle terre del petrolio. Centinaia di migliaia di morti, milioni di disperati e di profughi. Ecco il motivo della stretta istituzionale, ecco il pericolo.

Il mio cammino personale è al termine, e dunque non ho nulla da temere ma temo per questi giovani di oggi. Altro che lavoro come diritto, salario dignitoso, istruzione elevata. E il rischio, in tanta frustrazione, è la possibilità che vengano cacciati in nuove avventure. Ho negli occhi le manifestazioni giovanili per la guerra in Germania e in Italia nel 39 e nel 40, pagate poi con la catastrofe loro e di tutti. Le organizzavano i fascisti, ma trascinavano i molti. E non credo eccessivo l’allarme quando al fanatismo della setta dell’ISIS si risponde con il fanatismo antimusulmano nelle manifestazioni con Trump. O con il fanatismo antiimmigrati di certi ceffi nostrani o di quel paesino di una terra che fu rossa.

Sono solo i sintomi piccoli e grandi di una malattia che si aggrava. Mai come oggi è necessario il massimo di garanzie. Salvare la Costituzione è indispensabile, anche se non basta. Si dice che chi difende la Costituzione è un passatista. E lo dicono questi nuovisti che hanno combinato solo guai. L’attacco alla Costituzione è in realtà una volontà di ritorno al passato, quando chi comandava era sicuro di non essere disturbato. Oggi dire di no è il migliore modo di dire di sì all’avvenire, è l’unico modo di tenere aperta le porte alla speranza.

«La legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili, ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO con palese violazione sia della sovranità popolare e sia della libertà di voto ».

coordinamento democraziacostituzionale,online 22 novembre 2016 (c.m.c.)

I sottoscritti avvocati del Foro di Pisa, con riferimento alla riforma della Carta costituzionale approvata dal Parlamento, al di là dei loro diversi orientamenti culturali e politici, ritengono loro dovere civico spiegare ai cittadini i motivi per i quali intendono votare NO al referendum indetto per il 4 dicembre 2016, nella comune consapevolezza della funzione pubblica e sociale della professione forense.

In primo luogo ritengono che la cosiddetta “Riforma Boschi” approvata a stretta maggioranza ed utilizzando tutti i possibili ed immaginabili espedienti regolamentari è stata decisa da un Parlamento sul quale gravano pesanti dubbi di legittimazione, a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014 con cui è stata cassata la legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) in base alla quale era stato eletto.

In secondo luogo perché la legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili., ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO a prescindere dalle diverse materie trattate, con palese violazione sia della sovranità popolare (art. 1 Cost.) e sia della libertà di voto (art. 48 Cost.).

Inoltre la riforma è frutto di un’ iniziativa governativa e non parlamentare come avrebbe dovuto essere nello spirito del nostro sistema costituzionale (non dimentichiamo che Calamandrei disse che quando si approva la Costituzione i banchi del governo avrebbero dovuto essere vuoti) giacchè la Costituzione rappresenta la legge fondamentale della Repubblica che non può ridursi ad un atto di parte, atto tra l’ altro non previsto dal programma con il quale coloro che lo hanno votato si erano presentati alle elezioni.

Siffatta tecnica legislativa ha di fatto svilito la approvazione della riforma della Costituzione al livello dell’iter di una legge ordinaria, dove sono prevalsi interessi di parte ed un indegno mercato finalizzato ad ottenere risicate maggioranze, con la conseguente esistenza di strafalcioni letterali e giuridici che ne rendono il testo di difficile e controversa lettura anche per i tecnici del diritto.

La riforma, nel merito, viola il diritto all’ elettorato attivo come forma dell’ esercizio della sovranità popolare (art. 1 comma 2 Cost.) giacchè il Senato non è espressione di elezione diretta, ma frutto di un’ elezione di secondo grado e/o indiretta (e neppure per tutti i suoi componenti).

L’ iter di approvazione delle leggi, contrariamente a quanto viene ripetuto, non comporta alcuna semplificazione dei procedimenti legislativi, che passano dai tre attuali ad un numero imprecisato, con evidente rischio non già di accelerare, come vorrebbero far credere i sostenitori del SI, ma di complicare la tempistica dei provvedimenti.

Altri punti che fanno sì che la riforma appaia peggiorativa della carta costituzionale sono, sinteti- camente, i seguenti:

1. Inspiegabile allargamento ai senatori-sindaci e/o consiglieri regionali della immunità parlamentare, che si estenderebbe anche alla loro prevalente funzione di amministratori locali.

2. La violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza a fronte della sproporzione tra il numero dei deputati (630) e quella dei senatori (95).

3. La confusionaria attribuzione di competenze legislative dalle regioni ordinarie allo Stato per una cinquantina di materie con rischio perenne di conflitto di attribuzioni e con la cer- tezza che verrà sottratto alle popolazioni interessate ogni possibilità di giudizio su scelte determinanti la qualità dell’ ambiente in cui vivono.

4. L’ aumentata disparità tra le regioni ordinarie, le cui attribuzioni vengono ridotte, e le regio- ni a statuto speciale che mantengono le attuali funzioni.

5. L’ inspiegabile ed illogico riparto del numero dei senatori in riferimento alle singole regioni.

6. L’ aumento da 50.000 a 150.000 firme per l’ iniziativa legislativa popolare e la contraddittoria presenza di due forme di referendum abrogativo in base al numero delle firme raccolte con la trasparente mira di seppellire definitivamente ogni forma di partecipazione attiva dei cittadini al processo legislativo.

Infine il potenziale effetto esplosivo tra la riforma costituzionale così come è proposta e l’ attuale legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che potrebbe portare una forza politica ampiamente minoritaria nel paese ad ottenere una schiacciante maggioranza in parlamento, parlamento che sarebbe composto prevalentemente da nominati dal capo partito della forza politica che vince il ballottaggio a prescindere dall’ entità del suo reale consenso elettorale.

Su queste questioni e quindi sul rischio che comporterebbe per le nostre istituzioni l’approvazi one della “riforma Boschi-Verdini” si sono già espressi i maggiori costituzionalisti italiani, l’ ANPI e la CGIL.

Tutti coloro che hanno esaminato con attenzione la legge costituzionale ed insieme ad essa la legge elettorale, strettamente collegata alla prima, hanno convenuto che essa porterebbe ad un restringimento dei meccanismi di democrazia, se non addirittura ad una decisa svolta autoritaria.

I sottoscritti rivolgono quindi ai colleghi un caloroso appello perché prevalga lo spirito della Costituzione vigente senza cedere alle lusinghe di chi millanta pretesi stimoli di modernità e governabilità, senza preoccuparsi dei danni che la riforma potrebbe provocare al nostro ordinamento democratico, patrimonio di tutti noi e che tutti noi abbiamo il dovere di difendere.

Claudio Bolelli
Stefania Mezzetti
Roberto Vallesi
Christian Piras
Daniela Parrini
Giulio Giraudo
Sandro Pardossi
Tiziano Checcoli
Michela Simoncini
Gina Russo Amabile
Chiarini Massimo
Mosca Alessandro Zarrae
Guido Bolelli
Ezio Menzione
Francesco Guardavaccaro
Michele Teti
Michele Cioni
Ornella Aglioti
Clara Fanelli
Sergio Coco
Andrea Callaioli
Anna Russo
Valentina De Giorgi Cristina Piolimeno Lionello Mazzoni
Luca Canapicchi
Chiara Persichetti

Ecco alcuni degli strumenti che una volpe con denti di lupo sta adoperando per consolidare il potere carpito. Ma si dovrebbe parlare anche delle intimidazioni, dei ricatti, e dei silenzi omertosi. Nonché del capo dello Stato.

il manifesto, 24 novembre 2016

Davvero vincesse il no, la prova referendaria avrebbe del clamoroso: la sconfitta dell’uomo solo al (tele) comando. Un popolo che non si lascia incantare dai simboli del potere smentirebbe taluni assiomi sugli effetti narcotizzanti dei media. La testa delle persone rimane pur sempre la cosa più inespugnabile per le agenzie del potere che dispongono di media, denaro, indirizzi privati.

Lo schieramento dei media, messo in campo dal governo per orientare l’esito del referendum, è impressionante. Le distorsioni cognitive ricercate dai canali dell’informazione sono palesi ed evocano consuetudini manipolatorie d’altri tempi.

La confezione dei telegiornali obbedisce ad una precisa strategia di persuasione per la determinazione delle preferenze di voto. Nelle reti pubbliche si raggiunge un livello pervasivo di propaganda a favore del capo di governo (l’unico che è ripreso mentre parla ad un pubblico che plaude) e di annebbiamento delle altre posizioni in campo (quasi mai associate a manifestazioni con gente in carne ed ossa). L’uso manipolatorio dei media rientra nel clima di un plebiscito che accarezza la maggioranza silenziosa disponibile all’acclamazione.

Nelle reti pubbliche senza alcuna garanzia di contraddittorio, Renzi monopolizza qualsiasi spazio dell’informazione per cercare una estrema resistenza al potere.

I servizi dei telegiornali riprendono il capo solitario che parla, gesticola, imita, insulta. E per un tempo illimitato è lui solo che recita e occupa la scena di qualche teatro tramutato in un non-luogo che ovunque mostra le stesse scatole. All’esibizione del leader, riprodotta in video per interminabili secondi, segue un minestrone, con un infinito collage di citazioni spesso banali dei nemici. Lo schema è ben collaudato: la prima notizia è sempre il capo che, nella sua ubiquità, si propone come simbolo di vivente energia, contro tutti gli altri, richiamati solo in un secondo tempo con l’assemblaggio pigro di anonime veline.

Non è casuale questo impianto scenografico che si ripete ossessivamente grazie alle telecamere amiche che seguono ogni spostamento del premier e possono farlo solo mescolando con astuzia funzione politica e carica di governo. L’accozzaglia, di cui parla Renzi, non è più un concetto astratto, un mero simbolo polemico. Diventa una immagine tangibile e viene mostrata nella sua concretezza dal servizio della Rai che obbedisce a una logica. Solo il capo parla con la sua voce, gestisce i tempi del suo intervento, gli altri che si oppongono sono rumori di fondo riprodotti in un minestrone, spesso insignificanti.

Renzi monopolizza l’intero tempo del si, mentre il minutaggio del no è distribuito in una miriade di voci che vengono ad arte moltiplicate perché così suscitano confusione, eccentricità. E spesso nel calderone delle altre posizioni compare anche Alfano, con il suo sì che inopinatamente si trova ospitato nel calderone dedicato al no. Dietro questa scelta confusionaria risiede una strategia ponderata.

Il capo, con la voce autonoma che si esibisce ovunque, e il coro di voci anonime che fanno da contorno: questo è lo schema. Se a vincere la contesa sarà proprio l’anonimo no, con il coro degli insignificanti attori non protagonisti, a dicembre si realizzerà un miracolo politico. Cioè si avrà una di quelle inattese prove di resistenza popolare al conformismo del potere destinata a fare epoca negli studi di comunicazione. Gli osservatori internazionali non dovrebbero perdere l’occasione di sorvegliare in presa diretta come in una democrazia squilibrata si prova la costruzione di un regime personale.

Così no”di Tomaso Montanari, eBook liberamente scaricabile dal sito di Libertà e Giustizia». Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2016 (p.d.)

L’articolo 117 riscritto dalla ‘riforma’ Napolitano-Renzi-Boschi riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale”.

Una recente sentenza del Tribunale permanente per i Diritti dei Popoli (una gloriosa istituzione fondata da Lelio Basso, uno dei più insigni Padri costituenti) ha stabilito che in Val di Susa i governi italiani si sono comportati come una potenza di occupazione, militarizzando un territorio cui si voleva (e si vuole) imporre una grande opera strategica di interesse nazionale (proprio come quelle che il nuovo articolo 117 riserva allo Stato). Ebbene, quella sentenza “raccomanda al governo italiano di rivedere la legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio”. Mail governo italiano, con questa riforma costituzionale, va in direzione diametralmente opposta, costituzionalizzando, di fatto, proprio lo Sblocca Italia: se vincesse il Sì le amministrazioni locali non potrebbero più mettere bocca nelle trasformazioni del loro stesso territorio, in una sorta di colonialismo centralista che contraddice tutta la storia delle autonomie locali, che è la spina dorsale della storia culturale e politica italiana. (...).

Uno dei pochi osservatori dotati di sguardo globale e profetico – papa Francesco – ha scritto (nell’enciclica Laudato si’, maggio 2015): “Bisogna abbandonare l’idea di ‘interventi’ sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante”.

Si potrà obiettare che il nuovo Titolo V riserva alla competenza esclusiva dello Stato solo le opere ritenute strategiche: è vero, ma il problema è che sarà il governo a stabilire unilateralmente, e senza possibilità di appello, cosa lo sia. Per esempio: questo governo ha dichiarato di interesse strategico nazionale la realizzazione del nuovo porto turistico di Otranto, nel quale bisognava far entrare le barche di lusso più lunghe di 70 metri care a Flavio Briatore. Siamo, di fatto, alla costituzionalizzazione del cemento (...). Roberto Saviano ha scritto in Gomorra:“La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori.Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana”.Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. In cui per “fare”era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili,e non obiettivi da raggiungere.

Per andare davvero avanti (...) ci vuole una politica che non abbia paura di costruire il consenso dei territori sui quali ritiene di dover intervenire: avocare tutto al centro significa, invece, ridurre, ancora una volta, gli spazi di democrazia e condannarsi a procedere militarizzando il Paese, sul modello della Val di Susa e del suo Tav.

E poi: dove sta davvero l’interesse strategico nazionale? L’Unica grande Opera utile per questo Paese sarebbe la cura del territorio, la sua messa in sicurezza sismica e idrogeologica: una enorme opera che potrebbe creare finalmente lavoro, oltre a proteggere le nostre vite e a far risparmiare le somme da capogiro che dobbiamo destinare alle ricostruzioni. Ebbene, se i padri ricostituenti avessero scritto nel Titolo V che è l’Unica Grande Opera a rappresentare l’interesse strategico della nazione, se ne sarebbe potuto discutere: ma è davvero intollerabile che siano ancora, sempre e solo i porti, le autostrade e gli inceneritori ad avere la precedenza sulla vera qualità della nostra vita. Il 4 dicembre dovremo ricordarci che su quella scheda, di fatto, c’è scritto: ‘Volete voi che le decisioni cruciali per la salute e la sopravvivenza stessa dei vostri corpi siano prese in un luogo remotissimo da quei corpi? Volete voi la ‘Costituzione del cemento’?’.

«Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza»

. La Repubblica, 24 novembre 2016 (c.m.c.)

Non è facile essere, e restare nel tempo, avversari civili nelle competizioni democratiche. E i leader politici, che occupano lo spazio pubblico, contribuiscono a rendere i toni del discorso incandescenti, soprattutto alla fine delle campagne elettorali o referendarie.

In qualche modo, la retorica populista appartiene a tutti i competitori, che usano il linguaggio della contrapposizione per muovere le emozioni dei votanti e conquistare il consenso degli incerti. Se la maggioranza silenziosa è quella che decide le competizioni, ai politici questa sembra una tattica efficace per destare attenzione e muovere le decisioni. E i mass media sono naturali fagocitatori del metodo dei colpi bassi, sempre alla ricerca di audience.

L’escalation dello scontro è quel che sta avvenendo in questi ultimi giorni di propaganda referendaria. Dopo l’accusa di Renzi agli elettori del No di essere una «accozzaglia» (della quale si è scusato, dopo) tocca a Grillo rovesciare addosso ai cittadini intenzionati a votare Sì l’accusa volgare di essere rappresentati da una «scrofa ferita».

L’uso delle espressioni forti serve, non da oggi, a innervosire l’avversario, a indurlo nel vortice del turpiloquio. Cicerone raccontava di campagne elettorali al vetriolo e di comizi urlati con audience inferocite nel foro della repubblica. Nonostante non ci sia nulla di nuovo quando la politica si regge sulla ricerca libera del consenso dei voti, ogni volta che ci troviamo nel mezzo di una campagna elettorale o referendaria non possiamo fare a meno di sentire il disagio e il disgusto per la decadenza del discorso politico in turpiloquio.

E resistiamo, attoniti, al tentativo dei leader di deragliare il treno della competizione fuori dai limiti della decenza. A Grillo dobbiamo dire che il linguaggio che usa non fa un buon servizio a quella che dice essere la sua causa — al contrario, fa un servizio opposto. Perché come chi vota No non è «un’accozzaglia», chi vota Sì non si alimenta nel trogolo di un porcile.
Che cosa hanno a che fare i cittadini con queste non-ragioni per votare così o cosà? Nulla, proprio nulla. Le parole di Grillo offendono l’impegno civico quotidiano dei cittadini che si sono impegnati in questi mesi nelle piazze, ai banchetti, con il volantinaggio e i dibattiti; offendono non solo chi è per le ragioni del Sì ma anche chi è per le ragioni del No.

Sono anzi oltraggiose proprio per questi ultimi, e per una ragione che non è difficile da capire. Infatti, i cittadini che sono schierati per il No contrariamente agli altri non hanno un leader rappresentativo unico. La loro parte è composta da una pluralità di appartenenze politiche e di non appartenenze politiche; in comune hanno l’opposizione a un progetto di riforma. Le ragioni che li muovono non sono necessariamente le stesse. Questo pluralismo rende ancora più insopportabile l’uso del linguaggio di Grillo.

Questa campagna referendaria può essere identificata come quella del nonostante, una delle preposizioni più usate e trasversali: votare Sì “nonostante” Renzi o nonostante una proposta pasticciata; votare No “nonostante” la volgarità antipolitica di Grillo o la xenofobia di Salvini. C’è una ragione in questo uso del “nonostante”, una ragione che è centrale e qualifica la consultazione del prossimo 4 dicembre: il voto riguarda il referendum costituzionale, non è un voto politico nel senso che premia o atterra una maggioranza di governo.

Non è un voto su o contro Renzi e, quindi, non è un voto su o contro Grillo o Salvini. Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza.

Il referendum non si propone di “mandare a casa” il governo, anche se i leader delle forze politiche in campo possono pensare di usarlo a questo scopo. Mai come ora è importante che i cittadini non si facciano derubare della loro funzione primaria — poiché nonostante i leader politici cerchino di farne un plebiscito pro o contro, questo è un referendum costituzionale, una decisione sovrana sull’ordine istituzionale che vogliamo e che, quando i voti saranno contati, si imporrà su tutti noi.

L’Italia nel 2017 spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro (64 milioni al giorno), più di quanto previsto. Quasi un quarto della spesa, 5,6 miliardi (+10 per cento rispetto al 2016) andrà in nuovi armamenti (altri sette F-35, una seconda portaerei, nuovi carri armati ed elicotteri da attacco) pagati in maggioranza dal ministero dello Sviluppo economico, che il prossimo anno destinerà al comparto difesa l’86 per cento dei suoi investimenti a sostegno dell’industria italiana. Nell’ultimo decennio le spese militari italiane sono cresciute del 21 per cento – del 4,3 per cento in valori reali – salendo dall’1,2 all’1,4 per cento del pil.

Mil€x: “Più trasparenza e controllo democratico”


Sono alcune delle anticipazioni del primo rapporto annuale di Mil€x, il neonato Osservatorio sulle spese militari italiane, presentate mercoledì alla Camera dai due promotori del progetto ed esperti in materia, il giornalista (e collaboratore del Fatto) Enrico Piovesana e il ricercatore Francesco Vignarca. Il rapporto integrale sarà pubblicato a gennaio, dopo l’approvazione degli stanziamenti definitivi nella Legge di Bilancio. “Mil€x – spiegano i suoi fondatori – è un’iniziativa indipendente, lanciata con la collaborazione del Movimento Nonviolento di Capitini e finanziata da donazioni private, ispirata a princìpi di neutralità politica e obiettività scientifica. Pur riconoscendo la necessità di mantenere un adeguato livello di prontezza ed efficienza dello strumento militare, è necessaria una maggiore trasparenza e un più attento controllo democratico su questa delicata materia per scongiurare i rischi derivanti da un’eccessiva influenza della lobby militare-industriale, a suo tempo denunciati dal generale e presidente americano Dwight Eisenhower”. Rischi molto concreti nel nostro Paese, stando alle informazioni fornite da Mil€x.

Realtà e propaganda: nessun taglio alle spese militari


Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha dichiarato che negli ultimi dieci anni la difesa ha subito un taglio del 27 per cento e che quindi nuove riduzioni sono impensabili ed è anzi il momento di maggiori investimenti. I dati del bilancio del suo stesso ministero la smentiscono, mostrando un aumento degli stanziamenti dell’11 per cento (con un calo del 4 per cento in termini di valore reale causa inflazione) e un invariato rapporto bilancio Difesa/pil, indice della volontà politica di destinare alla Difesa una quota costante della ricchezza nazionale. Per il 2017 (al netto del mezzo miliardo in più per l’accorpamento della Forestale ai Carabinieri) il budget previsionale provvisorio della Difesa è di 19,8 miliardi, più dei 19,3 previsti nei documenti programmatici governativi dell’anno scorso, cui vanno aggiunte tutte le spese militari che non rientrano nel bilancio del ministero della Difesa.

Le voci “extra-bilancio” della spesa militare italiana


Mil€x ha elaborato una nuova e accurata metodologia di calcolo delle spese militari italiane, togliendo dal conteggio le spese della Difesa per funzioni non militari (Carabinieri in funzione di ordine pubblico e tutela ambientale, considerando solo i Carabinieri in funzione di polizia militare e quelli che partecipano alle missioni militari: -3,5 miliardi) e aggiungendo quelle per le privilegiate pensioni del personale militare a riposo pagate dall’Inps (+1,8 miliardi al netto dei contributi versati dalla Difesa), quelle per le missioni militari all’estero a in patria pagate dal ministero dell’Economia e delle finanze (+1,4 miliardi, compresa l’operazione Strade Sicure il cui costo è salito da 80 a 120 milioni) e soprattutto quelle dei nuovi armamenti pagati dal ministero dello Sviluppo economico (+3,4 miliardi). Il totale diventa così 23,4 miliardi per il 2017 (cifra provvisoria, la definitiva sarà quasi certamente maggiore), pari a 64 milioni di euro al giorno, 2,7 milioni di euro all’ora, 45mila euro al minuto.

Procurement sproporzionato rispetto alle esigenze


Nel 2017 un quarto della spesa militare totale (24 per cento) è destinata all’acquisto di nuovi armamenti: 5,6 miliardi tra Difesa e Mise, +10 per cento rispetto al 2016. Una cifra enorme (15 milioni al giorno) frutto di un procurement distorto da logiche industrial-commerciali (sostegno pubblico alla produzione e promozione dell’export, come nel recente caso dai carri armati Centauro 2 e dei nuovi elicotteri da attacco Mangusta) slegate dalle reali esigenze strategico-operative dello strumento militare. Commesse sproporzionate, giustificate dalla Difesa gonfiando le necessità (come nel caso del numero degli aerei da sostituite con gli F-35 o delle navi da rimpiazzare con le nuove previste dalla Legge Navale), esagerando i benefici economici e occupazionali (come nel caso del programma F-35) e ricorrendo alla retorica del ‘dual use’ militare-civile (come nel caso della nuova portaerei Trieste presentata come nave umanitaria, e delle fregate Fremm 2 presentate come unità per soccorso profughi e tutela ambientale). A proposito del programma F-35, per cui il budget non è stato dimezzato come chiesto dal Parlamento, ma è anzi salito a 13,5 miliardi, Mil€x anticipa che nel 2016 l’Italia ha firmato nuovi contratti riguardanti altri sette aerei (oltre agli otto già acquistati) e che quelli in versione da portaerei per l’Aeronautica formeranno un gruppo di volo imbarcabile sulla Trieste.

».ytali online, 22 novembre 2016 (c.m.c.)

«Che ne pensi del nuovo sindaco?» chiedo al giovane autista che mi conduce attraverso una Valparaíso ancora prigioniera della garúa, la nebbiolina che avvolge le città che si affacciano sul Pacifico. Conferendo un aspetto un po’ spettrale e freddo perfino alla miriade di murales che trasformano il centro cittadino in un museo d’arte a cielo aperto, in attesa di assistere di lì a poco al trionfo del sol matador che infonde calore alle storie multicolori che i muri raccontano.

«Es muy joven y esperamos que lo haga bien». Non ha votato Antonio, che guidando scende con sicurezza dal Cerro Artillería e mi porta al Puro Café in Plaza Victoria, il luogo dove Jorge Sharp Fajardo, sindaco eletto con quasi il 54 per cento dei voti, ma ancora non entrato in carica, ha deciso di incontrarmi. Antonio fa parte di quella maggioranza di cileni che il 23 ottobre non è andata a votare, un 65 per cento che urla la lontananza del paese dalla politica, e che di converso ha permesso l’inaspettata vittoria di Sharp. Il quale, in condizioni di minor astensionismo, forse mai e poi mai avrebbe potuto fare il miracolo.

E portare al governo del secondo centro urbano cileno, la città sede della Marina che per prima mosse contro Allende nell’alba drammatica dell’11 settembre del 1973, una coalizione arcobaleno. Suona e canta le canzoni degli Inti Illimani, il trentunenne Sharp, che si è laureato in diritto nella Pontificia Universidad Católica di Valparaiso. Ma ancor più si è formato nelle lotte studentesche che hanno percorso il paese dal 2006 in poi, di cui è stato un leader indiscusso.

Signor nessuno prima della vittoria alle elezioni municipali, ora se lo contendono giornali e televisioni nazionali. Le sue uscite riempiono i notiziari, e già appare nelle vignette satiriche pubblicate dai giornali cileni. Ha letteralmente seminato il panico tra i suoi concittadini quando ha affermato in televisione che taglierà i fuochi d’artificio di Capodanno. Quegli stessi che Pablo Neruda non mancava mai di seguire da La Sebastiana, la casa che il poeta possedeva in città nel Cerro Bellavista.

Originario di Magallanes, la regione antartica, ha fondato Izquierda Autónoma che ha mandato al parlamento Gabriel Boric e Giorgio Jackson, per poi lasciarla e fondare il Movimiento Autonomista. Proiettando Valparaíso sulla scena nazionale e facendo parlare la stampa del nuovo Pablo Iglesias cileno che è riuscito a mettere assieme il popolo arcobaleno della città ma anche spezzoni di elettorato moderato schifato dai due schieramenti tradizionali.

Eletto sindaco con il contundente compito di provocare una scossa sismica capace di cancellare i dodici anni di Jorge Castro, suo predecessore di destra. Ma anche le ricette di un centro-sinistra sempre più prigioniero delle teorie neo-liberali. Per la sua giovane età, per la sua parlantina fluente, per il suo essere un perfetto animale mediatico, e finalmente per la novità di cui rappresenta la punta di un iceberg che si suppone dormiente nel paese, farà di tutto per rottamare i vecchi canoni della politica ormai estranei al sentire della gente.

Partendo da una città con mille problemi, in primo luogo quello della pulizia urbana, e con in ballo decisioni sull’area portuale che determineranno i prossimi decenni di vita di Valparaíso. E con la concreta possibilità, se saprà risvegliare il gusto della partecipazione nei suoi concittadini, di essere chiamato a giocare un ruolo futuro ben al di là dei confini della città che lo ha eletto.

Simpatico e diretto, arriva all’appuntamento al Puro Café con un quarto d’ora di ritardo accompagnato da Javier, collega del movimento, e quando già sto lentamente rassegnandomi a dover rinunciare all’intervista. Entra, informale e rapido, e senza indugio si dirige sorridendo al mio tavolo apostrofandomi con un “Hola compañero” e mi abbraccia. Quel che segue è la sintesi di quanto ci siamo detti nell’accogliente penombra di un caffè del centro di Valparaíso in una mattina di novembre.

Dalle lotte studentesche alla carica di sindaco della seconda città cilena. Jorge, come te lo spieghi?
Penso sia dovuto a un processo di maturazione che si è vissuto in questi anni a Valparaíso e nel paese e che dimostra come siamo stati capaci di passare dalla mobilitazione e dalla protesta a rappresentare alternativa politica. In questo processo hanno agito differenti movimenti sociali con un ruolo chiave, dal movimento studentesco al quale ho appartenuto come dirigente della federazione, al movimento ambientalista, e in ultimo al più esteso movimento No más AFP (Administradora de fondos de pensiones) che si batte contro il modo in cui il governo paga le pensioni. C’è stata una domanda trasversale per mettere fine alla situazione per cui il sistema pensionistico cileno è in mano al privato, per arrivare a una ripartizione maggiormente solidale. Tutti questi movimenti sociali esprimono un ciclo di mobilitazione di dieci anni nel paese. Io faccio parte di questo processo.

Ma nel successo che ha premiato te e il movimento che ti sostiene, visto che nel resto del Cile la destra ha vinto le amministrative del 23 ottobre, quello di Valparaíso non potrebbe essere un caso isolato?
Hai ragione, la destra ha avuto un successo elettorale ma da almeno dieci anni la sua egemonia è messa in discussione. La capacità di mobilitazione che ha avuto la stampa di destra in questi ultimi anni si è ridotta. Per quanto riguarda la Nueva Mayoría (la coalizione di centro sinistra che ha eletto presidente Michelle Bachelet, ndr) il risultato negativo che ha ottenuto in queste elezioni si spiega con il divorzio e la sua distanza da tutti questi movimenti sociali che hanno proposto un’agenda di cambiamenti. In pratica Nueva Mayoría ha voluto prescindere da tutte queste istanze, e tutte le riforme fatte da Bachelet non hanno voluto coinvolgere i movimenti che le hanno richieste.

All’indomani della tua vittoria, hai affermato che il duopolio tra UDI e Nueva Mayoría è finito. Intendevi dire che è terminato qui in Valparaíso o che tale situazione riguarda l’intero paese? E inoltre, esiste un processo di unificazione a livello di paese che riguardi le forze della sinistra alternativa che possa in qualche modo far intravedere una loro partecipazione alle elezioni presidenziali del prossimo anno?

Effettivamente per quanto riguarda la carica di sindaco in Valparaíso il duopolio è finito. Eravamo abituati da venticinque anni che moros o cristianos, rossi o verdi si alternassero in municipio. Ora invece irrompe una nuova forza politica e sociale che si fa carico della gestione del comune. È interessante analizzare quello che qui è successo nelle alleanze che siamo riusciti a fare, con il risultato che ne è uscito uno schieramento che è ben più ampio e travalica l’area della sinistra. E con adesioni anche da settori socialisti, socialdemocratici e perfino liberali.

Questo è stato il frente amplio che ha permesso il risultato a Valparaíso. È evidente che all’interno di questo schieramento la sinistra mantiene un proprio ruolo, con una visione più critica della trasformazione democratica. In tal modo io credo che questa formula possa essere proposta su scala nazionale anche in previsione del 2017 proponendo un’alleanza che sia davvero ampia. Ma condividendo l’idea matrice di questa alleanza, che è il suo essere differente e distante dai partiti tradizionali.

E credi che questo frente amplio di cui parli possa colloquiare con le parti meno compromesse di Nueva Mayoría?
Io credo che abbiamo bisogno di costruire un nuovo campo politico. Diverso dalla Nueva Mayoría. Penso che oggi come oggi la possibilità di qualche intesa sia assolutamente preclusa. Questo non significa che settori di base di Nueva Mayoría e suoi dirigenti intermedi non possano collaborare. Che è poi quello che è successo a Valparaíso, dove molta gente che votava Nueva Mayoría ha votato per noi. Insomma quello di cui abbiamo bisogno in Cile è un nuova realtà che consegni un nuovo luogo politico dove si possano spingere e realizzare le riforme che ancora non sono state fatte.

Di te la stampa ha parlato come del nuovo Pablo Iglesias cileno. Quanto pesa nella vostra esperienza l’esempio della spagnola Podemos, e come gioca nella vostra pratica politica il pensiero di Antonio Gramsci?
[Scoppia in una risata] Io non mi sento nessun Pablo Iglesias cileno. Credo che quello che dobbiamo fare qui è la via cilena, come la chiamiamo a Valparaíso, la via porteña. Come ha detto José Carlos Mariátegui che già ha postulato una via peruviana al socialismo con caratteristiche proprie, e tenuto conto delle debite differenze, noi dobbiamo costruire questa forma per affrontare il problema politico che abbiamo. Che è quello di costruire una forza politica che proponga un modello di società che non sia neo liberale.

Ci serve guardare alla Spagna? Sì! Ci è utile guardare agli esempi latinoamericani? Sì! Ai cambiamenti in corso nel laburismo inglese? Sì! Ma alla fine della giornata, quello che dobbiamo fare in Cile deve esprimere naturalmente la realtà cilena. L’influenza di Gramsci in Cile è fortissima perché egli ci ha permesso di avvicinarci a una lettura della realtà del paese con molti più strumenti di quello che ci può essere fornito da letture di autori più ortodossi. Io credo che Gramsci abbia una visione inedita, e non a caso ci siamo formati nella lettura dei Quaderni dal carcere, ed è uno strumento molto interessante per sapere come affrontare la nostra realtà.

Parliamo un attimo di Valparaíso. Suppongo che tu sia ben conscio dei problemi che presenta.

Si assolutamente. Partendo da un problema strutturale che è la disuguaglianza. Ci sono donne che non lavorano e non studiano, vecchi abbandonati, giovani che non trovano lavoro, gli stipendi sono bassi, e gli imprenditori sono pieni di code di gente che cerca un impiego. Valparaíso è una città profondamente diseguale che ha una concezione del progresso circoscritta in due o tre mani. Il turista che sbarca dalle crociere o dall’aereo non si rende conto di questo quando visita il Cerro Concepción o il Cerro Alegre. La realtà cittadina è molto diversa da questi due posti. Che hanno comunque i loro problemi.

C’è molta disoccupazione?

Siamo tra i dieci comuni con la più alta percentuale di disoccupazione. È chiaro che la municipalità ha dei poteri molto specifici, ma possiamo lavorare assieme al governo centrale, alla società organizzata e all’università per favorire un modello di città che si faccia carico di questo problema attraverso uno sviluppo che sia rispettoso del patrimonio urbano e dell’ambiente. E che dia impulso alla partecipazione democratica affinché porteños e porteñas siano gli attori protagonisti della forma che deve avere la loro città. È in corso un processo di trasformazione che la via cilena ha imposto e che riguarda le aree portuali. E questo processo si è costruito alle spalle della gente. E sono decisioni di una importanza tale che interesseranno le prossime cinque generazioni di cittadini. Quello che fondamentalmente dobbiamo fare è rendere protagonista la gente.

Valparaíso mi sembra una città sporca.
Valparaíso è una città sporca e con problemi di sicurezza, con poco verde pubblico, mancano medici, gli ambulatori hanno liste di attesa, ai professori non vengono pagati i contributi pensionistici, negli edifici scolastici piove dentro. Ci sono anche funzionari comunali che lavorano in pessime condizioni. Insomma i problemi non mancano.

Tocchiamo un tema più leggero. Ti ho visto eseguire con un discreto successo le canzoni degli Inti Illimani. Continuerai a cantare?
Completamente. Il canto è una parte di me stesso, appartiene a quello che sono. Mi piacciono molto gli Inti Illimani, mi piace molto il tango, Frank Sinatra, i Beatles.

Ti senti un uomo solo al comando o sei in buona compagnia?
Mi sento parte di uno progetto collettivo. Credo che la politica non sia una attività da Don Chisciotte. Non possiamo fare nulla se la gente non sarà protagonista di tutti i processi di cambiamento. Ma lasciami tornare per un attimo alla sfida che abbiamo davanti per quanto riguarda il frente amplio. La sinistra deve avere la capacità di tenere almeno tre cose in considerazione per approfittare di questa finestra di opportunità che esiste in Cile. Generata dal ciclo di mobilitazione che dura da almeno dieci anni che ha messo in discussione l’impianto neo liberale. E dalla delegittimazione della classe politica. In primo luogo deve saper sviluppare un programma di trasformazione democratica.

La sfida che abbiamo davanti è quella di costruire un campo politico che si faccia carico di proporre un modello differente da quello neo liberale. In secondo luogo è molto importante la strategia di alleanze con altri che non la pensano come noi. La sinistra è abituata ad essere d’accordo con se stessa. E in questo può essere utile l’esempio di Valparaíso dove la nostra alleanza va dalla sinistra a settori liberali. Ma con il minimo comune denominatore di essere alternativi al duopolio. Ci sono delle differenze, ma è come fosse una partitura con tonalità differenti.

Terzo?
Terzo ed ultimo punto, non basta semplicemente presentarsi alle elezioni. Dobbiamo essere capaci di costruire una forza sociale organizzata. Dobbiamo essere capaci di passare dal malessere o dalla indignazione alla costituzione di una forza sociale organizzata.

State già parlando a livello nazionale di un progetto politico comune?

Sono in corso delle riunioni, stiamo dialogando con molte forze extra duopolio. Posso dire che in questo momento c’è molto dialogo.

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