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Articoli di Marco Galluzzo, Mariolina Sesto,Carmelo Lopapa, Marco Palombi

, Daniela Preziosi, dal Corriere della sera, il Sole 24 ore, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano online, il manifesto, 5 dicembre 2016 (c.m.c.)

Corriere della sera

IL NO BATTE RENZI
TANTI AL VOTO
«LASCIO PALAZZO CHIGI»
di Marco Galluzzo

«Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno, io sono diverso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola — perché non siamo robot —. Non sono riuscito a portarvi alla vittoria, ho fatto tutto quello che si poteva fare. Credo nella democrazia, quando uno perde non fa finta di nulla e fischietta». Pausa, subito dopo: «Adesso sta all’opposizione fare la proposta sulle regole». La vittoria del No è netta: 59,7% (quando mancano poche sezioni da scrutinare), il Sì al 40,3%.

Poco dopo mezzanotte Matteo Renzi, dopo aver parlato al telefono con Sergio Mattarella, annuncia le sue dimissioni. Parla a braccio, a tratti sembra commuoversi, ma dà l’unica risposta possibile, politicamente, al voto degli italiani: «Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta, a chi ha vinto le mie congratulazioni, a loro vanno oneri e onore per il futuro, per le proposte, a cominciare dalla legge elettorale. Un grande abbraccio a tutti coloro che hanno scommesso sul Sì. Come è evidente fin dal primo giorno l’esperienza del mio governo finisce qui, volevo cancellare altre poltrone, non ce l’ho fatta e quella che salta è la mia». Alla fine del discorso ringrazia «Agnese e i miei figli, per la fatica di questi mille giorni».

Oggi Renzi riunirà il suo ultimo Consiglio dei ministri, poi salirà al Quirinale per le dimissioni. È, per il capo del governo, indubbiamente una sconfitta che brucia, nettissima, più grande di qualsiasi previsione, con un voto che per ampiezza acquisisce subito una fortissima caratura politica. Domani verranno riuniti anche gli organi direttivi del Pd e non è da escludere che Renzi possa lasciare anche la carica di segretario.

Quasi 35 milioni di italiani sono andati a votare, un record di affluenza. La maggior parte di loro, circa sei su dieci, ha bocciato il referendum sulla Costituzione. E insieme a questo ha clamorosamente bocciato anche Renzi e il suo governo, costruendo il peggiore scenario che il presidente del Consiglio potesse aspettarsi. Con una forbice fra il No e il Sì che arriva anche sfiorare i venti punti percentuali: i sondaggi delle scorse settimane avevano previsto la vittoria del No, ma l’avevano sottostimata ampiamente.

Per alcuni mesi il premier e il suo staff hanno detto di contare su un’alta affluenza perché la riforma potesse essere approvata. L’affluenza è stata sorprendente — 68,5% — più alta delle più rosee previsioni, a livelli da elezioni politiche, e il pronostico del premier è stato bocciato. I dati sono ancora più impressionanti se confrontati con i due precedenti referendum costituzionali. A quello del 2001 sulla modifica del Titolo V andò a votare il 34,1% degli elettori, a quello del 2006 sulla devolution il 53,6% (si votava in due giorni).

Hanno vinto tutti coloro che hanno puntato sul tavolo del No: Berlusconi, la minoranza del Pd, Sinistra italiana, la Lega di Salvini, il movimento di Beppe Grillo. Poco dopo le 23, sull’onda dei primi exit poll, la notizia della sconfitta di Renzi è una breaking news in tutti i notiziari del mondo. Stessa cosa per l’annuncio delle sue dimissioni. Le cancellerie internazionali, insieme ai mercati finanziari, auspicavano una vittoria della riforma, nel segno della stabilità politica. Quello che sem-brava uno dei Paesi più stabili della Ue da oggi, dopo la Brexit, con elezioni politiche in Francia e Germania il prossimo anno, aggiunge incertezza al tavolo dell’Unione.

il Sole 24 ore
VINCE IL NO CON IL 60%,
AFFLUENZA RECORD
di Mariolina Sesto

«Partecipazione al voto al 68,48% - In alcune città del Mezzogiorno i voti contrari arrivano fino al 70%»

Una vittoria netta del No, che sfiora il 60% dei voti. E una partecipazione numerosissima degli elettori (intorno al 70%) alla consultazione referendaria. Sta in questi due dati la fotografia del voto di ieri che ha bocciato la riforma costituzionale Renzi-Boschi approvata lo scorso aprile dal Parlamento senza maggioranza assoluta.

I dati dello spoglio, iniziato subito dopo l’apertura dei seggi, non lasciano margini di dubbio. A scrutinio quasi completato (61.523 sezioni su 61.551 per l’Italia e 789 sezioni su 1.618 per l’estero), i voti contrari alla riforma si attestano al 59,56%, confermando i precedenti exit poll e proiezioni.

Ampio lo scarto con il Sì pari a circa 18 punti percentuali. I voti pro riforma, sempre secondo i dati non ancora definitivi del Viminale, si sono attestati al 40,3 per cento.

Notevolissima l’affluenza alle urne, che assume anch’essa un significato politico di prima grandezza: si è attestata al 68,48%, oltre ogni previsione. Una partecipazione definita da «elezioni politiche». Non regge infatti il confronto con la partecipazione agli altri referendum costituzionali: nel 2006, sulla cosiddetta «devolution» votò il 53,6% degli aventi diritto, nel 2001, sulla riforma del Titolo V, il 34,1 per cento.

Buona l’affluenza anche all’estero: 30,89 per cento (hanno votato 1.251.728 elettori). In questo caso però la differenza rispetto al referendum costituzionale di 10 anni fa non è poi così marcata: allora andò a votare il 27,7% dei residenti all’estero. Lo scarto è quindi solo di poco più di tre punti percentuali. L’affluenza più alta si è registrata in Europa dove è stata pari al 33,81%; in America Meridionale è stata del 25,57%; in America Settentrionale e Centrale del 31,60%; in Africa-Asia-Oceania del 32,12 per cento.

Il No si è affermato su tutto il territorio nazionale sebbene non ovunque con lo stesso peso: al Nord i voti contrari alla riforma hanno fatto registrare un risultato ovunque intorno al 60 per cento.

Le regioni centrali sono state le più generose sia nei confronti di Renzi che della riforma: lo stacco tra No e Sì è stato infatti poco marcato e in alcune regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna (e al nord anche nella provincia autonoma di Bolzano) il Sì risulta leggermente in vantaggio sul No. Certa la vittoria del Sì nelle città di Firenze, Perugia, Bergamo, Mantova, Bologna e Milano. Al Sud lo scarto è invece nettissimo, con il No in molti casi (come la Sardegna e alcune città di Sicilia e Calabria) al 70 per cento. E in media sempre intorno al 67 per cento.

Quanto all’affluenza, il dato generale è stato spinto soprattutto dal Centro-nord. Meno marcato, ma sempre abbondantemente sopra il 50% al Sud.

Il boom di partecipazione rimane dunque lontanissimo dall’affluenza di qualunque consultazione referendaria, anche le più recenti come quella sull’acqua pubblica del 2011 (che registrò il 54,8%) e quella di quest’anno sulle trivelle (il 31,1%). Per trovare dati raffrontabili bisogna guardare alle ultime politiche. Nel 2013 per la Camera andò a votare il 75,1% degli aventi diritto. E il confronto non reggerebbe neppure con le europee 2014 quando la partecipazione si fermò al 57,2 per cento.

Buona l’affluenza persino nelle zone del terremoto, dove i seggi (spesso accorpati) sono stati allestiti in sedi alternative, dalle tensostrutture alle palestre. E ai residenti è stata lasciata la scelta di votare anche nelle zone in cui sono sfollati.

Giornata elettorale tesissima quella di ieri, che si è portata dietro i nervosismi di una campagna elettorale durissima. A dominare è stata la polemica sulla matite copiative. Aiutati dal tam tam sui social, alcuni dubbi sui lapis distribuiti ai seggi, ritenuti dai votanti non copiativi, cioè cancellabili, sono rimbalzati da nord a sud. E il caso è montato pian piano tenendo banco per parecchie ore della giornata. In alcuni casi le segnalazioni sono poi sfociate in vere e propie denunce ai presidenti di seggio o interventi della polizia.

Tra i primi a denunciare sospetti sulla matita per il voto il cantante Piero Pelù, che posta anche la foto di quanto messo a verbale al seggio e innesca molte reazioni sul suo profilo. Le segnalazioni si moltiplicano. Interviene il leader della Lega, Matteo Salvini, che invita a tenere «occhi aperti» e a «non farsi fregare». In Campania è Fulvio Martusciello, europarlamentare di Fi e responsabile nazionale dei “difensori del voto”, a mettere in guardia. Infine l’intervento ufficiale del Viminale per assicurare che «le matite sono indelebili» e servono solo per il voto. Svelata anche la marca: è la tedesca Faber Castell. Quest’anno, fa sapere l’Interno, ne sono state acquistate 130mila e le «Prefetture possono utilizzare anche le matite che sono rimaste in deposito dagli anni precedenti». Ma il caso non sembra chiuso. Il Codacons infatti ha annunciato che presenterà un esposto al ministero dell’Interno e in 140 procure.

La Repubblica
LE DIMISSIONI

di Carmelo Lopapa

«Boom di votanti ai seggi. Bocciata la riforma costituzionale cui il premier aveva legato la prosecuzione del mandato. Il Sì travolto al Sud, avanti solo in Toscana, Emilia e Trentino. Il capo del governo nella notte parla in tvIl No dilaga al 59%. Renzi lascia in lacrime “La sconfitta è mia, ora tocca a chi ha vinto”»

Una valanga di No travolge la riforma costituzionale, affonda il governo Renzi, impallina il segretario del Partito democratico. E il capo dell’esecutivo non attende un solo istante, le dimissioni sono immediate, nella notte, il viso segnato dalle lacrime, il nodo in gola: «Io ho perso e lo dico a voce alta. Non si può fare finta di nulla. Domani pomeriggio (oggi,ndr)riunirò il Consiglio dei ministri e salirò al Quirinale per le dimissioni. Il No vince in modo netto, ai loro leader le mie congratulazioni, a loro onori e oneri insieme alla grande responsabilità della proposta a cominciare dalle regole. Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta. Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta». La moglie Agnese lo guarda a pochi metri di distanza, commossa anche lei.

La conferenza stampa era stata convocata già in serata, quando il tam tam degli exit-poll non lasciava margini di dubbio, poi confermati alla chiusura dei seggi. A mezzanotte il dato è già inequivocabile: 59 per cento i No (Ipr marketing-Piepoli per Rai), il Sì lontano un abisso: al 41. Trascorrono pochi minuti dalla chiusura delle urne e i falchi dell’opposizione vanno subito in tv per dichiarare “morto” il governo Renzi, preannunciare le dimissioni del premier, dichiararsi i veri vincitori. Così Matteo Salvini, il primo, poi Renato Brunetta («Game over»), Giovanni Toti («Legislatura finita») infine i grillini in sequenza («Al voto subito »).

Un risultato che viaggia sull’onda di un’affluenza da record, che tocca quasi percentuali da politiche: le prime proiezioni danno qualche decimale appena sotto il 70 per cento (nel 2013 per Camera e Senato era stata al 75). Marea che tanti esperti avevano stimato avrebbe avvantaggiato il Sì. I risultati dicono il contrario. Lo si è capito già dopo le 19, quando il flusso di elettori ai seggi era lievitato a dismisura in regioni quali Veneto, Sardegna e Sicilia, autentiche roccaforti antirenziane.

La famosa «maggioranza silenziosa » sulla quale il presidente (dimissionario) Matteo Renzi aveva investito è davvero andata a votare. Ma schierandosi dalla parte opposta a quella da lui sperata. Fallito anche l’ultimo tentativo del segretario pd di “de-politicizzare” la consultazione. Il voto diventa politico, punitivo per il suo governo, oltre ogni attesa. Soprattutto al Sud. Le prime proiezioni del Viminale confermano un trend schiacciante.

Dalla Sicilia alla Puglia si viaggia in media con percentuali vicine al 65 per cento per il No, al 35 per il Sì. Col boom clamoroso della Campania del governatore (renziano) Vincenzo De Luca: quando erano scrutinate 122 sezioni, il No aveva toccato la quota del 70 per cento. A mezzanotte, solo in tre regioni, Trentino Alto-Adige, Emilia e Toscana, il Sì risulta in vantaggio.

Non è un caso del resto se sono politiche e immediate le conseguenze che Matteo Renzi trae già in nottata. Adesso entra in gioco il Quirinale. Domani la direzione del Pd.

Il Fatto Quotidiano online
LA CARTA HA VINTO COL 60%.
AL VOTO 34 MILIONI DI ITALIANI
di Marco Palombi

«Risultati - Affluenza altissima vicina al 69%. Sono circa 20 milioni i voti contro la riforma Boschi-Verdini, 5 in più dei Sì che vincono solo in Toscana, Emilia e Trentin»

Ha vinto il No. E ha vinto bene. Ha perso Matteo Renzi. E ha perso male. Questo dicono i numeri e i voti: quando lo scrutinio è oltre il 50% dei voti i No sono quasi uno su sei, un’enormità. Anche perché – sulla valanga istituzionale innescata dal referendum – pesa in primo luogo un dato numerico che è anche squisitamente politico: un’affluenza che per un referendum non si vedeva da oltre vent’anni, dalle consultazioni radicali del 1993, trainate dal referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, che portò alle urne il 77% degli elettori.

Ieri ai seggi sono andati quasi 34 milioni di italiani – il 69% circa del corpo elettorale – per votare sulla riforma costituzionale proposta dal governo di Matteo Renzi ed era già una buona notizia: per questo patrimonio di partecipazione dobbiamo paradossalmente ringraziare proprio il presidente del Consiglio, che ha trasformato la consultazione in un’ordalia sul suo esecutivo, costringendo molti italiani a schierarsi.

La seconda buona notizia – buona notizia almeno per noi del Fatto, assai meno a Palazzo Chigi – si fa chiara nella notte: gli italiani hanno respinto in massa la riforma scritta da Maria Elena Boschi, Denis Verdini e soci. L’idea di perdere il diritto di voto per il Senato e passare in buona sostanza la funzione legislativa dal Parlamento al governo non hanno fatto abbastanza proseliti, nonostante le energie e i milioni di euro spesi dal premier e dal Pd per convincerli del contrario.

Gli italiani, peraltro, non solo hanno respinto la riforma, lo hanno fatto in un numero tale che rende definitivo il fallimento politico dell’operazione di Palazzo tentata da Matteo Renzi su mandato di Giorgio Napolitano, la cui fragile eredità politica svanisce nella notte che ha condotto l’Italia al 5 dicembre. Alla fine sono oltre sei milioni in più i voti di chi ha bocciato la riforma: i Sì, circa 13 milioni e mezzo, vincono bene solo nella provincia di Bolzano (nettamente) e sembrano avanti di poco in Toscana e Emilia Romagna. Il resto è un pianto, specie al Sud.

Risultato netto, dunque, i cui contorni andranno studiati con cura. A partire dall’affluenza: alta, molto, se si pensa che al referendum costituzionale di dieci anni fa che bocciò la cosiddetta devolution di Berlusconi e Bossi – riforma non a caso assai simile a quella di Renzi – si presentò solo il 52,4% degli aventi diritto, vale a dire 25,7 milioni di italiani.

Altissima la partecipazione nel Nord Italia, ma non bassa neanche nel Mezzogiorno, dove storicamente si vota di meno. Grandi numeri in Lombardia, ma soprattutto in Veneto, dove il Pd è ridotto ormai a un partitino residuale e infatti i No volano verso il 62% col 76,6% di affluenza, la più alta. Notevole che – anche se stavolta non c’era quorum – per la prima volta da molto tempo in tutte le Regioni italiane è stato superato, e in scioltezza, il 50% degli aventi diritto.

Questi numeri dicono una cosa ulteriore. Evidentemente – al di là del merito della riforma, assai poco frequentato anche da Renzi – il voto è stato pienamente politico e i bacini elettorali dei vari partiti hanno retto. Tradotto: il premier non è riuscito a prendersi i voti degli altri, almeno non in misura sufficiente visto che la sua potente e ricca macchina elettorale ha comunque messo assieme 13 milioni e mezzo di voti. Come detto, ahilui, sei milioni abbondanti in meno delle schede che chiedevano una bocciatura della riforma su cui Renzi ha deciso di giocarsi tutto. Le prime analisi sui flussi (degli exit poll) rivela che la grande maggioranza degli elettori di Forza Italia, Lega e M5s si è mossa come chiedevano i partiti.

D’altra parte è stato lo stesso Renzi a mettere in gioco il suo governo e la sua carriera nella competizione finendo per ingolosire le opposizioni, soprattutto dopo la scoppola – mai ammessa – rimediata alle Comunali di giugno: hanno visto l’opportunità di buttarlo giù e l’hanno usata. Fortunatamente, per quella che chiamano eterogenesi dei fini, hanno finito per salvare la Costituzione dallo scempio.

Breve nota sul voto estero. Le veline di Palazzo Chigi – che propalavano una affluenza al 40% con 1,6 milioni di voti – si sono rivelate false esattamente come Il Fatto aveva scritto sabato: affluenza al 30,8% con 1,25 milioni di voti arrivati nell’hangar di Castelnuovo di Porto, vicino Roma. Tra gli italiani all’estero, come previsto, alla fine sembra aver vinto il Sì largamente. Visti i numeri dei votanti in patria, però, lo sforzo (assai costoso) per convincere gli emigrati non è servito a granché.

il manifesto
UNA VALANGA DI NO
SEPPELLISCE IL GOVERNO.
RENZI: FINISCE QUI
di Daniela Preziosi

«Il popolo sovrano. I primi dati parlano del 60 per cento. Oggi va al Quirinale Il premier: «Non ce l’abbiamo fatta, la responsabilità è mia». Il (quasi ex) premier ora alle prese con il nodo del partito. Martedì convocata la direzione»

«Ho perso, mi prendo tutta la responsabilità», «l’esperienza del mio governo finisce qui, perché non possono restare tutti incollati alle loro abitudini prima che alle loro poltrone. Non ce l’ho fatta e la poltrona che salta è la mia». Poco dopo la mezzanotte il presidente del consiglio si presenta a Palazzo Chigi alle telecamere e rassegna in diretta tv le sue dimissioni da premier. Oggi pomeriggio salirà al Colle per farlo davvero, rispettando la Costituzione che gli elettori gli hanno impedito di modificare male. Renzi si commuove quando ringrazia la moglie Agnese e i figli, quando manda «un abbraccio forte agli amici del Sì».

Finisce qui, dice lui, la storia del governo Renzi. Seppellito da una valanga di No. Mentre il manifesto chiude questa edizione poco più della metà delle schede scrutinate dicono No al 59,5 per cento e Sì al 40,5.
È una sconfitta netta, annunciata da ore. Quando manca più di un’ora alla chiusura dei seggi, gli exit poll in teoria ancora sotto embargo. Ma la notizia è clamorosa, non si trattiene, straripa sulla rete, nei canali tv che stanno per dare inizio alle loro maratone. La forbice fra No è Sì è impressionante. Quando, a urne chiuse comincia lo spoglio reale delle schede, è pure meglio. Peggio per il governo e la sua maggioranza.

La sconfitta è irreparabile, definitiva. Forse non inaspettata, ma difficile da governare date le dimensioni. Una sportellata senza precedenti. Forse, in scala, il risultato delle scorse amministrative era stata un aperitivo, un assaggio, una premonizione. Che Renzi e i suoi però non hanno voluto forse saputo vedere.

È una valanga quella che seppellisce la proposta di riforma Renzi-Boschi, e con la riforma dà uno scossone al governo, alla sua maggioranza e al Partito democratico. Al Nazareno tira un’ariaccia già alle otto di sera. I sondaggi riservati circolano fra le scrivanie e non lasciano margini di dubbio da giorni. Tetragoni alla realtà che bussa alle porte, quelli del comitato Bastaunsì non hanno smesso la propaganda. Uno degli ultimi sms distribuiti a pioggia agli elenchi dei votanti delle primarie: «Siamo in fortissimo recupero. Siamo sul filo dei voti. Gli sforzi di queste ore possono essere decisivi. Avanti tutta, basta un Sì». Alla mezzanotte di domenica questi messaggi sembrano una beffa grottesca, quella di un partito (e un governo) che ha voluto testardamente andarsi a schiantare a tutta velocità contro il muro della propria autosufficienza.

È Lorenzo Guerini, alle 23, a metterci la faccia. Il vicesegretario è terreo. Laconico. «Renzi parlerà in conferenza stampa fra circa un’ora. Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo la direzione nazionale per l’analisi dell’esito referendario». Al partito sono arrivati Deborah Serracchiani, i capigruppo Rosato e Zanda, il ministro Dario Franceschini. Al Nazareno circola la voce che se le dimensioni della sconfitta restano queste delle prime ore della notte martedì potrebbero arrivare le dimissioni di Renzi, stavolta da segretario del Pd. Del resto le aveva promesse all’inizio della sua corsa

referendarie, cambiando poi parecchie volte opinione. Ma è difficile: «È tempo di rimettersi in cammino» dice alla fine del suo discorso di Palazzo Chigi. Mentre Guerini parla, Renzi da tempo ha dato appuntamento ai giornalisti, segnale inequivocabile di sconfitta. Gli elettori e le elettrici hanno dimostrato di non apprezzare nulla di lui: la riforma, la boria, l’insulto dell’amico e del nemico, la narrazione tossica delle proprie leggi, i mille giorni di governo, mille giorni di errori da meditare.

Dall’altra parte «l’accozzaglia» gioisce, ciascuno con il suo stile e la sua misura. Il primo a scattare è Matteo Salvini. Il primo a chiedere le dimissioni di Renzi: «Se i dati verranno confermati, gli italiani Renzi lo hanno rottamato». Dimissioni vengono chieste a gran voce da tutta la destra: Giorgia Meloni, Renato Brunetta. Ma il prossimo governo dovrà fare una legge elettorale nuova, dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sull’Italicum. A meno che non la bocci per intero.

Da sinistra i toni sono tutt’altri. L’«accozzaglia» non è un fronte politico comune, a differenza di quello che Renzi e i suoi hanno ripetuto fino allo sfinimento in campagna referendaria, a reti unificati. Senza mai convincere elettori ed elettrici. Arturo Scotto, di Sinistra italiana, chiede un intervento del Quirinale. «Renzi lascia un campo di macerie, ora ci affidiamo alla saggezza del presidente Mattarella». La sinistra bersaniana, riunita in una casa privata, frena i commenti. Non è il momento di assecondare pulsioni autodistruttive, il partito è già nel caos. «Eravamo nel giusto», dice solo Roberto Speranza.

. Huffingtonpost.it, 5 dicembre 2016 (p.d.)

L’Italia s’è desta.

Ha vinto la Costituzione. Ha perso il plebiscito.
Ha vinto il popolo. Ha perso il populismo cinico.
Ha vinto la sovranità del popolo. Ha perso il dogma per cui non ci sarebbe alternativa.
Ha vinto la voglia di continuare a contare. Di continuare a votare. Ha perso chi voleva prendersi una delega in bianco.
Ha vinto la partecipazione, il bisogno di una buona politica. Ha perso la retorica dell’antipolitica brandita dal governo.
Ha vinto un’idea di comunità. Ha perso il narcisismo del capo.
Ha vinto la mobilitazione dal basso, senza mezzi e senza padrini. Ha perso chi ha messo le mani sull’informazione, chi ha abusato delle istituzioni senza alcun ritegno.
Ha perso Giorgio Napolitano: che avrebbe dovuto unire, e invece ha scelto di dividere.
Ha perso Matteo Renzi, con tutta la sua corte: ma solo perché hanno voluto cercare nello sfascio della Costituzione una legittimazione che non avevano mai avuto nelle urne elettorali.
Un presidente del Consiglio che si dimette perché ha intrecciato irresponsabilmente la sorte di un governo e la riforma della Costituzione. Rivelatore il suo discorso: Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario).
Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini. Anche quelli che hanno votato Sì: perché tutti continuiamo ad essere garantiti da una Costituzione vera. Che protegge tutti: e in particolare proprio chi perde. Chi è in minoranza. Chi non ce la fa.
E ora non raccontateci che l’Italia non vuole guardare avanti. È vero il contrario: l’Italia ha capito che questo non era un cambiamento.
Ha vinto l’Italia che vuole cambiare verso. Ma davvero.
E ora che succede? Succede che la Costituzione rimane quella scritta da Calamandrei, La Pira, Basso, Moro e Togliatti. Non quella riscritta dalla Boschi e da Verdini.
E succede che Maurizio Landini fa i cappelletti, il piatto della festa. Perché oggi è un giorno di festa. Per tutti: nessuno escluso.
Il campo da gioco c’è ancora. Da domani si gioca.

La sconfitta al Referendum costituzionale. I commenti di Aldo Cazzullo, Goffredo De Marchis e Antonio Padellaro. , 5 dicembre 2016 (m.p.r.)


Corriere della Sera

GLI ERRORI DEL LEADER

di Aldo Cazzullo

E alla fine Matteo Renzi si ritrovò come in una vecchia puntata del Costanzo Show: solo contro tutti. A duellare con Zagrebelsky e con De Mita, a sfidare invano Grillo e D’Alema; se Maciste si fosse schierato per il no, avremmo visto Renzi contro Maciste. Da Napolitano aveva ottenuto l’incarico di governo dietro l’impegno di fare le riforme istituzionali, riportando al tavolo Berlusconi, ricompattando il partito democratico, ridimensionando Grillo. Invece Berlusconi si è sfilato dall’accordo - come ha sempre fatto da quando è in politica -, la sinistra Pd dopo aver detto per sei volte sì in Parlamento ha sostenuto il no, e Grillo non è mai stato così forte. Missione incompiuta, anzi fallita, anche al di là dei suoi demeriti.

Non era impossibile prevederlo. Qualsiasi governo che abbia sottoposto la propria linea agli elettori si è sentito rispondere no, in qualsiasi contesto e latitudine, da Londra a Bogotà a Budapest. L’errore di Renzi non è stato soltanto personalizzare il referendum sulle «sue» riforme; è stato proprio farlo, o meglio chiederlo. Non è inutile ricordare che il referendum non era obbligatorio: la Costituzione non lo impone, lo consente qualora sia mancata la maggioranza dei due terzi e ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera, 500 mila elettori o cinque assemblee regionali. Renzi non ha atteso che fossero le opposizioni a sollecitare il responso popolare; l’ha sollecitato lui stesso, per sanare il vizio d’origine, il peccato originale di non aver mai vinto un’elezione politica. Ma un conto è difendere il proprio lavoro da forze contrapposte che ne chiedono la cancellazione; un altro conto è chiamare un plebiscito su se stessi.

Il presidente del Consiglio si è mosso come se il Paese fosse ancora quello del 41% alle Europee. Ha sopravvalutato il proprio consenso e ha sottovalutato il disagio sociale. Gli va riconosciuto il merito di aver tentato di restituire agli italiani fiducia nel loro Paese e nel futuro. Ma per tre anni ha ripetuto un solo discorso: l’Italia che torna a fare l’Italia, l’Italia che può fare meglio della Germania, l’Italia che diventa locomotiva d’Europa. Ha recitato un mantra che avrebbe dovuto essere supportato da una robusta ripresa economica; che non c’è. Renzi può rivendicare di aver riavviato la crescita, di aver trovato un Paese con il segno meno e di lasciarlo con il segno più. Ma all’evidenza non è sufficiente; o almeno questo è stato il responso della netta maggioranza degli italiani.

Gli va dato atto anche di aver riconosciuto subito la sconfitta. I discorsi di accettazione gli vengono bene: era già successo anche nel dicembre 2012, quando Bersani lo sconfisse alle primarie. La prospettiva del passo indietro tattico è superata dai fatti. Più realistica una traversata del deserto, che non sarà lunghissima - alla scadenza naturale della legislatura manca poco più di un anno - ma è certo irta di pericoli. Renzi può ancora cercare una rivincita. Ma dovrà mettersi in gioco almeno due volte. Prima nelle nuove, inevitabili primarie del Pd, che non saranno scontate come potevano apparire ancora poco tempo fa. E poi in elezioni politiche che non saranno risolutive come vagheggiava: «Voglio un sistema elettorale in cui la sera del voto si capisca chi ha vinto e chi ha perso», amava ripetere. Ma con il proporzionale vincono sempre quasi tutti, e quasi nessuno perde mai per davvero. Renzi ha ancora la forza di impedire un ritorno al passato? La collaborazione con Berlusconi è una carta di riserva che non è mai uscita davvero dal mazzo, o rappresenta una resa, da far gestire a qualcun altro?

Ci saranno giorni per discuterne. Chi sogna un Renzi addomesticato, riflessivo, quasi mansueto, non conosce il personaggio. Può cambiare strategia; non natura. Può ancora avere una chance; ma una fase si è chiusa definitivamente. Con una sconfitta. Non soltanto non è riuscito a prosciugare Grillo o a prendere i voti di Berlusconi; l’alta partecipazione al voto, che nelle previsioni avrebbe dovuto rafforzare il governo, segna anche un rigetto personale nei confronti del premier. Nella campagna referendaria Renzi ha tentato di tornare il rottamatore della casta; ma dopo tre anni di Palazzo Chigi non è risultato credibile.

Una cosa è certa: Grillo ha ragione di esultare; Berlusconi può rallegrarsi; ma la soddisfazione della sinistra Pd rischia di avere vista corta e breve durata. Gli oppositori di Renzi non hanno un vero leader, né un candidato pronto a sfidarlo. Sono uniti dal rancore personale verso l’usurpatore, e da poco altro. Alla fine hanno fatto miglior figura i Letta e i Prodi, che si sono espressi per il sì senza entusiasmo, rispetto ai Bersani e ai D’Alema, che si sono battuti per un no destinato a far cadere un governo di centrosinistra, in una fase in cui un vento di destra soffia su tutti i Paesi del mondo.

La Repubblica

LA SOLITUDINE DEL PREMIER «SOTTO ASSEDIO IO NON CI STO. PIUTTOSTO VIA DALLA POLITICA»
di Goffredo De Marchis

ROMA. La tentazione di mollare tutto, Palazzo Chigi e segreteria del Pd, tornare veramente a casa a Rignano, lasciare la politica come disse un anno fa nella conferenza stampa di fine anno lanciando la lunghissima campagna referendaria. Tensione al massimo, tutti pendono dalle labbra di Matteo Renzi. La parola tocca a lui, il resto della truppa ha il volto paonazzo di chi ha preso una brutta botta.
Renzi è chiuso nella sua stanza al primo piano della sede del governo. Ha rischiato e si è rotto l’osso del collo, come ama dire. L’aria è pesantissima e i dati sull’affluenza danno la reale dimensione di un capitombolo, lasciando intravedere la sentenza più inaspettata: «Se tante gente va a votare e vince il No, vuol dire che il Paese intende mandarmi a casa». Un responso elettorale, quindi, una rivolta contro di lui. E il Paese profondo non sta nelle condizioni sociali ed economiche immaginate dalla sua narrazione.

All’amico ritrovato Matteo Richetti, qualche giorno fa aveva confessato: «Sono stanco, stanchissimo». Non solo del lungo viaggio per l’Italia, delle notti in bianco, delle maratone in tv. Ma del non essere stato compreso in uno sforzo, secondo Renzi, sovrumano. «Per riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e mondiale, al suo posto». Questo pensava di aver fatto nei mille giorni di governo. Parole confidenziali tra amici, che oggi assumono un altro significato: la resa e la consapevolezza di una sconfitta bruciante, una freccia conficcata nel cuore del renzismo.«Non posso fare finta di niente, davvero non sono come gli altri».
Il modello è il Prodi che torna a Bologna dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento. Ma lì c’erano i giochi di palazzo, i tradimenti, le coltellate alle spalle. Qui invece il voto degli elettori. Lo andranno a cercare fin su le colline del Valdarno sapendo che è l’unico leader della sinistra in grado di vincere le elezioni, presto o tardi che siano? Ma il suo orizzonte forse non è quello di David Cameron che dopo la Brexit è stato immortalato su una banchina a mangiare fish and chips. Ma non è ai precedenti che Renzi pensa chiuso nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Con Luca Lotti, il portavoce Filippo Sensi, il fotografo Tiberio Barchielli, la squadra instancabile della corsa al vertice. Altri ministri, compresi Maria Elena Boschi e Dario Franceschini, sono a Largo del Nazareno, nella sede del Partito democratico.
Il futuro della politica italiana è un rebus che il premier non risolve stanotte. Oggi pensa a sè e all’amaro della sconfitta. Con zero segnali positivi anche se nella war room renziana qualcuno mostra a “Matteo” alcuni dati. Se l’affluenza sfiora il 70 per cento anche con il 40 per cento di Sì, Renzi intercetta 13 milioni di voti. Sono due in più di quelli presi nel 2014 alle Europee quando il Pd conquistò mil 41 per cento. E con il 45 per cento i consensi sarebbero adirittura 15 milioni. «Ripartiamo da qui», suggerisce qualcuno nella stanza di Renzi.
Si può fare. Tenere la segreteria, dare le carte per un nuovo governo fotocopia che conduca in porto la legge di bilancio e i decreti di fine anno, pilotare la legge elettorale e sfidare subito i nemici interni convocando il congresso dem rimanendo in sella. Dipende dal dato finale. Con un Sì attestato al 45 per cento o sopra, Renzi organizzerà la rivincita, una nuova sfida combattendo «l’accozzaglia». Ma con il 40 per cento, sarà tutto più difficile. «Comincerà un assedio dentro il Pd, la minoranza e le correnti chiederanno di cambiare tutto, non solo il segretario. Basta primarie aperte, voto solo per gli iscritti, un’ offensiva rispetto al Partito della Nazione. Al grido: mai più gli elettori di Cosentino e Verdini ai gazebo del Pd. Li conosco».
Gli alleati per tenere almeno la segreteria non mancheranno. I franceschiniani, i giovani ì turchi, insomma una maggioranza solida per affrontare il congresso e rivincerlo. Ma a quali condizioni? Cedendo su cosa? Già nelle prossime ore, confida il presidente del Pd Matteo Orfini, verranno convocati gli organismi del partito, ovvero una direzione. Potrebbe partire subito il percorso congressuale, prima che si saldi un’asse tra la minoranza e altre componenti. Pier Luigi Bersani, qualche settimana fa, era stato chiarissimo: «Cambiamo le regole del congresso, apriamoci alle associazioni e immaginiano anche un segretario che non venga dal gruppo dirigente dem». Dario Franceschini è come al solito l’ago della bilancia. Ai suoi ha raccomandato: «Ricordatevi come si comportavano i vecchi democristiani. Non si fanno mosse azzardate, calmi con le dichiarazioni fino a quando la crisi non si manifesta nella sua pienezza». Il clima rischia di virare al brutto anche dentro il Pd.


VOLEVA TUTTO, HA PERSO TUTTO
di Antonio Padellaro

Il No venuto dal popolo italiano, forte e chiaro, che ha sbaragliato il tentativo di Matteo Renzi di rottamare la Costituzione della Repubblica ricorda un'altra vittoria del No, quella contro il referendum democristiano del 1974 sull'abrogazione del divorzio che il vecchio Pietro Nenni commentò con parole divenute famose: hanno voluto contarsi, hanno perso. La stessa illusione che ha perduto domenica 4 dicembre 2016 l'ambizioso politico fiorentino, che tra le sue qualità non ha quella della prudenza visto che come un giocatore d'azzardo al tavolo da poker da tre anni a questa parte non ha fatto altro che raddoppiare la posta: dalle primarie del Pd all'occupazione del Nazareno alla conquista di palazzo Chigi.

Poteva accontentarsi di guidare il Paese (anche se con l'imbarazzante soccorso degli Alfano e dei Verdini) fino alla scadenza della legislatura del 2018. Ma una perniciosa bulimia del potere, alimentata dal 40 per cento delle Europee del 2014 gli ha suggerito l'idea di accaparrarsi l'intero piatto. Attraverso il famoso combinato disposto costituito dal dominio sulla Camera (grazie al superpremio di maggioranza previsto dall'Italicum) e dalla trasformazione del Senato in un dopolavoro di nominati (grazie alla riforma Boschi).
Gli è andata male, anzi malissimo. Prima la progressiva crescita nei sondaggi dei Cinquestelle gli ha consigliato di smontare l'Italicum per non ritrovarsi Beppe Grillo seduto al suo posto a palazzo Chigi. Poi, questa notte Renzi è stato sommerso da un plebiscito: non quello che sperava ma di segno diametralmente opposto. Gli italiani sono corsi a votare in massa come nessuno aveva previsto avendo compreso l'enormità della posta in gioco. Così Renzi, che cercava da questo voto la legittimazione mai ricevuta in elezioni politiche, ha ricevuto la più pesante delegittimazione.
Ha voluto la conta e ha perso tutto. Ha travolto nella sconfitta, oltre al suo presente e forse al suo futuro politico, anche il governo e con il governo la stabilità tante volte invocata come bene supremo della nazione. Le sue dimissioni - inevitabili - aprono ufficialmente anche la resa dei conti nel Partito Democratico dove coloro, e non sono pochi, che in questi anni si sono sentiti ingiustamente emarginati e maltrattati non vedono l'ora della rivincita.
Matteo Renzi paga anche per responsabilità non sue ma che ha colpevolmente subìto. Non dimentichiamo che la riforma della Costituzione e il suo s travolgimento fu chiesta, anzi pretesa, da Giorgio Napolitano in quel blitz che in pochi giorni portò alla inopinata giubilazione di Enrico Letta e al conferimento dell'incarico al sindaco di Firenze. Renzi, per dirla tutta, si è imbarcato nell'avventura che lo ha portato al naufragio referendario su mandato imperativo dell'ex Capo dello Stato. Da cui, non dimentichiamolo, si fece anche pesantemente correggere la lista dei ministri, a cominciare da quel Nicola Gratteri, magistrato tra i più autorevoli nella lotta alle mafie, entrato al Quirinale come ministro della Giustizia e poi sostituito in gran fretta da Andrea Orlando. Fu da quel momento che la sua immagine di giovane iconoclasta dei soliti riti della vecchia politica cominciò a snaturarsi.
Su molti altri errori dovrà riflettere Renzi nel caso non faccia seguire alle annunciate dimissioni da premier il ritiro dalla vita politica, già ipotizzato e poi smentito (come troppi suoi annunci del resto). Primo: la Costituzione è patrimonio del popolo italiano non certo di un ceto politico inzeppato da opportunisti e voltagabbana. Secondo: riformare la Carta si può se necessario, ma l'aver trasformato 47 articoli determinati per il funzionamento delle istituzioni in un pasticcio incomprensibile è stato da irresponsabili. Un allarme lanciato dai più illustri costituzionalisti, non solo inascoltati ma definiti dal nuovo che avanza (anzi avanzava) come professoroni, gufi e rosiconi.
Terzo: l'incredibile sovraesposizione mediatica del premier la cui faccia spuntava a ogni ora da ogni schermo televisivo non solo non ha pagato ma ha finito per provocare una reazione di rigetto che certamente ha contribuito ad accrescere la dimensione della sconfitta. Quarto: con l'arroganza, la presunzione, il disprezzo per chi non la pensa come te, con espedienti vergognosi a partire dall'uso delle malattie come propaganda elettorale non si fa molta strada. E alla fine si va a sbattere.
«Chi vota "sì" non potrà sentirsi defraudato di alcunché se prevale il «no». La costituzione del 1948 è sempre stata ed è anche la sua Costituzione, è la Costituzione di tutti».il manifesto, 4 dicembre 2016 (c.m.c.)

La Legge costituzionale 15 aprile 2016, n. 88, sulla quale si sta votando, ha già prodotto un effetto. Ed è sicuro, profondo, dilaniante. Ha diviso la Nazione nel suo fondamento, nel suo patto di convivenza. L' ha divisa come mai era accaduto nell’Italia repubblicana.

Non era accaduto in nessuna elezione, neanche durante la guerra fredda, neanche in quella che respinse legge-truffa. La Dc aveva ibernato la Costituzione, ma non l' aveva mai rinnegata, mai provato a deformarla. Non era accaduto in occasione del primo referendum che pur aveva ad oggetto un istituto sensibilissimo per la cultura cattolica. Non era accaduto neanche nel 2006 quando il corpo elettorale respinse il disegno del «premierato assoluto» ordito da Berlusconi.
Accade ora, ed accade perché l’attacco proviene dal governo presieduto da chi capeggia il partito che si era storicamente qualificato come il baluardo della democrazia costituzionale e lo ha diviso. Dopo averne geneticamente modificato gran parte, certamente al vertice. Accade ora, ed accade per la pressione delle centrali del liberismo economico, più agguerrite dopo la crisi, come le banche, e le agenzie di rating, e come l’istituzione sovranazionale del neoliberismo che è Bruxelles, l’Unione europea. Le une e l’altra quanto mai mobilitate a ottenere la riduzione della rappresentanza e l’amputazione delle domande della democrazia, le une e l’altra quanto mai esigenti della stabilità del loro potere, per la governabilità dei più, imponendola ad uno solo, in cambio di fatue preminenze.

La divisione è profonda, vasta e dilaniante perché ha rotto il patto fondante della Repubblica, il patto delle regole della convivenza democratica, di quella civile e di quella politica. Come tale, la divisione era forse imprevista dallo stesso Renzi. Per la lacerazione del tessuto nazionale che ha prodotto avrà sorpreso, con ogni probabilità, anche chi autorevolmente la aveva auspicata, sollecitata e richiesta.
Con i suoi 47 articoli di sconvolgimento della seconda parte della Costituzione, questa legge è oggi votata per essere accettata o respinta da 50 milioni e più di cittadine e di cittadini della Repubblica. È sul patto di cittadinanza quindi che 50 milioni di cittadini stanno votando.

L’accettazione di tali articoli, delle norme che contengono, del disegno complessivo del vertice della Repubblica, del tipo di rapporti tra Stato e Regioni che tali articoli determinano, potrà riunificare le due parti della Nazione che si sono divise e scontrate?Chi avrà respinto il contenuto di tali articoli, il disegno complessivo che ne deriva potrà mai accettare un patto che aveva respinto come proposta? Potrà mai sentirsi vincolato da norme non volute, volte a configurare un regime rappresentativo che ritiene ristretto, con un parlamento mutilato del suffragio popolare di uno dei suoi rami? Può accettare una forma di governo derivata da un meccanismo impregnato di assolutismo ? Potrà rassegnarsi ad un patto dettatogli da chi egli crede che non aveva il potere legittimo per dettarglielo?

Chi vota «sì» non potrà sentirsi defraudato di alcunché se prevale il «no». La costituzione del 1948 è sempre stata ed è anche la sua Costituzione, è la Costituzione di tutti. Potrà essere certamente revisionata assieme a votanti «no» in un clima di ricostruita unità nazionale.
Il «sì» divide. È il «no» che potrà unire.

Piccola storia della decadenza culturale di una parte del vecchio Partito comunista italiano. Cui molto ci sarebbe da aggiungere, a partire dalla sconfitta di Enrico Berlinguer (e dall'assassinio di Aldo Moro).

Il manifesto, 3 dicembre 2016Perché gran parte del ceto politico e intellettuale di provenienza comunista è schierata con il Sì? Cedimenti, calcoli, opportunismi ci sono anche stavolta. Ma, a riverire il capo di turno con giravolte sensazionali, spingono anche ragioni di cultura politica. A franare, in appoggio alla manipolazione governativa della costituzione, è soprattutto quello che, con un qualche schematismo, si può definire il centro destra del vecchio Pci. La componente di centro sinistra, ad esclusione di Bassolino e Turco, è invece mobilitata attivamente per il no: da D’Alema a Bersani e Folena, da Tortorella a Reichlin e Salvi.

Che proprio dalle propaggini di un partito che aveva fatto del vincolo costituzionale un tratto di identità provenga oggi un pericoloso tentativo di destabilizzazione dell’ordinamento repubblicano è certo sorprendente. E però una caduta della normatività della costituzione, come bene comune, si ebbe già con la segreteria di Veltroni. Nel 2001 si consumò il primo grave strappo alla regola per cui le riforme costituzionali trascendono la volontà del solo governo del momento.
A questo tabù, che postulava l’impossibilità di mettere mano alla Carta senza un largo consenso, si attenne lo stesso D’Alema. Quando il patto della bicamerale saltò, egli si guardò dal proseguire a colpi di maggioranza. Minando le necessarie consuetudini dialogiche, per introdurre il nuovo titolo quinto della costituzione con una manciata di voti, i Ds hanno introdotto un precedente scivoloso.

Con la sua venerazione dei falsi miti della democrazia immediata, con l’ubriacatura per il fragile miraggio del sindaco d’Italia, Veltroni ha proseguito il lavoro di destrutturazione della cultura istituzionale avviato da un Occhetto nuovista e invaghito delle leggende maggioritarie di Segni.
Accantonati gli schemi tradizionali di stampo parlamentare, i Ds hanno attinto dalle elaborazioni dell’area giuridico-politologica della Fuci (da Barbera e dagli ideologi del bipolarismo immaginario, suoi seguaci). La resistenza di rigorosi giuristi del mondo cattolico, come Elia e Onida, ha per un certo tempo ostacolato la penetrazione nell’Ulivo delle suggestioni per il premierato assoluto.
Per aggirare lo scoglio, Veltroni ha però disegnato lo statuto del Pd sul modello dell’investitura di un capo che opera nel vuoto di canali di mediazione, destinati a spegnersi dopo la chiusura dei gazebo che hanno riconosciuto il volto del leader. La coincidenza delle cariche di segretario e premier ha demolito l’impianto della democrazia parlamentare con irrazionalità, forzature, fughe.

La riforma di Renzi è per questo il compimento di una devastante cultura istituzionale maturata nell’ambiente della Fuci e recuperata come ideologia del Pd. Due sono gli assiomi. Il primo è una caricaturale nozione di bipolarismo come miracolo politico (elezione diretta del governo al calar della sera). Il secondo rinvia a una donchisciottesca lotta al consociativismo (rifiuto di ogni ruolo dell’aula dopo lo scrutinio) come male assoluto. Le ambigue categorie istituzionali della Fuci (Ceccanti, Vassallo, Guzzetta) hanno trovato sbocco nel combinato disposto tra Italicum e riforme del bicameralismo.

Il presidente Napolitano, diversamente dall’amletico Macaluso di oggi e dal resto della sua area molto vicina alle posizioni di Barbera, non ha condiviso questo impianto culturale. Il sostegno a Renzi nasce non già dalle sirene del direttismo ma dalla preoccupazione di proteggere la sua interpretazione creativa del ruolo presidenziale nel periodo cruciale che va dalla caduta di Berlusconi (regia della soluzione tecnica) alla sterilizzazione (con un incarico fantasma) della velleità di Bersani di procedere verso un governo di svolta.

Quello che accomuna le tante personalità delle aree di centro-destra del vecchio Pci è una perdita secca di cultura della costituzione. L’avallo miope a una riforma decisa da una minoranza del 25 per cento, che tramuta un parlamento a debole legittimazione in assemblea costituente che ritocca 47 articoli, segna infatti la sostanziale de-costituzionalizzazione della repubblica.
La rinuncia a fare della Carta un bene condiviso, legittima qualsiasi forzatura decisa da chi sta al potere. C’è da sperare che l’elettorato di sinistra, con il No alla follia di un dispotismo di minoranza in tempi di crisi della democrazia, continui a scaldare la connessione sentimentale con la Carta siglata da Terracini.

«È come se mass media e cancellerie europee stessero prendendo una cantonata, fraintendono la natura del voto. Non c’è da un lato un voto “di sistema” e dall’altro un voto “populista”».

Rifondazione online, 2 dicembre 2016 (c.m.c.)

In Italia due giovani su cinque sono disoccupati; il Prodotto interno lordo (Pil) sta a mala pena recuperando il livello di 15 anni fa (a prezzi costanti); i nuovi iscritti all’università sono diminuiti del 20% dal 2004 al 2015 (da 335 a 270.000 immatricolazioni); rispetto al Pil i fondi per la ricerca e l’innovazione sono meno della metà di quelli tedeschi e austriaci e quasi un terzo di quelli svedesi e finlandesi; l’analfabetismo di ritorno cresce; il paese si deindustrializza; la produttività per lavoratore diminuisce; la corruzione si mangia 60 miliardi di euro l’anno secondo le stime più prudenti, mentre l’evasione fiscale ne fa sparire 90 miliardi; per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale la speranza di vita degli italiani non si allunga ma si accorcia.

In questo panorama, il sistema politico disquisisce da più di un anno sulla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il 4 dicembre. Nessuno dei drammatici problemi che ho appena elencato è affrontato da questa riforma, né è immaginabile che la modifica della natura di uno dei due rami del parlamento (perché è questa natura che viene “riformata”) possa prendere di petto i problemi del malgoverno e del declino italiano.

Eppure nella stampa e nella radiotelevisione degli altri paesi europei (con la notevole eccezione del settimanale britannico The Economist) questo referendum è visto come una scadenza decisiva, addirittura come un rito di passaggio, allo stesso titolo, e con la stessa rilevanza per i destini dell’Europa, del voto sul Brexit inglese o delle elezioni presidenziali francesi nella prossima primavera. Il primo mistero da spiegare è proprio questo: la rilevanza epocale attribuita a un voto tutto sommato pretestuoso.

È come se mass media e cancellerie europee stessero prendendo una cantonata, questa sì epocale. Intanto fraintendono la natura del voto. Non c’è da un lato un voto “di sistema” e dall’altro un voto “populista”, a meno di non ritenere che più dei due terzi del parlamento italiano siano eletti da cittadini “populisti”. Il No alla riforma costituzionale può vincere e non succederà un bel nulla: gli italiani, contrariamente a quanto si vuol fare credere, non voteranno sull’Italexit. Per cui colpisce fuori dal vaso la “campagna panico” che i grandi poteri finanziari stanno conducendo, con Wall Street Journal e Financial Times che predicono catastrofi indicibili, uscita dall’euro, crollo del sistema finanziario, in caso di vittoria del No.

L’idea di vincere minacciando future apocalissi si è già dimostrata un errore nel caso del Brexit, ma è del tutto fuori luogo per questo referendum italiano in cui la posta in gioco non riguarda affatto l’economia. Come scrive l’Economist, “gli italiani non dovrebbero esser sottoposti a ricatto”.

Il misunderstanding dell’Italia ha una lunga storia all’estero. Prendiamo il radicato luogo comune secondo cui il sistema politico italiano sarebbe instabile. Questo stereotipo sarebbe dimostrato dai 52 diversi governi che si sono succeduti dal 1946 (quando fu fondata la repubblica) fino al 1994.

Ma in realtà questi 52 governi hanno mantenuto al potere sempre lo stesso partito, la Democrazia cristiana; e i vari cambiamenti di governo consistevano solo in un via vai degli stessi uomini da una poltrona all’altra, tanto che vi furono ben otto governi presieduti da Alcide De Gasperi, mentre Aldo Moro, Giulio Andreotti e Mariano Rumor ne presiedettero ognuno cinque e Amintore Fanfani quattro. Da questo punto di vista si può dire che nessun sistema politico europeo è stato tanto stabile quanto quello italiano: in nessun altro paese infatti il potere è stato detenuto da uno stesso partito ininterrottamente per tutta la guerra fredda (solo il Giappone ha conosciuto un destino uguale).

Un altro fattore d’incomprensione è la magica parola “semplificazione”, secondo cui la democrazia (come l’eguaglianza sociale) sarebbe intrinsecamente inefficiente. È un’idea che risale a un celebre rapporto del 1975 redatto da Samuel Huntington (quello dello “scontro di civiltà”), e commissionato dalla Commissione Trilateral. C’è soggiacente una visione militaresca del modo di funzionare delle società, che però non ha alcun fondamento (si sono viste democrazie e dittature sia efficienti che inefficienti), ma è una sorta di utopia disciplinare in cui tutto il mondo è riplasmato a immagine e somiglianza dell’industrioso e docile popolo di Singapore.

In questa chiave, la riforma costituzionale sottoposta a referendum sarebbe il fattore che semplifica il sistema politico italiano permettendo decisioni rapide ed efficienti, approvando le leggi con maggiore snellezza. Però così si dimentica che è con la costituzione esistente che l’Italia ha conosciuto negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso i decenni di maggiore crescita economica, un vero e proprio boom che non parve affatto frenato dalla “democraticità” del sistema politico.

Non solo, ma contrariamente al luogo comune, il parlamento italiano approva troppe leggi, è afflitto da un eccesso di efficienza legislatrice, per cui poi i cittadini devono imparare a fare lo slalom o il surf fra una miriade di leggi e leggine spesso in contraddizione tra di loro, gonfiando a dismisura l’apparato giudiziario fino a ridurlo alla quasi paralisi: una causa civile nei suoi tre gradi dura in media 8 anni e 7 mesi, e l’Italia è al 157° posto (su 183 paesi) per la durata dei procedimenti e per l’inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo.

Se le cose stanno così, ci si chiede come mai, negli ultimi due anni l’attuale governo presieduto da Matteo Renzi abbia trascurato tutte le questioni vitali per il paese e si sia concentrato solo sulla riforma costituzionale, accompagnata da quella elettorale. Da quando c’è Renzi, la lotta all’evasione fiscale è scomparsa dall’agenda politica del governo, proprio come ai bei tempi di Silvio Berlusconi: e proprio come lui, anche Renzi ha sbandierato agli elettori creduloni il miraggio del ponte sullo stretto di Messina. Il fatto è che la quasi abolizione del Senato va pensata insieme alla riforma del sistema elettorale, riforma grazie alla quale, visto il tasso di astensione che ormai si aggira regolarmente sul 35 %, basterà a un partito ottenere il consenso del 17-20 % degli elettori italiani per detenere il 54 % dei seggi di un parlamento le cui candidature sono decise a tavolino da una opaca leadership partitica.

Contrariamente a quel che sostengono Wall Street Journal e Financial Times, ma anche Deutschland Funk, una delle ragioni che spingono a votare No a questo referendum è che se vincesse il Sì, basterebbe a un partito “populista” raggiungere il 25-30% dei voti espressi per esercitare un potere quasi assoluto.

Come ha scritto l’Economist, di uomini forti l’Italia ne ha avuti anche troppi (e il regime mussoliniano non fu particolarmente efficiente, anche se si vantava, a torto, di far arrivare i treni in orario).

pubblicato sul quotidiano di Berlino Tageszeitung

«La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto».

Blog di Walter Tocci, 1 dicembre 2016 (m.c.g.)

Rapidità-Lungaggine

Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all'indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell'altro ramo.

In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell'attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.

Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento.

Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che è costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto. Avevano promesso rapidità e ottengono la lungaggine. Le nuove leggi non si muoveranno con l’eleganza della lepre ma con il passo barcollante della papera. Per una vera riforma del bicameralismo si doveva abolire il Senato e fissare soglie di garanzia per l’approvazione alla Camera delle leggi relative ai diritti di libertà dei cittadini.

Centralismo-Autonomie

Non è mantenuta neppure la promessa del Senato delle Autonomie. Palazzo Madama si occupa dei massimi sistemi – gli accordi internazionali e addirittura la Costituzione – ma ha scarsi poteri proprio sui problemi dei Comuni e delle Regioni. Per chiarirlo bastano alcuni recenti esempi di politica comunale sui tributi locali e sulle aziende municipali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la norma sottoposta al referendum dell’acqua non sarebbero di competenza primaria del Senato.

Soprattutto il Senato non ha alcun potere proprio sull’articolo 117 che regola i rapporti tra Stato e Regioni. E tali rapporti saranno ancora più conflittuali. Non è stata infatti abolita la legislazione concorrente. Nella sanità, nell’istruzione, nel welfare, nell’urbanistica esiste ancora la legge cornice dello Stato che delimita la legislazione regionale, ma ha cambiato nome. Prima si chiamava “norme generali” e ci sono voluti dieci anni di sentenze della Corte per precisarne il significato giuridico, tanto che il contenzioso è diminuito. Ora prende il nome di “disposizioni generali e comuni” e ci vorranno altri dieci anni di sentenze per precisarne il significato con una nuova impennata dei conflitti istituzionali.

Su altre materie invece si torna al vecchio centralismo statale che avevamo abbandonato inorriditi ormai venti anni fa. Entra in Costituzione la logica del decreto "Sblocca Italia" che aveva provocato il referendum delle trivelle. Il governo pretende di decidere sulle grandi opere – la Tav, il ponte di Messina, il Mose di Venezia - passando sopra la testa delle comunità locali. Addirittura sulla tutela dell’ambiente il testo è molto confuso.

Nella Carta vigente è scritto: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Nel nuovo testo c’è una strana inversione dei termini: “la tutela dei beni culturali; l’ambiente e l’ecosistema”. Quel punto e virgola interrompe il significato della tutela che non riguarda l’ambiente, anche se si può ritenere implicita. Il papa ha dedicato un’enciclica all’ecosistema, qui la questione è indebolita con la punteggiatura.

Al contrario, le vere riforme vengono rinviate. Le Regioni a statuto speciale, ormai prive delle motivazioni della guerra fredda, non solo vengono confermate, ma mantengono la vecchia Costituzione. Dall’Est non vengono più i cosacchi ma i gasdotti; quando arrivano in Friuli decide la Regione, se proseguono in Veneto decide lo Stato. Circa otto milioni di italiani avranno una diversa Costituzione, e la chiamano uniformità.

Infine, viene rinviata la scelta più importante, la riduzione del numero delle Regioni. Eppure era l’unica riforma capace di mutare l’assetto dei poteri locali e di favorire una migliore cooperazione tra Stato e Regioni. Le scelte difficili sono eluse, quelle facili vengono assunte, ma sono realizzate in modo maldestro e raccontate in tono mirabolante

Futuro-passato

Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent'anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica.

Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di "necessità e urgenza".

Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato per obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. Non solo, può essere stravolto da un ostruzionismo di maggioranza che ritarda la discussione fino al giorno della scadenza, imponendo il voto in blocco della legge senza emendamenti; d’altronde questo esito era scritto esplicitamente nella prima versione del testo governativo; è stato poi mitigato, ma l’intenzione rimane.

Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare. Ma una Costituzione dovrebbe stabilire un equilibrio tra le prerogative della maggioranza e i diritti delle minoranze. A parole questi sono garantiti dallo Statuto delle opposizioni, ma la sua stesura è rimandata al regolamento della Camera, che comunque sarà in mano a chi detiene il premio di maggioranza. Nessuna delle violazioni che hanno già trasferito il legislativo all’esecutivo viene impedita dalla revisione. La legge Boschi, anzi, è una sorta di sanatoria costituzionale; come le cartelle di Equitalia, si mette un velo sul passato e si continua come prima.

La violazione della seconda parte frena l'attuazione della prima parte della Carta. Per ricordarne la grandezza nelle assemblee referendarie ho letto l'articolo 36: "Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Tutti i cittadini comprendono queste parole semplici e profonde, non hanno bisogno di avvocati per leggerle, a differenza del rompicapo del nuovo articolo 70 che dovrebbe definire i compiti del Senato.

Quei principi però sono smentiti nella vita quotidiana di milioni di italiani e soprattutto dei giovani. Eppure non si parla più di attuazione della Costituzione, l’argomento è stato scalzato dall’ossessione della revisione. Nei programmi elettorali non è mai mancato il bicameralismo, ma nessun leader di sinistra ha chiesto i voti alle elezioni per attuare l’articolo 36. E se dovesse essere applicato comporterebbe la cancellazione delle ultime leggi sul lavoro, dalla Treu al Jobs Act.

Diciamoci la verità. Da trent'anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.

Con il SI continua una fantasia del passato. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente rivolta al futuro.

Potenza-Impotenza

La promessa di stabilità dei governi è la principale fantasia del passato. Da più di venti anni abbiamo abbandonato la proporzionale e ci siamo dati leggi maggioritarie. Avremmo dovuto già ottenere stabilità e invece nessun governo è riuscito a vincere le elezioni successive. Gli esecutivi hanno ottenuto nuovi poteri ma non li hanno utilizzati per attuare il programma presentato agli elettori, bensì per impadronirsi delle regole e conquistare nuovi poteri senza sapere cosa farne.

Sia a destra sia a sinistra è prevalso lo spirito di parte nel cambiamento della Costituzione (2001 e 2005), della legge elettorale (Porcellum e Italicum), nelle forzature parlamentari (canguri e altre invenzioni), sono stati eletti a colpi di maggioranza i presidenti alla Camera e al Senato e talvolta anche al Quirinale. La potenza politica dei leader mediatici ha prodotto solo impotenza del governo. È un decisionismo delle chiacchiera che non è in grado di organizzare complessi e duraturi processi riformatori nella struttura statale e sociale.

Così è fallito il bipolarismo italiano, perché nessuno dei due poli ha mantenuto le promesse, né la rivoluzione liberista di Berlusconi né il riformismo sociale della sinistra. Tutto ciò ha deluso i rispettivi elettori che, in gran parte, hanno abbandonato le urne. Senza domandarsi le ragioni del rifiuto i partiti sostituiscono gli elettori mancanti con i premi di maggioranza, alimentando così ulteriore astensionismo. Il circolo vizioso conduce a una lacerazione tra democrazia minoritaria e governi maggioritari. Questi hanno i numeri in Parlamento, ma non dispongono degli ampi consensi necessari per realizzare vere riforme.

Gli artifici elettorali danno una sensazione di potenza agli esecutivi, ma presto si rivela la loro impotenza a causa del distacco dal paese reale. La governabilità è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare. L’ossessione delle riforme istituzionali ha smarrito una semplice verità. Per governare un paese ci vuole progetto ambizioso, una classe dirigente autorevole e un vasto consenso popolare. Poi possono aiutare anche piccoli rinforzi istituzionali, ma non riescono a surrogare l’impotenza dei governi. Eppure da trent'anni la classe politica rimuove le proprie responsabilità attribuendo la colpa al bicameralismo. La vittoria del NO ristabilisce le priorità. Il primo problema del paese è costringere la classe politica a rinnovare se stessa lasciando in pace la Costituzione.

Unità-Discordia

Una riforma costituzionale dovrebbe essere l’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.

Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L'impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.

Nelle ultime ore scatta l'allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto "stai sereno, Enrico" e poi lo ha sostituito; aveva promesso "mai al governo senza investitura popolare" e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l'errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.

L'establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima.
Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali.

Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.

Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel '74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di NO la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull'acqua, dopo trent'anni di liberismo, nell'inconsapevolezza della politica di sinistra, il popolo indicò nei beni comuni l'unica risorsa per uscire dalla crisi.

Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che la saggezza popolare desidera prima di tutto l'attuazione della Costituzione e vuole mettere fine al suo trentennale stravolgimento.

Come nel libro di Isaia il viandante chiede: «Sentinella, quanto dura la notte?» Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.

«Forum italiano dei movimenti per l'acqua». perUnaltracittà,

La Corte costituzionale ha sostanzialmente demolito la cosiddetta Riforma della Pubblica Amministrazione voluta dalla Ministra Marianna Madia dichiarando l’incostituzionalità di diversi articoli della legge delega tra cui quelli relativi a dirigenza, società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego.

La censura della Consulta si fonda sulla lesione del principio di leale collaborazione tra stato ed enti locali. Ciò, di fatto, demolisce anche i decreti attuativi in quanto risultano illegittimi i presupposti su cui si basano.

Per queste ragioni il Governo è stato costretto a ritirare il decreto sui servizi pubblici locali.Una marcia indietro richiesta dal movimento per l’acqua da subito con la grande mobilitazione messa in campo a partire dalla primavera scorsa che ha prodotto centinaia di iniziative e una straordinaria raccolta di firme in calce alla petizione popolare (230.000 firme consegnate al Parlamento a fine luglio).

Abbiamo sempre denunciato l’incostituzionalità di questo provvedimento che avrebbe prodotto un pericoloso vulnus democratico provando a cancellare l’esito del referendum 2011. Su questa base si era aperto un confronto con la Ministra Madia la quale più volte aveva dichiarato che il servizio idrico sarebbe stato stralciato dalla versione definitiva decreto.

Ciò avrebbe costituito solo un primo passo indietro, seppur importante, nel tentativo del Governo di sovvertire l’esito referendario. Abbiamo, infatti, sempre ribadito che andavano eliminate tutte le norme che puntavano alla privatizzazione dei servizi locali, che vietano la gestione pubblica tramite aziende speciali, oltre a quelle che permangono e creano, comunque, una disparità tra le diverse forme di gestione con un evidente favore per quelle privatistiche.Non possiamo che gioire di fronte alla capitolazione di una riforma dei servizi pubblici locali che, in ogni caso, si ispirava all’idea del mercato come unico regolatore sociale.

Una capitolazione che deriva dal combinato disposto di una grande mobilitazione sociale e dall’intervento della Consulta.

La nostra battaglia proseguirà perchè siamo convinti della necessità di una inversione di rotta nel senso della piena attuazione degli esiti referendari e della promozione di un gestione pubblica e partecipativa dell’acqua svolta nell’interesse della comunità e che restituisca il giusto ruolo alle amministrazioni locali.

Siamo anche convinti che il dibattito nel nostro paese debba ripartire proprio da questi punti e ci adopereremo affinchè l’eventuale nuovo testo di decreto sia radicalmente riformulato e la legge sull’acqua in discussione al Senato, svuotata e stravolta nel suo impianto generale, sia approvata nella sua versione originaria a partire dal ripristino dell’articolo che disciplinava i processi di ripubblicizzazione.

«establishment (con una nuova “Casta” al posto della vecchia), mentre la vittoria del “No” il riaprirsi della speranza, benché difficile e faticosa». MicroMega, 1°dicembre 2016 (c.m.c.)

Renzi sostiene che la sua riforma costituzionale ha due meriti fondamentali: è razionale, perché elimina il doppione legislativo tra Camera e Senato, causa a suo dire fondamentale della lentezza, farraginosità e infine impossibilità di affrontare i problemi del paese; è pro-cittadino e anti-“Casta”, perché riduce i costi della politica, togliendo così argomenti alla demagogia populista che è sempre più pericolosa (secondo Renzi chi in Italia vota “No” apparterrebbe alla stessa ondata reazionaria del lepenismo, della Brexit, della vittoria di Trump).

Due falsità. Due assolute menzogne.

Il Senato non viene abrogato. Viene nominato dai consigli regionali, e continua ad avere funzioni legislative, benché in teoria più limitate. Ma il nuovo art. 70, che le elenca, è scritto in modo talmente complicato e contraddittorio che i maggiori giuristi ne hanno già dato cinque o sei interpretazioni tra loro incompatibili. È prevedibile un vero “can can” di ricorsi per ogni legge contestata, fino alla Corte Costituzionale. In tal modo il processo legislativo non solo non diventa più veloce ed efficiente ma rischia la paralisi.

In compenso i presidenti o consiglieri regionali o sindaci che saranno nominati senatori godranno delle immunità parlamentari rispetto ad arresto, perquisizioni, intercettazioni, ecc., un regalo preziosissimo per la “Casta”, visto che negli ultimi anni il tasso di corruzione (e condanne) nelle Regioni e nei grandi comuni è aumentata in modo esponenziale.

Il risparmio è risibile (57,7 milioni annui, fonte ufficiale della Ragioneria dello Stato), un taglio alle pensioni degli ex parlamentari o agli stipendi dei parlamentari attuali garantirebbe molto di più (la legge proposta in questo senso dal “Movimento 5 stelle” è stata da Renzi rinviata in commissione, cioè alle “calende greche”!). La vera indecenza del costo della politica consiste nelle decine e decine di migliaia di inutili consiglieri di amministrazione di aziende pubbliche (ogni piccolo comune ha le sue), le decine e decine di migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare. Una “Casta” che Renzi consolida.

La sua controriforma (chiamiamola col vero nome) cambia 47 articoli su 139, rappresenta una nuova Costituzione, con carattere spiccatamente oligarchico, non solo per lo strapotere dell’esecutivo ma per l’abrogazione di fatto di ogni potere di controllo (magistratura, “authorities” di garanzia, autonomie culturali, ecc.). Infatti, insieme alla nuova legge elettorale (è lo stesso Renzi ad aver presentato le due cose come complementari), se passa la controriforma della Costituzione il partito di maggioranza nominerà a propria immagine il Presidente della Repubblica (e potrà facilmente metterlo sotto accusa se non obbedisce), la Corte Costituzionale, tutte le “authorities”, il Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine nelle Procure e nei tribunali), e accentrerà senza più contrappesi il potere sui beni culturali e ambientali, trasformandoli in “risorse economiche” e niente altro, come già sta facendo.

Oggi le tre forze politiche principali (Renzi, Grillo, Berlusconi/Salvini) hanno un consenso elettorale del 25/30% (il resto si disperde tra liste minori). Con meno di un terzo dei consensi (ma ormai vota solo il 60%, dunque con il sostegno di poco più di un quarto dei cittadini) il “Capo” che vince (chiunque esso sia, e per molte generazioni) avrà poteri che tutta la tradizione liberaldemocratica ha sempre considerato proto-totalitari.

La demagogia di Renzi urla che il voto per il “No” significa immobilismo. Ma la vera conservazione è la sua controriforma, disegnata su misura per il rafforzamento, il radicamento, la costituzionalizzazione, di un sistema oligarchico che in Italia è un kombinat affaristico-politico-corruttivo con sempre più vaste sponde mafiose (secondo il “Tax Research” di Londra il rapporto tra il nero e il PIL è pari a circa il 27%, per la Banca d’Italia nel 2008 la “economia non osservata” costituisce il 31,1% (di cui il 12,6% legato alle attività criminali). Da quando Renzi è al governo questi “mondi” hanno avuto vita ancora più facile.

In Italia la vera bandiera riformista e progressista è sempre stata la realizzazione della Costituzione del 1946, osteggiata e impedita dai governi che si sono succeduti, per il carattere fortemente egualitario e sociale di tale Costituzione, nata dalla Resistenza.

In realtà la controriforma di Renzi è solo una versione (peggiorata) di quella di Berlusconi di dieci anni fa. Oggi Berlusconi a parole dice “No” (concorrenza tra progetti oligarchici!), ma le sue televisioni sono tutte schierate massicciamente per il “Sì”. Ovviamente sia il fronte del “Sì” che quello del “No” sono variegati e contraddittori, ma la componente essenziale del “No” è data dai milioni di cittadini che in modo autonomo (la “società civile”), negli ultimi venticinque anni si sono impegnati, spesso con gigantesche manifestazioni di piazza, per una politica di “giustizia e libertà”, contro il regime di compromesso di fatto tra Berlusconi e il Pd che si alternavano al governo.

Queste forze oggi trovano espressione elettorale solo nel “Movimento 5 stelle” di Beppe Grillo. Ambiguo e contraddittorio, ma certamente non assimilabile ai populismi di destra che dilagano nel mondo, come Renzi ripete in questi ultimi giorni dai teleschermi per spaventare, e conquistare i voti di destra (lo dice apertamente). Grillo ha ricordato – giustamente – che senza il suo movimento in Italia la protesta anti-establishment avrebbe trovato una sua “Alba dorata” e altri lepenismi.

Ecco perché la vittoria del “Sì” vorrebbe dire la perpetuazione del conformismo d’establishment (con una nuova “Casta” al posto della vecchia), mentre la vittoria del “No” il riaprirsi della speranza, benché difficile e faticosa.

» Anche contro il populismo di Renzi?.

il manifesto, 2 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ha aspettato fino quasi all’ultimo per pronunciarsi, spiega il sindaco di Genova Marco Doria, perché il voto popolare gli ha dato «una responsabilità precisa in forza di un patto stipulato in cui ovviamente non era e non poteva essere prevista qualsivoglia posizione da tenere in occasioni di un referendum». Ma il suo è un No.

Una scelta personale, ha scritto ieri su facebook in un lungo post che argomenta nel dettaglio le sue convinzioni. Una scelta «rispettosa» di quella di molti consiglieri della sua maggioranza – la forza maggiore è il Pd, e anche nella sua ‘Lista Doria’ le opinioni sono diverse. Ed è un no «di merito», non rivolto al governo di cui ha pure apprezzato «l’impegno deciso nell’affrontare il disastro del dissesto idrogeologico», quello «ad accogliere i profughi che giungono in Italia, in coerenza con inderogabili principi di solidarietà e senza lasciare spazio a razzismo e xenofobia».Quanto alla modifica costituzionale però, «nel complesso ritengo che la proposta non cambi in meglio la nostra Carta».

Il ragionamento però non finisce con il 4 dicembre. Anzi, il cuore del discorso del sindaco sta nel disegnare il dopo-referendum. Doria, indipendente di Sel e protagonista di primo piano di un’area di sindaci eletti da una coalizione che stanno di fatto muovendo il quadro della sinistra italiana, sa di avere molti occhi puntati addosso. Anche molte aspettative. E non tanto riguardo alla sua città, che pure il prossimo anno tornerà al voto: e se non ci tornasse con un centrosinistra unito potrebbe consegnare le chiavi ad altri, com’è successo un anno fa alla regione Liguria.

Ma quella delle prossime amministrative sarà un’altra storia. la questione che pone oggi Doria va al di là di Genova. I suoi colleghi Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, uno ex sindaco di Milano e l’altro sindaco di Cagliari, provenienti dalla stessa area politica, hanno fatto molti passi indietro rispetto alla nuova forza Sinistra italiana, accusandola di fatto di avviarsi verso l’isolamento. E al referendum hanno deciso di non schierarsi con il No utilizzando parole arzigogolate se non per dire Sì almeno per tenere unita l’area del centrosinistra che sostiene i governi delle loro città, fatalmente spaccata con il referendum grazie anche alla campagna pesantissima del Pd renziano.

La preoccupazione di Doria è quella del futuro del centrosinistra. «Tanti cittadini genovesi e italiani che voteranno sì o no condividono valori e visioni della società in cui mi riconosco, che sento miei», scrive. «Per affrontare le questioni del nostro tempo bisogna costruire intese che ci consentano di guardare oltre il momento del 4 dicembre, di affermare una linea che faccia crescere il paese, riduca le diseguaglianze, tuteli l’ambiente». Contrastandole spinte populistiche, scrive. «Non è un impegno agevole ma è assolutamente obbligato e deve vedere uniti tanti che il 4 dicembre non si esprimeranno nello stesso modo».

Perché per chi vuole pace e giustizia è impossibile dire si a una riforma concepita e imposta «a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia» Sarà un "gufo", sarà un "professorone", ma è certamente un Maestro.

La Repubblica, 2 dicembre 2016

CARO Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La “pessima compagnia”, in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: “non so se lo farà”, ma “so che non lo farà”, con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.

I discorsi “sul merito” della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla “pessima compagnia”. Il merito della riforma, anche a molti di coloro che dicono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.

Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese.

Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.

Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo “Manifesto”, così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto.

C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando — solo quando — siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della “stabilità”. Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle “destabilizzazioni” — chiamiamoli ricatti — che proprio da loro provengono.

Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì.

L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.

Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo. Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo di ritornare su questi temi con lo spirito e lo spazio necessari.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2016 (p.d.)

Era inevitabile che i toni della campagna referendaria si sarebbero inaspriti con l’approssimarsi del voto, ma si è andati piuttosto al di là delle peggiori previsioni, vista la gran quantità di sciocchezze messe in libertà dai tanti che, incapaci di confrontarsi nel merito, fanno a gara a chi dice la cretinata più grossa.

In una campagna elettorale ove si riaffacciano tanti ruderi della Prima Repubblica, è ricomparso perfino l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, che non perde occasione, neppure quando si parla di referendum, per cercare di ridicolizzare la trattativa Stato-mafia, forse perché cerca di nascondere la verità: e cioè che la sua vita di condannato a morte dalla mafia è stata salvata, assieme a quella di vari politici e ministri del tempo, proprio grazie a quella oscena trattativa che ha mietuto decine di vittime innocenti.

E già che c'era, confuso e a corto di argomenti, come tanti sostenitori del fronte del Sì, ha affastellato un po’ di commenti denigratori della mia persona e degli argomenti per votare No, confondendo il Guatemala con il Nicaragua, attribuendomi incarichi che non ho mai ricoperto, citando a sproposito Crozza, e provando a ridicolizzare un processo serio e supportato da prove robuste, come quello sulla trattativa, che ha l’unica colpa, agli occhi della casta politica che ne ha beneficiato, di voler fare chiarezza su una delle pagine più dolorose e buie della nostra storia.

Ma se dilungarsi su Martelli sarebbe tempo perso, va affrontato seriamente un argomento che sostengo con convinzione, anche sulla base di ciò che sappiamo sulla mafia. Dire che il No è un voto antimafia, perché alle mafie questa controriforma non può che piacere, non è una boutade o un eccesso da campagna elettorale, come la liquida chi non ha capito o voluto capire. È invece una logica e dimostrata conseguenza di alcune premesse.

Se è vero, come è vero,che l’obiettivo strategico coerentemente perseguito con questa pessima riforma è quello di trasformare la nostra democrazia orizzontale in una Repubblica verticale, di tagliare spazi di partecipazione e contrappesi istituzionali per favorire la concentrazione del potere nelle mani di un uomo solo al comando, è perfino banale desumerne che quell’uomo solo sarà più facilmente condizionabile dalle lobby occulte che hanno sempre condizionato la storia del nostro Paese.

Non è un caso che questa riforma riprenda antichi progetti, rilanciando soluzioni messe nero su bianco anni addietro dalla commissione Trilateral, dalla P2 e da banche d’affari come la Jp Morgan. E fra le tante lobby occulte, quali hanno avuto in Italia maggiore capacità di condizionamento della politica e dell’economia se non le organizzazioni mafiose che hanno operato e operano attraverso il controllo del territorio e dei voti, i legami con la massoneria deviata, e la convergenza d’interessi con insospettabili centri di potere affaristico-finanziario?

Se passa la controriforma Renzi-Boschi-Napolitano, per la mafia sarà chiaramente più semplice controllare la politica, e per questo è normale che abbia interesse a che vinca il Sì, così come tutte le altre lobby più o meno occulte che hanno sostenuto analoghi progetti di stravolgimento di una Costituzione, come la nostra, fondata sulla democrazia orizzontale.

Verticalizzare e centralizzare il potere ne facilita il condizionamento. E per farlo occorre desovranizzare il popolo e togliere ogni decentramento e orizzontalità al potere. È proprio per questo che opporsi a questo disegno votando No è un voto antimafia.

Ma oggi in Italia di mafia non si vuole parlare, c’è una totale rimozione collettiva, tant’è che in nessun dibattito, tribuna politica o talk show viene mai dato spazio e voce a chi sostiene certe “eresie”. Troppo pericoloso. Si diceva una volta che la mafia non esiste. Evidentemente per qualcuno è ancora così.

«Votare Sì è insieme conservatore e avventurista. Conservatore perché punta su una riduzione della democrazia per conservare la diseguaglianza. Avventurista perché scommette su un abito cucito su misura per un giocatore solo».

Huffingtonpost.it, 1° dicembre 2016.

Veniamo al nocciolo della questione. Se vince il Sì il governo (qualunque governo) sarà più forte, e i cittadini conteranno di meno. La riforma punta tutto sulla diminuzione della partecipazione, e sulla autoreferenzialità della classe politica. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa "nuova" Costituzione vede "la democrazia come un ostacolo", e il bene comune come "una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi".

Come siamo arrivati a questo? La risposta è tutta racchiusa in una singola parola: diseguaglianza. Secondo il rapporto annuale Istat del 2016, l'Italia è il paese in cui - tra 1990 e 2010 - la diseguaglianza sociale è aumentata di più. In assoluto: "tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati". È quello che succede in tutto l'Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese. Come ha scritto il premio nobel per l'economia Joseph Stiglitz, "la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme, mentre i pochi in cima alla scala sociale - l'1% - stanno vivendo una vita diversa".

Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli, l'establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero. "È diventato un luogo comune dire che vogliamo tutti la stessa cosa e abbiamo solo modi leggermente diversi per giungere a essa. Ma è semplicemente falso. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi, chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico" (Tony Judt, Guasto è il mondo, 2010).

E se i poveri votano tutti insieme, il sistema può essere rovesciato. Fino a un certo punto la soluzione è a portata di mano: incoraggiare l'astensione di massa. Non per caso il messaggio (dalla Thatcher a Blair, a Renzi) è: "non c'è alternativa". Tradotto: "non votate, tanto è inutile". Ma, da un certo punto in poi, l'astensione non basta: per tenere il conflitto sociale fuori dai luoghi in cui si decide bisogna separare questi luoghi (il parlamento e il governo) dal suffragio popolare, dai cittadini.

È per questo che non voteremmo più il Senato e i governi delle provincie, che le leggi di iniziativa popolare sarebbero in balìa della maggioranza parlamentare, che le regioni verrebbero espropriate di ogni potere reale. In breve, se la diseguaglianza è tale da rendere "pericolosa" la democrazia ci sono due soluzioni: diminuire la diseguaglianza, o diminuire la democrazia. Il governo Renzi ha scelto quest'ultima strada. Non è vero che questa scelta non cambia la prima parte della Costituzione: anzi, ne sovverte il più fondamentale dei principi fondamentali, l'articolo 3. Dove è scritto che "è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Il progetto della Costituzione è ridurre la diseguaglianza per consentire la partecipazione: il progetto di questa riforma è ridurre la partecipazione per consentire il perdurare della diseguaglianza.

È per questo che Confindustria, Marchionne, JP Morgan, l'establishment tedesco e in generale il mercato votano Sì. Mentre la Fiom e tutta la Cgil, Libera, l'Arci, l'Anpi e infinite associazioni di cittadini votano No.

Le poche riserve del mondo della finanza (per esempio quelle dell'Economist) non vengono certo da un disaccordo politico, ma dal dubbio (fondato) che le riforme siano così mal congegnate che rischiano di dare un potere blindato nelle mani non dell'establishment, ma di un suo nemico (Grillo).

Ed è così: votare Sì è insieme conservatore e avventurista. Conservatore perché punta su una riduzione della democrazia per conservare la diseguaglianza. Avventurista perché scommette su un abito cucito su misura per un giocatore solo, non contemplando ipotesi subordinate.

Votare No, invece, vuol dire aver compreso che così non si può andare avanti. Che se restringiamo ancora la democrazia, invece di ridurre la diseguaglianza, lo schianto sarà ancora più forte. Vuol dire tenere aperto il campo da gioco del Parlamento, come luogo in cui far arrivare tutto intero il conflitto sociale. Come luogo da cui far partire un cambiamento vero. Cioè radicale.

Per questo il Sì di Romano Prodi è molto triste. Ma non perché ci sia dietro chissà quale calcolo personale. Ma perché Prodi non capisce che ciò che davvero gli sta a cuore, ciò a cui ha dedicato la vita (l'Europa) viene condannato definitivamente a morte dal mantenimento dello stato delle cose.

Una vera classe dirigente dovrebbe capire - per non fare che un solo esempio - che se vogliamo evitare lo schianto, gli Stati devono ricominciare a esercitare la sovranità. La libera circolazione delle merci non può continuare a essere l'unico dogma che regge il mondo: se la Cina continuerà a inondare il mondo di prodotti a costo zero (perché frutto di schiavitù di massa) l'Africa non avrà alcuna possibilità di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle migrazioni.

Se le sfide sono di questa portata - ed è difficile negarlo - uno statista dovrebbe utilizzare la spinta dal basso per cambiare effettivamente lo stato delle cose: non puntare tutto sul tentativo di neutralizzare quella spinta. E invece i padri dell'Unione Europea come Prodi preferiscono mettere la testa sotto il cuscino, in un riflesso che è spiegabile solo con la rassegnazione e l'impotenza. Ma questa scelta finirà proprio col distruggere ciò che vorrebbero salvare. Perché il Sì è come un'aspirina per uno che ha bisogno di un trapianto: il No vuol dire mettersi in lista per l'operazione. Il Sì è come mettere il dito nel buco della diga: il No vuol dire avviarsi a svuotare il bacino che sta per tracimare.

Dire che la "casta" vota Sì non significa fare polemica demagogica contro i privilegi delle élite. Significa prendere atto che vota Sì chi pensa che, tutto sommato, le cose non possano che andare così. E oggi lo pensa solo chi ha qualche forma di garanzia. Chi ha qualcosa da difendere. Diciamolo in modo brutalmente chiaro: i benestanti. E soprattutto i benestanti anziani, che preferiscono non chiedersi come faranno i loro figli e i loro nipoti a tenere insieme diseguaglianza e democrazia. Che pensano che non ci saranno più quando tutto questo salterà in aria.

Io voterò No perché sono cristiano. Voto no perché sono di sinistra. Penso che il mondo è guasto: e bisogna por mano a ripararlo. Tra ridurre la diseguaglianza e ridurre la democrazia, scelgo la prima. Con questa riforma della Costituzione hanno spaccato il Paese, e ci hanno chiesto di decidere con chi vogliamo stare: allora io voglio stare con i miei. Perché "reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri" (Don Lorenzo Milani).

«Non una di meno. Dal movimento delle donne un percorso che sfida lo status dei maschi e chiede un cambiamento radicale. Intrecciato alla difesa di reddito, lavoro, ambiente, immigrati».

il manifesto, 1° dicembre 2016 (c.m.c.)

Viviamo da tempo, e sempre di più, in un regime di ricatto continuo, a cui rischiamo di assuefarci. Facciamo alcuni esempi.

L’abolizione dell’art. 18 rende non solo più facili i licenziamenti; introduce anche nelle aziende un clima di ricatto permanente analogo a quello del lavoro precario. Gli effetti non vanno misurati solo sul numero dei licenziati quanto su quello di morti, infortuni e malattie professionali di chi non può più sottrarsi alle imposizioni della gerarchia.

L’accordo sui profughi tra Unione europea e Turchia espone al ricatto di Erdogan tutti i governi europei che non possono certo sottrarvisi solo tacendo su misure vergognose in tema di democrazia, persecuzione dei curdi o sostegno all’Isis. Quel ricatto continuerà finché si tratteranno i profughi come una calamità e non come una opportunità per ricostituire, con il loro contributo, un diverso ordine sociale.

Il debito degli Stati dopo il «divorzio» tra Governi e Banche centrali ha messo in mano alla finanza internazionale non solo le politiche pubbliche ma anche vita e scelte dei cittadini. Le vicende della Grecia dimostrano che piegarsi una, due, tre o quattro volte non libera comunque dal ricatto, che resta permanente. Lo sperimentiamo anche noi: i rappresentanti dell’alta finanza che ci hanno imposto gli ultimi governi oggi vengono a dirci come dobbiamo votare al referendum per evitare uno sfracello. Il che rende evidente che gli «sfracelli» non dipendono dalle «leggi oggettive» del mercato ma da decisioni politiche; prese però non dai governi, ma da poteri tutt’altro che occulti che li tengono in pugno con il ricatto.

Se i «trenta anni gloriosi» del dopoguerra si erano svolti nel segno della speranza – decolonizzazione, «miracoli economici» e «magnifiche sorti» del socialismo – gli ultimi trenta sono invece dominati dalla paura: di perdere il posto o di non trovarlo mai; di essere invasi da alieni che ci portano via il poco che abbiamo; di un disastro economico che ci riduca tutti in miseria.

La paura si traduce in un ricatto contro cui sembra non esserci difesa: il suo nome inglese è «TINA», There Is No Alternative. Infatti l’alternativa non c’è: la parabola de L’altra Europa, soffocata dai partiti che avrebbero dovuto farla crescere, dopo i fallimenti di Coalizione sociale, Cambiare si può, Alba, Federazione delle sinistre, lista Arcobaleno etc., fa capire che un’epoca si è chiusa e che occorre guardare altrove.

Un’alternativa in realtà già c’è nella testa o nel sentire di milioni di persone: si chiama reddito garantito per sottrarsi al ricatto della precarietà e trasformare il lavoro in attività scelte liberamente; accoglienza e inclusione di milioni di profughi per riconquistare con loro e le loro comunità di origine una prospettiva di pace, democrazia e risanamento ambientale tanto dei nostri quanto dei loro paesi; recupero di un controllo diretto e decentrato sul denaro che serve a far circolare beni e servizi tra le persone, restituendogli il ruolo di bene comune a fianco della terra, cioè dell’ambiente, e del lavoro, cioè del libero impiego delle facoltà umane.

Ma come arrivarci? Forse la strada da imboccare è sotto i nostri occhi. Tanto evidente da non riuscire a vederla, come la lettera rubata di Poe.

A vivere da sempre sotto ricatto, in forme ben più intense di quelle indicate prima, è «l’altra metà del cielo».

Un ricatto radicale, che mette in forse la vita e l’integrità fisica – in un crescendo evidenziato dai femminicidi – di molte, ma che per tutte può significare la perdita non solo di pochi o tanti piccoli benefici, ma soprattutto una condizione sociale considerata «sicura», a cui si sono dovute bene o male adattare, ma che non lascia certo prefigurare il futuro che le aspetta sottraendosi al ricatto, se non quello che tutte insieme sapranno costruire.

È così a tutte le latitudini: sia nei territori della donna «emancipata» – ma non per questo fuori dal dominio di una cultura patriarcale – sia in paesi e comunità dove sottomissione e possesso delle donne vengono resi evidenti anche con i segni esteriori, come il velo, di una condizione subalterna.

Per l’universo maschile capire questa condizione significa vivere in prima persona la consapevolezza che non ci si può sottrarre ai ricatti a cui siamo sottoposti senza mettere a rischio il nostro status, quale che sia, con i tanti o pochi benefici che comporta e le piccole e crudeli forme di potere, sulle donne o su chi sta peggio di noi, che lo accompagnano.

Ma è una strada irrinunciabile per cambiare la società cambiando anche noi stessi e chi ci vive accanto.

Così possiamo compiere un pezzo di strada insieme lungo il cammino che il movimento delle donne sta cercando di percorrere; e accettare serenamente di ritrovarci spesso nella posizione di loro controparte: non meno gravemente di quanto padroni, finanza e governi lo sono per noi.

Le mille bugie e i voltafaccia di impensabili voltagabbana (da Scalfari a Prodi a Michele Serra) continuano a rendere necessario insistere col dire la verità e col convincere a votare NO. Il Fatto quotidiano, 1° dicembre 2016


1.
Essendo un referendum costituzionale, l’unica cosa che conta è la legge costituzionale: si vota Sì o No alla “riforma” Boschi-Verdini che persino Prodi, passando dal No al Sì, definisce priva della “profondità e chiarezza necessarie”. Quindi, siccome la nuova Carta durerà e farà danni per decenni, bisogna votare No.
Giro l’Italia da mesi per spiegare i pericoli della controriforma costituzionale, le bugie del Sì e le buone ragioni del No, e negli ultimi giorni sento dire: “Ormai è fatta. Il No ha stravinto”. Ma siamo matti? Il peccato mortale da evitare è proprio questo rilassamento a pochi metri dal traguardo. Questo bearsi beota delle promesse di chi dice di votare No e poi magari, nel segreto dell’urna, barra il solito Signorsì italiota: per paura, per interesse, per conformismo, per servilismo. Renzi e la sua potentissima macchina di propaganda, soldi, tv, giornali, radio, spot, poteri nazionali e internazionali, si sta comprando a una a una le caste e le corporazioni con denaro pubblico, sta ingannando metà del Paese con promesse-patacca e terrorizzando l’altra metà con spauracchi inesistenti o paure fondate ma totalmente scollegate da questo voto (se certe banche sono al collasso, non è colpa di chi vota No e non sarà la vittoria del Sì a riportarle in salute, visto che finora questo governo non ha mosso un dito per risanarle). La vera Casta che ha rovinato l’Italia è tutta con lui e chiama alle armi persino quei pochi che erano finiti ai margini, come l’incredibile Prodi, che ancora ad agosto sussurrava il suo No e ora dichiara il suo Sì a una riforma che gli fa ribrezzo, “nella speranza che giovi al rafforzamento delle nostre regole democratiche”. Buonanotte, professore: rafforziamo la democrazia abolendo le elezioni per il Senato. Complimenti per la lucidità e la coerenza.
Nei due giorni che mancano alle urne, dobbiamo raccogliere le forze e le idee per portare al No tutti gli incerti che possiamo. Per poter dire lunedì – comunque vada il referendum – di aver fatto tutto il possibile per salvare la nostra Costituzione da questi lanzichenecchi. Usando l’argomento più semplice e convincente di tutti: la verità.

2. Le banche, i mercati, lo spread, il pil, gli investimenti, le bollette, i salari, le tasse, gli immigrati, la criminalità, i baby killer, i malati di cancro, epatite C e diabete, non c’entrano nulla. E il fatto che i fautori del Sì li tirino in ballo, la dice lunga sulla miseria delle loro ragioni. Dunque bisogna votare No.

3. La stabilità del governo non dipende dal referendum, che non riguarda il governo, ma una legge costituzionale imposta dal governo.

Se Renzi vuole stabilità e non i soliti “tecnici non eletti” (come se lui lo fosse stato), resti comunque a Palazzo Chigi sino a fine legislatura, visto che la sua maggioranza è intatta. È quel che gli dice il capo dello Stato, unico depositario della legislatura. E comunque l’ultimo che può predicare stabilità è proprio Renzi, che nel 2014 ribaltò dopo 9 mesi il governo in carica presieduto da Enrico Letta senza passare dal voto per farne un altro con la stessa maggioranza e il programma opposto a quello votato dagli elettori Pd. Quindi bisogna votare No.

5. Se vince il No, non è affatto detto che le prossime elezioni le vincano i 5Stelle. Anzi, paradossalmente è più improbabile: se il Senato resta elettivo, rifare l’Italicum (che ora vale solo per la Camera) sarà obbligatorio. E oggi le maggiori chance di vittoria solitaria del M5S sono legate al ballottaggio dell’Italicum. Non è neppure detto che il No farà perdere le elezioni a Renzi: nel 2006 B. perse il referendum costituzionale e nel 2008 stravinse le elezioni. Quindi bisogna votare No.

6. Eugenio Scalfari, tentando di giustificare il suo voltafaccia dal No al Sì, tenta di spiegare con tutto il partito di Repubblica che non è lui ad aver cambiato idea: è il referendum che ha “ampiamente cambiato il significato che gli attribuisce la gran parte dei cittadini… Ormai il Sì è un ‘viva Renzi’ e il No è ‘abbasso’… Il grosso dei No è di provenienze grilline”. Per Michele Serra e altri, il No sarebbe addirittura destraccia della peggior specie: “Il No di sinistra affogherà dentro il No di destra, quello di Brunetta, Berlusconi e Salvini, e soprattutto dentro il No grillino”, segnando la vittoria di “figure politiche alle quali, della Costituzione, non è mai importato un fico secco” (invece Briatore, Vacchi, Marchionne, Confalonieri, Confindustria, l’ambasciatore americano, Schäuble, Juncker, Jp Morgan, Cicchitto, Verdini, Pera, Casini, Ferrara, Feltri, Tosi, Pisicchio, De Luca, Bondi, Alfano, sono tutti cultori della Costituzione iscritti alla Terza Internazionale). Ora, il referendum è un essere inanimato e non ha affatto cambiato significato. Da quando è stato indetto, ha sempre riguardato lo stravolgimento della Costituzione. Se qualcuno ha smesso di difenderla, liberissimo. Ma non racconti frottole: chi era contro è rimasto contro e chi era pro è rimasto pro, salvo pochi voltagabbana incrociati. Ma se la Costituzione, scritta e votata nel 1946-47 da monarchici, ex fascisti, liberali, democristiani, repubblicani, socialisti e comunisti, viene ora difesa da un fronte eterogeneo, conta solo il risultato: salvarla da una “riforma” peggiorativa. Fermo restando che con il No, dall’inizio (quando B. era per il Sì), ci sono tutte le forze democratiche, tradizionali e nuove: Cgil, Fiom, Magistratura democratica, Associazione partigiani, costituzionalisti e intellettuali progressisti, la sinistra Pd, la galassia ex-Sel, Possibile, i 5Stelle (sì, anche loro), Libertà e Giustizia, il Fatto, il manifesto, Micromega e molte firme di Repubblica. Quindi bisogna votare No. Con l’orgoglio di stare in ottima compagnia. E dalla parte giusta.

Nei due giorni che mancano alle urne, dobbiamo raccogliere le forze e le idee per portare al No tutti gli incerti che possiamo. Per poter dire lunedì – comunque vada il referendum – di aver fatto tutto il possibile per salvare la nostra Costituzione da questi lanzichenecchi. Usando l’argomento più semplice e convincente di tutti: la verità». (Marco Travaglio)

«Ciò che accadrà nei prossimi mesi a Washington è la prova di quanto sia importante, vitale per la democrazia, avere un luogo di riflessione con legislatori indipendenti e non un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci ammanettati alla disciplina di partito». il manifesto, 1° dicembre 2016 (c.m.c.)

A che serve un senato indipendente dalla camera e dal presidente? A nulla, è un doppione, un intralcio, uno spreco di soldi e rallenta le decisioni, rispondono Renzi e la Boschi. Se guardassero agli Usa potrebbero scoprire che, per esempio, serve a evitare la guerra nucleare, un conflitto con la Cina, l’invasione di Cuba, il taglio delle medicine ai pensionati. Tutte sciocchezze, naturalmente, meglio decidere in fretta, da palazzo Chigi.

A Washington, invece, la mitologia dell’Uomo-Solo-Al-Comando non ha ancora fatto presa del tutto e quindi il senato rimane un luogo di discussione dove la disciplina di partito non è garantita.

Quando Trump entrerà in carica il 20 gennaio, in senato ci saranno quasi sicuramente 52 repubblicani e 48 democratici, ma non è detto che su ogni progetto della Casa bianca si trovi una maggioranza. Per esempio, se Trump decidesse di fare ciò che ha promesso di fare in campagna elettorale, riportare la tortura nella prassi della Cia, avrebbe molte difficoltà: molti senatori repubblicani, guidati dall’ex candidato alla presidenza John McCain, glielo impedirebbero.

Il caso di McCain, pilota in Vietnam e prigioniero dei vietnamiti per molti anni, è interessante perché Trump non esitò a insultarlo come «perdente» proprio per essersi fatto catturare dal nemico.

McCain, 80 anni compiuti, è probabilmente al suo ultimo mandato e quindi non deve temere rappresaglie dal partito se violasse la disciplina di voto: con l’eccezione delle spese militari, nel nuovo senato sarà una figura indipendente.

Un altro senatore con l’etichetta repubblicana è Rand Paul, eletto nel Kentucky, figlio di un celebre deputato del Texas antimilitarista, Ron Paul. Il padre aveva votato contro la guerra in Iraq e proposto di ritirarsi dalle Nazioni unite, il figlio è più mainstream ma rimane ma uno spirito libertario più che conservatore e potrebbe rifiutarsi di votare i forti aumenti del bilancio della difesa.
Paul è inoltre un conservatore dal punto di vista fiscale, quindi in nome della riduzione del deficit potrebbe creare difficoltà al piano di investimenti nelle infrastrutture che Trump vuole lanciare per adempiere alla promessa di «creare buoni posti di lavoro» per gli americani.

Il terzo senatore che ama poco Trump, e che sembrava a un certo punto potesse rappresentare l’alternativa dell’establishment del partito all’outsider megalomane, è Ben Sasse del Nebraska. Sasse aveva dichiarato già in febbraio che in nessun caso avrebbe sostenuto Trump, lo ha accusato di avere una concezione monarchica della presidenza e, dopo la nomination, ha addirittura chiesto pubblicamente il suo ritiro dalla corsa elettorale. Sasse è stato eletto in Senato solo nel 2014, quindi non ha l’anzianità e il peso di McCain, ma è molto popolare per la sua rettitudine: quando altri politici repubblicani annunciarono in settembre che votavano per Trump, sia pure turandosi il naso, pubblicò sulla sua pagina Facebook un video intitolato I Won’t Back Down, non indietreggerò.

E una settimana fa ha pubblicato una risposta ai giornalisti che analizzavano le posizioni dei senatori rispetto alla nuova amministrazione intitolata: «I doveri costituzionali precedono la lealtà di partito e gli obiettivi politici».

La lista dei senatori che potrebbero respingere o ridimensionare i progetti di Trump, oltre alle sue nomine, comprende altri cinque repubblicani: Collins (Maine), Murkowski (Alaska), Portman (Oregon), Rounds (South Dakota) e Blunt (Missouri). Non sono omogenei, tutt’altro, ma potrebbero infischiarsene della disciplina di partito (che in senato conta meno che la percezione di cosa pensa la loro base elettorale nello stato di provenienza).

In compenso, Trump potrebbe raccattare qualche voto, parecchi se è abile, tra i senatori democratici di stati rurali che hanno votato per lui, in particolare tra quelli il cui mandato scade nel 2018. Il senatore Joe Manchin del West Virginia, dovrà affrontare degli elettori che hanno dato a Trump il 68% dei consensi, due settimane fa: difficile che voglia salire sulle barricate contro un leader che ha promesso di liberalizzare l’estrazione del carbone, ostacolata dall’amministrazione Obama per ragioni ecologiche.

Altri senatori democratici in stati dominati quest’anno dai repubblicani come Heidi Heitkamp (North Dakota), Jon Tester (Montana) e Joe Donnelly (Indiana) potrebbero ritagliarsi un «ruolo costruttivo» verso l’amministrazione, soprattutto se il programma di Trump di investire in infrastrutture si concretizzerà in una forma accettabile per i democratici. In ogni caso, ciò che accadrà nei prossimi mesi a Washington è la prova di quanto sia importante, vitale per la democrazia, avere un luogo di riflessione con legislatori indipendenti e non un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci ammanettati alla disciplina di partito.

La nuova Costituzione, che il governo delle menzogne, delle truffe, della sopraffazione e della vergogna vuole imporre al popolo comporta la cancellazione del più maturo risultato raggiunto sul fronte della difesa della bellezza e della storia, rappresentato dal paesaggio e tutelato dagli uomini che diedero alla civiltà la Costituzione del 1948

La Costituzione e il paesaggio: «l’ambiente nel suo aspetto visivo», parte integrante del patrimonio culturale della Nazione. «Valore primario e assoluto», diritto inviolabile della persona e interesse fondamentale della collettività.

«Stabiliamo in via di massima il principio che l’intero patrimonio artistico culturale e storico del nostro Paese - che è così importante - sia sottoposto alla tutela e non alla protezione dello Stato: lo Stato non protegge, ma tutela», questa la proposta dell’onorevole Tristano Codignola, del gruppo autonomista, nel corso della discussione davanti all’Assemblea Costituente il 30 aprile 1947.

Il verbo «tutelare», infatti, ha un significato più ampio e in diritto indica un’azione che comprende non solo la protezione ma anche la custodia, la cura e la rappresentanza giuridica di qualcuno - o qualcosa - incapace di provvedere ai propri interessi.

Fu, invece, Emilio Lussu - appartenente allo stesso gruppo - a suggerire di sostituire alla parola «Stato», «Repubblica». “Ciò” - secondo il deputato - `lascerebbe impregiudicata la questione dell’autonomia regionaleı perché “si è assolutamente garantiti: qui si parla di tutela, e non già di invadenza a carattere assorbente.”.

Da quando è stato approvato l’articolo 9 della Costituzione, dunque, la tutela del paesaggio - inserita tra i principi fondamentali dell’ordinamento - deve essere assicurata da tutti i livelli territoriali che compongono la Repubblica, «una e indivisibile» (art. 5), ma «costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato« (art. 114). Ogni ente locale sarà responsabile dell’integrità del paesaggio e dovrà provvedere alla sua tutela entro i limiti delle proprie competenze e attribuzioni, mentre allo Stato è riservato il potere di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni[1].

Per oltre vent’anni la giurisprudenza costituzionale ebbe per oggetto il solo paesaggio.

La prima volta che venne richiamato il termine «ambiente» fu nel 1971, quando la Corte confermò la legittimità della legge istitutiva del Parco nazionale dello Stelvio. Questa legge, dichiarò il collegio, “vuole conservare alla collettività l’ambiente naturale che si é costituito spontaneamente o mediante l’opera dell’uomo in una determinata porzione del territorio statale; vuole proteggere le formazioni geologiche che vi esistono e impedire che abbiano a turbarsi le loro spontanee manifestazioni; vuole dare tutela agli adunamenti di fauna e di flora di particolare rilevanza, alla peculiare bellezza che caratterizza il paesaggio. Questo ambiente racchiude beni che assumono un valore scientifico ed un interesse storico od etnografico, oltre che turistico; ed é chiaro che la conservazione dei medesimi é di interesse fondamentale per il complesso sociale al quale appartengono”[2].

Col passare degli anni la salvaguardia dell’ambiente, considerato “nella sua concezione unitaria comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali”, si conferma come “diritto inviolabile della persona ed interesse fondamentale della collettività”, imponendo l’obbligo “della sua conservazione e della repressione del danno ambientale, offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente”[3].

Nel testo della Costituzione, tuttavia, il termine ambiente viene introdotto solo nel 2001, con la modifica del titolo V[4]. L’articolo 117, secondo comma, lett. s), infatti, ha espressamente previsto la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», affidando la relativa disciplina alla legislazione statale esclusiva, mentre il terzo comma ha attribuito alla competenza concorrente Stato-Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali».

Nel frattempo la Corte ha definitivamente chiarito che la tutela ambientale è un valore costituzionalmente protetto, che delinea una sorta di «materia trasversale» composta da vari elementi, ciascuno dei quali può costituire oggetto di cura e di tutela anche separatamente, come il paesaggio[5].

La giurisprudenza costituzionale, dunque, ha risolto in modo chiaro e convincente anche la ricomposizione di ambiente e paesaggio. E’ lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, un valore costituzionale primario e assoluto, visto che il paesaggio indica essenzialmente l’ambiente. “La tutela ambientale e paesaggistica”, infatti, “precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali”[6].

A questo proposito la Corte ha anche affermato che in alcuni casi, come ad esempio, quello delle fonti energetiche alternative, è necessario “rendere compatibili le ragioni di tutela dell’ambiente e del paesaggio, che, nella fattispecie, potrebbero entrare in collisione, giacché una forte espansione delle fonti di energia rinnovabili è, di per sé, funzionale alla tutela ambientale, nel suo aspetto di garanzia dall’inquinamento, ma potrebbe incidere negativamente sul paesaggio: il moltiplicarsi di impianti, infatti, potrebbe compromettere i valori estetici del territorio, ugualmente rilevanti dal punto di vista storico e culturale, oltre che economico, per le potenzialità del suo sfruttamento turistico”[7].

Per questi motivi, il legislatore costituzionale ha previsto come materia la «tutela dell’ambiente». Non l’ambiente in sé, ma la sua conservazione. Scelta obbligata anche dal particolare rapporto tra ambiente e paesaggio la cui tutela, come si è visto, è inserita tra i principi fondamentali dell’ordinamento.

La Convenzione del 2000 ha ribadito a livello europeo l’importanza del principio della conservazione del paesaggio, «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale fondamento della loro identità».

Quattro anni dopo, nella compilazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, per la prima volta, il legislatore italiano ordinario utilizza il termine «paesaggio» e lo definisce come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni» (art. 131, comma 1). La disposizione successiva precisa l’oggetto della tutela, individuato in «quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali» (art. 131, comma 2).

Si delineano due modi fondamentali di realizzare la tutela: uno fondato sulla protezione di alcune parti del territorio che, attraverso un vincolo specifico, diventano beni paesaggistici e l’altra che affida alla pianificazione la salvaguardia dell’intero paesaggio. Qualcosa di più esteso dei singoli beni vincolati, che riguarda tutto «il territorio espressivo di identità», con la sola eccezione dei «non luoghi» descritti da Marc Augé.

Il piano paesaggistico diviene lo strumento attraverso il quale si ricompongono i diversi modi di salvaguardia, da realizzarsi attraverso la copianificazione tra le soprintendenze e gli uffici regionali.

Certo, non tutto è andato come previsto. Le disposizioni del Codice sono spesso disattese e solo tre regioni, sinora, hanno approvato un piano paesaggistico: la Sardegna, che da oltre dieci anni ha un ottimo piano - colpevolmente non adeguato alle modifiche del Codice del 2008 - e più di recente, la Toscana e la Puglia.

E’ stato, comunque, elaborato un sistema di protezione del patrimonio culturale coerente ed equilibrato che, grazie anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha costituito un valido argine contro vari Piani casa e diversi decreti, come quello del «Fare» e lo «Sblocca Italia».

La Riforma e l’ambiente: l’annullamento della tutela.

Un sistema, quello descritto, che ha trovato il suo limite fondamentale nella inadeguatezza delle soprintendenze, svuotate di ogni potere, totalmente sprovviste di mezzi, con personale privo di una formazione professionale adeguata e che spesso sopravvivono solo grazie all’abnegazione di qualche eroico funzionario.

Se passasse la riforma, tuttavia, con l’accentramento di ogni competenza allo Stato, queste soprintendenze completamente depotenziate diventerebbero le uniche protagoniste della conservazione dell’ambiente.

Le regioni, infatti, sarebbero private del potere di legislazione concorrente in materie quali il governo del territorio e l’energia, che consentono agli stessi enti territoriali di esplicare il diritto-dovere di salvaguardia ambientale - garantito dall’articolo 9 della Costituzione - di cui abbiamo parlato. E grazie alla «clausola di supremazia» prevista dall’art. 117, quarto comma, del testo riformato della Costituzione, nessuno avrà il diritto di opporsi alle scelte del governo centrale.

Ma la cosa più grave riguarda la nuova formulazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la legislazione esclusiva nelle seguenti materie: «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo».

La tutela e la valorizzazione, come si vede, sono riservate ai soli beni culturali e paesaggistici, molto più ridotti rispetto al paesaggio e al patrimonio storico culturale tutelati dall’articolo 9.

Il fatto inaudito, però, è che la tutela viene esclusa per l’ambiente e l’ecosistema, annullando l’attuale disposizione che attribuisce allo stato «la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». Eludendo un principio costituzionale fondamentale, si nega la supremazia della protezione dell’ambiente sugli altri interessi che interferiscono con essa.

E’ in atto il palese tentativo di minare le basi del complesso sistema giuridico che abbiamo analizzato.

Si annulla, cioè, la “particolare tutela dei beni paesaggistico-ambientali, considerata tra i principi fondamentali della Costituzione come forma di tutela della persona umana nella sua vita, sicurezza e sanità, con riferimento anche alle generazioni future, in relazione al valore estetico-culturale assunto dall’ordinamento quale «valore primario ed assoluto» insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro”[8].

La volontà di svalutare l’importanza della tutela e della stessa materia dell’ambiente appare evidente anche dall’inserimento nella nuova disposizione di elementi assolutamente estranei ed eterogenei, come «l’ordinamento sportivo», implicitamente assimilato al patrimonio culturale, unico oggetto della norma attuale. Scelta non certo casuale, dal momento che mette sullo stesso piano il diritto alla conservazione dell’ambiente e quello relativo all’esercizio di attività sportive, il quale, ovviamente, comprenderà la costruzione di stadi megagalattici, con grattacieli e centri commerciali annessi e connessi. La vicenda romana insegna.

Ma le incoerenze non finiscono qui. Qualche giorno fa la ministra Maria Elena Boschi, in una famosa trasmissione televisiva, si è detta d’accordo a diminuire le soprintendenze, rivelando che il ministro Franceschini è già al lavoro. Non basta. La ministra ha dichiarato di essere disponibile ad abolirle queste soprintendenze, vecchio retaggio ottocentesco. E si è mostrata pronta a lavorarci fin “dal giorno dopo”. La vittoria del sì, naturalmente. Da un lato si concentra la competenza dello Stato in materia di patrimonio culturale, dall’altro si propone di eliminare gli organi che dovrebbero garantirne la salvaguardia.

Come pensare di risolvere i problemi della sanità chiudendo gli ospedali. Anche questa è una semplificazione.

Insomma, semplificando semplificando, una volta passata la riforma, si arriverà al risultato che voleva ottenere Edoardo Clerici, avvocato e deputato democristiano il quale, davanti all’Assemblea Costituente, propose l’eliminazione dell’attuale articolo 9 della Costituzione, “superfluo, inutile ed alquanto ridicolo, tale da essere annoverato fra quelli che non danno prestigio alla Costituente ed a questa nostra fatica”.

[1] Così Corte costituzionale, sentenza 6 maggio 2006, n. 182.
[2] Corte costituzionale, sentenza 26 aprile 1971, n. 79.
[3] Corte costituzionale, sentenza 28 maggio 1987, n. 210.
[4] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
[5] Così Corte costituzionale, ordinanza 4 aprile 1990, n. 195
[6] Corte costituzionale, sentenza 7 novembre 2007, n. 367.

[7]Corte costituzionale, sentenza 21 ottobre 2011, n.27
[8] Corte costituzionale, ordinanza 6 marzo 2001, n.46.

«».coordinamento democraziacostituzionale, 28 novembre 2016 (c.m.c.)

Ultimi giorni di campagna elettorale, non distrarsi, non allentare l’impegno. Si puoò vincere ma occorre proseguire fino all’ultimo minuto utile.

Il Comitato per il No noto come quello dei gufi e dei professoroni – prendo a prestito la definizione renziana – ha dall’inizio messo al centro le critiche di merito alle modifiche della Costituzione e alla legge elettorale che ad esse è strettamente legata. Questa è la nostra originalità.

Si dice che il referendum è solo sulle modifiche costituzionali. Non è vero.

Se il No vincerà il 4 dicembre la legge elettorale dovrà essere cambiata, per evitare di votare – prima o poi accadrà’ – con due sistemi elettorali incompatibili. Per di più l’Italicum è in attesa del giudizio della Corte che dovra’ valutarne la costituzionalita’. La vittoria del No e’ l’unica garanzia che l’Italicum verra’ messo da parte e il parlamento sara’ costretto ad approvare una nuova legge elettorale.

È incredibile che Renzi risponda alla bocciatura della Corte Costituzionale di aspetti fondamentali della legge Madia sui dipendenti pubblici parlando di burocrazia che lo blocca. La Corte non eè una burocrazia ma la suprema magistratura. Anziché’ ammettere che il governo non ha rispettato la divisione dei poteri prevista dalla Costituzione, di cui la Corte e’ garante, Renzi reagisce parlando a sproposito e raccontando balle come quella che la modifica del titolo V non avrebbe permesso questa bocciatura, mentre anche se vincesse il Si le regioni potrebbero comunque opporsi all’invadenza impropria del governo. Il governo continua ad accusare la Costituzione di responsabilita’ che non ha e che in realta’ sono semplicemente il risultato di errori ed incapacita’ del governo.

Renzi afferma di essere contrario ad un governo di scopo, questo vuol dire che resterà ? Se tenta continui altolà vuol dire che sa di poter perdere il referendum.

Dovrebbe ricordare che lo scioglimento delle Camere è deciso dal Presidente della Repubblica e che prima di andare a votare è indispensabile una legge elettorale coerente per Camera e Senato.

Infatti il progetto del governo di cambiamento istituzionale è in parte nella Costituzione e in parte nella legge elettorale. In breve ricordo che il Senato non più eletto ed e’ ridotto a una rappresentanza in continuo divenire di sindaci e consiglieri regionali. Il Senato avrà ancora molti poteri, alcuni dei quali paritari con la Camera, senza in realta’ poterli esercitare, perchè i suoi componenti avranno altro da fare, perchè avrà una composizione cangiante ad ogni elezione comunale o regionale, perchè avrà contraddizioni rilevanti nella composizione e nel funzionamento, ad esempio per avere i senatori delle regioni speciali dovrà aspettare il cambiamento dei loro statuti con legge costituzionale.

Infine pur di non far votare i senatori sono stati cancellati per gli italiani all’estero i senatori insieme al diritto di eleggerli, in sostanza e’ stata tolta la loro rappresentanza, lasciando invece l’anomalia di 5 senatori di nomina presidenziale. Tanto non vengono eletti ma nominati.

Quindi non è vero che si supera il bicameralismo paritario. Al massimo si supera in modo parziale e pasticciato.

Non è vero che il governo non aumenta i suoi poteri perchè se passa la modifica della Costituzione decide il calendario della Camera attraverso le leggi che dichiara importanti, che debbono essere approvate in 70 giorni e che si aggiungono all’attuale abuso dei decreti legge.

Inoltre se il governo dichiara un’opera o un altro intervento di interesse nazionale in pratica annulla i poteri delle regioni e dei comuni. Un potere assoluto che si aggiunge alla sottrazione dei poteri operata dal nuovo 117 della Renzi-Boschi, senza peraltro riuscire ad eliminare il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

La futura Camera dei deputati avrà una maggioranza di 340 deputati, identica a quella attualmente raggiunta grazie al porcellum, i suoi componenti saranno nominati dal capo partito per almeno i 2/3 e tutti quelli entrati con il premio di maggioranza dovranno la loro elezione all’uomo solo al comando, il risultato è evidente: subalternità dei deputati al governo. Parlamento al rimorchio del governo e del Presidente del Consiglio.

Si dice: ci possono essere errori ma almeno si comincia a cambiare. Premesso che un cambiamento può essere positivo o negativo. Anche Trump è un cambiamento, ma certo non è positivo. Soprattutto gli errori chi li correggerà ? La stessa maggioranza che li ha fatti ? Non sembra una gran garanzia. Meglio respingere questo pasticcio con un secco No.

In realtà il cambiamento, ove necessario, lo potra’ affrontare un nuovo parlamento, non delegittimato come quello attuale, a condizione che sulla Costituzione si intervenga con modifiche mirate ed equilibrate, da sottoporre agli elettori senza la pasticciata esagerazione della Renzi-Boschi che pretende di cambiare 47 articoli in un colpo solo, impedendo agli elettori di giudicare con serenita’. Ad esempio si potra’ discutere di come ridurre i componenti di Camera e Senato in modo equilibrato, come era gia’ previsto in una proposta dello stesso Pd poi abbandonata, e introducendo la sfiducia costruttiva. E’ importante che prima di procedere a revisioni della Costituzione nella prossima campagna elettorale si presentino le proposte e che gli elettori si possano pronunciarecon il voto e solo dopo si proceda, eventualmente, a modifiche per punti omogenei e in modo comprensibile della Costituzione.

Sarebbe ora di smetterla con l’accusa infondata di conservatorismo verso chi sostiene il No.

Semmai è questa modifica della Costituzione che è sbagliata e incongrua perche’ tende a modificare la natura della nostra repubblica, oggi fondata sulla rappresentanza parlamentare mentre in futuro al centro ci sarebbe il governo, con la conseguenza che il ruolo del Presidente del Consiglio diventerebbe centrale, anche perchè in pratica, in quanto segretario del partito, decidera’ i parlamentari che verranno eletti.

Il No è accusato di essere un’accozzaglia, incapace di presentare una proposta alternativa e neppure in grado di formare un altro governo. Perchè mai dovrebbe proporre un governo, una maggioranza diversa, non e’ questo il suo compito e non potrebbe farlo. Un referendum e’ l’occasione per giudicare la proposta che viene sottoposta a referendum che di solito e’ del parlamento ma in questo caso, va detto, viene direttamente dal governo, non a caso porta le firme Renzi-Boschi.

Se il governo avesse ottenuto almeno i 2/3 dei voti a favore in parlamento non voteremmo il 4 dicembre. Il 4 votiamo perchè la Camera ha approvato in 4° lettura la Renzi-Boschi con solo 361 voti. Se togliamo il premio di maggioranza dovuto al porcellum, cioe’ almeno 100 voti, scopriamo che una minoranza del paese tenta di imporre le modifiche della Costituzione alla maggioranza.

I 2/3 dei parlamentari a favore non c’erano, per questo è stato possibile da parte di chi non e’ d’accordo di chiedere il referendum e chi vota dovrà giudicare se è accettabile o meno la legge Renzi-Boschi. Non esiste in alcun modo la possibilità di presentare un’alternativa ora.

Solo un nuovo parlamento potrà farlo.

Lo schieramento del No ha diversità evidenti al suo interno. Diverse sono le motivazioni per respingere le modifiche della Costituzione. Del resto la proposta del governo e’ un prendere o lasciare e quindi non si puo’ che respingere la proposta, non si puo’ farne un’altra ora.

Se Renzi non avesse fatto coincidere le sorti del governo e sue personali con l’esito del referendum il problema non si sarebbe posto e il governo avrebbe potuto prendere atto del parere degli elettori, senza dare in escandescenze. Se ha preso atto della volonta’ degli elettori un regime autoritario come quello di Orban in Ungheria non si capisce perche’ non lo possa fare Renzi, senzacdare in escandescenze.

Se si porrà il problema di un nuovo governo sarà il Presidente Mattarella a indicare una soluzione al parlamento.

Il Comitato del No non ha questo compito e tanto meno si è mai posto il problema di un fronte del No che si candida a governare, perche’ ha sempre giudicato il merito delle proposte del governo. I sondaggi ed evidenti segnali di insoddisfazione hanno fatto saltare i nervi a Renzi che puntava ad ottenere un plebiscito a favore. Questo plebiscito non ci sara’, comunque vada a finire.

Ormai tutto viene gettato nell’agone referendario, assistiamo alla confusione dei ruoli di capo del governo, capo del partito e ora anche capo del Comitato per il Si, visto che Renzi ha firmato personalmente la lettera agli italiani all’estero. Al punto che in pratica Renzi firmatario della lettera del Comitato per il Si chiederà il rimborso elettorale a sé stesso, in quanto governo.

Il No è per fermare questa deriva, in cui i confini istituzionali, etici, di comportamento tra i diversi ruoli stanno saltando. Questo non puo’ che preoccuparci per il rischio evidente di regressione democratica nel nostro paese.

«A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì».

Internazionale.it, 29 novembre 2016 (m.p.r.)

Meno cinque al fatidico 4 dicembre, e stando a quel che passano governo e mezzi d’informazione non è chiaro su che cosa stiamo per andare a votare. Sul governo? Sullo spettro a 5 stelle che incombe? Sullo spread? Sui diktat dei mercati? Sui desiderata della Bce, di Angela Merkel, di Marchionne, del Financial Times, dell’Economist? Sull’eterogeneità dell’“accozzaglia” per il no e sulla rassicurante omogeneità della coalizione Renzi-Verdini per il sì? Sul precipizio oscurantista e il “rigor mortis” - giuro che l’ho letto - in cui ci butterebbe il no e sul sol dell’avvenire che risorgerebbe con il sì? Sul tripudio che ci prende ascoltando le istruzioni per il voto di Vincenzo De Luca, che il governo premia invece di scomunicarlo e che i talk titillano perché lui è fatto così e un po’ di political uncorrectness stile Trump anche in Italia non guasta?

Mai un voto, a mia memoria, è stato sottoposto a pressioni così esagitate, improprie e depistanti: più che una campagna referendaria sembra una nobile gara a chi ci tratta meglio da stupidi. Contro questo depistaggio sistematico e rumoroso non resta, in quest’ultima settimana, che tenere bassi i toni e dritta la barra. Intanto: si vota su una proposta di revisione - o meglio, di riscrittura: 47 articoli su 139 - della Costituzione, che a onta di chi la sta bistrattando come l’ultima delle leggi ordinarie resta il patto fondamentale che ci unisce, o dovrebbe. La posta in gioco è abbastanza alta per esprimersi su questo, e solo su questo. Sì o no?

Io dico no, per ragioni di merito e di metodo, e per una terza ragione, di valutazione storica. Comincio dalle ragioni di merito. Primo, con la riforma il bicameralismo non finisce ma resta, non più paritario ma in compenso molto confuso. Il senato non sparisce ma non sarà più elettivo. Non diventa affatto un senato delle autonomie, espressione dei governi regionali e con competenze sul bilancio, ma una camera di serie b, composta da consiglieri regionali e sindaci scelti su base partitocratica, i quali tuttavia, pur privi di legittimazione elettorale, avranno competenze su materie cruciali come i rapporti con l’Unione europea e le leggi costituzionali e potranno richiamare le leggi approvate dalla camera per modificarle. Secondo, la riforma del titolo V, invece di correggere quella malfatta nel 2001 dal centrosinistra, la rovescia nel suo contrario: da troppo regionalismo si passa a troppo centralismo, con la clausola di supremazia dell’interesse nazionale che tronca in partenza qualunque opposizione dei comuni e delle regioni a trivelle, inceneritori, grandi opere, centrali a carbone e quant’altro: se il governo li considera “di interesse nazionale” e ce li pianta sotto casa ce li teniamo.

Terzo, combinata con l’Italicum (che è la legge elettorale vigente, e non è affatto detto che cambierà se vince il sì, nonostante le promesse di Renzi in questo senso, prese per buone da una parte della minoranza Pd) la riforma istituisce di fatto (ma senza dichiararlo, come almeno faceva la proposta di riforma Berlusconi del 2005) il premierato assoluto: maggioranza dell’unica camera titolare del voto di fiducia al partito che vince le elezioni, in caso di forte astensione anche con un misero 25 per cento del corpo elettorale; ulteriore incremento del potere legislativo del governo e del capo del governo. E non bastasse, elezione del presidente della repubblica in mano al partito di maggioranza a partire dalla settima votazione, in caso di assenza di una parte dell’opposizione. Detto in sintesi, il cuore della riforma sta in un rafforzamento dell’esecutivo e del premier a spese del parlamento e della rappresentanza, in un accentramento neostatalista a spese delle istituzioni territoriali, in una lesione del diritto di voto dei cittadini: il contrario di quello che una buona riforma dovrebbe fare.

Passo alle ragioni di metodo, per me perfino più decisive di quelle di merito. Questa riforma è nata male e cresciuta peggio. È nata da un’indebita avocazione a sé, da parte del governo, di un potere costituente che non è del governo, ed è stata approvata - a base di minacce di elezioni anticipate, sedute notturne, canguri e dimissionamento dei dissidenti - da una maggioranza parlamentare risicata e figlia, a sua volta, di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla corte costituzionale. Dopodiché è stata brandita dal presidente del consiglio come una personale arma di autolegittimazione e di sfida degli “avversari” - “parrucconi”, gufi, “accozzaglie” e quant’altro - sulla base dell’unica benzina che muove la macchina renziana, cioè della parola d’ordine della rottamazione, applicata anche alla carta del 1948.

Una riforma profondamente e programmaticamente divisiva del patto fondamentale che dovrebbe unire: è questa la contraddizione stridente che minaccia il cuore stesso del costituzionalismo, e ricorda il sovversivismo delle classi dirigenti di gramsciana memoria. A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì, ovvero dall’approvazione di una costituzione non di tutti ma di parte.

Non è l’unica contraddizione che accompagna questo referendum: ce n’è un’altra, più promettente. Presentata come una svolta radicale, e corredata dal lessico che da mesi ci bombarda incontrastato da tutti i media - innovazione vs conservazione; decisione vs consociazione; velocità vs paralisi; semplificazione vs complessità - la riforma Renzi-Boschi in realtà non innova ma conserva, e non apre ma chiude un ciclo. Sigilla - o ambisce a sigillare - il quarantennio dell’attacco neoliberale alle democrazie costituzionali novecentesche, racchiuso tra il rapporto della Trilateral per la “riduzione della complessità” democratica e l’attacco della JP Morgan contro le costituzioni antifasciste dei paesi dell’Europa meridionale. La storia del revisionismo costituzionale italiano, dalla “grande riforma” vagheggiata da Craxi a quella bocciata di Berlusconi a molte delle stesse ipotesi del centrosinistra, è accompagnata dalla stessa musica: più decisione e meno rappresentanza, più governabilità e meno diritti, più stabilità e meno conflitto. E malgrado le grandi riforme della costituzione siano state fin qui respinte, questi cambiamenti sono già entrati ampiamente, e purtroppo, nella nostra costituzione materiale (nonché in quella formale, come nel caso del pareggio di bilancio).

Renzi ha ragione, dal suo punto di vista, a dire che finalmente può riuscire a lui quello che ad altri non è riuscito: costituzionalizzare il depotenziamento già avvenuto della nostra democrazia. Per questo il sì chiude un ciclo, mentre è solo il no, con tutti i suoi imprevisti, che può aprirne uno nuovo. Basta partecipare a uno solo degli incontri sul referendum che pullulano ovunque in questi giorni per capire quanto questo sentimento sia vivo nella generazione più giovane, che della costituzione parla al di fuori della narrazione ripetitiva degli ultimi decenni.

«Perché votare No. Lo scrittore in difesa della nostra Carta fondamentale».

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016 (p.d.)

La normale occasione di urne aperte a una consultazione popolare è diventata petulante e scimmiotta il finimondo, una data spartiacque tra versanti opposti. Ma il governo resterà dov’è ora, tronfio o ammaccato e il risultato del referendum resterà disatteso e aggirato, com’è tradizione da noi, se sgradito all’esecutivo.

La rappresentazione vuole che ci siano da una parte i promotori di riforme, dall’altra i frenatori del convoglio. Di mezzo c’è la Carta costituzionale che aspetta di sapere se sarà trasformata. Il verbo più preciso è appunto trasformare e non riformare.

Quel testo è la nostra dichiarazione dei diritti dell’uomo italiano e anche l’ordinamento che ne dispone l’applicazione. Si intende trasformarla in altro, secondo il fabbisogno delle democrazie moderne che puntano a ridurre il démos a suddito, aumentando la crazìa, il potere, su di esso.

Da noi è in carica per la terza volta in una legislatura un terzo governo non uscito dalle urne, ma dal cappello a cilindro di un ex presidente giocoliere, manovratore di maggioranze accorpate da impreviste convenienze.

Per mettere mano a modifiche della Costituzione si dovrebbe aspettare il prossimo rinnovo del Parlamento e un prossimo governo che affermi nel suo programma elettorale di volerla cambiare. Allora avrebbe titolo, mentre questo in carica: no.

Il riformismo un tempo aveva una tradizione e un progetto ideale. Opponeva alle rivoluzioni del 1900 una via diversa per raggiungere traguardi di uguaglianza. I riformisti sapevano fare le riforme.

Oggi la utile e ben intenzionata riforma della pubblica amministrazione è stata appena cancellata dalla Corte Costituzionale. Evidentemente era male impostata. Se ne ricava che oggi i riformisti non sanno scrivere le riforme. Se ne ricava che questo governo in carica non ha titolo per usare la parola riforma per le trasformazioni della Carta costituzionale.

Il testo è stato pubblicato sul sito fondazionerrideluca.com

Libertà e Giustizia online, 29 novembre 2016 (c.m.c.)

Il professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita, Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho, Weimar e De Gregori.

Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo?
«Questa è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che li può far vivere».

Cosa intende per contesto?
«Tra il ‘46 e il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti».

La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta.
«Davvero si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1».

In che modo?
«La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti».

Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica.
«La prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti della Costituzione fanno finta di niente e tacciono».

Chi sono i garanti?
«Dal presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un “partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso».

Perché è violato l’articolo 1?
«L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu tituli».

Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza.
«Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”».

Ora, però, decide il popolo.
«Pensare che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la mano».

Che cosa imputa a Renzi?
«Nulla. Però non c’è saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il governo sotto».

Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta?
«In un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge, dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La democrazia è cosa molto più complicata».

Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo.
«Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti, nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!), riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto».

Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi?

«Non mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato, dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?».

Lo rifarebbe?
«Mah! Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo! D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che ricorda analoghe promesse berlusconiane».

Preparerebbe carte a sorpresa?
«Certo che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni. Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è chiarire, ma colpire».

C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza?

«Tutt’altro! Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro risate».

Che succede se vince il Sì?
«Non si apre la strada a una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali saranno le poche mani di domani».

E se vince il No?
«Si potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali.

E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati?

«Agitare queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura».

Bisognerà riscrivere la legge elettorale.
«Molte ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di riforme anche costituzionali».

Che cosa farà il 5 dicembre?
«Questa campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada».

comune-info, 30 novembre 2016 (c.m.c.)

Al 4 dicembre mancano ancora pochi giorni, pochi giorni di una campagna durata lunghi mesi: era aprile quando a fianco della raccolta firme si tenevano i primi incontri sul testo Renzi-Boschi. Sono stati mesi intensi, faticosi certo e corredati da una continua, e crescente, tensione, ma sono stati mesi in cui è emersa la ricchezza sparsa nella società.

La potenza mediatica e comunicativa del sì, per tacere dei ricatti politici ed economici, è lampante, ma la campagna, condotta dai comitati del no nei territori, attraverso dibattiti, presidi, volantinaggi, ha mostrato la vivacità esistente sul territorio, una vivacità plurale, fatta di tanti pezzi: sedi dell’Anpi, quanto resta dei partiti della sinistra radicale, gruppi attivi nel sociale, comitati per l’acqua pubblica, movimenti a difesa del territorio e dell’ambiente, associazionismo cattolico, centri sociali, qualche segmento dei sindacati.

Ne emerge una società come corpo vivo, non solo: la mobilitazione del tessuto sociale di auto-organizzazione collettiva sul referendum mostra la consapevolezza dell’inserimento della specifica lotta/impegno sociale in una visione alternativa più ampia, nella quale le singole lotte si percepiscono come parte di un contro-progetto rispetto al modello dominante. Una visione in cui la Costituzione rappresenta ancora un punto di riferimento importante. Una lettura utopica? Non credo, certo, la cittadinanza sociale attiva non è un fenomeno di massa, ma può costituire la base per (ri-)costruire una politica, e un soggetto politico, che metta al centro le esigenze di giustizia ed emancipazione sociale.

Da un lato, dunque, un nuovo riconoscimento per la Costituzione, una sua rivitalizzazione; una conferma e una concretizzazione del carattere fondamentale della «partecipazione effettiva» (art. 3, c. 2, Cost.). Ciò, in palese contrasto con una riforma che mira sempre più ad espellere dallo spazio politico il pluralismo e la partecipazione.

Non penso solo alle norme sulla democrazia diretta, come quelle che elevano le firme necessarie per una proposta di legge di iniziativa popolare da 50.000 a 150.000 (lasciando immutata la non considerazione delle proposte stesse da parte del parlamento, perché nulla garantisce il rinvio a future e discrezionali regole stabilite dai regolamenti parlamentari [n.d.r.: dalla maggioranza]).

Penso all’impianto complessivo di un progetto che, concentrando poteri nell’esecutivo, attraverso il depotenziamento dei possibili contrappesi, marginalizza sempre più le minoranze, mostrando insofferenza per qualsivoglia manifestazione di dissenso e/o di partecipazione che non sia quella di un voto che mira ad individuare una maggioranza (o una minoranza artificialmente resa tale) al cui comitato direttivo – o, meglio, ancora, al suo vertice (il presidente del consiglio) – sono affidate le sorti del Paese per cinque anni.

Dall’altro lato, non si può negare che sia in atto una lotta sulla Costituzione, che rischia di dimidiarne l’essere “patto sociale”: vi sarà una parte che stenterà a riconoscervisi. Facciamo in modo che non sia il corpo vivo della società. Diciamo No ad un modello decisionista strumentale alla competitività escludente della razionalità neoliberista, nel nome della Costituzione, con il suo riconoscimento del conflitto sociale e il suo progetto di emancipazione sociale, di partecipazione e di limitazione del potere.

».

il manifesto, 30 novembre 2016 (c.m.c.)

Desideriamo esprimere il nostro parere sulla legge costituzionale recante disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione.

Il nostro giudizio è negativo, sia per una valutazione complessiva della riforma che si sottopone al voto e dell’assetto istituzionale che si intende porre in essere, sia per ragioni specifiche attinenti alla materia del lavoro.

Con riferimento all’assetto istituzionale desideriamo evidenziare che la riforma realizza un forte e pericoloso accentramento dei poteri, introducendo nel contempo innovazioni tanto discutibili quanto confuse.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché la formazione del Senato prevista è priva di senso. Avremmo infatti un Senato composto, a rotazione, da presidenti di regione, consiglieri regionali e sindaci appartenenti a diversi schieramenti politici. Non quindi un Senato in rappresentanza unitaria dei territori, come nel sistema tedesco. E neppure un Senato dotato di una forte legittimazione politico-territoriale come nel modello USA. Ma una improbabile sommatoria di soggetti diversi, nessuno dei quali potrà vantare una vera rappresentanza territoriale e neppure una trasparente legittimazione politica.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché è del tutto inaccettabile lo scambio che si realizza tra Stato e regioni (a statuto ordinario). Le regioni vengono private di essenziali funzioni politico-legislative, offrendosi loro la consolazione di uno pseudo “Senato delle regioni”. Il fatto che numerosi esponenti della attuale rappresentanza regionale si dichiarino favorevoli a questo misero scambio dimostra il declino del regionalismo italiano, che pure a suo tempo qualcosa aveva rappresentato.

Con specifico riferimento ai temi lavoristici desideriamo sottolineare che le novità introdotte, pur essendo relativamente limitate, in quanto la materia rimane, come è attualmente, nella competenza pressoché esclusiva dello Stato, non sono affatto convincenti.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché l’abolizione della competenza concorrente di Stato e regioni nella materia della tutela e sicurezza del lavoro avrebbe l’effetto di riportare tutte le funzioni ora svolte dai Servizi per l’impiego regionali o provinciali alla gestione del Ministero del lavoro. Tale modifica comporterebbe un notevole dispendio di risorse per il trasferimento e la riorganizzazione delle funzioni che, in assenza di uno stanziamento adeguato di fondi, non ne garantisce in alcun modo un miglioramento qualitativo.

I servizi per l’impiego sono stati trasferiti alle Regioni e alle province nel 1997 proprio a causa delle gravi inefficienze a cui aveva dato luogo la gestione ministeriale e non vi è alcuna ragione per ritenere che il ritorno all’amministrazione centrale possa oggi di per sé migliorare la situazione. Si ripropone inoltre il vizio d’origine del sistema, costituito dalla separazione tra politiche per il lavoro, che tornerebbero alla competenza centrale, e formazione professionale, che resterebbe di competenza regionale.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché l’inserimento in Costituzione di un esplicito riferimento alle “politiche attive del lavoro” tra le competenze dello Stato, è solo apparentemente innovativo, in quanto la materia rientrerebbe comunque nella più ampia definizione di tutela e sicurezza del lavoro. Tale inserimento si realizza, inoltre, in un contesto caratterizzato dalla sempre più marcata sottoposizione del cittadino e della cittadina bisognosi di lavorare a vincoli e condizioni strettissimi, la cui legittimità, sotto il profilo del rispetto del diritto al lavoro e della libertà di scegliere un’occupazione corrispondente alle proprie possibilità e aspirazioni garantiti dall’art. 4 della Costituzione e dall’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è oggi fortemente discussa.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché il c.d. voto a data certa, imponendo al parlamento di pronunciarsi in via definitiva entro settanta giorni, limita fortemente la possibilità per le competenti Commissioni della Camera di svolgere quelle indagini e quelle ricerche che spesso sono necessarie per avere piena contezza della situazione che si intende regolare e degli effetti che la nuova legge può produrre. In tale attività istruttoria è frequente, nelle materie lavoristiche e previdenziali, il ricorso all’audizione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, degli enti previdenziali, degli enti esponenziali degli interessi che si vanno a regolare, nonché di esperti della materia.

La ristrettezza dei tempi del procedimento legislativo avrebbe dunque l’effetto di limitare fortemente la possibilità per le formazioni sociali, garantite dall’articolo 2 della Costituzione, di partecipare alla vita politica economica e sociale del Paese, come previsto dall’art. 3, comma secondo, della Costituzione ed impedirebbe che nel dibattito parlamentare si individuino quelle mediazioni tra le diverse istanze e interessi che sono elemento essenziale della democrazia. Conferma della linea della riforma volta a limitare fortemente il ruolo dei corpi intermedi si ha, del resto, nelle previsioni relative all’abolizione del Cnel, il quale, pur non avendo avuto sinora quel ruolo consultivo che i Padri costituenti avevano immaginato, avrebbe potuto essere riformato in modo da farne un vero organo di partecipazione democratica delle forze economiche e sociali alla definizione dell’indirizzo del Paese.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché la riforma costituzionale nulla innova in materia di previdenza sociale, mentre il ritorno della previdenza complementare e integrativa alla competenza esclusiva statale, senz’altro condivisibile, ha un effetto praticamente nullo: di fatto, anche dopo il 2001, la materia, che con la precedente riforma del Titolo V della Costituzione è stata discutibilmente attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni, ha continuato ad essere regolata esclusivamente con leggi dello Stato, legittimato a intervenire sulla base dell’attinenza della materia sia all’ordinamento civile, sia alla tutela del risparmio.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché l’attribuzione allo Stato della competenza ad emanare disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e per le politiche sociali introduce un elemento di incertezza ulteriore circa l’esatto riparto di competenze (dovendosi stabilire cosa si intenda per generali e comuni) ed è foriera di un contenzioso tra Stato e regioni, attinente sia alla distinzione tra funzioni spettanti all’uno o all’altro nelle specifiche materie, sia alla distinzione tra politiche sociali e assistenza sociale, che sinora è stata di competenza esclusiva regionale, ma per le prestazioni economiche ha continuato di fatto ad essere regolata su base nazionale.

Infine, voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché nel riscrivere la clausola di supremazia, mediante la quale lo Stato può sostituirsi alle regioni e agli enti locali, si fa un generico riferimento alla tutela dell’unità giuridica ed economica dello Stato, omettendo lo specifico riferimento, attualmente previsto, alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti di diritti civili e sociali. Ciò se in linea generale non impedisce l’intervento dello Stato su questo aspetto, d’altra parte conferma la mancanza di attenzione dell’attuale legislatore costituente a questa fondamentale istanza.

Firmatari

Andrea Allamprese, professore aggregato di diritto del lavoro, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Piergiovanni Alleva, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Politecnica delle Marche
Amos Andreoni, ricercatore di diritto del lavoro, Università La Sapienza di Roma
Cataldo Balducci, professore associato di diritto del lavoro, Università del Salento
Maria Vittoria Ballestrero, professoressa emerita di diritto del lavoro, Università degli studi di Genova
Marco Barbieri, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Foggia
Vincenzo Bavaro, professore associato di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Alessandro Bellavista, professore ordinario di diritto del lavoro università di Palermo
Olivia Bonardi, professoressa associata di diritto del lavoro, Università degli studi di Milano
Piera Campanella, professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università di Urbino Carlo Bo
Umberto Carabelli, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Rosa Casillo, ricercatrice di diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II
Mario Cerbone, ricercatore di diritto del lavoro, Università degli Studi del Sannio
Gisella De Simone, professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università degli studi di Genova
Antonio Di Stasi, professore ordinario di Diritto del lavoro, Università Politecnica delle Marche
Franco Focareta, ricercatore di diritto del lavoro, Università di Bologna
Alessandro Garilli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Palermo
Enrico Gragnoli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Parma
Andrea Lassandari, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Bologna
Gabriella Leone, ricercatrice di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Antonio Loffredo, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi di Siena
Gianni Loy, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Cagliari
Federico Martelloni, professore associato di diritto del lavoro, Università di Bologna
Luigi Mariucci, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Ca’ Foscari di Venezia
Monica Mc Britton, ricercatrice di diritto del lavoro, Università del Salento
Pasquale Monda, assegnista di ricerca, Università di Napoli Federico II
Gaetano Natullo, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi del Sannio
Giovanni Orlandini, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi di Siena
Natalia Paci, professoressa a contratto di diritto del lavoro, Università di Urbino Carlo Bo
Vito Pinto, professore associato di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Umberto Romagnoli, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Bologna
Raffaello Santagata, ricercatore di diritto del lavoro, Seconda Università degli studi di Napoli
Stefania Scarponi, già professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università degli studi di Trento
Carlo Smuraglia, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Milano
Anna Trojsi, professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro
Bruno Veneziani, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Roberto Voza, professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Lorenzo Zoppoli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II

Velia Addonizio, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Giorgio Albani, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Stefania Algarotti, Avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Elisabetta Balduini, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Raffaella Ballatori, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Paolo Berti, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Flavia Bianco, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Andrea Bordone, avvocato giuslavorista, Foro di Varese
Alessandro Brunetti, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Mirella Caffaratti, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Mario Cerutti, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Chiara Colasurdo, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Valentina D’Oronzo, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Emiliano Fasan, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Lorenzo Fassina, giuslavorista dell’Ufficio giuridico della Cgil
Lello Ferrara, avvocato giuslavorista, Foro di Napoli
Silvia Gariboldi, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Antonella Gavaudan, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Tommaso Gianni, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Giovanni Giovannelli, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Katia Giuliani, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Corrado Guarnieri, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Francesca Romana Guarnieri, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Carlo Guglielmi, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Amelia Iannò, Avvocato Inail, Foro di messina
Silvia Ingegneri, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Alessandro Lamacchia, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Anna Silvana Lamacchia, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Roberto Lamacchia, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Bruno Laudi, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Bartolo Mancuso, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Stefania Mangione, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Giovanni Marcucci, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Andrea Matronola, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Mauro Mazzoni, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Enzo Martino, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Alvise Moro, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Piero Nobile, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Aurora Notarianni, avvocato giuslavorista, Foro di Messina
Angiolino Palermo, avvocato giuslavorista, Fori di Milano e Reggio Calabria
Chiara Panici, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Ilaria Panici, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Pierluigi Panici, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Sara Antonia Passante, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Luciano Petronio, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Matteo Petronio, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Bruno Pezzarossi, avvocato giuslavorista, Foro di Reggio Emilia
Alberto Piccinini, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Luca Pigozzi, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Elena Poli, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Giuliana Quattromini, Avvocata giuslavorista, Foro di Napoli
Filippo Raffa, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Elisa Raffone, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Guido Reni, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Domenico Roccisano, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Annalisa Rosiello, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Dario Rossi, avvocato giuslavorista, Foro di Genova
Giorgio Sacco, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Ettore Sbarra, avvocato giuslavorista, Foro di Bari
Maria Faustina Serrao, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Maria Spanò, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Chiara Spera, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Francesca Stangherlin, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Claudia Tibolla, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Francesco Tozzi, avvocato giuslavorista, Foro di S. Maria C.V.
Lidia Undiemi, consulente giuslavorista
Sergio Vacirca, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Giovanni Ventura, avvocato giuslavorista, Foro di di Trieste
Silvia Ventura, avvocata giuslavorista, Foro di Firenze
Alida Vitale, avvocata giuslavorista, Foro di Torino

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