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Non siamo stati i soli a criticare Sergio Mattarella per le sue posizioni a proposito della priorità dei “mercati”

versus i cittadini. Qui raccogliamo un ricco florilegio di commenti. Con commento (e.s.)

Sottraendosi alla viziosa abitudine degli italiani di trasformare le questioni complesse a tifoseria: «sei per Mattarella o per Salvini?») molti intellettuali hanno espresso in questi giorni valutazioni critiche sull'operato di Sergio Mattarella nella gravissima crisi istituzionale nella quale siamo immersi. La questione mi è sembrata importante. Non a caso la prima analisi duramente critica dell'iniziativa di Mattarella a difesa dei "mercati" è stata costituita dal documento politico

Potere al popolo (cui aderisco) nella sua assemblea di Napoli redatto e approvato dall'Assemblea di Napoli 27 maggio scorso. Lo pubblicammo su eddyburg: eccolo qui.

Liberi di pensare e scrivere uscendo dalle regole del "tifo" si sono rivelati Francesco Gesualdi (28 maggio), Massimo Villone e (29 maggio), Barbara Spinelli, 30 maggio) Lorenza Carlassare (30 maggio), Tomaso Montanari (tra i primissimi a esprimere sinteticamente la sua critica, l'ha argomentata oggi, 31 maggio. La pubblichiamo di seguito, seguita a sua volta da numerose altre posizioni riprese dal sito web di Giustizia e Libertà

Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia
In queste ore concitate e drammatiche occorre conservare la lucidità, e non prestarsi alla facile demagogia della piazza.Se la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato appare una truculenta buffonata, anche le mobilitazioni in suo favore appaiono del tutto fuori luogo.

Sergio Mattarella ha infine inflitto all’istituzione della Presidenza della Repubblica una torsione inaudita, che costituirà un precedente pericolosissimo. Il suo lungo discorso ha esplicitato il fatto che egli si è assunto la responsabilità di decidere l’indirizzo politico del governo, entrando nel merito di idee e di scelte politiche: così non rispettando spirito e lettera della Costituzione. Le sue motivazioni hanno formalizzato una dura verità: la sovranità dei mercati ha preso il posto della sovranità popolare. L’incarico a Carlo Cottarelli ha poi tratteggiato icasticamente l’immagine di una democrazia commissariata.

Nel suo discorso Mattarella ha detto che aveva accettato tutti i ministri tranne quello dell’Economia. Tutti: anche Matteo Salvini all’Interno. In questo doppio registro c’è il senso profondo della crisi generale in cui siamo sprofondati: si tutelano i soldi, non i corpi. Gli investitori, non i principi fondamentali della Carta. È una dittatura dei mercati in cui le vite, i diritti, l’eguaglianza contano meno di zero. Ed è qui, è proprio in questa sottrazione di democrazia e in questa generale genuflessione al potere del denaro, che la propaganda razzista di Salvini prospera e macina consenso.
(29 maggio 2018)

Riportiamo a seguire anche gli interventi di altri autorevoli esponenti della cultura italiana, che hanno espresso argp,entate crotiche al presidente della Repubblica, senza per questo fornire armi al fascista Salvini ma dandogli una lezione di democrazia

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Flores d’Arcais: “Esula dai poteri del Quirinale sindacare sulle opinioni politiche dei candidati ministri”. Krugman: “Non c'è bisogno di essere populisti per essere inorriditi dal fatto che i partiti che avevano vinto un chiaro mandato elettorale sono stati esclusi perché volevano un ministro dell'economia euroscettico". Maddalena: “È riconoscimento formale del passaggio della sovranità dal Popolo Italiano al mercato globale”. Onida: “Il Colle non ha potere sull’indirizzo politico”. Villone: “L’errore di Mattarella”. Salerno Aletta: “Un vulnus profondo alla forma di Stato”.

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Esorbitando rispetto alle sue prerogative costituzionali, il Quirinale ha trasformato le prossime elezioni in un plebiscito sulla permanenza nell’Eurozona. Un grave errore che consegnerà l’Italia alla peggiore destra che forse abbandonerà l’Euro, ma resterà fedele all’ortodossia neoliberale. L’unica possibilità per la sinistra è accettare la sfida populista e assumere l’opposizione all’Ue come fondamentale terreno di scontro politico.

Né con Mattarella né con Salvini. Serve un terzo spazio di Giacomo Russo Spena
Le conseguenze politiche della crisi istituzionale che si è aperta sono evidenti: alle prossime elezioni Lega e M5S faranno una campagna elettorale a colpi di sovranismo contro le ingerenze dell'UE. A ciò, non si può opporsi difendendo la dittatura dello spread e la Troika, ma costruendo un'alternativa capace di rompere questi due blocchi, entrambi sbagliati e nefasti per il Paese.

il Fatto Quotidiano,

Lorenza Carlassare – professore emerito a Padova, una dei nostri costituzionalisti più autorevoli – risponde al telefono con l’abituale fermezza: «Non è difficile valutare alla luce della Carta i fatti di questi giorni. Si discute se il comportamento del capo dello Stato sia stato corretto. La risposta per un costituzionalista è facile, perché noi valutiamo le situazioni solo ed esclusivamente in rapporto al dettato costituzionale e a ciò che rientra nella tradizione del sistema parlamentare. La nostra non è una Repubblica presidenziale: da qui discendono molte conseguenze. Il presidente quando forma il governo non fa il suo governo, ma quello della maggioranza».

E come si deve regolare?
«Semplicemente tenendo conto di qual è l’orientamento della maggioranza parlamentare e di quale governo potrà ottenere la fiducia delle Camere. Quel governo dovrà avere la fiducia e conservarla, altrimenti dovrà dare le dimissioni. L’unica stella polare che deve guidare il cammino del presidente è questa valutazione sulla possibilità o meno che quell’esecutivo abbia la fiducia del Parlamento».

Dove risiede il potere decisionale del presidente?
«Dopo le consultazioni, deve valutare qual è la persona maggiormente idonea a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. È una valutazione che però non si basa su opinioni o convincimenti personali del capo dello Stato, ma sulla base delle consultazioni che altrimenti sarebbero inutili. Dopo aver individuato la persona e conferito l’incarico, la responsabilità passa al presidente incaricato che deve comporre la lista dei ministri del suo gabinetto. La proposta di cui parla l’articolo 92 della Carta vincola il capo dello Stato, che può esprimere valutazioni di cui il presidente incaricato può tenere conto se lo ritiene. Il diniego sul nome di un ministro può esserci per incompatibilità col ruolo, per conflitto d’interessi o indegnità causata, per esempio, da condanne penali, dunque solo per ragioni oggettive».

Il presidente può fare valutazioni politiche?
«No. Perché non è organo di indirizzo politico. La dottrina – da Serio Galeotti a Livio Paladin, per citare due autorevolissimi costituzionalisti – è sempre stata concorde nel ritenere il presidente un organo di garanzia e non di indirizzo politico».

Si dice che il presidente si sia fatto garante della Carta, che all’art. 47 assicura la tutela del risparmio.
«Mi fa felice riscontrare questo interesse per il risparmio degli italiani che per decenni non si è mai manifestato né da parte del presidente Mattarella, né dei suoi predecessori. Tanto è vero che tanti risparmiatori sono stati messi in ginocchio. E non mi riferisco solo a quelli truffati dalle banche: il risparmio è stato distrutto dai meccanismi attuali. È bene che il presidente se ne faccia carico, ma voglio far notare che nel programma di governo non erano previsti provvedimenti distruttivi del risparmio. La valutazione sulla linea economica è stata squisitamente politica. E questa sfugge alle prerogative presidenziali».

Ci sono punti del programma di governo che suscitano perplessità?
«Credo quelli sulla sicurezza, citati anche in un’intervista a Gustavo Zagrebelsky qualche giorno fa su Repubblica, come l’autodifesa sempre legittima, o l’uso della pistola a onde elettriche considerata dall’Onu uno strumento di tortura, l’introduzione di reati specifici per i migranti clandestini o il trasferimento dei fondi destinati ai profughi ai rimpatri coattivi. Sono cose in evidente contrasto con la Carta: il presidente avrebbe potuto farlo notare e comunque respingere i singoli provvedimenti».

Cosa pensa della ventilata messa in stato d’accusa?
«Mattarella ha certamente esorbitato dalle sue funzioni. Ma la messa in stato d’accusa è qualcosa di più complesso: bisogna dimostrare, anche con comportamenti reiterati, l’intenzione di sovvertire la Costituzione. Non è questo il caso. In ogni caso, nell’interesse del Paese è un discorso che va abbandonato perché paralizza il funzionamento delle istituzioni».

Si cita spesso il precedente di Napolitano, che ha interpretato in maniera vigorosa il suo ruolo: per Renzi anche imponendo il percorso di riforme costituzionali.
«Le rispondo così: quando il presidente Cossiga esorbitava dalle sue funzioni, i costituzionalisti manifestavano le loro critiche continuamente proprio per evitare che si potesse parlare di una prassi consolidata».

La presidenza della Repubblica ne esce ammaccata?
«Mi auguro con tutto il cuore di no».

il Fatto Quotidiano,

Barbara Spinelli, il Quirinale ha bloccato la nomina di Paolo Savona al Tesoro per timore delle reazioni dei mercati, che sono crollati comunque. Quanto devono contare i mercati nelle decisioni della politica?

Sicuramente contano ma non devono essere in competizione con le elezioni. Nel ’98, l’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer disse che ormai le democrazie si fondano su due plebisciti egualmente legittimi: quello popolare e quello permanente dei mercati internazionali. È una visione nefasta. I mercati non possono esser messi sullo stesso piano dell’articolo 1 della Costituzione, secondo cui la sovranità appartiene al popolo.

Il commissario Ue Oettinger ha detto: “I mercati insegneranno agli italiani a non votare per i populisti alle prossime elezioni”. Le prossime elezioni saranno lo scontro finale tra sovranisti e anti-sovranisti?
Non esistono scontri finali nella storia. Lo scontro in questione è d’altronde basato su una fake news: l’uscita dall’euro non era nel programma M5S-Lega. Né in quello di Savona.

L’uscita dall’euro era però in una bozza del contratto di governo.
Lega e Cinque Stelle l’hanno poi ritirata. Il Quirinale lo ha ignorato: mi sembra tra l’altro che abbia opposto il suo veto non al programma, ma a Savona. Detto questo, non ritengo di per sé uno scandalo che si possa parlare di uscita dall’euro. Da anni scenari simili sono allo studio, viste le grandi e irrisolte difficoltà dell’eurozona: sono contemplati, sia pur segretamente, non solo da Savona ma dalla Banca d’Italia, dalla Banca centrale, da massimi economisti tedeschi.

Come viene vista la situazione a Bruxelles: pericolo scampato o grande incertezza?
L’establishment comunitario ha pesato su Mattarella, con pressioni di vario genere. La preoccupazione resta, anche se l’Italia è oggi commissariata più esplicitamente ancora che negli ultimi anni: oggi tramite Cottarelli e Fmi, domani forse tramite Draghi. Ma le elezioni non sono abolite. Inoltre resta un grande “non-detto” nell’establishment europeo.

Cioè?
Cosa significa uscire dall’euro: implica anche uscire dall’Ue? Il non-detto può trasformarsi in pressioni aggiuntive. Personalmente non credo che le due cose si equivalgano. I pareri legali sono divisi su questo.

Tra gli elettori crescerà la voglia di cambiamento o prevarrà il timore dell’incertezza?
Le forti pressioni su Tsipras non impedirono ai greci, nel 2015, di votare contro il memorandum della Troika. La paura può produrre spinte alla ribellione. Anche in Germania l’euro-scetticismo è aumentato: si continua a parlare di un’eurozona ristretta. Trovo molto grave che ci sia stato un veto a Savona per le sue critiche all’unione monetaria: significa non riconoscere le conseguenze gravissime delle disfunzioni dell’eurozona, già segnalate agli esordi da Paolo Baffi. Le disuguaglianze sociali e geografiche che ha prodotto generano il rigetto presente. L’architettura e i parametri dell’eurozona vanno dunque cambiati. E i cambiamenti vanno negoziati in maniera efficace. Savona era il più adatto a questo compito. Non l’hanno voluto per questo.

Perché chi considera l’euro e l’Ue intoccabili non riesce ad argomentare le proprie posizioni con la stessa efficacia dei critici?
Le posizioni dei difensori dell’euro sono spesso ideologiche, del tutto allergiche alla dialettica. Le tesi si rafforzano attraverso il confronto con le obiezioni. Se Savona dice che lo statuto della Bce deve considerare prioritari non solo la stabilità dei prezzi ma anche l’occupazione a l’aumento della domanda, perché viene considerato eretico? Si parla di eresia quando c’è un’ortodossia religiosa. Il caso greco avrebbe dovuto far capire che esiste ormai una tragica sconnessione tra le sovranità popolari e la delega a poteri europei neoliberisti.

Il tema della sovranità popolare è però lasciato dai liberal a personaggi come Steve Bannon, che è a Roma in questi giorni.
Sono d’accordo. Ma chi ha consegnato il tema della sovranità popolare alle destre estreme? Le forze di sinistra classiche. Mattarella ha messo il veto sulla scelta di Savona, ma non aveva niente da dire sul capitolo migranti del programma? O su quello della sicurezza interna?

Qual è stato l’errore della sinistra?
Da decenni, la sinistra ha smesso di occuparsi dei diritti sociali ed economici concentrandosi su quelli civili. Questi ultimi sono indispensabili, ma se si rinuncia a quelli sociali ed economici finiremo col perdere anche quelli civili. Come si vede in Polonia, dove il governo approva misure di Welfare ma smantella diritti civili. Se la sinistra rinuncia, saranno le estreme destre a presidiare la questione sociale.

L’idea di un “fronte repubblicano” guidato da Gentiloni a difesa di istituzioni e Ue è incoraggiante?
No comment sulla sinistra di Gentiloni o Renzi. Su alcune politiche – penso a quelle di Minniti sui rimpatri in Libia– non vedo differenze dal programma della Lega. Gentiloni si è congedato dicendo: ‘La stanza dei bottoni non me l’hanno mai mostrata’. Quindi chi comandava? Non andare fuori strada significa lasciare che nella stanza dei bottoni comandi il ‘plebiscito permanente dei mercati’? E cosa significa l’articolo 11 della Costituzione, quando si delegano sovranità a ordinamenti internazionali il cui scopo non è più ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’?

Un amico fraterno mi ha scritto per rimproverarmi di aver scelto, criticando Mattarella, il versante sbagliato di uno schieramento tra «la peggiore destra animata da un imbecille (Di Maio) e da un farabutto (Salvini) e «il presidente della Repubblica. Mattarella» Ha aggiunto che a suo parere la gravità della situazione «non consente finezze, o con i fascisti o con Mattarella, non ci sono terze vie (come non ci furono ai tempi di Weimar e della marcia su Roma)». Ed è perciò «necessario che anche la sinistra, quella alla quale apparteniamo noi, prenda una posizione netta, senza se e senza ma».

Valutazioni analoghe hanno espresso altre persone che stimo molto, e colgo l'occasione per rispondere anche a loro.

Contemporaneamente, secondo un costume tipicamente italiano si è avviata, e prosegue, una forme di tifoseria nella quale tutti sono invitati a dire Si o No a Mattarella e ai suoi critici, senza argomentare il loro voto.

Ho risposto al mio amico che non si possono valutare gli eventi di questi anni schematizzandoli nel contrasto tra due soggetti: Di Maio e Salvini da una parte, Mattarella dall’altra. A me sembra che sia indispensabile tenere il massimo conto di due elementi: i princìpi da un lato, e dall’altro gli interessi e la strategie di cui gli attori sono portatori.

Sono convinto (come ho scritto ieri commentando su eddyburg il documento di Potere al popolo) che le motivazioni con le quali Mattarella ha giustificato il suo diniego sono molto gravi.

Piaccia o non piaccia Savona è stato proposto dalla maggioranza di un parlamento legittimamente formato, e non vi era alcuna ragione costituzionalmente valida per impedirne l’entrata in carica. Le motivazioni ripetutamente espresse da Mattarella rivelano – senza possibilità di dubbio – che la ragione della pesante censura a Savona è costituita dai timori e dalla volontà de “i mercati”. Errore, a mio parere, altrettanto grave di quello che Giorgio Napolitano confessò di aver compiuto, quando, intervenendo su Renzi lo sollecitò a indire il referendum per modificare la Costituzione al fine dichiarato di ridurre i diritti relativi a lavoro e democrazia. Napolitano interveniva allora obbedendo in tal modo alla volontà espressagli dal gruppo JP Morgan Chase Bank. Ci indignammo e protestammo tutti, o mi sbaglio?

Ma oggi la cosa è ancora più grave, perché l’obbedienza a “i mercati” è stata completata dall’affidamento di formare il governo a un personaggio, Carlo Cottarelli, la cui formazione, la cui storia, la cui dichiarata volontà, la cui stessa “specializzazione” è quella di tagliare il welfare, nell’appiattire la tassazione nell’interesse dei più ricchi (quindi violare la Costituzione)…e infine impiegare i fondi stanziati per l’accoglienza di migranti e profughi per destinarli invece secondo il modello Minniti, al respingimento. Ed è Mattarella, succube de “i mercati”, e non altri, a prendere la decisione di incaricare Cottarelli a formare il governo della Repubblica.

Questa è la mia posizione. Una posizione personale, certamente. Infatti, come faccio sempre da qualche tempo, quando esprimo posizioni che non rispecchiano il punto di vista di tutto il gruppo di eddyburg le concludo con la mia sigla.

Comunque la mia posizione l’avevo già espressa ieri sera, nei commenti di apertura di un pezzo su eddyburg. Da allora non ho cambiato idea. E devo dire che mi spinge ancora di più a ribadirlo il fatto che aborro dal costume italiano del “tifo”: o per la Roma o per la Lazio, o per i Bianchi o per i Neri. Preferisco molto il ragionamento e l’argomentazione. E la convinzione che mai la ragione sta tutta e solo da una delle due parti

Infine, per quanto riguarda la sinistra italiana, non ritengo più validi oggi, nel XXI secolo, un glossario e una visione dei conflitti politici indubbiamente coerenti con i problemi del millennio scorso ma non più oggi. Le forme e gli stessi contenuti del conflitto sono diversi, sono mutati i contenuti stessi (l’ideologia, gli interessi economici, le figure sociali) sia degli sfruttati che degli sfruttatori. Ho tentato di scrivere qualcosa di semplice in proposito nell’articolo cui reinvio: “la parola Sinistra”. (e.s.)

il manifesto, 2

L’incarico a Cottarelli non ha dato alcun beneficio per lo spread e la borsa, che anzi volgono al peggio. Non poteva andare diversamente, posto che nomi prestigiosi nell’esecutivo non avrebbero impedito una sfiducia a breve praticamente certa, con la prima assoluta di un governo del presidente privo di qualsiasi sostegno mandato al massacro in parlamento. Quale peso, quale autorevolezza in Italia e all’estero per un governo nato morto? Un governo di zombie. Cottarelli non ha ancora consegnato la lista dei ministri a Mattarella, e non si sa – a questo momento – se la consegnerà. Palazzo Chigi è vuoto, nel senso più stretto del termine. Il vecchio governo ha già portato via gli scatoloni, il nuovo ancora non c’è. Una situazione pericolosa e insostenibile.

Come è insostenibile l’ipotesi che un governo senza fiducia sia a lungo mantenuto in vita dal capo dello stato ritardando lo scioglimento delle camere. Già poche settimane di inerzia potrebbero arrecare al paese un grave danno. Bisogna tornare alle urne, ponendo fine a ogni ulteriore indugio. Si parla del 29 luglio per il voto. Per questo è comunque necessario un premier in carica, per la controfirma del decreto di scioglimento anticipato. Può essere Cottarelli, o ancora Gentiloni, o magari un redivivo Conte, ripescato nei tempi supplementari.

Tutto questo accade mentre il paese si è diviso sul diniego opposto da Mattarella a Paolo Savona come ministro dell’economia. Si preparano piazze pro e contro il Colle. Un brutto segnale, che pone un carico pesante sul ruolo di rappresentante dell’unità nazionale proprio del capo dello stato.
Si argomenta che abbia difeso la Costituzione. Non è così. Il capo dello stato può fare argine contro leggi o atti di governo incostituzionali, o anche lesivi di trattati in vigore. Ma la possibilità di assumere in un programma di governo la scelta politica di uscire da uno o più trattati è altra cosa. Per me, uscire dall’euro sarebbe scelta grave e da contrastare perché non nell’interesse del paese. Ma non dubito che il popolo italiano abbia in principio il diritto di fare quella scelta. Si pensa forse che vi siano trattati scritti per l’eternità?

Si oppone che sono state disattese prassi consolidate. Si lamenta che il “contratto” di governo ha natura privatistica, che è venuto prima dell’incarico, e che il signor nessuno incaricato non risponde al modello dell’art. 95 della Costituzione (“dirige e coordina”). Argomenti carichi di formalismo. È vero che non sono state osservate antiche ritualità e regole di galateo istituzionale, seguendo un iter tortuoso e pasticciato più del necessario. Ma sono cose alla fine largamente ininfluenti rispetto ai processi politici reali, meno lontani dal passato di quanto può a prima vista sembrare. Più sostanziale è il distacco di Mattarella dal principio aureo su cui la presidenza per Costituzione necessariamente riposa: non essere parte nella dialettica politica.

Ci sono ragioni più profonde. È mancata una presa d’atto che la rottura avvenuta il 4 marzo è stata ben più profonda di quello che si poteva pensare prima del voto. Forse nasce qui l’errore di Mattarella di voler portare a Palazzo Chigi un governo tecnico contro una maggioranza parlamentare sostenuta da una fiducia. Qui si fonda la lettura riduttiva da parte di molti – anche costituzionalisti – di un conflitto tra responsabili favorevoli a Mattarella e irresponsabili all’assalto del Palazzo. Infine, un pezzo importante dell’establishment del paese, da sempre nelle stanze del potere o nelle immediate vicinanze, ha probabilmente temuto di essere prossimo allo sfratto e ha cercato di evitarlo, allagando i fossati e sbarrando le porte ai nuovi barbari.

Che il governo gialloverde fosse di destra e da combattere politicamente non si discute. Ma qui si parla di altro. Per Mattarella, l’impeachment sarebbe stato eccessivo rispetto ai fatti ed è bene che sia messo da parte. Ma l’art. 90 Cost. esclude per il capo dello stato la responsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, non lo sottrae alla critica. Anzi, è proprio la critica il complemento fisiologico della irresponsabilità. Come i fatti di queste ore dimostrano, chi critica il capo dello stato difende l’istituzione della presidenza. Il capo dello stato ha diritto al rispetto, che va dato senza riserve. Non ha diritto a un silente ossequio.

Potere al popolotere al popolo a proposito delle iniziative di Sergio Mattarella, nel suo ruolo di presidente della <Repubblica: al servizio dei "mercati". Con commento (e.s.)

Le prese di posizione di “Potere al popolo” hanno il duplice pregio della radicalità e della chiarezza: due pregi del tutto coerenti con l’esigenza di fondo che ha provocato la nascita di Pap, che è quella di ribaltare il tavolo della “politica politicante" e di sostituirla con un politica che garantisca uguaglianza e democrazia a tutti, a partire dai più fragili e sfruttati. Radicalità non significa “estremismo”, ma andare alla radice delle cose e, se sono marce, tagliarle, operare un cambiamento reale e profondo. Chiarezza significa parlare in modo tale da farsi comprendere dal popolo, da tutto il popolo che si vuole rappresentare.

La critica di “Potere al popolo” a Sergio Mattarella puà essere riassunta in una sola proposizione: il presidente della Repubblica ha adoperato il suo potere inibitorio non per tutelare i cittadini, ma per difendere “i mercati” cui Paolo Savona non piace.

Il giudizio severo su Mattarella è rafforzato dal sostegno che il presidente della Repubblica ha dato a una persona, Carlo Cottarelli, efficace strumento delle centrali del finanzcapitalismo, come tale responsabile diretto delle politiche neoliberiste, della progressiva riduzione del welfare nei paesi che lo avevano raggiunto e del respingimento dei popoli di migranti e profughi dai Sud del mondo. Tutto questo, e di più, potete leggere dal documento politico di “Potere al popolo” che riportiamo di seguito (e. s.)


Potere al popolo
Il documento politico
dell’Assemblea nazionale

Il presidente Mattarella si è reso responsabile di una grave crisi istituzionale, pur di non accettare come Ministro dell’economia Paolo Savona, considerato “euroscettico” e dunque non compatibile con i diktat dell’Unione Europea.

Mattarella ha ammesso di non aver accettato Savona perché sgradito “ai mercati”, temendo “un segnale di allarme o di fiducia per i mercati”. La volontà dei mercati ha prevalso su quella dei cittadini.

Piegandosi ai diktat della Bce e del Fmi, Mattarella dà l’incarico a Cottarelli, diretto rappresentante dei poteri forti della finanza e noto “tagliatore di teste” del FMI, ex strapagato plenipotenziario per la spending review.

Un governo “tecnico” che si dà la priorità, dichiara Cottarelli, “di far quadrare i conti”. Una replica del Governo Monti, che per far quadrare i conti ha aumentato l’età pensionabile, precarizzato il lavoro, tagliato i servizi pubblici.

Non ci interessa sapere se Salvini volesse davvero fare questo governo o no, nemmeno il dibattito su un eventuale impeachment di Mattarella: quello che è inaccettabile è la motivazione della sua scelta. Dire che si rifiuta la nomina di un ministro perché ha una visione della politica monetaria diverse da quelle della UE è inaccettabile. Così come è inaccettabile il ricatto dello spread, che la sovranità sia dei “mercati” e non del popolo che vota.

In questo modo il presidente Mattarella ha portato un attacco diretto alla democrazia ed alla Costituzione del nostro paese, facendo una scelta politica in continuità con lo sciagurato interventismo dell’ex presidente Giorgio Napolitano.

Grave ci sembra anche l’accodarsi di CGIL e ANPI a questa scelta. In questo modo la rabbia popolare, che ha radici giustissime, si rivolgerà non solo contro una parte politica, la sedicente “sinistra”, ma contro le stesse istituzioni nate dalla Resistenza.

Si regalerà a Di Maio e Salvini il ruolo di “vittime dei poteri forti”, di “antisistema”, di difensori degli interessi popolari, lasciando che la nostra gente sia sempre più fomentata dal razzismo e dalla xenofobia della Lega per nascondere la guerra ai poveri dichiarata anche da Salvini (voucher, flat tax, ecc) e farla diventare guerra tra poveri. Il nostro paese avrebbe invece bisogno di giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, diritti per tutte e tutti, di cooperazione e non di odio.

La mossa di Mattarella nasconderà agli occhi degli elettori le responsabilità e le colpe della Lega che ovunque governa, alleata di Berlusconi, persegue le stesse politiche neoliberiste di Monti e Renzi, volute dai mercati e da Confindustria, di cui Savona è stato un tempodirettore generale.

Ieri, 27 maggio, si è conclusa a Napoli l’entusiasmante assemblea nazionale di Potere al Popolo, con la partecipazione di più di un migliaio di persone: giovani, donne, lavoratori. L’impegno preso è stato quello di intraprendere tutte le mobilitazioni necessarie a contrastare l’ipotizzato governo M5S e Lega, che ritenevamo lontano dagli interessi popolari, a cominciare dalla proposta di flat tax a favore dei ricchi.

Potere al Popolo!, così come era pronto ad opporsi al governo Salvini/Di Maio per il suo programma e la linea politica anti-popolare, ora afferma con altrettanta determinazione che è contro il grave atto di Mattarella e contro il futuro governo Cottarelli.

Contro questo ora intende lottare per una democrazia senza sovranità limitata e senza presidenti della Repubblica che, invece essere garanti di una repubblica parlamentare, si ergano a difensori di banche e finanza.

Le mobilitazioni che avevamo in programma contro il governo Salvini-Di Maio ora saranno rivolte contro il governo Cottarelli, pura espressione dell’austerità autoritaria del mercato, della finanza multinazionale e dei diktat dell’UE.

Saremo l’unica forza politica impegnata fino a luglio a raccogliere le firme per la legge di iniziativa popolare he chiede di cancellare il pareggio di bilancio inserito in Costituzione da Monti, Berlusconi, Pd.

Sfideremo Lega e 5 Stelle a cancellare comunque la Legge Fornero proponendone la riforma in Parlamento, dove avrebbero da subito i numeri per approvarla.

Basta rivoluzionari a parole. Non faremo ancora una volta i sacrifici per garantire i vostri profitti!

Testo tratto dalla pagina qui raggiungibile

pressenza

Si può pensare alle crisi e alle soluzioni possibili in modo totalmente diverso da Paolo Savona, ma ciò non esime - chi voglia ragionare sulle cose senza paraocchi - dal sostenere che le proposte fatte proprie da Mattarella sono devastanti e vanno respinte. Esistono molte strade da esplorare per uscire dalla crisi finanziaria e dall'indebitamento dello Stato nei confronti del mondo della finanza. Preoccupante la prontezza con cui il Presidente della Repubblica accetta la soluzione che colpisce i cittadini. Questa la posizione, che riportiamo di seguito dell'erede morale del pensiero e l'opera di Lorenzo Milani, difensore dei diritti della persona umana dal bulldozer del sistema capitalistico (e.s.)

pteessenza online, 28 maggio 2018
Il gran rifiuto di Mattarella e la crisi delle democrazie
di Francesco Gesualdi


I provvedimenti discriminatori e persecutori contro gli immigrati, aggiunti alla flat tax che avrebbe aggravato le disuguaglianze, per me erano e restano scelte inaccettabili che inficiano l’intero programma presentato da M5S e Lega, che eppure contiene elementi condivisibili. Ma la scelta del Presidente della Repubblica di non accettare Paolo Savona come ministro dell’economia, rappresenta una grave ferita per la democrazia. Le ragioni addotte da Mattarella per rifiutare la sua firma sotto quel nome sono che “la designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari”. Ed ha continuato “ho chiesto per quel ministero la designazione di un esponente politico della maggioranza che non sia visto come sostenitore di una linea che potrebbe provocare, probabilmente o inevitabilmente, l’uscita dell’Italia dall’euro”.

Tradotto, Mattarella ha detto che siamo tutti dei vigilati speciali e che l’ultima parola sul tipo di governo che si deve insediare nei singoli paesi l’hanno i mercati che attraverso le loro scelte di acquisto o di vendita di valute e titoli del debito pubblico possono decretare la vita a la morte delle economie nazionali. E a sottolineare come il potere di banche, assicurazioni e fondi di investimento sia assoluto, nel senso che non c’è modo di portare il mercato ad alcun tavolo di negoziazione, Mattarella ha usato l’aggettivo ”immediato”. Come dire: il mercato osserva, ascolta e reagisce immediatamente ora per salvaguardare i propri capitali, ora per creare condizioni propizie ai propri calcoli di guadagno. Non a caso la sua richiesta era che venisse proposto un altro nome percepito dai mercati come meno dirompente di Paolo Savona.

Diciamolo con chiarezza: Paolo Savona è un economista di sistema convinto sostenitore del mercato e della crescita, che non mette in discussione l’obbligo dello stato a pagare i suoi creditori. Però è altrettanto persuaso che per rilanciare l’economia italiana bisogna spendere di più come cittadini e come stato. Di qui il suo sostegno ad un pacchetto economico che al tempo stesso prevede riduzione delle tasse ed espansione della spesa pubblica. Una possibilità che oggi è preclusa dai rigidi parametri di Maastricht che in nome della stabilità dell’euro pongono limiti molto stretti alla possibilità di fare altro debito. Di qui l’affermazione di Savona che se non funziona il piano A, bisogna avere di riserva il piano B che prevede l’uscita dall’euro per recuperare piena sovranità sulle politiche monetarie, fiscali e di bilancio.

In termini di obiettivi economici personalmente sono su posizioni diverse rispetto a quelle di Savona. Credo che il nostro obiettivo non debba essere la crescita, ma una distribuzione più equa della ricchezza e una riconversione ecologica della produzione e del consumo, in una logica di inclusione lavorativa che passa al tempo stesso tramite una riduzione dell’orario di lavoro e di più stato per la fornitura di servizi pubblici e tutela dei beni comuni. Il grande macigno che blocca la strada di questo percorso è un debito pubblico verso privati che sottrae risorse enormi alla collettività. Per questo credo che la grande battaglia debba essere condotta per liberarci dal debito, senza fare pagare i più deboli. Che significa aprire un contenzioso con i mercati ancora più acuto di quello aperto dall’ipotesi di uscire dall’euro finalizzato a raggiungere meglio gli obiettivi di sistema.

In conclusione, che si persegua un obiettivo o l’altro, la necessità di recuperare tutti gli strumenti che permettono ai governi di esercitare a pieno la loro funzione di promozione sociale e di indirizzo economico, si pone in ogni caso. Gli europeisti che credono in un’Europa sociale, chiedono di provare fino in fondo a recuperare questa condizione tutti insieme, ma forse dobbiamo ammettere che i margini per riuscirci sono molto scarsi, visti gli egoismi nazionali che dominano a livello europeo. Per cui uno scontro con l’Europa, ma ancora di più con i mercati sembra ineludibile. Uno scontro che pur essendo economico, diventa inevitabilmente istituzionale perché pone il problema di chi comanda. Mattarella ha ammesso che comandano i mercati e un’affermazione del genere è di una gravità inaudita da parte del garante di una Costituzione che afferma solennemente che la sovranità appartiene al popolo.

Mattarella avrebbe dovuto rispettare la volontà popolare e annunciare nel tempo stesso che si andava alla guerra. Informare i cittadini della situazione era suo obbligo, poi i cittadini o meglio i suoi rappresentanti in Parlamento avrebbero deciso le misure da assumere nel giorno per giorno. L’esito avrebbe anche potuto essere una grande ritirata o l’apertura di una nuova stagione in cui si tornava a ridiscutere il ruolo dello stato, il ruolo dei mercati e quale Europa vogliamo davvero. Ne abbiamo bisogno e Mattarella doveva permetterlo, anche se dovevamo accettare di andare verso l’ignoto.

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Corriere della sera

Non c’è persona civile, in Italia e nel mondo, che possa non plaudire con entusiasmo a questa sentenza della Corte costituzionale. Il principio di uguaglianza di tutti dinnanzi alla legge è acquisito dal mondo in ogni Statuto democratico, sebbene non sia quasi mai integrato dal principio dell’uguaglianza economica. Ma alla nuova barbarie degli Zaia esso rimane ignorato, rivelando così che nel mondo foggiato dal capitalismo le ragioni del suprematismo di popolo, etnia, tribù trovano ancora consistenti e “autorevoli” sostegni. Ce lo ricordano ahimè, al di là e addirittura al di sotto degli Zaia gli avvenimenti quotidiani dell’attuale politica italiana: basta pensare alle fortune del fascista e razzista Matteo Salvini, ministro dell’Interno di un governo che il presidente della nostra Repubblica ritiene coerente con la Carta di cui dovrebbe essere il supremo tutore. Ma nessuno chiederà l’empeachment di Sergio Mattarella. È l'Italia, baby! (e.s.)

Veneto,asili nido: bocciata la legge del “prima noi”.
«È incostituzionale»
di Elena Tebano
«La decisione della Consulta sulla norma voluta dal governatore Zaia che dava la precedenza ai figli di coloro che risiedono in Veneto da almeno 15 anni»
Viola la Costituzione dare la precedenza ai figli dei residenti in Veneto da almeno 15 anni nell’iscrizione all’asilo nido. Lo ha stabilito la Consulta con la sentenza 107/2018 depositata oggi. A febbraio di due anni fa la Regione Veneto aveva varato la norma voluta dal governatore Luca Zaia, in una declinazione locale di quel «prima gli italiani» che è stato lo slogan della Lega anche nell’ultima campagna elettorale. Secondo la Corte, presieduta da Giorgio Lattanzi (giudice estensore Daria De Pretis), la legge con il criterio dei 15 anni di residenza o lavoro viola il principio di uguaglianza sancito nell’articolo 3 della Costituzione e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia» garantito dall’articolo 31.

La decisione dei magistrati

«Primai veneti resta un principio forte e non scalfibile» aveva detto Zaia quando lanorma era stata rinviata alla Corte costituzionale. I giudici della Consulta,però, non sono d’accordo: «La configurazione della residenza (odell’occupazione) protratta come titolo di precedenza per l’accesso agli asilinido, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone in frontalecontrasto con la vocazione sociale di tali asili, scrivono nella sentenza ;asili che rispondono «direttamente alla finalità di uguaglianza sostanzialefissata dall’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, in quanto consenteai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi economici disvolgere un’attività lavorativa». Stesso argomento vale — affermano imagistrati — anche per «la funzione educativa degli asili nido»: qui«l’estraneità ad essa del “radicamento territoriale” risulta ugualmenteevidente» essendo «ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitoriradicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggioredegli altri». Secondo la Consulta, inoltre, la legge veneta viola anchel’articolo 31 della Costituzione in quanto «distorce la funzione» degli asilinido e «persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché creale condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizioeducativo dell’asilo nido».


Gli effetti della bocciatura

La norma originaria, del 1990, riconosceva «titolo di precedenza all’ammissione» ai «bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale». Ma due anni fa era stata modificata dando «precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione». Ora la modifica è stata annullata e il criterio della residenza prolungata non viene più applicato: basterà essere residenti, anche solo da un giorno, nella Regione.

Articolotratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto

Non c'è dubbio: la politica italiana è ridotta a un livello così basso di uguaglianza e democrazia, ed è così ricca di lesione continua dei principi essenziali di buongoverno e di attenzione agli interessi del popolo, che solo dal mondo cattolico si possono ascoltare voci autorevoli di critica. Gli esclusi e gli oppressi sono ancora incapaci di esprimersi nelle forme della protesta sociale e politica. La tacita intesa tra destra, centro ed ex sinistra è così forte da rendere quello attuale il primo parlamento senza opposizione della storia d'Italia (e.s.)
o, 25 maggio 2018
Governo. Vescovi all'attacco su flat tax, Europa, migranti
di Marina Della Croce

No alla flat tax e massima attenzione sia all’Europa che a come il governo che sta per nascere si comporterà con i migranti. «Ci sono principi irrinunciabili», mandano a dire i vescovi italiani al premier incaricato Giuseppe Conte, la cui vicinanza agli ambienti vaticani è ovviamente apprezzata ma non certo sufficiente ad allontanare i tanti dubbi che circondano la maggioranza che lo sostiene.

Dopo le perplessità sollevate dall’Unione europea e dopo la bocciatura del Contratto da parte di Confindustria, pesanti interrogativi sul nascente esecutivo giallo verde arrivano questa volta dalla Conferenza episcopale italiana. «Vigileremo» su quanto verrà fatto nel prossimo futuro, avverte il presidente della Cei, il cardinale Giuseppe Bassetti. «Saremo la coscienza critica» del governo.

E’ esteso l’elenco dei punti del Contratto che preoccupa i vescovi, delusi anche dai tempi lunghi che hanno portato alla formazione dell’esecutivo. «Una lunga vacanza», la definiscono, che altro non ha fatto che aggravare i problemi già esistenti. L’attenzione per la persona, ma anche la Costituzione, «la scelta chiara per la democrazia, l’Europa e i migranti», avverte Bassetti, sono tutti paletti ai quali la Chiesa non intende rinunciare. Ma i vescovi fanno di più, ed entrano nel merito di alcune delle decisioni già annunciate. A partire da quelle economiche, con una critica precis

a alla flat tax: «Non ci possono essere tagli per tutti genericamente ma solo per le fasce per le quali è necessario – spiega Bassetti -. Ci sia una maggiore tassazione sulle attività speculative».

I migranti sono un altro di quegli argomenti che sollevano maggiore allarme tra i vescovi. In questi settimane hanno sentito parlare di rimpatri di massa, dell’intenzione di costruire nuovi centri di identificazione ed espulsione insieme agli attacchi alle politiche seguite fino a oggi da Bruxelles Ancora ieri, commentando i dati forniti dal Viminale relativi alla forte flessione registrata negli sbarchi (-79% rispetto al 2017) e alle 7.000 espulsioni effettuate, il leader della Lega Matteo Salvini ha chiesto un aumento dei rimpatri. E promesso: «Presto la musica cambierà». Certo, si tratta di parole buone per scaldare gli animi durante un comizio a Pontida, anche perché certe promesse sono difficili da mantenere, ma che comunque, almeno in parte, domani potrebbero realizzarsi. E per questo allarmano la Cei la cui posizione in merito non a caso è stata ricordata solo qualche giorno fa dal suo segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, quando si è detto preoccupato da chi fa delle politiche del rifiuto la sua bandiera.

Bassetti ha infine rivolto un appello per un impegno dei cattolici in politica. Un partito unico come nel passato modello Democrazia Cristiana? «Non sta alla Chiesa dare soluzioni», risponde, ma allo stesso tempo fa notare come la stagione dei cattolici divisi in partiti diversi «non abbia dato grandi frutti» e sia comunque «superata». «Per la società oggi – dice ilpresidente della Cei – è necessario il pensiero dei cattolici, ma se non lo esprimono insieme rischia di essere inefficace». Per questo «occorre investire di più in formazione politica». Un progetto che potrebbe addirittura ripartire dalle parrocchie, come suggerito negli ultimi tempi da analisti del mondo cattolico.
Il presidente Cei parla anche della legge 194, a quarant’anni dalla sua emanazione: «Come Chiesa ne abbiamo visti sempre i limiti ma non era una legge a favore dell’aborto, e comunque bisogna apprezzare certi punti rispetto al relativismo totale sull’embrione e sulla vita. Lì ci sono comunque indicati dei paletti».


Il protagonista di uno dei pochi tentativi positivi, ahimè fallito, di rovesciare il tavolo delle poliquepoliticienne italiana spiega ai molti cacciatori di farfalle che non basta dire che Verde o Giallo è meglio di Matteo Renzi per sostenere che va bene. Vi sono almeno tre ragioni di merito per opporsi. Ricorda poi, giustamente. Ricorda poi molto opportunamente che La Lega non è nè Verde nè Gialla, ma è profondamente Nera e quindi allearsi con Salvini è un grave errore politico per chi dichiara di voler difendere la Costituzione (e.s.)

Huffington Post, 24 maggio 2018Il Movimento 5 Stelle e la critica del poteredi Tomaso Montanari

In un passo memorabile dell'Amleto, il principe chiede al suo Polonio di alloggiare i commedianti appena arrivati a corte. "Signore, li tratterò secondo il loro merito", risponde quello. E Amleto, bonariamente rimproverandolo: "Meglio, amico, meglio. Se trattate ognuno secondo il proprio merito, chi si sottrarrà alle busse? Trattateli secondo il vostro onore e la vostra dignità."

Ecco, mi piacerebbe che un Amleto fosse capace di dire oggi la stessa cosa ai vertici e agli attivisti del Movimento 5 stelle. È infatti un grave errore respingere con sdegno aggressivo ogni critica (anche quelle amichevoli o comunque fondate) invocando sempre un solo argomento: che il Pd ha fatto peggio. Come se il metro del giudizio e delle scelte fosse appunto da cercarsi nel merito degli "altri" e non nella propria dignità.

Facciamo tre esempi, assai diversi per peso e importanza, ma egualmente eloquenti.
Il primo è la scelta di governare con la Lega. Non ripeterò quanto ho detto altrove: ritengo del tutto improprio parlare di alleanza giallo-verde. Perché il colore della Lega di Salvini è il nero di un partito lepenista, razzista, con elementi concreti di neofascismo, cresciuto attraverso una retorica violenta e squadrista. Personalmente credo che la visione dell'Italia della Lega sia radicalmente incompatibile con quella del Movimento. Ma so benissimo che solo alcuni milioni di elettori del Movimento condividono questa opinione: certamente non la maggioranza. E questo è un conto che quegli elettori risolveranno nelle prossime urne. Il punto qui è un altro, e riguarda una pietra angolare dell'identità storica dei Cinque stelle: la trasparenza, e la relativa coerenza. Ebbene, l'aver assicurato in ogni modo, in pubblico e in privato, che mai ci sarebbe stata un'alleanza con la Lega e poi l'aver ribaltato questa posizione all'indomani del voto non è una mossa che si possa archiviare nella cartella del realismo, vedi cinismo, politico.

Sì, è vero: Renzi ha governato con Berlusconi. Ed è vero: Minniti ha fatto politiche razziste e xenofobe. Ma se i Cinque stelle vogliono essere diversi, se vogliono essere davvero "onesti": il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, ma la loro propria dignità. (E noto, fra parentesi, che le ragioni, comprensibili, per cui il Movimento dice di voler imporre, sbagliando gravissimamente, il vincolo di mandato dei parlamentari, cozzano con la nascita di questo governo: se la Lega fosse stata vincolata agli impegni presi con gli elettori, cioè stare nella coalizione del centrodestra, nulla sarebbe nato. Perché questo è un governo nato sullo "svincolo di mandato").
Il secondo è l'accettazione della flat tax. Si discute molto della sua sostenibilità: quasi per nulla della sua equità. Ebbene, è una misura così grave da scardinare l'intero progetto della Costituzione, e non solo da ribaltare il suo articolo 53. I 5 Stelle hanno detto più volte che il loro programma coincideva con la Costituzione, che hanno valorosamente difeso nel 2016. Cedere alla Lega sulla flat tax significa tradire se stessi in una misura non sanabile: equivale a ciò che Renzi ha fatto con il Jobs act, per dire. E anche qui, è vero: il Pd ha enormi responsabilità nella cancellazione della progressività fiscale: ma, di nuovo, il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, deve essere invece la propria dignità.

Il terzo caso, assai meno rilevante ma molto rivelatore, è il curriculum del professor Giuseppe Conte. Il quale non ha tecnicamente scritto il falso. Ma ha fatto comunque qualcosa di assai disdicevole, per l'etica della professione cui appartiene (che è anche la mia). Se io, professore ordinario, scrivo che ho perfezionato i miei studi presso la New York University (o in tutte le altre istituzioni accademiche estere menzionate in quel ridondante curriculum) si può intendere solo che l'ho fatto essendo accolto in veste ufficiale (e dunque con rilevanza pubblica e documentabile) da quella istituzione. Se sono andato a studiare nelle biblioteche di quelle università, a trovare la fidanzata che ci lavorava o a imparare una lingua, ebbene allora non lo scriverò nel curriculum: perché scrivere che un professore va in biblioteca o studia è come scrivere che uno respira.

Il sapore che se ne trae è molto amaro: perché è quello di una furbizia spicciola. E a nulla serve dire che nessuna affermazione può essere smentita: non può esserlo perché sono affermazioni scritte in modo furbesco, avvocatesco, volutamente vago e suggestivo, per far credere ciò che non è e poter poi, però, far marcia indietro. Non se ne ricava un'immagine seria e affidabile.

E, per la terza volta, il Pd ha fatto peggio? Ma certo: il caso Fedeli e soprattutto il caso Madia sono stratosfericamente più gravi, avrebbero dovuto condurre a immediate dimissioni: ed è stato vergognoso il silenzio di molti media. Ma chi grida "onestà, onestà" non può assumere come metro il demerito degli avversari, deve misurarsi con la propria dignità. Affidare un governo dirompentemente politico a una figura tecnica così esile è il vero problema, naturalmente: ma quando poi si legge quel curriculum l'effetto è drammatico. Perché non se ne può che dedurre che siamo nell'eterno paese dei furbi, dove l'antropologia del potere e del suo sottobosco non cambia mai. Non basta non dire il falso: le parole scelte da Shakespeare sono, guarda caso, le stesse che la Costituzione impone a chi ricopre cariche pubbliche: dignità e onore. Che invano si cercano in quel curriculum.

So che dire queste cose mi attirerà un profluvio di insulti, e magari l'accusa di tradimento da parte di chi (a ragione) mi considerava aperto e anche amico del Movimento.

Quando Luigi Di Maio mi ha chiesto di stare, prima del voto, nella lista dei ministri ho declinato, spiegando lealmente il mio dissenso incomponibile sul punto del vincolo di mandato. E gli dissi che se mai si fosse arrivati a una riforma costituzionale in quel senso, avrei promosso il No allo sperabile referendum. Questo non ha turbato i miei rapporti personali con Di Maio: Cosa vuol dire essere amico? Compiacere o dire la verità?

Gli esponenti del Pd che in questi anni ho duramente criticato, rispondevano strumentalmente che le mie critiche erano di parte, e di parte "grillina". Sbagliavano, era esattamente il contrario: la mia apertura al Movimento era determinata dal tradimento radicale e dalla degenerazione del Pd. E non è certo che ora io lo rivaluti, se critico il Movimento.
Il punto è un altro: chi fa il mio mestiere ha il dovere di "Non lasciare il monopolio della verità a chi ha il monopolio della forza" (Norberto Bobbio). Nel momento il cui il Movimento va al potere, la critica deve essere senza sconti, e deve essere fatta secondo il metro e i principi del Movimento, non secondo i demeriti del Pd.

Ed è particolarmente importante che questa critica venga da voci libere, e non schierate con una qualche opposizione: tanto più importante quanto più il potere ottunderà la critica (esemplare, di nuovo, il caso del curriculum: scioltosi come neve al sole appena arrivato l'incarico, e cioè con la promozione ad 'intoccabile'). Il più grave problema dei 5 Stelle è l'assenza di democrazia interna e l'incapacità di accettare il dissenso. Nella stagione che si apre ora, il Movimento dovrà dimostrare di saper accettare, metabolizzare e magari mettere a frutto le critiche: cioè di fare tutto quello che l'isterico Pd renziano non ha saputo fare.

Renzi imprecava contro gufi e rosiconi. Spero che il Movimento sappia essere davvero diverso: a partire dal modo di porsi nei confronti della critica. Un punto, in democrazia, davvero vitale.

Avvenire,

Prosegue senza tregua l'occupazione della Palestina da parte di Israele Le armi che l'aggressore israeliano applica sono le più diverse: dalle armi di tutti i tipi, in cui si sperimentano sempre nuove tecnologia di ammazzamento su commessa del consorzio internazionale dei Mercanti di morte, fino alle infrastrutture e alle opere edilizia. L'Europa osserva, con soddisfatta compiacenza e gli Usa partecipano con entusiasmo. Le autorità che dovrebbero garantire la pace ne mondo volgono gli occhi altrove. (e.s.)
Avvenire, 24 maggio 2018
Israele. Piani per 2.500 nuove case in Cisgiordania»
di Luca Geronico

«L'annuncio del ministro della Difesa Lieberman: «Estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea e Samaria». Il ministro Katz: in cima all'agenda il riconoscimento Usa dell'annessione del Golan»

Nuova stoccata, nel quotidiano duello verbale e legale tra Palestina e Israele. Con un twitter il super falco Avigdor Lieberman, titolare della Difesa ha annunciato che Israele rilancerà nuovi progetti edilizi in Cisgiordania. «La settimana prossima - ha scritto Lieberman - sottoporremo al Consiglio superiore per la progettazione nella Giudea-Samaria (Cisgiordania) piani per la costruzione di 2.500 alloggi, 1.400 dei quali da realizzare subito». Inoltre, ha aggiunto il ministro della Difesa israeliano, «estenderemo le costruzioni in tutta la Giudea-Samaria da Nord a Sud, in insediamenti piccoli e grandi».

E ora, dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale unica di Israele da parte della Casa Bianca, ora Israele punta anche sulle alture del Golan. Il ministro israeliano dell'Intelligence, Yisrael Katz, ha infatti dichiarato che nei colloqui bilaterali con Washington è ora "in cima all'agenda" il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell'annessione unilaterale delle alture del Golan, contese con la Siria, da parte dello Stato ebraico."Questo è il momento perfetto per fare una tale mossa", ha detto il ministro.

Un passo giustificato per contrastare Teheran: "La risposta più dolorosa che si può dare agli iraniani è riconoscere la sovranità sul Golan di Israele". "Penso che ci sia una grande maturità e un'alta probabilità che questo accada", ha aggiunto il ministro, secondo cui il riconoscimento potrebbe avvenire "entro qualche mese". La Casa Bianca non ha per ora commentato le osservazioni di Katz.

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Avvenire, 22 maggio 2019.

Sono pazzi gli uomini che abbiamo scelto per governarci. Lo diciamo per molte ragioni, tanto ovvie e ripetute che ci stufa doverle sempre ripetere: La pace, il lavoro, la possibilità di impirgre le risorse nell'interesse di un miglioramento delle condizioni materiali e immateriali dell'umanità tutta, la riduzione - fino all'annullamento - della distanza tra ricchi e poveri.
E invece no. L'impiego delle risorse è destinato ad altri scopi: a far diventare più ricchi e potenti quelli che già lo sono, nel modo più facile e rapido possibile. L'impiego delle risorse negli armamenti è un ottimo investimento, e per aumentare la domanda basta produrre più guerra, più morte. Ripetiamo queste cose per l'ennesima volta perchè oggi possiamo aggiungere una ulteriore perla alla frottole dei guerrafondai. Oggi apprendiamo, dall'articolo di Raul Caruso, che le spese per la guerra sono utili perché consentono di migliorare tecnologie che potrebbero essere utilizzate anche per opere civili. Insomma, produciamo morti ammazzati per rendere più fertile il terreno i cui frutti serviranno ai nostri posteri per nutrirsi! (e.s.)
22 maggio 2018Investimenti militari e pacedi Raul Caruso
«I costi del riarmo: più insicurezza e ritardi nell'innovazione. L'Unione Europea si trova a un bivio»
Il riarmo a livello mondiale non sembra arrestarsi. Secondo gli ultimi dati del Sipri la spesa militare mondiale nel 2017 è stata pari a 1.739 miliardi di dollari, dato in crescita rispetto al 2016. La maggioranza dei Paesi sta aumentando i propri arsenali e la produzione della 'Pace' sembra divenire sempre più difficile. I costi legati all’espansione della spesa militare sono diversi e sostanziali. Al fine di avere un’idea più compiuta del nocumento e dei rischi legati al riarmo in corso in particolare per un Paese come l’Italia, dobbiamo in primo luogo interpretare il termine 'costo' in un’accezione ampia andando a indicare non solamente un esborso monetario ma più propriamente un 'disagio' o una 'privazione'. In sintesi, tre sono i costi da evidenziare, vale a dire un minore sviluppo economico, un indebolimento della democrazia e una maggiore insicurezza. Le spese militari, in quanto intrinsecamente improduttive, costituiscono un peso per lo sviluppo economico.

Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare un crescente impegno militare è quella che fa leva sullo spillover tecnologico che deriverebbe dagli avanzamenti della tecnologia militare. In altre parole, secondo molti le attività di ricerca e sviluppo in ambito militare potrebbero generare innovazioni poi riutilizzabili in ambito civile. Questo convincimento è tuttavia sbagliato per una serie di ragioni. In primo luogo – in particolare per Paesi piccoli come l’Italia – il capitale umano impiegato nella ricerca militare è sottratto a quella in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano ha conseguenze spiazzanti sulla ricerca civile, dal momento che la disponibilità di risorse umane qualificate è limitata. In ogni caso, la più importante criticità della ricerca militare è la segretezza. Poiché i prodotti della ricerca in questo ambito dovrebbero essere destinati a realizzare un vantaggio concreto nei confronti di nemici, tradizionalmente i ricercatori e gli inventori che vi sono impegnati sono tenuti a rispettare vincoli di segretezza, che da un lato generano un ritardo nell’innovazione e dall’altro rendono impossibile sfruttarne i ritorni in ambito commerciale. Se quindi le innovazioni sviluppate nell’industria militare tendono a essere introdotte con ritardo, gli eventuali benefici per l’economia civile tendono conseguentemente a essere limitati.

Costo ancor più rilevante è quello legato all’indebolimento della democrazia. Alcuni avanzamenti tecnologici, tra cui i droni armati e i dispositivi d’arma autonomi (come i Killer Robot), infatti, destinati a cambiare la condotta della guerra, vengono solitamente indicati nel discorso pubblico come strumenti che aumentano i livelli di efficienza bellica, ma in realtà incidono sulla legittimità, la qualità e la solidità della democrazia stessa. Questo è particolarmente vero nel caso dei killer robot. Uno dei principi alla base delle società democratiche, infatti, è quello della responsabilità. Nelle democrazie i cittadini dovrebbero essere messi in condizione di identificare e valutare i responsabili delle azioni del loro governo, in particolare di fronte a scelte tragiche quali ad esempio quelle in merito alla partecipazione e alla condotta da tenere in guerra. Nel momento in cui una 'macchina intelligente' operi in maniera autonoma e brutale, potrebbe infatti innescarsi un meccanismo di negazione della responsabilità a causa del quale nessun soggetto vorrà essere chiamato in causa per risultati indesiderati. In parole più semplici: nel momento in cui un robot dovesse rendersi protagonista di stragi o uccisioni indiscriminate sorgerebbe un problema di attribuzione di responsabilità. Almeno tre soggetti potrebbero essere additati come responsabili: i programmatori e coloro che hanno sviluppato gli algoritmi di azione dei robot; il comando militare che ha decretato l’impiego delle macchine; i decisori politici che hanno deciso in favore dell’impegno bellico e della sua intensità. È chiaro che l’incertezza e la confusione nell’attribuzione di responsabilità sono sicuramente una buona notizia per i leader politici ma una pessima notizia per la democrazia.

Nella storia sappiamo, infatti, che non è infrequente che leader politici tendano a sminuire il proprio ruolo laddove le azioni di guerra siano state caratterizzate da gravi abusi e da violazioni dei diritti umani. Il caso delle torture di Abu Grahib in questo senso è emblematico: l’amministrazione Bush respinse una responsabilità diretta parlando di 'mele marce' e trasferendo in tal modo la responsabilità sui singoli soldati coinvolti. Tali meccanismi di negazione di responsabilità (il blame shifting)rappresentano un costo elevato per le democrazie e per la pace, in virtù del fatto che se i capi non sono chiamati a rispondere delle proprie azioni la prudenza dei leader democratici rispetto alla partecipazione ad azioni belliche tende ad attenuarsi diminuendo la probabilità di mantenimento della pace. In assenza di chiare responsabilità le guerre potrebbero dunque essere più frequenti e più sanguinose.

Ultimo tra i costi del riarmo, ma chiaramente non in termini di importanza, è l’aumento del livello di insicurezza. In linea generale, a dispetto del senso comune, la sicurezza di un Paese decresce al moltiplicarsi delle armi disponibili. L’aumento delle spese militari è infatti percepito come una 'minaccia' dagli altri Paesi che, di conseguenza, alzeranno a loro volta le proprie spese militari, con un effetto negativo sulla pace. Questa dinamica nelle rivalità più accese prende il nome di 'corsa agli armamenti' che è caratterizzata da instabilità. Paradossalmente, la mancata guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di bombe atomiche ha convinto molti che la deterrenza sia una condizione intrinsecamente stabile e che una politica in questa direzione sia pertanto auspicabile. Anche questa tuttavia è una convinzione sbagliata ma sovente utilizzata per giustificare i processi di riarmo. Una delle condizioni essenziali della stabilità della Guerra Fredda, infatti, era la sua natura diadica. La presenza di soli due attori favoriva la stabilità al verificarsi di alcune specifiche condizioni. In presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, l’analisi e la gestione della deterrenza diviene più complessa e le condizioni che lasciavano pensare a un’intrinseca stabilità di tali scenari tendono a scomparire.

Per questi motivi è necessario provare a invertire la rotta e impegnarsi per il disarmo. L’Unione Europea in particolare si trova di fronte a un bivio. Da un lato i Paesi mantengono un proprio modello di difesa basato sull’esistenza di 'campioni nazionali' di proprietà pubblica (come nel caso di Leonardo ex Finmeccanica) in ambito industriale e dall’altro si dicono disponibili alla costruzione di una difesa comune. Questo scenario purtroppo presenta diverse problematiche. In primo luogo, la quotazione in Borsa dei gruppi industriali di proprietà pubblica spinge gli amministratori a muoversi finanche al di fuori del perimetro degli accordi internazionali sottoscritti e ratificati dai loro principali azionisti come ad esempio l’Att, il Trattato sul commercio delle armi, ratificato da tutti i Paesi Ue ma disatteso nei fatti. In secondo luogo tali gruppi al fine di generare i maggiori rendimenti possibili oltre ad aumentare l’offerta e la varietà di armamenti competono tra loro rischiando di minare anche le tradizionali alleanze politiche.

È necessario, quindi, rivedere la natura di aziende orientate al profitto dei gruppi industriali militari ma anche creare un’agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti che abbia i poteri adeguati per limitare le esportazioni in linea con i trattati internazionali ratificati dai parlamenti. Questo è tanto più urgente se consideriamo il processo di creazione di una Difesa comune appena iniziato con la Pesco e con l’istituzione del fondo europeo per la Difesa. In questa fase iniziale sembra che i nuovi accordi europei non limiteranno gli impegni di spesa nazionali ma piuttosto si affiancheranno ad essi andando infine ad aumentare la spesa militare aggregata. Come detto, questo costituisce una fonte di declino economico e di svuotamento di significato delle democrazie con conseguenti ricadute sui livelli di sicurezza e Pace. Speriamo che le classi dirigenti abbiano la visione e la forza per invertire questa tendenza abbandonando i falsi convincimenti che le danno forma.

L’autore dell’articolo di questa pagina, Raul Caruso, ha appena pubblicato per Egea Chiamata alle armi, libro sui costi della spesa militare.

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l manifesto, 22 maggio 2018. Prosegue la trasformazione dell'Europa in una fortezza. Rinunciando sempre di più al suo ruolo storico l'U-E rafforza la barriera che esclude gli altri popoli e le altre culture. Con commento (e.s.)

Sempre più stretto il cappio all collo di quel subcontinente, geograficamente racchiuso tra gli Urali e gli oceani del nord-ovest, ma legato al mondo mediorientale, arabo e africano dal Mediterraneo, culla e cerniera di molte civiltà. Sempre più la migrazioni non sono vissute come occasioni per l'incontro e lo scmbio fruttuoso di culture, come strumenti benefici per produrre meticciato e multiculturalità, ma come rischio da evitare impiegando ogni strumento e a ogni ideologia, da quelle del razzismo a quelle dell'affarismo dei commercianti e costruttori di barriere antiuomo. Ne parla un articolo redazionale ripreso da il manifesto, che a nostra volta riprendiamo (e.s.)

il manifesto, 22 maggio 2018
Migranti, una nuova barriera al confine
tra Montenegro e Albania
La paura dei migranti rischia di far sorgere l’ennesimo muro in Europa. Dopo le barriere fatte costruire nel 2015 dal premier ungherese Viktor Orban al confine con la Serbia, ieri è stato il Montenegro ad annunciare l’intenzione di innalzare una recinzione lungo la frontiera con l’Albania per impedire nuovi arrivi di uomini, donne e bambini nel suo territorio.

Per ora si tratta solo di un’ipotesi alla quale starebbero pensando le autorità d Podgorica, come ha spiegato il capo del Dipartimento per la sorveglianza dei confini, Vojislav Draganovic, resa necessaria dal fatto che «la polizia frontaliera ha difficoltà nel riportare i migranti indietro sul territorio albanese».

E’ dall’inizio dell’anno che sono ripresi i flussi di migranti che cercano di raggiungere il nord Europa. Migliaia di persone che viaggiano sul nuovo percorso che si è aperto di recente dopo la chiusura delle vecchia rotta balcanica, avvenuta due anni fa in seguito all’accordo siglato dall’Unione europea con la Turchia. Il nuovo percorso attraversa prima l’Albania e poi il Montenegro prima di arrivare in Bosnia e da lì proseguire in Croazia.

Nei giorni scorsi Sarajevo ha reso nota l’intenzione di voler presentare due note di protesta contro Montenegro e Serbia, Paesi accusati entrambi di non impegnarsi a sufficienza nel fermare i migranti provenienti dalla Grecia.
Se verrà realizzata, la nuova barriera riguarderà solo determinate aree del Paese e consisterà in un recinto in filo spinato steso lungo il confine. Tra Montenegro e Albania esiste un accordo sui rimpatri.

Dal 2015 a oggi, da quando è cominciata la crisi dei migranti, sempre più Paesi hanno deciso di innalzare barriere. Subito dopo l’Ungheria è stata la Macedonia ad avviare nel novembre del 2015 la costruzione di una barriera lunga 1,5 chilometri al confine con la Grecia e precisamente vicino al campo di Idomeni, dove si trovavano accampati migliaia di migranti. Una barriera di 30 chilometri esiste anche lungo il confine tra Bulgaria e Turchia, mentre in soli tre mesi, nel 2016, la Gran Bretagna ha finanziato e realizzato la costruzione del «muro di Calais» per impedire ai migranti che si trovano nella località francese di attraversare la Manica.

Da ricordare, infine, le continue minacce dell’Austria di innalzare una barriera al confine con il Brennero.

Avvenire, 20 maggio 2018. Prosegue implacabile l'azione dei "governi canaglia" di tutto il mondo per fermare l'inarrestabile esodo dalle regioni che i padroni del mondo capitalista hanno sfruttato, saccheggiato e reso invivibili (e.s.)

Ci domandiamo se i nostri connazionale si rendano conto che dietro le parole con cui i media gettano benzina sui fuocherelli del loro vizi atavici della xenofobia e del razzismo, e dietro si nasconde un gigantesco giro d'affari, che distrae a vantaggio dei Mercanti di morte risorse impiegabili per opere e interventi di generale utilità civile. Il rapporto dicui riferisce Nello Sclavo, che pubblichiamo qui di seguito racconta cose che sarebbe bene tutti conoscessero (e.s.)

e, 20 maggio 2018
Rapporto choc. "Fermate i profughi" (con l'uso della forza)
di Nello Sclavo


«Rapporto choc: dall’Italia all’Ungheria accordi coi despoti per frenare i flussi»

«Poliziotti che premono il grilletto contro i migranti in Belgio. Gendarmi francesi che non si curano di profughe incinte, fino a provocarne la morte. Governi che in Ungheria issano barriere elettrificate. Paramilitari della Bulgaria che danno la caccia ai siriani in fuga. Servizi segreti impiegati nelle indagini sui soccorritori nel Mediterraneo, nella nostra Italia».

Niente di strano che un’Europa così si sia messa in affari con 35 tra i più controversi governi del mondo, pur di sigillare i confini e tenere alla larga gli ultimi. Lo sostiene il rapporto “Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza”, diffuso dall’istituto transnazionale 'Stop Wapenhandel' (Campagna olandese contro il commercio di armi) e rilanciato dalla Rete Italiana per il Disarmo. «La collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito profitti alle imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani», si legge nel dossier. I ricercatori hanno esaminato il frequente ricorso a intese per l’esternalizzazione delle frontiere.

Esemplare il caso della Turchia del presidente Erdogan, regolarmente criticato da Bruxelles per le ripetute violazioni delle libertà fondamentali, ma a cui sono stati versati 6 miliardi di euro pur di trattenere in Anatolia il più alto numero possibile di profughi siriani. Le misure adottate dall’Ue includono la formazione delle forze di sicurezza di Paesi terzi; donazioni di elicotteri, navi per pattugliamento e veicoli; cessioni di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio; sviluppo di sistemi di controllo biometrico; accordi per i respingimenti. Nella lista, oltre alla Turchia, vi sono Libia, Egitto, Sudan, Niger, Mauritania e Mali. In tutti questi Paesi, «gli accordi hanno portato l’Ue – insistono i ricercatori – a trascurare o attenuare le critiche sulle violazioni dei diritti umani». In Egitto, per fare un esempio, è stata intensificata la cooperazione per il controllo delle frontiere con il supporto del governo tedesco, «malgrado il consolidamento del potere militare al Cairo».

In Sudan, il sostegno per la sicurezza delle frontiere da parte dell’Ue ha permesso al presidente Omar al-Bashir (destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja) di rompere l’isolamento internazionale, «consentendo di rafforzare le Forze di supporto rapido, formate da combattenti della milizia Janjaweed», responsabili di crudeli crimini contro i civili nella regione del Darfur. Il dossier esamina da vicino tutti i 35 Paesi a cui l’Ue attribuisce priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. Il 48% (17) ha un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati Stati democratici. Il 100% (35) pone rischi estremi o elevati per il rispetto dei diritti umani. Il 51% (18) è classificato come 'basso' negli indici dello sviluppo umano.

In Niger, una delle nazioni più povere al mondo, le intese procedono verso una progressiva militarizzazione, aumentando i rischi per i migranti e accrescendo il potere di bande armate e trafficanti. Allo stesso modo in Mali, Paese che sta riprendendosi dopo la guerra civile, gli 'aiuti' militari dall’Europa per trattenere i migranti minacciano di risvegliare quel conflitto. «L’Unione Europea – sostengono gli autori dello studio – ha voltato le spalle ad un impegno incondizionato per i diritti umani, la democrazia, la libertà e la dignità umana espandendo negli ultimi anni in maniera problematica le proprie politiche di esternalizzazione delle frontiere». Dalle cronache degli ultimi giorni, purtroppo, non arrivano smentite.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile



Come in Italia per sconfiggere la barbarie nazifascista, così nelle terre palestinesi l'estrema risorsa degli oppressi - se i loro difensori patentati, locali e internazionali - non sono capaci di far riconoscere i loro diritti - è la cocciuta resistenza. Il fatto che essa si svolga oggi da parte di un popolo che lotta a mani nude contro uno dei più agguerritii eserciti del mondo dovrebbe costituire un ulteriore elemento per suscitare la solidarietà internazionale. Segue l'intervista (e.s.)

Richard Falk:«un massacro per dire ai palestinesi:la vostra è una resistenza impossibile»
intervista di Ciara Cruciati
«Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite: "Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più alto, l’autodeterminazione"»

La brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha votato per il lancio di un’inchiesta.

Ne abbiamo discusso con Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni unite sulla questione palestinese.

In un suo articolo, scritto dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di qualità” nell’uso della forza?

«Siamo di fronte a un nuovo livello di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato, confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna».

Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
«Le ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque».

La legalità internazionale esiste ancora?
Le regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle. Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione. Così si indebolisce l’intero sistema.

È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?

«Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie azioni e che si estende ai paesi amici.

«Possiamo chiederci da cosa derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli ebrei liberali che vogliono una soluzione politica».

Lei ha spesso parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano), l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una colonia.
«Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli. L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi in territori separati e dunque in diversi status giuridici».

Vede all’orizzonte un cambiamento positivo?

«L’ultimo secolo ha dimostrato che l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un fine più alto, l’autodeterminazione».

Il Fatto quotidiano, 19 maggio 2018. Un asciutto resoconto di un'ammirevole manifestazione di uomini e donne dalla pelle nera che si è svolta a Napoli per rivendicare i diritti della democrazia. Con commento (e.s.)

La prima cosa che colpisce nei resoconti sulla manifestazione che si è svolta a Napoli è la compostezza dei partecipanti, mille miglia distanti dallo sguaiato vocìo che si sollevava dalle torbide platee (dai bar alle piazze) e dai prosceni del teatrino della “politica” italiana. Poi ci ha colpito il contrasto Bianco/Nero che contrassegna, nel linguaggio corrente come su quello “formativo” dei media, il conflitto in essere. Il conflitto non è tra persone dalla pelle chiara e persone dalla pelle scura, ma tra sfruttatori e sfruttati, tra il mondo che ha soffocato la sua umanità nel benessere (i “satolli e disperati” diceva il cardinal Lercaro), e quello che patisce e muore nei luoghi dove è stato confinato e condannato alla miseria e alla morte dalla rapacità degli altri: dai padroni e dai beneficiari del capitalismo. Tuttavia, è significativo che il conflitto si manifesti alla fine nel contrasto tra quei due colori, dove il “nero” si riferisce sempre all’uomo da cui fuggire, oppure da bruciare o impiccare. Alla fine gli stereotipi che prevalgono sono quelli del razzismo. Segue l'articolo di Stefano Feltri (e.s.)

i, 19 maggio 2018
La piazza nera che sfida i giallo verdi
di Stefano Feltri

Per capire i dilemmi anche morali che dovrà affrontare il nuovo governo Lega-Cinque Stelle bisognava essere in piazza Plebiscito a Napoli ieri mattina: migliaia di persone – pare 10.000 – sedute in silenzio sulle scalinate ad ascoltare chi parla dal microfono al centro, un po’ in italiano, un po’ in inglese, un po’ in francese. Tutti neri, tutti immigrati, quasi tutti senza permesso di soggiorno. Una manifestazione di rara compostezza, inedita per dimensione e per la quasi totale assenza di italiani, con tre richieste: tempi più rapidi per concedere i permessi di soggiorno, regolarizzazione di chi è in Italia da anni, lavora e non ha alcun Paese dove tornare o in cui essere rimpatriato a forza, e l’estensione del reddito di inclusione anche ai migranti.

Una folla muta di persone arrivate da tutta Italia, dagli inferni di Castel Volturno, dalle campagne di Caserta (dove oggi si replica), da Roma, dai campi di pomodori di Foggia. Coraggiosi fantasmi senza documenti che sfilano in corteo in mezzo a quei poliziotti che – stando alla legge – dovrebbero fermarli e contestare loro di essere arrivati su un barcone, di lavorare in nero, di non avere diritto a rimanere in Italia. I pochi che prendono il microfono per parlare chiedono di poter contribuire a una società che sentono la loro: finché restano nell’ombra dell’irregolarità sono costretti a usare i loro miseri compensi per remunerare qualche caporale o a pagare affitti in nero.

Le associazioni come il centro sociale “ex Canapificio” di Caserta che hanno promosso l’evento di ieri e l’appello “Reddito e diritti per tutte e tutti – Nessuno escluso” hanno un obiettivo molto concreto: permettere agli immigrati di accedere al reddito di inclusione (Rei), il sussidio anti-povertà introdotto dal governo Gentiloni che è quasi identico al reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle, anche se di importo più basso. Queste associazioni hanno scoperto che la legge è abbastanza ambigua da lasciar intravedere anche ai migranti in Italia per ragioni umanitarie da almeno due anni la possibilità di accedere al Rei (che oggi arriva quasi a 900.000 persone per un importo medio di 297 euro al mese) e le Regioni hanno alcuni margini di flessibilità per aggiungere risorse a quelle nazionali ed estendere la platea dei beneficiari. Stanno quindi trattando con la Campania di Vincenzo De Luca e pare ci sia qualche spiraglio, visto che la Regione già ha sperimentato il coinvolgimento di migranti in lavori di pubblica utilità. Secondo l’Istat, l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie del Mezzogiorno di soli italiani era nel 2016 il 7,5 per cento, tra quelle di soli stranieri del 29,7 per cento.

La piazza napoletana di africani di ieri dimostra che molti degli argomenti avanzati dai Cinque Stelle sono fondati: soltanto un sussidio universale e non più legato alle categorie di appartenenza può garantire davvero di uscire dalla trappola dell’indigenza e di avere abbastanza libertà da opporsi al reclutamento dei caporali e partecipare da cittadini alla vita democratica. Peccato che, proprio ieri, mentre quei ragazzi africani attraversavano Napoli, i Cinque Stelle firmassero un contratto di governo con la Lega che si è impegnata a rimpatriare quasi tutti i presenti al corteo. E se non riuscirà a rimpatriarli, complicherà loro la vita in ogni modo possibile (si prevede l’espulsione per i richiedenti asilo che commettono reati, a prescindere dal loro diritto a rimanere) per compiacere le richieste securitarie di un elettorato spaventato più dai talk show che dal contatto diretto con i migranti.

Non sarà facile tenere insieme la maggioranza gialloverde che sarà presto attraversata da dilemmi laceranti. I manifestanti di Napoli farebbero bene a non farsi troppe illusioni.

la Repubblica


«Si sta configurando ungoverno a composizione predeterminata e il capo dello Stato rischia di trovarsicon le spalle al muro. Sulla sicurezza emerge dal programma uno Stato dalvolto spietato verso i deboli e i diversi, non compatibile con i dirittiumani. Incostituzionale il Comitato di conciliazione se facesse derivareobblighi di comportamento per premier e ministri»
Sono trascorsi due mesi e mezzo dal voto e ancora non abbiamo il nuovo governo.Lei, professor Zagrebelsky, che ne dice?
«Dal 4 marzo qualcosa dinuovo cerca di nascere. Che ci riesca, sia vitale, sia davvero qualcosa dinuovo e, alla fine, sia bene o male, è presto per dirlo. Ma non stupisce illungo travaglio. Il voto ha detto una cosa semplice e una difficile. Quellasemplice è un desiderio di rottura; quella difficile è il compitoricostruttivo. Si immagina il presidente della Repubblica che, per tagliarcorto, soffoca la novità con un governo tecnico?».

Dunque, nessun problema?
«No! Ce n’è uno grande.Sembra si stia configurando un governo a composizione e contenutipredeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al presidente dellaRepubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle al muro per effetto diun “contratto” firmato davanti al notaio. Eppure, la nomina del governo spettaa lui. Lui non è un notaio che asseconda muto. È piuttosto un partner che può edeve intervenire per far valere ciò che gli spetta come dovere istituzionale.Non si tratta di astratti scrupoli di giuristi formalisti, ma diimportantissimi compiti di sostanza».

Lei pensa ad aspettidella procedura seguita che impedirebbero al capo dello Stato di intervenirecome dovrebbe poter fare?
«Teoricamente, ilpresidente della Repubblica potrebbe respingere le proposte fattegli. Ma, se lo immagina ilcaos che ne deriverebbe? La prassi maturata in tanti anni di governorepubblicano è questa.
«Prima, le consultazioni con i gruppi parlamentari; poi,in base a queste indicazioni, l’incarico a una persona capace di unire unamaggioranza; infine, se l’incaricato “scioglie positivamente la riserva”, lanomina a presidente del Consiglio e, su sua proposta, la nomina dei ministri.
“La formazione del governo è un atto complesso e, nei diversi passaggi che hodetto, il presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate)per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola chiusaciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il poterediretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidentedella Repubblica, una partitocrazia finora mai vista».

E quali passi, secondolei, occorrerebbe fare per evitare questo esito?
«Il presidente,ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende farvalere le sue prerogative. Potrebbe procedere anuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato da condizioniche spetta a lui dettare, come rappresentante dell’unità nazionale e primogarante della Costituzione. Per inciso, finora, non esiste alcun “incaricato” ei due firmatari dell’atto notarile, dal punto di vista costituzionale, sonosoggetti privi di mandato.Tutto potrebbe avvenire,se non sorgono problemi tra i partiti, in pochissimo tempo».

Lei parla di attocomplesso e di condizioni poste dal presidente. Quali potrebbero essere?
«Ci sono cosecostituzionalmente “non negoziabili”. Innanzitutto, per ciò che riguarda lepersone chiamate al governo che devono portare la loro carica con “dignità eonore”. Nelle scelte politiche, invece, il presidente della Repubblica non puòintervenire se non per rammentare che ve ne sono, accanto alle libere, altreche libere non sono. La Costituzione è un repertorio di scelte non“negoziabili”».

Vuole farequalche esempio?
«Mi limito ad alcunipunti. Innanzitutto, i vincoligenerali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che implicano spese oriduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse l’articolo 81 della Costituzioneche impone il principio di equilibrio nei conti dello Stato e limiti rigorosiall’indebitamento. Ciò non deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, maprima di tutto da un vincolo costituzionale interno che non riguarda singoliprovvedimenti controllabili uno per uno, ma politiche complessive».

Sull’equilibrio deiconti finora molto si è detto, ma lei ha individuato altre “stranezze”?
«Sono colpito dallasuperficialità con la quale si trattano i problemi della sicurezza.Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i deboli e “i diversi”:l’autodifesa “sempre legittima”; la “chiusura”, non si sa come, dei campi Rom;la restrizione delle misure alternative alla pena detentiva; perfino l’uso delTaser, la pistola a onde elettriche che l’Onu considera strumento di tortura;le misure contro l’immigrazione clandestina con specifiche figure di reatoriservate ai migranti clandestini; il trasferimento di fondi dall’assistenzadei profughi ai rimpatri coattivi. Come ciò sia compatibile con i dirittiumani, con la ragionevolezza e l’uguaglianza, con il rispetto della dignità edel principio di recupero sociale dei condannati, con esplicite e puntualipronunce della Corte costituzionale, non si saprebbe dire. La “libertà diculto” è trattata come questione di pubblica sicurezza, con riguardo allareligione islamica (controllo dei fondi, registro dei ministri del culto,ecc.).
«Nelle 57 pagine del contratto ci sono anche cose che possonoconsiderarsi positive. Non ne parlo, in quanto attengono a scelte discrezionalisu cui il presidente della Repubblica non avrebbe motivo di intervenire. Ma su quelle anzidettecertamente sì, nella sua veste di garante della Costituzione contro involuzioniche travolgono traguardi di civiltà faticosamente raggiunti».

Come mai non ha parlatofinora delle riforme istituzionali?
«Innanzitutto, noto chenon c’è parola circa la legge elettorale e l’esecrato (a parole) Rosatellum. Èpoi caduta l’ipotesi di una nuova riforma di sistema, per esempio in vista diqualche tipo di presidenzialismo. L’esperienza ha forse reso cauti.Invece, si ragiona di interventi puntuali. È prevista la riduzione del numerodei parlamentari, cosa da gran tempo auspicata (a parole). Circa la democraziadiretta, si prospetta l’introduzione del referendum propositivo accanto aquello abrogativo, con l’abolizione della condizione della partecipazione dellamaggioranza degli elettori: riforma molto democratica, a prima vista, ma forsesolo a prima vista. E poi c’è la questione del vincolo di mandato».

Per l’appunto: mimeravigliavo che non arrivasse qui.
«La discussione inproposito è legittima e la questione delicatissima. Ma non possiamo soltantodeplorare il trasformismo di deputati e senatori che passano dalla maggioranzaall’opposizione o, più spesso, dall’opposizione alla maggioranza cedendo apromesse e corruzione. Questo è uno dei non minori mali del nostro sistemaparlamentare. Il “contratto”, in proposito, è generico, ma insiste su un puntoche a me pare rilevante: l’esigenza che, con “cambio di casacca”, non sidetermini per interesse privato il tradimento delle aspettative degli elettoririspetto al governo. Se la coscienza del parlamentare lo fa stare stretto doveè stato eletto, lasci il suo posto in Parlamento.
La libertà di coscienza,che il divieto di mandato vincolante vuole proteggere, dovrebbe invece esserefermamente garantita in tutti gli altri casi, in particolare nel procedimentolegislativo. Piuttosto, a meno di errore, non trovo nel contratto nulla aproposito della questione di fiducia che tante volte il governo ha usato, perl’appunto, per coartare la libertà di coscienza dei parlamentari».

Lei, nel corso di questocolloquio, ha sempre messo il “contratto” tra virgolette.
Perché?
«I contratti sono semprespecifici. Così è, ad esempio, il Regierungsvertag (contratto di governo)tedesco, al quale impropriamente si è accostato il nostro che parla invecedell’universo mondo. Accanto a cose precise (tasse e reddito di cittadinanza,ad esempio) abbondano espressioni come: occorrerà, è necessario, si dovrà, èimprescindibile... Questo non è un contratto ma un accordo per andare insiemeal governo».

Insomma, un patto dipotere, sia pure per fare cose insieme.
«Niente di male. Machiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea di un vincologiuridico che non può esistere. In politica, come nell’amore, non si stainsieme per forza, ma solo per comunanza di sentimenti o d’interessi».

Ma è previstoaddirittura un organismo che dovrebbe garantire il rispetto del patto, il“Comitato di conciliazione”.
«È una figurafantasmatica, solo abbozzata. Quando tra due parti nasce un contrasto, è benecercare di appianarlo (cabine di regia, consigli di gabinetto, caminetti). Maqui si immagina qualcosa di più, qualcosa di formale pensato in terminiprivatistici. In coda ai contratti si indica il “foro competente” in caso dilite. Qui c’è il “comitato di conciliazione”. Cosa piuttosto innocua se rimanenella dinamica dei rapporti politici tra i “contraenti”. Cosa pericolosissima,anzi anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero farderivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del presidente delConsiglio, dei ministri, dei parlamentari».

il manifesto sardo,

1_La Sardegna tra gli scenari dello scontro tra aggressioni e difese di terre e paesaggi preziosi. Pure la sinistra sarda ha sottovalutato a lungo la questione, nonostante tutto, ad esempio l’art. 9 della Costituzione. Questo memorandum incompleto può servire ad orientarsi nella storia di un ritardo di cui si dovrebbe fare ammenda.

2_ Nel Pci sardo scarsa l’attenzione alla questione ambientale: in linea con quella di Botteghe Oscure. Prima di tutto il lavoro nel solco sviluppista, anche se qualcuno interpretava il messaggio sull’austerità di Berlinguer pure contro gli sprechi del suolo. Nelle Regioni rosse non mancavano esperienze di buona urbanistica. E tra i comunisti c’erano intellettuali in grado di orientare il confronto sull’argomento. Mai ascoltati con attenzione. Lo dice la condiscendenza verso l’abusivismo edilizio (più o meno) “di necessità” nel Mezzogiorno.

Luigi Cogodi

3_ La sinistra ha acquisito tardi l’idea del territorio bene da custodire per le generazioni future. In Sardegna una spinta in questa direzione grazie a Luigi Cogodi. Negli anni Ottanta le sue posizioni avevano determinato più di un cortocircuito nel Pci. Cogodi un contrattempo. Aveva suscitato aspettative di molti schierati contro le speculazioni nei litorali; e il suo dinamismo – da Assessore all’Urbanistica nel primo governo Melis – aveva contrariato il suo partito e gli alleati. Così il trasferimento all’Assessorato al Lavoro nella terza giunta Melis. Un messaggio agli estremisti nel percorso verso la legge urbanistica? Di sicuro una ferita mai risarcita.

4_ La fine del Pci non rafforzerà la minoritaria parte ambientalista del nuovo partito. Nonostante la svolta, dopo il 1989, lo facesse immaginare. Nel programma, la “riconversione ecologica dell’economia”, slogan solenne quanto aleatorio. Mentre in Europa soffiava il vento che in Germania aveva portato alla popolarità dei Verdi. L’idea di solidarietà ecologica e generazionale non era facile da acquisire. Nonostante le autorevoli dissertazioni di fine anni Ottanta, come l’enciclica di Giovanni Paolo II, le tesi di G.Harlem Brundtland, o le osservazioni sullo stato del pianeta di Lester Brown. Per i più distratti Chernobyl.

5_ Nel PDS non mancavano i bei discorsi sul pianeta da salvare. Ma l’impegno programmatico del partito era evasivo, specie nel Sud dove di rado si assumevano posizioni contro l’assalto a luoghi pregiati o si sollevavano dubbi su fabbriche inquinanti. Una sorpresa per la politica sarda che nei giornali nazionali si scrivesse sui rischi delle coste sarde. Un piccolo aiuto perché dopo un dibattito controverso, si approvasse, nel 1989, la prima legge urbanistica RAS.

Nello sfondo le previsioni dei comuni litoranei, 60-70 milioni di mc in riva al mare di cui aveva scritto Antonio Cederna su La Nuova Sardegna. Ma si tergiversava sull’istituzione del vincolo di inedificabilità nella fascia da 150m. a 300m. dal mare, accolta infine nella L. 23/1993 assieme alla disposizione nei PTP per dimezzare le volumetrie. Un passo avanti dopo anni di inascoltate sollecitazioni.

6_ La transizione PDS- DS, aveva comportato in Sardegna l’ingresso nel nuovo partito dell’intero gruppo dirigente exPsi. Pochi prevedevano che questa componente sarebbe stata decisiva nelle scelte di DS – PD specie sui temi dell’urbanistica.

Le idee dei nuovi aderenti molto lontane da quelle di chi aveva condiviso le battaglie di Cogodi. Indimenticabile il dissenso ai tempi del “governissimo” guidato da Cabras: quando, nel 1993, si concludeva, in modo controverso, l’iter della L.45/89. Nei Piani paesistici, cassati (grazie a Grig) per tradimento dei valori del paesaggio, tra regole accomodanti, vincoli ma con l’eccezione incorporata, deroghe col mirino. Gli “accordi di programma” incorporati nelle previsioni dei PTP. Il via al masterplan della Costa Smeralda, fortunatamente impedito per l’impegno di molti (essenziale, tra il 1994-99, l’opposizione di una pattuglia di consiglieri regionali di sinistra: tra i più resistenti G. Diana, P. Fois, GC Ghirra, PS Scano sostenuti dai più sensibili dirigenti di PDS-DS).

Renato Soru

7_ La comparsa di Soru, dopo alcuni anni di deplorevole inerzia dalla bocciatura dei PTP. Deciso a dotare la Sardegna del Ppr prima della approvazione del Codice BBCC. Detto fatto, nonostante le resistenze della coalizione, di chi avrebbe preferito l’immobilismo al Ppr “impiccio alla crescita dell’isola”. Altri hanno creduto al modello di sviluppo coerente con con la fragilità sei paesaggi sardi. Condiviso lo stop alle trasformazioni in una fascia più ampia dei 300 metri dal mare che ha reso il Ppr insopportabile ai palazzinari superattivi nel Tar ma senza successo. Memorabile il flop del referendum promosso da Pili nel 2008 per abrogare la Legge Salvacoste.

8_ Soru il contrattempo della politica sarda dopo la fine del Pci-PDS. Prevedibile che l’insofferenza verso Cogodi si sarebbe ripresentata nei confronti di qualunque leadership controcorrente su quel tema. Soru accolto controvoglia nella coalizione, con il retropensiero di arginarne le intemperanze. Lo scontro nel 2008: le dimissioni da presidente quando si decideva sull’estensione alle zone interne del Ppr e il suo rafforzamento con legge. Era nato il PD: poco propenso ad analizzare quella crisi. Nè Soru aveva sollecitato il chiarimento. Una tacita intesa, all’origine della confusione nella politica futura del centrosinistra destinata a somigliare a quella della destra. Penso alle titubanze dell’opposizione al piano-casa 2009 copyright Berlusconi. All’azzardo di Cappellacci per sostituire il Ppr con il Pps. Penso al piano-casa di Pigliaru nel clima del renzismo-SbloccaItalia molto distante dai valori della sinistra.

9_Pigliaru presidente: un compromesso dal contenuto incerto tra le varie anime del PD. Il ddl Erriu esito dell’ambiguità sulle cose da fare tra cui quelle impedite a Soru. Facile che nel disorientamento possa prevalere nel PD chi è più in grado di influenzare decisioni volta per volta. Che s’impongano le visioni di leader di lungo corso: tipo la pianificazione che ammette eccezioni decise dalla politica, come nel 1993/ come nel 2009. Mentre la smarrita base dem aspetta di vedere le mosse di Soru, il cui cauto disaccordo sembra troppo poco rispetto a quanto il ddl è nemico del Ppr.

10_ Contro il ddl la cangiante sinistra radicale si è espressa (con Rosso Mori e Possibile). E LeU? Si sa poco della posizione del M5S, salvo le dichiarazioni di qualche candidato in campagna elettorale contrario alle idee di Erriu -Pigliaru. M5S non destra-non sinistra ma votato da ex elettori del PD. Sconsigliabile non tenerne conto; dopo il 4 marzo la maggioranza al governo della Regione potrebbe essere minoranza nell’isola. Sarebbe un azzardo l’ approvazione di una legge tanto contrastata e forse incostituzionale. Squilibrante, tanto più nella condizione segnata dallo spopolamento, spia di una sofferenza territoriale che richiede un altro disegno.

Articolotratto dalla pagina qui raggiungibile

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La politica aggressiva di Israele nei confronti degli abitanti della Palestina non trova sosta, e prosegue con l’assassinio e il ferimento di persone di ogni condizione e ogni età che sti battono a mani nude per difendere il loro diritto a vivere sulla terra in cui sono nati. Non è una politica iniziata oggi. Ha scritto lo storico israeliano Gideon Levy: «Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono
.in Palestina. Al loro arrivo
si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato»A chi si presentava e comportava come aggressore i palestinesi risposero impiegarono anchessi la violena. Divampà una guerra che ancora provocamorti e feriti. Le due parti del conflitto non possono essere messe sullo stesso piano. Chi impiega missili, carri armati e fucili di precisione contro un popolo armato di fionde e sassi si rivela come un assassino, e rischia di essere collocato sullo stesso piano di chi lo aggredì nella Shoa. Sembrano considerazioni che dovrebbero essere condivisi da tutti. Ma non è così. La catastrofr continua, i palestinesi che protestano a mani nude per ottenere i propri elementari diritti vengono sterminati dai missili, o dai fucili di precisione dell’armata di Israele.

A seguire un articolo di Tommaso Di Francesco, ela denuncia di un gruppo di intellettuali israeliani con il loro appello perché l’inumana tragedia abbia fine, entrambi ripresi da il manifesto del 18 maggio 2018 (e.s.)

Nakba. La catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco

I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».

Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».

Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.

Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.

Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.

Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.

Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».

«I responsabili della strage di Gaza siano processati»

La forte denuncia e l’accorato appello di 9 intellettuali israeliani

Noi, israeliani che desideriamo che il nostro paese sia sicuro e giusto, siamo sconvolti e inorriditi dall’uccisione di massa di manifestanti palestinesi disarmati a Gaza. Nessuno dei manifestanti rappresentava un pericolo diretto allo Stato di Israele o ai suoi cittadini. L’uccisione di oltre 50 manifestanti e il ferimento di migliaia ricordano il massacro di Sharpeville nel 1960 in Sudafrica. Il mondo allora agì.Facciamo appello ai membri rispettabili della comunità internazionale perché chiedano che chi ha ordinato tale massacro sia indagato e processato. Gli attuali leader del governo israeliano sono responsabili della politica criminale di fuoco sparato su manifestanti disarmati. Il mondo deve intervenire per fermare le attuali uccisioni.

1. Avraham Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia ebraica

2. Prof. Nurit Peled Elhanan, vincitrice del premio Sakharov 2001

3. Prof. David Harel, vice presidente dell’Accademia israeliana per le scienze umane e premio Israel 2014

4. Prof. Yehoshua Kolodny, vincitore del premio Israel 2010

5. Alex Levac, fotografo e vincitore del premio Israel 2005

6. Prof. Judd Ne’eman, regista e vincitore del premio Israel 2009

7. Prof. Zeev Sternhell, storico e vincitore del premio Israel 2008

8. Prof. David Shulman, vincitore del premio Israel 2016

9. David Tartakover, artista e vincitore del premio Israel 2002



Notizie agghiaccianti sulle previsioni del nuovo governo (qui il link al Contratto in corso di ratifica). Dominanti dell'accordo e dei suoi contenuti sono i perniciosi vizi del razzismo, della xenofobia, del dominio di classe, del suprematismo nazionale, della rozzezza culturale, e la totale scomparsa delle virtù dell'accoglienza e della multicultoralità.
Le cause sono nella a miscela infernale delle ideologie espresse e confermate dai leader vincitori, Di Maio e Salvini, e dall'inevitabile scomparsa, per reiterato suicidio, di ciò che restava del Pci, a sua volta aggravato dal caparbio egocentrismo del fondatore e rottamatore del PD.

A seguire riportiamo dagli odierni quotidiani un articolo di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo da La Stampa e una riflessione di Michele Prospero da il manifesto (e.s.)

la Stampa
Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio

di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo

«Salvini all’Interno, Giorgetti in pole per i Servizi. Due esterni per Economia ed Esteri, Massolo verso la Farnesina. Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio»

Una cosa sembra ormai certa: il premier andrà al M5S. È il compromesso ottenuto dopo venti giorni di trattative tra 5 Stelle e Lega: in cambio il Carroccio strappa il ministero dell’Interno e con molta probabilità il sottosegretariato a Palazzo Chigi con delega ai servizi. Di fatto, il cuore della sicurezza dell’intero Paese.

Tutti gli indizi lasciano pensare che, per esclusione, alla fine, il nome di chi guiderà il governo giallo-verde sia quello di partenza: Luigi Di Maio. Dai vertici del M5S tengono le bocche cucite per la paura di anticipare troppo l’ufficialità e di bruciarlo. Ma qualcuno si lascia sfuggire che quanto sta accadendo ripropone quello che era successo con la candidatura di Roberto Fico a Montecitorio. Dopo la fuga di notizie che sarebbe stato il deputato napoletano a vincere la presidenza della Camera, i 5 Stelle si operarono per depistare la stampa, facendo filtrare le ipotesi alternative di Emilio Carelli e Riccardo Fraccaro. Alla fine la spuntò comunque Fico.

Ecco cosa sta avvenendo ora per la premiership: il M5S ha fatto circolare una rosa di quattro nomi proposti ai leghisti: i deputati Alfonso Bonafede, Fraccaro (già eletto questore alla Camera) e i senatori Vito Crimi e Danilo Toninelli (capogruppo). Sono tutti parlamentari di provata fedeltà a Di Maio ma figure troppo deboli per Salvini. La Lega ha controproposto, come alternativa ma sempre grillina, Emilio Carelli, ex direttore di Sky Tg24 e responsabile delle relazioni istituzionali del ramo italiano del network di Rupert Murdoch. Acquisto recente della famiglia grillina, Carelli che si è formato a Mediaset e ha ottimi rapporti con Gianni Letta, sarebbe l’opzione meno sgradita a Silvio Berlusconi.

In realtà, a sentire i vertici del M5S è quasi impossibile vedere Carelli a Palazzo Chigi. Per lo stesso motivo per il quale sarebbe improbabile che la scelta ricadesse su Vincenzo Spadafora: il gruppo storico del Movimento si spaccherebbe. Lo dimostra l’agitazione che si percepiva ieri e quello che sussurrano diversi deputati: «Sono entrati nel M5S l’altro ieri, dai...».

Tra i grillini si punta segretamente su Di Maio, con la speranza che alla fine la Lega ceda davvero, anche se qualche resistenza c’è ancora. Ieri l’ultimo summit segreto tra i due leader è durato oltre tre ore. Hanno parlato di premier e di ministri. Matteo Salvini esulta perché sente che il suo nome non è più un problema per il ministero dell’Interno. Conferma che «un leghista al Viminale sarebbe una garanzia per rimpatri ed espulsioni». Sta attento, però, a non esporre se stesso, prudente fino all’ultimo. Anche perché in gioco ci sono altre poltrone importanti per la Lega: Agricoltura, Trasporti e Sviluppo economico. Vorrebbero anche l’Economia, ma il Quirinale ha chiesto di condividere la scelta del Tesoro, della Difesa e degli Esteri.

Sembra perciò in bilico la candidatura naturale del leghista Giancarlo Giorgetti al ministero di Via XX Settembre. Potrà comunque consolarsi con la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, una posizione di primissimo piano. Per l’Economia, il Colle vorrebbe un nome esterno ai due partiti, una figura tecnica e competente, come da tradizione negli ultimi anni, anche per rassicurare i partner europei e i mercati. Stesso discorso per la Farnesina, dove torna in pista Giampiero Massolo, l’ex ambasciatore sondato nei giorni scorsi anche per Palazzo Chigi.

La scelta dei ministri sarà condizionata da alcuni vincoli fissati nero su bianco sul contratto: non potrà esserlo chi ha rapporti con la massoneria, chi è stato condannato o indagato per reati gravi. Oggi Salvini e Di Maio metteranno la loro firma sulla versione finale del programma. Nel fine settimane verrà sottoposto al giudizio dei gazebo di M5S e Lega. I grillini, infine, daranno l’ultima parola agli iscritti della piattaforma Rousseau.

L’impressione che si respirava ieri a Montecitorio era di avercela quasi fatta. Bastava osservare la faccia distesa di Di Maio. Anche se i protagonisti di questa storia si compattano in un’ossessiva sensazione di assedio. Il crollo della Borsa, i moniti dell’Ue, lo spread che schizza scatenano Salvini e il redivivo Alessandro Di Battista, che ancora non ha preso il volo per San Francisco: «A quanto pare i fantomatici mercati sono tornati a farsi sentire. Mi rivolgo ai parlamentari del M5S e della Lega. Siate patrioti! Non emissari del capitalismo finanziario».

il manifesto,
Ibarbari contro le sentinelle del sistema

di Michele Prospero

Nelle trattative per definire il contratto di governo, con la volontà di costituzionalizzare la figura dei “capi partito”, la sensazione di un grado zero della politica si fa più forte. A cominciare dalla metamorfosi di non-partiti che dall’intransigenza assoluta (niente compromessi, e negoziati) virano verso la ricerca di accordi con chiunque dia una mano a entrare nel Palazzo.

E viene istituito un parallelo “comitato per la conciliazione”, svelando così la consistenza culturale reale degli attori della nuova politica.

Ma se delle nullità politiche oggi giocano il ruolo di attori dominanti nel dramma italiano, questo è accaduto perché quelli che avrebbero dovuto fornire delle più credibili alternative sono crollati, rivelandosi personaggi mediocri di una commedia senza lieto fine. La povertà della politica ufficiale è ancor più disarmante delle pacchiane esibizioni istituzionali dei capi della coalizione verde-giallo nella stesura del contratto per dichiarare guerra agli “eurocrati” per la remissione dei debiti.

Un esponente del Pd, che ha dato il nome alla vigente legge elettorale, svela come proprio la follia dei politici normali sia la principale ragione del successo dei politici irregolari. «Alleanza M5s-Lega? Noi del Pd abbiamo una grandissima opportunità: prendere i voti che sono stati dati ai 5 Stelle. Dobbiamo provare a convincere gli elettori M5s che siamo molto più coerenti dei 5 Stelle che avevano come unico obiettivo quello di sedersi a Palazzo Chigi».

Proprio mentre le cancellerie tremano dinanzi alla velleità di abbandonare l’euro e gli organi della finanza internazionale sono in allarme per i moderni barbari, lo stato maggiore del Pd gongola perché il governo peggiore rappresenta “una grandissima opportunità”. Dove è il pericolo allora, negli ideologi della ruspa e del rosario che con le loro alchimie sfasceranno lo Stato o nelle sentinelle del sistema che giocano tutte le carte nell’aspettare il fallimento dei barbari?

Molti osservatori si interrogano sulla decadenza di una grande democrazia d’occidente che affida il governo all’inesperienza. Ma c’è in questo timore dell’annichilimento una omissione. Sono stati i “normali” ad aver varato “governi dei senza retroterra” con personalità alle prime armi collocate nei dicasteri chiave. Se per fare il presidente del consiglio “normale” basta avere come ideologia la rottamazione e alle spalle qualche seduta del consiglio comunale a Palazzo Vecchio, come si può arginare l’ascesa al comando degli oscuri ministri e “premier esecutori” reclutati nelle reti occulte dei non-partiti?

Da Veltroni che nominò sul campo Madia e Picierno, in nome proprio della loro rivendicata e assolta inesperienza, a Renzi che ha portato al governo Lotti, Boschi e la ristretta compagnia gigliata, tutto è stato allestito per la mistica del marketing politico che richiede comparse, non dirigenti. Oggi che la dissoluzione del senso della politica come cosa complessa è da ritenersi completa perché “uno vale uno”, andrebbe meditato un pensiero di Hans Kelsen.

Il giurista di Praga scriveva che «la supposizione demagogica che tutti i cittadini siano ugualmente atti ad esercitare qualsiasi funzione politica finisce col ridursi alla semplice possibilità per i cittadini di essere resi atti ad esercitare ogni funzione politica. L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa». La demagogia, che è già in Aristotele la forma di degenerazione della democrazia, recita che non c’è bisogno di politici ma di portavoce, che non servono statisti ma “cittadini punto e basta”.

Questa ideologia, che i cinque stelle hanno solo raccolto e portato a compimento, ha distrutto, con i partiti quali luoghi di formazione della classe dirigente mossa da idealità, la democrazia italiana, la capacità di governare la grande crisi.

Ad uccidere la politica, è stata anzitutto la grande borghesia che, nella sua stampa, ha inventato ed esportato nel mondo la parola “casta”, raccolta da tutti i movimenti populistici che raffigurano la politica come autocrazia, chiusura in una sfera repressiva di privilegio.

Il trionfo della borghesia antipartito, che ora mostra segni di nervosismo per il disastro da essa stessa procurato, non ci sarebbe però stato se, da Occhetto ai suoi successori, non fosse stato decostruito alla radice il grande partito di massa e quindi abbandonata la cultura politica che, soprattutto nei momenti critici, trattiene, orienta, dirige.

Il sociologo De Masi, come l’economista Sapelli vengono dal Pci e sono la trasparente prova di quante schegge siano schizzate fuori dalla distruzione della cultura politica comunista.

Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2018. Amaro resoconto dal luogo dove era nata la speranza di una Europa dei popoli e delle civiltà, assassinata dall'inettitudine della politica e dei politici dell'Unione europea, serva del capitalismo finanziario

«La resa - Non è rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan»

All’ingresso di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide metropoli mediorientali.

Nel centro di Atene, a pochi isolati dal Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.

“Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di permanenza 6 mesi, poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella – sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.

Agli studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le mafie dei passeur.

La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 difettosi venduti dagli USA.

La Grecia di Tsipras, nata per rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika (restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e quel che resta del sistema bancario.

Il nerbo del Paese è ormai in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta democratica.

In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Huffington Post,

C'è l'oggi anche in ciò che è successo ieri: «Il Movimento cinque stelle è figlio legittimo di Giorgio Napolitano, il quale, imponendo il governo Monti, e costringendo il Partito democratico di Bersani ad allearsi con Forza Italia, ha creato le premesse per un moto protestatario". Luciano Canfora aveva sedici anni quando suo padre, insegnante di storia e filosofia, gli mise in mano il libro di Albert Mathiez, La rivoluzione francese: "Venticinque anni di storia in cui sono contenuti, in nuce, i due secoli successivi, inclusi gli anni nei quali ci troviamo".

Storico del mondo antico e filologo, Canfora è uno degli autori italiani più letti e tradotti nel mondo. Scorrendo l'elenco delle sue opere si trovano saggi sui filosofi antichi e libri su pensatori di qualche decennio fa. C'è Platone e c'è Gramsci, Tucidide e Giovanni Gentile, Tacito e Karl Marx. E poi il capo di un'impero come Giulio Cesare e il segretario di un partito comunista occidentale come Palmiro Togliatti: «Sono un cultore delle analogie storiche. Credo sia utile mettere in relazione il presente e il passato. Però, bisogna saperlo fare. E considerare, accanto a ciò che è simile, anche ciò che è diverso, comprendendo la differenza».

Lo stallo politico di oggi cosa le fa venire in mente?
«La quarta repubblica francese, che ebbe una vita parlamentare molto tormentata. Ma pure in Italia ci sono state occasioni in cui in parlamento non c'era una maggioranza precostituita e la discussione parlamentare ne ha prodotta una».

Sono i famosi corsi e ricorsi storici?
«No, perché l'idea di Giambattista Vico rientra in una concezione ciclica della storia, secondo cui tutto torna sempre al punto di partenza».

Come si muove, invece, la storia?
«La figura geometrica che meglio rappresenta il suo moto è la spirale».

Ovvero?
«Nell'antichità, c'era l'idea che la storia si muovesse lungo un cerchio, seguendo sempre lo stesso ciclo e tornando continuamente al punto di partenza».

Poi, cos'è successo?
«Con la modernità, il moto della storia è stato raffigurato come una linea retta, come se tutto andasse verso una progressione continua".

Invece?
"Le cose tornano, ma tornano sempre in maniera diversa: per questo, nell'ambito delle figure geometriche, quella che mi sembra più adeguata è la spirale".

Può fare un esempio per aiutarmi a capire?
«Prenda la schiavitù: si crede sia finita da molti secoli. E, in effetti, se si pensa alla schiavitù del mondo antico, non si può dire che ci sia qualcuno, oggi, che pensa - come Aristotele - che gli schiavi siano macchine che parlano. Eppure, nonostante già Seneca criticasse l'istituto della schiavitù, negli Stati Uniti d'America a metà dell'ottocento si è combattuta una guerra civile per la sua abolizione. E, in Russia, la servitù della gleba è stata rimossa nel 1861. Eppure, non è finita per sempre. Nel nostro secolo, iniziato da nemmeno venti anni, la schiavitù è tornata in altre forme e fa parte del sistema con cui il capitalismo produce profitto".

A cosa si riferisce?
«Alle delocalizzazioni nell'Oriente meno sviluppato, oppure ai sistemi con cui si produce in alcune zone meno sviluppate del nostro paese: sono le forme della nuova schiavitù. Eppure - ecco perché parlo di spirale - noi oggi siamo più pronti ad affrontare e criticare questi meccanismi dello sfruttamento".

Si sente ancora comunista?
«Insieme a molti altri, considero questa parola una parola nobilissima. Peraltro, più antica della Lega di Marx ed Engels".

Cos'ha di nobile?
«L'idea che - come è stato scritto nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - gli uomini nascono e rimangono uguali. E sottolineo: "Rimangono." Un verbo impegnativo, piuttosto difficile da attuare».

Qualcuno, in Italia, lo sta facendo?
«Il Movimento cinque stelle è nato pronunciando una frase vecchia almeno quanto il movimento fascista: 'Non siamo né di destra né di sinistra'. L'ha potuto fare perché c'è stato davvero un abbraccio tra la destra e la sinistra, prima in sostegno del governo Monti, e poi, in parte, anche dopo, con il patto del Nazareno. Matteo Renzi ha fatto di tutto per dimostrare che il Pd era una partito come tutti gli altri. Si è creato così lo spazio per un movimento di protesta poco colto, se non del tutto incolto, la cui nascita è però da imputare a chi ha creato le condizioni perché ciò accadesse».

Che cosa ha pensato quando ha sentito Di Maio rivolgersi sia a destra sia a sinistra per formare un governo?
«Che non siamo di fronte al classico fenomeno di trasformismo del nostro paese, in cui - da De Petris in poi - si passa serenamente da destra a sinistra, poiché il trasformismo implica l'esistenza di una destra e di una sinistra. Invece, quella del Partito democratico è una ex sinistra. E questo agevola la possibilità del Movimento cinque stelle di dire che gli uni o gli altri sono equivalenti».

La sinistra rischia di scomparire?
"La disgregazione mentale del Pd ha creato un grande vuoto. Per fortuna, ci sono dei ceti sociali, dei conflitti e delle organizzazioni - penso ai sindacati - che difendono gli interessi concreti di chi lavora. E questo assicura che la sinistra non si estingua».

Se i Cinque stelle si alleassero con Salvini cosa succederebbe?
«Il Movimento perderebbe pezzi del suo elettorato, pezzi cospicui. Né li aiuterebbe la cultura politica: ne hanno poca, e questa sarà la causa del loro probabile declino».

Se però trovassero un accordo?
"Sarebbe un'alleanza mostruosa, da tutti i punti di vista».

Mostruosa?
«Sì, è una parola della lingua italiana che viene dal latino monstrum e indica qualcosa che stupisce e fa spavento».

Perché dovremmo avere paura?
"In campagna elettorale, Salvini ha promesso una riduzione delle tasse indiscriminata. Il Movimento Cinque stelle, invece, ha sventolato la bandiera del reddito di cittadinanza. Le due cose non possono essere messe insieme. Per questo, sarà un governo disastroso. Sempre che riescano a formarlo».

Vede un'altra soluzione?
"Se l'avessi, avrei già telefonato al capo dello stato. Che, ne sono sicuro, non desidera altro che ascoltare il mio parere».

Si è occupato anche di utopie: sogna una società ideale?
«Sognare è un'attività sterile, preferisco lottare per una società più giusta, con le armi del ragionamento, della cultura, della lettura, della discussione».

Per cosa combatte?
«Per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, come dice l'articolo 3 della nostra Costituzione».

Non è un intento po' retorico?
«Questo lo pensavano coloro che non volevano scrivere quell'articolo nella Costituzione».

Scriverlo cosa ha significato?
«Delineare la possibilità di cambiare radicalmente la società».

Perché, settant'anni dopo che è stato scritto, si sente ancora la stessa necessità?
«Perché indica la via da seguire per avvicinarsi il più possibile al risultato».

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