«». La Repubblica, 19 dicembre 2016 (c.m.c.)
L’immigrazione è un capitolo centrale dello “spettacolo della vita”, che scorre sugli schermi e sulle pagine dei media. Ogni giorno, senza soluzione di continuità. Riflesso di un’emergenza infinita, visto che i flussi di migranti non finiscono mai. Mentre gli sbarchi proseguono. E il fondo del mare intorno a noi si è trasformato in un cimitero sommerso. Gli immigrati e l’immigrazione hanno “invaso” anche i media. Lo conferma il IV Rapporto curato da “Carta di Roma”.
Visto che la frequenza degli articoli e dei titoli sull’argomento, nel 2016, è aumentata di oltre il 10%, rispetto al 2015. Quando si era osservata la crescita più significativa dall’avvio di questo Osservatorio. Nell’ultimo anno, i servizi dedicati all’argomento nei telegiornali risultano 2954, con una media di quasi 10 notizie al giorno. Insomma, gli immigrati sono divenuti un tema dominante di cronaca e dibattito pubblico. Uno spazio fisso nelle prime pagine dei giornali e nei titoli di apertura dei tg nazionali di prima serata. Quasi una “rubrica”. Hanno occupato anche la comunicazione sui social media.
Intanto, la paura degli “altri” non accenna a declinare. Nel mese di aprile 2016, in Italia, l’indice di preoccupazione verso gli immigrati è salito al 41% (Sondaggio Demos): 10 punti di più rispetto all’aprile 2010.
Tuttavia, la frequenza degli articoli e dei titoli non si riflette sulla drammatizzazione “narrativa” dell’argomento. Gli sbarchi continui degli immigrati, infatti, sui media non fanno più grande rumore. Non sono sottolineati con enfasi e toni particolarmente ostili. Fatte salve, ovviamente, le differenze di testata. L’invasione degli immigrati sui media, nell’ultimo anno, si presenta e viene presentata, invece, come un fenomeno (quasi) “normale”, nella sua costante crescita.
Anche se le polemiche e l’allarme sui migranti non sono cessati. Non si sono spenti. Ma vengono espressi e amplificati non tanto dai media e dai “mediatori”, cioè, i giornalisti. Come mostra Il Rapporto redatto da “Carta di Roma”, sono, invece, usati (spesso strumentalmente) dagli esponenti politici e di partito. In oltre metà dei casi, peraltro, il tema dell’immigrazione è affrontato in chiave politica europea. Meglio, di polemica (anti)europea. Così, l’allarme e la tensione verso gli immigrati, sui media, nell’ultimo periodo si sono stemperati.
Perché l’immigrazione appare “un’emergenza normale”. E gli immigrati, “un popolo senza volto”. Inoltre, perché le voci dei politici che ne parlano sono ancor più “impopolari”. E intercettano il risentimento “popolare”.
Tuttavia, diversi media producono diversi messaggi, anche quando il contenuto è lo stesso. La distinzione più importante, al proposito, riguarda - e divide - i media tradizionali e nuovi. Perché si traduce nella distinzione fra comunicazione “mediata” - espressa dai media e dai mediatori - e “immediata”, orizzontale — espressa direttamente dalle persone. Sui social media, senza filtri. È qui che la comunicazione rischia di diventare - e spesso diventa - più violenta, quando si parla di migranti e di immigrazione. E qui, proprio per questo, è necessario esercitare maggiore sorveglianza. Sorvegliando i sorveglianti. Visto che i social media e la rete sono considerati canali di “sorveglianza” nei confronti del potere. Ma non sempre esercitano il medesimo auto- controllo. Su loro stessi.
Per questo, in futuro, occorrerà analizzare in modo più attento la presenza degli immigrati sui media. Sui diversi canali di informazione. Per evitare la scissione, sempre più evidente, fra la normalizzazione del fenomeno sui media tradizionali e la drammatizzazione che subisce sui media nuovi e immediati. Per tenere sotto controllo la paura, ma anche la pietà. Perché la pietà può essere, a sua volta, “feroce”, quando diventa spettacolo. Come avviene, sempre più spesso, nel caso dell’immigrazione. Che l’informazione ha normalizzato. Fin quasi a nasconderla. Nell’ombra dell’indifferenza. Con il rischio di nascondere - e dissimulare - anche l’intolleranza. Un sentimento tutt’altro che “normalizzato”.
Meglio, però, non fingere. E se è impossibile azzerare il razzismo e neutralizzare i razzisti, conviene renderli evidenti. Poi, a ciascuno il compito di agire e di reagire di conseguenza.
Piccola (e utilissima) storia delle modifiche alla costituzione: ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto (perchè non si dveva fare), e ciò che si dovrebbe fare. Trascura però un punto: ciò che si dovrebbe
attuareLettera al direttore de La Repubblica, 18 dicembre 2016
Caro direttore, fino ai primi anni Ottanta è stato pacifico, almeno in dottrina, che le revisioni costituzionali dovessero avere un contenuto omogeneo e puntuale. Si riteneva cioè che, secondo l’art. 138 della Costituzione, fossero modificabili soltanto singoli articoli della Costituzione o tutt’al più una pluralità di articoli tra loro connessi, in modo tale che, nell’eventuale voto confermativo, gli elettori potessero esprimersi su una sola questione.
Le cose cominciarono a cambiare con l’istituzione della cosiddetta Commissione Bozzi, che nel 1985 propose una vasta modifica anche della Parte prima della Costituzione. Il primo vero tentativo di una mega-riforma lo si ebbe però solo con la Commissione De Mita- Iotti (1993), cui fu affidato il compito di elaborare un “progetto organico” di riforma relativo a quasi tutta la Parte seconda della Costituzione, che non fu nemmeno posto all’esame delle Camere, in conseguenza dell’anticipata conclusione della XI legislatura.
Il secondo tentativo lo si ebbe con la Commissione D’Alema che si impegnò a lungo, nella XIII legislatura, per elaborare una riforma in senso federale dello Stato con il Presidente della Repubblica eletto dal popolo, ma la riforma si arenò a seguito del venir meno dell’appoggio di Forza Italia. Il terzo tentativo fu quello della mega-riforma Berlusconi - bocciata dal popolo (2006) - che pretendeva anch’essa di instaurare una forma di Stato federale, con un premierato assoluto e una diversa composizione (federale) della Corte costituzionale.
Il quarto tentativo è stata la mega-riforma Letta (2013), che prevedeva una legge costituzionale “madre”, cui sarebbero dovute seguire svariate leggi costituzionali “figlie” afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo: modifica che si arenò non solo per l’ostracismo del M5S ma soprattutto perché Forza Italia fece mancare l’appoggio alla maggioranza poco prima del voto definitivo. Il quinto e ultimo tentativo è quello recente della discutibilissima mega-riforma Boschi, sonoramente bocciata dagli elettori.
In conclusione, nessuna mega-riforma (dal contenuto disomogeneo) ha mai avuto successo. Per contro le leggi di revisione costituzionale finora approvate sono tutte omogenee e puntuali. Ne ricordo alcune: l’estradizione dei rei del delitto di genocidio; la previsione della circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere; la pari opportunità tra donne e uomini; la pari durata delle due Camere; l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari; l’attribuzione alle Camere del potere, a maggioranza dei due terzi, di disporre l’amnistia e l’indulto; la diversa disciplina costituzionale del bilancio dello Stato: l’eventuale possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere anche negli ultimi sei mesi; la sottoposizione del Presidente del Consiglio e dei Ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; la sostituzione del titolo V della Costituzione relativo a Regioni, Province e Comuni.
Ebbene, non poche sono le modifiche costituzionali, omogenee e puntuali, che potrebbero essere approvate dalle Camere addirittura quasi all’unanimità. Innanzi tutto l’eliminazione della seconda parte del terzo comma dell’art. 30 della Costituzione che presuppone la differenza giuridica tra filiazione legittima e la filiazione naturale, che già da tempo è stata eliminata dal legislatore ordinario (e dalla pubblica opinione), per cui è priva di significato giuridico. E poi l’eliminazione del Cnel, la cui permanenza come non ha ostacolato la vittoria del No, così anche non ha minimamente influenzato gli elettori che hanno votato Sì.
Aldilà di queste due modifiche che dovrebbero ritenersi scontate, penso a talune semplici modifiche che troverebbero ostacoli solo in coloro che auspicano mega-riforme che potrebbero non arrivare mai (per cui meglio un uovo oggi che una gallina domani!). Modifiche che però avrebbero anche un grande significato politico.
La riduzione dei deputati a 400 e i senatori a 200, con un comitato misto per superare le eventuali divergenze; l’introduzione della sfiducia costruttiva nei confronti del Governo, tanto più necessaria qualora si dovesse tornare ad un sistema elettorale proporzionale; la riattribuzione alla competenza esclusiva dello Stato di alcune materie troppo generosamente assegnate nel 2001 alla potestà legislativa concorrente delle Regioni che hanno determinato un immenso contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale (istruzione; porti e aeroporti civili; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; grandi reti di trasporto; trasporto e di navigazione; turismo; radiodiffusione e telecomunicazione ecc.).
Modifiche, tutte queste, che comunque dovrebbero riguardare la futura legislatura, perché l’attuale, quand’anche ci fosse tempo sufficiente, è viziata nella sua rappresentatività popolare (così la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale) per cui, come non avrebbe dovuto approvare la mega- riforma Boschi, non potrebbe nemmeno approvare queste minori modifiche.
«I migranti sbarcati in Italia scappano da guerre, violenze, persecuzioni, miserie, conflitti. Il 18 dicembre è una data importante, segnata per ricordare le loro storie, le loro vicende
». Corriere della sera, Corriere sociale online, 18 dicembre 2016, con postilla sulla JP Morgan
Se guardi nella profondità dei suoi occhi, puoi ancora vedere tracce del riflesso di dolori e violenze che lo accompagnano sin da quando era molto piccolo. Ed ora che di anni ne ha 18, Kone sta provando ad allontanare dalla sua vita i momenti più drammatici e difficili per realizzare i suoi sogni più ambiziosi e confidare in un futuro più generoso del passato. Perché Kone, della Costa d’Avorio, ha perso il papà molto presto ed è cresciuto con la madre, attivista politica dell’opposizione. A soli 9 anni, però, ha assistito al pestaggio e all’arresto della madre da parte della polizia governativa. A quel punto, Kone ha iniziato il suo viaggio. Fisico e mentale. Ha seguito il tragitto compiuto da migliaia di migranti che ogni anno transitano dal Mali e dal Niger per arrivare in Libia. E’ in questa terra martoriata e in piena guerra civile che ha svolto lavori saltuari per pagarsi le tratte del viaggio, per garantirsi la miglior vita possibile dopo l’inferno che aveva vissuto e toccato con mano.
"Sosteniamoci" per minori stranieri non accompagnati
Kone fa parte dei 15 mila minori arrivati nel 2016 sulle coste italiane senza genitori, bambini in condizioni al limite della sopravvivenza ed in fuga da contesti di guerra, violenza, povertà. Adolescenti di 12-17 anni, provenienti da Paesi diversi, come Egitto, Gambia, Albania, Eritrea, Nigeria, Guinea, Costa d’Avorio e Somalia. Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno. Kone nella città di Bergamo ha trovato la risposta al suo viaggio migratorio. Perché fa parte dei 25 minori stranieri non accompagnati inseriti nel progetto "SOSteniamoci", l’iniziativa realizzata da Cesvi con il sostegno di Brembo per favorire l’autonomia socioeconomica dei ragazzi, supportandoli nella realizzazione del loro progetto di vita tramite la creazione di percorsi formativi a cui farà seguito un processo di inserimento lavorativo in varie realtà del bergamasco.
Quella di Kone, dunque, è una storia destinata a cambiare, ad evolvere in un sentiero di piena integrazione nella comunità e di acquisizioni di competenze professionali. Ma per tutti gli altri?
La giornata internazionale di solidarietà
Dal primo gennaio al 31 ottobre 2016 sono più di 158.795 i migranti sbarcati in Italia. Scappano da guerre, violenze, persecuzioni, miserie, conflitti. Il 18 dicembre è una data importante, segnata per ricordare le loro storie, le loro vicende. La Giornata Internazionale di Solidarietà con i Migranti, infatti, è stata istituita nel 2000 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite perché in questo stesso giorno del 1990, l’Assemblea Generale dell’ONU aveva adottato la Convenzione Internazionale per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Ed allora storie come quelle di Kone aiutano fare memoria, a creare una maggiore coscienza sul fenomeno dell’immigrazione, ad approfondire meglio cosa succede nei loro Paesi e cosa c’è dietro la fuga che troppo spesso coincide con la perdita di numerose vite umane durante il cosiddetto viaggio della speranza.
In fuga da Boko Haram
Grace ha 40 anni e vive in Nigeria. Circa sei anni il suo villaggio è stato attaccato, saccheggiato e distrutto da Boko Haram. Grace in quel periodo era incinta e viveva col marito ed il figlio di 12 anni. L’intera famiglia è stata catturata dalle milizie jihadiste. Grace nel periodo di prigionia ha dovuto subire ogni forma di schiavitù, ha fatto lavori pesanti, ha sofferto tanto, ma in qualche modo è riuscita a scappare e a far perdere le sue tracce.
E’ tornata nel suo villaggio ed ha aspettato il ritorno dei suoi cari. Durante la straziante attesa ha anche partorito il suo secondo bambino. Il marito un giorno ha fatto ritorno a casa, ma l’altro suo figlio non è più tornato al villaggio. Lo sta ancora aspettando, perché è convinta che sia ancora sotto le mani di Boko Haram, utilizzato probabilmente come bambino soldato.
Una delle più gravi crisi umanitarie si sta consumando in Africa proprio a causa degli attacchi indiscriminati di Boko Haram ed a pagarne le conseguenze come Grace e la sua famiglia sono 21 milione di persone; 2,6 milioni di persone, invece, sono state costrette a lasciare le loro case per evitare la morte.
E’ una migrazione silenziosa e dimenticata dall’opinione pubblica che coinvolge la regione del bacino del Lago Ciad dove si affacciano il Camerun, il Niger, la Nigeria e il Ciad. Dal 2009 l’area è stata assediata da Boko Haram nel tentativo di instaurare un califfato islamico in Africa occidentale; le violenze delle milizie dell’estremista jihadista si sono concentrate in particolare nel nord-est della Nigeria. «Tra gli esuli vi è un ampio numero di bambine che sono state sottoposte a violenze di ogni tipo – spiega Tiziana Fattori, Direttore Nazionale di Plan International Italia – .
Alle bambine tocca pagare sempre doppio in quanto quelle abusate vengono stigmatizzate dalle comunità, specie se rimaste incinte durante la cattura. Infatti molte di loro non vogliono tornare nel loro villaggio, temendo il disonore per la loro famiglia che le ripudierebbe». Di conseguenza, i programmi in loco di "Plan International" per i bambini migranti hanno due focus: la protezione infantile e l’aiuto alle vittime di violenza di genere. Ma di recente Plan International ha anche aperto due uffici per avviare un programma dedicata alla ricerca dei bambini scomparsi, proprio come nel caso di Grace che nonostante tutto non ha ancora perso la speranza.
Contrastare la tratta di esseri umani
Quello di Seny, invece, è stato un viaggio di ritorno. Disoccupazione, mercato locale sottosviluppato, mancanza di competenze professionali, il giovane è partito dalla sua terra, dal Senegal per sognare un futuro migliore in Europa. Non sapeva che la morte è un prezzo concreto da pagare se ci si mette in viaggio senza essere a conoscenza dei pericoli o di che cosa sia la tratta di esseri umani. Anche Seny è stato fortunato. Perché al suo arrivo in Italia è stato accolto in Centro di Accoglienza in Sicilia. E’ qui che il giovane ha conosciuto gli operatori di Missioni Don Bosco e VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), le due realtà promotrici della campagna "Stop-Tratta – Qui si tratta di essere/i umani", rivolta a cinque Paesi di origine e transito dell’Africa Sub-Sahariana: Ghana, Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio ed Etiopia.
Attraverso il progetto, quindi, Seny è tornato nel villaggio da cui era partito per incontrare e parlare con la sua gente, con la sua comunità d’origine. Ha raccontato, a chi lo conosce da sempre, il terribile viaggio che ha dovuto affrontare, i pericoli, le insidie.
Non a caso, la campagna è nata dalla necessità di contrastare il traffico di esseri umani attraverso la sensibilizzazione dei potenziali migranti sui rischi del viaggio verso l’Europa, dalla detenzione alla morte, fornendo informazioni utili attraverso i social network e contenuti nelle lingue locali per favorire una scelta consapevole. Seny ha portato la sua diretta testimonianza. Ma il lavoro di VIS e Missioni Don Bosco prosegue nei cinque Paesi coinvolti con l’attivazione di corsi di formazione professionale. Idraulica, sartoria, informatica, agricoltura, elettromeccanica e tanto altro. Perché al viaggio, i migranti devono preferire sfruttare le risorse e le ricchezze offerte dai loro territori e le varie competenze professionali acquisite.
Il lavoro per l'integrazione
Intanto, proprio nella Giornata nata nel rispetto della Convenzione Internazionale per la tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, prende il via Work 4 Integration»
, il progetto promosso dall’Organizzazione Umanitaria Soleterre-Strategie di pace destinato a 120 cittadini migranti residenti nella provincia di Milano disoccupati o a rischio disoccupazione. Tra il 2010 e il 2014 il tasso di occupazione a livello nazionale è diminuito del 5,5 %, passando dal 68,1 % al 62,6 %. All’interno di questo scenario, quindi, i migranti sono vittime di discriminazioni (retribuzione, condizioni di lavoro, possibilità di carriera), segregazione orizzontale e verticale in settori e mansioni specifici e di iper-specializzazione che porta fino al de-mansionamento, fenomeno per cui l’Italia presenta i tassi più alti d’Europa e che rappresenta dunque un tratto caratteristico del modello d’integrazione italiano.
Le difficoltà primarie che gli immigrati in Italia devono affrontare nella ricerca del lavoro sono le conoscenze linguistiche, in particolare la terminologia specifica del settore lavorativo, il livello di istruzione e le competenze tecniche che potrebbero non aderire agli standard italiani. E’ qui che si inserisce il progetto finanziato dalla JP Morgan Chase Foundation, che per 18 mesi coinvolgerà i migranti residenti nella provincia di Milano in attività che facilitano l’accesso all’informazione, alla formazione e all’inserimento lavorativo. Obiettivo dell’iniziativa è assicurare il benessere psicosociale di uomini e donne adulti e neo-maggiorenni, sostenendo i loro percorsi migratori con particolare attenzione alla dimensione lavorativa, e sensibilizzare le aziende su questi delicati temi.
postilla
Il riferimento alla JP Morgan (quella multinazionale che ha raccomandato ai governi dell'Europa del Sud di rendere le loro costituzioni meno favorevoli ai diritti dei lavoratori e alla democrazia) fa venire in mente brutti pensieri. E in particolare fa ricordare quanto sia labile il confine tra neoschiavismo e offerta di attività ai migranti. Oltre all'affidabilità della rete d'accoglienza, la garanzia è forse costituita dall'offrire occasioni di lavoro non a migranti singoli, ma a gruppi capaci di autodeterminazione.
l collettivo si dà appuntamento a Roma il 7 gennaio. Obiettivo: farsi promotori di "una proposta politica con al centro la lotta alle disuguaglianze". Finisce l'esperienza di Sinistra Ecologia e Libertà».
La Repubblica, 18 dicembre 2016, con postilla sulla parola "sinistra"
Creare uno spazio alternativo alla destra arrabbiata e alle grandi coalizioni, contro una politica «arroccata a difesa del fortino dello status quo, impegnata in un vano tentativo di proteggere un estremo centro che non può e non deve più reggere». Ripartendo dalle disuguaglianze: «Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea». L'appello è firmato dall'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, l'intellettuale americano Noam Chomsky, il musicista Brian Eno e altri membri del collettivo Diem25. Che si danno appuntamento per il prossimo 7 gennaio a Roma.
L'obiettivo è dichiarato: «Le energie liberate dal referendum debbano essere la base su cui costruire in Italia quel terzo spazio che in altri Paesi sta già nascendo: dal popolo di Sanders negli Stati Uniti, a Podemos e i movimenti municipalisti in Spagna fino alle donne che riprendono le piazze in Polonia». Tradotto: gettare le basi per un movimento di protesta (e insieme di sinistra, a livello di contenuti) anche in Italia. Che però ambisca a "fare egemonia", cioè puntare ad un ruolo di governo ma non a traino del centrosinistra. Ma c'è uno spazio politico, nel nostro Paese, già diviso in tre grandi aree (centrodestra, Pd e Cinque Stelle)? Secondo i promotori sì: «L'affluenza molto alta del 4 dicembre ha infatti portato alle urne – e a votare No - una fetta di cittadinanza che non si identifica in nessuna proposta politica esistente. Radicalmente arrabbiata con le politiche sociali ed economiche, con il Jobs Act, con i voucher, con l'assenza di reddito e di prospettive per gli under 35, per gli intermittenti, per le piccole partite Iva. Eppure tendenzialmente astensionista».
Recuperare quindi gli astensionisti e i delusi dalla politica con una proposta radicale. Di sinistra nei fatti, ma senza nominarla. Nell'appello ("Il tempo del coraggio") infatti la parola non viene mai nominata. Nella convinzione che sia ormai un campo inflazionato e presidiato dal Pd. La stessa strategia degli spagnoli di Podemos, il braccio politico erede degli Indignados che hanno sempre rifiutato l'etichetta classica di movimento di sinistra, nonostante la successiva alleanza con i comunisti di Izquierda Unida. Il referente italiano, Lorenzo Marsili, spiega che «bisogna avere il coraggio delle proprie idee e tornare a pronunciare parole nette. Che se i LePen dicono muri noi dobbiamo dire giù le frontiere. Che se i Trump dicono Goldman Sachs noi dobbiamo dire redistribuzione della ricchezza. Che rincorrere la destra fa solo inciampare».
Chi potrebbero essere i compagni di strada del gruppo Diem25? I rapporti sono buoni con pezzi di Sinistra Italiana (la ormai ex Sel che proprio oggi si scioglie), la quale però è divisa tra due aree: una che guarda al Pd e un'altra che invece, come spiegato nell'appello di Varoufakis e co., ritiene l'esperienza di centrosinistra conclusa. Come Nichi Vendola che, non a caso, davanti ai suoi riuniti a Roma, ha sottolineato che «se il compito della sinistra è quello di fare l'ammorbidente nella lavatrice del liberismo, oggi si vede bene che la parola sinistra non ha più ragion d'essere«. Il futuro quindi è "rimettere al centro la parola 'alternativa', come forza che si pone il compito di governare il Paese».
postilla
Il punto è che la parola "sinistra" oggi non va più bene, perché rinvia alla situazione di secoli ormai tramontati. Allora, nell'era delle vecchie forme del capitalismo, lo sfruttamento era interno al mondo della produzione: sfruttati erano gli operai in fabbrica e i contadini nei campi. Oggi, nella nuova forma del capitalismo, l'area dello sfruttamento è enormemente estesa, e opera in tutte le dimensioni della vita delle persone e su tutte le sfere della loro attività, e lo stesso significato della "lotta di classe" è mutato. Infine, la minaccia non è solo rivolta agli sfruttati, ma anche la materialità del pianeta che abitano è a rischio. Se la missione di una "nuova sinistra" è ancora la difesa degli sfruttati, l'avversario è lo stesso - il sistema capitalistico - la base sociale di riferimento è radicalmente diversa, e così le formule organizzative, le strategie e le tattiche. (e.s.)
«L’attivismo di Renzi per tornare al potere appartiene al campo del tragico. Senza più alcuna credibile capacità offensiva, la sua presenza al timone è la garanzia più certa del naufragio inevitabile.».
il manifesto 18 dicembre 2016
L’assemblea di oggi del Partito democratico dovrebbe rispondere a una domanda: quali caratteri di sistema ha la sconfitta di Matteo Renzi? Il plebiscito, che lo ha travolto, è il frutto di un processo lungo di perdita di ogni credibilità.
Nessun leader può vincere in una contesa se la sua stessa parola, a maggior ragione dopo un abbandono così riluttante, è percepita come ingannevole. Quando il loro leader ha perso l’ethos, ovvero il carattere, l’immagine che rende rispettabile, e degna di essere seguita, una figura pubblica, i ceti politici di supporto devono prendere gli accorgimenti inevitabili: affidarsi a un altro capo per sopravvivere. Occorre che qualcuno persuada i dirigenti del Pd oggi riuniti che è necessario che "pria facciate al duce spento/successor novo, e di voi cura ei prenda". Ma il Pd, che ha scambiato la personalizzazione della politica con il partito della persona, ha smembrato questo argine. E quindi, mentre il sistema bipolare proprio con il referendum ha replicato il grande crollo del 2013, si coltiva l’illusione di una sua restaurazione imminente, ad opera dello stesso leader annichilito, che crede di avere in dote un potere personale.
Dopo il tracollo di dicembre, che è il compimento di un ciclo e non una eruzione improvvisa di cieca protesta, Renzi non ha più alcuna seria possibilità di trionfo. Questo non significa che ormai irrilevante risulti la sua ombra nella prossima battaglia. «Nessun problema politico – spiegava Bismarck – giunge ad una completa soluzione di tipo matematico. I nodi appaiono, hanno i loro tempi, e poi scompaiono soltanto sotto altri problemi». Finché non si completa il seppellimento del capo, la cui fascinazione è dileguata, altri problemi non compaiono a strutturare i nuovi conflitti.
Non porterà alcun effetto ricostituente per la democrazia la cura rivoltante di un governo sotto tutela dei consoli gigliati spediti a presidiare palazzo Chigi. Accresce ancor più la rabbia un esecutivo che occupa il tempo solo per scaldare la poltrona vacante e riconsegnarla al capo voglioso di riavere lo scettro che ha solo accantonato per qualche mese.
Un leader del tutto annebbiato impone alle sue truppe una mappa irrealistica di risalita perché è saltato il sistema bipolare. Renzi pensa ancora ad un traino leaderistico esercitato dal capo con un preteso dono carismatico: spento rito delle primarie, incoronazione nella marcia dei gazebo e poi assalto disperato al palazzo. Il punto di debolezza della sua strategia è evidente: confida in un nuovo congegno maggioritario per blindare un bipolarismo solo immaginario.
L’attivismo di Renzi per tornare al potere appartiene al campo del tragico. Senza più alcuna credibile capacità offensiva, la sua presenza al timone è la garanzia più certa del naufragio inevitabile. Anche per questa sua vulnerabilità estrema il M5S lo ha irriso chiedendogli di rimanere a palazzo Chigi sino al voto. Non spaventa più come leader in ascesa, e perciò da temere, e anzi il suo spettro, che emana il volto sfigurato di una potenza in decadenza, incrementa le chances di successo dei nemici. È il peggio che possa capitare per un leader.
La conseguenza della sua nuova scalata alla guida del Pd sarebbe l’esplosione inevitabile del suo partito, entro il quale proprio il suo comando assoluto costituisce il principale elemento divisivo e l’ostacolo insuperabile ad ogni ipotesi di alleanza. Che i notabili del suo giro non ne tengano conto, e fingano di essere ancora sedotti dalla promessa di un simulacro di ordine bipolare, è anch’essa una manifestazione di propensione al tragico.
L’abbandono renziano, con la nostalgia dell’immediato ritorno, coltiva il vizio assurdo di esorcizzare un sistema tripolare con l’energia, con la stabilizzazione di una conquista del centro mediante un regime personale da consolidare attraverso la ripresa economica. Orfano del bipolarismo violato dal popolo, Renzi può mantenerne in vita una caricatura, con il progetto evaporato del partito della nazione, che assorbe i residui del berlusconismo e si erge a paladino del sistema della legittimazione che combatte e isola le forze antisistema (la Lega e il M5S).
Rientrano nel grottesco le gesta di un leader che dal buen retiro di Rignano minaccia di tornare presto al palazzo brandendo un’ipotesi già sconfitta: il bileaderismo. Renzi? È un problema in astratto risolto che però resiste complicando così le trame di un sistema che non può dedicarsi alle nuove questioni perché deviato dalle velleità di ritorno in sella di un leader del passato. Eppure l’accantonamento di Renzi è la condizione, non sufficiente e però indispensabile, per rispondere ai segnali sempre più preoccupanti di involuzione del sistema.
Il Fatto Quotidiano online, blog di Marco Politi, 17 dicembre 2016 (c.m.c.)
Papa Francesco ha raggiunto gli ottant’anni. Tra poco cade il quarto anniversario della sua elezione. Il primo tempo del pontificato è passato, quanto durerà il secondo è incerto. Pende sulla missione di Bergoglio una premonizione da lui ribadita appena pochi giorni fa: «Io ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve… 4-5 anni».
In un arco ristretto di tempo Francesco ha lasciato un segno forte sulla Chiesa di Roma, proiettandola come “ospedale da campo” per gli uomini e le donne del mondo globalizzato (al di là di frontiere confessionali), in grado di interloquire con ebrei, musulmani, atei.
Ha rimodellato la figura papale, togliendole il carattere di monarca assoluto, presentandosi soprattutto come discepolo di Cristo e lavorando per una Chiesa più comunitaria. L’istituzione di un consiglio dei cardinali, chiamati ad assisterlo nella governo della cattolicità, e specialmente la piena libertà di parola e di proposta concessa al Sinodo dei vescovi manifestano l’obiettivo di realizzare quella collegialità sancita e richiesta dal concilio Vaticano II.
Ha realizzato una serie di riforme concrete. Una grande pulizia alla banca vaticana, la creazione di un comitato anti-riciclaggio all’interno della Santa Sede, l’adesione alla convenzione Onu contro la corruzione, la firma di accordi di cooperazione con vari Stati per perseguire crimini finanziari, l’istituzione di una Segreteria per l’economia per vigilare su correttezza e trasparenza dei bilanci dei dicasteri vaticani. Scandali, quando si tratta di soldi, non sono mai esclusi. Però il pontefice argentino ha fatto riforme strutturali.
Francesco è il primo ad avere processato in Vaticano un arcivescovo-nunzio colpevole di delitti sessuali e aver istituito un tribunale speciale per vescovi negligenti nel perseguire abusi sessuali nelle proprie diocesi.
Francesco ha realizzato un pezzo di riforma della Curia, creando due dicasteri sui Laici e sullo Sviluppo umano nei quali per statuto posizioni direttive dovranno essere riservati a laici: uomini e donne. Un primo passo verso la declericalizzazione della Curia e della Chiesa cattolica.
Tutto questo ha naturalmente bisogno di rodaggio. E contemporaneamente la via delle riforme è suscettibile di sabotaggi. A tuttora – per restare nel campo degli abusi sessuali – la conferenza episcopale italiana e tante altre nel mondo non prevedono strutture di ascolto e accoglienza per gli abusati né indagini sui crimini nascosti né sistemi di risarcimento. L’esperienza del Concilio dimostra che servono decenni per ancorare le riforme nella realtà quotidiana della Chiesa.
Francesco è inoltre il primo pontefice ad avere indicato che le donne nella strutture ecclesiastiche devono andare in posti dove si «decide e si esercita autorità». E’ anche il primo ad avere istituito una commissione per studiare il diaconato femminile. Francesco, infine, ha chiaramente fatto capire che la Chiesa cattolica deve uscire dall’ossessione in materia sessuale, che l’ha caratterizzata per decenni e secoli interi: divorzio, pillola, convivenze pre-matrimoniali, rapporti omosessuali.
Il 17 dicembre rappresenta tuttavia un compleanno amaro per il pontefice argentino. Si è scatenata nelle file della gerarchia cattolica e del clero una guerra sotterranea contro la sua linea riformista. Una guerra fatta di mugugni, critiche diffuse, aggressività crescente nei siti internet. Fino a culminare le settimane scorse nell’attacco senza precedenti di quattro cardinali contro il suo documento post-sinodale Amoris laetitia. Non si tratta qui di critiche nel segno di un confronto tra punti di vista differenti. Si tratta di una campagna sistematica di delegittimazione, che chiama in causa l’autorità stessa del pontefice e la giustezza della sua guida (e della sua sintesi). Al punto che uno dei firmatari, il cardinale Burke, prevede persino una “correzione” pubblica della sua linea in campo di etica matrimoniale.
Credere che i quattro cardinali siano soltanto quattro “cattivi” significa stare fuori dalla realtà. I Quattro sono la punta dell’iceberg di una parte consistente del clero e dell’episcopato. Perché in seno alla cattolicità è in corso una battaglia identitaria. Il no alla comunione ai divorziati, il rifiuto di accettare la positività di rapporti di coppia omosessuali, il rigetto nei confronti dell’idea che le donne possano occupare ruoli guida in Curia o possano (“orrore!”) accedere agli ordini sacri, il mantenimento della sacralità autoritaria di un papato, immaginato semidivino – tutto ciò per una parte ancora oggi notevole dei quadri ecclesiastici costituisce elemento irrinunciabile di identità.
Per questo la battaglia sotterranea è aspra. «Il clericalismo è uno dei mali più seri nella Chiesa», ha detto il mese scorso Francesco ai suoi confratelli gesuiti. I suoi oppositori vogliono metterlo nell’angolo pur esprimendogli formale riverenza. Soprattutto vogliono impedire ad ogni costo che al prossimo conclave sia eletto un Francesco II. Se si prende la lista di cardinali e vescovi, che a partire dal primo Sinodo sulla famiglia nel 2014 hanno firmato libri, appelli e lettere si vedrà che si tratta di una rete influente e radicata nella Chiesa universale. Rispetto alla quale lo schieramento riformista si sta mostrando straordinariamente impacciato e silenzioso. Timoroso persino di difendere apertamente il papa.
Il secondo tempo del pontificato si preannuncia dunque difficile. Pesa sul futuro la frase che Bergoglio (dopo averla detta nel 2015) ha voluto ribadire proprio per il suo compleanno al fido padre Spadaro di Civiltà Cattolica: «Ho come la sensazione che il Signore mi ha messo qui per poco tempo». C’è qualcosa di non detto in queste parole, che ha un suono inquietante. Il prossimo biennio, quando il papa riunirà un nuovo Sinodo, sarà certo ricco di sorprese.
«E' stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta» Forse, restituendo la politica al popolo.
La Repubblica, 17 dicembre 2016
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
I fatti, i misfatti, i retroscena e i voltafaccia dell'ennesima avventura del "patto del Nazareno, per rafforzare il dominio. Articoli di N. Rangeri, A. Colombo e V. Vita.
il manifesto, 16 dicembre 2016
GENTILONI
E I TORNANTI DELLA STORIA
di Norma Rangeri
Quando Paolo Gentiloni ebbe l’onere e l’onore di diventare ministro delle Comunicazioni (2006-2008, governo Prodi), si intestò la missione (poi fallita) di una legge che rimettesse su binari europei la famigerata legge Gasparri sull’emittenza televisiva. Gentiloni denunciava il conflitto di interessi e disegnava un panorama mediatico con annessa cura dimagrante per la pubblicità di Rai e Mediaset (una rete a testa da spedire sul digitale). Prodi cadde prematuramente e la legge Gentiloni con lui.
Oggi che è diventato presidente del Consiglio fa un giro di 360 gradi intorno alla coerenza. Nel bel mezzo della bufera sulla guerra borsistica tra il magnate francese Bolloré e il gruppo Fininvest, il suo governo, orfano del Nazareno, senza imbarazzo, si schiera a difesa di Mediaset definita risorsa «strategica». Sono i tornanti della storia, maestra di vita, ma anche di biografie.
MEDIASET, IN CAMPO L’AGCOM.
POSSIBILE LO STOP A VIVENDI
di Andrea Colombo
«Il partito della nazione. L’Authority ipotizza il divieto di concentrazione con Telecom, controllata dai francesi. Solo i 5 Stelle (ma non tutti) si smarcano dal coro in difesa del Biscione»
La risposta italiana all’assalto di Vivendi a Mediaset, dopo la presa di posizione esplicita del governo, arriva dall’Agcom, con la minaccia di vietare l’integrazione tra Telecom, controllata dal gruppo francese con il 24% delle azioni, e Mediaset, dove Bollorè ha conquistato in pochi giorni il 20% delle azioni. Il comunicato diffuso in serata dall’Authority per le telecomunicazioni è fragoroso come una cannonata: «Dopo una preliminare analisi su dati 2015 Telecom risulta il principale operatore nel mercato delle comunicazioni elettroniche con il 44,7% del mercato, mentre Mediaset raggiunge una quota del 13,3% del Sistema integrato delle telecomunicazioni (Sic). Operazioni volte a concentrare il controllo delle due società potrebbero essere vietate». Infatti, specifica l’Authority, per le imprese che detengono nel mercato italiano una quota superiore al 40% «è vietato acquisire ricavi superiori al 10% del Sic».
E’ la prima mossa concreta per fronteggiare la «scalata ostile» del gruppo francese e potrebbe rivelarsi decisiva. Il governo si era infatti pronunciato subito con grande nettezza e determinazione, praticamente ancor prima di incassare il voto di fiducia. Ma i mezzi a disposizione dell’esecutivo, in regime di mercato libero e del tutto senza freni, sono limitati. Almeno quelli diretti, perché è evidente che l’appoggio totale del governo ha tutto il suo peso. Il ministro Orlando lo dice chiaramente: «Il governo non può impedire una dinamica di mercato. Ma può mettere dei paletti, come ha fatto il ministro Calenda».
Telecom Italia, per bocca del suo presidente Giuseppe Recchi, mette le mani avanti assicurando di «non avere niente a che vedere con l’operazione Mediaset». Anche il gruppo di Bollorè prova a rassicurare. L’operazione «non è stata certamente sollecitata, ma non è un atto ostile», affermano laconiche le «fonti vicine a Vivendi». «Vogliamo solo estendere e rafforzare la nostra posizione nell’Europa del Sud», prosegue l’anonimo ventriloquo di Vincent Bollorè. Quasi nello stesso momento, Vivendi formalizzava in Consob il possesso del 20% delle azioni Mediaset dal 14 dicembre, con un salto di oltre il 6% dal giorno precedente.
La rassicurazione del bretone tranquillizza pochissimo i vertici Mediaset e ancora meno il governo. Che la scalata si fermasse una volta raggiunto il 20% al quale Vivendi aveva dichiarato di mirare era previsto, ma nulla garantisce che non riparta al più presto e la paura si allarga a macchia d’olio. Tanto più che lo stesso gruppo francese, al momento di annunciare l’imminente acquisto di quote tra il 10 e il 20% di Mediaset aveva parlato apertamente di «punto di partenza». L’operazione, secondo alcuni, sarebbe in realtà propedeutica a un arrembaggio ancora più minaccioso, quello alle Generali, ma anche se questa si rivelasse una pura fantasia resta la consapevolezza che in questo momento i principali asset italiani sono quasi indifesi, esposti a scalate e assalti il cui esito sarebbe di fatto la colonizzazione economica del Paese.
L’Europa per il momento ha scelto la neutralità facendo sapere che nessuna delle parti in causa ha per il momento notificato l’operazione all’Antitrust comunitario. Ma per una volta Silvio Berlusconi in Italia ha quasi solo amici. Con il 40% dei diritti di voto in Mediaset, Fininvest deve contare sull’appoggio delle banche per mettere in sicurezza il controllo. Mediobanca, nella quale è presente anche Bollorè, è quasi fuori discussione. Restano però Unicredit e Intesa San Paolo, il cui consigliere delegato Carlo Messina ha dichiarato ieri, tanto per non lasciare dubbi di sorta: «Siamo a supporto di Mediaset. Abbiamo una relazione con Mediaset e siamo vicini a Mediaset». E resta la «sua» Mediolanum controllata da Ennio Doris.
Persino la procura di Milano dà il suo apporto cercando di accertare se ci sono state irregolarità nell’operazione francese. L’eccezione, in realtà parziale, è M5S: «Perché il governo è intervenuto immediatamente con dichiarazioni su Mediaset?», attacca Di Battista. Propaganda pura. In realtà nessuno, in questo momento, può permettersi di aprire le porte al possibile saccheggio dell’intero sistema Italia per fare un dispetto a Silvio Berlusconi.
MEDIASET, L’«ITALIANITÀ»
NON C’ENTRA NIENTE
di Vincenzo Vita
ella vicenda Bolloré-Mediaset non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti cattivi. La saga assomiglia più alla scena finale de «Le iene» di Tarantino, in cui i protagonisti (cattivissimi) si sparano l’uno con l’altro, che ai film edificanti di Frank Capra.
È un dramma a puntate, in cui la verità sfugge. Amore e odio. Dopo il matrimonio annunciato tra Vivendi e Mediaset Premium – con bellicose boccacce all’astro nascente Netflix – ecco il primo cenno di divorzio. Cui succede quella che sembra la sfida finale. Sarà così o c’è anche un po’ di teatralità negoziale? Il finanziere bretone ha lanciato l’offensiva su Mediaset e la casa madre sta cercando di fronteggiarla. Non c’è dubbio. Denunce alle procure, urla e strepiti accompagnano il duello.
Tuttavia, qualche dubbio rimane. Stiamo parlando di soggetti non al meglio di sé. Bolloré sta forse perdendo il controllo del suo gioiello Canal Plus a vantaggio della società telefonica Orange e il suo sponsor Sarkozy è uscito di scena.
Berlusconi, pur con qualche sussulto, ha da tempo imboccato la parabola discendente. Insomma, i due cattivi non è detto che possano fare a meno l’uno dell’altro. Prima o poi, a meno che vi sia un rilancio da parte del sempre vigile Rupert Murdoch.
Si tratta, dunque, di una concentrazione difensiva, resa necessaria dalla urgenza di reggere l’urto dei nuovi oligarchi, gli Over The Top (Google, Facebook, Amazon, e così via), che hanno un modello di business assai meno dispendioso dei vecchi tycoon della televisione o delle telecomunicazioni: niente infrastrutture pesanti e contenuti acquisiti nel vasto universo della rete. Un incontro di pugilato che certamente non finirà ai punti, ma che potrebbe riservare ancora sorprese.
Tuttavia, è risibile parlare di «italianità» da parte di esponenti del governo che finora hanno schifato qualsiasi intervento a difesa e sostegno di «campioni» nazionali: Telecom in testa, sul cui corpo sono passati tanto gli spagnoli di Telefonica quanto i francesi di Vivendi. Quest’ultima è la principale azionista dell’ex monopolista e, se dovesse controllare Mediaset, incorrerebbe nei divieti previsti dal comma 11 dell’articolo 43 del Testo unico delle radiodiffusioni del 2005: le imprese di tlc che hanno una quota superiore al 40% del settore di riferimento «non possono conseguire nel sistema integrato delle telecomunicazioni ricavi superiori al 10% del sistema medesimo».
Sembra scritto proprio in previsione dell’odierna sceneggiatura. Il Sic è di circa 18 miliardi di euro e il gruppo di Cologno Monzese ha più di 3 miliardi e mezzo di entrate. Non per caso la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha battuto un colpo. Del resto, la norma è chiara.
Allora, invece di sollevare polveroni tricolori, si pensi a far applicare la legge. In verità, l’«italianità» qui c’entra poco. Mediaset va difesa sempre per il perenne Patto del Nazareno. Potrebbe persino parlare in esperanto o stare su Marte.
i. «Abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti». La Repubblica, 16 dicembre 2016
Il risultato del referendum del 4 dicembre ci restituisce una Costituzione forte. Forte sin dalla nascita perché frutto di un lavoro comune dei partiti rappresentati alla Costituente, che la elaborarono insieme nella Commissione dei Settantacinque e l’approvarono a larghissima maggioranza in Assemblea, con l’88% dei voti favorevoli.
Tutti, al di là delle posizioni politiche, spesso molto distanti, si riconobbero sempre in quel testo. Dal referendum del 4 dicembre la Costituzione esce addirittura rafforzata, perché gli italiani hanno chiaramente detto (con 19.420.730 di “No”), di non volere “riforme grandi” che modifichino radicalmente gli equilibri tra i poteri e, implicitamente, le stesse forme di attuazione e tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.
Naturalmente, questo non impedisce le mirate modifiche e gli interventi di manutenzione che siano ritenuti necessari da un’ampia maggioranza parlamentare.
Una Costituzione forte, anche per la sua stabilità, è in sostanza - per dirla con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (ex parte Milligan, 1866) - «una legge per il tempo di guerra e per il tempo di pace», in grado di fronteggiare cioè qualunque situazione (anche straordinaria) e di contenere il potere, chiunque lo detenga in quel determinato momento.
Stupisce, quindi, che modifiche radicali o ribaltamenti della Costituzione, volti a indebolirla, alterando l’equilibrio tra Governo e Parlamento e introducendo disposizioni complesse e talvolta oscure (rimesse fatalmente all’interpretazione della maggioranza di turno), siano (stati) sostenuti come argini nei confronti del “populismo”. Al di là delle approssimazioni sull’utilizzo di questo termine, infatti, proprio il “rischio” di un governo populista dovrebbe spingere a salvaguardare una Costituzione forte nella limitazione del potere della maggioranza. Che poi è il senso stesso della Costituzione.
Invece - e paradossalmente - abbiamo assistito, durante la lunga campagna referendaria, ad allarmi contro il rischio di populismo da parte di un governo che ha adottato nei fatti e in più occasioni atteggiamenti populisti, sostenendo la riforma con argomenti propri della retorica dell’anti-politica, come quello di “meno politici” o di “meno poltrone”. Al di là di tutte le valutazioni che si potranno fare, possiamo dire che quello del 4 dicembre è stato un voto in effetti contro il populismo — quello più insopportabile quello del governo, come ha ben chiarito Ezio Mauro all’indomani del voto su questo giornale.
Certamente, la retorica divisiva e l’uso plebiscitario del referendum costituzionale hanno fagocitato altri populismi. E possono ora favorire un fenomeno che deve destare preoccupazione: quello di pensare che la difesa della Costituzione sia essa stessa un partito, che il “no” a quella revisione contenga un messaggio che vada oltre l’obiettivo specifico, raggiunto il 4 dicembre. Lo scarsissimo spazio che i media hanno inteso dare durante la campagna referendaria alle posizioni politiche — e costituzionali — più ragionate e ragionevoli ha una sua responsabilità nell’aver istigato questo uso populista della battaglia per il “No”. Una responsabilità che si assomma a quella di chi, a fronte di una richiesta di rottura rispetto a modalità decisionali verticistiche e chiuse rispetto ai cittadini, non si preoccupa, oggi, di elaborare risposte convincenti, ma continui ad arroccarsi nei palazzi, offrendo risposte sbagliate o insoddisfacenti.
Tutto questo giustifica la preoccupazione circa il permanere di una pratica e di un linguaggio populisti, il persistere di populismi opposti, di una lotta politica che è giocata con le armi plebiscitarie. Sì, abbiamo una Costituzione capace di limitare il potere di chiunque sarà in maggioranza e anche le loro tendenze populiste, ma è irresponsabile sottovalutare l’erosione delle aggregazioni partitiche a tutto vantaggio dei vertici plebiscitari che questa lunga campagna ha consolidato.
Riemerge così il significato portante della Costituzione come testo condiviso da tutti e a tutti capace di “opporsi” in particolare quando siano al potere. Con il referendum questo significato è stato confermato, e anzi riconquistato (per la seconda a distanza di dieci anni). Si tratta di un significato da custodire (senza che questo comporti la rinuncia a interventi puntuali e di manutenzione costituzionale) da parte di tutti, e anche contro ogni altro tentativo di farne un programma di lotta politica, quasi che ci possa essere un “partito della Costituzione”.
La Costituzione non poteva diventare il testo di una parte che affermava la “sua” riforma così come non può essere rivendicata come “propria” dalla parte che a quella stessa riforma si è opposta. Chi si è espresso contro la riforma costituzionale per avere una Costituzione forte e capace di unire non può farne infatti un documento fondante per una parte o - peggio - per un partito. I partiti - potremmo dire riprendendo Costantino Mortati - sono “parti totali” mentre la Costituzione è “il totale” nel cui ambito si svolge il confronto tra i diversi partiti politici della Repubblica.
, e i fatti. Ma scrivevano per de-formare, non per in-formare.».
Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2016
Non so voi, ma appena leggo o sento pronunciare la parola “Confindustria” io mi scompiscio. È più forte di me, non riesco a restare serio. E non capisco come facciano i colleghi dei tg a dire “Confindustria” senza sbudellarsi. L’acronimo della Confederazione Industriali dovrebbe essere “Confindustriahahah”. E andrebbe confinato in fondo ai giornali e ai tg, insieme ai cinepanettoni, al cabaret e ai casi umani. Da sempre questi buontemponi ci spiegano cosa devono fare i governi, le opposizioni, i sindacati, gli operai, gli impiegati, i passanti. Hanno sempre una ricetta per tutto e per tutti, supportati dal loro formidabile Ufficio Studi, prodigo di ricerche che dimostrano quanto arretrata sia la politica e anche – diciamolo – la società dinanzi a cotali “uomini del fare” che trainano l’Azienda anzi la Locomotiva Italia. Più liberismo, più flessibilità, più sacrifici, più riforme, più mercato, ci insegnano dalla tolda dei loro yacht con l’aria sconsolata di chi pensa: “Fallo capire al popolo bue che non saprebbe amministrare neppure un ballatoio”.
Dopodiché uno legge l’inchiesta del nostro Giorgio Meletti (e poi della Procura) sul
Sole 24 Ore, mandato in malora da questi liberi docenti di efficienza e managerialità, ed è colto dai primi dubbi. Legge l’intervista di Antonello Caporale a Luca Paolazzi, direttore dell’Ufficio Studi di Confindustria (chiedendo scusa alle signore) e si precipita a consultare l’oroscopo di Branko, che al confronto è il teorema di Pitagora. Il Paolazzi è l’“analista” che, per conto dell’insigne consesso imprenditoriale, ha partorito il celebre “studio” che pronosticava, al dettaglio, le conseguenze del No al referendum: -17% di investimenti (una fuga di massa confermata dall’ambasciatore Usa, Phillips), +430 mila poveri, -4% di Pil, -600 mila posti di lavoro e +258 mila disoccupati. Quella del Sì invece avrebbe trasformato l’Italia nel Paese di Bengodi.
Il nesso causa-effetto tra Senato nominato più Cnel abolito e le nuove piaghe d’Egitto non fu mai chiarito, anche perché gli scienziati di Viale dell’Astronomia (anzi, dell’Astrologia) si scordarono di precisare i criteri scientifici seguiti pei loro calcoli. Però il 5 dicembre, all’indomani dello sciagurato No, abbiamo cercato con una certa apprensione le prime tracce dell’Apocalisse. E niente: nessuna coda di mendicanti aggiuntivi a quelli già esistenti nel Regno di Saturno renziano. Nessun tumulto di piazza di nuovi disoccupati e precari oltre a quelli prodotti dal Jobs Act (legge ovviamente suggerita da Confindustriahahah come volàno per l’occupazione stabile). Nessun assembramento di investitori a Fiumicino con biglietto di sola andata.
Ora però Paolazzi spiega che “abbiamo previsto uno scenario che si sarebbe potuto avverare in un contesto”, anche se “posso convenire che lo scenario non si è verificato” e “un po’apocalittico lo sono stato”. Ora un governo e una stampa non dico decenti, ma almeno prudenti, si regolerebbero così: qualunque cosa dica Confindustriahahah, fare l’esatto opposto. Vedi mai che ne azzecchino qualcuna. Il presidente Vincenzo Boccia, invece di andare a nascondersi, spiega al Corriere di essersi spalmato su Renzi e sul Sì perché “dagli anni 90 insistiamo per superare il bicameralismo” (che naturalmente la “riforma” non superava), precisando che “non siamo un partito, ma un corpo intermedio”. Tipo il colon, sito fra l’appendice e il retto. Sul Messaggero, il pensoso vicepresidente Maurizio Stirpe oracola sul referendum anti-Jobs Act: “Impossibile un ritorno al passato. Le nuove regole funzionano bene”. Un ottimo motivo per cestinare il Jobs Act e riscriverlo all’istante, nella certezza di non sbagliare.
Ma non c’era soltanto Confindustriahahah, tra i profeti di sventura. Il petroliere Garrone vaticinava, col No, “un impatto devastante, soprattutto a livello internazionale”: infatti nessuno s’è accorto di nulla. Boeri, presidente Inps, spiegava che “il Sì è fondamentale per cambiare il sistema dell’invalidità”: speriamo che scherzasse. La Stampa, ancora il 4 dicembre, annunciava col Sì mirabolanti benefici su “farmaci, ticket e cure”, avvertendo – ci mancherebbe – che questo “è un contributo super partes per capire il voto”: per fortuna dei malati, erano tutte balle super partes. Benigni avvertiva: “Se vince il No, è peggio della Brexit”, e almeno lui quasi ci prendeva: infatti non è successo nulla, proprio come dopo la Brexit. Giuliano Ferrara spiegava che, col Sì, “finisce la guerra dei trent’anni”, mentre Ettore Rosato temeva di “buttare via trent’anni di lavoro” (senza spiegare quando mai avesse lavorato): e pazienza, fatto trenta, ora faremo anche trentuno.
La Boschi collegava il Sì a “un’Italia più forte per un’Europa unita contro il terrorismo”, infatti il califfo Al Baghdadi era tutto sparato per il No. “Cari compagni del No, siete sicuri di fare il bene dei più deboli?”, implorava sull’Unità Carmine Fotia, già direttore de Il Romanista: purtroppo i più deboli han votato tutti No, peggio per loro. Repubblica, alla sola idea di un bel Sì, il 16.11 titolava onirica: “L’Italia cresce più della Germania”, salvo poi scoprire il 10.12, a funerali avvenuti, che “La Germania scatta, Italia e Francia ferme”. Esilaranti anche altre profezie: “Lo spread sale se vince il No”, “Il voto agita i mercati, Borsa giù, lo spread sale” (Repubblica), “Effetto referendum su spread e mercati, tremano le banche” (La Stampa), “Effetto referendum in Borsa: giù dell’1,8%” (Corriere), “Spread in salita a 4 giorni dal referendum” (Messaggero): infatti, col No, lo spread è tornato a calare, mentre la Borsa non andava a vele così gonfie dalla notte dei tempi. Al confronto dei nostri “esperti”, il Divino Otelma è Stephen Hawking.
«La nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza,ma soprattutto ddeve diventare metodo politico di azione sociale eanche per i rapporti tra gli Stati
». Azionenonviolenta, 14 dicembre 2016
Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della pace.
Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2017. Il messaggio “La nonviolenza: stile di una politica per la pace” ci pare un testo particolarmente significativo, che va oltre l’ambito cattolico, importante per i suoi contenuti e per l’autorevolezza della fonte.
Ripensiamo ora alle parole profetiche di Aldo Capitini, che nel libro In cammino per la pace, del 1961, scrisse: “Quando tra il popolo più umile, e tanto importante, dell’Italia si arrivasse a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa tra i santi, avremmo quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento, da Gioacchino da Fiore”. Forse davvero un passo in quella direzione è stato compiuto.
Il testo non contiene novità dal punto di vista della teoria e della pratica della nonviolenza, ma il fatto che il Pontefice riconosca ad essa la supremazia e la indichi come mezzo per “guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali”, e come “stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme”, è un segno e un valore inestimabile.
Finalmente la nonviolenza viene intesa per quello che è: non semplice a-violenza, e non mera applicazione del metodo democratico, ma come forma efficace, rivoluzionaria, per rendere testimonianza alla verità. La nonviolenza è una forma avanzata di azione per risolvere i conflitti.
E’ assolutamente positiva la scelta di Francesco di sottolineare che il documento pontificio sulla nonviolenza fa riferimento alla nonviolenza specifica, attiva, gandhiana. Tra l’altro, e non è solo un’osservazione stilistica, finalmente in un documento ufficiale del Vaticano leggiamo il termine ‘nonviolenza’ scritto giustamente come una parola unica, così come voleva il fondatore del nostro movimento, Aldo Capitini, per dare il senso di una proposta costruttiva, in positivo e non solo come rinuncia alla violenza fisica.
Gandhi la chiamava ‘satyagraha’, cioè ‘forza della verità’ proprio per dare l’idea di di una forza attiva, e non di una debolezza passiva. Ed è ‘cosa buona e giusta’ che il Papa nel documento si riferisca proprio alle origini storiche della nonviolenza politica: Mohandas Gandhi, Martin Luther King, e anche Abdul Khan, il cosiddetto ‘Gandhi’ musulmano che organizzò un corpo di volontari della nonviolenza, un vero e proprio esercito per la pace costituito da diecimila e più persone.
Come ricorda Francesco, infatti, la nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza. Non a caso il Papa, nelle prime righe del messaggio, si rivolge anche ai bambini e alle bambine e ricorda che la nonviolenza nasce dal cuore dell’uomo e deve giungere fino alla politica internazionale. E’ questa la grandissima novità del documento. La nonviolenza non più intesa come una via individuale di salvezza, ma come metodo politico di azione sociale e anche per i rapporti tra gli Stati.
E questo significa rivedere tutte le politiche militari di quest’ultimo secolo che ci stanno portando drammaticamente alla Terza guerra mondiale a pezzi. E’ dunque un documento che, se preso sul serio, deve interpellare tutti perché contiene indicazioni pratiche di una novità rivoluzionaria che portano alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza e al disarmo unilaterale, allo smantellamento della difesa armata per organizzare una difesa civile nonviolenta.
Non sappiamo a quali fonti, oltre a quella originale evangelica, si sia ispirato Francesco per redarre questo documento. Certamente possiamo riconoscervi tracce del pensiero dell’antropologo Renè Girard (La matrice sociale della violenza), del filosofo francese Jean Marie Muller (Il Vangelo della nonviolenza) e del filosofo della politica Giuliano Pontara (La personalità nonviolenta; L’antibarbarie; Teoria e pratica della nonviolenza), uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale.
Il Papa è una guida spirituale. A lui spetta il compito di indicare la via, poi sta a ciascuna persona, cattolica o laica, cristiana o atea, di qualsiasi altra fede o agnostica, accettare o meno il messaggio. Dopo questo documento, che si rivolge all’intera umanità, la nonviolenza non potrà più essere ignorata all’interno della Chiesa cattolica e da chi ad essa guarda con attenzione e partecipazione. Convertirsi alla nonviolenza è ora il programma cui tanti fedeli devono ispirarsi.
A Parigi una grande manifestazione per protestare contro la strage di Aleppo, nel resto del mondo è silenzio. I governi del Primo mondo che non contrastano gli stragisti ne sono complici. Stefano Montefiore intervista Raphaël Glucksmann, uno degli organizzatori della protesta.
Corriere dellasera, 14 dicembre 2016
PARIGI «Ad Aleppo stiamo assistendo alla riedizione degli orrori di Srebrenica in Bosnia e di Grozny in Cecenia, con una differenza. Questa volta i massacri sono raccontati minuto per minuto, su Twitter, dalle stesse vittime. La distrazione dei nostri governi e delle nostre opinioni pubbliche è il segno della débâcle dell’Occidente, dell’umanesimo, dell’Europa». Raphaël Glucksmann ha organizzato ieri, con Amnesty International, Médecins du Monde e altre organizzazioni umanitarie, una manifestazione a Parigi in solidarietà con le vittime di Putin e di Bashar Assad in Siria.
Nei primi anni dell’era Internet si diceva «Auschwitz non sarà più possibile perché la verità emergerà subito». In effetti grazie alla rete sappiamo di un massacro in corso, eppure non riusciamo a fermarlo.«Il merito di Internet e dei social network è quello almeno di toglierci la scusa, non potremo dire “non sapevamo” perché sappiamo tutto e mentre accade. Questo ci responsabilizza e rende l’inazione delle democrazie occidentali ancora più colpevole e difficile da difendere».
È un momento di svolta per l’Occidente?
«Purtroppo sì, mi pare un fiasco umanitario che marcherà le coscienze e la Storia. L’Occidente e l’Europa non hanno voce in capitolo. I nostri migliori dirigenti sono ridotti al ruolo di commentatori: giudicano il crimine invece di provare a impedirlo. L’amministrazione Usa parla di peggiore catastrofe del XXI secolo, ma non è in grado di fare nulla. Nel nuovo mondo Putin e Erdogan decideranno tutto senza di noi, senza badare a diritti umani e leggi internazionali».
Non entra in gioco anche una certa confusione dell’opinione pubblica? Quando si parla di Siria si tende a pensare al luogo dove lo Stato islamico tiene le sue basi. In Francia il nuovo favorito all’Eliseo, François Fillon, ha detto in tv che ci sono due campi in Siria: i terroristi e gli altri, e lui sta con gli altri.
«Ma quel che lui descrive non è la realtà. Gli attentati in Francia hanno fatto vacillare le nostre coscienze, e ormai in nome della lotta al terrorismo tutto è autorizzato. La prima vittima è la verità. Ma ad Aleppo non c’è l’Isis. I terroristi dello Stato islamico sono stati cacciati via da Aleppo. Radendo al suolo una città dove non ci sono terroristi, Putin e Assad fanno del terrorismo di Stato. La nostra guerra contro lo Stato islamico è giusta e va condotta fino in fondo. Ma che c’entrano le donne, i bambini e gli uomini di Aleppo?».
Che cosa potrebbero fare i cittadini europei?
«Ognuno si sente impotente e pensa che fare campagne sui social network o scendere in piazza sia ben poca cosa. È una goccia, ma tante gocce potrebbero creare un movimento di opinione capace di condizionare i politici, per esempio i candidati alle presidenziali francesi».
Molti chiedono la fine delle sanzioni contro la Russia.
«Bisognerebbe fare il contrario e inasprirle, semmai. Nessuno vuole una Terza guerra mondiale, ma tra scatenare una guerra contro la Russia e il non fare nulla c’è molto in mezzo, e si chiama politica. L’Europa dovrebbe, ora o mai più, trovare una posizione politica forte e unitaria se non vuole ridursi a fare da cagnolino di Putin e Trump. Per esempio pensando a boicottare i Mondiali di calcio 2018 in Russia, che altrimenti saranno una gigantesca macchina di propaganda al servizio del presidente russo che assieme al suo alleato siriano Bashar Assad sta compiendo il massacro di Aleppo».
Nonostante la potenza di fuoco mediatico, la forte capacità di acquisizione del consenso con i mille strumenti del dominio moderno, temono un altro fprte segnale di dissenso popolare. Le inventano tutte per sopravvivere nella loro palude.
Il manifesto, 14 dicembre 2016
Se quello sulla Costituzione ha provocato un terremoto, il referendum sul jobs act potrebbe essere uno tsunami di proporzioni ancora più imponenti, elettoralmente e socialmente. Non è difficile immaginare come voterebbero gli italiani sul tema del lavoro, giustamente in cima alle preoccupazioni di tutti, giovani in prima fila, saldamente in testa ai sondaggi sulle priorità del paese. Ed è la ragione per cui questo voto molto probabilmente ci verrà sottratto.
Tutto dipende da quanto durerà il governo, cioè quando Renzi deciderà di staccare la spina a Gentiloni, perché in caso di elezioni anticipate il referendum appunto salterebbe. E il più interessato a farlo naufragare è proprio Renzi, davvero costretto a ritirarsi a vita privata nel caso di un’altra batosta.
Ora il tema torna di attualità e in controluce agita gli schieramenti politici. Come dimostra il botta e risposta a distanza tra il ministro del lavoro Poletti, e la leader della Cgil Susanna Camusso.
Il ministro è sicuro che «si andrà alle elezioni prima del referendum». In replica Camusso ha esortato a «lasciar lavorare la Corte provando a essere rispettosi e a non fare pressioni». In soccorso di Poletti (che poi ha chiesto di non essere strumentalizzato, così cadendo nella classica excusatio non petita accusatio manifesta), ieri è arrivata anche Confindustria, guardia scelta renziana, con il suo presidente Boccia a dare l’allarme generale, paventando il rischio del blocco delle assunzioni in caso di referendum sul jobs act. Senza nemmeno l’onestà intellettuale di riconoscere che le assunzioni (senza più l’articolo 18) sono state il frutto dei poderosi sgravi fiscali offerti da Renzi, e che, finiti quelli, subito i posti di lavoro sono scesi in picchiata sostituiti da milioni di voucher che inondavano il mercato del precariato.
Il panico per il referendum sul jobs act ha un po’ ravvivato il clima depresso in cui si stava svolgendo il rito del voto di fiducia al governo. Che si è concluso come era iniziato. Con le aule parlamentari semivuote, gli interventi recitati nel deserto dei banchi di camera e senato. E gli addetti ai lavori attenti a leggere tra le righe del mesto dibattito, per capire quando si andrà a votare, o, per riprendere le parole del capogruppo del Pd, Zanda, quando arriverà al capolinea «il limitato orizzonte elettorale del governo».
Si potrebbe anche dire che a decidere la data delle elezioni sarà il vincitore del prossimo congresso del Pd, quindi Renzi.
Ma proprio sulla tabella di marcia che dovrebbe portarci alle prossime elezioni va a sbattere un appuntamento che potrebbe chiamarci alle urne in primavera, appunto il referendum chiesto dalla Cgil con la raccolta di un milione di firme (anzi: tre milioni, uno per ogni quesito). Nel caso di elezioni anticipate non potrebbe essere celebrato.
Naturalmente si deve prima pronunciare la Corte costituzionale chiamata a rispondere sull’ammissibilità dei quesiti, ma superata questa prova, si dovrebbe procedere alla fissazione della data referendaria che può cadere in un arco temporale che va da aprile a giugno.
Questo ingorgo elettorale la storia della nostra Repubblica lo conosce bene. Altre volte nel passato è successo che per far saltare i referendum gli italiani fossero chiamati al voto anticipato.
E’ evidente che nelle prossime settimane e mesi assisteremo a vari tentativi di disinnescare la mina del referendum. Il più semplice e probabile sarà appunto far cadere il governo-fotocopia entro giugno, giusto in tempo utile per evitare un’altra poderosa onda antigovernativa. Oppure si tenterà di escogitare qualche marchingegno legislativo per dire che del referendum non c’è più bisogno.
».
Il manifesto, 15 dicembre 2016 (c.m.c.)
Il grado di sofisticazione cui oggi è giunta l’analisi dei flussi elettorali ci consente di cogliere aspetti importanti del voto referendario. È stato a ragione segnalato il carattere «sociale» visibile nella geografia del No lungo la Penisola: la periferia delle città rispetto al loro centro, il Sud rispetto al Nord, i disoccupati rispetto agli occupati, i giovani rispetto agli anziani.
Ma uno sguardo alla cartografia del Sì non è meno interessante per la conferma di tale lettura. Esso fa intravedere le nette fratture, non solo generalmente sociali, ma di classe, che lacerano la società italiana. Le disuguaglianze crescenti dell’ultimo decennio hanno creato nel Paese due mondi separati: quello dei ceti che godono di reddito sufficiente e di sicurezza e possono affrontare la riduzione del welfare e la politica di austerità, e quello degli strati che indietreggiano verso la povertà o nella povertà sono già precipitati.
Quella cartografia ci mostra anche - certo all’ingrosso - un profilo sociologico delle base di consenso di cui godeva il governo Renzi e a cui lo stesso presidente del Consiglio guardava per il proprio progetto di affermazione. È in parte anche la base sociale di questo Pd, che rappresenta ormai prevalentemente gli interessi della media borghesia cittadina, gruppi finanziari e imprenditoriali, settori della stampa, del mondo intellettuale, parte del quale crede di appartenere ancora a una gloriosa tradizione e non si è accorto in quale nuovo continente è approdato.
La vittoria del No è dunque anche l’espressione di un conflitto sociale contro una strategia «classista» di governo che ormai mostrava nitidamente - al di là degli elementi di modernizzazione pur presenti in alcune iniziative - il suo carattere di progetto di «governo della crisi» fondato sul consolidamento di un blocco di classe.
La linea economica di questo esecutivo, l’abbiamo rilevato più volte, consisteva nel tentativo di rilanciare l’economia italiana tramite un rilevante afflusso di investimenti esteri attratti dai vantaggi offerti alla libera valorizzazione dei capitali. Nulla di diverso dallo schema neocoloniale perseguito dal ceto politico dell’Occidente negli ultimi anni. A tal fine si è offerta, o si è cercato di offrire, nuova flessibilità del lavoro (Jobs act), scuola subordinata ai bisogni del mercato del lavoro, agevolazioni fiscali alle imprese, esecutivo libero da eccessivi vincoli di procedure democratiche, ecc.
C’è un passaggio rivelatore, nella politica economica del passato governo, che mostra nitidamente la scelta di consolidamento di un blocco sociale contro le ragioni stesse dell’economia produttiva e di un possibile rilancio della domanda interna: l’esenzione dell’Imu dalla prima casa. Com’è possibile, in un Paese che in meno di 10 anni ha perso il 25% della sua base produttiva, premiare a tal punto la rendita fondiaria, se non per la ragione che Renzi voleva radicare il suo potere nei ceti abbienti della società italiana?
Nel voto del No c’è dunque la sconfitta di questa strategia, che non ha rilanciato l’economia italiana, non ha scalfito la disoccupazione dilagante, non ha ridotto ma esasperato le disuguaglianze, non ha contenuto ma moltiplicato la precarietà del lavoro, non ha attenuato ma accresciuto l’emarginazione della gioventù, non ha sollevato le sorti del Sud, ma ne ha spinto i ceti più deboli nella disperazione sociale.
Forse mai come in questo voto referendario c’è stato tanto conflitto politico contro le classi dirigenti e il loro governo.
Ma questa vittoria che oggi ci esalta, ci inquieta al tempo stesso. Esistono tutte le condizioni perché la sinistra si metta in sintonia con le grandi masse popolari del nostro Paese, con i ceti produttivi, con le nuove generazioni, con le genti del Sud, con i gruppi intellettuali, anche con quelli di area Pd, che devono prendere atto dell’inadeguatezza della loro lettura della crisi e del capitalismo attuale.
Ma dov’è la voce della sinistra? Sel ha compiuto il gesto generoso di sciogliersi per favorire un nuovo processo di aggregazione e si aspettavano le mosse e le iniziative di Sinistra Italiana. Quest’ultima doveva celebrare il proprio congresso fondativo in questo dicembre e lo ha spostato a febbraio. E nel frattempo? I gruppi dirigenti di SI, con l’apporto anche di intellettuali d’area, stanno elaborando una piattaforma programmatica che si mette alle spalle decenni di riformismo neoliberista. Sul piano teorico e culturale si sta scrivendo una nuova pagina progettuale.
Ma è evidente in questo momento l’assenza di senso del tempo, la capacità di seguire le scansioni della lotta in corso con spirito d’iniziativa e creatività di manovra. È oggi, non domani, che è necessario mostrare, ai mille gruppi dispersi della sinistra, ai lavoratori, ai giovani, un punto di riferimento, un centro aggregatore dotato di un serio progetto riformatore, all’altezza delle sfide che l’Italia deve affrontare. Non sappiamo da tempo che, se il nuovo partito nascerà a ridosso delle elezioni, verrà valutato dagli italiani come l’ennesimo tentativo di un ceto politico marginale di ritagliarsi uno spazio qualunque nella rappresentanza parlamentare?
«Le mobilitazioni dal basso possono trasformare le campagne per i referendum e i loro esiti. Un’analisi tratta dall’introduzione al libro di Donatella della Porta, Francis O’Connor, Martin Portos, Anna Subirats “Referendums from Below” di prossima uscita».
Sbilanciamoci.info, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)
I risultati del referendum costituzionale italiano del 4 dicembre 2016 confermano la capacità della società civile e dei movimenti di appropriarsi degli istituti di democrazia diretta per portare avanti obiettivi di progresso. La straordinaria vittoria del ‘no’ (quasi 20 punti percentuali di vantaggio rispetto al ‘sì’), e l’inattesa elevata partecipazione al voto non sarebbero state possibili senza la mobilitazione dal basso di migliaia di persone e di organizzazioni sociali. Questo è solo un esempio delle opportunità aperte dai referendum visti come strumento di una ‘politica dal basso’ che si sono tenuti durante questi anni di crisi.
La grande recessione che ha colpito l’Europa nel 2008 può essere vista come un punto di svolta, che ha innescato non solo trasformazioni socio-economiche, ma anche cambiamenti politici. Nei paesi più colpiti dalla crisi finanziaria, in particolare la ‘periferia’ dell’Europa, ondate di proteste hanno messo in discussione le politiche di austerità adottate dai governi nazionali sotto la pressione delle istituzioni europee e della finanza – l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo monetario internazionale in particolare.
Queste ondate di protesta – spesso definite come il movimento ‘Occupy’ o degli ‘indignados’ – hanno reso visibile la crisi di legittimità provocata dalla palese mancanza di responsabilità da parte delle istituzioni politiche verso le sofferenze dei cittadini. Le proteste hanno preso forme diverse nei diversi paesi, influenzate dagli sviluppi specifici e dalle caratteristiche della crisi finanziaria, oltre che dalle opportunità politiche nazionali e dalle sfide concrete per i movimenti sociali.
Queste proteste hanno avuto effetti immediati e a volte molto profondi sul sistema dei partiti, portando non solo al crollo di alcuni partiti tradizionalmente dominanti, ma anche al rapido (e inaspettato) sviluppo di ‘partiti di movimento’. Questo sconvolgimento politico ha influenzato non solo le elezioni locali, ma anche quelle nazionali ed europee. I movimenti sociali hanno approfittato delle opportunità offerte dagli istituti di democrazia diretta, in particolare attraverso i referendum che sono stati caratterizzati da iniziative politiche ‘dal basso’.
Molti di questi ‘referendum dal basso’ ha avuto luogo in Europa durante la Grande Recessione. Il nazionalismo è diventato un focus particolare di dibattito, con i referendum sull’indipendenza scozzese e con lo pseudo-referendum per l’indipendenza della Catalogna. Nonostante i diversi assetti istituzionali, questi processi hanno avuto diverse caratteristiche in comune.
Entrambi i casi hanno mostrato che il tardo-neoliberismo ha fatto saltare la fedeltà dei cittadini alle istituzioni rappresentative a livello statale, ma anche che l’insoddisfazione ha portato all’attivismo politico piuttosto che all’apatia. In particolare, in entrambi i casi, si osserva un’interazione specifica tra le élite politiche e i movimenti sociali che hanno cercato di sfruttare le campagne referendarie per far avanzare le loro aspirazioni.
L’élite politica scozzese ha convocato il referendum e i movimenti si sono appropriati alla campagna, promuovendo la loro visione di una società più giusta e democratica. In Catalogna, i movimenti sociali hanno lanciato una campagna per l’autodeterminazione e l’indipendenza che ha coinvolto attori istituzionali e élite politiche. La partecipazione dei movimenti nelle campagne referendarie ha ampliato i repertori di azione politica e ha introdotto nuove forme di organizzazione.
Negli stessi anni in Europa altri referendum sono stati lanciati da movimenti sociali che si erano mobilitati contro l’austerità o sono stati caratterizzati da una forte mobilitazione dal basso con l’obiettivo di contrastare le politiche neoliberiste, nel caso dei salvataggi bancari (in Islanda), dei trattati internazionali che imponevano l’austerità (come in Grecia ), o della privatizzazione della fornitura di acqua (in Italia). In questi casi le campagne referendarie hanno assunto particolari dinamiche, con una forte partecipazione ‘dal basso’, con un importante protagonismo dei movimenti sociali e della società civile.
Alla luce delle conseguenze politiche e sociali della Grande recessione in Europa, i ‘referendum dal basso’ assumono un interesse particolare in quanto iniziative politiche che sono promosse o che comunque vedono una grande mobilitazione da parte di attori della società civile, soggetti diversi dalle tradizionali istituzioni intermedie di rappresentanza (ad esempio i sindacati, i partiti, la chiesa e così via) o dai governi. Su questo terreno è importante riflettere sulle connessioni tra le dinamiche dei movimenti sociali e le pratiche di democrazia diretta, due questioni che sono spesso state considerate separatamente anche all’interno delle analisi sulla conflittualità politica.
I referendum abrogativi e le iniziative referendarie dal basso sono le forme più comuni di ‘referendum dal basso’, ma la nostra definizione si estende anche alle campagne referendarie iniziate da soggetti istituzionali che sono state poi caratterizzate da una forte mobilitazione dei movimenti, con un forte impegno per l’inclusione dei cittadini, per processi di deliberazione e per una partecipazione di massa.
Gli studi sui referendum sopra citati indicano che all’interno della campagna referendaria e della mobilitazione sociale c’è un evidente uso strategico dei ‘quadri di riferimento’ concettuali che definiscono lo scontro politico, in modo da aumentare il sostegno per i movimenti. Data la frequente presenza di coalizioni di attori con diverse ideologie e diverse priorità, una scelta adeguata dei ‘quadri di riferimento’ è molto importante per consentire ai diversi soggetti di lavorare insieme. Tre questioni principali emergono dal punto di vista teorico. In primo luogo, le teorie normative della democrazia hanno sottolineato il principio di uguaglianza nella capacità di influenzare i decisori, e l’autonomia nella capacità di formazione delle opinioni tra i cittadini.
Come strumenti di partecipazione e, potenzialmente, di deliberazione, i referendum possono essere considerati coerenti con le concezioni e le pratiche dei movimenti sociali progressisti. I movimenti sociali devono sfidare le istituzioni esistenti, producendo crepe (o per lo meno punti di svolta) nel sistema. Gli studi su una serie di referendum hanno mostrato che il loro esito tende ad essere, in realtà, più aperto rispetto alle elezioni normali, e quindi più influenzato dagli sviluppi nelle campagne referendarie. Tuttavia, le loro qualità partecipativa e deliberativa, così come la loro capacità di aprire nuove opportunità politiche, dipendono da fattori istituzionali e da processi politici specifici, come quelli promossi dai movimenti sociali.
Le opportunità politiche formali e informali influenzano la qualità democratica dei referendum e le possibilità che essi siano caratterizzati da iniziative ‘dal basso’, come arene di politica conflittuale. L’assetto istituzionale formale del referendum influenza le possibilità di usarlo per sfidare il governo e le élite, ma ogni referendum presenta specifiche opportunità politiche e vincoli per gli attori ‘dal basso’. La percezione delle opportunità politiche esistenti ha anche un impatto sulle strategie dei movimenti e sull’impegno che sviluppano per allargare la partecipazione e il pluralismo.
In secondo luogo, la ricerca sui referendum ha sottolineato che i modi in cui l’argomento viene definito hanno un effetto importante nel determinare gli esiti del referendum. Anche se apparentemente fondati su una singola questione, i referendum spesso sollevano molteplici domande, e temi paralleli possono essere decisivi per determinarne i risultati.
Chi è che definisce le questioni da affrontare è una domanda che nelle campagne referendarie rimane più aperta che nelle elezioni normali. In particolare, la nostra ricerca dimostra l’importanza della capacità di collegare le questioni al centro dei referendum con gli argomenti più generali affrontati dai movimenti. Questi collegamenti avvengono sia sui contenuti sostanziali (come la dignità e l’uguaglianza), ma anche a livello procedurale (come la democrazia partecipativa e deliberativa). Inoltre, quando riguardano questioni tipiche dei movimenti sociali, i referendum possono avere l’effetto di rafforzare il quadro di riferimento delle mobilitazioni, identificando le norme in discussione e gli obiettivi non negoziabili dei movimenti.
In terzo luogo, le pratiche di democrazia diretta hanno mostrato che le campagne referendarie spesso non sono lineari, in quanto sono influenzate da eventi contingenti che possono avere un forte impatto sull’opinione pubblica. I movimenti sociali possono svolgere un ruolo rilevante nelle campagne referendarie in quanto possono introdurre punti di svolta verso una politica conflittuale all’interno della politica convenzionale. La nostra ricerca ha mostrato come l’utilizzo di repertori di azione dei movimenti influenza la dinamica delle campagne referendarie, introducendo, in particolare, una logica processuale che allarga le possibilità di partecipazione dei cittadini prima ancora di ottenere effetti legislativi concreti.
«La crisi si è aperta perché il governo ha ritenuto di aver subito un'epica sconfitta elettorale, ma si è chiusa con lo stesso governo che prendeva a calci nel sedere ognuno dei 19 milioni di italiani che l'hanno sconfitto». Huffington Post online, 23 dicembre 2016
Rino Formica e Aldo Busi non hanno un granché in comune. Eppure, mentre il neo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni finiva di leggere la lista dei ministri, mi sono venuti in mente tutti e due. Busi per il titolo di un suo libro - Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) -, Formica per il suo più celebre detto, quello per cui «la politica è sangue e merda». Epigrafe perfetta per questo governo: pochissimo - tuttavia - il sangue.
Intendiamoci: durante tutta la campagna referendaria mi sono sgolato (insieme a molti altri: come ricordava oggi il presidente dell'Anpi Carlo Smuraglia in una intervista adamantina) a dire che non ci sarebbe dovuto essere alcun nesso tra riforma costituzionale e sorte del governo. A dire che, in caso di vittoria del No, non avremmo mai chiesto le dimissioni di Renzi: perché era stato un errore (un suo gravissimo errore) mescolare due cose che avrebbero dovuto invece rimanere ben distinte. Ma ormai era fatta, e il combinato disposto (ormai ci siamo affezionati all'espressione) tra l'alta affluenza e il numero dei No non ha lasciato scampo a Matteo Renzi, che si è autocondannato a recitare il suo copione fino in fondo.
Ma...: qua inizia il 'ma', che stasera è esploso in tutta la sua imbarazzante dimensione. La bestemmia era quella del 'governo costituente': e allora avrebbe dovuto lasciare tutto il governo, che si era impegnato per il Sì come un sol uomo, facendo strame di ogni dignità delle istituzioni. E invece no: non si è dimesso il governo, si è dimesso il Capo.
E questo certifica senza possibilità ciò che era evidente da mesi: un partito, un governo, un Paese sono stati inchiodati per mesi dalla incredibile irresponsabilità di un aspirante capo che cercava la consacrazione della folla. Siamo nel 2016, c'è internet, mandiamo una sonda su Marte, ma la spiegazione dello psicodramma collettivo che abbiamo vissuto è chiusa nell'unico mito che gli psicanalisti di corte delle leopolde e delle televisioni non hanno citato: quello di Narciso.
Ora che Narciso è stato inghiottito dallo stagno nero in cui si specchiava, a noi rimane per l'appunto lo stagno: quello della stagnante politica italiana, in cui siamo ripiombati subito, come per malìa. E qui entra in scena l'altra faccia di Narciso, quella del politicante da prima Repubblica (senza un briciolo della cultura di un Rino Formica, però). Che ora si rotola nel fango pur di ottenere che i suoi riescano a tenere un piede nella porta che gli si sta per chiudere in faccia.
E lo fa con il più incredibile disprezzo per quegli stessi 19 milioni di italiani che (a suo stesso dire) l'hanno licenziato: come è possibile che la Boschi sia sempre lì, e in un ruolo chiave? E l'idea grottesca di Lotti ministro dello Sport? Un soluzione che avrebbe fatto arrossire un Forlani o un Nicolazzi: evviva la modernizzazione della vita politica! La logica del Gattopardo non basta più: ora nulla cambia, perché nulla cambi.
Per non parlare della disinvoltura con cui mettiamo Angelino Alfano a capo della nostra diplomazia: tanto valeva metterci Lino Banfi, che è anche più noto, all'estero. O del cinismo con cui all'Ambiente viene confermato l'incredibile Galletti, e ai Beni Culturali viene cementato l'eterno autoreggente Dario Franceschini, che ogni giorno fa rimpiangere Sandro Bondi a chiunque sappia cos'è (o meglio cos'era) il patrimonio culturale.
Insomma: la crisi si è aperta perché il governo ha ritenuto di aver subito un'epica sconfitta elettorale, ma si è chiusa con lo stesso governo che prendeva a calci nel sedere ognuno dei 19 milioni di italiani che l'hanno sconfitto.
I più scafati osservatori notano che Gentiloni e il Quirinale sono riusciti a mettere in sicurezza i Servizi, sottraendoli al Giglio Magico. Può anche darsi che sia vero (tuttavia, in che Paese vivremmo se la partita fosse stata davvero questa?), ma l'unica cosa evidente ai comuni mortali è che l'ondata di sdegno che sta sollevando questo governo 'con pochissimo sangue' sortirà un unico risultato: far guadagnare ai 5 Stelle la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Anche senza Italicum: basta il Gentilonum.
«Il "nuovo" governo. Il responso referendario e il suo valore costituente. Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato».
il manifesto, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)
Lo spettacolo è francamente inguardabile, a una settimana dal voto che ha travolto Matteo Renzi e il suo governo. Intendo lo spettacolo pubblico, recitato «in alto» dall’intero establishment. Il modo con cui nasce il governo Gentiloni, le procedure del suo incarico (con le cosiddette consultazioni parallele tra il Colle e Palazzo Chigi, cose mai viste!). E poi la sua composizione (fotocopia)
Sono un insulto al voto degli italiani, al principio di realtà, alla stessa Costituzione miracolosamente salvata il 4 dicembre: al suo articolo 1 naturalmente, e al meno noto articolo 54 (che impone, per le funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore», cioè accettando i verdetti popolari e rispettando verità e parola data). Che a Palazzo Chigi sieda un «uomo di Renzi», che il governo Renzi succeda a se stesso nella maggior parte dei suoi membri, soprattutto che Matteo Renzi continui a detenerne la golden share mantenendo la segreteria del Partito e di lì accanendosi a inquinare la vita politica, dopo aver dichiarato che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato da tutto, è un danno d’immagine devastante non solo per lui e il suo partito, ma per l’intero Paese.
Sembra fatto apposta per confermare la peggiore immagine degli italiani, furbeschi e infingardi. Non un buon viatico per le nostre banche e i nostri conti. In fondo David Cameron, che pure non era un granché, è sparito dalla scena dopo la Brexit (perduta peraltro per un soffio), e con lui i suoi uomini più fedeli, altro che Lotti ministro (con delega all’editoria) e Maria Elena più che mai in sella! Diverso il quadro «in basso».
Il voto – quel NO urlato nelle urne – comunica un messaggio politico potentissimo. Parla alla politica con il linguaggio duro dei cataclismi naturali.
E lo fa anche, e soprattutto, perché ha, alla sua radice, un fortissimo, durissimo, connotato sociale. Lo dicono tutte le analisi dei flussi: la mappa del NO ricalca, fedelmente, la mappa del disagio. Anzi, dei disagi: sociale, generazionale, di genere, territoriale. Il No cresce, esponenzialmente, col diminuire del reddito disponibile, coll’aumentare della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, con il passaggio dai centri alle periferie delle grandi città, e naturalmente con l’esplosione del Sud.
Si potrebbe dire che il populismo dall’alto renziano – la sua baricchesca narrazione – si è schiantato contro un popolo impastato di realtà. E di sofferenza, materiale ed esistenziale. È stato, quel voto che in tanti vorrebbero mettere in soffitta, una gigantesca porta sbattuta in faccia a tutti gli establishment, nazionali ed esteri.
Si potrebbe dire che non è cosa nuova. Che già il voto inglese, e in parte quello americano, avevano alla radice quello stesso reticolo di rabbia sociale, malessere, impoverimento e risentimento dei fargotten contro le rispettive élites. Ma per l’Italia vale un dato diverso, e originale. Qui è avvenuto il «miracolo» per cui quella rabbia e quel disagio hanno trovato, come punto di convergenza e comun denominatore, la Costituzione.
La Costituzione democratica, egualitaria e antifascista intorno a cui hanno dovuto raggrupparsi tutti, anche quelli che, per appartenenza politica, starebbero da un’altra parte. Non è poco. Anzi, direi che è (quasi) tutto. Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come «loro»: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. Per questo credo si possa dire che, per le dimensioni della partecipazione e per il segno inequivoco del responso, il Referendum costituzionale del 4 dicembre assume carattere «costituente».
Costituente all’interno, nei confronti della politica italiana, perché dice forte e chiaro che nessuno deve più azzardarsi a tentare di manomettere la nostra Costituzione e di deformarne forma di governo e sistemi di garanzie istituzionali. E costituente verso l’esterno, verso l’Europa in primis, perché dice che non sono più ammissibili intromissioni volte a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, a ledere i diritti costituzionalmente garantiti e a limitare o deformare il principio di rappresentanza. Non si tratta di adeguare la Costituzione italiana ai trattati internazionali, ma di riconoscere solo quei trattati che ne rispettano le linee guida.
Costituente, in fondo, anche, nel nostro piccolo, per noi. «Abbiamo difeso la Costituzione, adesso imponiamo di attuarla!». Questo potrebbe essere il programma comune di quella ampia, variegata, creativa area che su un versante radicalmente democratico si è battuta per il NO. La premessa per trasformarla nell’embrione di una proposta di rappresentanza elettorale.
Ma non nascondiamocelo: è un’impresa impegnativa. Che richiederà molti passi indietro e ancor più passi avanti. Perché non è cosa da frammenti di vecchie identità infrante. Richiederà soprattutto la necessità di assumere una logica da «anno zero». Nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove forme di ascolto di un sociale diventato indecifrabile per le consuete culture politiche: un esodo dalle macerie avendo però, come ragione, finalmente una vittoria.
Tutto, ma davvero tutto, si è consumato, compresa quell’ombra lunga di centro sinistra cui ancora molti superstiti sembrano guardare (e che con l’estremo endorsement di Prodi si è definitivamente inabissato); compresa la patetica nostalgia di Giuliano Pisapia per un Pd che non c’è più come se lì, dopo il bagno renziano, non si fosse consumata una vera mutazione antropologica… Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato.
Questo è quello che scrive il giornale che è stato tra i maggiori sostenitori di Renzi e del SI al referendum. Bisogna essere proprio ciechi per credere che con Renzi e il renzismo ci possa essre salvezza, e speranza di uscire dal baratro nel quale siamo precipitati.
La Repubblica, 13 dicembre 2016
Ieri sera, mentre i ministri giuravano al Quirinale, qualcuno faceva notare con ironia che il nuovo governo sarebbe stato perfetto se avesse vinto il Sì. In quel caso al posto di Gentiloni avremmo visto ancora Renzi, ma per il resto nessuna differenza. Maria Elena Boschi sarebbe stata premiata come in effetti è avvenuto: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, un posto chiave per il quale occorre esperienza, tatto e profonda conoscenza della macchina statale. Doti che l’ex ministra delle Riforme non ha mai mostrato di possedere, se non altro per via della giovane età. In questo caso, tuttavia, le sarà sufficiente tener d’occhio il calendario delle nomine nei grandi enti e negli altri centri di potere, badando che i prescelti non siano sgraditi al segretario del Pd. Luca Lotti sarebbe diventato ministro, sia pure senza portafoglio. E davvero lo è diventato, mantenendo peraltro il suo ufficio a Palazzo Chigi, con competenza sull’editoria e, per buona misura, anche sul Cipe. In caso di vittoria del Sì il ministro dell’Interno avrebbe potuto pretendere un premio alla propria lealtà. Lo ha ottenuto lo stesso, visto che Alfano è da ieri ministro degli Esteri, responsabile delle relazioni internazionali dell’Italia, forse la poltrona più importante.
Si pensava che fosse interesse del nuovo presidente del Consiglio marcare un qualche grado di autonomia e non consegnarsi mani e piedi alla polemica dei Cinque Stelle e della Lega. Invece il tema del governo fotocopia, agitato dalle opposizioni, acquista legittimazione e addirittura viene sbandierato da un segmento scontento e frustrato della maggioranza come il gruppo di Denis Verdini, rimasto a mani vuote. Quasi fotocopia, per la verità: si deve riconoscere che l’ingresso di Anna Finocchiaro, parlamentare competente e da tutti stimata, è una delle poche note positive. Insieme ad altre due. La prima è la nomina di De Vincenti a ministro della Coesione nazionale, pur se il governo avrebbe tratto vantaggio dalla sua permanenza a Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza e gestore dei dossier più delicati (il lavoro che da oggi, come si è detto, dovrebbe esser svolto da Maria Elena Boschi).
La seconda novità è la decisione di Gentiloni di trattenere per sé le deleghe sui servizi di sicurezza che nel precedente esecutivo erano nelle mani di Minniti, persona affidabile a cui è stata data la responsabilità del Viminale. Non è dato sapere con certezza se in questa scelta abbia pesato il consiglio di Mattarella. Di certo è fallito il complicato percorso di cui si vociferava e che avrebbe dovuto concludersi con le deleghe assegnate a Luca Lotti, l’efficiente amico e consigliere di Renzi. Questo è il punto politicamente più rilevante della giornata. La prova indiretta che il governo Gentiloni vive, come è ovvio, dell’appoggio parlamentare del Pd e dei centristi, ma anche di una buona relazione fra il nuovo premier e il capo dello Stato. È in una certa misura, o almeno dovrebbe essere, una sorta di “governo del presidente” che si appoggia da un lato al Parlamento e dall’altro al Quirinale. Al punto che si poteva immaginare che l’influenza del Colle riuscisse a favorire la nascita di un esecutivo dal profilo più alto e soprattutto più innovativo.
Così non è stato e il calcolo di Gentiloni è oggi quello di non approfondire il solco con Largo del Nazareno. Dove in effetti Renzi agisce come se il referendum avesse regalato al Pd un successo da coltivare con cura. L’idea, un filo paradossale, è che il 41 per cento del Sì costituisce un patrimonio del Pd e del suo leader. Quindi il problema è quello di non disperdere quei voti e di metterli nell’urna delle prossime politiche. Il che spiega anche perché nessun esponente del No sia stato invitato a entrare nel governo semi-fotocopia. Si capisce che il cammino di Gentiloni è impervio, forse più di quanto egli stesso immaginasse. Tuttavia il futuro è ancora da scrivere. Il nodo della legge elettorale resta cruciale e qui i toni misurati e concilianti del presidente del Consiglio, che non vuole invadere lo spazio del Parlamento, permetteranno — si spera — alle parti politiche di avviare un negoziato serio. Non saranno le “larghe intese”, ma è chiaro che la legge avrà bisogno del concorso di Berlusconi. Il che apre scenari non del tutto prevedibili.
Due ipotesi di "Sinistra da fare subito molto diverse tra loro: l'una, raccontata da Paolo Favilli, accetta l'ideologia del renzismo, l'altra, nella cronaca di Roberto Ciccarelli, per fortuna sembra di no. Ma è sufficiente anche per domani?
Il manifesto, 13 dicembre 2016
L’INSERVIBILE «REALPOLITIK»
DEI POLITICI «PACIFICATI»
di Paolo Favilli
«Alleanze. Invocare il realismo di un "renzismo senza Renzi" (o viceversa), come fanno - tra gli altri - Pisapia e Asor Rosa è solo il segno della falsa coscienza di questi tempi».
Nella grande confusione sotto il cielo evocata da Alberto Asor Rosa su questo giornale (vedi il manifesto del 10 dicembre) si sprecano le esortazioni a tenere ben fermi i piedi per terra, a dare prova di «realismo», cioè della virtù politica per eccellenza. La «grande confusione», però, esprime diverse forme di realismo.Ac cennerò a due che, al momento, stanno interessando alcuni aspetti della discussione «a sinistra».
1. La prima è quella espressa da coloro che possono essere chiamati i «pacificati» con l’ordine naturale delle cose.
I «pacificati» più indicativi, nel senso che producono scritti che ci permettono di cogliere con chiarezza i meccanismi della «pacificazione», sono in genere giornalisti e autori televisivi con incursioni letterarie. Oppure la stessa cosa ma con partenze diverse: non dal giornalismo, ma dalla letteratura. Si tratta, per lo più, di produzione letteraria «media», oscillante tra i diversi livelli della medietas.
La letteratura più adatta, insomma, a dare conto dei percorsi che portano alla convinzione che la realtà delle cose presente è, nei suoi fondamenti, immodificabile e dunque è necessario fare la pace con chi è stato l’interprete più conseguente, giustamente perciò vittorioso, delle ferree leggi dell’economia e della trasformazione sociale.
Lo sguardo della "grande letteratura" letteratura, invece, esplora sempre i recessi delle tensioni irriducibili, indipendentemente dalle concezioni politico-ideologiche degli autori. Quando nel 1924 esce La montagna magica, il Thomas Mann ideologico è ancora quello di Considerazioni di un impolitico, un «neoconservatore», come, con molta imprecisione, è stato definito. Ha prodotto forse un’opera di tensioni pacificate?
«Chi non è socialista a vent’anni è senza cuore, chi è ancora socialista a quaranta è senza cervello», ecco, il percorso dei nostri «pacificati» è tutto interno alla logica di questo senso comune minimo. Una logica che, pur nella inevitabile vittoria del cervello, permette di scrivere sui tormenti del cuore.
Da questo punto di vista, la proposta Pisapia di una «sinistra» distinta ma unita a Renzi è perfettamente «realistica». Permette di conciliare la vittoria del cervello con gli spasimi del cuore. I pacificati stanno con Renzi, ma hanno una diversa «sensibilità». E «sensibilità» è la parola chiave di una «sinistra» dai sentimenti delicati.
2. La seconda declinazione di realismo ha una logica del tutto diversa, estranea a qualsivoglia volontà pacificatoria. Il realismo riguarda piuttosto la dimensione del che fare qui ed ora in un contesto politico passibile di sbocchi assai pericolosi. E che la possibilità di sbocchi del genere sia tutt’altro che impensabile è, purtroppo, un evidente dato di realtà. Per fare fronte a tali esiti, realismo vorrebbe che, una volta liberatisi di Renzi, si ritornasse a una coalizione di centro sinistra sul modello di quella del 2013: Italia bene comune.
Mi pare, realisticamente, che la condizione preliminare per il percorso indicato, il Pd che si libera di Renzi, sia piuttosto improbabile. Più probabile che Renzi si liberi di gran parte dei suoi oppositori interni, i quali, del resto, non hanno mai dimostrato particolare combattività. La storia degli ultimi tre anni di «opposizione» è sufficientemente indicativa a proposito.
Inoltre non è possibile prescindere dall’analisi della dinamica strutturale che ha contraddistinto iscritti, gruppi dirigenti locali, sfere d’influenza ecc. del Pd; dinamica che ne determina la fisionomia attuale. Tratti di quest’analisi sono del resto già noti e pubblicati in studi specifici.
3. Renzi e i suoi sono potuti germogliare e diventare forti alberi fronzuti perché le loro radici hanno affondato in un humus particolarmente fertile. È il caso di ricordare che nel 2012 il segretario del Pd Bersani fu uno dei protagonisti della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, cioè della costituzionalizzazione della teoria economica chiave nelle forme attuali dell’accumulazione del capitale.
Una vera e propria scelta di campo su un aspetto teoricamente, e politicamente, dirimente. Non risulta che nella cosiddetta «sinistra» del Pd sia in corso una riflessione vera sul senso profondo di quella scelta.I n condizioni siffatte, anche un centro-sinistra derenzizzato l’unica attenzione che potrebbe concedere alle ragioni fondanti della sinistra, quelle legate alla «questione sociale», sarebbe appunto uno sguardo da fuori e da lontano.
E comunque, perché lo sguardo del partito di centro-sinistra possa rappresentare qualcosa di più rispetto a una ricognizione di superficie, occorre in primo luogo che la sinistra che si misura con le radici degli accadimenti sia davvero una forza reale.
Nella costruzione questa forza sta tutto il senso del nostro «noi». Intanto un elemento forte di definizione di questo «noi» si è concretizzato in quella parte dell’elettorato del No che ha correttamente letto nel tentativo di manomettere la Costituzione un aspetto della questione sociale. Una forma di lotta di classe, in ultima istanza. Una precisa scelta di campo, opposta a quella che ha determinato la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.
Non è, ovviamente, una dimensione che possa riguardare la cultura dei «pacificati». E infatti noi continuiamo a cercare elementi di riflessione nei grandi libri, di Karl Marx, di Thomas Mann…… I libri della medietas pacificata ci servono solo come fonti per lo studio della falsa coscienza di questi nostri tempi.
LA SINISTRA CHE VUOLE RIPARTIRE
DALLA COSTITUZIONE
di Roberto Ciccarelli
«Dopo il "No" sociale. La proposta: un polo di sinistra che ha come programma ideale l'applicazione della Costituzione»
Un polo di sinistra che ha come programma ideale l’applicazione della Costituzione. Dopo il successo del «No» al referendum del 4 dicembre, la sinistra delle liste civiche, dell’associazionismo, in dialogo con Rifondazione, Altra Europa e una parte della costituenda Sinistra Italiana, rilancia l’allargamento del campo politico a realtà sociali e locali in una chiara opposizione al Pd e alle politiche neo-liberiste. Prossime tappe: domenica prossima un’assemblea a Bologna; entro gennaio, un’assemblea sul «metodo» per provare a unire un mondo plurale e litigioso. In primavera, se non ci saranno elezioni politiche, chiedere l’indizione dei referendum per abrogare i voucher, i licenziamenti illegittimi e per tutelare i lavoratori degli appalti indetti dalla Cgil che ha raccolto milioni di firme.
Applicazione della costituzione e creazione di comitati per il «Sì» all’abrogazione del Jobs Act: queste sono le coordinate emerse da «ricominciamo da (no)i», un’assemblea che si è tenuta domenica scorsa a Roma, indetta dal raggruppamento delle liste civiche di sinistra «Le città in comune», «la politica di tutti», promossa da un appello sottoscritto tra gli altri da Giorgio Airaudo, Fabio Alberti, Maria Luisa Boccia, Stefano Fassina, Adriano Labbucci, Giulio Marcon, Sandro Medici. Un’alternativa alla proposta di Giuliano Pisapia (un’alleanza con il Pd di Renzi senza Verdini e Alfano) o al «centro-sinistra» con un Pd «derenzizzato».
Si parla di una «sinistra sociale», un’idea presente anche in soggetti diversi da quelli che si sono auto-convocati a Roma (e a Bologna). Fino a oggi non si è manifestata in un’opzione politica concreta. «Vige una schizofrenia tra la volontà di costruire dal basso un “soggetto politico di sinistra” e la coazione a ripetere degli accordi tra le nomenklature dei partiti» (Paolo Ferrero, Rifondazione). In questo risiko va aggiunta un’altra tessera: il sindaco di Napoli De Magistris. Il sindaco ha inviato un messaggio all’assemblea. Un altro lo invierà all’assemblea di Bologna. Nel mezzo del percorso ci saranno i congressi dei partiti della sinistra. «C’è bisogno di una nuova soggettività politica» sostiene Nicola Fratoianni. Per Stefano Fassina «la Costituzione è inconciliabile con i trattati Ue. L’euro svaluta il lavoro».
Prospettive, forse, diverse che si muovono in un mosaico di altri percorsi in atto nei movimenti e nei sindacati di base che hanno lanciato il «No sociale» negli scioperi e manifestazioni del 21 e 22 ottobre. «Vogliamo costruire uno spazio aperto e inclusivo – afferma Sandro Medici – C’è la spinta delle realtà locali e civiche che hanno vinto il referendum. Esiste una tensione sincera verso l’unità. Molte persone pensano alla sinistra come qualcosa che gli dà forza. Non vogliamo restare subalterni».
«Priorità ai più vulnerabili (minori non accompagnati, vittime di tratta e sfruttamento); ma attenzione anche ai figli dei migranti di prima generazione: possono essere il cemento per una matura società multiculturale».
il manifesto, 11 ottobre 2016
«Il dovere morale dell’accoglienza» di chi fugge dalle emergenze umanitarie, in memoria dei 24 milioni di italiani emigrati negli scorsi due secoli: questo il Manifesto dei sindaci italiani per l’accoglienza firmato dal presidente Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro, dal presidente del Consiglio Nazionale Anci e sindaco di Catania Enzo Bianco e, tra gli altri, dai colleghi di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Lampedusa.
Il documento è stato siglato ieri in Vaticano, a conclusione della due giorni di incontri tra 80 sindaci europei sull’immigrazione, promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze. Il summit si è svolto 48 ore dopo l’approvazione a Bruxelles, da parte del Comitato delle Regioni, del parere di Enzo Bianco sulla revisione delle regole di Dublino. No a un’Europa che rifiuta di affrontare in maniera strutturale le politiche sui migranti e basta alla logica dell’emergenza i punti da cui i sindaci sono partiti.
Occorrono «corridoi umanitari e programmi di reinsediamento – si legge nel manifesto – che permettano a chi fugge di raggiungere i nostri territori senza mettere a repentaglio la vita e senza arricchire i trafficanti. Oggi il 98% delle persone in fuga sono accolte fuori dai confini dell’Ue». I comuni chiedono una distribuzione «diffusa, per piccoli numeri, proporzionati alla popolazione residente. Sono questi fattori che permettono ai sindaci di essere costruttori di ponti e non di muri».
Priorità ai più vulnerabili (minori non accompagnati, vittime di tratta e sfruttamento) ma attenzione anche ai figli dei migranti di prima generazione: «Possono essere il cemento per una matura società multiculturale. Oppure, al contrario, diventare il punto di rottura per la convivenza di ragazzi con gli stessi bisogni ma con diritti e possibilità nettamente diversi». Infine, il documento chiede di riconoscere che le politiche economiche occidentali sono una delle cause delle crisi e quindi delle fughe. «Lavoriamo tutti con decisione perché nessuno sia escluso dall’effettivo riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana» ha scritto il papa via twitter.
LIl Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2016
Quella frase
l’ha ripetuta sei volte. In radio, in tv e sui giornali. Ed era una frase bella. Semplice. Rivoluzionaria. Era uno schiaffo in faccia alla vecchia politica. Era un concetto altruista e generoso.
Oggi, però, sappiamo che era fasullo. Matteo Renzi non lascia la testa del Partito democratico. «Se perdo troveranno un altro premier e un altro segretario», aveva scandito davanti alle telecamere di Virus. «Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce. «Vado a fare altro», aveva garantito a Radio Capital. «Io non sono come gli altri», aveva giurato al Messaggero. «Torno a fare il libero cittadino», aveva confermato a un Bruno Vespa troppo navigato per non essere perplesso.
Così, mentre nel nome di Renzi l’Italia prova a darsi un nuovo governo, sui taccuini dei cronisti resta solo quel crescendo rossiniano di promesse e spacconate destinato a segnare per sempre la sua carriera e le nostre vite.
Eppure, anche noi ci avevamo sperato. Dopo aver raccontato a una a una le contraddizioni di un presidente del Consiglio nato rottamatore e adesso destinato a morire restauratore, Renzi ci era piaciuto quando aveva affrontato a viso aperto la sconfitta. Il suo bel discorso d’addio a Palazzo Chigi di domenica 4 dicembre ci era sembrato il trampolino per un possibile riscatto. Quando avevamo letto i retroscena del giorno dopo, conditi da frasi che raccontavano i suoi dubbi e la sua voglia di lasciare, ci eravamo detti: “Dai, per una volta sorprendi tutti, prenditi davvero un anno sabbatico. Parti! Vai in giro! Scopri quell’Italia che non hai voluto e saputo vedere”. Pensavamo, o meglio ci illudevamo, che il molto sangue democristiano che scorre nelle vene dell’uomo di Rignano potesse portarlo a rileggere la storia di Amintore Fanfani, il Rieccolo di montanelliana memoria.
Renzi alla fine lo ha fatto. Ma ha sbagliato parte della biografia. Ha saltato a piè pari le pagine in cui si racconta come nel 1959 Fanfani, logorato dalla minoranza interna, si dimette da presidente del Consiglio e da segretario per tornare sulla scena, dopo mesi di auto-esilio e solitudine, non appena muore il governo Tambroni (appoggiato dal Msi). È in quel momento che Fanfani, assieme ad Aldo Moro inventa di fatto il centrosinistra e dà il via a una lunga stagione di produttive riforme: la scuola media, l’aumento delle pensioni, l’autostrada del sole, la Rai educativa e tanto altro. Poi c’è il secondo Fanfani. Quello a cui Renzi s’ispira.
C’è la parte di biografia che andrebbe bruciata e che invece Matteo, il giovane vecchio, divora. C’è il Fanfani che perde il referendum sul divorzio di 20 punti. Che crede di poter capitalizzare il 40 per cento ottenuto e che invece alle Amministrative del 1975 subisce una nuova débâcle. Una sconfitta che lo costringe ad abbandonare la segreteria.
Ovvio, la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Renzi non è Fanfani. Nessuno per ora lo chiama il Rieccolo. In molti invece lo definiscono il Bomba. È un peccato, però. Perché quel nomignolo cattivo, nato dalle troppe promesse non mantenute, poteva essere spazzato via di colpo con le doppie dimissioni: da premier e da segretario.
E invece resterà. Accantonato per sempre nell’archivio dei nostri ricordi assieme all’illusione di una politica finalmente in grado di cambiare verso.
Postilletta
E tornerà anche al Governo, travestito da Gentiloni Silveri
».
ilmanifesto, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)
Abbiamo evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai sovrani di turno.
I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla fosse accaduto.
C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.
Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.
Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti.
Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i fautori della riforma intendevano «cambiare».
È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.
Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.
Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata.
Se questo è il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili? Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.
La riforma sepolta voleva ridurre ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica e quella delle persone concrete. Se veramente vogliamo invertire la rotta non rimane che mettere in pratica le misure necessarie:
una legge elettorale che permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);
il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire);
nuove regole di discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza, dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti);
la limitazione dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire – sempre per via regolamentare – la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per limitare la decretazione d’urgenza);
la ridefinizione dei ruoli costituzionali del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase di attuazione della normativa da affidare ai governi);
la razionalizzazione dei rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato regionalismo solidale).
Questo è un primo incompleto elenco delle possibili innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa. Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore. Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso.
Il rilancio della cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni. Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra. Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie responsabilità. Soprattutto a sinistra.
La Repubblica, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)
Per prima cosa devo riconoscere l’assurdità della mia posizione. Probabilmente accettare un premio letterario è sempre un po’ assurdo, ma in tempi come questi non solo chi lo riceve, ma anche chi lo assegna sente inevitabilmente un certo imbarazzo per tutta la faccenda. Eppure eccoci qua. A occidente sorge il presidente Trump, sull’altro lato dell’oceano l’Europa unita tramonta oltre l’orizzonte: eppure eccoci qua, ad assegnare un premio letterario e a riceverlo.
Gli eventi dell’ 8 novembre hanno reso assurde così tante cose più importanti che esito a includere i miei scritti nell’elenco, e li cito solo perché la domanda che mi sento porre più frequentemente in questi giorni a proposito del mio lavoro mi sembra avere una certa attinenza con la situazione.
La domanda è: «Nei tuoi primi romanzi suonavi molto ottimista, ma ora i tuoi libri sono pervasi di sconforto. È effettivamente così? » . Normalmente viene fatta con un tono di smaniosità furbetta: è un tono che può riconoscere facilmente chiunque abbia sentito un bambino chiedere il permesso di fare qualcosa che in realtà ha già fatto.
A volte viene posta in modo molto più esplicito, per esempio: «Eri una paladina del multiculturalismo: non vuoi ammettere che ormai ha fallito?». Quando sento queste domande mi torna in mente che per certe persone essere cresciuti in una cultura omogenea in un angolo della provincia inglese (per esempio), o francese, o polacca, durante gli anni Settanta, Ottanta o Novanta, significa semplicemente essere stati vivi nel mondo, mentre essere cresciuti a Londra nello stesso periodo con (per esempio) dei musulmani pachistani nell’appartamento accanto, degli induisti indiani al piano di sotto e degli ebrei lettoni nella casa di fronte, è visto, da altri, come la prova di un esperimento sociale storico ben preciso, ormai screditato.
Naturalmente da bambina non mi rendevo conto che la vita che vivevo fosse considerata in qualche modo provvisoria o sperimentale da altri: pensavo che fosse semplicemente vita. E quando scrivevo un romanzo sulla Londra in cui ero cresciuta, non mi rendevo conto che descrivendo un ambiente in cui persone provenienti da posti diversi vivono in modo relativamente pacifico una accanto all’altra, mi stessi facendo “paladina” di una situazione che in realtà era sub judice e le cui condizioni da un momento all’altro potevano essere revocate.
Tutto questo per dire che ero molto innocente, all’età di ventun anni. Pensavo che le forze storiche che avevano portato la parte nera della mia famiglia dalla costa dell’Africa occidentale ai Caraibi attraverso la tratta degli schiavi, e poi in Gran Bretagna attraverso il colonialismo e il postcolonialismo, fossero solide e reali quanto le forze storiche che (per esempio) avevano epurato un paesino italiano di tutti i suoi ebrei, e in virtù della sua distanza fisica da Milano lo avevano mantenuto in larga parte bianco e cattolico negli stessi anni in cui il mio piccolo angolo di Inghilterra diventava razzialmente pluralista e multireligioso.
Pensavo che la mia vita fosse contingente quanto le vite vissute in un paesino di campagna italiano, e che in entrambi i casi il tempo storico si stesse muovendo nell’unica direzione in cui può muoversi: avanti. Non mi rendevo conto che mi facevo “paladina” del multiculturalismo semplicemente raffigurandolo, o descrivendolo altro che come una tragedia incombente.
Allo stesso tempo, non penso di essere mai stata così ingenua da credere, nemmeno a ventun anni, che le società razzialmente omogenee fossero necessariamente più felici o pacifiche della nostra semplicemente in virtù della loro omogeneità.
D’altronde perfino un ragazzino con la metà dei miei anni sapeva quello che si facevano tra loro gli antichi greci, e i romani, e gli inglesi del XVII secolo, e gli americani del XIX. Il mio migliore amico di quando ero giovane — ora mio marito — è originario dell’Irlanda del Nord, un posto dove persone che hanno lo stesso identico aspetto, consumano gli stessi cibi, pregano lo stesso Dio, leggono lo stesso libro sacro, indossano gli stessi vestiti e celebrano le stesse festività, hanno passato quattro secoli a farsi la guerra per una differenza dottrinale relativamente marginale che hanno lasciato trasformarsi in una diatriba a tutto campo su terra, sistema di governo e identità nazionale. L’omogeneità razziale non è in alcun modo garanzia di pace, così come l’eterogeneità razziale non è immancabilmente destinata a fallire.
In questi giorni mi sembra che una forma nostalgica di viaggio nel tempo sia diventata un tema politico persistente, sia a destra che a sinistra. Il 10 novembre il New York Times ha scritto che quasi sette elettori repubblicani su dieci preferiscono l’America com’era negli anni Cinquanta: una nostalgia che ovviamente una persona come me non può provare, visto che in quel periodo non avrei potuto votare, sposare mio marito, avere i miei figli, lavorare nell’università in cui lavoro o vivere nel quartiere in cui vivo. Il viaggio nel tempo è un’arte discrezionale: per qualcuno è un viaggio di piacere, per altri un racconto dell’orrore.
Allo stesso tempo, anche a sinistra c’è gente che coltiva fantasie di viaggi temporali, immaginando che gli stessi rigidi principi ideologici che un tempo venivano applicati a tematiche come i diritti dei lavoratori, il welfare e i commerci possano essere applicati senza variazioni a un mondo globalizzato di capitali fluidi.
Tuttavia, la domanda sul progetto fallito, applicata al minuscolo mondo irreale della mia narrativa, non è del tutto sbagliata. È abbastanza vero che i miei romanzi un tempo erano luoghi più solari, e che ora il cielo si è rannuvolato sopra i miei libri. Lo addebito in parte, semplicemente, all’esperienza della mezza età: Denti bianchi lo scrissi da bambina e ci sono cresciuta insieme. L’arte della mezza età è sempre indubbiamente più cupa dell’arte della giovinezza, e la vita stessa diventa più ombrosa. Ma sarei insincera se pretendessi che non c’è altro. Sono una cittadina, oltre che un’anima individuale, e una delle cose che la cittadinanza ci insegna, sul lungo periodo, è che non c’è nessuna perfettibilità nelle faccende umane. Questo fatto, ancora ignoto per una ventunenne, è un po’ più evidente agli occhi di una quarantunenne.
Come il mio caro, ben presto ex presidente, capiva bene, in questo mondo ci sono solo progressi incrementali. Solo persone ostinatamente cieche possono ignorare che la storia dell’esistenza umana è simultaneamente la storia della sofferenza: della brutalità, degli omicidi, delle estinzioni di massa, di venalità di ogni sorta e di orrori ciclici. Nessuna terra ne è esente, nessuna persona è priva di questa macchia di sangue, nessuna tribù è interamente innocente. Ma c’è sempre questa faccenda liberatoria dei progressi incrementali. Può sembrare piccola cosa a chi ha visioni apocalittiche, ma per una che fino a non molto tempo fa non avrebbe potuto votare, o bere dalla stessa fontanella dei suoi concittadini, o sposare la persona che voleva, o vivere in un certo quartiere, questi cambiamenti incrementali sembrano qualcosa di enorme.
E contestualmente il sogno di viaggiare nel tempo — per i nuovi presidenti, per i giornalisti letterari, per gli scrittori — è solo questo: un sogno. E un sogno che ha senso soltanto se i diritti e i privilegi che ti sono accordati in questo momento ti venissero accordati anche allora. Che alcuni uomini bianchi abbiano una visione più sentimentale della storia di chiunque altro, in questo momento, non è una gran sorpresa: i loro diritti e privilegi risalgono molto indietro nel tempo.
Per una donna nera l’estensione della storia vivibile è enormemente più breve. Che cosa sarei stata e che cosa avrei fatto — o più esattamente che cosa mi avrebbero fatto — nel 1360, nel 1760, nel 1860, nel 1960? Non dico questo per rivendicare il proscenio della vittima perfetta o dell’innocenza storica. So benissimo che i miei antenati dell’Africa occidentale vendevano e schiavizzavano i loro cugini e vicini tribali. Non credo in una qualunque identità politica o personale di pura innocenza e assoluta rettitudine.
Ma non credo nemmeno nei viaggi nel tempo. Credo nei limiti umani, non per un qualche sentimento di fatalismo, ma per una prudenza appresa, racimolata nella storia vicina e lontana. Non saremo mai perfetti: questo è il nostro limite. Ma possiamo avere, e abbiamo avuto, momenti di cui andare realmente orgogliosi. Io andavo orgogliosa del mio quartiere, della mia infanzia, nel lontano 1999. Non era perfetta, ma era ricca di possibilità. Se le nubi si sono addensate sulla mia narrativa non è perché quello che era perfetto si è rivelato vuoto, ma perché quello che stava diventando possibile — e milioni di persone vivono ancora come tale — ora viene negato come se non fosse mai esistito e non potesse mai esistere.
Mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essermi un po’ allontanata dalla felicità che dovrebbe giustamente accompagnare l’accettazione di un premio letterario. Sono molto felice di accettare questo grande onore, vi prego di non fraintendere la mia disposizione d’animo. Sono più che felice, sono stupefatta.
Quando cominciai a scrivere non avrei mai immaginato che qualcuno al di fuori del mio quartiere avrebbe letto questi libri, tantomeno fuori dall’Inghilterra, tanto meno “ sul continente”, come lo chiamava mio padre. Ricordo che ero sbalordita quando mi imbarcai nel mio primissimo tour europeo per la presentazione di un libro, in Germania, con mio padre che ci era stato per l’ultima volta nel 1945, come giovane soldato durante la ricostruzione. Per lui fu un viaggio colmo di nostalgia: aveva amato una ragazza tedesca nel lontano 1945 e uno dei suoi grandi rimpianti, ammise con me durante quel viaggio, era di non aver sposato lei ed essere invece tornato a casa, in Inghilterra, e aver sposato prima una donna e poi un’altra, mia madre.
Sicuramente sembravamo una strana coppia in quel tour: una giovane ragazza nera e il suo anziano padre bianco, che giravano con le guide strette in mano a cercare quei punti di Berlino che mio padre aveva visitato quasi cinquant’anni prima. È da lui che ho ereditato sia l’ottimismo che la disperazione, perché aveva partecipato alla liberazione del lager di Bergen-Belsen, e quindi aveva visto il peggio che il mondo ha da offrire: ma da lì in poi aveva saputo andare avanti, con un cuore e una mente sufficientemente aperti, lasciandosi dietro un matrimonio fallito e poi un altro, e sposandosi tutte e due le volte senza tenere conto delle varie barriere di classe, colore e temperamento, eppure continuava a trovare nella vita ragioni per essere allegro, perfino ragioni per essere felice.
Mi rendo conto adesso che era una delle persone meno ideologiche che abbia mai conosciuto: tutto quello che gli succedeva lo prendeva come un caso specifico, non era capace o non voleva ricavarne una generalizzazione. Perse il lavoro che gli dava da vivere, ma non perse la fede nel suo Paese. Il sistema scolastico lo aveva respinto, ma continuava a venerarlo e riponeva in esso tutte le sue speranze per i figli. Le sue relazioni con le donne sono state quasi sempre un disastro, ma non odiava le donne. Nella sua mente non aveva sposato una ragazza nera, aveva sposato “ Yvonne”; e non aveva un insieme sperimentale di bambini di razza mista, aveva me, mio fratello Ben e mio fratello Luke.
Quanto sono rare persone del genere! Non sono così ingenua da credere, neanche adesso, che in ogni periodo storico ce ne siano a sufficienza da formare una società decente e tollerante. Ma nemmeno voglio negare che esistano, o che non possano esserci vite come la sua. Era un membro della classe operaia bianca, un uomo spesso afflitto dalla disperazione, ma che riusciva comunque a conservare un ottimismo di fondo. Forse in un’epoca diversa, sottoposto a influenze culturali diverse, in una società diversa, sarebbe diventato uno di quegli uomini bianchi rabbiosi di cui la sinistra odierna è tanto impaurita. Ma così come stavano le cose, lui, nato nel 1925 e morto nel 2006, ha visto i suoi figli beneficiare delle tutele di civiltà del dopoguerra, l’istruzione e le cure mediche gratuite, e riteneva di avere molte ragioni per essere grato.
Questo è il mondo che ho conosciuto.
Le cose sono cambiate, ma il cambiamento non cancella la storia, e gli esempi del passato offrono comunque nuove possibilità per tutti noi, opportunità per ricostruire, a beneficio di una nuova generazione, le condizioni di cui abbiamo goduto noi. Né i miei lettori né io siamo più sulle alture relativamente soleggiate che descrivevo in Denti bianchi. Ma la lezione che ricavo da tutto questo non è che le vite di quel romanzo erano illusorie, semmai che il progresso non è mai permanente, che sarà sempre minacciato, che va raddoppiato, riaffermato e rimmaginato se si vuole che sopravviva. Non dico che sia facile. Non ho le risposte.
Per natura non sono portata alla politica, e questo politicamente è il periodo più oscuro che abbia conosciuto. Il mio mestiere, così com’è, concerne le vite intime delle persone. Quelli che mi interrogano sul “ fallimento del multiculturalismo” vogliono insinuare che non solo è fallita un’ideologia politica, ma gli esseri umani stessi sono cambiati e ora sono fondamentalmente incapaci di vivere insieme pacificamente a dispetto delle loro tante differenze.
In questa tesi è lo scrittore che fa la figura del bambino ingenuo, ma io sostengo che sono proprio le persone che credono in cambiamenti fondamentali e irreversibili della natura umana a essere antistoriche e ingenue. Se c’è una cosa che i romanzieri sanno è che i singoli cittadini sono plurali internamente: contengono in loro l’intera gamma delle possibilità comportamentali. Sono come spartiti musicali complessi, da cui è possibile estrarre certe melodie e ignorarne o sopprimerne altre, a seconda, almeno in parte, di chi è il direttore d’orchestra. In questo momento, in tutto il mondo — e più recentemente in America — i direttori di questa orchestra umana hanno in mente solo le melodie più grette e banali.
Qui in Germania probabilmente vi ricordate di questi canti marziali: non sono una memoria tanto remota. Ma non c’è posto sulla Terra in cui non siano stati suonati, in un momento o nell’altro. Quelli di noi che ricordano anche una musica più bella ora devono cercare di suonarla, e incoraggiare gli altri, se ci riusciamo, a cantare insieme a noi.
( traduzione di Fabio Galimberti)