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jam session senza nostalgia. Il crollo del Muro di Berlino sancisce la fine di un’epoca. Sull’eredità di quelle maccerie c’è ancora molto da indagare .Il fallimento del socialismo reale non coincide con il venir meno della necessità politica «del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». il manifesto supplemento-comunismo 1917- 2017, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Per un giornale che come il nostro ( ormai unico in Italia e raro nel mondo) si ostina a definirsi«quotidiano comunista», un grande convegno internazionale proprio a Roma che rilancia l’attualità dell’aggettivo,è buona cosa. Si terrà, iniziando niente di meno che nei locali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e proseguendo anche in altre sedi (il Cinema Palazzo e EscAtelier), dal 18 al 22 gennaio.

«Un’idea di comunismo» era stato il nome delle analoghe precedenti edizioni, pensate sopratutto da AlainBadiou e Slavoj Zizek: quella di Londra del 2009, poi di Berlino, di New York, di Seul. Questa di Roma è però speciale e infatti si chiama «Comunismo 17», perché sarà il primo evento di un centenario importante: quello della Rivoluzione d’ottobre. E già questo pone un primo interrogativo e non di poco conto: quando parliamo di comunismo in che rapporto lo poniamo con quella vicenda?

Si tratta di un problema che ha a lungo travagliato il movimento operaio e però è vero che negli ultimi decenni, dopo la fine dell’Urss, è stato rimosso, difficile rintracciare un interesse per il tema nelle generazioni maturate in questo secolo, facilmente reclutate dal pensiero dominante: che si sia trattato soltanto di un altro, forse il principale, orrore del XX secolo. La giudiziosa espressione usata da Berlnguer nel 1981, al momento della definitiva rottura con il Pcus l’ottobre ha perso la sua spinta propulsiva ma guai se non ci fosse stato ha finito, nel migliore dei casi, come sappiamo, per esser memorizzata solo a metà. ( Per la verità il ’17 è anniversario - 150 anni - anche del primo volume del Capitale, altro evento su cui chi si definisce comunista farebbe bene a meditare).

È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?

L’indeterminatezza del termine è antica, anzi originaria. Marx infatti non si è mai sognato di indicare un preciso modello di società comunista se non attraverso qualche idilliaca immaginazione di come avrebbe potuto essere la vita una volta sconfitta l’alienazione del lavoro. E proprio lui, così severo con i pasticcieri dell’avvenire, si lascia andare, nell’ Ideologia tedesca, a dire: «quel che vogliamo è un mondo dove sia possibile per tutti far crescere i bambini, arredare la casa, intrattenere gli ospiti, cucinare buoni pasti, fare e ascoltare musica».

In effetti sebbene un po’ troppo familista non è male come obiettivo. Giustamente Herbert Marcuse aveva conferito indirettamente al progetto una sua concretezza politica con le parole dette, nell’euforia del ’68: che l’evoluzione della società contemporanea, la dinamica della produttività, ha privato la nozione di utopia del suo carattere irrealistico. Se non si possono ottenere le cose che si vogliono, non è perché è impossibile, ma solo perché sono bloccate dai rapporti sociali di produzione del capitalismo.

Basta farli saltare, dunque. Sul perché non ci siamo ancora riusciti in realtà da tempo si è discusso poco, e temo non se ne discuterà molto nemmeno nella prossima conferenza romana: la riflessione critica e l’analisi storica sembrano essere oggi le più mortificate fra le attività cui i comunisti si sono dedicati, sebbene sia Marx che Lenin ci avessero abituato al contrario.

Perché credo che se dobbiamo indicare il senso vero della parola comunismo, fra i molti che possono esserle conferiti, il più appropriato resti quello usato da Marx stesso: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; e dunque conta l’esperienza storica, quella che ha coinvolto milioni di persone nel tentativo di uscire dal sistema capitalista e dalle sue miserie; quella che ha governato, nel bene e nel male, i più grandi paesi della terra, il fenomeno che ha forse più di ogni altro segnato l’intero secolo scorso. Un grande processo rivoluzionario, poi degenerato e sconfitto.

Su questo, prioritariamente, credo occorrerebbe riflettere seriamente tutti. È comunque merito del convegno in preparazione aver rilanciato l’ipotesi comunista, aver sdoganato il termine, contro la vulgata che ha finito negli ultimi decenni per relegarlo ad una variante del totalitarismo, un cumulo di macerie.

A renderlo di nuovo attuale sono stati i tempi più recenti, che hanno riportato all’odg in forma macroscopica i peccati del capitalismo, dimostrando la sua incapacità di garantire le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di umani. E hanno al tempio stesso reso più limpido il messaggio originario di Marx che si è sempre distinto da ogni altra critica «progressista» perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era insomma una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione) Ma «la maturità del comunismo», come noi de il manifesto nelle famose nostre tesi del 1970 indicammo come il nocciolo di quanto si manifestava nel nuovo movimento di critica della modernità capitalista, non va scambiato per attualità politica (anche allora ci fu chi lo interpretò in questi termini ).

Dal ’68 un tempo epocale è comunque passato: e per chi crede, come io credo, che non possa esserci un movimento capace di cambiare lo stato di cose presenti senza un soggetto collettivo e la capacità della politica di rappresentarlo coerentemente; che pensa che il drammatico impoverimento della democrazia non sia liberazione da una gabbia filistea ma il logorarsi del terreno più favorevole allo sviluppo di un lungo processo sociale, di cose da ripensare ce ne sono non poche.

Conquistare la società ancor prima del potere statale questo è stato il comunismo italiano, forse l’esperienza più ricca ancorché così travisata dalla sinistra anglosassone implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto. Non sarà il capitalismo nel suo divenire che produrrà di per sé il suo becchino. Meno che mai. Proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.

Tutte cose che si possono fare, naturalmente. Ha ragione il filosofo francese Alain Badiou quando dice che la scienza ci insegna che un successo è sempre preceduto da tanti fallimenti, perché questa è la ricerca. Sono anche convinta che il famoso sarto di Ulm, assunto da Bertold Brecht come apologo del comunismo, si è sì schiantato gettandosi dal campanile per dimostrare che l’uomo poteva volare, ma poi l’uomo ha effettivamente volato.

Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi. Dubito però che saremo molto convincenti se non sapremo dire ai nostri compagni di avventura di quali attrezzi avremo bisogno per non subire la stessa sorte del sarto.

Che ci si debba impegnare, evitando di farsi paralizzare da TINA (there is no alternative) il mostro del XXI secolo è fuori discussione. Resto convinta di quanto diceva Sartre: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche».

legge Sarkozy” e nascondono in casa uomini, donne e bambini diretti verso il nord Europa dando cibo, vestiti e una speranza. Nella valle degli angeli che accolgono i profughi “Noi qui li aiutiamo e rischiamo il carcere”». la Repubblica, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
Teresa è una giovane maestra di origine italiana. La sua prima volta è stata la primavera scorsa. «Ero in auto coi miei bambini. Ho incrociato la géndarmerie, poco dopo ho intravisto tre ragazzini nascosti dietro un albero. Terrorizzati». Ha accostato, aperto la portiera. «Presto, salite. Vi porto a casa». Li ha ospitati una settimana. «Mi chiamavano mamma, avevano 16 anni». Un mese più tardi i tre erano mille chilometri più lontano. Calais. «Un giorno mi hanno scritto su Facebook. Da Liverpool. Avevano raggiunto i parenti, ce l’avevano fatta». Da allora, Teresa ha accolto non meno di venti migranti. In questi giorni a casa ne nasconde due, fratello e sorella, eritrei, anche loro minorenni, entrati in Francia dopo essere sbarcati in Italia da qualche settimana. Poi c’è Thibaut, contadino. Lui ha cominciato un anno fa: «Anche io li ho trovati sulla strada, subito dopo il confine. Pioveva fitto. Avevano freddo, morivano di fame.
Lo sapevo che era un reato, che avrei dovuto segnalarli alla polizia: ma voi non avreste fatto lo stesso?». Gibì, pensionato, è stato arrestato venerdì scorso con altri 3 compaesani: rischiano 5 anni di galera e 35.000 euro di multa secondo la “legge Sarkozy”, che punisce chi agevola l’ingresso o la circolazione di immigrati irregolari. «Ne stavamo accompagnando un gruppo verso una stazione ferroviaria più sicura, ormai non potevano più restare lì dove li avevamo messi ». Josianne, allevatrice, racconta che è normale: «Qui nella valle è sempre successo: un secolo fa ospitavamo i migranti italiani che andavano a lavorare a Nizza, a Marsiglia. Una mia bisnonna ne sposò uno. Nel dopoguerra siamo stati noi, da sfollati, ad essere accolti a Torino. Partigiani dell’umanità. E la storia continua».
La storia della Val Roia, risalendo il fiume che sfocia a Ventimiglia nei pressi della frontiera. Sei piccoli Comuni francesi abbarbicati sulle montagne (Tenda, Briga, Saorge, Fontan, Sospel, Breil-sur-Roya) per meno di seimila abitanti in tutto, un’enclave aspra e solidale come questa terra. Che dal 2015, da quando sono ripresi i controlli alle frontiere, infischiandosene della legge e della possibile galera ospita nelle proprie case migliaia di persone.
Migranti. Uomini, donne, soprattutto minori che in attesa di chiarire la loro posizione non dovrebbero lasciare il Paese europeo dove sono stati identificati – l’Italia -, invece varcano comunque il confine in cerca di un’altra vita. Per evitare gli stretti controlli lungo i varchi a ridosso del mare, percorrono a piedi la Statale 20 parallela al fiume o se ne vanno per i binari del treno che viaggia verso Cuneo. E dopo cinque ore di cammino ecco la Francia, i boschi rocciosi delle Alpi Marittime, però non lontano dal Colle di Tenda e nuovamente dal territorio italiano, dove a volte nel loro disperato peregrinare finiscono per errore, sfortuna, destino. «Vado a Parigi ». «Londra». «Stoccolma».
I ragazzi li incontri a tutte le ore percorrendo la statale: si confessano con una ingenuità disarmante, un’insopprimibile luce di ottimismo nello sguardo. Per i gendarmi è un gioco prenderli, riportarli in Liguria. Ma il giorno dopo ec- co che tornano a camminare verso nord, cocciuti. Fino a quando non passa qualcuno come Teresa, Thibaut, Gibé, Josianne. Qualcuno che li nasconde, li cura, li sfama, dà loro vestiti e nuova speranza. Per un paio di settimane al massimo. In qualche modo, quelli della valle riescono poi a farli salire su di un treno diretto verso la capitale. «E dopo, si vedrà».
Cedric Herrou, che vive a Breil, è diventato il simbolo della valle. L’altra settimana il tribunale di Nizza lo ha condannato a 8 mesi con i benefici di legge. Per “trasporto di migranti” che aveva anche ospitato nella sua cascina. «Continuerò a farlo. Cioè, a fare il mio mestiere: l’agricoltore, quello che dà da mangiare alla gente. Senza preoccuparsi del colore della pelle o dei documenti».
Nello stesso giorno è stato assolto un professore universitario di Nizza, Pierre- Alain Mannoni, che a sua volta aveva dato un passaggio dal Roia oltre la frontiera a tre giovani eritree: «Il giudice ha citato la convenzione dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che era un mio dovere aiutare delle persone in pericolo ». Però la Procura ha presentato appello. Qualche ora più tardi, a Sospel, la polizia ha fermato 3 auto con a bordo 9 migranti (ma una è riuscita a passare): Gibì e Dan, più due amici, sono stati fermati. Gli stranieri che erano con loro, rispediti in Italia. «Siamo stati rilasciati dopo 24 ore. E nel frattempo alcuni dei ragazzi erano già di nuovo dalle nostre parti».
In questa regione, Provenza- Costa Azzurra - si vota l’ultradestra. Ma non nella Val Roia e meno che mai a Saorge, la “rossa”. Le notizie degli arresti – e qualche delazione, dicono, perché c’è sempre una pecora “nera” – non hanno spaventato nessuno, anzi. “Roya Citoyen”, associazione che distribuisce alimenti e vestiti ai rifugiati – assicurando ogni giorno 200 pasti a chi è rimasto a Ventimiglia – ha cominciato a ricevere aiuti da tutta la Francia. E altri ancora aprono la porta di casa.
«A volte accade che in famiglia non si sia tutti d’accordo. Allora, quando il marito in quel momento non c’è, ecco che la moglie ospita qualcuno, o viceversa. Tanto, il coniuge che torna non ha mai il coraggio di mandarli via», spiega Elisabetta. Che non ha paura a parlare, o a farsi fotografare. «Non mi interessa la politica, non faccio parte di movimenti. Come gli altri, non ho una soluzione per quello che accadrà domani. Ma so che devo fare qualcosa per questi ragazzi. Ora. E non credo proprio di violare la legge, anzi. L’umanità non è un delitto».
«Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali». il manifesto, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Forse è possibile scrivere un nuovo pezzo di Storia con i referendum sul lavoro, nonostante la Consulta abbia ridotto l’effetto dei referendum sul lavoro.

Infatti, i diritti e le tutele sono legate alla Storia, più precisamente alle rivendicazioni e alle lotte dei soggetti sociali. Rimane la proposta di legge della Carta dei diritti che non è meno importante del referendum sull’Art. 18. Sebbene le libertà civili siano iscritte nelle costituzioni, è il caso di ricordare che queste libertà sono figlie della maturità del movimento dei lavoratori salariati.

Se consideriamo l’evoluzione dello Stato liberale, possiamo ben comprendere questo processo. Ricordo l’importante contributo offerto dall’economia pubblica e dall’economia del benessere. Il così detto Stato liberale, infatti, nel tempo (Storia) ha fatto propri i diritti di «II generazione, mentre l’economia mista è (era) l’approdo naturale per chiunque volesse coniugare mercato e diritti.

Bobbio è il maestro indiscusso della classificazione dei diritti sociali di seconda generazione. Si tratta di diritti il cui nucleo centrale è rappresentato dalla richiesta dei cittadini allo Stato di godere di beni e servizi sociali tramite tassazione (necessariamente elevata in tutti gli stati sociali). Il diritto, quindi, evolve fino a contemplare figure e oggetti che con il passare del tempo diventano sempre più stringenti. Bobbio ricorda che la crescita del diritto è figlia della maggiore consapevolezza delle persone e delle associazioni (sociali). Lo stesso approccio vale per i diritti del lavoro di II generazione, ancorché condizionati dalla vulgata liberista che intende ripristinare, come fondamento delle relazioni sociali, il solo diritto di prima generazione (proprietà).

Chi si ostina a reclamare la libertà dell’individuo, in realtà reclama la libertà delle imprese, dimenticando che financo l’Europa (Trattato di Lisbona) pone dei vincoli all’individuo. Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali.

Gli standards Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) relativi al diritto del lavoro – l’Italia ha sottoscritto tutte o quasi tutte le sue convenzioni – chiariscono che il lavoro deve essere decente e produttivo, e deve essere svolto in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità. L’Ilo pone anche dei vincoli che i detrattori dei referendum rimuovono con troppa semplicità: la stabilità del posto di lavoro, salari dignitosi, libertà sindacali, contrattazione collettiva e, in particolare, nessuna discriminazione di razza, colore, sesso, religione o idee politiche.

Il tema della democrazia nei luoghi di lavoro non evapora con la sentenza della Consulta. Deve essere la politica a trovare una soluzione a questo tema. Infatti, il concetto di Mercato del Lavoro è soggetto a forte critica. Esistono due tipi di approcci: economico e sociologico. Riprendendo Solow, «esiste nelle scienze economiche un’importante tradizione, attualmente dominante, soprattutto in macroeconomia, secondo la quale il mercato del lavoro è, da tutti i punti di vista, eguale a qualunque altro mercato.

Ma, tra economisti, non è per nulla ovvio che il lavoro sia un bene sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un differente metodo di analisi». Non dobbiamo mai dimenticare che il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.

Ecco perché il diritto del lavoro si configura come diritto «diseguale», cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere. Il diritto del lavoro non ha come finalità primaria la crescita. Può favorirla alla sola condizione di riequilibrare il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro.

La politica, dopo la sentenza, deve ri-costituire la base del nostro ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione), così come i fondamenti della società civile. Nessuno pensi di avere scampato un pericolo.

«La buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico».

Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2017

In un’epoca che premia i politici che parlano di pancia e alla pancia, Giuseppe Laterza sembra fuori fase. Dire che “la cultura ci rende cittadini migliori” non garantisce popolarità. Proprio per questo è da lui che bisogna partire per capire dove si può trovare una classe dirigente per questo Paese. Alla fine la crisi della politica sta tutta lì: la parabola del renzismo è stata così rapida perché si reggeva sui compagni di scuola di Matteo Renzi. A Roma il Movimento 5 Stelle arranca soprattutto perché privo di un personale politico all’altezza delle sfide che ha davanti. Le elezioni non sono lontane e bisogna rispondere in fretta a una domanda: come si trova una classe dirigente adeguata?

Giuseppe Laterza, la caduta di Matteo Renzi e del suo Giglio Magico, poi le disavventure dei Cinque Stelle a Roma e Bruxelles sembrano avere un tratto in comune: c’è il potere, ma non la classe dirigente per amministrarlo.
«Oggi la politica è spesso ridotta a mera comunicazione, oppure a competenza. Se è così, il massimo che si può sperare è di ritrovarsi con un sindaco iperbolico come Luigi De Magistris o ‘pragmatico’ come Giuseppe Sala. Ma la buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico, bisogna definire i propri valori di riferimento».

Se non basta la competenza, la risposta è la cultura?
«Non ci si può fermare ai trattati di management o ai manuali fai da te. Chi ha le responsabilità della classe dirigente deve leggere anche Zygmunt Bauman e Amartya Sen, Tony Atkinson e Tony Judt. La cultura è dubbio metodico, ti spinge a mettere tutto in questione continuamente, così si prendono anche meno cantonate. Questa è la cultura che manca alla nostra classe dirigente».

Bauman e Amartya Sen insegnano a governare Roma?
«Se sei un grande amministratore delegato o il direttore di un ospedale, sono proprio quelle letture non direttamente legate alla tua competenza che si rivelano essenziali per compiere le scelte importanti. Altrimenti non c’è differenza con l’idraulico. Purtroppo, i nostri manager leggono poco, quasi solo fiction».

Primo punto: più libri.
«Piero Calamandrei, in un articolo del 1953 sul Ponte scriveva che ‘tutte le società sono di élite, anche la democrazia, che però a differenza delle altre deve essere aperta, contendibile, tutti i governati che ne hanno la capacità devono poter diventare governanti’. Capacità morali, tecniche e intellettuali che si iniziano a sperimentare a scuola, come ripeté per tutta la vita Tullio De Mauro».

Anche se in Italia i lettori sono pochi rispetto a Germania o Svezia, di gente con alti consumi culturali ce n’è parecchia.
«Sono i 2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre, i giovani che trovi a migliaia negli incontri del Festival di Internazionale a Ferrara. Ma i loro numeri di telefono non sono in quella rubrica di 4-5.000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire il potere. Questa di cui parlo, è una élite potenziale che non coincide (se non in minima parte) con i parlamentari, con gli amministratori pubblici ma neanche con i manager privati».

E quindi?
«Bisogna che si faccia sentire, che prenda il potere. Il primo punto è riconoscere la propria esistenza, smettere di piangersi addosso. Finora ci siamo detti ‘siamo pochi, non contiamo niente’. Non è vero. In tutti i Paesi c’è una minoranza che guida la maggioranza. Questa élite può essere aperta o chiusa: l’élite chiusa si illude di stare in un fortilizio che invece è pieno di crepe ormai evidenti a tutti. E in Italia è rassicurata da una casta giornalistica, che spesso non conosce altro che il linguaggio della politica italiana e che insorge invece contro Vivendi dimenticando Alitalia, con opinionisti muti di fronte al tentativo di trattare Mediaset come patrimonio nazionale».

Pensa a qualche forma di mobilitazione come i girotondi negli anni di Berlusconi?
«Il mio compito non è certo quello di organizzare i girotondi, ma credo che le idee debbano passare anche attraverso la politica e la rappresentanza. Ci sono persone che hanno provato a farsi sentire nella politica italiana ma sono rimaste ai margini. Possono ancora essere protagoniste, con il sostegno della società civile: la stampa, le case editrici, le infinite associazioni, incluse quelle di categoria che hanno grandissime responsabilità nell’aver avanzato soprattutto ragioni di corporativismo. La leadership deve venire da tanti punti della società».

Qual è il suo ruolo di editore?
«Diffondere le buone idee e farle diventare senso comune. Lo si può fare con i libri ma anche in tanti altri modi, online e offline, ad esempio nei festival come in quello del diritto di Stefano Rodotà o dell’Economia di Tito Boeri o con le lezioni di storia. Pensi all’idea di società liquida di Bauman che dai suoi libri è diventata senso comune, fino al punto che ormai la si cita (anche a sproposito) indipendentemente dall’autore. Quest’anno vorrei organizzare incontri con i lettori forti ma anche con professionisti, imprenditori, commercianti. Per convincerli che investire in cultura cambia un Paese: dove si leggono più libri si fa più raccolta differenziata e prevenzione sanitaria…»

C’è una responsabilità di questa classe dirigente potenziale nel non aver accompagnato l’ascesa dei M5S, lasciando in balia della propria inesperienza?
L’establishment intellettuale ha bollato i Cinque Stelle con il marchio dell’infamia. E questo è un atteggiamento sbagliato. Come ha scritto ieri Travaglio, a Torino la società civile ha cooperato con Chiara Appendino e questo mi sembra un bene. Io posso essere del tutto in disaccordo con quanto dice Grillo, ma non posso ignorare che i suoi elettori, secondo i dati raccolti da Ilvo Diamanti nel libro Salto nel voto sono i più giovani, professionalmente attrezzati e scolarizzati.

Se il M5S fallisce, cosa c’è dopo Grillo?«Grillo non ha mai detto a nessuno di sfasciare le vetrine. Ma non è detto che non si arrivi a quello, quando il sentimento di esclusione raggiungerà il punto di non ritorno. Ma non succederà se sapremo fare la rivoluzione pacifica della cultura».

Nelle comunità migranti nel nostro continente le potenzialità per la rinascita di Africa e Medio Orientee per rendere concreta una strategia di pace nel mondo. Respingimenti e xenofobia alimentano invece il terrorismo». il manifesto, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Fermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento.

Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità.

L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.

C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo.

La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.

L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi.

Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange.

E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…

Riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.

I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.

«Libri in uscita, progetti, citazioni Il lascito del sociologo celebrato sul web come una popstar. Il nuovo saggio racconterà i pericoli di un’utopia che torna al passato e fugge il presente.“

Retrotopia” la sua ultima parola».la Repubblica, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Con Bauman l’intellettuale è sceso dalla torre d’avorio e si è mischiato alla gente. All’indomani della morte del grande sociologo polacco i social network sono tutti per lui, quasi si trattasse di una popstar. Nella Rete navigano frasi estrapolate da interviste, citazioni dai libri, video di conferenze. I temi sono la solitudine, l’amore, l’esclusione, la paura, la felicità, il futuro. Temi che appartengono a tutti e che Bauman ha saputo intercettare e approfondire.

La “liquidità” c’è ma scorre, si dissolve tra gli altri, come è naturale che sia. «Non è mai stato un contabile delle idee. Era pieno di curiosità. Gli interessavano tutti i fenomeni nuovi, non era il maestro che si mette su un piedistallo, amava mescolarsi. Ma non esistono grandi intellettuali che non dialoghino con la società». Giuseppe Laterza ha pubblicato con la sua casa editrice più di trenta titoli di Zygmunt Bauman e venduto oltre 500 mila copie.

Il primo saggio tradotto è stato Dentro la globalizzazione,l’ultimo è atteso per settembre ed ha per titolo un neologismo, Retrotopia, cioè l’altra faccia dell’utopia, quella che guarda al passato e non al futuro, che rischia di tornare indietro invece di andare avanti, che si illude di fuggire il presente trovando riparo in un’indistinta età dell’oro.

Il testo, che uscirà a fine gennaio in inglese per la Polity Press, parla dei problemi di oggi, della tentazione a far rinascere le frontiere degli stati nazionali o della tendenza ad affidarsi alla leadership dell’uomo forte. È articolato in più tempi (il ritorno a Hobbes, il ritorno alle tribù, il ritorno all’ineguaglianza e quello al ventre materno) ed è un ulteriore modo per rileggere la tensione tra individualismo e cultura comunitaria: «Proprio questa tensione – spiega Laterza – è alla base del successo di Bauman in Italia, un Paese dove la società, la comunità, ha ancora un peso».

Poi i ricordi si mescolano ai libri, la vita vera a quella indagata con le categorie della sociologia. Non c’è nessuno, tra amici o compagni di lavoro, che non abbia aneddoti da raccontare. Laterza ricorda il giorno che Bauman volle partecipare a un’asta su Internet per l’acquisto di un iPhone o la volta che a Trento preferì salutare tutti dopo una conferenza per finire a mangiare una pizza con un suo lettore sconosciuto. Così le due eredità si confondono, intellettuale e umana, riuscendo nel miracolo raro di incarnare un intellettuale che non tradisce nella vita ciò che afferma nella scrittura.

«Non è un caso – aggiunge Laterza – che tutti i suoi libri inizino raccontando una storia. Bauman non è un pensatore sistematico, parte sempre da frammenti, spunti concreti, dalla vita. Anche papa Francesco ha parlato di vite di scarto, mutuando l’espressione da un suo libro».

A chiedere in giro nessuno sa indicare un intellettuale che possa prenderne il posto. Bauman non ha avuto una scuola, è stato il sociologo europeo per eccellenza, sicuramente quello più di successo. Citato, rimaneggiato, saccheggiato, amato e anche odiato. Da Modernità liquida in poi – era il 2000 – ha fornito una categoria impareggiabile con cui leggere le dinamiche dei nostri tempi e un po’ ne è rimasto prigioniero, come sempre accade quando un concetto si trasforma in brand.

Chiara Saraceno, sociologa che con Bauman ha in comune molti temi, dalla povertà alla famiglia, non ama ricordare Bauman come sociologo della liquidità: «Il concetto di società liquida è stato abusato, diventando una specie di passepartout. Credo invece che a rimanere sarà la sua capacità di sollevare domande importanti, di vivere la tensione del presente, l’attrito tra l’emergere dell’individualità e la perdita delle appartenenze collettive, dalla famiglia al partito alle identità professionali».

Senza dubbio Bauman aveva le antenne vigili sul mondo, sulle diseguaglianze, le derive della globalizzazione. Vanni Codeluppi, professore di sociologia dei media allo Iulm di Milano, individua nella capacità di indagare il presente la sua eredità: «Si è occupato di lavoro, migrazioni, crisi sociali, olocausto, lavoro, libertà. Una marea di temi, perfino dei reality show, della moda e dei social network. Il suo lascito non è in un concetto, né nella riduttiva categoria della liquidità, ma in questa moltiplicazione di interessi, nello sguardo critico attento ai mutamenti della società, senza paura di metterne in luce gli aspetti negativi».

E senza temere di sconfinare in altri territori. Sempre a settembre uscirà per Einaudi Elogio della letteratura, scritto con Riccardo Mazzeo, in cui convivono psicoanalisi, narrativa e sociologia. Spiega Mazzeo: «Per Bauman la sociologia si era ossificata, i sociologi non andavano più a vedere cosa c’era fuori, avevano perso interesse nell’uomo». Bauman ha saputo parlarci della paura quando stavamo avendo paura, dell’amore quando faticavamo a crederci, degli esclusi quando non volevamo vederli. Dice Codeluppi: «Poteva sembrare un po’ moralistico, ma non vedo eredi in giro. Era rimasto il solo a saper individuare quali sono i problemi delle persone comuni». Per questo amava frequentare i festival, almeno quanto le aule universitarie.

«Domani i giudici costituzionali decidono sull'ammissibilità del referendum sull'articolo 18. La scelta incrocia quella del 24 gennaio sulla legge elettorale e può favorire la fine anticipata della legislatura». il manifesto, 10 gennaio 2017

La Corte costituzionale è più che mai al centro delle vicende politiche italiane, ma questa volta è difficile per tutti accusare i giudici delle leggi di supplenza o indebita ingerenza. Tanto per cominciare perché la Consulta è chiamata a pronunciarsi a stretto giro (domani e il 24 gennaio) su due prodotti del riformismo precipitoso di marca renziana: il Jobs act, varato dal governo senza tener conto delle osservazioni delle commissioni parlamentari, e la legge elettorale, imposta alla camera con tre voti di fiducia. E poi travolta dalla vittoria del No al referendum costituzionale.

Proprio il parlamento e i partiti da oltre due mesi trascurano il dovere di scegliere un nuovo giudice costituzionale – Frigo si è dimesso a novembre – e, curiosamente, le camere cominceranno lentamente a occuparsene proprio domani pomeriggio, con una seduta convocata qualche ora dopo la camera di consiglio della Corte sui referendum Cgil. La seduta parlamentare produrrà una fumata nera e anche la decisione del 24 gennaio sull’Italicum sarà presa da una Consulta incompleta, 14 componenti e non 15, con la teorica possibilità di un pareggio – in questo caso il voto del presidente Grossi pesa per due. Il giudice mancante spetterebbe a Forza Italia (come l’uscente Frigo) che è già stata penalizzata dall’ultima tornata di nomine parlamentari, ma Renzi quando ha avuto bisogno del sostegno dei giuristi alla sua riforma costituzionale non ha lesinato promesse; l’esito non può dirsi scontato.

Nella Corte che dovrà decidere domattina dell’ammissibilità dei tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil, sono stati da tempo individuati due schieramenti. Esclusivamente però sul referendum più «pesante», quello per il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, affidato alla relatrice Silvana Sciarra considerata favorevole all’ammissione, mentre contrari sarebbero i giudici nominati dalle supreme magistrature e soprattutto l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.

Ci sono argomenti per ognuna delle due tesi; se certamente pesa il precedente del 2003 quando la Consulta ammise un referendum (proposto da Rifondazione comunista) che estendeva l’applicazione dell’articolo 18 senza limiti di dimensione dell’azienda, dunque in misura più larga dell’attuale proposta Cgil, è vero che proprio l’individuazione di un tetto (cinque dipendenti come nel quesito avanzato adesso del sindacato) può essere valutata come finalità «propositiva», inammissibile, del referendum. Nessun dubbio invece sull’ammissibilità degli altri due referendum, quello sull’abolizione dei voucher (relatore il giuslavorista di area cattolica Prosperetti) e quello sulla responsabilità solidale in materia di appalti (relatore il magistrato civilista di Cassazione Morelli).

Naturalmente nelle valutazioni politiche, non estranee al lavoro dei giudici costituzionali, la decisione di domani si lega a quella attesissima del 24 gennaio. Perché se l’ammissione del referendum sull’articolo 18 potrebbe essere vista come un’accelerazione verso le elezioni anticipate, una bocciatura minima o massima dell’Italicum potrebbe confermare o smentire questa tendenza. In caso di ammissione, infatti, il governo non potrebbe aspettare oltre la metà di febbraio per convocare le urne referendarie tra metà aprile e metà giugno. A quel punto, secondo il noto assunto sfuggito al ministro del lavoro Poletti, per evitare una nuova sconfitta referendaria, il Pd renziano non avrebbe altro mezzo che lo scioglimento anticipato delle camere (per legge il referendum viene rinviato di un anno).

Avendo già sperimentato l’inerzia del governo Gentiloni, Renzi potrebbe cioè sperare nell’azzardo. Avrebbe però bisogno di una seconda sentenza favorevole della Consulta, una bocciatura assai limitata dell’Italicum, che tenesse in vita il sistema elettorale maggioritario cancellando solo le pluricandidature bloccate e il ballottaggio. A quel punto il sistema uscito dall Consulta potrebbe essere abbastanza velocemente esteso al senato, come già chiedono di fare i 5 Stelle. Magari approfittando del lavoro di «armonizzazione» tra le due camere per riportare il premio di maggioranza in testa alle coalizioni, com’è adesso previsto per il senato.
Ciò che siamo, ciò che non siamo, ciascuno di noi e tutti insieme. Un testo in ricordo del grande pensatore scomparso.

la Repubblica, 10 gennaio 2017

«Testo tratto da In Praise of Literature (“ Elogio della letteratura”), firmato da Zygmunt Bauman con Riccardo Mazzeo, edito da Polity Press, e che uscirà in Italia da Einaudi Traduzione di Anna Bissanti».

Che si tratti di Katy Perry o di Marcel Proust o Lacan che hanno qualcosa di importante da dire sulle premesse inconsce della loro consapevolezza - o di voi e di me; a prescindere da ciò che noi tutti e ognuno di noi veda, pensi di vedere o creda di stare vedendo, e a prescindere da qualsiasi nostro comportamento conseguente, ogni cosa è sempre intessuta in un discorso.

Di fatto, noi mangiamo discorsi, beviamo discorsi, guardiamo discorsi. Il discorso è ciò di cui siamo fatti. Ed è a causa del discorso e della sua intrinseca necessità di dover guardare al di là dei confini che esso impone alla propria libertà che il nostro stare-al-mondo è un processo di perpetuo divenire - eterno e infinito. Il divenire insieme, il mescolarci, l’essere intrinsecamente, inseparabilmente intrecciati e avvinti, condividendo i nostri rispettivi successi e insuccessi, congiunti gli uni agli altri nel bene e nel male, dal momento del nostro simultaneo concepimento finché morte non ci separi...

Ciò che chiamiamo “realtà” quando cadiamo in uno stato d’animo filosofico, o “dati di fatto” quando seguiamo le opinioni correnti, sono entrambi intessuti di parole. Commentando nel suo libro Un incontro la storia di un vecchio di Juan Goytisolo, Milan Kundera fa notare che la biografia - qualsiasi biografia che tenti di essere ciò che il suo nome suggerisce che debba essere - altro non è che una logica artificiale, artefatta, imposta retroattivamente a una successione poco precisa e incoerente di immagini, sovraccarica di spezzoni di ricordi.

Kundera conclude che, in netta contrapposizione con gli assunti del buonsenso, il passato condivide col futuro l’insanabile flagello dell’irrealtà. Eppure, proprio questa irrealtà è l’unica realtà che dobbiamo afferrare e possedere, «vivendo nel discorso come pesci nell’acqua». Questa realtà irreale, fin troppo irreale, la chiamiamo “esperienza”. Ci sforziamo di penetrare attraverso il muro fatto di parole. Paradossalmente, però, quel muro è l’interpretazione.

L’interpretazione è sempre un atto di re-interpretazione; la reinterpretazione è sempre una testa di ponte verso un’altra reinterpretazione. Quella che chiamiamo a priori e anche a posteriori “realtà” può arrivare a noi soltanto nell’involucro delle pre-interpretazioni. Una realtà “cruda”, “pura” e “assoluta” — di fatto non deformata — è un fantasma.

Eppure utile, almeno finché sarà per noi una sorta di stella di Betlemme che, sistematicamente irritata dall’accecante imperfezione del linguaggio, ci indica comunque la strada verso la perfezione linguistica e così, o almeno si spera, verso la verità. La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare.

«». il manifesto, 10 gennaio 2017 (c.m.c.)

Se non mi sbaglio l’unico maschio di sinistra che ha detto qualcosa a proposito della manifestazione delle donne contro la violenza del 26 novembre scorso è stato Guido Viale.

Non concordo con tutte le sue affermazioni, in particolare l’idea che ciò che può unire uomini e donne per «un pezzo di strada» sia una comune reazione ai «ricatti» capitalistici e patriarcali. Certo la trasformazione spesso è prodotta da un negativo a cui ci si ribella.

Ma la vera molla dei movimenti femminili e femministi mi sembra essere il desiderio di libertà. Qualcosa di smisuratamente affermativo, positivo. In fondo è stato così anche per i momenti migliori dell’universo maschile, quando è stato detto: «gli ultimi saranno i primi», oppure: «abbiamo da perdere solo le nostre catene, e un mondo da guadagnare…».

Viale però ha colto in quel gesto politico femminile qualcosa di fondamentale, molto evidente ma sistematicamente «non visto», come la lettera rubata di Poe.

Se guardiamo bene vediamo anche che dagli incontri e dalle assemblee che hanno accompagnato quel No alla violenza maschile sono scaturiti numerosi obiettivi di trasformazione politica e sociale. Un Sì per un altro mondo possibile.

Per esempio la rivendicazione di un salario minimo europeo, e di un reddito chiamato non per caso di «autodeterminazione». Vedendo tante e tanti giovani colti e appassionati alle prese con la mancanza cronica di lavoro stabile le mie vecchie opinioni trentiniane contro ogni forma di salario garantito hanno vacillato. E ho ripensato a un’idea già abbozzata in altre occasioni.

Se alcune delle «emergenze» maggiori oggi sono la condizione giovanile, l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, l’assenza di interventi pubblici seri per sostenere la coesione sociale, il degrado del territorio (urbano e no), forse si potrebbero affrontare con un unico disegno, una sorta di patto tra generazioni e tra sessi.

Lo stato assicuri un «reddito di autodeterminazione» a ragazzi e ragazze. Chieda in cambio la partecipazione a un servizio civile di cura che abbia due obiettivi fondamentali: favorire l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri che vengono qui per sopravvivere e per vivere decentemente, recuperare le aree urbane degradate (paesi disabitati, periferie dimenticate) e i territori a rischio idrogeologico. Le due cose possono essere strettamente connesse, e già avviene nelle esperienze migliori, come a Riace (ne ha parlato sul manifesto anche Alberto Ziparo). Un anno di questo impegno può essere anche finalizzato a obiettivi concreti di formazione professionale e di lavoro.

Il servizio civile di cura secondo me dovrebbe essere obbligatorio per gli uomini (come una volta il servizio di leva) e facoltativo per le donne. Sarebbe un riconoscimento simbolico importante da parte maschile, giacché all’«altra metà del cielo» continua a competere la scelta di metterci tutti al mondo, e comunque non ci sdebiteremo mai del tutto di tutto il lavoro di cura assicurato dalle donne.

Costerebbe troppo? Non lo so, ma direi che sarebbe una spesa necessaria, irrinunciabile, e in prospettiva del tutto ripagata. Queste spese – come propongono alcune economiste – dovrebbero essere considerate a tutti gli effetti «investimenti produttivi», e non pesare sui bilanci pubblici ai fini del «fiscal compact».

Mi piacerebbe sapere che ne pensa non solo Guido Viale, con altri maschi di sinistra, ma anche il ministro Marco Minniti (una volta eravamo buoni compagni di partito…).

la Repubblica online, il manifesto, Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2017 (p.d.)

la Repubblica
E' MORTO ZYGMUNT BAUMAN
di Antonello Guerrera

E' morto oggi il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, all'età di 91 anni. La notizia è stata data dal quotidiano Gazeta Wyborcza. Con la sua morte, se ne va uno dei massimi intellettuali contemporanei, tra i più prolifici e attivi fino agli ultimi momenti della sua vita.

La società liquida. Bauman, nato a Poznan in Polonia nel 1925, viveva e insegnava da tempo a Leeds, in Inghilterra, ed era noto in tutto il mondo per essere il teorico della postmodernità e della cosiddetta "società liquida", che ha spiegato in uno specifico ciclo della sua produzione saggistica, dall'"amore liquido" alla "vita liquida". Per Bauman, infatti, il tessuto della società contemporanea, sociale e politico, era "liquido", cioè sfuggente a ogni categorizzazione del secolo scorso e quindi inafferrabile. Questo a causa della globalizzazione, delle dinamiche consumistiche, del crollo delle ideologie che nella postmodernità hanno causato uno spaesamento dell'individuo e quindi la sua esposizione brutale alle spinte, ai cambiamenti e alle "violenze" della società contemporanea dell'incertezza, che spesso portano a omologazioni collettive immediate e a volte inspiegabili per esorcizzare la "solitudine dell'uomo comune", come si chiama uno dei suoi lavori più celebri.

L'accoglienza e i migranti. Un altro tema fondamentale del pensiero di Bauman, uno degli intellettuali più aperti al confronto umano e all'interazione con la viva realtà, era il rapporto con "l'altro" e dunque anche con lo straniero. Soprattutto durante le ultime crisi migratorie che hanno coinvolto l'Europa dopo le primavere arabe e la guerra civile in Siria, Bauman è stato sempre un intellettuale in prima linea a favore dell'accoglienza dei profughi e dei migranti scappati dall'orrore. Detestava la nuova Europa dei muri e del razzismo, nuova perversione della società contemporanea spaventata dalla perdita di un benessere fragile e anonimo e preda di un "demone della paura" sempre più ingombrante. Fondamentale, in questo senso, è stato il suo "Stranieri alle porte" (ed. Laterza). "Un giorno Lampedusa, un altro Calais, l'altro ancora la Macedonia", notava in una recente intervista a Repubblica. "Ieri l'Austria, oggi la Libia. Che 'notizie' ci attendono domani? Ogni giorno incombe una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di stanchezza della catastrofe".

"La terra desolata". A questo proposito, Bauman aggiungeva: "Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in 'stanze insonorizzate' non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi".

Dalla Shoah al consumismo. Di origini ebraiche, Bauman difatti si salvò dalla persecuzione nazista scappando in Unione Sovietica nel 1939, dove si avvicinò all'ideologia marxista. Dopo la guerra tornò in Polonia, dove studiò sociologia all'Università di Varsavia laureandosi in pochi anni per poi trasferirsi in Inghilterra, dove ha insegnato per decenni e formulato le sue principali teorie sociologiche e filosofiche, come il rapporto tra modernità e totalitarismo, con riferimento alla Shoah ("Modernità e Olocausto", ed. Mulino), la critica al negazionismo e il passaggio contemporaneo dalla "società dei produttori" alla "società dei consumatori" che ha indebolito anche gioie e soddisfazioni, in una realtà sempre più vacua. Sopravvissuto proprio all'Olocausto, Bauman nel tempo non ha lesinato critiche nei confronti del governo israeliano di Netanyahu e della politica dell'occupazione di parte della Cisgiordania, mossa per Bauman suicida per Israele e che, secondo l'intellettuale polacco, non avrebbe mai portato alla pace in Medioriente.

In Italia. Una delle ultime apparizioni pubbliche in Italia di Bauman è stata ad Assisi lo scorso settembre nell'ambito di un incontro interreligioso per la pace organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio e dai frati della località umbra, dove tra l'altro era presente anche Papa Francesco. Anche allora, Bauman parlò della necessità del "dialogo" come la via per l'integrazione tra i popoli: "Papa Francesco", ricordò, "dice che questo dialogo deve esser al centro dell'educazione nelle nostre scuole, per dare strumenti per risolvere conflitti in maniera diversa da come siamo abituati a fare".

La sfera pubblica. Bauman ha scritto frequentemente per La Repubblica e l'Espresso, e ha accettato l'invito del festival "La Repubblica delle Idee" a Napoli, dove nel 2014 ha tenuto un dialogo pubblico con l'allora direttore di Repubblica Ezio Mauro. Proprio con Ezio Mauro, Bauman ha scritto di recente "Babel" (edito da Laterza, come la stragrande maggioranza dei suoi libri), un saggio-dialogo sulla contemporaneità, la globalizzazione, la crisi della società e della politica dei tempi nostri.

il manifesto
ZYGMUNT BAUMAN,

UN PENSIERO ERRANTE
NEL FLUSSO DELLA SOCIETA'
di Benedetto Vecchi
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.

Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.

Ogni volta che prendeva la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra. E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute. Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.

Finita la guerra, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.

È ormai un nome noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime. Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito. Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall'idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.

Tocca poi all'identità ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.

Camminare nella casa di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.

Sono gli anni dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.

È molto amato dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.

Bauman non amava considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.


Il Fatto Quotidiano
ORA IL CITTADINO GLOBALE
E' SOLO CON LE SUE PAURE
di Alessia Grossi

A quest’età posso essere assolutamente certo che morirò socialista”. Quasi un necrologio, quello che il filosofo della “società liquida” aveva affidato già qualche anno fa alla Gazeta Wyborcza, lo stesso giornale polacco che ieri pomeriggio per primo ha diffuso la notizia della sua morte, all’età di 91 anni. Scappato in Unione Sovietica dalla persecuzione nazista della Polonia nel 1939, lui stesso definiva il suo legame con il marxismo una “grande fascinazione”. Studiata, analizzata e contestualizzata dall’intellettuale ormai naturalizzato britannico, insieme all’Olocausto, passando per la Modernità e la Postmodernità nelle sue prime pubblicazioni: dal 1959.

Ma è nel 2000 che con Modernità liquida sintetizza il nuovo millennio: quelle nuove “paure liquide che si attaccano e si staccano a seconda di chi le vende: che sia la politica o l’economia”. Quella che ci ha raccontato è l’eterna lotta tra libertà e sicurezza in cui il “pendolo si sposta dall’una all’altra a seconda di quale esigenza primaria dell’uomo prevalga in quell’istante storico”. Bauman le paure del XXI le riprese davanti ai nostri occhi liquidi, nonostante le ritenesse indescrivibili proprio per il loro stato. Ora sappiamo che si tratta di paure sociali, ma anche economiche. Ma soprattutto che sono “facilmente alimentabili”. Senza più reti ideologiche a protezione, pieni del liberismo che “ci viene venduto” e che “paghiamo caro”, viviamo con l’eterna inesorabile frustrazione di non aver saputo cogliere appieno ogni stimolo che la vita ci mette a disposizione. Peggio, con l’amarezza che la responsabilità di questa eterna infelicità sia individuale. È la globalizzazione, signori. Possiamo esserci anche noi, ma soltanto se ne siamo capaci. E quelli che non ce la fanno? I migranti? “Chi predica che non ci sia posto per loro, ha bisogno di questa paura e per questo la alimenta”. Primo fra tutti il presidente Usa Donald Trump, che con la sua campagna elettorale populista Bauman riteneva “un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi”.

Per l'accoglienza e il dialogo, Bauman sosteneva la necessità del potere di fare leva sulle paure ataviche e animalesche dell’uomo nei confronti dell’altro. Ma l’importante secondo il filosofo è non sovrapporre l’immigrazione con il terrorismo, non trasformare i profughi da vittime a colpevoli, istigando all’odio. “Per il dialogo passa l’integrazione e la pace tra i popoli”, aveva raccomandato ad Assisi durante gli incontri internazionali promossi da Sant’Egidio. “Un dialogo necessario tra laici e credenti per la costruzione della pace e di una società più inclusiva, perché il dio dell’altro non è più dall’altra parte del confine, ma è qui”. Anche perché Zygmunt Bauman non ammetteva alternative: “Il dialogo è una questione di vita o di morte: o ci capiamo, o toccheremo il fondo insieme”. Dialogo messo in pratica da lui stesso, incontrando Papa Francesco.

Filosofo della vita e delle relazioni che la compongono, aveva completato la definizione di “società liquida” con quella di “amore liquido”, che della prima è diretta conseguenza, quando al posto del legami ci sono le “connessioni”, quando niente sembra appagarci se non la continua ricerca di nuove relazioni, ma allo stesso tempo restare da soli ci fa paura. Al contrario della sua relazione con la moglie, Janina, con cui “parlava ancora”, coltivato fino alla fine, per 62 anni. Lui che indicava nelle cose durevoli la vera ricerca della felicità. Riconoscendo allo stesso tempo tutti i limiti della routine. Della morte, sosteneva fosse “l’unico problema senza soluzione”, al pensiero di cui tutti sfuggono. Chi con la filosofia, chi con promesse di sieri di eterna giovinezza. In comune, amore e morte avevano per Bauman una cosa sola, la più importante: “Entrambe sono esperibili una sola volta”. Ma dalla prima sosteneva si “rinascesse oggi di continuo”. C’è da augurarselo.


«Pensiero critico quale capacità di esercitare un giudizio cercando quali alternative esistono, anche in situazioni dove non sembrano essercene, e di scegliere tra di esse guardando a quelle che vanno in direzione dei fini ultimi piuttosto che alla massimizzazione dell’u

tile». MicroMega online, 2 gennaio 2017 (c.m.c.)

Voglio iniziare mettendo in luce alcuni fattori che ritengo fondamentali per definire la figura e il pensiero di Luciano Gallino. (…) Il primo elemento è la sua volontà, il suo impegno – soprattutto negli ultimi vent’anni della sua vita, quelli che mi sono più vicini – di fare pensiero critico: quel tipo di pensiero che oggi è drammaticamente passato di moda. Un tempo, anche in Italia e non solo c’erano gli intellettuali impegnati, per non parlare degli intellettuali organici a certe forme di partito e di cultura.

Luciano Gallino era impegnato anche facendo opera di divulgazione sui media, esponendosi anche politicamente, ma soprattutto era disorganico rispetto alla cultura dominante di oggi, cioè alla sommatoria di neoliberismo e di ordoliberalismo. Il suo era appunto un pensiero critico, l’unica forma possibile e autentica di pensiero – ma dire pensiero critico è quasi una tautologia, il pensiero è critico o non è pensiero -, perché pensare, ragionare, riflettere possono esserlo solo in senso critico, problematico, riflessivo, di approfondimento. Il pensiero critico è l’unica forma di pensiero che Gallino – e io con lui – ammetteva. Dove l’aggettivo appunto rafforza semplicemente il sostantivo. (…).

Critica, dunque, ma non per il gusto – autoreferenziale e improduttivo - di criticare; critica – invece - per andare a scavare sotto la superficie del senso comune e dei luoghi comuni e delle nuove ideologie come appunto il neoliberismo/ordoliberalismo; o per svelare l’apparenza delle ombre della nostra caverna di Platone, ombre (o mondo virtuale) che scambiamo sempre più per realtà.

Critica, infine come modalità per smascherare il potere, le ideologie, ma anche il nostro conformismo, l’opportunismo dell’indifferenza, e soprattutto la rassegnazione che ci prende come unica forma di reazione all’azione pedagogica dell’ideologia neoliberale; e quindi, critica contro quella stupidità che Gallino vedeva nelle politiche europee di austerità e di Fiscal compact, nei neoliberisti e negli ordoliberali al potere nell’eurocrazia di Bruxelles e di Francoforte, oltre che di Berlino. Ma al potere soprattutto nella società, perché il neoliberismo vuole creare un uomo nuovo, vuole pervadere l’intera società e trasformarla in mercato e la vita in competizione, si propone come un tutto – io dico, come una religione - e vuole essere soprattutto una biopolitica (come ha sostenuto Michel Foucault) governando la vita intera delle persone e delle società.

Luciano Gallino era un intellettuale che amava dunque il pensiero critico (quel pensiero, cito, «inteso quale capacità di esercitare un giudizio cercando quali alternative esistono, anche in situazioni dove non sembrano essercene, e di scegliere tra di esse guardando a quelle che vanno in direzione dei fini ultimi piuttosto che alla massimizzazione dell’utile») e non smetteva di praticarlo e di insegnarlo.

Perché era importante (è sempre importante, anche se faticoso) dire il vero, fare parresia direbbe ancora Foucault, smascherare le menzogne del potere perché, come recita la frase di Rosa Luxemburg citata da Gallino nel suo ultimo libro (uscito pochi giorni prima della morte), Il denaro, il debito e la doppia crisi, spiegati ai nostri nipoti: Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario. Perché, appunto dire ciò che è - e non ripetere ciò che il potere dice, questa sì è cosa davvero rivoluzionaria in una società – la nostra – conformista pur negando di esserlo e manipolata incessantemente da una pedagogia neoliberista (che per molti aspetti è «una perversione della vecchia dottrina liberale», secondo Gallino) ma che è pervasiva e invasiva.

Pensiero critico anche contro la rassegnazione, dicevo: perché Gallino – secondo elemento della sua personalità da mettere in luce, lui piemontese austero ma aperto al nuovo e al cambiamento - ha sempre affiancato la critica alla proposta. Era sociologo che studiava la società, ma dallo studio e dall’analisi traeva poi spunto per passare alla proposta. Perché convinto, come detto, che c’è sempre almeno una alternativa rispetto a ciò che si fa e a ciò che si pensa – e anche in questo suo voler proporre sempre almeno un’alternativa vi era la critica del neoliberismo e dell’ordoliberalismo (tema del nostro ultimo scambio di mail) per i quali invece non esisterebbero alternative al mercato e al capitalismo. Capitalismo che Gallino non voleva distinguere dall’economia di mercato (come cercano di fare ad esempio gli ordoliberali) - il primo problematico, la seconda sempre virtuosa - perché capitalismo ed economia di mercato sono la stessa cosa. Distinguerli - perché dire sistema di mercato sarebbe più tranquillizzante rispetto a capitalismo - è solo «una frode linguistica e concettuale». E tuttavia - mi aveva detto in un’intervista uscita sulla rivista Alfabeta2, nel 2014 - «il superamento del capitalismo mi sembra ancora un obiettivo lontano. Ma disciplinarlo, il capitalismo, questo si può. E si deve. E subito».

Anche perché il capitalismo – scriveva Gallino - avrà a che fare con una probabilità e con una certezza: la probabilità è che il futuro del capitalismo sia una stagnazione senza fine; la certezza è invece la crisi del sistema ecologico, «per contrastare il quale occorrerebbe rivedere a fondo il funzionamento dell’economia e il modo di ragionare su di essa». Ma di questo torneremo a parlare alla fine.

E procediamo con ordine. Partiamo dal lavoro, tema centrale nelle riflessioni di Gallino. Anche qui, la Olivetti era stata una scuola speciale. Lo ricordava - nel libro sotto forma di intervista a Paolo Ceri intitolato L’impresa responsabile (il modello Olivetti, appunto) - citando il padre di Adriano Olivetti, Camillo che ricordava al figlio: «tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi di lavoro, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia» – e viene subito da pensare a oggi, quando si parla nuovamente di morte di milioni di posti di lavoro per effetto di quella che chiamiamo già quarta rivoluzione industriale, quella del digitale e del capitalismo di piattaforma, che porta a nuove tecniche di lavoro via rete e nuovi modi di organizzazione del lavoro. O quando, sempre nel testo citato ma anche ne Il lavoro non è una merce, Gallino ricordava come la Olivetti avesse vissuto una crisi di sovra-produzione nel 1953 e di come Adriano Olivetti la risolse non licenziando 500 operai, come suggerito dal management di allora - che in parte licenziò e in parte trasferì - ma assumendo 700 nuovi impiegati commerciali, ribassando i prezzi della macchine e così rilanciando le vendite. Un’autentica eresia, per i modelli imprenditoriali e capitalistici di oggi.

Dunque, il lavoro. Che era un diritto, come è scritto nella nostra Costituzione – Costituzione che forse, ed è una considerazione personale ma che Gallino sicuramente condividerebbe - dovremmo applicare davvero, prima di modificarla malamente e in senso oligarchico.Lavoro che è diventato o è ridiventato – come se il vecchio Progresso si tramutasse in Regresso, per una ennesima eterogenesi dei fini della storia - ciò che non doveva mai più essere, cioè una merce.

Mercificando, reificando non solo il lavoro ma anche i lavoratori. E quindi, ecco il suo libro del 2007, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità. Che aggiornava il saggio del 2001, intitolato: Il costo umano della flessibilità. Libro del 2007 dove subito ammetteva: «mentre in quel saggio del 2001 intravedevo alcuni modi per rendere sostenibile la flessibilità senza intervenire più che tanto sulle sue cause, reputo oggi che sia su queste» – cioè appunto sulle cause della flessibilità – «che occorre porre la maggiore attenzione», perché la tempesta che sta travolgendo le forme novecentesche del lavoro e la considerazione del lavoro come diritto sociale, «deriva dall’aver messo in competizione tra loro, deliberatamente il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e buone condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende, con salari miserandi. La richiesta di accrescere i lavori flessibili, è un aspetto di tale competizione».

(…) Aggiungendo subito dopo: «Il problema che la politica dovrebbe affrontare sta nel far sì che l’incontro, che prima o poi avverrà, tra queste due parti della popolazione mondiale, avvenga verso l’alto della scala dei salari e dei diritti, piuttosto che verso il basso». L’auspicio, come sappiamo, si è risolto nel suo contrario – il benchmark è sempre il lavoratore sfruttato dell’Asia o il lavoratore sempre più precarizzato e uberizzato dell’Occidente - e da qui i successivi interventi di Gallino sul tema, e penso al suo La lotta di classe dopo la lotta di classe, del 2012, uscito nel pieno della crisi causata dal capitalismo finanziario oltre che dalla diffusione delle nuove tecnologie.

Per vedere come la tempesta non sia passata, ma si aggravi sempre più – pensiamo al caso di Apple. Azienda leader delle nuove tecnologie ma anche dell’immaginario collettivo, della tecnica come forma o come esperienza religiosa-quasi misticheggiante (per noi feticisti tecnologici), ma che sfrutta i lavoratori cinesi che producono gli iPhone con turni di 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana. O agli effetti del JobsAct italiano, per il quale gli ultimi dati evidenziano, ancora una volta che la flessibilizzazione del lavoro non produce occupazione (come vorrebbe il non-pensiero dominante; ancora: neoliberismo & ordoliberalismo) ma disoccupazione e altra flessibilizzazione - e soprattutto precarizzazione del lavoro e quindi delle vite di tutti. O pensiamo ancora ai ragazzi di Foodora, saliti alle cronache di questi ultimi giorni per le loro proteste contro i tagli salariali e la loro precarizzazione lavorativa (l’essere lavoratori dipendenti di fatto, ma essere considerati formalmente come lavoratori autonomi della gig economy, l’economia dei lavoretti, o meglio, come preferisco chiamarla: economia della sopravvivenza in tempi di crisi).

Gallino definiva la flessibilità in questo modo: «si usano definire flessibili, in generale, o così si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare, o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, anche il mondo della vita, il complesso dell’esistenza personale e familiare».

E per definire meglio il processo in atto allora - e ancora di più oggi - distingueva tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste «nella possibilità, da parte di un’impresa, di far variare in più o in meno la quantità di forza lavoro (…) quanto maggiore è la facilità di licenziare o di occupare salariati con contratti atipici e di breve durata». La flessibilità della prestazione si riferisce invece «all’eventuale modulazione, da parte dell’impresa, di vari parametri» quali «l’articolazione differenziale dei salari per ancorarli ai meriti individuali o alla produttività di reparto o di impresa, la modificazione degli orari, il lavoro a turni, gli orari slittanti, quelli annualizzati, l’uso degli straordinari». A questi esempi potremmo aggiungere oggi, e ancora, il lavoro uberizzato, una certa sharing economy, la gig economy.

E dalla flessibilità/flessibilizzazione del lavoro alla precarietà il passo era ed è breve. Scriveva Gallino: «Il termine precarietà non connota la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione umana e sociale che deriva da una sequenza di essi, nonché la probabilità, progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga, di non arrivare mai a uscirne. (…) La precarietà oggi è dappertutto, scriveva già tempo addietro Pierre Bourdieu. Il lavoro precario ha provveduto a riportare indietro di generazioni» il mondo del lavoro. Deliberatamente, ancora una volta, perché questo serviva e serve a garantire competitività e produttività al nuovo capitalismo che si stava sviluppando con e grazie alla rete; e perché serve a trasformare il mercato del lavoro – orrendo concetto, visto che sottintende un mercato di individui/persone - e a piegarlo alle esigenze economiche ma soprattutto ideologiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo.

Una precarietà che da una parte toglie il futuro; e dall’altro alimenta – e dovremmo ricordarlo, oggi che vediamo nascere o consolidarsi movimenti populisti in molte parti del mondo – l’antipolitica, l’astensionismo, l’indifferenza verso le cose comuni; e dall’altro ancora toglie identità al lavoratore, lo de-soggettivizza (non è più un soggetto, ma un oggetto del mercato) e insieme lo de-socializza, lo aliena dagli altri e da una società dove, in nome della competizione, sono state rottamate l’uguaglianza, la solidarietà e quindi, conseguentemente, la libertà.

Gallino aveva anche distinto (come in Financapitalismo) tra produzione di valore ed estrazione di valore. La prima produce e crea valore ad esempio costruendo una casa, una scuola, producendo un farmaco utile a debellare malattie; la seconda estrae valore e pensiamo alla speculazione finanziaria o immobiliare o al Big Data, con imprese che producono profitto estraendo valore – con il data mining - dai dati che lasciamo gratuitamente in rete. Ma il processo di estrazione del valore, scriveva Gallino è qualcosa che riguarda in parallelo anche l’organizzazione del lavoro, come: «pagare il meno possibile il tempo di lavoro effettivo; far sì che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire; minimizzare, e laddove possibile azzerare, qualsiasi onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro, quali imposte, contributi previdenziali, assicurazione sanitaria e simili» –- e mi piace ricordare gli scritti di Gallino a proposito dell’introduzione, alla Fiat, del Wcm, il world class manufacturing, la nuova organizzazione del lavoro e che fu anche oggetto del referendum tra i lavoratori nel 2010: Wcm iper-moderno secondo la Fiat, iper-taylorista, cioè vecchio - o peggio che vecchio, anche se 2.0 - secondo Gallino, producendo un’ulteriore intensificazione dei ritmi e dei tempi di lavoro, tanto che ben 19 pagine su 36 del documento allora presentato dalla Fiat ai sindacati erano dedicate alla metrica del lavoro; e la flessibilità è anche, ad esempio, in 80 ore di straordinari a testa che l’azienda può imporre ai lavoratori, a sua discrezione e senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso di soli due o tre giorni. L’obiettivo – commentava Gallino - è sempre aumentare la produttività, riducendo anche i tempi morti, come le pause; il modello o l’ideale è invece il robot che non rallenta mai il ritmo, non si distrae e soprattutto non protesta.

Ma perché questa flessibilizzazione del lavoro? Tutto nasce - provo a riassumere brevemente qualcosa che è ancora in corso – con la supposta crisi del modello fordista (fatto di grandi fabbriche, molti lavoratori, produzione di massa di beni standardizzati, lavoro disciplinare e disciplinato secondo l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, quella che Zygmunt Bauman ha definito la modernità pesante - ma anche il matrimonio di interesse tra capitale e lavoro ovvero più cresce la produzione più crescono i salari, più è possibile redistribuire parte dei profitti) e quindi, poi – nel momento in cui il fordismo sembra entrare in crisi - il passaggio dal fordismo a quello che in troppi hanno definito come post-fordismo.

Post-fordismo dominato dalla produzione snella secondo il modello Toyota; dal just-in-time; dalla esternalizzazione di fasi di produzione ma oggi anche dei lavoratori perché questo è l’uberizzazione del lavoro; dalla auto-attivazione e dalla motivazione dei lavoratori al diffondersi della psicologia del lavoro (che porta a far fare senza quasi avere più l’ordine di dover fare); il passaggio dal lavoro come prestazione in cambio di un salario al lavoro come collaborazione con l’impresa (o con la rete), oggi come condivisione anche in cambio di un salario/compenso decrescente; e poi la personalizzazione dei consumi (vera o meglio: presunta) e dei messaggi pubblicitari; il passaggio dalla modernità pesante alla modernità liquida (ancora Bauman), dove niente ha più forma stabile e durevole (relazioni e amore compresi), mentre il consumatore è libero di muoversi in rete, come pure le stesse imprese e la rete è ovviamente de-territorializzata e de-materializzata.

Ovvero, scriveva Gallino: «La generalizzazione del modello organizzativo fondato sul criterio per cui tutto deve avvenire giusto in tempo conduce all’interiorizzazione da parte del lavoratore d’una sorta di catena invisibile che costringe a lavorare a ritmi frenetici, pur in assenza di controlli ravvicinati da parte dei capi». Il post-fordismo ha fatto cioè introiettare a ciascuno cosa deve fare e come nonché il principio dell’accelerazione continua e dell’intensificazione crescente della propria prestazione.

Al confronto, Tempi moderni di Chaplin è la preistoria dell’organizzazione del lavoro in rete, ma la rete – aggiungiamo – è solo la vecchia catena di montaggio con altri mezzi o in altra forma.(…) Il punto di arrivo – e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto, ma si perfeziona sempre di più - è avere anche un lavoratore che sia flessibile. Just-in-time. Idea apparentemente geniale e apparentemente nuova (in verità l’industria automobilistica americana aveva cominciato a introdurre flessibilità nei suoi stabilimenti fin dagli anni ’30, arrivando a presentare un nuovo modello o un modello aggiornato ogni anno, attivando quelle tecniche di invecchiamento psicologico dei prodotti che tanta parte hanno anche oggi nella motivazione a consumare e nello spingere a innovare sempre e comunque).

Se non fosse che in questo modo – flessibilizzando il lavoro e impoverendo i lavoratori, invece di raddoppiargli il salario come aveva fatto Ford nel 1914 – si impoverisce anche la domanda, generando il circolo vizioso in cui siamo sprofondati non tanto dalla crisi del 2008, ma da almeno trent’anni, quelli appunto dell’egemonia dell’ideologia neoliberista, della globalizzazione e delle nuove tecnologie.

(…) Flessibilizzazione del lavoro e dei lavoratori, per la flessibilizzazione - o meglio la riduzione progressiva - dei diritti del lavoro, del diritto al lavoro e del lavoro come diritto. Un altro degli obiettivi del capitalismo e del mondo dell’impresa, che non hanno perso l’occasione offerta dalle nuove tecnologie individualizzanti per indebolire non solo il sindacato e per ridurre quel poco di democrazia che era riuscita, negli anni ’70, a varcare i cancelli delle fabbriche e degli uffici, ma gli stessi lavoratori.

Facile, riducendo nuovamente il lavoro a merce, nonostante il lavoro e una giusta retribuzione siano diritti universali e quindi inalienabili dell’uomo (oltre che secondo la Costituzione italiana); e nonostante il fatto che la Dichiarazione di Filadelfia del 1944, concernente le finalità dell’Organizzazione internazionale del lavoro – ricordata appunto da Gallino – affermi solennemente che il lavoro non è una merce. E invece sì. Perché questo voleva il neoliberismo – il mercato come unico valore e come unica forma di organizzazione anche sociale. Per una società che deve essere anch’essa flessibile (richiamando Richard Sennett), quindi perennemente attiva, perennemente al lavoro o alla ricerca di un lavoro quale che sia, alzando sempre più l’asticella della produttività e insieme della flessibilità.

Dove individualizzazione e flessibilizzazione sono determinate soprattutto dalle nuove tecnologie, perché: «Senza Itc non sarebbe possibile coordinare unità produttive che non si arrestano mai e che debbono essere collegate in tempo reale con mille altre unità produttive e distributive nel mondo . (…) Esiste dunque una relazione speciale tra le nozioni di lavoro flessibile, società flessibile e società dell’informazione».

E quindi, «all’organizzazione sociale si chiede di assomigliare sempre di più all’organizzazione di un’impresa. Come sappiamo le imprese decentrano, si frammentano in unità sempre più piccole e mutevoli, coordinate da reti globali di comunicazione sempre più efficienti e capillari. L’organizzazione aziendale si appiattisce, diminuendo e fluidificando i livelli gerarchici, generalizzando il lavoro di squadra, puntando a esternalizzare tutte le attività che non attengono alla sua missione primaria». (…). Una flessibilità cresciuta sempre più dall’anno (il 2007) di pubblicazione di Il lavoro non è una merce. I processi di flessibilizzazione, outsourcing, sharing e di individualizzazione dei rapporti di lavoro sono cresciuti a dismisura fino a diventare la norma e insieme la normalità del lavoro e della vita di oggi.

Perché singolarizzazione contrattuale, individualizzazione pseudo-imprenditoriale, retoriche dell’autonomia e della libertà, flessibilità e adattamento come nuova condizione esistenziale (come vocazione-beruf individuale) sono, appunto parte essenziale e insieme premessa (la biopolitica, direbbe Michel Foucault) dell’esplosione, frantumazione e impoverimento del lavoro di questi decenni. Grazie a questo, oggi il capitalismo delle piattaforme e gran parte di quella che si è autodefinita sharing economy (ma non lo è) – così come ieri il capitalismo cognitivo, il mito post-operaista dell’intelligenza collettiva, l’economia della conoscenza - mettono al lavoro e sfruttano (estraendo appunto valore invece di produrre valore da redistribuire) il lavoro dei singoli singolarizzati e isolati e quindi più flessibili e disciplinati, più utili e docili (ancora Foucault) e quindi meglio integrabili nell’apparato.

Grazie (anche) al passaggio – come sosteniamo, usando ed estendendo le riflessioni di Luciano Gallino – non dal fordismo a un virtuoso post-fordismo, ma dal fordismo concentrato delle grandi fabbriche di ieri al fordismo individualizzato di oggi, con una rete (e i suoi algoritmi) che è sempre più mezzo di connessione eteronoma di ciascuno nella grande fabbrica globale digitale. E l’uberizzazione diffusa del lavoro, si dice, consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno (è il lavoro on demand) e a prezzo decrescente, scomporrà ancora di più le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro, produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità, dove vince chi è più veloce ad adattarsi.

(…) Ma vi è un aspetto importante sul tema delle nuove tecnologie che vorrei sottolineare. Ricordando che gli anni ’90 del ‘900 sono stati gli anni della new o net economy, dell’esplosione della rete e del tecno-entusiasmo, tutti allora convinti che i vecchi e fastidiosi cicli economici fossero finalmente finiti e che, proprio grazie alle nuove tecnologie fosse iniziata una nuova era di benessere crescente per tutti e che – soprattutto – queste nuove tecnologie avrebbero permesso di lavorare meno, di avere più tempo libero, di fare meno fatica, portandoci nella società della conoscenza e del lavoro immateriale se non alla realizzazione del general intellect marxiano.

Riconosceva invece Gallino, smentendo il tecno-entusiasmo dei molti se non dei più: le ricerche condotte in diversi paesi europei, «descrivono, al contrario, situazioni diffuse di intensificazione (che vuol dire fare più cose nel medesimo tempo) e densificazione del lavoro (che significa, invece, soppressione di ogni tipo di pausa nel calcolo dell’orario)». Il processo è inarrestabile, e oggi siamo arrivati nella società del 24x7, l’intensificazione e la densificazione del lavoro sono cresciute ancora, è caduta la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, siamo oggetti economici (lavoratori, consumatori, innovatori) in servizio permanente effettivo e siamo felici di esserlo (se non opponiamo resistenza e opposizione vuol dire che accettiamo questo meccanismo), autonomamente o con l’aiuto di un coach o della nuova figura del chief happiness officer, traducibile come capo del servizio felicità di un’impresa. Ovvero, la realtà prodotta dalla terza rivoluzione industriale è stata ben diversa dalle promesse, e tale rischia di essere la situazione prodotta dalla nuova, quarta rivoluzione industriale.

Ancora un passo indietro, dal 2001 de Il costo umano della flessibilità, al 1998 e a un altro libro importante di Gallino: Se tre milioni vi sembran pochi. Sottotitolo: Sui modi per combattere la disoccupazione. Un libro che si schiera apertamente contro il pensiero unico neoliberista trionfante in quel decennio – ridefinito come Pec, pensiero economicamente corretto – e contro le ricette di moda allora, anche nell’Università e sui mass media. Quelle per cui: ci sarà ripresa economica se ci sarà più flessibilità per le imprese di licenziare, i giovani devono adattarsi a questa flessibilità e abbandonare l’idea del posto fisso, le innovazioni tecnologiche creano sul lungo termine più occupazione di quanta ne distruggano nel breve termine e anche questa volta non sarà diverso dalle grandi innovazioni del passato, lo stato sociale è la causa di tutti i mali dell’economia.

Un libro dove si parla anche e necessariamente di nuove tecnologie che, secondo Gallino hanno spezzato il circolo virtuoso tra tecnologia e occupazione del passato e la rottura ha un carattere strutturale e non solo congiunturale. Arrivando all’automazione ricorsiva – «robot che fabbricano robot, computer che controllano la fabbricazione di computer, computer che controllano le attività di computer e di reti di computer, software che controllano la produzione e la riproduzione industriale di software», e oggi, aggiornando quel testo di venti anni fa diremmo: gli algoritmi e il Big Data – alle imprese virtuali alla incessante re-ingegnerizzazione organizzativa, alla esternalizzazione/outsourcing dei processi, alla lean production, all’impresa a rete e alla delocalizzazione. Tutte trasformazioni indotte, prodotte, permesse, facilitate dall’innovazione tecnologica della rete.

E poi, la terza parte del libro, quella appunto propositiva per uscire dall’impasse occupazionale e che riprenderà poi nei suoi ultimi saggi e articoli sui media. Partendo dal fatto che in Italia esiste una autentica miniera di lavoro ancora non sfruttata, dalla difesa del suolo alla tutela ambientale, dai beni culturali alla formazione e ricerca. Un lavoro da creare non tanto per «moltiplicare gli oggetti da avere in casa» (traducibile in ‘più consumismo’), bensì per migliorare la qualità della vita. Per questo, scriveva - denunciando un problema che da allora si è semmai drammaticamente aggravato - è però indispensabile «allungare l’orizzonte temporale della politica», uscendo dalla logica del breve termine, che la politica ha appreso purtroppo dal mondo dell’impresa, su cui sta rimodellando se stessa, uccidendo se stessa.

(…) Ancora un breve passo indietro, questa volta al 1983 e al libro, Informatica e qualità del lavoro. Un libro che mi piace citare non solo perché affronta nuovamente il tema delle tecnologie dell’informazione, allora agli inizi, Gallino osservandole con grande chiarezza nei loro possibili effetti; non solo perché lo stile è tutto diverso dai libri citati in precedenza, qui frasi più complesse con ricca dotazione di tabelle e di schemi; quanto perché pone all’attenzione del lettore un tema che mi è caro, quello del rapporto tra impresa e democrazia e tra nuove tecnologie (la tecnica) e democrazia.

Lavoro e democrazia e fabbrica. Con tutti i problemi che questo intreccio tra doveri e diritti produce in termini di autonomia e di eteronomia, di riconoscimento di diritti e di coinvolgimento dei lavoratori nei processi di lavoro e decisionali, in termini di costruzione dell’organizzazione stessa del lavoro. Dove quindi la distinzione tra autonomia ed eteronomia, tra persuasione e manipolazione si fa sempre più labile, tanto più quando, come oggi, si chiede al lavoratore di interiorizzare e di introiettare i valori dell’impresa per cui lavora - a prescindere dal come questo lavoratore è occupato.

E’ quella che io chiamo alienazione ben mascherata, perché l’alienazione non scompare, ma è ben occultata da meccanismi di coinvolgimento, empatia, auto-attivazione dei dipendenti nella logica d’impresa. Teniamo poi presente che se allora la democrazia in fabbrica era un tema di discussione e non si metteva in dubbio il fatto che nell’impresa dovesse esserci almeno un po’ di democrazia, oggi è condiviso (anche dai miei studenti ed è difficile smontare questa certezza) che nell’impresa non possa e non debba esserci democrazia, perché l’impresa è dell’imprenditore e può farci ciò che vuole.

(…) Le tecnologie dell’informazione, scriveva Gallino nel 1983, stanno cambiando le nostre vite, individuali e collettive e il nostro modo di lavorare, soprattutto per la velocità con cui avvengono. Se in meglio o in peggio, si domandava, non dipenderà dalle loro caratteristiche oggettive, quanto dai criteri che guideranno il loro sviluppo. Ovvero: le tecnologie dell’informazione possono fare molto per migliorare la qualità del lavoro umano, ma le stesse potenzialità della tecnica possono anche asservirlo ulteriormente o impoverirlo in misura mai vista prima; o addirittura per eliminarlo. «Per il momento», scriveva, «varie scelte sono ancora possibili».

Oggi, in tempi di algoritmi che tutto sanno di noi e tutto determinano in noi, algoritmi che addirittura sono il nuovo imprenditore o il nostro nuovo responsabile del personale (penso ancora a Uber e a Foodora), tutto si è fatto ancora più complicato e difficile. (…). «Quale che sia la struttura dell’azienda, permane il conflitto tra individuo e organizzazione. Esso non è altro che una versione del conflitto tra affettività e norma, tra interessi privati e interessi collettivi e come tale è insopprimibile».

Conflitto insopprimibile, ma la democratizzazione può limitarlo. Anche o soprattutto mediante e mediata dalle nuove tecnologie, scriveva Gallino, «eliminando per quanto possibile, l’accesso differenziale alle risorse, soprattutto l’informazione», e allo stesso tempo riducendo «i tempi di consultazione delle preferenze, l’onerosità e infine i costi del sistema democratico, il che significa, anzitutto, accelerare i tempi di consultazione delle preferenze, di formazione di una volontà generale e di esplorazione di azioni alternative».Democrazia e nuove tecnologie, un matrimonio possibile dunque. Ma perché questo accada, aggiungeva Gallino, occorre «una effettiva volontà di democratizzazione». Che è appunto ciò che sempre più manca, portandoci lentamente verso quella che chiamo l’autocrazia degli algoritmi).

(…) E veniamo agli ultimi anni. Quelli di riflessione sui processi di finanziarizzazione dell’economia, del colpo di stato di banche e governi, di fine delle classi sociali e della lotta di classe perché vinta dai ricchi invece che dal proletariato, delle disuguaglianze crescenti e poi la doppia crisi in cui siamo immersi. Anni spesi a difesa dell’intelligenza, della democrazia vera contro le perversioni della tecnocrazia europea e contro quell’ assolutismo esercitato dal mercato - anzi, dal capitalismo. Contro l’egemonia del neoliberismo e dell’ordoliberalismo, contro la trasformazione della società in puro mercato, contro la de-sovranizzazione del demos ad opera delle oligarchie e degli oligopoli economici e finanziari.

E il colpo di stato di banche e governi. Un titolo forte. Preso – riassumeva Gallino nell’intervista per Alfabeta2 – «dalla scienza politica e applicato alla nostra realtà economica di questi ultimi anni. Scienza politica che parla appunto di colpo di stato quando una parte della società si appropria con la forza di poteri che altrimenti non le spetterebbero. Le Costituzioni democratiche ovviamente escludono l’ammissibilità del colpo di stato (che cancella libertà, democrazia e società in nome di un presunto stato di eccezione). Quello che è successo in Europa in questi ultimi sei anni è appunto un colpo di stato. Contro le Costituzioni dei singoli Stati ma anche contro gli stessi trattati dell’Unione europea.

«Un golpe strisciante, in un certo senso. Perché tutto ciò che è accaduto, era già scritto, era stato iniziato dalla Thatcher e poi sviluppato da Reagan negli Stati Uniti, il loro era il neoliberismo di Milton Friedman e prima ancora di Friedrich von Hayek, poi applicato un po’ ovunque nel mondo dal Fondo monetario, dall’Ocse, poi dall’Unione europea e dalla Bce. Per anni il neoliberismo è stato davvero il pensiero unico economico dell’Occidente e delle sue istituzioni economiche. E sembra che nessuna correzione sia possibile (…). L’Europa è vittima sacrificale di un’autentica teologia economica, di una teologia neoliberale. Secondo la quale il mercato è sempre efficiente, lo Stato è sempre spreco e inefficienza, la competizione è una pratica virtuosa. Sono clamorosi errori. Ma questa teologia è ancora vincente nell’opinione pubblica, soprattutto nelle università, nell’accademia, nei mass media».

Oggi, in Europa, continuava, si sta verificando «un pericoloso arretramento dell’intero processo democratico, di una portata tale da essersi verificato, finora solo quando un sistema democratico è stato sostituito da una dittatura». (…). E aggiungeva: «Sin dal 2010, la Commissione e il Consiglio europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli stati membri alle istituzioni europee che, per la sua ampiezza e il grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista neppure dei trattati, della sovranità degli stessi stati».

Che fare? Gallino immaginava un nuovo New Deal. Perché il New Deal «non è cosa del passato. Certo, la realtà di oggi è in parte diversa. Ma l’idea resta validissima. Soprattutto davanti allo scandalo della disoccupazione (…). Ed essere senza lavoro è una condizione ancora peggiore del non avere un reddito, perché mina la stima di sé, minaccia la coesione sociale e non si crea valore perché senza lavoro non c’è crescita, mentre non vale il contrario (come invece si crede oggi). Lo stato allora deve intervenire direttamente per creare occupazione (e Roosevelt, in pochi mesi, diede un lavoro, quindi stima sociale e autostima, a oltre 4 milioni di disoccupati americani). Oggi serve qualcosa di simile. L’ostacolo non è la mancanza di risorse finanziarie, l’ostacolo è ideologico. Oggi l’egemonia neoliberista fa credere a tutti e a ciascuno che la disoccupazione sia una colpa individuale del lavoratore. Che non si adatta, che non abbassa le sue pretese, che non è flessibile. Questo ostacolo ideologico va superato. Perché appunto ostacolo non sono le risorse, ma i dogmi neoliberisti».

(…) E veniamo al suo ultimo libro, quello sulla doppia crisi, recuperando alcune parti di questo suo testamento politico e intellettuale – non saprei come altrimenti chiamarlo – che lui aveva appunto dedicato ai nipoti, ma in fondo tutti siamo oggi in qualche modo suoi nipoti. Un libro amaro, perché, scrive, «quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico». (…) Ma c’è di più: le riforme economico-sociali imposte dall’Europa, «lasciano chiaramente intendere che in gioco non c’era soltanto la demolizione dello stato sociale, ma la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio di una sua variante: l’ordoliberalismo».

E ancora: «Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima». Perché alla sua crisi a molte facce, il capitalismo («che pare davvero si stia avviando verso la sua fine» – ha scritto Gallino, anche se non sappiamo ancora quando ciò avverrà) ha reagito «accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita, nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe necessario adottare prima che sia troppo tardi».

E quindi, la crisi del capitalismo e la crisi ecologica «non sono due eventi che si possano affrontare separatamente».

Gallino chiudeva il suo libro-testamento con un capitolo quinto – scendendo nuovamente nel concreto – dedicato alla ricerca di alternative. Proposte che vanno nella direzione di attuare mutamenti profondi nel modo di produzione, di lavorare e di consumare; nel sistema finanziario; nell’organizzazione dei processi politici, nella distribuzione delle risorse e delle ricchezze, nella rivalutazione della società civile e dei corpi sociali intermedi.

(…) E allora arriviamo al tema delle classi sociali, che sembrano scomparse ma che invece esistono, sosteneva Gallino, solo che – utilizzando la distinzione marxiana – sono tornate ad essere classi in sé (il proletariato, come detto, non è mai stato così numeroso come oggi) ma non classi per sé (sono incapaci di agire collettivamente e progettualmente), hanno perduto ogni possibile coscienza di classe, sono incapaci di diventare soggetto collettivo. (…) Gallino scriveva (in La lotta di classe dopo la lotta di classe) che occorre rilanciare la dialettica all’interno della società, tra capitale e lavoro, tra culture politiche differenti.

Perché coloro che stanno alla base della piramide sociale possano finalmente dimostrare, ai politici di destra ma soprattutto di sinistra, che esistono, che sono stanchi di essere sconfitti e che si stanno ri-attrezzando per cambiare il corso della storia. (…) Qualcosa forse si muove, scriveva. E tuttavia, se una vera forza di opposizione non si formasse neppure ora, «quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale». E tuttavia: «Nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò che è, può essere diversamente e si adopera per essere fedele a tale ideale». E quindi: «Considerate questo piccolo libro come un modesto tentativo volto ad aiutarvi a coltivare una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa».

E a mia volta concludo dicendo: considerate anche voi questo mio ricordo di Luciano Gallino come un modesto tentativo per coltivare un po’ di pensiero critico nell’età, appunto, della sua scomparsa.

* estratti della conferenza di Lelio Demichelis alla Fondazione Calzari Trebeschi - Brescia, 27 ottobre 2016. Il testo completo su: www.fondazionetrebeschi.it - Lelio Demichelis insegna Sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria.

«Dobbiamo dimostrare che la libertà e la sicurezza sono possibili solo se riusciamo a rompere l’isolamento che i restringimenti alla libera mobilità e l’attacco ai salari e al welfare stanno imponendo su tutti: migranti, precarie ed operai».

connessioniprecarie online, 9 gennaio 2017 (c.m.c.)

L’anno nuovo dei migranti inizia con la svolta securitaria annunciata da un governo nato per portare al voto il paese. Gli annunci dicono che a Bologna come in altre città italiane riapriranno i Cie (uno per ogni regione), mentre il ministro degli Interni e il capo della Polizia promettono una stretta nella politica delle espulsioni: controlli sui luoghi di lavoro per scovare gli irregolari e intensificazione degli accordi bilaterali con i paesi di provenienza per assicurare i rimpatri. L’obiettivo è raddoppiare le espulsioni, che quest’anno si sono fermate a “sole” 5000. La speranza è di raggiungere le 20000 all’anno.

Apparentemente è l’esibizione di forza di un governo che si fa vanto di aver casualmente incontrato in un controllo di routine per le strade di Sesto San Giovanni l’uomo che ha messo a segno la strage di Berlino. Si mettono in mostra i muscoli per convincere i cittadini, a cui il mix di crisi e politiche neoliberali ha sottratto salario e strappato via diritti e welfare, che lo Stato si preoccupa della loro sicurezza. È un risarcimento per chi in questi anni ha perso molto, se non tutto. Perché la sicurezza, come si usa dire negli ambienti di governo, non è un tema della destra, ma riguarda tutti. Per la verità, questo simulacro di sicurezza è l’unica cosa che questo governo può offrire ai cittadini che a breve saranno chiamati alle urne, dato che di fare marcia indietro su Jobs Act, voucher e tutto ciò che ruota attorno a salario e welfare non se ne parla proprio.

La tranquilla e regolare forza dello Stato e l’eroismo dei singoli, che quando non salutano con la mano tesa sanno piazzarla sul grilletto per sparare: è la ricetta per contenere una rabbia diffusa e poco disposta a seguire indicazioni politiche. I migranti sono così l’oggetto di uno scambio talmente ignobile da non poter essere nominato: cacciamo loro perché non possiamo e non vogliamo scacciare le vostre paure quotidiane.

Non si tratta però soltanto di pura retorica autoritaria. Dopo aver respinto le domande di asilo di decine di migliaia di migranti bisognerà pure trovare un posto dove metterli, che non siano i parchi e i ponti dove già vivono. Cie ed espulsioni rientrano allora nella logica del razzismo istituzionale. Sono il tassello mancante, e tutto sommato più a buon mercato, della politica dei dinieghi e dell’emergenza con cui fino ad ora è stato governato l’afflusso dei migranti rifugiati.

Contro questa politica, nelle ultime settimane, a Bologna, Milano e Roma i migranti hanno rotto il silenzio civile e civico su come viene gestita la presenza dei richiedenti asilo, denunciando come il razzismo istituzionale di Questure e Prefetture produca una situazione di attesa in cui i migranti sono costretti a lavorare in condizioni di assoluta precarietà.

Un minimo di realismo permette di capire che la svolta securitaria non può essere e nemmeno vuole essere la soluzione finale alla clandestinità. Essa appare piuttosto come un tentativo di diminuire il numero di migranti sulla soglia dell’irregolarità e inviare un messaggio prima che la bolla dei dinieghi esploda. La cifra di 10000 espulsioni annue è infatti irrisoria: solo nel 2015 le commissioni territoriali hanno “prodotto” 41mila clandestini, per non parlare di chi perde il permesso di soggiorno perché manca lavoro o per reddito insufficiente, o delle crescenti difficoltà di ottenere i documenti dalle Questure, che ormai ritirano le carte di soggiorno perfino ai minori. Il messaggio è per i migranti, ma anche per chi migrante non è: l’unico scopo possibile è quello di perpetrare una segmentazione del mercato del lavoro funzionale a tenere i salari sotto controllo.

La riapertura dei Cie è allora una misura di prevenzione che conserva e anzi intensifica le condizioni per lo sfruttamento, tanto più che il lavoro nero potrà continuare a contare su un discreto bacino d’utenza. La vita nei nuovi Cie sarà poi come quella molti migranti hanno già hanno già conosciuto nei vecchi Cie. Sarà un’esistenza ingiusta, misera e indifferente come quella che sperimentano oggi nei centri di accoglienza. Per questo e non per altro la storia dei Cie e dei centri d’accoglienza è costellata di rivolte, da ultima quella che ha coinvolto il centro di Cona.

Nella filiera che dalle commissioni territoriali alle Questure arriva fino alle espulsioni, passando per i Cie, si produce dunque clandestinizzazione mobile e flessibile, che assicura la presenza di una forza lavoro migrante sulla soglia dell’irregolarità che, se non vuole essere espulsa, deve accettare il ricatto insito nella propria condizione. A loro e agli altri, operai e precarie, si garantisce esclusivamente di mantenere inalterata la propria solitudine.

Contro questo esito non basta un moto d’indignazione democratica e in pelle bianca. C’è bisogno di uno scarto profondo nei comportamenti e nelle scelte politiche. Nessuno può pensare di approfittare della vetrina mediatica per farsi pubblicità con proclami e iniziative simboliche. Queste cose ci sono state già troppe volte e non sono più accettabili. Chi davvero vuole opporsi alla riapertura dei Cie deve necessariamente coniugare il proprio antirazzismo con l’iniziativa autonoma dei migranti.

Occorre oggi la capacità di attaccare la solitudine alla quale il piano securitario vuole condannare tutti, partendo dai migranti anche perché i migranti stessi stanno indicando una strada: la necessità di ribellarsi a una politica della paura che vuole mettere a tacere non solo i migranti, ma anche precari e precarie, operai e operaie. Stabilire una connessione tra tutte queste figure è la sola strada per opporsi alla riapertura dei Cie in Italia e a Bologna.

La nostra risposta deve superare i confini angusti della nostra giusta indignazione. Deve mostrare che la riapertura dei Cie vuole colpire con più violenza i migranti per chiudere altri spazi di libertà e mettere politicamente a tacere anche chi pensa così di essere più “sicuro”.

Contro l’ignobile scambio che ci viene proposto dobbiamo dimostrare che la libertà e la sicurezza sono possibili solo se riusciamo a rompere l’isolamento che i restringimenti alla libera mobilità e l’attacco ai salari e al welfare stanno imponendo su tutti: migranti, precarie ed operai.

(segue)

Che cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta apologeta - i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.

L’integrazione delle strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41: «A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.

Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc. Dove naturalmente “realtà” e “società” coincidono perfettamente col mondo delle imprese e col mercato del lavoro.

La complessità del mondo reale si riduce alle esigenze presenti del capitale. Sicché a stabilire un nesso tra la scarsa preparazione al lavoro degli studenti e la disoccupazione giovanile a livelli record diventa fin troppo facile. Facile per menti semplici. Facile per un ceto politico che da tempo ha smesso di analizzare le strutture profonde del capitale e tenta solo di rispondere agli umori dell’opinione pubblica e di seguire il corso degli interessi dominanti. Infatti, l’articolo 33 della L. sulla Buona scuola, dichiara solennemente che l’alternanza scuola-lavoro viene attuata «Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti». La scuola, tutti gli istituti superiori, devono e acquistare competenze per il lavoro. Sarà questa esperienza sul campo dei nostri ragazzi a favorire lo sviluppo dell’occupazione. Come si può capire è un modo di trasferire un gigantesco problema su un terreno di facile manipolazione ideologica

Ora vediamo partitamente gli errori gravi e ostinati cui conduce questa linea. Senza qui soffermarci sui possibili effetti di lungo periodo. Quelli, intendo della progressiva distruzione della nostra tradizione culturale e di una intera civiltà.

La disoccupazione italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, capaci, al contrario, di industriarsi anche nei più disparati lavori, e pur possedendo spesso lauree e master vari. Da noi è più grave che altrove, per ragioni legate a vari fenomeni dello sviluppo italiano, alquanto noti, ma non certo per incapacità tecnica e culturale delle nuove generazioni. Il fenomeno, del resto, investe in diversa misura tutte le società industriali e non riguarda solo i giovani.

La disoccupazione è figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo per mutare i quali occorrerebbe uno sforzo politico sovranazionale di vasta portata. Essa dipende da alcune scelte ideologiche di politica economica, (la riduzione della capacità di investimento da parte dello stato, la restrizione del welfare, la politica fiscale non progressiva, ecc) e soprattutto dal carattere predominante assunto dal capitale finanziario (il Finanzcapitalismo analizzato da Gallino). Ma un più profondo ambito strutturale oggi opera nel capitale con caratteri di labor killing. L’innovazione tecnologica va distruggendo posti di lavoro. Sul punto la letteratura è ormai vasta, preoccupa la Banca mondiale e perfino l’ONU ha lanciato un grido d’allarme. (E.Marro, Allarme ONU: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano, Il Sole 24 0re, 18.11.2016) Ed è ormai diventato un vano ritornello richiamare la “teoria” della caduta a cascata.

Le nuove tecnologie distruggono vecchi posti di lavoro ma i nuovi che creano sono proporzionalmente sempre di meno. Non si tratta solo di previsioni e non solo dei settori manifatturieri. Nel novembre del 2016, ad es. il capo del personale della Wolkswagen ha annunciato che nei prossimi 15 anni 32 mila persone andranno in pensione e non verranno sostituite. Ci penseranno i robot. Ma si tratta anche di storia già consumata e che riguarda non solo semplici lavori automatizzabili, ma nuovi settori e funzioni: dalla burocrazia alle professioni legali, dal commercio ai servizi finanziari, dalla formazione alla medicina.
Una ricerca del 2013 di due economisti del MIT, E. Brynjolfsson e A. Mac Afee ( di cui è uscito per Feltrinelli, La nuova rivoluzione delle macchine, 2015) ha mostrato come a partire dal 2000 le linee della crescita della produttività e quella dell’occupazione si sono divaricate. Dopo un decennio, questo fenomeno appariva come «il grande paradosso della nostra epoca». É avvenuto il «Great decupling», termine complesso che si riferisce alla crescita esponenziale della produttività e che potremmo tradurre con il “grande disaccoppiamento”: «La produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata più veloce, e tuttavia, allo stesso tempo, noi abbiamo la caduta del reddito mediano e abbiamo meno posti di lavoro» (D.Rotman, How Technology is destroying Jobs, «MIT Technology Review», giugno 2013).

Dunque piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza. Una verità nota agli esperti già dagli anni ’60, (F. Pollock, Automazione, Einaudi 1970) ma prontamente dimenticata dagli attuali novatori. Quel che occorre è, con ogni evidenza, una formazione culturale non piegata ad alcun specialismo, aperta e complessa, una “educazione della mente” che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro. Senza dimenticare che i ragazzi vivono anche di sentimenti e passioni, sono immersi in una sfera spirituale che ha bisogno di orientarsi e arricchirsi. Il pensiero unico va cerca di infilarsi anche nella scuola, ma va soppresso sul nascere.

E’ vero che i difensori più intelligenti dell’alternanza scuola lavoro la mettono sul piano più generale della formazione di attitudine all’impresa. Ha scritto di recente Alessandro Rosina, riprendendo alcune indagini recenti come quella OCSE-PIAAC, che scopo di questo nuovo indirizzo della scuola deve essere quella di fornire ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni» (La Repubblica, 3 dicembre 2016).

Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa. Le nuove competenze infatti, scrive sempre Rosina, «devono diventare parte di un solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello sviluppo del Paese». Credo, contro la stessa intenzione di Rosina, che tale posizione esprima il pensiero unico all’opera sotto forma di progettualità innovativa, di proiezione verso il “futuro”, di nuovo slancio allo sviluppo dell’Italia. Incarni, insomma, l’ utopia di creare un “uomo nuovo” seriale, omogeneo, flessibile, interamente modellato dal suo finale compito economico. Ma davvero di questo tipo di figura abbiamo oggi bisogno per l’oggi e per il futuro? Compito della scuola è quello di rendere ancora più efficiente e innovativo il mondo delle imprese?

E’ paradossale osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Vale a dire l’ambito in cui l’innovazione è già incessante e senza requie, anche con esiti di grande portata per il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma pressocché nessuno osserva la drammatica divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre società poggiano su economie del XXI secolo, ma l’esistenza delle persone si muove entro quadri organizzativi della vita quotidiana che appartengono al XX secolo e tendono a indietreggiare verso il XIX. Mentre le ristrutturazioni organizzative, la digitalizzazione, i robot, (e già ora l’intelligenza artificiale, le stampanti 3D) sostituiscono masse crescenti di lavoratori da attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato, comincia al mattino e finisce la sera, la distribuzione del reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’ è sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più efficiente produzione. Ma dov’è finita la capacità di pensare del ceto politico e dei suoi dintorni?

Naturalmente questa critica non è una difesa dello status quo della nostra scuola. Che anche gli studenti del liceo classico abbiano contatto con l’ambiente delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un arricchimento della loro formazione. E’ assai formativo che i giovani, specie se provenienti da famiglie borghesi, osservino da vicino chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica, attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del nostro Paese.

E’ utile che osservino la potenza tecnologica cui è pervenuta l’attuale industria manifatturiera, frutto dell’umano ingegno, ma che vedano anche quanto fatica costa agli operai servirla, dalla mattina alla sera, con costante e usurante attenzione. Che i giovani destinati a diventare giuslavoristi, economisti o giornalisti economici trascorrano per qualche tempo delle ore in fabbrica potrebbe essere molto importante per il loro futuro professionale e per tutti noi: eviterebbero di occuparsi di lavoro e di mercato del lavoro con meno cinismo e irresponsabilità di quanto oggi non accada. Dovremmo ricordaci che per tutta l’età contemporanea, nei due secoli e passa di storia delle società industriali, mai le innumerevoli élites che sono diventate classi dirigenti dei rispettivi paesi hanno attraversato nel loro percorso formativo una esperienza conoscitiva della fabbrica. Due mondi necessariamente separati per rendere possibile l’architettura classista della società.

Non meno utile alla formazione dei ragazzi può essere la frequentazione delle aziende agricole. Ma anche qui non per trasformare lo studente in un apprendista lavoratore. E’ significativo del basso orizzonte dell’attuale ceto politico che si occupa di istruzione quanto ebbe ad affermare il sottosegretario all’istruzione del passato governo, Gabriele Toccafondi: «I ragazzi imparano a fare ma anche a vendere: lo studente che esce da un agrario deve saper fare un formaggio, ma anche saperlo vendere» (Corriere della Sera, 20.11.2014).

Personalmente annetto un valore formativo al “saper fare”, perché nell’uso delle mani si possono talora trasmettere antichi saperi e abilità. Ma purché questo si inserisca in una formazione culturalmente più alta e complessa e che non rimanga nel ristretto orizzonte di un vecchio mestiere. In un azienda agricola si possono apprendere cose ben più importanti per una moderna formazione culturale che non imparare a vendere il formaggio. Con l’aiuto di un bravo agroecologo i ragazzi possono sperimentare un approccio rivoluzionario alle scienze naturali, oggi così neglette e sciattamente insegnate. E’ sufficiente partire da un pugno di terra, una manciata di suolo agricolo, per spiegare l’evoluzione geologica del suolo terrestre, per passare poi alla sua composizione chimica, alla biologia dei microrganismi che contiene, ai meccanismi che presiedono al nutrimento delle piante, alla loro fisiologia, patologie, rapporto con gli insetti, comportamento e dipendenza dai fenomeni climatici.
Insomma dentro un’azienda agricola i ragazzi possono apprendere i fenomeni vitali che si svolgono all’interno di un habitat che è un frammento della nostra biosfera. Per questa via le varie discipline, in cui è stato frammentato il sapere scientifico contemporaneo, rivelano il loro carattere parziale e convenzionale e si ricompongono in una visione unitaria del mondo in cui viviamo. E’ di questo sapere che oggi abbiamo bisogno: necessità di una visione più complessa del mondo reale, per avviare un rapporto di cura con la natura, dopo secoli di dissennato saccheggio. E naturalmente, questo tipo di insegnamento deve avvenire rompendo lo schema ottocentesco della classe, dominata dalla figura dell’insegnante demiurgo e dei discenti da indottrinare, disciplinare e punire (si veda l’utile G.Stella, Tutta un’altra scuola, Giunti 2016). E’ qui l’altra rivoluzione da compiere, insieme alla valorizzazione, economica e formativa di chi tiene in piedi la scuola: gli insegnanti.

L'articolo è inviato contemporaneamente a officinadeisaperi.it

la Repubblica, "Robinson", 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Quante parole servono per esprimere una regola? E quante regole servono per disciplinare l’universo? A giudicare dall’esperienza che andiamo maturando noi italiani, parole e regole non sono mai abbastanza. E il 2016 che abbiamo ormai alle spalle è stato forse l’anno più prolifico della nostra storia nazionale. Come d’altronde mostra la sua creatura maggiore, benché abortita poi dagli elettori: la riforma costituzionale.

Dove campeggiava, a mo’ di gonfalone, il nuovo articolo 70: 430 vocaboli, al posto delle nove smilze parolette dettate dai costituenti. Con un labirinto di rinvii, di citazioni, di riferimenti ad altre norme della Costituzione. Sicché, ove quella riforma fosse entrata in vigore, il Senato avrebbe conservato la potestà legislativa «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Più che una norma, una rubrica telefonica.

Questo stile parossistico, questa stessa incontinenza semantica e verbale tracima da tutta la legislazione che ci ha inondato l’anno scorso. Noi, per lo più, non ci facciamo caso, non avviciniamo il nostro sguardo alla lingua del diritto. Sappiamo di questa o quella legge perché ne parlano i giornali o la tv, perché ci ronzano in testa le polemiche fra maggioranza e opposizione, non per averne letto il testo inforcando un paio d’occhiali.

Dovremmo farlo, invece, almeno qualche volta. Dopotutto, nessuno s’azzarderebbe a esprimere giudizi su un quadro o su un romanzo soltanto per sentito dire. E dopotutto le leggi non riguardano unicamente gli addetti ai lavori, così come l’arte non appartiene ai critici d’arte. Entrambe sono destinate al pubblico, e siamo noi, il pubblico.

A immergere lo sguardo nell’oceano delle Gazzette ufficiali, scopriremmo così che la legge sulle unioni civili — forse la più lieta novella del 2016 — s’articola in un solo articolo di 69 commi, è insomma disarticolata, o meglio inarticolata, un po’ come nella trilogia di Samuel Beckett, dove ogni frase corre per pagine intere. Verremmo a sapere che il decreto sulla semplificazione degli enti di ricerca (n. 218 del 2016) semplifica aggiungendo al comma 515 sancito chissà dove un comma 515 bis, rivolto alle « amministrazioni pubbliche di cui al comma 510 » .

Finiremmo poi per inciampare nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) dove s’addensano 181 errori nei suoi 220 articoli, come ha denunziato Gianantonio Stella. Infine sbatteremmo il muso contro la legge sui disabili ( n. 112 del 2016), ornata d’un periodo che infila sette genitivi sulle gengive del lettore: «nelle more del completamento del procedimento di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 13 del decreto…».

Se si dovessero studiare tutte le leggi, non rimarrebbe il tempo di trasgredirle, diceva Goethe. Anche volendo, però, è ormai diventato impossibile studiarle, giacché è impossibile capirle. Le prove? Basta rileggerne insieme qualche brano, pescando fra le novità legislative più celebrate del 2016. Per esempio, l’abolizione di Equitalia (articolo 1 del decreto legge n. 193 del 2016): « Dalla data di cui al comma 1, l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione nazionale, di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto- legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è attribuito all’Agenzia delle entrate di cui all’articolo 62 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, ed è svolto dall’ente strumentale di cui al comma 3».

Oppure la riforma delle partecipate ( articolo 24 del decreto legislativo n. 175 del 2016): « Le partecipazioni detenute, direttamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del presente decreto in società non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, ovvero che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, o che ricadono in una delle ipotesi di cui all’articolo 20, comma 2, sono alienate o sono oggetto delle misure di cui all’articolo 20, commi 1 e 2».

O infine la riduzione delle camere di commercio ( articolo 4 del decreto legislativo n. 219 del 2016): « Al fine di contemperare l’esigenza di garantire la sostenibilità finanziaria anche con riguardo ai progetti in corso per la promozione dell’attività economica all’estero e il mantenimento dei livelli occupazionali con l’esigenza di riduzione degli oneri per diritto annuale di cui all’articolo 28, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, le variazioni del diritto annuale conseguenti alla rideterminazione annuale del fabbisogno di cui all’articolo 18, commi 4 e 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, valutate in termini medi ponderati, devono comunque garantire la riduzione dei relativi importi del 40 per cento per il 2016 e del 50 per cento a decorrere dal 2017 rispetto a quelli vigenti nel 2014».

Questo demone nomenclatore non rende le nostre leggi più precise; semmai le rende incomprensibili, dunque sommamente imprecise. La precisione, in una norma, risiede nella sua chiarezza espositiva. E la chiarezza del diritto può anche sfiorare, perché no?, l’eleganza letteraria. Non a caso Stendhal diceva d’ispirarsi al code Napoléon, per trarne ritmo ed eleganza narrativa. E non a caso Terracini, nel 1947, chiese a tre letterati d’alleggerire la Costituzione, di renderla più sobria, più aggraziata, prima che l’Assemblea costituente l’approvasse.

D’altronde diritto e letteratura sono ufficialmente uniti in matrimonio dal 1973, da quando la pubblicazione di The Legal Imagination di J.B. White battezzò il Law and Literature Movement. E non si contano gli illustri personaggi che furono insieme giuristi e letterati, da Cicerone a Francis Bacon, che arrivò a trasformare un suo scritto giuridico in un saggio letterario ( Dell’usura, 1625). Senza dire di Giambattista Vico, che nella Scienza nuova ( 1725) introdusse il concetto di «giurisprudenza poetica», riconoscendo nella poesia un connotato dell’antica giurisprudenza.

No, non dipende dal diritto, dai suoi vocabolari, il timbro delirante di queste ultime leggi. La loro oscurità deriva piuttosto da una crisi morale, che nel 2016 ha continuato ad aggravarsi. Perché la corruzione s’estende poi al linguaggio, perché attraverso le parole risuonano le cose. L’estetica comprende in se stessa l’etica, lo dice per l’appunto la parola. E noi rischiamo di perdere entrambe le parole, entrambe le cose. ?

Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2017 (p.d.)


LA SINISTRA EUROPEISTA
CI RIPROVA
di Marco Maroni

Oggi a Roma, in una sala nei pressi di Campo de’Fiori, si riuniscono gli iscritti italiani di Diem25, nuovo movimento politico paneuropeo, che si pone come alternativa sia alle destre nazionaliste e post fasciste, sia alle sinistre socialdemocratiche blairiane.

L’assemblea, a porte chiuse, serve a delineare l'organizzazione territoriale italiana: sedi, comitati, dirigenti e via dicendo. Ispiratore del movimento è Yanis Varoufakis, economista ed ex ministro delle Finanze della Grecia nel primo governo Tsipras, la cui linea intransigente nella crisi finanziaria dell'estate 2015 si scontrò, perdendo, con quella altrettanto intransigente della Troika, obbligandolo a lasciare l'incarico. Varoufakis sarà presente domani all'assemblea romana.

A prima vista l'iniziativa sembra l'ennesimo tentativo di trovare un perché, un per come e una nuova credibilità della sinistra italiana. Peraltro, avere come riferimento politico una star della sinistra ellenica non è un precedente felice. A molti può venire in mente l'ingloriosa parabola della lista Tsipras, che aveva acceso qualche speranza nei progressisti in crisi nel 2014, tanto da riuscire a superare lo sbarramento del 4% alle Europee, per poi estinguere la sua spinta innovatrice tra litigi sui seggi, abbandoni, irrilevanza politica.

Non contribuisce alla chiarezza, inoltre, l'ermetismo del nome (significa Democracy in Europe movement 2025, dove 2025 sarebbe l'orizzonte di dieci anni, il termine che si è dato il movimento per democratizzare l'Europa). Gli organizzatori italiani assicurano però che in futuro gli sarà aggiunto un nome italiano.

L'obiettivo è contrastare l’Europa arroccata nella difesa dei grandi interessi. “Non è accettabile che a un lavoratore servano due anni per guadagnare quello che il loro capo porta a casa in un giorno. Non è accettabile che 17 milioni e mezzo di persone in Italia siano a rischio povertà ed esclusione sociale. Non è accettabile che 62 uomini siedano su metà del patrimonio mondiale mentre quattro dei primi dieci paradisi fiscali sono dentro i confini dell’Unione europea”, ha detto Varoufakis in primavera alla presentazione del movimento. “Vogliamo un’Europa giusta, democratica e inclusiva”, dice al Fatto Lorenzo Marsili, fondatore dell'organizzazione di attivisti European alternatives, e ora responsabile italiano di Diem25. I temi sono quelli decisamente progressisti delle sinistre radicali europeiste. Ma le parole “partito” e “sinistra”, sono estranee al lessico del movimento.

Così come a distanza, e qui viene l’altra parte interessante, ci si vuole tenere per ora dall’arena politica e partitica italiana. Diem25 punta a raccogliere consensi in quell’ampio fronte che ha detto no al referendum di dicembre, ma tenendosi fuori dai giochi e dai protagonisti della politica nazionale, che è già in sella per cavalcare in quelle praterie. “Per ora non andiamo a metterci nel ginepraio politico nazionale”, assicura Marsili.


IL MINOTAURO GLOBALE
DIETRO LA CRISI
DI GRECIA E ITALIA
di Yanis Varoufakis

La metafora del Minotauro Globale si era insinuata in me nel 2002 dopo conversazioni infinite con l’amico, collega e co-autore Joseph Halevi. Le nostre discussioni su cosa avesse mosso il mondo dopo le crisi economiche degli anni Settanta produssero una visione del sistema economico globale nella quale i deficit dell’America, Wall Street e il valore reale costantemente in declino dei salari americani avevano un ruolo determinante e, paradossalmente, egemonico. Le nostre argomentazioni erano incentrate sulla caratteristica determinante dell’era post 1971, che ha rappresentato un momento di inversione del commercio e dei surplus di capitale tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. L’egemone, per la prima volta nella storia del mondo, rafforzava la sua egemonia aumentando volontariamente i suoi deficit. Il trucco era capire come l’America ci fosse riuscita e il modo tragico in cui il suo successo aveva fatto sorgere la finanziarizzazione che, rafforzando la dominazione statunitense, piantò i semi della sua potenziale caduta.

Quando, cinque anni dopo, nel 2008 il sistema finanziario implose, Danae Stratou, la mia compagna in tutto, mi incitò a scrivere un libro proprio grazie alla forza comunicativa della metafora principale, il minotauro globale. Iniziai a scrivere nella nostra casa di Atene, in un periodo in cui le nuvole nel cielo del nostro Paese non erano ancora minacciose e la maggior parte dei nostri amici e familiari non credeva che la Grecia fosse in caduta libera. In un contesto in cui ci si rifiutava di vedere i presagi funesti, cominciai a ottenere un certo grado di notorietà in Grecia e sui media internazionali, nella veste di Cassandra che credeva che la bancarotta della Grecia non solo fosse inevitabile, ma che allo stesso tempo fosse annunciatrice del disfacimento dell’eurozona. Solo allora mi resi conto dell’ironia implicita nell’usare una metafora greca (quella del Minotauro minoico) per raccontare una catastrofe internazionale della quale la Grecia sarebbe stata la vittima maggiore.

Immerso nella scrittura, tuttavia, mi rifiutai di dare alla Grecia un ruolo troppo prominente: da una parte passavo ore e ore negli studi tv o alla radio a discutere del costante deterioramento della Grecia, dall’altra ero determinato più che mai a lasciare la Grecia fuori dalle pagine del libro. Se la mia diagnosi sulle sventure della Grecia fosse risultata giusta (non esiste una crisi greca, piuttosto la Grecia è il sintomo di uno smottamento più ampio), era gioco forza che il mio libro riflettesse questa diagnosi. Quindi, gli Stati Uniti rimanevano il punto focale dell’analisi. L’essermi occupato intensamente del quadro più ampio della crisi dell’euro mi ha dato l’opportunità di testare la capacità del Minotauro Globale di gettare una luce utile sulle circostanze post 2008 e di sollecitare proposte sulla linea politica da adottare.

Come sempre accade con metafore potenti, il pericolo che le mie analisi potessero essere influenzate dal potere allegorico del Minotauro Globale, era in agguato. Ma nei mesi tra l’ultima revisione delle bozze e il momento in cui ho avuto in mano la copia pubblicata, il mondo pareva non avere compiuto niente che non fosse in linea con la metafora del libro.

La nuova edizione è stata completata negli Stati Uniti, dove viviamo Danae e io. È da qui che, con un certo senso di colpa, scandaglio il deserto del mio Paese, dando di tanto in tanto un’intervista ai vari network che mi pongono continuamente la stessa domanda: cosa dovrebbe fare la Grecia per districarsi dalla sua Grande Depressione? Come dovrebbero rispondere la Spagna o l’Italia a delle richieste che, ci dice la logica, peggioreranno ulteriormente la situazione? La risposta che do con sempre maggiore monotonia è che non c’è altro che i nostri orgogliosi Paesi possano fare, se non dire di no a politiche insensate il cui obiettivo reale è quello di aumentare la depressione per motivi apocrifi che solo uno studio attento dell’eredità del Minotauro Globale può rivelare.

«In Italia infatti a fronte delle migliaia di migranti spesso concentrati nelle stesse strutture in condizioni bestiali, esiste un patrimonio vuoto o inutilizzato di case o appartamenti superiore ad otto milioni di unità». il manifesto, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)

Assistere agli spettacoli da dannati della terra» offerti, oggi come ieri, da Cpa e Cie – e per di più nel nostro paese con milioni dei case vuote da rendita finanziario-immobiliare – è mostruosamente grottesco e inaccettabile. Sono da condividere le uscite di coloro che in queste ore ricordano i continui e clamorosi tragici fallimenti delle strutture a grande concentrazione di immigrati, le tristi sigle di questi anni: Cpa, Cie , Cat, per indicare soluzioni molto diverse. Così come da condividere sono le posizioni di chi – come Luigi Manconi- argomenta la sostanziale mistificazione che sta dietro alla categoria di clandestino; laddove sostanzialmente tutti coloro che arrivano (ormai riconosciuti e schedati) fuggono da disastri sociali o bellici o ambientali.

Sarebbe bene che Marco Minniti guardasse più a Papa Francesco e meno a Matteo Salvini; i tentativi di mediazione impossibili tra approcci troppo diversi, se non opposti, hanno significato disastri,troppo spesso.

Il frettoloso annuncio di «una stretta a controlli e espulsioni» rischia di mettere in crisi quel poco di buono che il governo – tramite le prefetture – sta esprimendo, in termini di presa d’atto dei fallimenti delle macrostrutture citate (a parte sprechi ,corruzione e mafie) e di cooperazione con i comuni disponibili e con l’Anci per l’inserimento di ridotti nuclei di migranti in quanti più comuni possibile. Tali strategie possono e devono diventare politiche permanenti nel periodo medio-lungo . Da comprendere nelle azioni di riqualificazione urbanistica e sociale di città e territori.

In Italia infatti a fronte delle migliaia di migranti spesso concentrati nelle stesse strutture in condizioni bestiali, esiste un patrimonio vuoto o inutilizzato di case o appartamenti superiore ad otto milioni di unità (Istat,2011) ; di queste quasi il 60 % sono effettivamente vuote . Mentre circa 450.000 edifici risultano completamente abbandonati. E parliamo solo di abitazioni, perché se aggiungiamo i volumi ex industriali e commerciali le cifre crescono di molto.
Il «vuoto nazionale» è talmente rilevante da costituire un enorme monumento allo spreco sociale , economico e ambientale.

Oltre che una ferita al paesaggio del Belpaese , anche per il consumo di suolo che ha comportato. Le cifre sono tali da permettere non solo azioni di accoglienza molto più vaste di quelle di cui oggi si parla , ma anche il totale soddisfacimento della domanda abitativa da disagio interno (poco più di 250.000 famiglie: solo le case vuote di Roma e Milano basterebbero quasi a soddisfare tale domanda).

Un problema è rappresentato dal fatto che oltre due terzi di tale patrimonio è privato . Ma proprio per questo l’accoglienza deve diventare una delle componenti fondamentali delle azioni, non solo abitative ma di nuova qualità civile e ambientale delle città. Come già avviene in alcuni comuni – in primis Riace in Calabria – si possono ricercare accordi che portino a protocolli di utilità sociale con i proprietari disponibili (che ne hanno il vantaggio del riuso del bene, spesso con azioni di piccola ristrutturazione o manutenzione straordinaria).

Mentre, laddove la proprietà è rappresentata da persone non fisiche – spesso immobiliari a scopo di lucro – che tengono fuori dal mercato sociale milioni di appartamenti, sovente esentasse perché dichiarati «beni destinati alla vendita» (tutti gli ultimi governi hanno annunciato di voler cancellare tale paradossale iniquità, ma ancora non è successo nulla) vanno ricercati gli idonei strumenti coercitivi: dalla tassazione progressiva sul vuoto/inutilizzato fino alla requisizione per pubblica utilità

L’Anci sottolinea come i migranti ospitati potrebbero svolgere a paga sociale lavori utili alle strutture urbane come raccolta differenziata, piccole riparazioni, cura degli arredi del verde, etc. In realtà – come sottolineato di recente dalla Società dei Territorialisti- tale presenza può agire aspetti molto più strutturali, favorendo la ricostituzione di tessuti socioculturali, oggi spariti, fino alla riqualificazione dei paesaggi urbani e abitativi.

Di più i migranti possono essere gli attori principali di opzioni di sviluppo sostenibile territorializzato – più che mai necessari-soprattutto nei centri abbandonati, che, come già avviene in alcuni contesti meridionali, possono vivere nuove stagioni di sostenibilità sociale legate all’agrorurale e al visiting socioculturale del paesaggio, per esempio. I centri della Piana di Gioia Tauro possono vedere un futuro di riqualificazione sostenibile legato alle strategie di accoglienza, se i migranti passano dai campi simil-profughi in cui vivono oggi a Rosarno e dintorni ad abitare le strutture vuote dei paesi del contesto.

«I primi a usare il “vento di Dio” in battaglia furono gli Arabi. Da allora gli stendardi sono diventati simboli di religione civile. Riflessioni sul giorno dedicato al Tricolore.»

la Repubblica, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)

La Festa del Tricolore o Giornata nazionale della Bandiera del 7 gennaio, messa lì dopo la befana, come una scomoda pasquetta laica, è stata istituita per legge nel 1996. Essa recuperava, alla vigilia del secondo centenario del tricolore della Repubblica cispadana, un’intuizione di Carducci, che il 7 gennaio 1897, aveva festeggiato il natale del “santo tricolore”, con la sua inconfondibile retorica («Noi che l’adorammo ascendente in Campidoglio, noi negli anni della fanciullezza » ecc. ecc.).

La legge arrivava dopo i decenni nei quali la bandiera era rimasta a disposizione di nostalgie di destra ed entusiasmi calcistici (“forza Italia”). E non prendeva certo in considerazione la storia del termine, dell’oggetto e delle sue valenze. Il termine, infatti, nasce dalle “bande” longobarde e indica per metonimia gruppi di soldati o cavalieri identificati dal loro drappo.

Ma l’origine militare dell’oggetto è più antica ed è araba. Inizia con al-Uqab — la bandiera tutta nera come la pupilla dell’aquila — usato del Profeta. Il califfato immenso degli Omayyadi adotterà la bandiera bianca, a cui si opporrà negli scismi dell’islam quella di nuovo nera degli Abbasidi e quella verde di Alì.

Durante le crociate questi vessilli monocromatici si pubblicizzano come supporti per i grafemi del Corano o i segni della croce e s’alzano per chiedere al vento — il vento è di Dio — un segno di benevolenza per la propria guerra santa.

Da qui la bandiera entra nella storia occidentale: oggetto di culti patronali, segno delle signorie, pegno di onore e disonore militare, diventa una tavolozza di costruzioni grafiche complesse come quelle della Union Jack, e della bandiera della Continental Army della rivoluzione americana. Ma sale lo scalone dell’imagerie dello Stato nazionale moderno con una decisione cromatica del il 17 luglio 1789. A Parigi, per annunciare il ritorno del re in città, la guardia civica aggiunge infatti al rosso-blu della sua coccarda il bianco, colore della monarchia.

Quel distintivo, appuntato da Jean-Sylvain de Bailly al cappello di Luigi XIV, alza il sipario sull’ideologia “tricolore”: analogo cromatico della triade liberté- egalité- fraternité, segno di cittadinanza, bandiera dei reggimenti. Nella scia rivoluzionaria napoleonica nasce a Reggio Emilia il tricolore del 1797 oggi celebrato come progenitore della bandiera nazionale a bande orizzontali, o quello a quadrati della Repubblica d’Italia del 1802, evocato oggi dallo stendardo quirinalizio.

La modernità iscrive la bandiera in una civil religion dalle molte varianti. In America il giuramento alla “mia bandiera” composto nel 1882 dal pastore Francis Bellamy, fa delle stelle e strisce un pegno di cittadinanza da onorare o da bruciare, come faranno i renitenti alla leva del Vietnam.

In Europa l’ideologia dei colori “nazionali” unifica le transizioni istituzionali e permette, come fa Carducci, di inventare “il natale della Patria” smussando gli spigoli della storia (di tricolori ce n’erano prima del 1797, come quello indossato da Zamboni e De Rolandis, giustiziati dal boia del papa nel 1794, o di più esatti come quello della Giovine Italia del 1831, o di più epocali come quello di Carlo Alberto del 23 marzo del 1848). Ma, come ha spiegato lo storico Roberto Balzani, il problema non era filologico: serviva un tricolore “pre-esistente”, per saldare l’antica unità culturale delle inconciliabili varietà italiane alla recente unità politica. Un’operazione non indolore: la Chiesa odiava il “cencio tricolore”; i socialisti avevano la bandiera rossa che, come diceva un canto mazziniano, “la triunferà”; e chi patì l’orrore della guerra e il latrocinio fascista dello Stato non ne aveva un bel ricordo.

E se un simbolo non è un oggetto ma un rapporto, come insegna Raymond Firth, il tricolore esprime il vincolo di cittadinanza con uno Stato che delude figure molto diverse fra loro. Delude gli intellettuali che Croce irride scrivendo nel 1912 dei «moralisti da caffè o da farmacia annunziare che l’Italia sta per disgregarsi economicamente o politicamente o dissolversi nella corruttela e essere trascinata in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come Nazione». Delude coscienze vigili come quella di Arturo Carlo Jemolo che alla fine della guerra capisce come il fascismo abbia lasciato nell’aria una «miseria morale» che «residua nell’acidità meschina» di quelli che «dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le più alte figure ». E delude Ciampi che da vecchio dice «non è il paese che sognavo», dopo aver speso la vita per renderlo meno peggio.

La differenza fra ciarlatani e vigilanti non sta nella delusione, ma nella scelta di rispondere con le chiacchiere o col pensiero. E c’era pensiero alla Costituente nell’adozione del tricolore: il pensiero delle molte formazioni partigiane che avevano recuperato, levando lo stemma sabaudo con le forbici e sostituendolo con i propri simboli in una guerra civile; il pensiero degli internati che avevano patito nei campi di concentramento; degli uccisi dalla guerra e dalla Shoah; della divisione istillata goccia a goccia dal fascismo.

Quel tricolore non serviva a coprire una continuità che evadesse la colpa, non a mimare con la stoffa una univoca “identità”, che è il surrogato ideologico di chi non sa comprendersi nella irriducibile complessità dell’essere: ma a pensare un patriottismo costituzionale — ben prima che Habermas lo teorizzasse — fatto di diritti, di doveri e di libertà. Che sono la cosa che, senza assentarsi dal lavoro (dice la legge), vale la pena di festeggiare.

«Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione».

il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)

Il Ministro dell’interno, Marco Minniti, che è persona intelligente e tutt’altro che sprovveduta, già ha dovuto ridimensionare l’annuncio sfuggitogli, nonostante l’accortezza che connota il suo stile pubblico. Il proposito di istituire «un Cie in ogni Regione» ha avuto vita breve, appena una manciata di ore, ed è sembrato rispondere più all’intento di sedare ansie diffuse che a quello di realizzare una strategia razionale. Per una serie di ragioni rivelatesi, alla luce dalla storia pregressa dei Cie (dal 1998 a oggi), inconfutabili.

In estrema sintesi, i Cie rappresentano un autentico fallimento. Prendete quella sigla: l’acronimo richiama due funzioni – identificazione ed espulsione – che costituiscono lo statuto giuridico dei Cie e la loro sola finalità normativa.

Nel tempo trascorso dall’approvazione della legge n. 40 del 1998, l’identificazione ha riguardato solo una quota minoritaria degli stranieri trattenuti in questi centri: e il dato stride con quella percentuale di oltre il 94% di identificati, grazie a procedure e a strutture diverse da quelle dei Cie, tra le persone sbarcate in Italia nel 2016. Insomma, in base a quanto appena detto, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita.

Per quanto riguarda le espulsioni, la vicenda di Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è la dimostrazione più limpida, e allo stesso tempo drammatica, di come tutte le misure di cui in questi giorni si è discusso con tanta foga siano approssimative, anche quando utili; e ancora più spesso sgangherate, quando si affidano a messaggi emotivi, destinati a blandire le pulsioni più oscure della società. Anis Amri trascorre quattro anni in un carcere italiano e viene poi trattenuto nel Cie di Caltanissetta, dove viene avviata la pratica di espulsione. Ma accade che le autorità consolari della Tunisia, che pure ha sottoscritto un accordo per la riammissione, si rifiutano di riconoscere Amri come connazionale.

Di conseguenza, il provvedimento di espulsione risulta ineseguibile e Amri, che ha espiato la sua pena, torna libero. Ma il futuro esecutore della strage di Berlino è persona identificata, riconosciuta, fotosegnalata, della quale sono state rilevate le impronte digitali e il cui curriculum criminale e giudiziario, sociale e persino politico (si ipotizza una possibile radicalizzazione) è stato regolarmente depositato nella banca dati europea. Quella banca dati a cui accedono le forze di intelligence e di polizia dei diversi paesi dell’Unione. Nonostante ciò, Amri non solo può organizzare e realizzare il suo progetto terroristico, ma può attraversare tre (forse quattro) paesi europei prima di trovare la morte a Sesto San Giovanni.

Se ne ricava che anche provvedimenti opportuni, come gli accordi con le nazioni extraeuropee, non offrono soluzioni miracolistiche: perché si tratta di paesi profondamente instabili, o lacerati da guerre civili, o soggetti a regimi totalitari; e perché, infine, quegli stessi paesi non hanno alcun interesse a riammettere connazionali che potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine interno.

La fragilità di tutte le soluzioni prospettate significa forse che non vi siano vie d’uscita e che sia fatale arrendersi? Assolutamente no: ancora una volta, è la vicenda di Amri che segnala in maniera inconfutabile come la debolezza delle strategie antiterroristiche risieda nell’impreparazione e nell’inefficienza degli apparati di intelligence e delle forze di polizia; e innanzitutto nel disastroso deficit di comunicazione e cooperazione a livello europeo. Come è potuto accadere, infatti, che il responsabile di una strage atroce, pur se da tempo conosciuto, identificato e segnalato, non sia stato intercettato e fermato? E se fosse vero, come pure credo, che non tutto – e non tutte le insidie, e non tutti i terroristi potenziali – può essere previsto e prevenuto, resta indiscutibile che è lì, esattamente lì, che si deve intervenire, concentrare le energie, focalizzare l’attenzione e le forze.

Dunque, circoscrivere e selezionare gli obiettivi veri, quelli che possono costituire una minaccia reale. E, invece, si fa l’esatto contrario: nel momento in cui si definiscono clandestini tutti gli irregolari, e si trattano tutti gli irregolari come clandestini e terroristi, e su questo meccanismo di sospetto si organizzano le politiche del controllo e della repressione, si ottengono due risultati analogamente perversi. Si finisce col trascurare i nemici veri e si trasformano in nemici coloro che nemici non sono affatto. Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari – per esempio, la gran massa di quanti sono impiegati in nero in agricoltura o nell’edilizia – si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione.

Ancora una volta, dunque, si dimostra come solo politiche sociali intelligenti rappresentino il contesto indispensabile per contrastare i fenomeni criminali.

Infine, il ministro dell’Interno ha detto: «I Cie non avranno nulla a che fare con il passato». Voglio considerarla una condanna inappellabile per ciò che sono stati e sono oggi i Cie: strutture orribili, dove vengono violati costantemente i diritti fondamentali della persona. Un non luogo precipitato nel non tempo.

«Di per sé la paura non è negativa, è l’altra faccia della prudenza. Il problema è quando viene amplificata, per interesse».

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2017 (p.d.)

Franco Cardini, storico medievalista e voce critica sulle ipocrisie e le semplificazioni dell'Occidente iper capitalista, alla paura ha dedicato un libro: La paura e l'arroganza (in chiara opposizione alle tesi di Oriana Fallaci nel suo La rabbia e l’orgoglio) che ospita scritti di autori come Noam Chomsky, Massimo Fini, Alain de Benoist e l'Ayatollah Seyed Ali Khamenei. Secondo Cardini la paura collettiva, elemento che si ritrova in ogni epoca e civiltà, ha dei picchi nei periodi di decadenza e ignoranza diffusa, anche perché è un sentimento che si autoalimenta. Per contrastarla, serve senso critico, cultura, consapevolezza.

Professor Franco Cardini, stiamo attraversando un periodo fertile per le psicosi collettive?

La paura c’è sempre stata. Come dicono gli psicanalisti, è una capacità eccessiva di esercitare la propria fantasia. E di per sé la paura non è un elemento negativo: è anche l'altra faccia della prudenza. Il problema sorge quando viene amplificata, per interesse. Perché poi le paure tendono a riprodursi da sole.
È quello che succede in questo inizio d’anno?
C'è una specie di forza policentrica in atto che alimenta le paure. In alcuni casi, per esempio la paura dei diversi, dei migranti, lo scopo è ottenere una facile ricaduta politica. Se le democrazie fossero gestite da persone che, come si diceva nell'800, hanno a cuore il bene dei cittadini, questo non succederebbe.
È una classica tesi della sinistra anticapitalista che la paura sia funzionale alla società dei consumi.
In queste tesi c'è molto di vero. Si pensi solo a tutto il surplus di provvedimenti adottati per la sicurezza aeroportuale dopo l'attacco alle Torri Gemelle negli Stati Uniti. È stato notato che hanno dato la stura a un enorme business, non solo per le apparecchiature di controllo: si sono fatti nuovi affari con cose come le buste di plastica per contenere i liquidi; è aumentato il fatturato degli aeroporti con le vendite di bibite o panini a causa delle lunghe code che si formano per i controlli.
Qual è il ruolo dei media?
Il modo di fare informazione può alimentare la paura ma anche tenerla lontana. Faccio un esempio: il Tupolev russo caduto nel Mar Nero a Natale con a bordo il coro dell'Armata Rossa, che è una istituzione nazionale. I russi hanno subito smentito che si trattasse di terrorismo e hanno imposto una sorta di silenzio stampa. E infatti lì non s’è creato alcun panico terrorismo. Se fosse successa da noi una cosa simile si sarebbe parlato di ‘colpo al cuore dell'occidente’, aumentando ancora di più le psicosi. Sono due approcci opposti, ma spiegano il ruolo dell'informazione. In Italia purtroppo abbiamo un tipo di informazione prevalente che non invita alla critica ma all'esagerazione delle sensazioni.
E quindi?
Bisogna fare appello alla cultura, al senso critico e della responsabilità per contrastare le paure. Nella società dell'immagine e dello spettacolo ormai ciò che succede è ciò che succede sui media. Se una cosa accade e non ne parla nessuno è come se non accadesse, mentre se non accade davvero ma i media ne parlano, è come se fosse successa. Le centrali terroristiche ci vivono su questo. L'impatto della loro attività è dovuto per il 10 per cento alle loro azioni, per il 90 per cento al fatto che se ne parla.
Ora l'informazione viene presa in gran parte dal Web che è un po' un territorio selvaggio. Quali sono le conseguenze?
È un po’come nel caso delle infezioni. Bisogna rassegnarsi al fatto che siamo tutti vulnerabili alla sovraesposizione di notizie non controllate e non verificabili. Cosa che ci espone più facilmente alle paure. Col tempo, come per le infezioni, svilupperemo degli anticorpi, o almeno lo spero. Il rischio è che dopo la paura subentri la rassegnazione e il fatalismo, dei commenti che cadono nel vuoto, senza una vera consapevolezza. Il problema è che l'Italia è una società culturalmente e civilmente molto debole. Si deve rendere conto che certi problemi vanno affrontati. Bisogna fare appello alla cultura, al senso di responsabilità.
La psicosi terrorismo però non è un problema solo italiano.
Ieri ho attraversato Parigi all’una di notte. Era assolutamente deserta. È gravissimo. Bisognerebbe reagire al terrorismo, come cittadini, senza modificare il proprio stile di vita, rispondere come se niente fosse. Anche perché è un problema che andrà avanti a lungo.
Perché?
Credo che il Califfato avrà un’agonia molto lenta. Sono solo in 50 mila i combattenti ma sopravvivono nonostante tutte le forze armate che li contrastano. La ragione sta nel fatto che evidentemente sono funzionali a interessi ben radicati.

il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)

In un paese prevalentemente a tradizione e trazione agricola come il Myanmar, la terra significa ricchezza, vita, cibo, legname, casa, tutto. La ricchezza principale per molte delle popolazioni che vivono nel paese è proprio dovuta alla terra. In particolare i Rohingya, la maggioranza dei quali vive al di sotto delle condizioni minime di sussistenza.
Il problema è che nei loro confronti è in atto da tempo una guerra sotterranea che mira proprio a espropriarli delle loro terre senza che in cambio possano avere alcuna compensazione, né monetaria, né legata a un eventuale impiego di lavoro. Dunque, al di là delle questioni religiose è necessario tenere conto di interessi economici che si celano dietro la loro persecuzione e terribile esistenza. Saskia Sassen sul Guardian del 4 gennaio in un articolo intitolato «La persecuzione dei Rohingya è causata da motivazioni economiche, oltre che religiose?» si è posto proprio questo problema. La verità è che da tempo, sia la giunta militare quanto il nuovo corso «democratico» del paese, hanno puntato sul land grabbing come motore della propria economia per favorire le industrie minerarie, la raccolta di risorse, di legname e per sviluppare l’industria turistica.

Se negli anni precedenti questo era un processo completamente controllato dai militari, dal 2012 grazie alla nuova legge sulla terra, il paese ha aperto la possibilità di acquisire terre anche a investitori internazionali. Come scrive Sassen sul Guardian, «Gli ultimi due decenni hanno visto un massiccio aumento in tutto il mondo di acquisizioni societarie di terreni per l’estrazione, il legname, l’agricoltura e l’acqua. Nel caso del Myanmar, i militari hanno espropriato vaste distese di terreno da piccoli proprietari fin dal 1990, senza alcuna compensazione, ma utilizzando le minacce contro eventuali tentativi di reazione. Questa forma di land grabbing è continuata attraverso i decenni, ma ha ampliato enormemente il proprio giro d’affari negli ultimi anni. La terra assegnata ai grandi progetti è aumentata del 170% tra il 2010 e il 2013. E nel 2012 la legge che disciplina la terra è stata modificato per favorire le grandi acquisizioni societarie».

Secondo i dati elaborati da organizzazioni che si occupano di analizzare i processi di land grabbing in Myanmar, il governo birmano, di recente, avrebbe stanziato 1,268,077 ettari proprio nella zona occidentale del paese, quella abitata dai Rohingya, per lo «sviluppo rurale aziendale»; questo – scrive Sassen – «è un bel salto rispetto alla prima ripartizione formale effettuata nel 2012, per appena 7.000 ettari».

Milioni di persone, quindi, hanno subito una vera e propria persecuzione, costrette a fuggire dalla loro terra, non solo per questioni religiose, anzi. Proprio l’aspetto religioso sembra una sorta di specchietto per le allodole per nascondere una trasformazione territoriale che il governo di Yangoon forse nasconde ai propri cittadini. E responsabili di questi processi sono senza dubbio anche altri paesi ben più avanzati per quanto riguarda il livello generale di vita. Basti pensare che il Myanmar è stretto tra India e Cina, due giganti mondiali e non solo regionali. Paesi ingordi e bisognosi di risorse.

Proprio Pechino, di recente, aveva ingaggiato un confronto con la giunta militare per la realizzazione di una diga, bloccata poi dalle proteste della popolazione locale. Ma evidentemente si trattava di un momento politico particolare, con il cambio del governo e l’arrivo in pompa magna di Aung San Suu Kyi e la sua volontà di aprirsi di più all’Occidente. Rimane il fatto che l’opacità dell’esecutivo è ancora lì, così come le politiche di land grabbing.

«Referendum contro il Jobs Act. A pochi giorni dal verdetto della Corte costituzionale, il parere dell’avvocatura dello stato. La replica della Cgil».

il manifesto, 6 gennaio 2016

In un paese dove l’allusivo quesito presentato da Matteo Renzi al referendum costituzionale del 4 dicembre è stato considerato legittimo, ieri l’avvocatura dello Stato (in rappresentanza del governo Gentiloni) ha definito «propositivo, manipolativo e inammissibile» il quesito referendario presentato dalla Cgil per abrogare le modifiche apportate dal Jobs Act all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. È l’inizio della guerra contro un altro pilastro del renzismo. Mercoledì 11 gennaio ci sarà una battaglia campale davanti alla Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità anche dei quesiti su voucher e appalti.

LA TESI È STATA ANTICIPATA da una campagna stampa trasversale iniziata poche ore dopo lo tsunami del «No» che ha spinto Renzi alle dimissioni da Palazzo Chigi. È continuata con i retroscena, simulati direttamente dalla camera di consiglio, secondo i quali alcuni giudici della Consulta giudicherebbero «propositivi» i quesiti che intendono abrogare la norma che ha inciso sull’articolo 18. Stessa musica si ascolta nella memoria dell’avvocatura dello Stato: il quesito ha «carattere surrettiziamente propositivo e manipolativo» e per questo «si palesa inammissibile – sostiene l’avvocatura dello Stato – Proponendosi di abrogare parzialmente la normativa in materia di licenziamento illegittimo, di fatto la sostituisce con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento; disciplina che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo, né direttamente costruire».

LA CGIL PUNTEREBBE a estendere i vincoli al licenziamento a tutte le aziende con più di 5 dipendenti. «L’intento dei promotori del referendum – continua l’Avvocatura – è quello di produrre la tutela reale per tutti i datori di lavoro con più di 5 dipendenti che chiaramente estrae il limite dei 5 dipendenti, previsto per le sole imprese agricole, per applicarlo a tutti i datori di lavoro, a prescindere dal tipo di attività svolta». Ma «secondo costante giurisprudenza costituzionale in tema di referendum abrogativo, non sono ammesse tecniche di ritaglio dei quesiti che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole cui attingere per costruire nuove disposizioni».

L’AVVOCATURA HA DATO PARERE negativo sul quesito che intende abrogare i contestatissimi voucher. «Rischia di produrre un vuoto normativo in quelle prestazioni che – per la loro limitata estensione quantitativa o temporale – non risultino riconducibili al lavoro a termine o di altre figure giuridiche contemplate dall’ordinamento vigente». L’abrogazione delle norme sugli appalti – il terzo quesito proposto dalla Cgil – condurrebbe a un’«incertezza normativa». Inoltre «una eventuale modifica della disciplina nel senso del quesito referendario, avrebbe, come ulteriore effetto, quello di incidere sulla regolamentazione delle vicende negoziali in essere al momento della modifica normativa». Letto lo spartito è prevedibile che ci sarà un fuoco di fila contro Corso Italia per bloccare o screditare un referendum che, sia pure con modalità diverse da quello del 4 dicembre, rischia di minare uno dei dogmi del liberismo giuslavorista.

LA RISPOSTA ALLA MEMORIA dell’avvocatura dello Stato è arrivata ieri pomeriggio a stretto giro. «L’ammissibilità la stabilisce la Corte costituzionale, che è autonoma e competente. Per quanto riguarda il quesito, non manipola alcunché. Non è propositivo, né manipolativo, è un quesito abrogativo: la risultante è una norma esistente» sostengono fonti della Cgil. Una risposta tecnicamente più argomentata è arrivata dall’ufficio giuridico del sindacato secondo il quale «l’ammissibilità è manifesta sul piano dello stretto diritto costituzionale. «Nessuno dei tre referendum riguarda materie che, per l’articolo 75 della Costituzione, siano esplicitamente precluse all’iniziativa referendaria» sostengono i giuristi. Questo articolo esclude la consultazione sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. L’oggetto del referendum riguarda le decisioni di un governo: «i licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto, l’uso del lavoro accessorio tramite voucher sono materie rimesse alla decisione politica». Renzi ha infatti, deliberatamente, scelto di abrogare l’articolo 18. La politica è la materia del referendum.

PER QUESTE RAGIONI il sindacato ha proposto un’abrogazione non «totale» ma solo «parziale» della legislazione in materia di licenziamenti illegittimi «per non cagionare vuoti legislativi i quali impediscano lo svolgimento, per sé necessario, di principi e regole costituzionali». Nel merito delle illazioni sul «ritaglio» effettuato dal quesito abrogativo – che finirebbe così per diventare «propositivo» – i giuristi di Corso Italia rispondono: «Il “sì” al quesito referendario, lungi dal rendere meno limpide e nitide le disposizioni di legge sui “licenziamenti illegittimi” che ne sono l’oggetto, ne ricomporrebbe il significato unitario, restituendo la certezza del diritto».

VINTO IL REFERENDUM sul campo resterebbe una disciplina legislativa «precisa e rigorosamente unitaria» e varrebbe in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupa più di cinque lavoratori. Il quesito abroga parzialmente il comma 8 del testo attuale dell’articolo 18 dello Statuto e allarga questa soglia anche ai lavoratori e alle imprese che operano in settori diversi da quello dell’agricoltura. Osservazioni che valgono per il quesito sugli appalti che risulta più elaborato «a causa degli sviluppi tumultuosi e contraddittori della legislazione», e anche per quello sui voucher. La loro abrogazione lascerà sul campo le norme esistenti sul lavoro a tempo determinato e stagionale e mira a eliminare l’abuso che ha reso possibile il boom incontrollato dei buoni lavoro.

FAVOREVOLE, per ragioni storiche, all’impostazione dell’Avvocatura è il presidente della commissione lavoro al Senato Maurizio Sacconi: «Il contenuto dei quesiti non è univoco e il loro esito favorevole sarebbe creativo di una disciplina del tutto nuova». Parere opposto è quello del presidente della commissione lavoro alla Camera Cesare Damiano: «Il contenuto è univoco, è già successo nel ’93 sull’elezione del Senato. Sui voucher il governo Gentiloni dovrebbe sostenere la proposta di legge firmata da 45 parlamentari Pd. Anche se non ci fossero i referendum, tutti questi problemi andrebbero affrontati perché realmente esistenti».

«La sua nozione di cultura assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, e si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo, Antonio Gramsci e a Kant dKant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante». Articoli da

la Repubblica, Il Fatto Quotidiano, il manifesto, Internazionale online 6 gennaio 2017 (c.m.c.)

la Repubblica
DE MAURO IL MAESTRO
DELLA LINGUA ITALIANA
di Francesco Erbani

Tullio De Mauro conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti — forse era già ministro dell’Istruzione — gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.

De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni — era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 — era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.

Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento.

Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.

Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno.

E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico.

La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari.

Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica dell’Italia repubblicana(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando — uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.

Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso.

Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.

Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.

Il Fatto Quotidiano
DE MAURO, COSI' PARLAVA
CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi

È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.

Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.

Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.

Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che – soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli – per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.

A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica – non l’unico” – ci tenne a precisare – “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio – così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.

Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.

Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.

E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.

il manifesto

IL PRIMATO DELLA PAROLA

SU PENSIERO E PULSIONI

di Marco Mazzei

Esistono due discipline imparentate tra loro che spesso, come accade in ogni famiglia degna di questo nome, si guardano in cagnesco. La prima è la linguistica, scienza rigorosa che punta a una descrizione fine dei più diversi fatti di parola: la sintassi e la grammatica, la trasformazione fonetica o i problemi generati dal lessico di qualunque lingua umana. La seconda, una strana creatura dal nome «filosofia del linguaggio», sembra librarsi, eterea, nel cielo della speculazione teorica. Non di rado questa diffidenza produce una cecità al quadrato. La linguistica rischia di perdersi nel dettaglio, senza riuscire a fornire uno sguardo di insieme circa il significato antropologico di quel fenomeno, umano e multiforme, che chiamiamo «parlare».

Di contro, la filosofia del linguaggio mainstream si ritrova sull’orlo di una crisi di nervi perché cede volentieri alla tentazione di fare filosofia a partire da una lingua, la propria: stranamente le forme più diverse che il linguaggio assume nella vita umana non collimano con le idiosincrasie del parlante di Oxford o della Stanford University. Tullio De Mauro è stata una figura decisiva del Novecento italiano poiché ha puntato a un profondo rinnovamento teorico proprio a partire dall’incontro tra linguistica e filosofia. Ha lavorato con metodo a smantellare la caricatura che contrapporrebbe il linguista pignolo al filosofo evanescente. Ricerche divenute oramai classiche come la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) o il Grande dizionario italiano dell’uso (Utet, 1999-2007) rischiano di mettere in ombra una parte decisiva della sua produzione intellettuale.

Tramite la traduzione (con note di commento teorico e ricostruzioni storico-biografiche tuttora imprescindibili) del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1967), De Mauro ha offerto agli studiosi di tutto il mondo il profilo di un pensatore decisivo per la riflessione sul linguaggio del Novecento. Il titolo dell’opera non deve ingannare. Si tratta di un testo fondamentale non solo per le scienze del linguaggio. Saussure insiste, infatti, nel far vedere perché le lingue siano dei fenomeni storici.

Negli scritti del Saussure esplorato da De Mauro diventa evidente come le lingue siano per molti versi il cardine delle trasformazioni storiche umane e degli assetti istituzionali. Il tempo delle lingue non è il tempo della deriva dei continenti, né quello delle mutazioni genetiche. È il tempo propriamente umano nel quale reale e possibile si intrecciano in modo inscindibile: nel futuro anteriore di chi pensa a come sarà il mondo dopo averlo ribaltato; nel congiuntivo delle Slinding Doors che animano la vita di ciascuno («se quel giorno fossi tornato prima…»), nel presente storico di chi parla del passato come se quel momento fosse qui e ora. Non importa si parli del ruolo della televisione nella diffusione nazionale di una lingua standard, dei problemi presenti nel Tractatus di Wittgenstein o nel rapporto di somiglianze e differenze tra la comunicazione delle api e il linguaggio umano.

La dimensione storica rimane al centro di una produzione teorica multiforme ma null’affatto sfocata. Senza cedimenti al pensiero debole degli anni Ottanta, questo filosofo-linguista continua a far battere la lingua dove il dente ancora duole. Si provi, oggi, a parlare della storia come categoria decisiva per la filosofia del linguaggio e si farà la fine di un centrifugato di verdure: sbarellati tra riduzionismo evoluzionista (gli umani parlano perché conviene), rigidità del logico (l’italiano è brutta approssimazione di un sistema formale) e le suggestioni post-coloniali di chi si perde nella sfumature dello slang, sempre anglofono, di Baltimora.

Senza concedere nulla al relativismo di chi sostiene che in fondo il significato non esiste e tutto è interpretazione, De Mauro insiste su un punto antropologico fondamentale. Non si pensa e poi si parla; non si sente e poi si cerca di mettere in parole sentimenti poiché la facoltà biologica del linguaggio è la lente focale in grado di dare definizione ai nostri pensieri, alle nostre pulsioni e alle nostre azioni. Se si tiene a mente questo nodo, il lavoro di ricerca teorica e di insegnamento accademico di De Mauro mostra con chiarezza la coesione che lo ha animato. La facoltà è biologica, non c’è dubbio, ma senza storia essa è nulla: ben che vada, può condurre allo sgambettio quadrumane di un piccolo d’uomo allevato dai lupi. Le parole, infatti, non sono il prodotto secondario di pensieri precedenti, ma una forma tipica della cognizione umana: lavorare a vocabolari o lessici di frequenza significa spalancare le porte a veri e propri laboratori viventi. Significa guardare dal vivo il modo nel quale pensa, soffre e desidera un gruppo di parlanti in carne e ossa.

Uno dei testi internazionalmente più noti, Introduzione alla semantica (1965), insiste proprio su questo punto. L’obiettivo è la costruzione di una piccola genealogia del Novecento nella quale individuare alcuni riferimenti decisivi per chi concepisce il linguaggio come forma cardine delle istituzioni e della vita umana: «primato della prassi», queste sono le parole con le quali si conclude un libro che mette in fila il linguista Saussure con i filosofi Benedetto Croce e Ludwig Wittgenstein. Per la medesima ragione, ancora negli anni Novanta, durante i corsi universitari alla Sapienza che De Mauro organizza con alcuni compagni di viaggio della cosiddetta «scuola linguistica romana» era possibile fare gli incontri più diversi.

Dalla lettura sistematica de La diversità delle lingue di Humboldt si passava a un seminario sui sistemi di comunicazione dei delfini. Il giovedì mattina il laboratorio per una scrittura comprensibile e chiara (il contrario della mitologica «scrittura creativa») era seguito dalla lettura delle Ricerche filosofiche, dalla discussione della semiotica di Louis T. Hjelmslev, della linguistica di Antonino Pagliaro o del libro Pensiero e linguaggio del sovietico Lev S. Vygotsky. E non vi era nulla di cui stupirsi.
Internazionale online
L’IMPORTANZA DELLE PAROLE

E DELL'ISTRUZIONE

Un’intervista a Tullio De Mauro, girata nei giorni del festival di Internazionale a Ferrara del 2014.
De Mauro è stato un linguista e docente universitario. Tra le sue opere principali il Grande dizionario italiano dell’uso e la Storia linguistica dell’Italia unita. Il suo dizionario è online sul sito di Internazionale.

«Un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione».

comune-info, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

È possibile saltare a piè pari il mercato con tutto il suo portato di competizioni tra imprese, conflitti di interesse tra produttori e cittadini consumatori, sprechi, fallimenti e altri vari danni collaterali? 324 famiglie di Bologna ci stanno provando incominciando dalla verdura. Hanno costituito una cooperativa di produzione e consumo sul modello delle Community Supported Agricolture statunitensi, tedesche, inglesi e l’hanno chiamata Arvaia: pisello in bolognese. In pratica un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione.

La comunità di Arvaia ha calcolato che per avere – più o meno – sei chilogrammi di verdura alla settimana ad ogni socio è necessario mettere a coltura almeno cinque ettari (dove fanno crescere settanta tipi di diversi ortaggi di piante selezionate naturalmente) e lavorare sodo in molti. Alcune decine di soci lo fanno per passione, volontariamente e gratuitamente nei momenti di maggior bisogno (agri-fitness, lo chiamano!), altri sono impegnati nella logistica, mentre cinque sono veri contadini impegnati a tempo pieno retribuito.

I costi di produzione e l’insieme delle spese vengono anticipati nella annuale assemblea generale di bilancio tramite una sorta di “asta” tra i soci. Ogni socio è libero di fare delle offerte segrete e commisurate alle proprie disponibilità economiche. Rimane stabilito che la quota-parte di verdura distribuita sarà comunque uguale per tutti.

Quindi, si fanno più “giri di cappello” fino a raggiungere l’importo previsto dal bilancio preventivo. Ad esempio, lo scorso anno, la quota media che i soci dovevano coprire era stata calcolata in 730 euro, Iva compresa. Le offerte pervenute hanno variato da 400 a 1.500 euro. Un modo decisamente inclusivo e mutualistico per affrontare le eventuali difficoltà economiche dei soci.

Alberto, agronomo, tra gli ideatori e i fondatori di Arvaia, nata solo tre anni fa, pensa che sia possibile “uscire dalla trappola del mercato in cui siamo rinchiusi come consumatori e ritornare cittadini auto-producendo nei territori ciò che davvero serve”.

Partiti con pochi ettari, hanno conquistato un terreno comunale di quarantasette ettari nell’immediata periferia di Bologna destinato a parco agricolo periurbano vincendo un bando comunale di affitto dell’area per 25mila euro l’anno. Ciò ha permesso alla cooperativa di avviare la coltivazione di seminativi – avena, orzo, grani antichi – con cui produrre farine, olio di girasole, miele, salse di pomodori, caffè di orzo ed altri trasformati. È stato avviato un percorso di progettazione partecipata. I sogni nel cassetto dei soci sono molti: un frutteto, attrezzature per passare le domeniche in campagna, una fattoria didattica, una piccola stalla per rendersi autonomi anche dei prodotti caseari.

Dimenticavo: la verdura viene prelevata dai soci due volte la settimana presso la azienda agricola in località Villa Bernaroli oppure in altri otto punti di distribuzione in città presso associazioni, parrocchie, negozi amici.

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il manifesto, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

La povertà non è un fatto di natura ma il prodotto di società ingiuste perché inegualitarie e predatrici . In piedi, umanità contro il furto della vita.

L’impoverimento

La povertà è il risultato dei processi di esclusione umana, sociale, economica e politica fra gli esseri umani (e tra le comunità umane) tipici delle società ingiuste fondate sull’ineguaglianza e l’appropriazione predatrice della vita.

Prima di essere economica, politica o sociale, la povertà è «culturale», cioè è parte dei processi che operano nell’immaginario collettivo concreto, evolutivo delle persone, dei gruppi sociali e dei popoli. È parte della maniera di «vedere l’altro». Gli impoveriti crescono nelle nostre teste.

L’impoverimento non casca dal cielo. Non si nasce poveri, come si nasce donna o uomo, alti o bassi, bianchi o neri, ma si diventa impoveriti.

L’immaginario, la visione non sono sufficienti per fabbricare l’esclusione. Su questa incidono le scelte, i valori, le istituzioni e le pratiche collettive che fanno di una comunità umana un possibile luogo e spazio sociale generatore o no, chi più e chi meno, di esclusione.

Un furto, di che cosa?

Il furto della vita. Quando in passato la legge stabiliva che solo le persone aventi un reddito superiore a una certa somma potevano votare ed essere eletti a «governare il paese» o, come in Svizzera fino al 1972, le donne erano escluse dal diritto di voto, la legge legalizzava la privazione per tante persone del potere di essere cittadino attivo, di partecipare alla vita politica. Erano impoverite sul piano civile e politico. Il furto aveva luogo ancor prima della loro nascita.

La forma più avanzata di furto della vita, alla nostra epoca, è stata legalizzata nel 1980 allorché la Corte suprema degli Stati Uniti ha autorizzato la brevettabilità del vivente a scopo di lucro, seguita nel 1998 dall’Unione europea. La brevettabilità del vivente significa che è possibile per una persona o un’impresa diventare proprietario esclusivo di un microbo, di una molecola, di una specie vegetale, animale e persino di un gene umano per un periodo da 18 a 25 anni (rinnovabile) e farne l’uso che vuole in nome della conoscenza e della potenza tecnologica. La brevettabilità si traduce in una mercificazione del vivente secondo processi di appropriazione fondati sulla rivalità e l’esclusione.

Così, per esempio, nel campo dei semi, un gruppo sempre più ristretto d’imprese private mondiali si è impadronito del potere di decisione, controllo e uso del capitale biotico del pianeta privando la stragrande maggioranza dei suoi abitanti della garanzia universale pubblica del diritto alla vita (all’alimentazione, alla salute e alla conoscenza….).

Peraltro milioni di contadini sono stati espropriati ed espulsi dalle loro terre in Asia, in Africa ed in America latina e costituiscono il grosso del «popolo mondiale degli impoveriti» e degli affamati. I brevetti sui semi obbligano a pagare un prezzo di mercato per avere accesso a quei beni e servizi essenziali per la vita , quindi, strumentali al diritto alla vita. E ciò costituisce un furto.

A non altro si pensa quando si parla di furto legalizzato nel caso della mercificazione dell’acqua potabile e della privatizzazione dei servizi idrici, compreso il trattamento delle acque reflue.

E che dire delle legislazioni introdotte negli ultimi anni anche nei paesi ricchi detti «sviluppati» in materia del lavoro che hanno stravolto, il mondo del lavoro e la condizione umana e sociale dei lavoratori? Tutti abbiamo sempre riconosciuto il legame fondamentale tra lavoro, reddito,benessere, dignità, da un lato, e diritti sociali, civili e politici, dall’altro. E sappiamo che, nel contesto attuale, il licenziamento è l’anticamera dell’entrata nei processi di impoverimento e di esclusione sociale.

Perché allora, come è successo in queste ultime settimane la Corte europea di giustizia e la Corte di cassazione italiana hanno sentenziato che il licenziamento per soli motivi di redditività (per fare più profitti) è legittimo? Con le loro sentenze, contrarie alla lotta centenaria per la difesa della dignità umana, le due Corti si sono iscritte tra i soggetti produttori d’impoverimento e, quindi, partecipanti al furto della vita.

Che fare?

Analisi dettagliate specifiche e rigorose consentono di identificare nei vari campi i soggetti, i processi ed i meccanismi dell’impoverimento in quanto furto della vita. Lo stesso dicasi delle tendenze emerse in favore della concezione ed entrata in funzione di nuove forme di investigazione, valutazione e condanna del furto come atto criminale rispetto alle regole scritte o vissute del diritto internazionale.

Caso particolarmente rilevante e prezioso l’operato di Tribunali internazionali sui crimini dell’umanità o in materia ambientale. Il che significa che il furto può essere combattuto e condannato ed anche eliminato. In Europa, nel campo dell’acqua, sono oggi i tribunali locali – la magistratura di base, autonoma, libera – che dichiarando illegittima la cessazione dell’erogazione dell’acqua o dell’elettricità per insolvenza o morosità, consentono di arrestare il furto, indipendentemente dall’azione dei cittadini stessi.

La giurisprudenza, però, per quanto importante, non è sufficiente. Il furto della vita, rappresentato dall’ineguaglianze e l’esclusione fatte sistema, è l’atto più grave che gli esseri umani abbiano operato e possono fare all’umanità.

Altrettanto forte e sistematica deve essere la lotta contro di esso. Cinque secoli fa, l’uguaglianza rispetto al diritto alla vita fu all’origine di Utopia, l’opera di Tommaso Moro cui, in Occidente, si continua a fare riferimento per valorizzare la costruzione di un altro mondo. Personalmente preferisco ricordare che l’uguaglianza fu alla base della rivoluzione francese e della dichiarazione universale dei diritti umani più di duecento anni fa e della rivoluzione bolscevica contro lo zarismo proprio cent’anni fa.

L’uguaglianza ha ispirato le lotte per il diritto alla vita negli ultimi cinquant’anni in America latina e in Africa e, recentemente, la «primavera araba». Non bisogna mai arrendersi, per la memoria e nel rispetto dei milioni di vittime che sono morte nel passato per difendere la dignità umana , la liberta per tutti, la giustizia e la fraternità.

Oggi, proprio quando il mondo sembra ulteriormente sprofondato nelle barbarie in nome del denaro, non è ammissibile la dispersione degli sforzi. Il fattore più critico alla base di quel che sta succedendo strutturalmente è il sistema finanziario creatosi nel corso degli ultimi quarant’anni.

L’obiettivo principale, integrante tutto il resto, deve essere la demolizione di detto sistema. Tutto vi si rapporta: il tempo, lo spazio, la conoscenza, la tecnologia, i desideri, le cupidigie, la violenza, il potere, la negazione dei diritti, lo sgretolamento delle comunità umane, l’asservimento dell’umanità.

Anche se sembra irrealizzabile, è essenziale promuovere una coscienza ed una volontà coordinate di azioni contro i derivati, la finanza algoritmica al millesimo di secondo, la speculazione e i paradisi fiscali, il segreto bancario, l’incompetenza e la furfanteria delle banche, le grandi concentrazioni bancarie e la banca totale, l’esistenza e il potere delle agenzia di rating, gli inciuci tra soggetti finanziari e organismi dediti al governo delle attività e servizi pubblici quali gli ospedali, l’educazione, l’università, la ricerca scientifica, contro la finanziarizzazione criminale dell’economia, per la ricostruzione delle casse di risparmio pubbliche locali e la separazione tra attività di risparmio e attività di reddito e la loro regolazione funzionale, contro l’indipendenza politica della Bce e delle altre banche centrali, per una nuova generazione di finanza cooperativa e mutualistica, per le monete locali e la demonetizzazione dei beni e servizi pubblici essenziali per la vita, per il primato del potere politico eletto e partecipato sul dominio oligarchico di soggetti finanziari privati mondiali.

Le politiche cosiddette di riduzione e di eliminazione della povertà condotte da quasi mezzo secolo dai gruppi dominanti a livello nazionale e internazionale sono fallite e restano una beffa malvagia nei confronti degli impoveriti.

Una beffa ancor più malvagia se si pensa che l’arricchimento sempre più scandalosamente elevato dei supermiliardari rispetto ai 3,6 miliardi di persone appartenenti alla metà della popolazione mondiale la più povera, legittimato dalle politiche dei dominanti, induce quest’ultimi ad esaltare i miliardari filantropi come i benefattori dell’umanità(Warren Buffet, Bill Gates, i fratelli WalMart…)!

Nessuna delle misure sopra menzionate a proposito della messa fuorilegge del sistema finanziario attuale figura nelle proclamazioni dell’Onu sulla povertà (vedi l’agenda post-2015 sui Sustainable Development Goals -SDG) o nei programmi «antipovertà» dell’Unione europea. Esse/i sono la prova, se necessario, dell’allineamento e sottomissione totale degli Stati agli interessi e priorità dei gruppi oligarchici mondiali.

In piedi, esseri umani. La povertà è un furto, a opera di un sistema mondiale ingiusto.

In piedi, umanità, insieme. Questo è l’augurio, «Un manifesto 2017 per la dignità universale».

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