loader
menu
© 2024 Eddyburg

Erano tre le incostituzionalità di immediata e sfacciata evidenza dell’Italicum.

Al ballottaggio che tale sistema elettorale prevedeva e che è stato soppresso, si aggiungevano (e si aggiungono) sia il premio (per di più esorbitante) del 14 per cento dei 630 seggi della Camera a quella lista che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti, sia la nomina a deputati dei capilista (e dei secondi di lista) da parte dei capipartito delle liste che ottenevano seggi all’elezione della Camera dei deputati.

Questo terzo vizio è stato solo ridotto, ma non sanato. È stato invece conservato il cosiddetto premio di maggioranza. Non se ne comprende il perché (che è difficile che ci sia).

Leggeremo la sentenza ma, per ora, non ci convince affatto il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità del “premio”.

Non ci convince proprio partendo dalla incostituzionalità, accertata dalla Corte, del ballottaggio per i 340 seggi tra liste che avessero ottenuto anche una bassissima percentuale di voti al primo scrutinio ed anche al secondo, incostituzionalità clamorosamente evidente. Ma lo è perché un meccanismo di tal tipo contraddice la misura del consenso. La misura cioè di quanto è necessario, indefettibile, inalienabile ed incomprimibile in democrazia per l’esercizio del potere. Tanto più se potere normativo, che riguarda quindi lo status di cittadino, i suoi diritti, le sue pretese, i suoi doveri, i suoi obblighi, i suoi oneri.

Non va mai dimenticato, eluso, rimosso, taciuto, sminuito il nucleo duro dei sistemi elettorali, che è quello del consenso numerico certo, da cui deriva la maggioranza reale da accertare a sua volta in modo incontrovertibile, non manipolandola, non falsificandola sostituendo numeri e gonfiando somme.

Se si qualifica negativamente la quantità del consenso espresso col voto in caso di ballottaggio tra liste con ridotto numero di voti sia al primo che al secondo turno ad ogni fine giuridicamente rilevante, deve non diversamente rilevare la quantità del consenso, se si tratta di voti ottenuti da una lista che consegua il 40 per cento dei voti all’elezione della Camera dei deputati. Quale magia espande nell’ordinamento costituzionale italiano, nei rapporti interpersonali, nel futuro dell’italica gente, quel 40 per cento, resta un arcano.

Forse no. Fu del 40 per cento il numero dei voti conseguiti, alle ultime elezioni al Parlamento europeo, dalla lista del Pd. Il 40 per cento dei voti si attribuì in quell’occasione l’ex Presidente del Consiglio Renzi. Che ritenne, con ogni probabilità, che fosse fatale quel numero per lui e ineluttabile per i suoi luminosi successi. Non aveva, invece, e non poteva aver altro ruolo, quel numero, che quello di rivelare la distanza che lo separava e lo separa da quella metà più uno che segna, da sempre, la maggioranza numerica dei voti di ogni aggregata pluralità umana.

Conseguire un numero di voti che si avvicina a quella metà, significa solo che la maggioranza reale, quella vera ha negato a quella più ambiziosa minoranza il potere della metà più uno.

Sovviene un raffronto cui segue una riflessione.

È del 40,89 per cento il numero dei sì al referendum del 4 dicembre contro il 59,11 dei no. Con questo risultato il corpo elettorale ha respinto la legge costituzionale che sconvolgeva l’ordinamento parlamentare della Repubblica, una legge della massima rilevanza costituzionale, certo, ma comunque una legge, una sola legge.

E ora una domanda: un risultato di tal tipo può essere rovesciato, quanto ad effetti, per legittimare una maggioranza parlamentare, un legislatore per cinque anni ? Il 40 per cento di una lista sola o anche di più liste collegate può legittimare l’acquisizione di 340 seggi parlamentari? Tanti quanti necessari – si pretende – per assicurare la governabilità secondo i suoi pasdaran?

A quanto ammonta, di grazia, il costo della governabilità imposto alla democrazia? A quanto ammonta inoltre il prezzo della personalizzazione del potere per la nomina a deputato dei capilista anche se lasciano alla sorte di optare per il collegio di derivazione?

Or son pochi mesi, riconobbi alla Corte costituzionale il merito esclusivo di garante della Costituzione. La legittimazione del premio di maggioranza mi induce ora a riflettere su quel giudizio.

«Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.».

il manifesto, 27 gennaio 2017

Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria.

Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessaria che mai. Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio.

Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli.

È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio.

Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti.

Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve.

Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali.

Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.

Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza.

È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia.

«La Consulta che aveva bocciato le liste bloccate ora partorisce una legge che aumenta il numero di deputati scelti dai capi: potrebbero essere persino tre su quattro».Sembra che siano diventati grandi pasticcioni i giudici della Corte costituzionale. L'irresistibile declino di tutti i cervelli oppure asservimento alla politica? Morale, chi ci rimette è la democrazia.

IlFatto quotidiano, 27 gennaio 2017

È un paradosso, ma capita spesso che le cose abbiano un andamento circolare: quel che resta dell’Italicum, dopo la sentenza della Consulta dell’altroieri, è sostanzialmente un Porcellum 2.0, cioè la legge che la stessa Corte costituzionale aveva bocciato tre anni fa. “È paradossale, ma per certi versi è davvero così”, dice Federico Fornaro, senatore Pd di rito bersaniano, uno di quegli uomini di partito che sa tutto di leggi elettorali in teoria e, soprattutto, in pratica: “Si può dire che, dando quasi per scontato che nessuno prenderà il premio di maggioranza oltre il 40%, nella prossima Camera i deputati nominati dai vertici dei partiti passeranno dal 50-60% dell’Italicum col ballottaggio vigente al 70-75% di questa versione aggiornata dalla Consulta”. In teste significa, come vedremo nel dettaglio, tra i 426 e i 456 parlamentari su 630 totali.

Breve spiegazione. Intanto si parla solo della Camera: in Senato vige infatti un sistema – residuato dalla sentenza con cui la Consulta ha ucciso il Porcellum – in cui si elegge chi prende più preferenze nella singola lista (se ne può esprimere una). Nel 2014 la Corte dichiarò incostituzionali le liste bloccate (in cui cioè si elegge automaticamente dal posto numero 1 in giù), mercoledì ha promosso i “capilista bloccati”: l’unico nominato è il capolista, dal posto numero 2 in poi valgono le preferenze. Quanti sono i capilista bloccati? Tecnicamente parlando 91 per ogni partito, cui aggiungere gli 8 del Trentino Alto Adige e quello della Val d’Aosta, che sono però collegi “uninominali”, cioè con una lista è di un solo nome (poi ci sono i 12 eletti all’estero con un sistema a parte).

Stabilito questo, veniamo ai probabili effetti – sulla base delle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi – della legge per la Camera venuta fuori dalla sentenza della Consulta (una soglia di sbarramento bassa al 3% e premio di maggioranza che scatta solo oltre il 40% dei voti). Solo due liste hanno la legittima speranza di eleggere più di 100 deputati (i primi 100 sono infatti i capilista bloccati, cioè nominati dalle segreterie): sono Pd e Movimento 5 Stelle. Per comodità, assegniamo il 30% dei voti a entrambe che, calcolando un generoso 10% di voti dispersi sotto la soglia di sbarramento, gli consente di ottenere circa il 33% dei deputati a disposizione: al massimo 200, insomma, di cui all’ingrosso la metà eletti col voto di preferenza.

Gli altri partiti, al momento, sono tutti lontani dal 15%, che rappresenta con questo modello elettorale la soglia per ottenere 100 deputati. Significa che Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Nuovo centrodestra e Sinistra Italia avranno nella prossima Camera quasi solo parlamentari nominati: va segnalato che se tutti questi partiti – due dei quali “ballano” attorno alla soglia del 3% nei sondaggi – riuscissero a entrare in Parlamento, si ridurrebbe la quota di eletti di Pd e M5s rispetto all’esempio che abbiamo appena fatto: i nominati, insomma, sarebbero di più rispetto ai 420 abbondanti dello scenario più favorevole.

I sondaggi sono compatibili, insomma, con un risultato che porterebbe a Montecitorio poco meno di 460 deputati nominati, quasi il 75% o, se preferite, tre su quattro. Il conto, ovviamente, scende se il vecchio centrodestra dovesse optare per un listone unico che al momento è poco probabile: anche coalizzato non ha speranza di arrivare al 40% e i dissidi di linea politica tra i vari partiti non paiono sanabili facilmente.
Paradossalmente l’Italicum – che col ballottaggio assegnava il premio di maggioranza in ogni caso – produceva meno nominati della legge lasciata in vigore dalla Consulta (non che questo attenui la natura incostituzionale di quel sistema, ormai acclarata): la lista vincente, infatti, portava a casa 340 deputati solo 100 dei quali nominati. A seconda dei risultati degli altri partiti (ma superare i 100 deputati dovendosi “spartire” solo i restanti 282 eletti in Italia è eventualità assai difficile con una soglia di sbarramento così bassa) la forchetta dei nominati oscilla tra un minimo di 335 (quasi impossibile con le intenzioni di voto di oggi) e un massimo di 360, cioè da poco più del 50% a poco meno del 60% di nominato. Un’enormità, ma comunque meno del sistema prodotto con la sentenza dell’altroieri dalla Corte costituzionale, l’organo che aveva bocciato il Porcellum (anche) perché non consentiva ai cittadini di scegliere chi mandare in Parlamento.

«Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia»

. Il Fatto Quotidiano/ bolg / di Fabio Marcelli, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)

In questi momenti di disagio e sofferenza determinati da eventi catastrofici ma anche da crisi economica e culturale, determinate persone assurgono a simbolo di quello che è nel bene e nel male, il nostro Paese. Soffermarsi a riflettere su questi esempi può essere utile per identificare la via da percorrere se vogliamo risanare, salvare e rilanciare l’Italia (non vuote chiacchiere renziane ma fatti concreti e scelte inevitabili nella giusta direzione).

Cominciamo dagli elementi negativi. Uno dei fattori principali di stress e sofferenza di questi giorni è costituito, a detta delle autorità locali e dei cittadini che hanno la sfortuna di risiedere nelle zone colpite da terremoto e maltempo, è costituito dal funzionamento di un ente fondamentale come Enel che si è rivelato incapace di fornire l’essenziale servizio di fornitura dell’energia elettrica a un numero enorme di famiglie.

Si scopre quindi che la rete elettrica è obsoleta e che elementari operazioni di manutenzione non sono state adeguatamente condotte. Al punto che sono in molti gli amministratori locali e regionali che chiedono oggi esplicitamente la cacciata dell’amministratore delegato Starace mentre si annunciano le prime inchieste penali e sostanziose richieste di risarcimento dei danni. Si tratta d’altronde dello stesso personaggio passato qualche mese fa alla cronaca per aver teorizzato la necessità di terrorizzare gli oppositori interni per affermare il proprio potere. Un programma ben eseguito, sembrerebbe.

Ironia a parte, è chiaro che questo modello di concepire le relazioni aziendali e quelle con il pubblico, basato non sul soddisfacimento dell’interesse generale ma sull’alimentazione del proprio personale potere, è in buona misura alla base di molti fallimenti dell’Italia di oggi. E’ a ben vedere la stessa logica delle privatizzazioni selvagge con le quali si è distrutto un patrimonio pubblico accumulato nel corso di decenni a costo di molti sacrifici. Si tratta quindi di un modello da rovesciare immediatamente. Non solo Starace, del resto, ne è il rappresentante, se è vero che tutti i manager insediati da Renzi sono oggi sotto accusa per una ragione o per l’altra, tutte riconducibili peraltro in ultima istanza a tale modello perversamente autoreferenziale di direzione aziendale.

Un esempio positivo è invece costituito da tutti coloro che, operando in condizioni di estrema difficoltà, sono riusciti a portare aiuto alle popolazioni colpite. In primo luogo l’eroico corpo dei vigili del fuoco e poi anche le forze dell’ordine nel loro complesso e la moltitudine dei volontari, tra i quali voglio sottolineare il ruolo di taluni richiedenti asilo che si sono mobilitati anch’essi con efficacia. Si tratta di categorie bistrattate ed umiliate da tutti i governi. Basti ricordare, per quanto riguarda i vigili del fuoco, la vicenda delle pensioni, con il mancato riconoscimento del carattere usurante delle mansioni svolte, o quella dei rischi ambientali, in particolare dovuti ad esposizione ad amianto, non adeguatamente contrastati.

L’attuale agonizzante governo Gentiloni, nato sulle macerie del renzismo che sarebbe ora di sgombrare definitivamente dalla scena, continua ovviamente a caratterizzarsi per assecondare gli aspetti negativi e frustrare quelli positivi della situazione che stiamo attualmente vivendo. Non è un caso che in Italia oggi prosperino le inaccettabili diseguaglianze sia nel reddito che nel patrimonio. Non c’era del resto da aspettarsi nulla di diverso da un governo che è nato facendo orecchie da mercante rispetto alla richiesta di radicali cambiamenti che è venuta dalla valanga di No al referendum del 4 dicembre. Rovesciare le politiche in questione appare invece sempre di più un imperativo urgente e su ciò devono riflettere ed attrezzarsi le forze dell’alternativa.

Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia. Sollecitando e gratificando le enormi energie sociali e politiche di lavoratori, giovani e donne oggi disperse e sprecate, cominciando con il referendum contro il Jobs Act e attuando politiche redistributive ed egualitarie. Non c’è bisogno di “uomini forti”. Chi li invoca dovrebbe ricordarsi della storia del nostro Paese.

Un terrificane episodio, che nell'atto più disperato di una vita e nell'indifferenza che lo circonda riassume tutta la corale ignominia che caratterizza la "accoglienza" in questa parte del pianeta.

Il Fatto quotidiano, blog di Daniela Padoan, 26 gennaio 2017

Aveva preso un treno a Milano, si è seduto sui gradini della stazione di Venezia, poi si è alzato e si è lanciato nel Canal Grande, senza nuotare, senza afferrare i quattro salvagente che gli venivano lanciati da un vaporetto. Veniva dal Gambia, Pateh Sabally, un paese martoriato, che solo pochi giorni prima aveva visto il suo ventennale dittatore scappare svaligiando le casse dello Stato.

Lui, che era giunto per mare attraverso il Canale di Sicilia – la rotta più pericolosa del mondo, dove solo nei primi quindici giorni del 2017 sono morte annegate 240 persone – ha terminato la sua breve vita annegando nello scenario della nostra più sublime bellezza, nella stratificazione perfetta della nostra storia e cultura, domenica, in mezzo ai turisti che lo filmavano dal Ponte degli Scalzi.

La scena, ripresa da un cellulare, è stata condivisa sui social e pubblicata dal Gazzettino.it. Nel video si vede il ragazzo annegare mentre il vaporetto gli passa a pochi metri. Si sentono voci agitate, ma non disperate. Gente che grida, gente che ride, una voce dice: “Questo è scemo!”. Un’altra: “Africa!”. Nessuno si lancia a salvarlo. I soccorsi arrivano quando ormai la corrente ha trascinato il corpo dall’altra parte del canale.

Quando due anni fa era sbarcato in Sicilia, a Pozzallo, Pateh non sapeva nemmeno il giorno della sua nascita. In questi casi, nei cosiddetti hotspot imposti dall’Agenda sulla migrazione dell’Unione europea, la polizia attribuisce un’età convenzionale: il primo gennaio. Così Pateh, sul permesso umanitario ritrovato nel suo zaino, risultava essere nato il primo gennaio 1995.

Non sappiamo cosa facesse a Milano, solo che era stato trasferito lì in via temporanea, perso in un limbo che non accoglie ma imprigiona nelle reti del regolamento di Dublino e dell’attesa dei permessi di soggiorno. Era arrivato a Venezia il pomeriggio del giorno prima, chissà come aveva passato quelle 24 ore, probabilmente girovagando fino al pomeriggio di domenica. Pare gli fosse stato revocato il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

La sua morte pubblica e muta torna in mente come una scena fantasmatica, oggi che la Commissione europea ha finalmente scoperto le carte, mostrando quel che intendeva ottenere già da tempo con l’addestramento della cosiddetta Guardia costiera libica: accordarsi con la Libia (ma quale Libia: quella di Tripoli, dove l’apertura dell’ambasciata italiana ha quasi causato un colpo di Stato? Quella dell’ultimo rapporto dell’Onu che parla di schiavitù, torture, abusi sessuali nei campi? Quella delle denunce di traffico degli organi?) per “salvare le vite dei migranti”. Con eufemismo grottesco, non fosse che tutti sembrano prenderlo sul serio, si pretende di voler salvare i migranti dai “trafficanti di uomini”, ributtandoli nella situazione dalla quale erano scampati, talvolta dopo una prigionia durata anche uno o due anni e fatta di violenza, come dimostrato dalla recente inchiesta milanese sul torturatore somalo Osman Matammud.

Pateh è un’immagine, uno specchio che ci viene messo davanti nel giorno in cui Trump ordina l’innalzamento del muro con il Messico e l’Europa si prepara, nel prossimo vertice dei capi di governo che si terrà a Malta il 3 febbraio, a distruggere la Convenzione di Ginevra e il diritto d’asilo, affidando a terzi il respingimento collettivo, senza che nessuno protesti, seguendo la direzione già tracciata dal governo Renzi durante il semestre di presidenza europea, e ora dal governo Gentiloni e dal suo ministro Minniti.

L’Europa ha dichiarato guerra ai migranti. Noi guardiamo dicendo “Africa!”. La Procura di Venezia ha aperto un’inchiesta. Ma contro chi, davvero, dovrebbe essere aperta?

Dopo il muro, il fuoco. I primi giorni da presidente non vanno certo sprecati per Donald Trump, tanto da mettere subito le cose in chiaro: non solo la barriera anti migranti da costruire al confine con il Messico ma anche l'assoluta validità dei metodi di tortura americani «perché dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco».

The Donald tira dritto e parlando nella sua prima intervista post giuramento, alla Abc news, annuncia di credere "assolutamente" nelle torture come il waterboarding. Un metodo, spiega lui, utile per combattere il terrorismo, punto che discuterà con il segretario alla Difesa, James Mattis e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Dai due - dice il presidente - ha già avuto conferme sull'efficacia delle torture in ambito militare e le parole di Trump fanno pensare a un ritorno a torture già abbandonate da Cia e servizi segreti.

«Mi affiderò a Pompeo e Mattis ed al mio gruppo e se loro non vorranno, va bene, ma se verranno io mi impegnerò a renderlo possibile, voglio che sia fatto tutto nell'ambito di quello che è legalmente possibile» ha detto il presidente. «Ho parlato nelle ultime 24 ore con persone ai più alti livelli dell'intelligence ed ho chiesto loro: la tortura funziona? e la risposta è stata, assolutamente sì. Quando tagliano la testa dei nostri e di altri, solo perché sono cristiani in Medio Oriente, quando lo Stato Islamico fa cose di cui nessuno ha sentito dai tempi del Medioevo, cosa dovrei pensare del waterboarding? Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco». Parole che arrivano a ridosso della possibile firma di Trump su un ordine esecutivo che servirà a ripristinare la detenzione carceraria di sospetti terroristi in strutture blindatissime e segrete e che lasciano immaginare un totale ripristino delle vecchie tecniche di tortura.

«Il presidente può firmare tutti gli ordini esecutivi che vuole ma la legge è la legge. Non possiamo riportare indietro la tortura negli Stati Uniti d'America», ha detto il senatore John McCain, in contrasto con Trump. Dello stesso parere l'ex capo Cia Leon Panetta che parla di un errore l'idea di reintrodurre certi tipi di tortura negli interrogatori e spiega come questo «violerebbe i valori Usa e la costituzione».

Dalla Gran Bretagna in nome dell'Europa si fa sentire subito Theresa May, pronta ad opporsi alla idea di torture abbozzata da Trump. La May incontrerà The Donald domani ed esporrà al presidente Usa tutto il suo dissens

«Territori Palestinesi Occupati. Dopo i 566 nuovi alloggi annunciati dalle autorità israeliane nelle colonie a Gerusalemme Est, ieri il premier Netanyahu ha dato luce verde a 2.500 case negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. L'Anp protesta ma è impotente

».il manifesto, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

A briglia sciolta. Con la benedizione di Donald Trump, la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati ormai è una galoppata. Due giorni fa il comune di Gerusalemme aveva autorizzato la costruzione di 566 abitazioni nelle colonie ebraiche della zona orientale della città, occupata nel 1967.

Ieri, non a caso ad un mese dall’approvazione della risoluzione 2334 contro le colonie da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il governo Netanyahu ha dato luce verde a progetti che faranno sorgere altre 2.500 case in vari insediamenti della Cisgiordania. «Ho concordato con il ministro della difesa Avigdor Lieberman la costruzione di 2.500 nuovi alloggi in Cisgiordania» ha annunciato lo stesso premier israeliano, che poi ha aggiunto perentorio: «Continuiamo e continueremo a costruire». Soddisfatto Lieberman. «Si sta tornando alla normalità in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)», ha commentato riferendosi al limitato freno alla colonizzazione che aveva posto la passata Amministrazione Obama.

Secondo il ministro della difesa le nuove case sorgeranno nei principali blocchi di insediamenti ebraici già esistenti. Ma è vero solo in parte se si guarda sulla cartina le posizioni delle colonie dove saranno costruiti gli alloggi. Poco più 900 appartamenti, quasi pronti, saranno messi in vendita al più presto negli insediamenti di Alfei Menashe, Beitar Illit, Maale Adumim, Ariel, Efrat ed Elkana e soprattutto a Givat Zeev (552), tra Ramallah e Gerusalemme Est. Il Comitato per la Pianificazione Nazionale quindi avvierà la fase di progettazione e realizzazione di altri 1.642 alloggi a Ets Efraim, Givat Ze’ev, Kokhav Yaakov, Har Gillo, Zufim, Oranit, Shaarei Tikva, Beit El e ad Ariel, la seconda colonia per grandezza dove sorgeranno 899 nuove case.

È paradossale eppure ai coloni non basta. Si aspettano molto di più. Yesha, che riunisce le amministrazioni delle colonie in Cisgiordania, ha espresso profonda «delusione» perché le autorizzazioni decise da Netanyahu «non coprono la domanda». I coloni fanno un ragionamento semplice. «Il governo americano è cambiato e anche le politiche di Israele devono cambiare», scrivono nel loro comunicato. «Il governo israeliano – esortano – deve approvare tutti i progetti sul tavolo e autorizzare nuove costruzioni ovunque, in Giudea, Samaria e Valle del Giordano».

La reazione dell’Anp è stata immediata. «Israele si fa beffe della comunità internazionale e fomenta l’estremismo», ha protestato Nabil Abu Rudeinah, il portavoce di Abu Mazen. «Le dichiarazioni di protesta non servono a molto – spiega l’analista Ghassan Khatib – l’Anp piuttosto dovrebbe lanciare iniziative diplomatiche vere sulla base della risoluzione 2334 approvata il mese scorso dal Consiglio di Sicurezza, rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e chiedere la sospensione di Israele all’Onu se Netanyahu non cesserà gli attacchi alla legalità internazionale».

«Il nuovo saggio di Angela Davis.è una attenta panoramica sul "complesso militare-penitenziario“ nato per contenere una popolazione carceraria in aumento e che ha come modello la gestione segregazionista contro i palestinesi

». il manifesto, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

Angela Davis non ha certo bisogno di presentazione. La sua figura è al centro del dibattito politico internazionale da quasi quattro decenni. Ex militante comunista e affiliata al Black Panther Party, autrice di Women, Race and Class (1981), un testo fondatore di discorsività per il Black Feminism, negli ultimi vent’anni Angela Davis ha focalizzato tanto il suo attivismo quanto la sua riflessione intellettuale sulla critica a ciò che chiama, prendendo in prestito l’espressione da Mike Davis, il “complesso industriale-penitenziario” americano.

Nonostante le sue numerose visite recenti in Italia, questa parte della sua opera resta sicuramente meno nota nel panorama locale. Non è un caso se le traduzioni italiane più note dei suoi scritti restano Autobiografia di una rivoluzionaria (1974) e Women, Race and Class, tradotto peraltro da Riuniti nel 1985 con un titolo non solo del tutto fuorviante, ma piuttosto eurocentrico, Bianche e nere (1985). Meno citato, invece, è il terzo dei testi di Davis tradotto: Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, le discriminazioni e la violenza del capitale (2009, Minimum Fax).

La sua ultima pubblicazione, Freedom is a Constant Struggle (2016, Haymarket Books), può rappresentare un’ottima opportunità per rientrare nel cuore della sua attuale riflessione. Il testo raccoglie una serie di Lectures tenute da Davis sia negli Stati Uniti che in Europa tra il 2013 e il 2015. Malgrado un andamento rapido e prettamente orale, le diverse lectures ripropongono in modo assai suggestivo una serie di questioni centrali all’attuale dibattito tra incarcerazione di massa, eredità della schiavitù e neoliberalismo negli Stati Uniti, così come sul rapporto tra il cosiddetto nuovo attivismo nero di movimenti come Black Lives Matter e quello che Cedric Robinson ha chiamato la Black Radical Tradition.

Il testo non ha però come background soltanto la realtà americana, poiché propone di affrontare la centralità crescente del cosiddetto “complesso industriale-penitenziario” come un fenomeno davvero globale e costitutivo della stessa governance neoliberale. Può apparire assai indicativo il sottotitolo del testo: Ferguson, Palestine and the Foundations of a Movement. Davis ricorda che sono le stesse dinamiche dei fatti Ferguson a porci davanti a uno scenario che va oltre gli Stati Uniti, a mostrarci la globalità delle tecniche di controllo, sorveglianza e repressione nel governo di determinate categorie di soggetti. Così Freedom as constant Struggle pone invece subito la Palestina nella filigrana di Ferguson, più precisamente ciò che Davis chiede di chiamare il “sistema di apartheid” Israeliano instaurato nei territori palestinesi.

La “connessione globale” tracciata tra Ferguson e Palestina non è qui semplicemente metaforica, ma è data da un elemento assai più concreto e transnazionale: la compresenza nelle due zone della multinazionale britannica Group 4 Security (G4S) nella gestione della sicurezza. Terzo datore di lavoro più grande del mondo, dopo Wal-Mart e Foxconn, G4S è anche la corporation multinazionale con più dipendenti all’attivo in Africa. G4S, suggerisce Davis, può essere assunta come l’emblema di ciò che significa (privatizzazione della) sicurezza e del warfare nell’epoca del neoliberalismo: si tratta di una corporation responsabile della realizzazione della recinzione al confine tra USA e Messico, e tra i maggiori costruttori al mondo di carceri private, di scuole-blindate e di centri di detenzione per migranti.

Tra i suoi affari vi è anche la gestione in diversi continenti del business del trasporto nella deportazione di migranti e profughi. Per dirla in termini foucaultiani, si tratta di uno dei significanti per eccellenza dell’imponente business neoliberale dell’industria della punizione, ovvero di una proficua “messa a valore” del razzismo, delle pratiche anti-immigrazione e delle politiche securitarie. G4S ha nei territori palestinesi occupati, ovviamente, uno dei suoi principali “fochi” operativi.

Davis ricorda che questo grande mostro della sicurezza privata globale è profondamente implicato nella gestione e costituzione materiale “dell’apartheid israeliano”: buona parte del suo “securitarian know-how”, per così dire, è venuto a fondarsi su un suo coinvolgimento attivo in processi di contenimento della popolazione palestinese come l’edificazione del muro di Gaza, la costruzione di numerosi checkpoint, l’addestramento e la militarizzazione della polizia, la progettazione di sempre nuove tecnologie di controllo e repressione dell’ordine pubblico e del dissenso politico. E’ così che Davis ci chiede di pensare la gestione “coloniale” israeliana dei territori palestinesi, attraverso la partecipazione attiva di G4S e altri big della global security, come un importante “laboratorio” per la continua messa a punto o sperimentazione delle tecniche di gestione, sorveglianza, incarcerazione e repressione al centro dell’attuale “complesso industriale-penitenziario” negli Stati Uniti.

L’alta produttività del “sito israeliano” in materia di sicurezza è data, come in altre realtà (post)coloniali, da uno storico esercizio di governo improntato alla negazione dell’altro-palestinese e quindi alla sua trasformazione in migrante-alieno (razzializzato) sul proprio territorio. Anche se Davis non scende qui nei particolari, il suo approccio può essere posto su una traccia già proficuamente all’interno degli studi postcoloniali: buona parte delle tecnologie giuridiche, disciplinari e militari alla base dell’attuale securitizzazione razziale dello stato neoliberale hanno da sempre un importante banco di prova in diversi territori “coloniali”. Nel caso particolare di Ferguson, precisa Davis, l’impronta del know-how israeliano si è vista non solo nell’atteggiamento sempre più militare della polizia nei confronti dei territori e soggetti sotto sorveglianza, o del tipo di attrezzature tecniche utilizzate dalle forze dell’ordine, ma anche nelle tattiche di contenimento e repressione degli attivisti durante le successive mobilitazioni.

Più in generale, Davis sottolinea poi gli apporti di G4S-Israel al “complesso industriale-penitenziario globale” in materia di sofisticazione delle tecniche di sorveglianza carceraria, testate soprattutto nelle prigioni militari di HaSharon e di Damun, ma soprattutto nell’espansione dell’incarcerazione sistematica come modalità fondamentale di governo e di controllo sociale anche a donne e bambini. A tale riguardo, il suo testo ricorda non solo che HaSharon e Damun “ospitano” bambini e donne rispettivamente, ma soprattutto che la reclusione carceraria femminile tra africano-americani, latinos e migranti è in notevole aumento negli Stati Uniti, mentre l’età media dei detenuti nelle prigioni americane si abbassa in continuazione.

L’analisi di Davis non va però fraintesa: sorveglianza e repressione capillare di alcune comunità e territori, militarizzazione della polizia e del conflitto sociale, violenza razzista di stato, privatizzazione della sicurezza, e incarcerazione di massa non obbediscono alla logica di dominio singoli stati, governi o multinazionali, ma sono la risposta di razza e di classe del capitalismo neoliberale globale ai meccanismi di esclusione sociale generati dalla sua stessa logica di accumulazione.

Dev’essere dunque chiaro che la logica neoliberale di “accumulazione per spossessamento” ha nell’industria della punizione una delle sue protesi più trainanti e influenti. Va ricordato che molte delle aziende americane controllate da G4S, così come altri big della global private security, prima di tutti Wal-Mart (principale rivenditore al dettaglio di armi del mondo) e CCA (Corrections Corporations of America), fanno parte di ALEC (American Legislative Exchange Council), una potentissima lobby bypartisan di cui sono membri, insieme alle corporazioni, decine di parlamentari passati dai diversi congressi degli Stati Uniti sin dalla fine degli anni settanta.

Come mostra l’eccellente documentario Il tredicesimo emendamento, 2016 di Ave Duvernay, e che ha proprio Angela Davis tra i suoi principali interlocutori, buona parte delle leggi finalizzate al continuo sviluppo del complesso industriale-penitenziario (legittima difesa a oltranza, indurimento progressivo delle pene, privatizzazione delle carceri, esternalizzazione dei servizi nelle prigioni, costruzione di centri privati di detenzione di migranti, militarizzazione delle polizia, autorizzazione al fermo di polizia di qualunque persona migrante, ecc.) sono state promosse in parlamento da membri di ALEC.

Tra le più famose, il trittico approvato dal primo governo di Bill Clinton: privatizzazione delle carceri e militarizzazione della polizia, obbligatorietà a compiere in carcere l’85% della pena, ergastolo al terzo reato commesso). Non a caso diverse manifestazioni di Occupy e di Black Lives Matter hanno preso di mira proprio il ruolo di ALEC nel parlamento americano. Come appare ovvio, si tratta di una macchina giuridica di guerra finalizzata sia all’aumento della popolazione carceraria che all’allungamento dei tempi di detenzione, ovvero a mercificare e trasformare in profitto anche quell’eccedente di umanità che non può trovare il proprio spazio all’interno dei confini razziali neoliberali della vita sociale. Siamo quindi di fronte a un elemento strutturale, per così dire, del modo neoliberale di accumulazione. E’ in questo contesto che occorre situare il susseguirsi di omicidi di giovani neri per mano della polizia.

La realtà descritta nel testo di Davis può apparire distante da quella dell’Europa. Davis chiede infatti di pensare la centralità della “prigione come metodo” anche come la risposta del capitalismo razziale americano e di una riconfigurazione della white supremacy alla nuova situazione della forza lavoro nera dopo la conquista di una condizione di libertà formale da parte del movimento per i diritti civili e l’annientamento politico del movimento del black power.

Ma se concentriamo lo sguardo sull’universo concentrazionario nascosto dietro il cosiddetto “business dell’accoglienza” (anche sotto il significante umanitario) che sta caratterizzando la gestione europea della “crisi dei rifugiati” le distanze cominciano sicuramente ad accorciarsi. La proliferazione di CIE, CARA, CAS, HUB e Hotspots, insieme al ruolo primario di Frontex, Europol e Eurojust, nel governo delle migrazioni può essere concepita come una variante razziale europea di quel “complesso industriale-penitenziario” attraverso cui il capitalismo neoliberale globale articola la propria economia politica del controllo.

«È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente».

la Repubblica, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

Sacrificati sull’altare di un possibile compromesso sulla legge elettorale e della rincorsa populistica, ancora una volta i bambini e ragazzi figli di migranti nati e cresciuti in Italia devono rinunciare a poter acquisire la cittadinanza italiana senza dover attendere il compimento della maggiore età.

Il progetto di legge già approvato alla Camera oltre un anno fa sembra definitivamente insabbiato al Senato. Rimandato nei lunghi mesi della campagna referendaria, fermo alla Commissione Affari costituzionali per l’opposizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nel disinteresse dei Cinquestelle, ora sembra diventato, merce di scambio per l’accordo sulla legge elettorale.

Renzi, che da segretario del Pd e presidente del Consiglio aveva, all’inizio del mandato e prima di entrare nel girone infernale della riforma costituzionale, ne aveva fatto uno dei fiori all’occhiello del suo programma, non solo lo ha lasciato al suo destino, non si oppone (per non pensare il peggio) che venga scambiato per ciò che ora gli sta più a cuore: arrivare alle elezioni il più presto possibile, a costo di rimandare sine die una legge di civiltà. Con grande felicità della Lega, che in questo modo coglie due piccioni con una fava - elezioni subito e contrasto duro ai migranti, inclusi quelli che migranti non sono perché nati e cresciuti qui. Un successo che saranno la Lega e gli altri partiti di destra a sbandierare nelle elezioni prossime-future come difesa dell’italianità rispetto all’odiato straniero.

E l’intero iter legislativo dovrà ricominciare da capo, rendendo inutile il lungo processo di mediazione e i molti compromessi restrittivi che avevano portato alla legge approvata alla Camera. Nel frattempo, i ragazzi nati e cresciuti qui, o arrivati da piccoli e andati a scuola qui, dovranno continuare a vivere da stranieri nel Paese che conoscono meglio, in cui vanno a scuola e di cui parlano la lingua a volte meglio di quella del Paese dei loro genitori. Stranieri in casa propria, verrebbe da dire, in bilico tra due mondi cui per motivi diversi non sono pienamente appartenenti: l’Italia, perché rifiuta di riconoscerli come propri cittadini, il Paese d’origine, perché lo conoscono solo in via mediata.

Esclusi dall’appartenenza, dovranno anche stare attenti a non fare passi falsi nella lunga attesa della maggiore età. Se i genitori, come sta capitando in questi anni di crisi, li mandano temporaneamente a vivere con i nonni nel Paese d’origine, rischieranno di perdere il diritto ad accedere a una corsia privilegiata per ottenere la cittadinanza una volta divenuti maggiorenni. A differenza dei loro coetanei italiani, non potranno partecipare a scambi culturali che prevedono mesi all’estero, perché ciò potrebbe inficiare il requisito della residenza ininterrotta in Italia. Se non in possesso di un documento di identità del Paese d’origine (cosa difficile per i rifugiati, ma anche per molti migranti economici), non potranno recarsi all’estero con la loro classe.

È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente. Deludendo sistematicamente le attese legittime di una giovane generazione di stranieri e dichiarandone implicitamente ed esplicitamente l’irrilevanza, si aliena la fiducia di chi potrebbe concorrere sia agli equilibri demografici, sia alla costruzione di una società più integrata e meno divisa in gruppi non comunicanti.

L’unico modo che hanno il Pd e il suo segretario di smentire i sospetti di un patto scellerato è che tutti i suoi senatori chiedano l’immediata calendarizzazione del provvedimento, assumendosi la responsabilità di argomentarne le buone ragioni anche al proprio interno, verso i propri alleati di governo e verso il proprio elettorato, senza farsi ricattare dalle minacce di Calderoli di seppellirli di emendamenti. Altrimenti, oltre al sospetto di cinismo, si avallerà anche quello che il Pd voglia non già affrontare le questioni che, in assenza di attenzione e risposte credibili, alimentano i populismi, bensì cercare di competere su quel terreno con le stesse armi e argomenti di chi ci sta da anni e ne ha fatto la propria cifra.

La sospensione dei diritti degli stranieri e dei migranti (si pensi al progetto di rivitalizzare i Cie o di ridurre le possibilità di appellarsi a decisioni di rigetto della domanda di asilo) come carta da giocare nella competizione politica. Una scelta suicida, perché il terreno è già occupato da giocatori più esperti e spregiudicati.

«La parola "progresso" ha perso il significato univoco dei secoli passati. Oggi la critica alla società del rischio dovrebbe suggerire alla sinistra un altro vocabolario».

il manifesto, 24 gennaio 2017

Nella discussione sulla costruzione di un “campo progressista”, in risposta alla crisi della sinistra, chi ha criticato questa formula ha fatto riferimento al campo, richiamando il centro sinistra e l’Ulivo, più che a progressista, la cui positività è data per scontata.

E lo è stata in effetti per tutto il diciottesimo e per gran parte del diciannovesimo secolo. Con essa si esprimeva la fiducia nel miglioramento continuo della vita umana, sulla base di progressi scientifici e tecnologici, e sullo sviluppo economico conseguente alla nascita dell’industria moderna. La fede nel progresso era la fede nella centralità dell’uomo sulla terra, sia da parte dei laici che dei religiosi, per cui la natura era stata creata per l’uomo.

A dire il vero già nell’800 ci fu chi mise in dubbio questa fede e l’antropocentrismo che la ispirava. Giacomo Leopardi, La ginestra, ironizza su «le magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, di fronte al tragico spettacolo de «lo sterminator Vesevo» che spazza via le opere dell’uomo che ha con stolta fede nel progresso disseminato di manufatti - ora diremo che ha cementificato - le pendici del Vesuvio, al cui furore ha resistito solo l’umile fiore della ginestra. La voce di Leopardi rimase per molto tempo isolata. I giganteschi passi avanti nella ricerca tecnica e scientifica, gli spettacolari successi della rivoluzione industriale misero in ombra il radicalismo del pensiero critico del poeta di Recanati.

Ma ai nostri tempi è sorprendente trovare un eco delle tesi dell’ateo e materialista Leopardi nell’Enciclica di papa Francesco, che fra le altre cose sembra farla finita con il tradizionale antropocentrismo della dottrina cattolica. L’uomo più che il centro dell’Universo, dopo Dio si intende, è solo una componente di una natura, che se l’uomo continuasse nella sua opera dissennata trainata dal profitto e dal consumismo, potrebbe addirittura fare a meno di lui.

Il cambiamento cessa in quest’ottica di essere di per sé una cosa sempre positiva, e ancor meno il cambiamento veloce, le decisioni rapide volte all’accelerazione della crescita economica. Siamo entrati nella società del rischio come l’ha definita Ulrik Beck, in cui i rischi sono provocati soprattutto dall’opera dell’uomo, dagli stessi “progressi”, che sia sul terreno socioeconomico, che su quello ambientale, l’umanità ha portato avanti senza curarsi delle conseguenze sulla natura e sulla coesione sociale. Il progresso trova un limite nel principio di precauzione, in cui la positività del cambiamento viene messa alla prova sulla base delle sue conseguenze sulla sicurezza ambientale, sulla salute e sulle opportunità di vita buona che apre o chiude al genere umano.

Oggi i cambiamenti, le riforme appaiono come una cosa che peggiorerà le proprie condizioni di vita e di lavoro.. Zygmut Baumann lo ha detto così: «Il ’progresso’, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso ’progresso’ sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui».

Credo ce ne sia abbastanza per non dare alla parola progressista un significato univocamente positivo. Oltre tutto il campo che definisce risulta connotato quasi per necessità da due altri elementi altrettanto meritevoli di una disamina critica. Perché i progressisti per natura sono governisti, perché è essenzialmente dal governo che si diffondono e si controllano i cambiamenti, e riformisti, tesi cioè a perseguire i cambiamenti conseguibili nel quadro economico dato, da fare evolvere con la necessaria cautela..

Viene in mente a questo punto Enrico Berlinguer che di fronte ai progressisti e ai riformisti del suo tempo non esitò a dichiararsi conservatore e rivoluzionario. Perché la conservazione di un equilibrato rapporto tra l’uomo e la natura, dei nostri beni culturali e ambientali, dei valori della nostra storia, e dei diritti civili e sociali in questa lunga storia conquistati, richiedono la messa in discussione radicale dello stato di cose presente.

Articoli di Emma Mancini, di Amnesty International Italia, di Giovanni Bianconi, Ivan Cimmarusti, da il manifesto, corriere della sera, Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2017

il manifesto
L’ULTIMO TRUCCO DI AL-SISI:
STRINGERE IL CERCHIO SU ABDALLAH
di Emma Mancini

«Caso Regeni. Spunta il video girato dal capo del sindacato ambulanti: Giulio rifiuta di dargli denaro. La vendetta come movente: lo show del Cairo scorda i depistaggi di polizia e governo»

Fuori è già buio: il volto di Giulio Regeni occupa lo schermo della microcamera nascosta addosso a Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani. È il tardo pomeriggio del 6 gennaio, luogo dell’incontro è il mercato di Ahmed Helmy al Cairo.

Per la prima volta sentiamo la voce di Giulio, lo vediamo gesticolare mentre cerca di frenare l’arroganza dell’uomo che – dicendosi poi orgoglioso di averlo fatto – lo ha denunciato alla polizia egiziana come spia. Anche stavolta, però, nel nuovo tassello dell’intricato puzzle di depistaggi egiziani c’è qualcosa che non va.

Il video, secondo gli esperti e gli investigatori italiani, è stato girato con una minicamera in dotazione alle forze di sicurezza. È appuntata sul vestito di Abdallah e riesce a riprendere per due ore, un tempo troppo lungo per un normale telefono.

Eppure, a settembre il procurato generale del Cairo Sadek riferì alla Procura di Roma che la polizia indagò per soli tre giorni su Giulio (su segnalazione di Abdallah) a partire dal 7 gennaio. I conti non tornano.

In un articolo dell’8 dicembre il manifesto riportava i dubbi mossi da una fonte della Procura di Roma: gli inquirenti avevano visionato il video e già ritenevano possibile il coinvolgimento della polizia.

In secondo luogo il video, più che mettere in cattiva luce o generare sospetti sul giovane ricercatore italiano, svela lo spirito di corruzione che muove il capo del sindacato: è Abdallah che insiste per avere denaro per sé e la famiglia, è Giulio che lo respinge fermamente.

«Non posso usare soldi per nessuno motivo, sono un accademico – dice Giulio – Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca. E mi interessa che voi come venditori ambulanti fruiate del denaro in modo ufficiale».

Regeni continua: per poter avere fondi dalla britannica Antipode Foundation, serve un progetto chiaro, «idee e informazioni prima del mese di marzo» sul sindacato e sulle sue «necessità». Informazioni per un progetto di sviluppo e non per intelligence straniere.

Per questo l’uscita del video proprio in questo momento, a due giorni dal sesto anniversario di piazza Tahrir e ad uno dalla scomparsa di Giulio, il giorno dopo il via libera egiziano agli investigatori italiani a visionare (dopo un anno di dinieghi) le immagini delle telecamere di sorveglianza nella zona di Dokki al Cairo, sembra voler stringere il cerchio.

Non tanto sulla polizia, quanto su Abdallah, che viene dipinto come l’istigatore delle indagini, per mera vendetta o perché a caccia di credibilità all’interno dei servizi segreti. Riportava ieri Agenzia Nova sulla base di fonti citate dal sito Veto Gate – che le immagini sarebbero state rese pubbliche su ordine specifico dello stesso Sadek.

Non a caso domenica l’agenzia di Stato egiziana Mena, dando notizia della consegna dei video delle telecamere di sorveglianza, ripeteva che dopo tre giorni di indagini la polizia si disinteressò a Regeni perché non rappresentava una minaccia. Dimenticando di citare, però, l’ultima chiamata di Abdallah a Giulio, il 22 gennaio, prontamente girata alla Sicurezza Nazionale.

È ovvio che il regime del presidente-golpista al-Sisi stia tentando ancora una volta di allontanare da sé le responsabilità politiche dell’omicidio di Regeni, mandando in prima linea Abdallah e qualche poliziotto mela marcia che lo avrebbe aiutato nella vendetta.

Ma alcuni pezzi del puzzle non possono essere cancellati, a partire dai primi depistaggi fino alla strage di 5 egiziani incolpati della morte di Giulio e al teatrino del ritrovamento dei suoi documenti in casa della famiglia di uno di loro. Ma soprattutto i segni inconfutabili delle torture sul suo corpo.

il manifesto
VERITA' PER GIULIO,
DOMANI IL GIORNO DELLA MOBILITAZIONE
di Amnesty International Italia

Mercoledì 25 gennaio sarà trascorso un anno esatto dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 365 giorni, la verità è ancora lontana. Per continuare a chiedere «Verità per Giulio Regeni» Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione.

L’appuntamento principale è all’Università La Sapienza di Roma: la manifestazione negli spazi esterni alle spalle del Rettorato (o in caso di maltempo nell’aula T1 della facoltà di Giurisprudenza, piazzale Aldo Moro 5) si aprirà alle 12,30 con il saluto del Rettore, prof. Eugenio Gaudio.

Interverranno Stefano Catucci, del Senato Accademico Sapienza; Antonio Marchesi, presidente Amnesty Italia; Patrizio Gonnella, presidente Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili; Giuseppe Giulietti, presidente Federazione nazionale della stampa italiana; Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica.

Nel corso della manifestazione lo scrittore Erri de Luca e gli attori Arianna Mattioli e Andrea Paolotti leggeranno estratti dei diari di viaggio di Giulio Regeni. Interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori. I partecipanti mostreranno cartelli col volto di Giulio Regeni e numeri da 1 a 365, l’anno trascorso in assenza della verità.
Le adesioni:

A buon diritto, ARCI, Articolo21, Antigone, Associazione Amici di Roberto Morrione, Associazione Italiana Turismo Responsabile, AOI – Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale, Associazione Stefano Cucchi Onlus, Associazione Studentesca «Sapienza in Movimento», CGIL – Area delle politiche europee e internazionali, Cild, Cittadinanzattiva, Conversazioni sul futuro, Coordinamento della Rete della Pace, Cospe, CPS, Focsiv, FNSI – Federazione nazionale della stampa italiana, Iran Human Rights Italia, il manifesto, Italians for Darfur, la Repubblica, Legambiente, LINK-Coordinamento Universitario”, Nexus Emilia Romagna, #NOBAVAGLIO pressing, Radio Popolare, Rai Radio 3, Un ponte per…

La sera a Roma (a San Lorenzo in Lucina, da confermare), Brescia, Bergamo, Rovigo, Pesaro, Pescara, Bologna e Trento verranno accese delle fiaccole alle 19.41, l’ora in cui Giulio uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione.

corriere della sera
SPUNTA UN VIDEO SEGRETO DI REGENILA PROVA DEL DEPISTAGGIO EGIZIANO
di Giovanni Bianconi

«Giulio appare come una persona specchiata che aveva solo scopi di ricerca».


Roma. Il video girato di nascosto dall’ex capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti, Mohamed Abdallah, durante un colloquio con Giulio Regeni, diventa un’altra prova delle bugie della polizia egiziana e dei depistaggi messi in atto per occultare la verità su quanto accadde un anno fa al Cairo. È la dimostrazione che le comunicazioni delle forze di sicurezza alla magistratura egiziana, trasmesse dal procuratore generale della Repubblica araba Nabel Sadek al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al sostituto Sergio Colaiocco, erano false.

Avevano detto che Abdallah, che prima s’era mostrato amico di Giulio e poi l’ha tradito dopo aver capito di non poter mettere le mani sui soldi che il ragazzo voleva chiedere per finanziare la sua ricerca e il sindacato, aveva denunciato Regeni il 7 gennaio 2016; che gli accertamenti della National Security durarono solo tre giorni, e già il 10 gennaio era cessato ogni interesse per l’italiano che si occupava dei problemi degli ambulanti. Questa seconda affermazione s’era già dimostrata non vera, visto che dai tabulati telefonici emergevano contatti tra Abdallah e gli agenti egiziani fino al 22 gennaio. Ora cade anche la prima, perché il filmato del colloquio risale al 6 gennaio, e Abdallah l’ha realizzato con un’apparecchiatura sofisticata fornitagli dagli stessi poliziotti; l’ha detto lui, e si capisce dalla qualità delle immagini e dall’inconsapevolezza di Giulio di essere ripreso mentre parla. Niente a che vedere con l’utilizzazione di un telefonino di cui ha parlato la polizia del Cairo.

Dunque l’attenzione degli investigatori egiziani per il ricercatore dell’università di Cambridge cominciò almeno due giorni prima di quanto ammesso finora, e proseguì fino alla vigilia del sequestro di Regeni, scomparso dopo essere uscito di casa per andare a un appuntamento e rapito non davanti all’abitazione, bensì due fermate di metropolitana più avanti. Era il 25 gennaio di un anno fa, giorno delle manifestazioni per celebrare la rivolta di piazza Tahir, anniversario citato nel colloquio tra Giulio e Abdallah. Il sindacalista chiedeva soldi prima di quel giorno, ma lui — che stava cercando di ottenere un finanziamento di 10.000 sterline dalla britannica Antipode Foundation — gli aveva fatto capire che non sarebbe stato possibile.

La magistratura egiziana ha già individuato, e comunicato ai pubblici ministeri romani, i nomi di sette appartenenti alla Polizia municipale (due) e alla National Security (cinque) che hanno avuto a che fare con gli accertamenti su Regeni e con l’invenzione della falsa pista dei criminali comuni, uccisi e indicati come responsabili del sequestro e dell’omicidio di Giulio.

Può essere che il video diffuso ieri in Egitto sia stato reso pubblico con l’intento di sviare l’attenzione dalle indagini avviate su queste persone (alcune già interrogate), e dimostrare che Regeni fosse una spia al servizio di chissà chi, o comunque una persona ambigua. Invece emerge una realtà ben diversa.

Giulio appare per quello che era, una persona specchiata che non aveva altri scopi se non quelli di proseguire la sua ricerca. È ciò che dice esplicitamente al sindacalista: «Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca-progetto. Il mio interesse è questo. E mi interessa che voi fruiate del denaro in modo ufficiale, come previsto dal progetto e dai britannici». Ma Abdallah voleva quei soldi per sé, cercava «una scappatoia per poterli usare a fini personali», e Giulio scrisse sul computer che era una «miseria umana». Poi cominciò l’indagine della polizia.


Il Sole 24 Ore
REGENI,L'ULTIMO VIDEO PRIMA DELLA MORTE
di Ivan Cimmarusti


«Omicidio al Cairo. Nel filmato il ricercatore respinge la richiesta di denaro da parte del capo degli ambulantiRegeni, l’ultimo video prima della morte»

Ripreso con una microcamera dal sindacalista che lo denunciò ai servizi egiziani
Venduto ai servizi segreti egiziani per ciò che in realtà non era: una spia britannica. Il capo del sindacato indipendente Mohamed Abdallah controllava Giulio Regeni per conto della National Security e lo riprendeva con telecamere abilmente nascoste tra i vestiti per incastrarlo. Il particolare è stato rivelato dallo stesso sindacalista in un verbale d’interrogatorio alla Procura generale cairota.

Questo c’è dietro il video diffuso ieri dalla televisione di Stato egiziana, in cui si vede Abdallah che chiede con insistenza le 10mila sterline che il ricercatore di Udine attendeva dalla fondazione inglese Antipode, che stava finanziando uno suo studio sui sindacati egiziani. Giulio non ci sta: quei soldi hanno uno scopo didattico. Quella fermezza di Abdallah nel volersi impossessare del denaro, però, nasconderebbe una precisa strategia del servizio segreto civile cairota, che aveva schedato Giulio come una spia straniera. Ma andiamo con ordine. Il video, della durata di circa due ore, è finito già da tempo sulla scrivania del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco. Sono i particolari a fare la differenza: la registrazione è fatta con un apparato di evidente qualità, ben posizionato e nascosto tra i vestiti del sindacalista. Attivato tempo prima dell’incontro, segno che Abdallah non era nelle condizioni di controllarlo direttamente.

L’incontro avviene pochi giorni prima del 25 gennaio 2016, data della scomparsa di Giulio e anniversario della rivoluzione egiziana del 2011. Nello spezzone andato in onda si sente la voce di Abdallah dire «mia moglie ha il cancro e deve subire un’operazione e io devo cercare denaro, non importa dove». Regeni gli replica: «Il denaro non è mio. Non posso usare i soldi per nessun motivo perché sono un accademico e sulle relazioni all’istituto britannico non posso scrivere che voglio utilizzare questo denaro a titolo personale. Impossibile, se succede è un gran problema per me».

Aggiunge che «i soldi non arrivano attraverso “Giulio” ma attraverso la Gran Bretagna e il Centro egiziano che lo dà agli ambulanti». Alle insistenze di Abdallah, Regeni ribatte comunque che «ci saranno molti progetti ai quali parteciperanno tutti i paesi del mondo» e che quindi «bisogna cercare di avere idee e ottenere informazioni prima del mese di marzo» su «quali sono i bisogni del sindacato», anche a livello di «soldi». Anche se quest’ultima parola non è chiara, si conferma che Regeni stava proponendo un finanziamento di 10mila sterline a favore delle iniziative del sindacato, nuovo, ufficioso e inviso alle autorità.

Un incontro che, sostanzialmente, ha segnato la condanna a morte del povero studioso italiano. I rapporti di Abdallah con il servizio segreto civile sono continui e serrati. Dagli uffici della National security, infatti, partono telefonate verso l’utenza del sindacalista l’8, l’11 e il 14 gennaio. Altre telefonate, invece, le fa lo stesso Abdallah verso funzionari del servizio segreto egiziano.

Comunicazioni in cui si sarebbe parlato proprio di Regeni e di quel denaro di provenienza britannica che voleva devolvere al sindacato indipendente. Il 25 gennaio successivo è la principale ricorrenza in Egitto: l’anniversario della rivoluzione del 2011. Regeni è sotto controllo, anche se una indagine «formale» delle autorità egiziane era stata già chiusa.

Quel giorno deve incontrare il docente italiano al Cairo Gennaro Gervasio, per andare a una cena di compleanno del professore Kashek Hassamein, noto per la sua opposizione al governo di Al Sisi. A quell’appuntamento Giulio non arriverà mai.

Il suo corpo sarà ritrovato il 3 febbraio successivo sull’autostrada che collega il Cairo con Alessandra d’Egitto. L’esame autoptico della salma ha confermato le violenze inflitte al ricercatore, barbarie che portavano la firma «di un professionista della tortura», come era spiegato nella perizia depositata ai magistrati della Procura di Roma. Ora non resta che attendere gli esiti delle consulenze sulle videocamere di sorveglianza della metro del Cairo, dove con tutta probabilità potrebbero essere immortalate le immagini dei carnefici di Giulio.

Tutto fa pensare che l'avvento di Trump allontanerà ancora di più Israele dall percorso di pace con la Palestina e rafforzerà Netanyahu il suo governo nel proseguire la feroce politica di oppressione

. Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2017 (p.s.)

Approvati i permessi per la costruzione di 566 nuove a Gerusalemme est, oltre la Linea Verde in vigore del 1967, la parte abitata principalmente dalla popolazione araba-palestinese. Lo ha detto alla Radio Militare Meir Turgeman, capo del Comitato di programmazione edilizia della città, spiegando che i permessi erano stati bloccati fino alla fine dell’amministrazione Obama contraria all’attività di insediamento.

Ma ora, con l’elezione di Donald Trump, definito da Benyamin Netanyahu “un vero amico di Israele“, le costruzioni degli insediamenti nei territori arabi potrebbero avere un accelerata che procederà di pari passo all’esproprio e alla demolizione delle case dei palestinesi ritenute “abusive“.

Ieri, ad Arara, nel nord di Israele, migliaia di arabi israeliani hanno manifestato contro le recenti demolizioni in località arabe di case definite “abusive” dalle autorità. E Hanno anche invocato le dimissioni del ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan (Likud) in seguito alla morte di un beduino in scontri avvenuti mercoledì con la polizia nel Neghev. Secondo le autorità durante i preparativi per le demolizioni di case nel villaggio beduino di Um el-Hiran (Neghev) l’uomo – Yaakub Abu Al-Kyan, 45 anni, vice preside di una scuola locale – ha travolto ed ucciso intenzionalmente un agente di polizia, prima di essere colpito a sua volta dal fuoco di altri agenti.

I dimostranti hanno invece accusato il ministro Erdan di aver fornito una versione menzognera dei fatti ed hanno invocato che sull’ incidente sia condotta una inchiesta indipendente. Nel frattempo la famiglia di al-Kyan esige di poter procedere alla sua sepoltura ma le autorità sono disposte ad autorizzare solo funerali di carattere privato, per prevenire altri disordini.

Presto però, potrebbe cominciare ufficialmente una nuova fase delle relazioni Usa-Israele, dopo il gelo con l’amministrazione Obama. Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche che citano fonti non specificate di Gerusalemme, i due presidenti si potrebbero incontrare nella prima settimana di febbraio a Washington.

Ben prima quindi del congresso dell’Aipac, la principale lobby filo israeliana negli Usa, prevista per fine marzo e dove è tradizionale che partecipi il premier israeliano. In questo primo, cruciale, incontro, sono molti i temi: dalla situazione della regione alla costruzione delle colonie ebraiche, dall’accordo sul nucleare dell’Iran alla ripresa delle sanzioni contro Teheran, al trasferimento del’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

«L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia».

la Repubblica, 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».
Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi.

Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo “modello Briatore” se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare… il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il «Made in Italy» esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle «eccellenze» commerciali.

Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da «creativi» prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro. Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia.

«Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento! ». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch — fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza — la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.

Essere umani — ha scritto David Foster Wallace nel 2005 — «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri... Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del «Made in Italy»; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in Internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

Dalle donne degli USA e del mondo la prima risposta di massa al trumpismp. Articoli di Geraldina Colotti, Bia Sarasini, Marina Catucci. Presenti anche i maschi e altre minoranze.

il manifesto, 22 gennaio 2017


WASHINGTON È ROSA:
IN 600MILA SFIDANO TRUMP
di Marina Catucci
Stati Uniti. Donne, uomini, etero, gay, bianchi, neri alla Women’s March. «La resistenza comincia oggi», lo slogan di un corteo senza fine. Non solo la capitale: cortei anche nel resto degli States a Boston, New York, Chicago, Los Angeles. Una manifestazione lunghissima, incredibilmente numerosa, una città invasa di berretti rosa, simbolo de facto di questa marcia storica che ha invaso Washington ed è stata presente a New York, Chicago, Los Angeles, Boston ma anche a Sidney, Tokyo, Parigi.

La Women’s March, nata dall’idea di un gruppo di donne hawaiane due giorni dopo l’elezione di Trump, in poco tempo ha raggiunto una dimensione tale da non poter essere ignorata ed ha attratto l’adesione di praticamente tutte le associazioni americane che si occupano di diritti civili.

«Ogni volta che si fa un corteo serve un permesso del comune, per ogni gruppo che aderisce al corteo – dice Tim, 62 anni che lavora al comune di Washington ed è sceso a manifestare alla Women’s March – Questa volta abbiamo rilasciato più di 100 permessi».

Nella sola Washington, dove si aspettavano 200mila persone ne sono arrivate più del doppio, si parla di una folla di quasi 600mila composta da donne, uomini, americani, stranieri, etero, gay, tutti a dire che la resistenza comincia ora, che i diritti delle donne sono diritti civili e come tali verranno difesi.

«Sono ebrea ed ho 78 anni – dice Ruth – I miei genitori sono scappati dalla Germania nazista, io ho vissuto gli anni ‘50. Tesoro, quando vedo un fascista e un misogino lo riconosco, e lo combatto».

Per raggiungere il comizio che ha preceduto l’inaugurazione l’unico mezzo era arrivarci a piedi, le metropolitane, con i treni e le piattaforme stracolme di gente, non si fermavano alle fermate più vicine il concentramento in quanto la zona non poteva più accogliere altre persone.

Per cui una fiumana di gente rimasta a piedi ha composto svariati cortei di fatto che da vari punti, ben lontani da dove si sarebbe tenuto il comizio, è confluita nella zona prevista, senza poter arrivare nemmeno minimamente vicino al palco.

Sullo stage si sono alternati vari personaggi davanti all’immensa folla festante in modo liberatorio dopo la pesantezza della giornata precedente.

«Siete tantissimi, siamo tantissimi – ha detto Michael Moore evidentemente emozionato – ed ora bisogna continuare. Io, non ci crederete, sono un uomo timido, quando ho cominciato a fare ciò che faccio, in Michigan, avevo bisogno di ore per vincere la timidezza, e questo è ciò che ora dovremo fare tutti quanti, anche voi, è importante vincere le proprie resistenze e mettersi un gioco. In special modo politicamente: entrare nel gioco politico locale, la politica locale è fondamentale, difendete il vostro quartiere, la vostra città, questo difenderà il paese».

Uno degli interventi più applauditi è stato quello della giovanissima Sophie Cruz, 8 anni, diventata famosa quando, durante la visita del papa a Washington nel 2015, era riuscita a scivolare tra le transenne, abbracciarlo e consegnargli a una lettera scritta a mano con un appello per la riforma dell’immigrazione, in quanto i suoi genitori sono illegali.

La paura personale di Sophie per la deportazione dei suoi genitori l’ha resa una delle voci più giovani del movimento di riforma dell’immigrazione. La leader femminista Gloria Steinem ha descritto la mobilitazione in tutto il mondo come «il rialzo del rovescio della medaglia: si tratta di una iniezione di energia e di democrazia, come non ho mai visto nella mia vita, una vita molto lunga».

«A volte dobbiamo mettere i nostri corpi fisicamente là dove sono le nostre convinzioni – ha aggiunto – in special modo ora, con Trump che è un presidente impossibile».

Il colpo d’occhio che si vedeva per le strade di Washington era quello di un fiume rosa, formato principalmente dai cappellini di lana con le orecchie da gattino, pussy in inglese, o vagina, in riferimento a uno dei peggiori commenti di Trump riferiti alle donne. Moltissimi uomini si sono presentati con questo cappello, fieramente.

«Questo l’ha fatto mia moglie – dice Mitch, 35 enne della Virginia – È un simbolo fantastico anche perché fatto a mano, così come questa nazione, fatta dalle mani degli americani, quelli che sono in piazza oggi è che saranno in piazza per i prossimi 4 anni, se necessario anche tutti i giorni».

Gli slogan che risuonavano più frequentemente non è di timore, come invece nelle manifestazioni precedenti, ma di lotta. «La resistenza comincia», hanno detto tutti gli speaker dal palco .

«La resistenza comincia», ha detto l’attrice Ashley Judd, prima di cominciare il suo discorso sul significato dell’essere una donnaccia, una nasty woman, cattiva, così come Trump si era riferito ad Hillary Clinton durante un dibattito. «Io sono una nasty woman – ha affermato – ma ora vi dico cosa non fa una nasty woman», ed ha continuato elencando tutte le malefatte dei componenti del gabinetto di Trump, interrotta continuamente dal boato della folla che a quel punto era incontenibile e si espandeva in tutte le vie intorno la piazza.

«Manifestanti, non fate errori – ha detto dallo stesso palco l’attrice America Ferrera – Tutti noi, ognuno di noi, siamo tutti sotto attacco. La nostra sicurezza le libertà sono in estremo pericolo». Il messaggio di Ferrera era palpabilmente ricevuto, molti nel corteo indossavano sombreri, simboli nativi americani, magliette di Black Lives Matter.

Quando arriva l’ora della partenza del corteo in realtà il corteo è cominciato da un pezzo, le persone non hanno mai smesso di sfilare, ci sono manifestanti in ogni via di Washington.

«Chissà che twitterà oggi Trump – dice Ira, afro-americana – Forse farà finta di niente, ma è qua a Washington, se ha delle orecchie ci sente». Ignorare questa folla sarà difficile, Trump potrà provarci ma dovrà fare grossi sforzi, nessuno sembra intenzionato a restare a casa e tranquillamente guardarlo fare a pezzi i diritti civili.

UOMINI CHE MARCIANO
CON LE DONNE
di Marina Catucci

Tante donne, ma anche tantissimi uomini hanno partecipato ieri alla Women’s March: «È solo questione di tempo – dice Sam, giovane padre che indossa il berretto rosa e il rossetto mentre spinge il passeggino – Io sono un uomo bianco eterosessuale, la specie più protetta, ma ho portato qua mio figlio per insegnargli a rispettare le donne e per fargli capire che, se a una parte della società tolgono dei diritti, siamo tutti in pericolo».

UN PROGRAMMA POLITICO
CHE PARLA A TUTTE E A TUTTI
di Bia Sarasini

Sono centinaia di migliaia le manifestanti che, insieme a tantissimi uomini, si sono riversate per le strade di Washington, rispondendo all’appello della Women’s march contro Donald Trump. Si sono superate così le più rosee previsioni della vigilia, che stimavano 200.000 persone. Mentre altre centinaia di migliaia si sono radunate in altre città degli Stati Uniti, come Boston, ma anche nel resto del mondo. Una marcia che è stata caratterizzata da un programma politico inedito, che dai diritti delle donne si allarga e include tutte le minoranze.

Tutti coloro che sono oggetto di ingiustizie sociali minacciati dal feroce populismo di Trump.

Un atto esemplare della politica femminista di nuova generazione, che forte di una mobilitazione femminile travolgente parla a tutte e tutti. La marcia, dice il testo «è un movimento guidato da donne che porta nella capitale persone di ogni genere, razza, cultura, appartenenza politica, per affermare la comune umanità e un messaggio di resistenza e auto-determinazione».

«Raccogliamo l’eredità – prosegue l’appello – dei movimenti suffragisti e abolizionisti, dei diritti civili, del femminismo, dei nativi americani, di Occupy Wall Street», si riconoscono, tra le altre, leader come bell hooks, Gloria Steneinem, Betha Caceres, Audre Lourde, Angela Davis.

Al centro le differenze economiche, le differenze tra le donne di colore e quelle bianche, le disparità economiche tra razze e sessi. E si sostiene la libertà riproduttiva, e la libertà di scegliere il genere, e i diritti lgbtq.

Ma non solo. «Riconosciamo – scrive il documento – che le donne di colore sostengono il maggior peso del lavoro di cura, in patria e nel mondo globale. Sosteniamo che il lavoro di cura è lavoro, un lavoro quasi tutto sulle spalle delle donne, in particolare donne di colore».

Inoltre il testo sostiene un’economia giusta, trasparente e equa. E sostiene che tutti i lavoratori, compresi i lavoratori domestici e i contadini, hanno il diritto di organizzarsi e di lottare per un salario equo, compresi gli immigrati senza documenti.

«Crediamo – scrivono – che migrare è un diritto umano e che nessun essere umano è illegale».

Un programma ampio, complesso, che è una grande novità politica. Dal classico «i diritti delle donne sono diritti universali», si fa programma politico generale che guarda a tutta la società e propone un’alleanza a tutte le minoranze minacciate dal nuovo presidente. In tutto il mondo.

Il contrario del radical chic. Hanno partecipato attrici come Scarlett Johansson, Ashely Judd, ma anche una delle madri del femminismo come Gloria Steinem, il super-attivista Michael Moore.

E non è mancata l’irriverenza femminista, il pussy-hat (pussy sta per vagina), il cappello rosa sfoggiato dalle manifestanti, che è servito a raccogliere i fondi necessari.

IN MARCIA NEL MONDO
CONTRO IL TRUMP-MACHISMO
di Geraldina Colotti

Lo sfacciato maschilismo del neo presidente Usa ha unito le donne di tutto il mondo, che ieri hanno manifestato in oltre 600 piazze dei cinque continenti. Ad accompagnarle, le comunità Lgbt, quelle per i diritti civili e molti uomini, che hanno sfilato in ogni paese, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America latina all’Europa. La «Women’s march» contro le discriminazioni di genere ha portato in piazza milioni di persone: a Parigi, a Berlino, a Roma, a Pristina (in Kosovo), a Buenos Aires, ad Accra (in Ghana), a Nairobi (in Kenya, dove si trovano le «radici» di Obama). Sono arrivate immagini persino dall’Antartico.

Milioni di berretti rosa, per riprendere i simboli lanciati dalle statunitensi, hanno unito la protesta contro le discriminazioni di genere a quella per la difesa dei diritti globali. Molti anche i cartelli contro la repressione e il militarismo, in una gara di creatività stimolata dal grottesco personaggio Trump.

Trump, «You are not my president», dicevano i cartelli in Australia e in Nuova Zelanda, moltiplicando il grido delle donne statunitensi. Migliaia di persone hanno sfilato a Sydney e a Melbourne, a Wellington e Auckland. In Sudafrica, qualche centinaia di persone ha marciato a Durban per dire che «nella nostra America, siamo tutti uguali».

A Parigi hanno sfilato almeno 7.000 persone chiedendo «respect pour les femmes américaines»: rispetto

per le donne americane, ferite dalle dichiarazioni e dai comportamenti del miliardario Usa. Marce di protesta anche in altre città francesi, e cartelli di solidarietà per «le sorelle nere, lesbiche e trans che dovranno vivere per quattro anni con un presidente che avversa i loro diritti e la loro esistenza».

Ad Amsterdam, circa 4.000 persone si sono scambiate «coccole gratuite» (free Hugs) davanti al consolato Usa. Alcuni hanno innalzato cartelli contro «l’odio, il razzismo, il sessismo e la paura», altre pancarte dicevano «Make America sane again», invitando l’America a tornare alla ragione. E ancora: «Donne, non oggetti», uno degli slogan della pagina Facebook da cui è partita la protesta delle donne statunitensi. Tra le «perle» vomitate da Trump nei mesi di campagna e prima, c’è stata infatti anche quella secondo cui «le donne sono dei begli oggetti», da prendere per la vagina.

A Ginevra, circa 2.500 manifestanti di ogni generazione hanno sfidato il freddo per gridare: «Ponti e non muri», per rivendicare la disobbedienza («la resistenza è un dovere quando l’ingiustizia diventa legge»), o per ricordare che «il cambiamento climatico è reale». A Berlino, i dimostranti (circa 700) si sono ritrovati davanti alla porta di Brandeburgo, di fronte all’ambasciata Usa, per gridare «Il popolo unito non sarà mai battuto». A Praga, il giovane cantautore Adam Misik, idolo dei giovanissimi, ha cantato «Let It Be», dei Beatles, ripresa da circa 300 manifestanti. E a Lisbona, diverse centinaia di persone, statunitensi e portoghesi hanno gridato davanti all’ambasciata Usa che «Trump è una vergogna per l’America» e «No alla violenza sulle donne». Dello stesso tenore le manifestazioni a Barcellona.

A Roma, oltre 500 le manifestanti che si sono ritrovate davanti al Pantheon insieme a numerosi uomini: per condividere i temi della «Women’s march», per dire «no alla guerra» (rete Wilpf), e ribadire il No alla violenza sulle donne, che ha di recente portato in piazza oltre 200.000 donne. Un movimento globale, che sta unificando i contenuti forti di un nuovo mondo in cammino, provando ad amplificare la voce di tutti i sud del mondo.

Anticipato dallo sciopero generale delle donne polacche, lo sciopero globale ha spinto tutte ad astenersi da ogni tipo di attività: in un’azione mondiale che ha raccolto la proposta delle donne latinoamericane, iniziata dalle argentine. Un’iniziativa che si ripeterà per l’8 marzo al grido di «Non una di meno» e che – per l’Italia – porterà a una nuova tappa il lavoro dei tavoli tematici nati dal 26 novembre e dal prossimo appuntamento di Bologna, il 4 e 5 febbraio.

Le donne latinoamericane sono state presenti anche ieri, coniugando i temi di genere a quelli della dignità, del lavoro, dei diritti umani e dell’antimperialismo. In Argentina, la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri, che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti. Si è manifestato anche contro la visita del presidente messicano Peña Nieto e contro le basi militari Usa, già decise da Macri e Obama e di certo confermate da Trump.

Ancora, e di nuovo, via i poveri dal centro cittadino, in nome del "decoro", e della sfrenata tendenza a illudersi che il mondo sia come lo descrive la propaganda commerciale.

la Nuova Venezia, 20 gennaio 2017, con postilla

Riaprirà lunedì con una nuova procedura di accesso e di rilascio delle tessere la mensa di Ca’ Letizia gestita dalla San Vincenzo in via Querini. Da giovedì scorso a domani, domenica, niente pasti per i senza dimora nella struttura, la principale di Mestre che aiuta chi vive in povertà estrema. La causa, ribadisce il direttore Stefano Bozzi, è il comportamento di alcuni ospiti che hanno atteggiamenti talvolta violenti, acuiti dall’alcool consumato in strada.

«Ci dispiace molto per coloro e sono tanti che non c’entrano nulla con questi episodi e si comportano bene e che vengono pure loro disturbati da queste situazioni. Tanto che quando ho annunciato la chiusura, sono stati alquanto comprensivi», ci spiega Bozzi. «Per questo da lunedì con la riapertura saremo impegnati in una riformulazione delle procedure di accesso e di rilascio delle tessere. Certi comportamenti, dovuti all’alcool che non si consuma all’interno della mensa e che non può neanche essere portato dall’esterno», continua a spiegare il responsabile di Ca’ Letizia che si augura che da lunedì arrivi un ulteriore aiuto del Comune, magari attraverso una maggiore presenza in strada e di fronte alla struttura delle pattuglie della polizia locale, per tenere fuori le persone moleste.

Perché l’obiettivo è proprio questo. «Abbiamo bisogno di far rispettare le regole ma non pensiamo sia possibile esporre i volontari a minacce, sputi e spintoni. Per questo ci auguriamo un aiuto e una maggiore presenza della polizia locale», conclude il responsabile di Ca’ Letizia che ritiene questo un modo utile anche per affrontare i problemi di decoro posti da mesi dal comitato dei residenti di via Querini che sono arrivati a chiedere lo spostamento della mensa e chiedono da settimane un tavolo di confronto con amministrazione comunale, mensa di Ca’ Letizia per garantire la sicurezza di chi vive a due passi dalla struttura di assistenza e deve convivere con bivacchi e atteggiamenti poco rispettosi.
«A fronte dei fatti recenti e della recente frequentazione di un'utenza pericolosa, il comitato di via Querini rinnova la richiesta di istituire urgentemente un tavolo partecipato di discussione, al quale partecipino tutti i soggetti coinvolti, che dovrebbero unire le proprie forze, competenze e possibilità per risolvere definitivamente la questione della mensa di Ca’ Letizia, spostandola in un luogo più adeguato a sostenere il peso di questo aspetto della carità che non è più preziosa e condivisibile solidarietà, ma concreta pericolosità per gli abitanti del quartiere», fanno sapere. (m.ch.)

È utile ricordare che le mense dei poveri sono un servizio reso a persone “difficili” perché la loro situazione è difficile. La mensa dei poveri non è un self service per dipendenti comunali, e per definizione è un servizio sociale che deve dar da mangiare a persone con le difficoltà più svariate, dall’ubriaco al tossico, allo schizzato. Ahimè spesso i poveri, proprio perché sono poveri, non sono persone sempre gentile con sorriso sulle labbra, che accettano mestamente tutto quello che gli viene ordinato.

Nel caso specifico l’episodio della mensa dei poveri Ca’ Letizia di Mestre fa il paio con quello avvenuto un mese fa per un’altra mensa per i diseredati, gestita anch’essa da organizzazioni di volontariato legate alla diocesi. Anche in quel caso gruppi di cittadinanza (c)attiva, aizzati da qualche componente della giunta Brugnaro, avevano chiesto l’allontanamento dei poveri dal centro della città. Il sindaco trumpista aveva colto la palla al balzo per farsi un po’ di propaganda presso la componente più insofferente della popolazione impegnandosi a realizzare una “cittadella dei poveri” in periferia,
A lui, e ai cittadini protestatari aveva risposto per le rime il patriarca di Venezia, Miraglia, respingendo con pacata indignazione la proposta e invitando tutti a «prendere atto che nella società ci sono ricchezza, povertà, bambini, nonni, adulti, sani e malati. E bisogna cercare, nel rispetto, di offrire servizi migliori a tutti rimanendo attenti all’uomo concreto, alle sue s
tagioni e sofferenze» (vedi in eddyburg l’articolo "Il sindaco Brugnaro vuole la cittadella della povertà").
Osserviamo infine che episodi simili si ripetono sempre più spesso, per effetto della facilità con la quale l’ideologia dei respingimenti tende a prevalere su quella dell’accoglienza, grazie agli sforzi congiunti dall’arco di forze che va dai Salvini ai Minniti, passando attraverso i fautori di destra e di centrosinistra del migration compact

«controradio online,

La proposta dei sindaci della Città metropolitana ai 90 somali che occupavano il capannone-rifugio a Sesto Fiorentino dove dieci giorni fa in un incendio è morto il loro connazionale Alì Muse Mohamud, 44 anni, resta la stessa prospettata subito dopo il rogo: sì all’ospitalità, «suddivisi in gruppi nei vari comuni, per tre mesi. L’idea che devono stare tutti insieme in una struttura è una proposta irricevibile».

Lo ha detto il sindaco della Città metropolitana Dario Nardella al termine di un tavolo tecnico convocato dal prefetto Alessio Giuffrida, dopo l’occupazione da parte dei somali stessi di un edificio di proprietà dei Gesuiti in via Spaventa a Firenze.

«La differenza della proposta, rispetto a quella presentata pochi giorni fa, sta nel fatto che questa arriva da un tavolo al quale tutti i comuni erano presenti, con il supporto del prefetto che ringrazio – ha proseguito Nardella -. Tutti sono disponibili ad ospitare alcuni di loro, ma occorre rispettare le regole e tutto deve avvenire in piena legalità: nessuno può pensare di occupare perchè noi non facciamo disparità e sarebbe ingiusto, per tutti gli italiani e gli altri migranti che aspettano una casa ma non per questo occupano, un trattamento diverso. Ci aspettiamo da loro il rispetto delle regole».

Un riferimento esplicito al fatto che dopo il rogo il gruppo rifiutò la proposta di una suddivisione chiedendo una soluzione definitiva comune per tutti. Al rifiuto degli enti locali i somali, in gran parte richiedenti asilo o già da tempo in Italia con lo status di profughi, insieme al Movimento di lotta per la casa ha occupato tre giorni fa l’edificio dei Gesuiti.

Il sindaco Nardella ha quindi spiegato che entro martedì tutti i Comuni presenteranno la loro proposta. «E’ importante – ha detto – anche il fatto che questa volta ci sia un impegno concreto della Regione Toscana che si è dichiarata disponibile a dare un contributo economico ai Comuni e ha messo a disposizione tre moduli, tre casette, per un totale di 20 posti».

A proposito dell’eventuale sgombero dell’edificio di via Spaventa, sia Nardella sia il prefetto hanno ricordato che deve esserci una denuncia da parte della proprietà, cioè della Compagnia di Gesù: lo stabile è in vendita ormai da tempo. Per il momento i gesuiti sembrano voler tentare la via del dialogo con gli occupanti anche se per il sindaco della Città metropolitana la proposta di una suddivisione dei 90 ospiti in tutti i comuni dell’area dovrebbe essere una risposta che favorisce pure i gesuiti.

«Nessun comune potrebbe ospitarli tutti insieme e, tanto meno, farlo all’infinito. Qual è la situazione dell’emergenza casa – ha concluso il primo cittadino – credo sia abbastanza evidente a tutti».

postilla
Forse quei sindaci pensano di essere accoglienti e "umanitari", ma sembra – da quanto si comprende – che sfugga loro la comprensione di un aspetto decisivo per affrontare con decenza e civiltà problemi di questo genere. In quel capannone si è formata una comunità di molte decine di persone, fuggite dagli inferni che non da loro sono stati creati; persone che hanno trovato approdo precario in una regione sconosciuta. La loro unica forza è negli elementi della loro identtà di somali costretti alla fuga, nello stare insieme, in nome e in ragione delle loro comuni origini e destini. Con questa comunità occorre trattare, magari suddividendoli in nuclei ma concordando con loro le soluzioni possibili. Insomma, bisogna trattarli come persone, non biglie. E persone dotate di legami, più o meno profonde, con altre dello stesso insieme.

».

la Repubblica, "Robinson", 22 gennaio 2017 (c.m.c.)

«La nostra memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev’essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata» E proprio per questo così importante. Il testo che pubblichiamo in queste pagine è un estratto da un saggio inedito che verrà pubblicato a breve dalla casa editrice Laterza che raccoglie gran parte delle sue opere.

«Prima, l’Olocausto era inimmaginabile. Per la maggior parte delle persone restava inimmaginabile anche quando era già in corso. Oggi siamo stati messi tutti in allarme e l’allarme non è mai stato revocato. Che cosa significa vivere in un mondo ancora gravido dello stesso genere di orrori sintetizzato nella parola “Olocausto”? La sua memoria rende il mondo un posto migliore e più sicuro o un posto peggiore e più pericoloso?

È diventata quasi una banalità affermare che i gruppi che perdono la loro memoria perdono anche la loro identità, che perdere il passato conduce a perdere il presente e il futuro. Se la posta in gioco è la preservazione di un gruppo allora il successo o il fallimento di questo tentativo dipende dagli sforzi per tenere viva la memoria.

Questo può essere vero ma non è tutta la verità, perché la memoria è un dono ambivalente. Per essere più precisi: è un dono e allo stesso tempo una maledizione. Può “tenere vive” molte cose che hanno un valore ben diverso a seconda dei gruppi.

I morti non hanno nessun potere di guidare — tantomeno di monitorare e correggere — la condotta dei vivi. Allo stato grezzo, le loro vite non hanno quasi nulla da insegnare: per diventare lezioni, devono prima essere trasformate in storie (Shakespeare questo lo sapeva, a differenza di molti altri narratori e ancor di più dei loro ascoltatori, quando fa pronunciare ad Amleto morente l’esortazione all’amico Orazio a “dire la mia storia”).

Il passato non interferisce direttamente con il presente: ogni interferenza è mediata da una storia. Quale corso finirà con l’assumere quell’interferenza sarà deciso sul campo di battaglia della memoria, dove le storie sono i soldati e i narratori i comandanti, scaltri o fortunati, delle forze in conflitto.

Dunque il passato è tanti eventi e la memoria non li conserva mai tutti: qualunque cosa conservi o recuperi dall’oblìo, essa non si riproduce mai nella sua forma “pura” e “originale” (qualsiasi cosa significhi). Il “passato integrale”, il passato così com’è realmente accaduto non viene mai riafferrato dalla memoria (e se così fosse la memoria, più che un vantaggio, rappresenterebbe un inconveniente per l’esistenza). La memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev’essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata. La risurrezione del passato, tenere vivo il passato, è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria, che sceglie, rielabora e ricicla. Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati. Lo status della “storia del passato” è ambiguo e destinato a rimanere tale.

La contesa interpretativa in cui il passato viene ricreato in contorni visibili e nell’importanza vissuta del presente, e quindi riciclato in progetti per il futuro, si svolge — come ha messo in evidenza Tzvetan Todorov — tra le due trappole della sacralizzazione e della banalizzazione. Il grado di pericolo che ognuna di queste trappole contiene dipende da qual è la posta in palio, la memoria individuale o la memoria di gruppo.

Todorov ammette che un certo grado di sacralizzazione ( operazione che trasforma un evento passato in un evento unico, considerato “ differente da qualsiasi evento sperimentato da altri”, incomparabile con eventi sperimentati da altri e in altri momenti, e che pertanto condanna come sacrileghe tutte le comparazioni del genere) è opportuno, anzi inevitabile, se si vuole che la memoria adempia al suo ruolo nell’autoaffermazione dell’identità individuale. Contrariamente a quello che insinuano innumerevoli talk show televisivi e alle confessioni pubbliche che ispirano, l’esperienza personale è effettivamente personale e in quanto tale “ non trasferibile”. Il rifiuto di comunicare, o almeno un certo grado di reticenza, può essere una condizione per l’autonomia individuale.

I gruppi, però, non sono “come gli individui, solo più grandi”. Ragionare per analogie porterebbe a ignorare la distinzione cruciale: a differenza degli individui autoassertivi, i gruppi vivono attraverso la comunicazione, il dialogo, lo scambio di esperienze. I gruppi si costituiscono condividendo le memorie, non tenendole nascoste e impedendone l’accesso agli estranei. La vera natura dell’esperienza dell’omicidio categoriale ( cioè l’annientamento fisico di essere umani in quanto appartenenti a una categoria, ndr) tanto dal punto di vista del carnefice quanto dal punto di vista della vittima sta nel fatto di essere stata un’esperienza condivisa e nel fatto che la sua memoria è programmata per essere condivisa continua? »

«il manifesto, 21 gennaio 2017

Centinaia di persone – gli organizzatori azzardano la cifra ragguardevole di mille uomini e donne – che prendono appunti per cinque ore al giorno sulle relazioni che hanno come oggetto il comunismo.

È questa la prima immagine che emerge nel convegno in corso a Roma – tra la Gnam e lo spazio occupato Esc Atelier – che ha visto alternarsi sui due palchi filosofi, sociologi, antropologi ed economisti provenienti oltre che dall’Italia, da Australia, Stati Uniti, America Latina, Russia, Francia, Germania, Inghilterra.

La seconda immagine è la eterogeneità generazionale. Giovani uomini e donne di venti, trenta anni assieme a chi ha attraversato altri decenni. Infine, molti dei partecipanti non sono solo italiani.

I temi affrontati finora hanno molto a che fare con la storia, anzi le storie dei vari movimenti comunisti. La critica dell’economia politica, il concetto di proletariato, l’esperienza dei socialismi reali. Ma nel convegno non c’è nostalgia del passato: tutti i relatori, e molte delle domande emerse nei workshop svolti alla Gnam, invitano a guardare al futuro e a pensare una trasformazione radicale dell’esistente, che segua strade nuove. Il pubblico è parco di applausi facili. Ascolta in silenzio e con una attenzione che meraviglia – per primi gli stessi organizzatori, i quali per oltre un anno si sono incontrati e hanno discusso su come poter parlare del comunismo. In base a quello che è accaduto nei primi due giorni, l’obiettivo è stato raggiunto.

Lo ha anche sottolineato Toni Negri prima di prendere la parola in una sala strapiena e con altrettante persone che sono rimaste in strada senza riuscire a entrare. Se ci sono momenti come questi, ha affermato Negri, vuol dire che non tutto è perduto, come sostengono i cantori del capitalismo.

I relatori, spesso, hanno una lunga militanza politica e teorica alle spalle. Verso di loro molte le manifestazioni di affetto, segno di un riconoscimento per una scelta di vita perseguita con coerenza. È stato così con Luciana Castellina che, nel giorno di apertura con passione ha difeso una scelta di vita e di militanza comunista. Castellina ha però sgomberato il campo da ogni equivoco. Il comunismo storico è cosa finita, bisogna pensare ad altre forme della politica per conseguire l’obiettivo di una società di liberi ed eguali, ma se quella esperienza va considerata chiusa, ciò che invece non può essere archiviata è la storia dei comunisti, cioè di chi in nome della propria visione del mondo ha messo a rischio la vita, il lavoro, gli affetti.

Tutto può essere ripensato, ma quelle storie individuali vanno ricordate, rispettate: senza di esse non saremmo qui a pensare le sconfitte, le vittorie e il come ripartire. È in questo passaggio che è partito il primo lungo applauso che ha accompagnato il suo intervento. Eppure, l’intervento di Castellina non è stato l’unico ascoltato quasi in religioso silenzio. Anche quelli di Mario Tronti e Maria Luisa Boccia sono stati diligentemente appuntati.

Tronti ha presentato la sua sofferta riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista. Il mondo che vede dipanarsi davanti gli occhi non gli piace, è scettico se non all’opposizione verso chi prova a sbrogliare la matassa del presente facendo leva su una idea plurale di comunismo e di marxismo.

Maria Luisa Boccia, invece, ha messo sul piatto della bilancia il rapporto e le differenze tra il comunismo e il femminismo, due esperienze che hanno scandito la prima e la seconda metà del Novecento.

L’ultima, maliziosa, immagine di questa iniziativa è che il comunismo da queste parti è un oggetto pop. Non c’è però nessuna aura vintage nella platea, a partire dagli sforzi fatti dai relatori per misurarsi con il presente.

L’elezione di Donald Trump, il populismo xenofobo in ascesa, una crisi economica che mette in ginocchio economie nazionali. Un lavoro frantumato nelle prestazione lavorativa e nei diritti.

È questo il mondo dove i più giovani sono cresciuti, cioè un mondo dove la parola comunista evoca ere lontane nel tempo. E per questo concedono l’applauso a chi parla di precarietà, di sessismo, di razzismo. L’invito di Franco Berardi Bifo è quello di passare a loro il testimone. Un intervento coinvolgente, il suo, accolto anche con scetticismo da chi non crede che il problema del comunismo sia una questione di generazioni passate (Riccardo Bellofiore).

Ieri è stata la volta di Christian Laval e Pierre Dardot, che a Marx hanno dedicato lavori importanti, tra i quali Karl, prenome Marx, uno dei testi più interessanti usciti negli ultimi anni sull’opera del filosofo di Treviri. Che come un fantasma si aggirava nei locali della Gnam e di Esc. Ma non destava paura, bensì la curiosità di poterlo finalmente – e nuovamente – spendere come compagno di strada in quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.

«Manca una riflessione sul perché quasi un terzo degli italiani dichiari di voler votare il M5S. Le dimensioni del consenso grillino e la sua tenuta obbligano a prendere sul serio questo fenomeno».

la Repubblica, 21 gennaio 2017

Lascia stupefatti vedere come la maggior parte della classe politica, salvo poche eccezioni, continui ad “ignorare” il Movimento 5 Stelle. Additarli come populisti - il che è solo parzialmente vero - o irriderli per le loro innumerevoli ingenuità e manchevolezze serve solo ad esorcizzare il problema. Manca una riflessione sul perché quasi un terzo degli italiani dichiari di volerli votare. Le dimensioni del consenso grillino e la sua tenuta obbligano a prendere sul serio questo fenomeno. Con una premessa. La politica italiana ci ha abituato alle sorprese e quindi nel giro di qualche mese tutto può cambiare. Ma ad oggi il M5S poggia su due solidi pilastri: la ricerca del nuovo e l’ostilità più ancora che il rifiuto del vecchio.

Partiamo dal secondo. Tutto ciò che si identifica con protagonisti, sigle e parole chiave della politica degli ultimi vent’anni viene rigettato in blocco, d’istinto. C’è una insofferenza di pelle alla politica del passato. I sostenitori del M5S non fanno molta differenza tra i protagonisti di quella stagione - anche se non dimentichiamo che tra i dieci candidati alla presidenza della Repubblica gli iscritti grillini avevano inserito Romano Prodi - perché rappresentano tutti un “regime”. Non usano questa parola ma è insita nel modo con cui vivono una stagione di regole e prassi del passato che, a loro avviso, devono essere archiviate perché rappresentano una gabbia di ferro - un regime appunto. Le litanie che i leader pentastellati snocciolano quando vanno in televisione sono irritanti per la loro banalità e ripetitività ma se le decodifica appare evidente che dietro c’è un chiaro messaggio di alterità a tutto.

Del resto, seppure su una scala diversa, la foga grillina ricorda l’emergere di Lega e Forza Italia dopo Tangentopoli. Anche quei protagonisti preconizzavano una cesura netta col passato e parlavano linguaggi incomprensibili agli officiati della politica tradizionale: i farfugliamenti secessionisti di Bossi e le tirate berlusconiane da anticomunismo quaranttotesco non avevano senso per chi era sintonizzato sul passato, ma venivano invece recepiti, eccome, da un nuovo elettorato: anzi da un elettorato in cerca del nuovo. Dietro quelle parole c’era un messaggio di rottura epocale. Come allora Lega e Forza Italia rigettavano i quarant’anni precedenti, così oggi i grillini rifiutano in toto la “seconda Repubblica”, gli ultimi vent’anni. Per questo il M5S è il portabandiera in pectore della “terza Repubblica”. Matteo Renzi era l’antidoto, rappresentava l’antagonista più pericoloso per il M5S perché alternativo e allo stesso tempo interno alla seconda Repubblica. Per mille ragioni che è impossibile approfondire qui, Renzi non è riuscito a disinnescare la mina grillina. Anzi vi è esploso sopra, gettandovisi di proposito, tra l’altro.

Il Movimento 5 Stelle si trova quindi a cavalcare da solo l’immenso territorio dell’insoddisfazione. Coglie il vento di quella sfiducia e persino rabbia, che da tempo cova nell’opinione pubblica da almeno un decennio. La contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra ingabbiava quei sentimenti perché convogliava, contenendole, le pulsioni “rabbiose” verso l’uno o l’altro schieramento. Lo sfarinamento di quella contrapposizione ha lasciato libero un elettorato pieno di frustrazioni che ha trovato in Beppe Grillo la sua icona. Nel settembre del 2007 il “vaffa day” raccolse centinaia di migliaia di persone in piazza, e altrettante firme per una serie di petizioni. La miccia era già accesa allora. Nessuno se n’è curato.

Comunque la vera sfida al M5S viene dal futuro. Che è il suo secondo pilastro. La voglia di novità, speculare al rigetto del passato, è una pulsione fortissima nell’elettorato pentastellato che, non a caso, è molto giovane. Il M5S viene visto come una forza proiettata nel futuro, anche per l’enfasi data alla rete. Ma fin qui è un futuro senza grandi contenuti. Al di là del reddito di cittadinanza, il M5S non veicola proposte mobilitanti. Buon segno, comunque, l’elaborazione di un poderoso documento sul futuro del lavoro affidato a un intellettuale indipendente come Domenico De Masi. La voglia di guardare avanti è insita nel Movimento e ne sostiene le fortuna; ma è una strada molto più impervia della protesta.

».

Sbilanciamoci info online, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)

Lavorare nei beni culturali in Italia, si sa, è complicato. Qualche anno fa con brutale chiarezza l’allora Ministro dell’Economia Tremonti ebbe a dichiarare che «con la cultura non si mangia». La vicenda che coinvolge i lavoratori della Reggia di Venaria, ex residenza reale dei Savoia in Piemonte, è esemplificativa della precaria condizione di chi oggi lavora nel settore culturale.

Mentre il 29 dicembre dello scorso anno la dirigenza della residenza sabauda festeggiava il milionesimo visitatore del 2016, il sindacato USB – che organizza la maggior parte dei 95 lavoratori cui sono affidati i servizi esternalizzati della Reggia – proclamava il decimo sciopero di una vertenza cominciata nella scorsa primavera.

Dopo anni di abbandono e incuria, la Reggia ha riaperto nel 2007. Sin da allora si decise di esternalizzare i servizi di sorveglianza, assistenza, custodia, accoglienza, biglietteria, call center e attività didattiche essenziali per il funzionamento della struttura. Per il consorzio che gestisce la Venaria Reale (un ente partecipato dal Ministero dei beni culturali, dalla Regione, dal comune di Venaria e dall’onnipresente Compagnia di San Paolo), è un modo molto comodo per godere dei benefici dei servizi dei lavoratori in outsourcing senza avere l’onere della gestione delle loro questioni lavorative.

Per circa un centinaio di lavoratori e lavoratrici questo significa invece che ad ogni cambio di appalto, all’incirca ogni quatto anni, c’è il rischio concreto di rimanere a casa o di vedere ridotto il proprio stipendio. Una situazione che si è concretizzata nella primavera del 2016, quando è stato pubblicato il bando per il rinnovo dell’appalto dei servizi esternalizzati.

I lavoratori in outsourcing avevano immediatamente segnalato il taglio delle ore messe in appalto, che significava quasi certamente una riduzione del loro orario di lavoro e quindi degli stipendi. Inoltre non veniva specificato il contratto di categoria che sarebbe stato applicato, il che sollevava il sospetto che ci fosse l’intenzione di sbarazzarsi del contratto Federculture, conquistato dopo una lunga lotta che finalmente aveva equiparato la situazione contrattuale fra lavoratori esternalizzati e quelli assunti direttamente dalla Reggia.

Tutte previsioni che si sono puntualmente verificate, nonostante i numerosi scioperi e il tentativo da parte dell’USB di bloccare il bando per vie legali. CoopCulture, cooperativa vincitrice dell’appalto che fattura oltre 43 milioni di euro e che opera anche in tanti altri beni culturali in Italia, applica ad oggi ai lavoratori il contratto multiservizi: minor paga oraria, nessun supplemento domenicale e abolizione dei buoni pasto. A questo si aggiunge una riduzione dell’orario fino al 20 per cento. Il risultato è un taglio del salario che, secondo quanto riportano i lavoratori esternalizzati, va dai 200 ai 400 euro. Una situazione insostenibile, il tutto mentre il numero di visitatori continua a salire e la Reggia è sempre più il fiore all’occhiello del sistema culturale piemontese.

Il 6 gennaio USB ha pertanto proclamato un nuovo sciopero. CoopCulture ha risposto precettando 23 lavoratori, grazie alla legge del Ministro alla Cultura Franceschini, che equipara i musei a servizi pubblici essenziali come gli ospedali o le scuole. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, quando alcuni spazi espositivi erano rimasti chiusi, il Consorzio che gestisce la Venaria Reale non aveva però annunciato nessuna chiusura. Il perché si è capito nella mattinata dell’Epifania, quando gli scioperanti si sono accorti della presenza di lavoratori esterni, che CoopCulture ha assunto con un contratto giornaliero e che hanno garantito l’apertura dell’intero complesso, di fatto neutralizzando lo sciopero.

Il sindacato ha immediatamente denunciato ai carabinieri quello che considera un evidente comportamento antisindacale, presentando anche un esposto alla Commissione di Garanzia e all’Ispettorato del Lavoro. CoopCulture si è difesa sostenendo che non si sia trattato di un’illegale sostituzione di personale in sciopero, ma «di un potenziamento già previsto e concordato con il Consorzio per i fine settimana e i ponti di maggior richiamo turistico».

Una posizione poi ribadita in un comunicato stampa del 17 gennaio. Nell’attesa che gli organi competenti facciano chiarezza, rimane una contraddizione evidente: perché tagliare le ore a chi lavora nella Reggia da anni, per poi assumere lavoratori con contratti a giornata per coprire i buchi di organico? Se davvero si pensa che i musei e i beni culturali siano servizi pubblici essenziali come gli ospedali, non si dovrebbe allora porsi l’obbiettivo che essi forniscano condizioni di lavoro giuste e dignitose per chi vi lavora? Sono domande per cui urge una risposta, anche e soprattutto da parte di chi sogna il turismo come volano per l’economia regionale e non solo.

«Una riflessione di Federico Palla, abitante dell'ecovillaggio e scuola di Naturopatia Lumen, sul metodo del consenso adottato dalla sua comunità per prendere decisioni paritarie e collettive».

Terranuova online, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)

«È mattina nel salone di meditazione, un raggio di sole illumina una vasca di rame al centro della stanza: acqua e fuoco, fiori e bastoni sono disposti armoniosamente. Iniziamo a mettere i cuscini sul pavimento, a formare un grande cerchio che contenga una trentina di persone. Stiamo preparando un LUMEN DAY, giornata periodicamente dedicata a prendere decisioni insieme, per il futuro del nostro villaggio.

L'immagine del cerchio di parola è affascinante, mi ricorda i film sugli indiani d'America o i documentari sulle tribù indigene che vedevo da piccolo. Questo riunirsi in cerchio, suggerisce da subito un'idea di uguaglianza tra persone responsabili; sedersi tutti per terra e in posizione scomoda allena la pazienza; guardarsi negli occhi permette di sentirsi unità; la parola che fa il giro del cerchio permette la partecipazione di tutti. In un'immagine sola sono racchiusi tanti elementi di un articolato processo decisionale chiamato "metodo del consenso".

Il metodo del consenso viene spesso utilizzato negli ecovillaggi e nelle piccole comunità intenzionali, ma anche in tante altre esperienze sociali che non comportano necessariamente la convivenza. L'obiettivo è arrivare a prendere decisioni condivise da tutti i componenti del gruppo.

Quello che voglio presentarvi è la nostra particolare esperienza maturata in LUMEN dopo più di vent'anni di convivenza. Così come lo intendiamo noi, il metodo del consenso stimola la responsabilità dei suoi componenti e richiede che vengano sviluppate alcune specifiche qualità umane. Oltre a quelle richiamate prima, è fondamentale imparare ad ascoltare.

Consenso deriva infatti dal latino cum sentire ovvero sentire insieme: stimola le persone ad ascoltarsi con attenzione, sia dentro che fuori. E questo è un vero e proprio lavoro interiore, poiché meccanicamente siamo portati a voler aver ragione e a non ascoltare le ragioni degli altri.

Il metodo del consenso aiuta a costruire decisioni migliori: trovando il consenso unanime vengono sostenute e applicate da tutti; sono migliori perché prendono in esame più punti di vista, tendono quindi ad essere più oggettive e lungimiranti; sono solide perché contengono in sé le soluzioni ai possibili ostacoli emersi durante il confronto allargato.

Inoltre, attraverso il confronto necessario alla loro elaborazione, contribuiscono al rafforzamento della comunità e alla crescita dei membri del gruppo.
E' possibile essere sempre tutti d'accordo?

Questa domanda mi è stata fatta più volte e nasconde spesso due sentimenti: incredulità e timore.

Siamo nati e cresciuti in un sistema dove è normale che la maggioranza "schiacci" la minoranza, dove l'obiettivo principale non è risolvere i problemi, ma vincere la competizione. Ed è così a tutti i livelli, dal Parlamento fino alla più piccola assemblea condominiale.

Questa abitudine al disaccordo induce a pensare che non sia concretamente possibile prendere decisioni in accordo con tutti. Nasce quindi il timore che il metodo del consenso in realtà nasconda una maggioranza persuasiva e una minoranza che tende a delegare e a conformarsi al gruppo, per timore di esporsi.

Il rischio che il metodo non funzioni è reale. D'altronde anche su un sentiero di montagna il rischio di cadere da un dirupo è reale: per tale ragione è fondamentale essere attenti e conoscere in anticipo i possibili pericoli del sentiero. Chi si fa male in montagna di solito sottovaluta i rischi. Lo stesso si può dire per il metodo del consenso: bisogna documentarsi, imparare da chi lo fa da anni e fare esperienza.

E alla fine, come in montagna, i risultati che si ottengono ripagano la faticosa salita.
Ecco 7 cose da mettere nello zaino prima di partire:

Per far funzionare al meglio questo processo, è opportuno che alcuni membri ricoprano ruoli specifici, così come è opportuno scegliere tecniche e strumenti adatti al tipo di gruppo e al tipo di decisioni da prendere».

Il razzismo dei "non siamo razzisti". «La rivolta dei genitori forza la decisione dell’Asd Pegolotte. La motivazione è per ragioni di igiene e sanità pubblica».

la Nuova Venezia, 20 gennaio 2017

CONETTA. «Per ovvie ragioni di igiene e sanità pubblica, è stato sospeso l’accesso a questo impianto sportivo a tutte le persone accolte nel campo base di Cona che sono in attesa di essere sottoposte ai previsti controlli sanitari e vaccinazioni».

L’avviso è stato affisso lunedì per decisione della società Asd Pegolotte, ai muri degli spogliatoi dello stadio “don Mario Zanin” su richiesta dei genitori dei bambini, i quali hanno minacciato la società di ritirare i loro figli se i profughi avessero usato gli impianti, per paura di contagi.

L’Asd sostiene di non aver avuto scelta. Due notti prima un ragazzo bengalese di 19 anni, ospitato a Conetta, era finito in ospedale per sospetta meningite. Una diagnosi che, nelle ore successive, era stata precisata come encefalite virale non contagiosa. La disposizione è ineccepibile ma l’effetto è andato oltre il contenuto letterale.

Adesso due giovani profughi, tesserati con il Pegolotte, non possono più giocare nella squadra e un’altra squadra, il Campo Cona (interamente formata da profughi), una ventina, che milita in un campionato amatoriale, non può più giocare in quello stadio che, prima, era quello “di casa”. Nessuno di questi giocatori è malato. Sono tutti in regola con le vaccinazioni.

Si interrompe così un’esperienza di integrazione che dura quasi da un anno e mezzo, da poco dopo, cioè, l’arrivo dei primi profughi al campo di Conetta. In quei giorni, chi visitava, incuriosito, la ex base militare, poteva vedere spesso i giovani profughi giocare a pallone negli spazi verdi attorno alla caserma.

Ma qualcuno di loro faceva di più: andava a vedere gli allenamenti delle squadre locali, fino a Codevigo, in bicicletta, andata e ritorno, con qualsiasi condizione atmosferica. A notarli è stato un padovano, Gino Mez, con la passione del calcio che, una serata di pioggia, li ha caricati in macchina e riaccompagnati al campo.

Da lì è nato un rapporto e un lavorio di contatti, che ha permesso a sei giovani profughi di tesserarsi con il Pegolotte e ad altri 25 di dare vita alla squadra amatoriale. Percorsi diversi giunti alla stessa meta: praticare uno sport e farlo, da pari a pari, con i giovani italiani, compagni o avversari.

I trasferimenti in altri campi hanno ridotto gli organici: da 25 a 21 per il Campo Cona e da 6 a 3 per gli altri, uno dei quali è in infortunio, per un piede rotto, e non finirà il campionato. Gli altri due, invece, hanno giocato fino a domenica, in campo con i ragazzi italiani del Pegolotte. Ma da lunedì è tutto finito.

«Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì».

comune info newsletter 20 gennaio 2017

Stefano Cucchi viveva nella mia borgata, quella dove sono nato e vivo ancora. È stato arrestato all’Appio Claudio dove porto i bambini a fare i giri in bicicletta, nel quartiere dove è cresciuto mio padre, dove c’è il mercato coperto e una vecchia che vendeva la frutta strillava “mandarini!” con una voce che sembrava uscire da un enorme imbuto di ferro. Ma pure la pizza bianca c’era, quella rossa e quella con la mortadella. Io volevo quella con la mortadella da ragazzino.

“Quando si muore si muore soli” cantava De André mezzo secolo fa. E Stefano è morto solo. Se accanto a lui c’era qualcuno è molto probabile che non l’abbia aiutato. Almeno non l’ha aiutato a vivere.

Lo so che non conta molto che io e Stefano ci siamo incontrati al bar e ignorati ognuno davanti al proprio caffè, che abbiamo comprato il pane allo stesso banco del mercato coperto o abbiamo attraversato la stessa strada nella stessa giornata. Lo so e tantomeno conta pensare che oggi avremmo quasi la stessa età. Ma prendetelo come un gioco. Invece di allontanarle da noi, cerchiamo di avvicinarcele queste storie. Cominciamo a pensare che al posto di Stefano potevo starci io. Io al posto di Aldo Bianzino e mio figlio al posto di Federico Aldrovandi. Io al posto di Giuseppe Uva e mio padre al posto di Michele Ferulli. Eccetera. Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì. E che, forse, quella gente se le va a cercare certe rogne.

No. Un esercizio di civiltà è sentirsi come lui. Pensarsi dove lui passava le giornate. Lui e tutti gli altri che vengono raccontati come “strani”, “diversi”, “mostri”. Anche io mi ci sento un po’ strano e pure diverso. Ma poi ho tutta una vita da condividere con gli altri e non ce la faccio a pensare che la morte di Stefano riguardi solo lui. Questo è un gioco sporco che facevano i nazisti quando chiamavano “pezzi” gli internati nei campi. Lo hanno fatto gli hutu che in Rwanda hanno massacrato un milione di tutsi: li chiamavano scarafaggi. Non sarebbero stati in grado di uccidere un milione di persone come loro, ma pensarli come un milione di scarafaggi li ha aiutati!

Qui ci sarebbe da aprire un discorso complicato: come è possibile che degli esseri umani come Stefano, come me, come tutti noi lo abbiano abbandonato e fatto morire? Dentro questo discorso ci dovremmo mettere i processi, la disciplina e le regole (scritte e non scritte) delle persone in divisa e degli uomini che prendono decisioni importanti nei tribunali, l’antropologia… Un discorso troppo complicato per me e forse anche per un blog che dopodomani non leggerà più nessuno.

Ma un fiammifero per Stefano vorrei accenderlo, una proposta. A partire dalla sua storia (e dalla titanica lotta della sorella Ilaria) facciamo lo sforzo di pensarci accanto a lui e a loro. Lungo la stessa strada, con le stesse possibilità, la stessa gioia e gli stessi errori. Nello stesso destino.

Nell'accoglienza degli sfrattati dello sviluppo gli egoismi e le paure fomentate dai neonazisti sembrano dominare in Italia. Ma non mancano le luci. Vogliamo dar evidenza a entrambi, nella cartella di Accoglienza Italia

© 2024 Eddyburg