MicroMega online, 30 gennaio 2017 (c.m.c.)
«Penso che avremmo tutti bisogno di sederci dopo questi fatti e discutere di come dovrebbero essere costruite in futuro le politiche commerciali». La commissaria europea al Commercio Cecilia Malmström probabilmente non immaginava che due oscuri trattati dai nomi incomprensibili come TTIP e CETA avrebbero spopolato nei media internazionali, portato oltre tre milioni di cittadini europei a promuovere e firmare una e portato in piazza negli ultimi tre anni oltre quattro milioni di cittadini di tutti e 27 i paesi membri, 50mila solo a Roma il 7 maggio 2016.
Ma quello che queste persone hanno capito, e che i loro governi sembrano voler ignorare, è che TTIP (Transatlantic Trade and Investment partnership, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti) e CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, la sua versione in minore tra Ue e Canada), in realtà sono delle scorciatoie per via commerciale di operazioni molto coerenti di ridisegno della filiera delle decisioni e delle responsabilità.
In questi giorni c’è chi vuole far passare il CETA come un argine al trumpismo: peccato che il premier Justin Trudeau – che il Parlamento europeo ospiterà a Strasburgo a metà febbraio per godersi in prima fila la deprecabile approvazione del CETA e che posta selfie con bambini rifugiati – abbia salutato l’elezione di Trump, che pure lo svillaneggia spesso su Twitter, come «la possibilità di assicurare a canadesi e americani il giusto successo con un maggior lavoro comune su commercio e sicurezza» [i], e abbia gioito per lo sblocco da parte di Trump della costruzione dell’Oleodotto Keystone XL, stoppato da Obama perché ritenuto devastante per l’ambiente, definendo la scelta di Trump «una decisione molto importante per il Canada che ho sempre sostenuto». [ii]
Trump fermerà il TTIP e la globalizzazione? Proprio no: il suo programma prevede una raffica di accordi commerciali bilaterali e di chiuderli uno dopo l’altro a un ritmo veloce. Peter Navarro, direttore del nuovo Consiglio Nazionale del Commercio della Casa Bianca, ha detto che insieme al ministro al Commercio Wilbur Ross spingeranno per accordi che stringano i requisiti delle regole di origine, che diano un giro di vite al dumping dell’acciaio e dell’alluminio e riducano il deficit commerciale americano richiedendo alle nazioni partner di comprare più prodotti americani.
Per questo Trump prende tempo sul TTIP: proverà a negoziare un accordo bilaterale con la Gran Bretagna, già annunciato, e ad imporre un vantaggio più netto per gli Usa all’Europa, indebolita dalla Brexit. E il rischio è che per evitare l’isolamento commerciale e imporre la svolta antidemocratica auspicata, la Commissione europea accetti il TTIP a tutti i costi, come oggi spinge verso il CETA nonostante il quadro politico sia assolutamente diverso da quello in cui l’ha negoziato.
Il vero obiettivo di TTIP e CETA, infatti, è spostare il baricentro delle decisioni dai Parlamenti nazionali ed europei a commissioni tecniche ad hoc dove ”esperti” incaricati dei Governi Usa e canadese, insieme ad altri “esperti” individuati per decisione autonoma della Commissione europea, stabiliranno quando una marmitta sia abbastanza sicura, ma anche quanto piombo o ormoni sia giusto che siano presenti nel cibo che mangiamo, solo alla luce dei potenziali vantaggi commerciali per chi li produce ed esporta. Ma c’è di più: con questi trattati si punta a introdurre una corsia legale preferenziale, un tribunale arbitrale riservato alle imprese dove esse possano contestare le leggi pur emanate a tutela dei diritti dei cittadini, qualora danneggino i loro interessi commerciali. Una scelta che l’associazione dei magistrati tedeschi, DRB, ha giudicato “senza basi legali”[iii].
Da Seattle a Bruxelles: che cos’è che non va
Era dai tempi della rivolta a Seattle nel 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization – WTO) e dal G8 di Genova 2001 nel nostro Paese, che sindacati, associazioni e movimenti non erigevano barricate fisiche e politiche contro la deregulation commerciale. Questa volta, però, un’inedita alleanza, anche al di là dell’Atlantico, con piccole e medie imprese dei settori agroalimentare e manifatturiero, oltre duemila Regioni tra cui Abruzzo, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige e Val D’Aosta e città europee [iv], e con magistrati e esperti di diritto e commercio, hanno inceppato i rispettivi esecutivi. Il TTIP, rispetto al quale Trump si era dichiarato critico ma che oggi col suo staff sta valutando a fondo, essendo sensibili i vantaggi per le esportazioni Usa da esso prefigurato, è fermo da oltre 5 mesi ma, dicono i negoziatori “basterebbe un po’ di volontà politica per portarlo a compimento”[v].
Il CETA, invece, sarà sottoposto al voto del Parlamento europeo a metà febbraio, se non interverranno ostacoli. Mentre Germania, Francia, Austria e persino piccoli stati federali come la belga Vallonia hanno sollevato criticità rispetto ai due trattati, il Governo Renzi ne è stato fiero campione[vi]: “L'Italia è stato l'unico Paese che ha inviato una lettera alla Commissione europea autorizzandola a considerare il CETA una competenza esclusivamente europea”, ha spiegato il ministro competente Carlo Calenda chiedendo a Malmstrom di tagliare fuori il suo Paese e gli altri 26 dal processo di ratifica[vii] del trattato per accelerarne l’iter[viii]. E’ difficile spiegarsi il perché.
TTIP e CETA sono fondati essenzialmente sugli stessi tre pilastri: un primo nucleo di regole per facilitare l’accesso al mercato con l’abbattimento di dazi e tariffe e a nuove regole per l’accesso ai servizi e agli appalti pubblici della controparte. Un secondo nucleo di regole si concentra sulla cooperazione normativa tra le sue parti, affrontando gli ostacoli tecnici agli scambi, la sicurezza alimentare e la salute degli animali e delle piante, le regole riguardanti gli specifici settori produttivi. Il tutto da armonizzare in appositi comitati bilaterali fuori dal controllo parlamentare, per rendere il commercio più facile, non il cittadino più tranquillo. C’è poi un terzo nucleo normativo che si concentra su specifici ambiti come sviluppo sostenibile, energia e materie prime, proprietà intellettuale e indicazioni geografiche, concorrenza, protezione degli investimenti, piccole e medie imprese.
Se entrasse in vigore solo il primo pilastro in CETA e TTIP, i due trattati raggiungerebbero appena 1/3 delle proprie potenzialità. E’ con l’avvicinamento delle regole tra le due sponde dell’Atlantico, sia con il CETA sia con il TTIP, che si raggiungono i cosiddetti “migliori” risultati commerciali. Usiamo le virgolette perché per il TTIP, infatti, parliamo di un modesto incremento del PIL inferiore allo 0,5% in USA e UE entro i primi 13 anni di applicazione del trattato, a fronte di un incremento delle esportazioni dell’UE verso gli USA del 60% circa e di quelle degli USA verso l’UE di oltre l’80%[ix]. Con il CETA si parla di un piccolo aumento di PIL per l’Europa in dieci anni tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%, a fronte di un aumento delle esportazioni rispettivamente del 24.2% e del 20.4% [x].
Se si applicano alle analisi, però, i modelli econometrici usati dalle Nazioni Unite al posto di quelli della Banca Mondiale, e si prendono dunque in considerazione più variabili oltre al saldo netto commerciale, scopriamo questi flussi commerciali aggiuntivi in arrivo da oltreoceano andrebbero a sostituire quote dal 30 al 70% di interscambio tra Paesi dell’Unione (fenomeno noto come Trade diversion), e gli scarsi guadagni previsti si tradurrebbero in danni certi. Per il TTIP si arriva a quantificare, sempre in 13 anni, una perdita di reddito da lavoro tra i 165 e i 5mila euro per ciascun lavoratore europeo a seconda del Paese e una moria di circa 600mila posti di lavoro, la maggior parte tra Germania, Francia e Italia.
Il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia[xi]. Con il CETA entro il 2023 il governo canadese perderà lo 0,12% delle sue entrate da tasse commerciali, mentre in Europa si registrerà una perdita media di entrate dello -0,16% per cui si arriveranno a tagli nella spesa pubblica fino allo -0.20% in Canada e allo -0.08% in UE che si proietteranno in maggiori perdite nei Paesi europei con i settori pubblici più consistenti come Francia (-0,20%) e Italia (-0.20%)[xii].
Chi negozia e chi controlla
Tutti i dubbi espressi emergono da valutazioni indipendenti. Anche se l’Europa prevede che per ogni accordo vengano realizzate analisi ex ante anche sul piano della sostenibilità, i negoziati sono condotti senza che nessuno se non i negoziatori– e quindi per l’UE la Commissione e i suoi esperti - possano accedere agli annessi dove sono indicati i livelli numerici delle armonizzazioni e degli abbattimenti.
Una corretta quantificazione, così, si può effettuare solo una volta che le due parti abbiano concluso il negoziato che è sottoposto a riservatezza come prevede il Trattato di Lisbona [xiii]. Esse, dunque, sono più accurate per il CETA, che è stato concluso e legalmente riordinato, meno per il TTIP i cui allegati tecnici sono stati messi a disposizione solo degli analisti indipendenti dai leakage (sottrazione e pubblicazione non autorizzata di testi rocambolescamente recuperati) condotti sotto la propria responsabilità legale da organizzazioni internazionali come Wikileaks, Greenpeace o le campagne StopTTIP dei Paesi europei tra cui l’Italia[xiv].
Sul sito della Commissione europea, infatti, dal 2014, pur dopo un richiamo formale a una maggiore trasparenza mosso dall’Ombudsman europeo[xv] su ricorso di un gruppo di Ong europee, sono disponibili una decina di proposte europee di testo del TTIP e molta propaganda. I parlamentari europei, dopo quell’autorevole intervento, possono consultare il TTIP, senza allegati, per un turno di un’ora circa, in apposite stanze dove accedono dopo perquisizione e vengono controllati a vista perché non prendano altro che appunti personali su carta e senza citazioni letterali del testo, disponibile nella sola lingua inglese[xvi]. Lo stesso i parlamentari nazionali, e solo dal 2016[xvii].
Il CETA, invece, i parlamentari europei, che devono votarlo, e quelli nazionali, che dovranno ratificarlo, non l’hanno letto prima della conclusione del negoziato. La ministro al Commercio canadese ha ammesso in un recente incontro a Bratislava di non averlo mai letto, e di “fidarsi dei suoi esperti”. Ne aveva un’idea in itinere, oltre ai lobbisti di mestiere, solo un pugno di esperti di Ong e sindacati (tra cui chi scrive) che lavorava grazie a “copie abusive”, perché l’intervento dell’Ombudsman è arrivato quando ormai il suo iter era quasi concluso, forse anche grazie a tanta riservatezza.
Il CETA, pericoloso sconosciuto
Nel CETA si ritrovano tutte le caratteristiche che hanno generato tanta preoccupazione intorno al TTIP. Il CETA, ad esempio, crea l’Investment Court System (ICS): un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati canadesi e l’UE dinnanzi a un tribunale arbitrale qualora una legge o regola introdotta o vigente danneggiasse i propri interessi. L’ICS sostituisce nominalmente il controverso meccanismo Investor to State Dispute Settlement (ISDS) presente nel TTIP, ma ne mantiene inalterati tutti gli aspetti controversi, contrariamente a quanto richiesto dal Parlamento europeo nella risoluzione del luglio 2015[xviii].
I membri delle corti ICS, poi, sono avvocati commerciali cui è concesso di svolgere attività libero professionale, con rischi di conflitti di interesse. II diritto di legiferare degli Stati non è adeguatamente protetto, perché nelle cause ICS viene tenuta in considerazione solo la lettera del CETA, e non la giurisprudenza dei singoli Stati o dell’Unione. L’Europa, ad esempio, nel 1997 in piena allerta mucca pazza bloccò l’importazione di carne contenente ormoni appellandosi al principio di precauzione, uno dei principi distintivi dell’UE[xix].
Nominalmente anche il Canada rispetta il principio di precauzione [xx]., ma insieme agli Usa si appellò contro il bando presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO (DSB), e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.[xxi]
Molte corporation americane, tra le quali Walmart, Chevron, Coca Cola e ConAgra, hanno controllate canadesi, e il CETA potrebbe permettere loro di operare nei mercati europei in condizioni di favore e di utilizzare l’ICS anche senza TTIP. Con la cooperazione normativa in vigore, poi, l’UE dovrà consultare il Canada prima di introdurre nuove leggi o regolamenti, e prima che tutti gli altri portatori di interessi si esprimano. Per questo oltre 100 esperti giuristi di tutta Europa hanno chiesto alla Commissione di fermare i negoziati e di aprire un confronto più serio e sull’impatto democratico di CETA e TTIP: «chiediamo con forza di non indebolire ne’ minare lo stato di diritto e i principi democratici sui quali i nostri Stati Membri e l'Unione Europea sono stati fondati – scrivono - fornendo agli investitori esteri un sistema giudiziario e legale parallelo non necessario, sistemicamente sbilanciato e strutturalmente inadeguato».[xxii]
A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta[xxiii] nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli[xxiv], uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester[xxv] dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che «chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge» perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.
L'attacco al Mediterraneo e il Governo Italiano
Quello che ha colpito del Governo Renzi (Gentiloni ancora non si è espresso nel merito) e della parte del Parlamento europeo che ne segue le orme da Bruxelles, è che il loro tifo pro TTIP e CETA ne autolimita la capacità politica. Un pugno di parlamentari europei del Belpaese, infatti, si è unito con una propria lettera alla richiesta del ministro Calenda di tagliare fuori i parlamenti nazionali dal processo di ratifica del trattato[xxvi], nonostante contro questa scelta si sia giù espressa la Commissione[xxvii], ma anche il nostro Parlamento, a partire dalla sua presidenza[xxviii], addirittura ospitando un importante incontro alla Camera dei deputati in cui parlamentari di tutti i gruppi politici, e lo stesso ministro Calenda, hanno ascoltato i fondati motivi di preoccupazione di numerose realtà da Coldiretti a Greenpeace, dalla Cgil alle Acli, a Slow Food, Legambiente, Arci, Attac.
Lo stesso Governo che fa la voce grossa con l’Europa per la sua miopia sulle migrazioni, e giustamente critica Trump per le sue politiche razziste, ignora un dato importante: i maggiori flussi commerciali provenienti da oltreoceano taglieranno di netto import ed export tra Europa, in primis l’Italia, e la sponda Sud del Mediterraneo.
L’ultimo Rapporto ICE 2016 spiega che già oggi le esportazioni italiane sono cresciute verso gli USA almeno in volume se non in valore, perché ci siamo avvantaggiati del cambio più favorevole. Si è ridotta però la presenza italiana in Africa: in rapporto alle esportazioni dell’area dell’euro, la quota italiana nell’Africa settentrionale è scesa nel 2015 sotto la soglia del 20 per cento, per la prima volta nell’ultimo decennio[xxix]. SACE, la società che assicura le nostre esportazioni all’estero, identifica il Nord Africa e l’Europa, il nostro mercato interno come spazi più strategici per l’Italia di Usa e Canada, soprattutto per l’agroalimentare[xxx].
UNCTAD, inoltre, avverte che l’area nordafricana è colpita da una “deindustrializzazione prematura” causata da “aperture dei mercati unilaterali” quindi dal trentennio di liberalizzazioni subite a partire dagli anni Ottanta dalle politiche economiche e commerciali imposte dalla Banca Mondiale ma anche da partner commerciali come l’Europa, che hanno «ridotto la capacità degli Stati di orientare gli investimenti e pianificare», trasformando la disoccupazione da ciclica a cronica[xxxi].
In queste aree, da cui gli orribilmente stigmatizzati “migranti economici” scappano per l’impossibilità di trovare un futuro, il TTIP porterebbe, stando alle analisi condotte dalla Fondazione Bertelsmann favorevole all’accordo, a una riduzione dei già magri redditi pro-capite nell’area dal 2 fino a più del 5%[xxxii].
Il CETA, stando invece alla Tufts University[xxxiii], spazzerà via almeno 80 mila posti di lavoro a ridosso della sua entrata in vigore nelle aree extra accordo, a partire proprio dal Mediterraneo. Spingere per l’approvazione di questi trattati da parte dell’Italia è come accenderci una miccia sotto ai piedi e chiederci di essere ringraziato per il buon affare che pure un paio di nostre grandi imprese avranno fatto nel vendergli l’ordigno.
Buon compleanno Europa
La comunicazione della Commissione Europea del 14 ottobre 2015 “Commercio per tutti – Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” è il documento strategico su cui si basa la strategia commerciale dell’UE. Pur sostenendo operazioni come TTIP e CETA, si ammette la necessità di implementare una politica commerciale più attenta ai temi della trasparenza e della sostenibilità.[xxxiv]
Il Parlamento UE, con la Relazione(2015/2105(INI) relatrice l’italiana Tiziana Begin, ha chiesto al Consiglio europeo, cioè a tutti i nostri Governi, di rendere pubblici i mandati negoziali di tutti i trattati. E ancora, con la Relazione sulle norme sociali e ambientali, i diritti umani e la responsabilità delle imprese (2015/2038(INI) di cui è stata relatrice un’altra italiana, Eleonora Forenza, il Parlamento europeo ha anche chiesto alla Commissione di effettuare valutazioni ex ante ed ex post dell'impatto di tutti gli accordi commerciali sulla sostenibilità e sui diritti umani.
Il 60esimo compleanno dei Trattati di Roma che hanno istituito la Comunità economica europea, che cadrà il 25 marzo prossimo e verrà celebrato a Roma con tutti gli onori, offre l’occasione migliore per ripensare le relazioni economiche e commerciali dentro e fuori l’Europa, e sarebbe auspicabile farlo nel modo più ampio, più rigoroso ma capace di visione che fosse possibile. A Bruxelles come a Roma mancano ad oggi, da quanto si è visto, esecutivi capaci di farlo da soli.
*giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch, Osservatorio italiano su Clima e commercio
NOTE
[i] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-trump-canada-us-relations-1.3843142
[ii] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-cabinet-keystone-xl-1.3949754
[iii] http://www.dw.com/en/german-judges-slap-ttip-down/a-19027665
[iv] La lista di qui https://stop-ttip-italia.net/zone-no-ttip/
[v] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2017/january/tradoc_155242.pdf
[vi] http://www.eunews.it/2014/10/14/renzi-il-ttip-ha-lappoggio-totale-e-incondizionato-del-governo-italiano/23167
[vii] La lettera originale pubblicata da Stop TTIP Italia https://stop-ttip-italia.net/2016/06/18/esclusivo-stopttip-italia-pubblica-la-lettera-di-calenda-su-ceta/
[viii] http:/www.politico.eu/article/eu-faces-last-chance-to-save-canada-trade-deal
[ix] http://ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/14-03CapaldoTTIP.pdf, p. 8
[x] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 23
[xi] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 27
[xii] Ibidem p. 25
[xiii] Una critica del 2010 a questa impostazione http://europaduepuntozero.blogspot.it/2010/05/leuropa-ed-il-commercio-internazionale.html
[xiv] https://stop-ttip-italia.net/documenti/
[xv] http://www.ombudsman.europa.eu/it/cases/summary.faces/it/58670/html.bookmark
[xvi] Il racconto di Tiziana Begin http://www.repubblica.it/economia/2015/10/19/news/ttip_tiziana_beghin-125417169/
[xvii] Il racconto di Giulio Marcon (Si) https://www.commo.org/post/70181/ttip-marcon-si-nella-sala-lettura-del-trattato-unora-per-800-pagine-non-e-vera-trasparenza/
[xviii] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2015-0252+0+DOC+XML+V0//IT
[xix] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al32042
[xx] Health Canada, “Decision-Making Framework for Identifying, Assessing and Managing Health Risks—1 August 2000.”
[xxi] WTO, 2009, European Comminutes—Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), https://www.wto.org/english/tratop_e/dispu_e/cases_e/ds26_e.htm
[xxii] https://stop-ttip.org/wp-content/uploads/2016/10/Legal-Statement_IT.pdf
[xxiii] https://correctiv.org/recherchen/ttip/blog/2016/10/17/alles-bleibt-angeblich-gleich-trotz-ceta/
[xxiv] Una collezione di pareri in questo articolo https://corporateeurope.org/international-trade/2016/10/great-ceta-swindle?page=0%2C1
[xxv] https://twitter.com/snlester/status/784013175742136320?lang=de
[xxvi] https://stop-ttip-italia.net/2016/10/15/quando-un-europarlamentare-chiede-di-esautorare-un-parlamento-nazionale/
[xxvii] europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2371_it.pdf
[xxviii] http://www.ilvelino.it/it/article/2016/07/05/ttip-boldrini-ce-bisogno-di-riflettere-sia-rimodulato-su-principi-equi/320e44b6-9c6d-4858-89cb-854eb08108f8/
[xxix] Ice p. 123
[xxx] SACE, Rapporto Restart 2015-2018, Figura 4, in http://www.sace.it/docs/default-source/ufficio-studi/pubblicazioni/restart---rapporto-export-2015.pdf?sfvrsn=2
[xxxi] http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/tdr2016_en.pdf p. IX
[xxxii] Bertelsmann foundation in EP: «The TTIP’s potential impact on developing countries» DG EXPO/B/PolDep/Note/2015_84 http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2015/549035/EXPO_IDA(2015)549035_EN.pdf
[xxxiii] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 28
[xxxiv] Trade for all: Towards a more responsible trade and investment policy.
Il testo integrale della comunicazione è consultabile in diverse lingue sul sito della Commissione Europea al seguente indirizzo: http://trade.ec.europa.eu/doclib/cfm/doclib_results.cfm?docid=153846
la Repubblica, 1° febbraio 2017, con postilla
Tuttavia si rischia di non capire ciò che accadrà, ciò che può accadere, se si guarda soltanto alla parte visibile del fenomeno Trump, e non si comprende che il presidente americano non è un fenomeno da baraccone.
È precisamente il capofila di una nuova cultura - per quanto il termine possa sembrare sproporzionato - che va studiata con attenzione, perché qui si fonda non soltanto la nuova politica americana, ma addirittura un tentativo di nuovo ordine mondiale. Di questo si tratta: chiamiamola pure contro-cultura, perché nasce nella rabbia e nell’opposizione, senza modelli positivi e senza antecedenti significativi, come frutto dello spaesamento democratico che il riflusso della crisi lascia sul territorio devastato della nostra parte di mondo, la parte dello sviluppo, del progresso, dell’innovazione, del potere tecnologico, delle libertà politiche e individuali. È quanto noi credevamo. Poi arriva questo Sessantotto alla rovescia che butta per aria la gerarchia dei valori, grida che le élite si sono confiscate sviluppo e progresso a loro uso e consumo, mentre le libertà politiche senza una vera rappresentanza valgono meno di nulla, anzi sono un inganno, e le libertà civili vengono dopo la forza, la sicurezza, la ricchezza.
Ricordiamoci la data, e il passaggio storico: perché è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi - il comunismo e il nazismo - e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall’incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica.
È esattamente tutto questo - una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi - che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo che ha appena riunito a Coblenza la nuova Internazionale della destra, coi cinque partiti populisti di Frauke Petry in Germania, di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Geert Wilders in Olanda, di Harald Vilimsky in Austria, cui si deve sommare l’Europa di mezzo guidata da Orbán, che teorizza il ritorno orgoglioso a un continente fatto di nazioni, con il “fallimento del liberalismo” come leit-motiv da cui nasce la tentazione di demolire la separazione dei poteri. Se si aggiungono le tentazioni protezionistiche della Brexit inglese, l’ambiguità mimetica del Movimento 5 Stelle in Italia — che nel giro di 24 ore può far capriole da Farage ai liberali e ritorno — si capisce che il contagio è profondo ed egemone, tanto da suonare l’ultima campana d’allarme, a cui nessuno di noi era preparato: il pensiero politico liberale sta diventando minoranza.
Tutto questo ha delle spiegazioni pratiche concrete. Tra tutte, lo scollamento tra libertà e sicurezza dal lato dei cittadini, tra sicurezza e governo dal lato delle istituzioni. Le tre emergenze concentriche di cui soffrono i nostri Paesi - ondata migratoria senza precedenti, terrorismo islamista che ci trasforma in bersagli rituali sul nostro territorio, crisi economico-finanziaria che lascia dietro di sé una crisi drammatica del lavoro - hanno un risultato comune nel riflesso congiunto di insicurezza per il cittadino, che si sente esposto come mai in precedenza, davanti a eventi fuori controllo e senza governo. Abituato a pretendere tutela, protezione, rispetto dei diritti e sicurezza dallo Stato nazionale in cui vive, dai parlamenti che vota, dai governi che concorre a nominare, quel cittadino capisce improvvisamente che le emergenze sfondano la sovranità nazionale, la sopravanzano e la svuotano, vanificandola. Ma se un governo nazionale non garantisce sicurezza, non serve a nulla, diventa un’entità burocratica. Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l’impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com’è avvenuto altre volte in passato, dovunque. La novità è che oggi nessuno è interessato a comprare la sua libertà, che deperisce da sola, e in ogni caso lo Stato non è più in grado di garantire nulla in cambio: mentre il nuovo potere sovranazionale che vive nei flussi finanziari e nei flussi d’informazione fa il fixing altrove.
Con la cittadinanza, salta la soggettività politica: io non sono più niente, soprattutto in un’epoca in cui i partiti si riducono a semplici comitati elettorali e non trasformano i miei problemi in un problema comune. Anzi: quelle che erano grandi questioni collettive stanno diventando preoccupazioni individuali, insormontabili. Così salta la rappresentanza, deperisce la politica. Quel cittadino non si sente soltanto in minoranza, come spesso è accaduto in precedenza. Si considera escluso. Il meccanismo democratico non funziona per lui. Le istituzioni non lo tutelano. La politica lo ignora, salvo usarlo come numero primo e anonimo nei sondaggi. La Costituzione vale solo per i garantiti. La democrazia si ferma prima di arrivare a lui, perché la materialità della democrazia è fatta di lavoro, dignità, crescita, esercizio di diritti e doveri che nascono da un sistema aperto e partecipato, dall’inclusione. Alla fine, anche la libertà è condizionata.
Nel 2017 arriva qualcuno, con una tribuna universale com’è l’America, che chiama tutto questo “popolo”, evoca il “forgotten man”, lo contrappone all’establishment, racconta la favola del golpe permanente che ha confiscato la democrazia per trarne un vantaggio privato, derubando i cittadini. Eccita la contrapposizione («loro festeggiavano, il popolo pativa»), evoca lo spirito di minoranza («le loro vittorie non sono state le vostre»), configura un’usurpazione («un piccolo gruppo ha incassato tutti i benefici, il popolo pagava i costi»), denuncia l’esclusione («Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro Paese»), fino alla promessa finale: da oggi un movimento «di portata storica» scuoterà il mondo, «portando il popolo a ritornare sovrano ».
Un discorso identitario — l’identità degli arrabbiati che devono rimanere tali — , quasi un’impostura di classe, che si basa su finte promesse frutto di una semplificazione del mondo che reintroduce sotto forme moderne l’ideologia: una falsa credenza che si sovrappone alla verità e la deforma in un racconto di comodo, utile a raccogliere adesioni sentimentali e istintive, cancellando bugie, falsificazioni e contraddizioni evidenti, come quella del miliardario campione degli esclusi. Tutto questo rompendo la corazza del politicamente corretto e dei suoi eccessi ma rovesciandolo nel suo contrario, liberando la scorrettezza come forma di libertà, la menzogna come arma legittima, l’ignoranza come garanzia di innocenza.
Questa rottura, come dice Karl Rove, il consigliere di George W. Bush, ha bisogno di stravolgere lo stesso partito repubblicano, annullare persino l’eredità reaganiana dei Baker, Shultz, Weinberger, fare tabula rasa addirittura del pensiero conservatore così come lo abbiamo conosciuto, e del compromesso di un linguaggio comune istituzionale, di un vocabolario costituzionale condiviso. Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all’isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest’avventura. E l’Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere. Qualcuno in Europa - magari a sinistra, se la sinistra alzasse gli occhi sul mondo - dovrebbe dire che tutto questo non è a disposizione di Trump.
postilla
È un po' irritante sentir parlare di Occidente (e quindi come alternative di Oriente) come di due poli della frattura geopolitica, e adoperare il primo termine come somma di tutti i "valori positivi". Più proprio sarebbe parlare dell'area Nordatlantica, identificando in tal modo le regioni europea e nordamericano-canadese, la cui economia (capitalistica) e politica (anticomunista) hanno costituito il polo vincente fin verso la fine del Secondo millennio. È quello il mondo che si sta disfacendo, non un altro. Rispetto a quel mondo il diavolo Trump ci porta indietro, e non avanti. Su questo punto Enzo Mauro ha certamente tutte le ragioni.
C'è un altro punto però. Mauro non sembra comprendere il dramma, e forse la tragedia, del nostro secolo che quel mondo che Trump ha spazzato via, nel concludere la sua dissoluzione, ha compiuto un errore capitale, che statisti del secolo scorso probabilmente non avrebbero compiuto (pensiamo a Franklin Delano Roosvelt, ma anche a Winston Churchill). L'errore è stato non comprendere che l'unico candidato capace di incanalare una parte consistente della rabbia provocata dal mondo impersonato da Obama e Clinton era rappresentato un uomo (e una proposta politica), di sinistra. Il nome (Bernie Sanders) c'era, fu scartato, e vinse Trump. È da una riflessione su questo che bisogna partire se si vuole evitare che, con Trump, si passi dal dramma alla tragedia. Rendendosi conto che una sinistra che voglia affrontare i problemi di oggi certamente non può riferirsi ai "valori dell'Occidente", come lo vedono Hillary Clinton, Barack Obama, ed Enzo Mauro. (e.s.)
L'Espresso online, 31 gennaio 2017 (p.s.)
Non c’è solo l’Italia delle barricate. C’è anche un’Italia di persone che si autotassano per ospitare una famiglia di profughi. Succede a Coriano, un comune di poco più di 10mila anime in provincia di Rimini, dove cento famiglie hanno deciso di versare quindici euro al mese, per un anno, per ospitare una coppia di siriani con tre bambini. Sono atterrati ieri a Fiumicino, facevano parte dei quaranta profughi arrivati con il corridoio umanitario, e ieri sera sono arrivati a Coriano. La loro nuova casa è in fase di preparazione, questione di qualche giorno. L’accoglienza che hanno ricevuto è quella riservata agli ospiti più desiderati.
Hanno potuto trascorrere forse la prima notte serena dopo tre anni di incubi. L’uomo ha passato un anno in un carcere del regime siriano, dove è stato torturato e seviziato, dopo che gli sono state uccise la moglie e la sorella. E’ riuscito a liberarsi pagando una cauzione da tremila euro e a raggiungere quindi il campo profughi al confine con il Libano, dove ha conosciuto la nuova compagna. Qui sono stati avviati i primi contatti con la Comunità Papa Giovanni XXIII che si è impegnata per portarli fuori da quell’inferno. In particolare a farsi avanti è stata una coppia, Massimiliano Zannoni e Gilda Pratelli, dopo il ritorno dal campo profughi libanese. Hanno raccontato quanto visto ai concittadini convincendoli quindi in questa insolita gara di solidarietà. Partendo da sindaco e parroco. Servivano almeno 18mila euro per garantire il viaggio e il nuovo alloggio: quindici euro a famiglia.
«All’inizio non è stato per nulla facile, non ci seguiva praticamente nessuno», racconta Massimiliano Zannoni. «Più le persone si rendevano conto dell’importanza dell’obiettivo e della concretezza di questo sostegno più si facevano avanti. Siamo quindi riusciti a mettere insieme un centinaio di famiglie praticamente contattandole una a una. E’ stata un’operazione fatta da cittadini con i cittadini».
A chi li critica perché “con quei soldi si poteva aiutare una famiglia italiana”, Zannoni risponde deciso: «Io aiuto chi mi trovo davanti, a prescindere da chi sia, che religione segua o a quale nazione appartenga. Inoltre chiedo a queste persone che si lamentano che cosa fanno loro per i bisognosi, italiani o stranieri che siano?». Accogliere ieri quella famiglia è stata già una enorme ricompensa a tutti gli sforzi fatti. «Non trovo le parole per descrivere quel momento. Per loro è cominciata una nuova vita che non speravano più di poter vivere. Ed è anche per noi è stata una forte emozione».
«E’ nato tutto dai racconti di alcuni ragazzi che, nell’ambito dell’operazione Colomba, avevano visitato negli anni scorsi alcuni campi profughi in Libano», spiegano dalla Comunità Papa Giovanni. «Massimiliano e Gilda hanno voluto fare la propria parte in modo diretto per aiutare queste persone che sono tra l’altro quelle più povere perché non possono permettersi nemmeno quei viaggi della speranza che spesso conducono alla morte in mare. Ovviamente questa famiglia non sarà solo ospitata ma lavoreremo per una sua piena integrazione nella città».
a Repubblica) e un articolo di Anna Maria Merlo (il manifesto), 31 gennaio 2016
la Repubblica
"LAVORO ED ECOLOGIA
CON HAMON VINCE UNA NUOVA SINISTRA
Anais Ginori intervista Marc Lazar.
«Per il politologo le primarie socialiste sanciscono la sconfitta delle politiche di Hollande: e il successo di un partito più attento alle idee»
Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla Luiss di Roma, con la vittoria di Benoît Hamon la gauche abbandona il realismo e sceglie l’utopia?
«Il voto delle primarie è soprattutto contro François Hollande e i suoi governi. Una parte della sinistra si è mobilitata per esprimere chiaramente il rigetto di quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni. Poi la forza di Hamon è aver saputo offrire una narrazione nuova, spostando il partito a sinistra. Il concetto di utopia in questo caso è da maneggiare con cura».
Perché?
«Hamon non rappresenta una sinistra movimentista, solo di protesta e di opposizione. Lui vuole il potere. Le sue proposte sono discutibili, si può essere perplessi sulla fattibilità di alcune misure, ma sono lo specchio di una nuova visione del mondo, del lavoro, dell’ecologia».
L’idea di versare a tutti un reddito universale, che costerebbe allo Stato centinaia di miliardi di euro, non denota un’assenza di realismo?
«Ci sono riflessioni di filosofi su questa misura, che affascina in modo trasversale, e nasconde un dibattito serio su quale sarà il futuro del lavoro. Sicuramente nell’immediato è un’illusione. Se per caso vincesse, ipotesi improbabile, Hamon avrebbe difficoltà a versare il reddito universale e potrebbe deludere i suoi elettori. Ma bisogna guardare la proposta da un altro punto di vista».
Quale?
«E’ un risposta, magari sbagliata, a una domanda giusta, che esiste soprattutto tra i giovani. Ovvero immaginare la trasformazione del mondo e colmare quel vuoto di speranza, ideali, che ha portato all’attuale crisi della sinistra non solo in Francia. Hamon è il sintomo di radicalizzazione della sinistra sia all’interno di alcuni partiti, com’è accaduto nel Labour con Jeremy Corbyn, sia fuori, con la nascita di forze nuove come Syriza, Podemos».
Una sorta di rivincita sul riformismo di esponenti come Manuel Valls o Matteo Renzi?
«Nella loro lunga storia i riformisti o socialdemocratici hanno sempre sofferto di un deficit di credibilità sull’economia. La destra li ha sempre descritti come capaci solo di “tax and spend”, tassare e spendere soldi pubblici. I riformisti hanno dimostrato in Francia o in Italia di poter invece amministrare, governare. Ma per un certo elettorato di sinistra non è sufficiente. E probabilmente c’è anche una questione di metodo: sia a Valls che a Renzi è mancata l’arte del compromesso e una certa pedagogia nello spiegare le riforme».
Perché la svolta all’estrema sinistra del Ps non ha beneficiato Arnaud Montebourg?
«Montebourg ha una visione economica molto protezionista, mentre Hamon è aperto al mondo, unisce l’aspetto sociale a quello ecologico. La mancanza di notorietà del prescelto è un vantaggio: è apparso come un nome nuovo».
Hamon sarà sostenuto da Valls e dagli altri socialisti?
«Valls l’ha promesso ma penso che, in pratica, sarà fatto con poca convinzione, come accadde nel 2007 quando Ségolène Royal non venne appoggiata dall’apparato. L’ala destra del partito socialista si asterrà o farà poco. Il problema di Hamon è anche aprire un dialogo con i candidati fuori dal partito, come Mélenchon o Jadot (esponente dei Verdi, ndr.). E’ stato abile, già ieri ha lanciato un appello all’unità, in modo da farli sembrare settari».
Cosa succederà in caso di eliminazione di Hamon al primo turno?
«Dipende dalla percentuale che ottiene. Se ha un risultato dignitoso, strappando abbastanza voti a Mélenchon, come sembrano suggerire i primi sondaggi, allora potrà prendere il controllo del partito nell’autunno prossimo. Se invece finirà dietro a Mélenchon, allora Valls lancerà la battaglia per riconquistare la leadership».
E’ possibile la scomparsa del vecchio Ps?
«Non credo che possa sparire nel giro di qualche mese com’è accaduto al Partito socialista di Craxi. Nonostante la crisi, è una forza politica radicata nel Paese, negli enti locali, nell’amministrazione dello Stato. Di certo si è chiuso quello che noi chiamiamo il ‘ciclo di Epinay’ dal nome del congresso del 1971. E’ allora che François Mitterrand è riuscito a mettere insieme le diverse anime del socialismo. Una lunga storia terminata. Dopo le presidenziali, ci sarà un chiarimento: in un senso o nell’altro».
«Presidenziali. Dopo la vittoria alle primarie, il candidato socialista all'Eliseo incontra il primo ministro e cerca di unire. La strada è in salita. Macron attira l'ala destra del Ps. Uno spiraglio dal verde Jadot, chiusura da Mélenchon. Henri Weber: " È la quarta rifondazione della socialdemocrazia" (e si farà all'opposizione)»
Benoît Hamon, dopo aver vinto le primarie del Parti socialiste nel ballottaggio contro Manuel Valls (58,7% a 41,2%), in uno scrutinio che ha registrato una partecipazione in aumento (più di 2 milioni di votanti), ha subito iniziato la ricerca di un’intesa, sia nel Partito socialista che nell’area più allargata della sinistra. Sarà ricevuto in settimana dall’indifferente Hollande.
Ieri, il candidato del Ps alle presidenziali ha incontrato il primo ministro, Bernard Cazeneuve, che lo ha messo in guardia: «La sinistra non vincerà senza difendere il bilancio dei cinque anni della presidenza Hollande». Hamon si è dichiarato «soddisfatto» dell’incontro e ha assicurato che potrebbe «arricchire» il proprio programma con le «proposte» delle altre correnti del Ps, fermo restando il ritiro della Loi Travail. La strada non è facile. È stata la sinistra del Ps a vincere le primarie. A questi dissidenti il gruppo legato a Valls rimprovera la «fronda» contro Hollande, che ha finito per mettere fuori gioco per le prossime presidenziali prima il presidente in carica, poi lo stesso Valls e il partito. Già ieri, del resto, è iniziato un lento esodo di personalità dell’ala destra verso l’appoggio a Emmanuel Macron, candidato che per il momento non ha ancora presentato un programma politico preciso, ma che si dichiara «né di destra né di sinistra» e gioca la carta della gioventù (sua – ha 39 anni – e del suo elettorato, stando ai sondaggi).
Anche Hamon ha un elettorato giovane. Ha subito teso la mano alle altre due anime della sinistra, i Verdi e Jean-Luc Mélenchon. Europa Ecologia ha scelto, con le primarie, Yannick Jadot come candidato (estromettendo l’ex ministra Cécile Duflot, molto più conosciuta). Jadot, per il momento, mantiene la candidatura (ma ha difficoltà a raccogliere le 500 firme di politici eletti necessarie per potersi presentare). Ammette, però, «la bella campagna» di Hamon e mostra disponibilità, sempre che Hamon non si chiuda nei meandri del Ps. Molta meno disponibilità da parte di Jean-Luc Mélenchon, che considera possibile un’intesa solo alla condizione che sia lui a guidarla: Hamon preoccupa France Insoumise, un ultimo sondaggio dà Mélenchon sorpassato dal candidato Ps (ma tutti dietro Macron). Il Pcf, che ha scelto a fatica di schierarsi dietro Mélenchon rinunciando ad avere un proprio candidato, considera «una buona notizia» la vittoria di Hamon e si dice pronto a «discutere con tutta la sinistra anti-austerità».
Sulla sinistra e la vittoria di Hamon chiediamo un parere a Henri Weber, tra i fondatori della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr), con Alain Krivine e Daniel Bensaid, poi vicino a Laurent Fabius, che è stato senatore Ps e europarlamentare.
Benoît Hamon può cambiare la situazione a sinistra? Può rappresentare un rilancio della socialdemocrazia data per morta?
La socialdemocrazia sta vivendo una crisi internazionale. La Francia non è esclusa, tanto più che qui è stata al governo e questo costa molto caro nelle difficili condizioni di oggi. La socialdemocrazia, secondo me, non è in agonia, ma sta vivendo una crisi di rifondazione. È la quarta volta: era successo nel 1921, nel ’40 con la guerra, nel ’69, dove il Ps era crollato al 5% alle presidenziali, per poi rinascere nel ’71 a Epinay e aprire un ciclo ventennale di esercizio del potere. Una crisi di rifondazione deve portare a un rinnovamento totale, teorico, di programma, di organizzazione, delle pratiche militanti. Dare il Ps per morto è ormai un genere letterario in Francia, questa tesi ha riempito le biblioteche. Ma il Ps è comunque riuscito ad aprire i seggi per le primarie, con 60mila militanti impegnati, niente male per un cadavere».
Il primo ministro, Bernard Cazeneuve, ha suggerito a Hamon di cercare un’unità a sinistra. È una strada possibile?
Ricomporre le diverse anime della sinistra prenderà tempo e sarà fatto stando all’opposizione. Certo, non è escluso che Macron vinca: bisogna aver presente che non è la sinistra che può vincere, ma la destra che può perdere. Non si può imputare questa crisi a un uomo o a un partito, anche se hanno delle responsabilità, siamo di fronte a eco-sistema politico che è cambiato, che fa sì che tutti i partiti di governo siano in crisi, come era successo negli anni ’30 solo i demagoghi prosperano. Macron rappresenta un tentativo, si tratta di un partito-impresa, un’organizzazione che si propone come un’impresa di servizi, con un capo gerarchico – lui stesso – che alla fine sceglierà i 577 candidati per le legislative, che si sono presentati in seguito a un appello su Internet.
Hamon a chi si rivolge?
Hamon parla all’immaginario. Ha adottato il metodo del principio di piacere, non quello del principio di realtà, ma del resto il suo obiettivo è trovare una soluzione alla crisi del Ps e della sinistra, conquistare il partito non arrivare all’Eliseo. Propone temi piacevoli alle orecchie di sinistra, a un uditorio che vuole sbarazzarsi dalla fatica del potere. Salvo Macron, tutti considerano che l’elezione è persa e che bisogna approfittarne per ricomporre la sinistra. Ma ognuno vuole farlo a proprio vantaggio, Mélenchon, Macron, Hamon. Il reddito universale che propone è una bella idea, ma per ora resta un’utopia.
CONDIVIDI:
il manifesto, 31 gennaio 2017
Al quarto giorno dalla decisione di Donald Trump di mettere al bando rifugiati e cittadini di sette paesi musulmani l’Unione europea finalmente decide di reagire. Lo fa per rispondere alle accuse del presidente americano, che ha descritto quello europeo come un continente precipitato nel «caos» per non aver saputo difendere le proprie frontiere, ma anche per ribadire quei valori che sono stati la base fondativa dell’Unione.
L’Europa «non discrimina le persone sulla base della nazionalità, dell’etnia o della religione», commenta da Bruxelles la portavoce della Commissione europea, mentre da New York si fa sentire anche l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad al Husseini. Il bando è «illegale e meschino» dice, e «la discriminazione basata sulla nazionalità contraria ai diritti umani». Si unisce infine al coro di proteste anche l’Unione africana che definisce quella di Trump come «una della più gravi sfide nei confronti del continente africano».
Bruxelles è a dir poco preoccupata dal nuovo corso statunitense.
Dal giorno del suo insediamento Trump non ha certo fatto mistero di quanta poca considerazione abbia per l’Unione europea tanto da aver apprezzato pubblicamente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione.
«Per l’Europa Trump è una minaccia peggiore della Brexit», ha commentato ieri l’ex premier belga Guy Verhostad, presidente del gruppo Alde (liberali) al parlamento di Strasburgo. Pericoloso anche perché dal bando non sarebbero esclusi neanche i cittadini europei con doppia nazionalità.
«La situazione non è chiara», ha proseguito la portavoce della Commissione Ue. «Ci arrivano imput contrastanti e i nostri legali stanno lavorando. Ci accerteremo che non ci siano discriminazioni nei confronti dei nostri cittadini».
A quanto pare, però, ci sarebbe poco da capire.
Un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ieri ha informato di un tweet dell’ambasciata americana a Berlino in cui si chiede ai cittadini con doppia nazionalità di «non chiedere visti per gli Stati uniti». La misura riguarda decine di migliaia di cittadini tedeschi, come ha subito informato il governo secondo il quale ad essere colpiti dalla restrizione sarebbero 80 mila tedeschi di origine iraniana, oltre 30 mila di origine irachena e circa 25 mila provenienti dalla Siria. A questi vanno aggiunti poi mille sudanesi, 500 libici e 300 yemeniti. Numeri calcolati per difetto, visto che risalgono ai censimenti regionali del 2011.
L’indignazione per la porta sbattuta in faccia a rifugiati e musulmani da Trump cresce ovunque, ma non sembra coinvolge allo stesso modo anche tutti i governi. Così mentre in Gran Bretagna più di 1,4 milioni di persone firmano in due giorni una petizione in cui si chiede al parlamento di bloccare o almeno rinviare la visita di Stato già in programma del presidente Usa, Dowing Street preferisce smorzare i toni. «Noi non siamo d’accordo con queste restrizioni, non è il modo con cui agiremmo», dice un portavoce del governo escludendo però l’ipotesi di una marcia indietro sull’invito. Esclusione basata sia dall’assicurazione che avrebbe ricevuto Theresa May che i cittadini britannici con doppia nazionalità non saranno fermati alla frontiera Usa a meno che non volino in America direttamente da uno dei paesi indicati nella lista nera. Ma anche perché la stessa May sta bene attenta a garantirsi un alleato sicuro e di peso in vista della Brexit. E, d’altro canto, non può non colpire il silenzio dei paesi dell’est Europa di fonte alle misure adottate dal presidente americano.
Per quanto riguarda la Russia, poi, ieri un portavoce del presidente Putin (che il 2 febbraio sarà in visita a Budapest) ha liquidato le polemiche attorno al bando con un secco «ritengo che non sia un affare nostro».
la Repubblica, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)
Come si sa i quattro nonni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non erano nati in America, ma in Europa. Di conseguenza il fatto che fra i primi provvedimenti presi da un presidente nipote di immigrati ci sia proprio un blocco dell’immigrazione suona paradossale. Tanto più se questo avviene in un paese come gli Stati Uniti nel quale, come in questi giorni sempre più spesso si ripete, tutti gli abitanti sono in definitiva degli immigrati o discendenti di immigrati. I bostoniani, che vantano come antenati i protestanti inglesi guidati da John Winthrop, di per sé non sono diversi dai latinos appena approdati alle periferie di Los Angeles: vengono comunque tutti “da fuori”.
Chi è dunque il “vero” americano, quello dell’America first, che ha il diritto di vivere sicuro dentro i “suoi” confini? Difficile rispondere a questa domanda. Forse qualcuno potrebbe sostenere che i “veri” americani sono in realtà solo i nativi che i coloni europei sterminarono o chiusero nelle riserve. Se non fosse, però, che anche loro sono giunti là dove ora si trovano venendo ugualmente “da fuori”.
Apache e Navaho, per esempio, ossia le popolazioni che vivono nel sud ovest degli Stati Uniti, provengono in realtà dall’Alaska; e dopo un viaggio di qualche migliaio di chilometri si sono stanziati nei territori attuali più o meno nel periodo in cui Colombo sbarcava nel “nuovo” continente. Tutto questo per dire che la risposta alla domanda «chi è il vero x?» — quando a x si sostituisce un sostantivo come “americano”, “italiano”, “francese” … — può ricevere solo risposte di tipo cinico o opportunistico se si è in campagna elettorale; oppure risposte di tipo più meditatamente giuridico se il discorso riguarda non il problema dell’etnia, della cultura o della religione, ma quello della cittadinanza. Esiste però una terza possibilità: che a questa domanda si dia una risposta di tipo mitologico.
È quanto fecero gli ateniesi nel quinto secolo a. c., dando vita a quel mito che porta il nome di “autoctonia”: secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati direttamente generati dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa mitica razza vantava naturalmente anche i propri antenati: si trattava di re che avevano per metà corpo di serpente, cioè l’animale più ctonio, più terrestre che si conosca. I cittadini ateniesi del V secolo, insomma, si presentavano come i “veri” ateniesi per il semplice motivo che quella terra non era stata mai abitata da nessuno fino al momento in cui essa stessa, la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.
L’autoctonia ateniese era ovviamente una favola, non solo perché la terra non ha mai partorito nessuno, ma perché anche gli abitanti dell’Attica erano venuti “da fuori” in tempi più o meno recenti. Questo mito però venne abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora, soprattutto discorsi pubblici e immagini che circolavano dipinte sui vasi; e l’immagine degli ateniesi, che in quegli anni combattevano contro gli spartani, ne uscì rafforzata, dentro e fuori le mura della città.
Atteggiandosi a “nati dalla terra”, infatti, essi potevano accreditarsi come uomini di cui non era possibile mettere in discussione la eugéneia, la “buona nascita”, visto che non si erano mai mischiati con altri popoli; una stirpe che amava come nessun’altra la propria patria (come si potrebbe non amare la propria “madre”?) e che soprattutto aveva raggiunto la civiltà da sola e prima di tutti gli altri. Attraverso il mito dell’autoctonia gli ateniesi erano dunque riusciti a dare una risposta alla difficile domanda «chi è il vero x?». Nello stesso tempo, però, essi avevano risolto una volta per tutte anche il problema degli immigrati e della loro posizione nella città.
Vero ateniese, infatti, poteva essere considerato solo il figlio di genitori entrambi ateniesi, ossia chi per via di sangue discendesse da quella stessa terra su cui abitava. Di conseguenza costui era anche l’unico a poter usufruire della qualifica di cittadino e l’unico che aveva il diritto di sedere in assemblea: luogo magico della democrazia ateniese. Tutti gli altri, gli stranieri che pur vivevano o lavoravano in città, ne erano esclusi. Né avrebbero mai potuto aspirare a diventare cittadini di Atene — non erano mica “autoctoni”.
Mito per mito, però, ce n’è un altro che ha ugualmente cercato di rispondere alla domanda «chi è il vero x?»: ma che preferiamo di molto a quello escogitato dagli ateniesi. Ci viene da Roma. Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non solo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione; ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secondo il mito romano, dunque, la città di Roma era sorta su una terra non solo “mista” di molte altre terre, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città. Al contrario di Atene, insomma, a Roma non era stata la terra a partorire gli uomini, ma gli uomini a fabbricare la propria terra.
Alla domanda «chi è il vero romano», dunque, il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso. Penso che questo mito meriterebbe di essere diffuso e fatto conoscere con tutti i mezzi mediatici che oggi abbiamo a disposizione: soprattutto là dove assieme ai fili spinati si moltiplicano gli appelli alle radici e il discorso pubblico si articola ossessivamente attorno al pronome “noi”. Questo mito ci aiuterebbe perlomeno a pensare a siriani, iracheni, sudanesi o libici in fila di fronte al blocco degli immigration points: ciascuno con una zolla di terra nella valigia.
E’ stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. E’ questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei. Il fatto, poi, che governi di centro-sinistra o persino socialisti inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginare i loro guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica.
Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste. Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile. In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa.
Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nella status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. E’ in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno, avvertito come pericoloso. Un sentimento sul quale è facile far leva per le destre come per tutti i ceti dirigenti incapaci di autentica azione di governo e orientamento politico, ma solo di amministrazione dell’esistente al servizio degli interessi dominanti.
In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione. Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, “civiltà”. L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia. L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni.
Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria. La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e nel secondo dopoguerra, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno.
Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Significa cominciare a far valere una verità elementare. E cioè che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità.
millenniourbano,30 gennaio 2017 (c.m.c.)
Città Santuario è un nome dato ad alcune contee degli Stati Uniti che seguono determinate procedure di protezione degli immigrati privi dei documenti che consentono loro di soggiornare nella confederazione. Queste procedure, de jure o de facto, non consentono che fondi o risorse locali vengano utilizzati per l’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Le Città Santuario, la cui designazione non ha alcun significato giuridico, normalmente non consentono alla polizia o ai dipendenti comunali di acquisire informazioni sullo status dei residenti immigrati.
Mercoledì scorso, in uno dei due ordini esecutivi in materia di immigrazione, Donald Trump ha chiesto alle Città Santuario, tra le quali ci sono praticamente tutte le metropoli americane, di iniziare a collaborare con le autorità federali in merito ai dispositivi di legge sulla immigrazione per non perdere i fondi federali.
Nell’ordine il presidente fa riferimento a «danni incommensurabili al popolo americano e al tessuto stesso della nostra Repubblica» che sarebbero procurati dalle misure di mancata detenzione di individui sospetti privi di documenti. A contraddire però l’affermazione del neo presidente sulle minacce alla sicurezza nazionale, una nuova analisi pubblicata dal Center for American Progress e il National Immigration Law Center, mostra che le Città Santuario hanno tassi di crimine più bassi e un più alto livello di benessere economico.
Nel rapporto, Tom K. Wong , professore associato di scienze politiche presso l’Università della California di San Diego, ha analizzato – in un campione di 2.492 – quelle 602 contee nelle quali la polizia locale non ha accettato di attuare le politiche federali in materia di immigrazione. Queste ultime – soprattutto quelle che fanno parte di grande aree metropolitane – sono significativamente meno violente ed esposte al crimine, oltre a registrare anche migliori condizioni economiche. In media nelle contee che formano le Città Santuario i redditi medi sono più alti, la povertà è più bassa e i tassi di disoccupazione sono leggermente inferiori.
L’argomento a supporto di questi dati positivi è che le comunità sono più sicure quando le forze dell’ordine proteggono tutti i loro residenti, contribuendo ad esempio a tenere insieme le famiglie, invece di profondere i propri sforzi nell’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Se le famiglie e le comunità restano unite gli individui possono continuare a contribuire al rafforzamento delle economie locali, sembra essere la logica conclusione del ragionamento.
E’ difficile dire se le politiche di Trump potranno duramente colpire le Città Santuario, almeno in misura tale da rendere le loro politiche insostenibili. Ciò dipende da quanto le città saranno in grado di colmare con le proprie entrate alcune delle lacune create dalla perdita dei finanziamenti, e da quanta volontà politica sarà messa nel continuare ad opporsi alle leggi federali. Ciò dipende anche da quanto denaro Trump potrebbe in ultima analisi portare via alle città attraverso la necessaria ratifica da parte del Congresso del suo ordine esecutivo.
Le percentuali dei fondi federali sul budget di cinque metropoli come Los Angeles, San Francisco, Washington D.C., New York e Chicago è molto variabile: si va dal 29.4% di Washington D.C al 5,2% di San Francisco. In mezzo, in ordine decrescente ci sono Chicago (13,5%), New York (10,5%) e Los Angeles (6,25%). L’entità dell’effetto “pistola alla tempia” che potrebbe avere l’ordine esecutivo di Trump varia quindi di caso in caso, ma ciò che preoccupa maggiormente le amministrazioni delle Città Santuario è la perdita dei fondi a sostegno di iniziative di sviluppo economico e di contrasto della povertà.
Se i settori della popolazione urbana che beneficiano di questi finanziamenti vedranno nella ostinazione politica delle amministrazioni locali ad opporsi alle leggi federali la causa della perdita dei benefici finora ottenuti il risultato potrebbe essere l’innesco di una guerra tra poveri: da una parte coloro che dipendono dai finanziamenti pubblici, compresi quelli federali, e dall’altra coloro le cui condizioni di vita sono minacciate dall’odine esecutivo presidenziale.
Forse è proprio questo l’obiettivo di Trump, la cui avversione nei confronti delle grandi città che non l’hanno certo sostenuto elettoralmente è ben nota: fare in modo che la chiusura delle frontiere federali sia sostenuta dalla popolazione povera soprattutto urbana che dipende dai finanziamenti pubblici. Il ruolo dei sindaci nel fronteggiare questa sfida sarà quindi decisivo e a questo riguardo alcuni di loro, come il sindaco di Washington D.C. Muriel Bowser, hanno già annunciato che si opporranno alle politiche che «minacciano i valori in cui credono». Resta da vedere quanto Bowser e gli altri sindaci saranno in grado di tenere ferma loro posizione, data la miriade di ostacoli giuridici che Trump promette di mettere sulla strada delle amministrazioni delle città che si oppongono alle sue politiche.
N. Delgadillo, How Badly Could Trump Hurt Sanctuary Cities?, CityLab, 28 dicembre 2016.
T. Misra, Sanctuary Cities Are Safer and More Productive, CityLab, 26 gennaio 2017.
«». NYT, The opinion, 30 gennaio 2017 (m.c.g.)
We’re just over a week into the Trump-Putin regime, and it’s already getting hard to keep track of the disasters. Remember the president’s temper tantrum over his embarrassingly small inauguration crowd? It already seems like ancient history.
But I want to hold on, just for a minute, to the story that dominated the news on Thursday, before it was, er, trumped by the uproar over the refugee ban. As you may recall — or maybe you don’t, with the crazy coming so thick and fast — the White House first seemed to say that it would impose a 20 percent tariff on Mexico, but may have been talking about a tax plan, proposed by Republicans in the House, that would do no such thing; then said that it was just an idea; then dropped the subject, at least for now.
For sheer viciousness, loose talk about tariffs isn’t going to match slamming the door on refugees, on Holocaust Remembrance Day, no less. But the tariff tale nonetheless epitomizes the pattern we’re already seeing in this shambolic administration — a pattern of dysfunction, ignorance, incompetence, and betrayal of trust.
The story seems, like so much that’s happened lately, to have started with President Trump’s insecure ego: People were making fun of him because Mexico will not, as he promised during the campaign, pay for that useless wall along the border. So his spokesman, Sean Spicer, went out and declared that a border tax on Mexican products would, in fact, pay for the wall. So there!
«», New York Times, 29 gennaio 2017 (m.c.g.)
Nel 2016, durante il ritorno dal suo viaggio in Messico, riferendosi al progetto di erigere un muro sbandierato nel programma elettorale di Trump, Papa Francesco aveva definito l’allora candidato presidenziale ‘non cristiano’.
Dopo l’ordine esecutivo presidenziale emesso il 27 gennaio scorso (proprio nella giornata dedicata alla memoria delle vittime della Shoah!) che di fatto congela per 4 mesi l’arrivo negli USA di rifugiati provenienti da paesi di religione islamica e addirittura nega ogni possibilità di accoglienza ai rifugiati provenienti dalla Siria, mentre per quelli di fede cristiana si prefigura un percorso più agevole; e mentre continuano le manifestazioni di protesta nei maggiori aeroporti americani e si mobilitano gli avvocati delle associazioni per i diritti civili, anche le chiese si stanno organizzando per contrastare questa ennesima scelta iniqua.
L’editto presidenziale è oggetto di critiche perentorie da parte dell’Associazione Nazionale delle 1.200 chiese evangeliche, che hanno contestato il provvedimento definendolo “discriminatorio, fuorviante e disumano” e stanno organizzando una estesa raccolta di firme fra i fedeli. Anche la Chiesa Cattolica Romana, attraverso la United States Conference of Catholic Bishops, e la chiesa protestante hanno espresso dure critiche nei confronti di un provvedimento che toglie ogni speranza alle popolazioni in fuga da guerre e persecuzioni.
Soltanto i gruppi più estremisti e sedicenti cristiani, quelli che all’epoca di Obama avevano agitato la “teoria della cospirazione” denunciando una discriminazione dei rifugiati cristiani a favore dei musulmani da parte di ‘Obama il Musulmano’, inneggiano al provvedimento. L’articolo del NYT smentisce con i dati sull’accoglienza e le provenienze geografiche dei migranti questa ennesima campagna di odio che si aggiunge a quella contro le donne.
“Un giorno della vergogna” è stato definito dalle istituzioni religiose americane il venerdì 27 gennaio: quello dell’ennesima iniziativa inaccettabile di The Donald. (m.c.g.)
Christian Leaders Denounce Trump’s Plan to Favor Christian Refugees
Over the past decade, Christians in the United States have grown increasingly alarmed about the persecution of other Christians overseas, especially in the Middle East. With each priest kidnapped in Syria, each Christian family attacked in Iraq or each Coptic church bombed in Egypt, the clamor for action rose.
During the campaign, Donald J. Trump picked up on these fears, speaking frequently of Christians who were refused entry to the United States and beheaded by terrorists of the Islamic State: “If you’re a Christian, you have no chance,” he said in Ohio in November.
Now, President Trump has followed through on his campaign promise to rescue Christians who are suffering.
The executive order he signed on Friday gives preference to refugees who belong to a religious minority in their country, and have been persecuted for their religion.
The president detailed his intentions during an interview with the Christian Broadcasting Network on Friday, saying his administration is giving priority to Christians because they had suffered “more so” than others, “so we are going to help them.”
But if Mr. Trump had hoped for Christian leaders to break out in cheers, that is, for the most part, not what he has heard so far.
A broad array of clergy members has strongly denounced Mr. Trump’s order as discriminatory, misguided and inhumane. Outrage has also come from some of the evangelical, Roman Catholic and mainline Protestant leaders who represent the churches most active in trying to aid persecuted Christians.
By giving preference to Christians over Muslims, religious leaders have said the executive order pits one faith against another. By barring any refugees from entering the United States for nearly four months, it leaves people to suffer longer in camps, and prevents families from reuniting.
Also, many religious leaders have said that putting an indefinite freeze on refugees from Syria, and cutting the total number of refugees admitted this year by 60,000, shuts the door to those most in need.
“We believe in assisting all, regardless of their religious beliefs,” said Bishop Joe S. Vásquez, the chairman of the committee on migration for the United States Conference of Catholic Bishops.
Jen Smyers, the director of policy and advocacy for the immigration and refugee program of Church World Service, a ministry affiliated with dozens of Christian denominations, called Friday a “shameful day” in United States history.
It remains to be seen whether Mr. Trump’s executive order will find more support in the pews.
During the campaign, Mr. Trump successfully mined many voters’ concern about national security and fear of Muslims. He earned the votes of four out of every five white evangelical Christians, and a majority of white Catholics, exit polls showed.
In interviews on Sunday, churchgoers in several cities were sharply divided on the issue, including on whether Christian teachings supported giving priority to Christians.
“Love thy neighbor” was cited more than once, and by both sides: It was seen as both a commandment to embrace all peoples and to defend one’s actual neighbors from harm.
“You look at a city like Mosul, which is one of the oldest Christian populations in the world,” said Mark Tanner, 52, a worshiper at Buckhead Church, an evangelical church in Atlanta, referring to the besieged Iraqi city. “There’s a remnant there that want to stay there to be a Christian witness.”
“So yeah,” he continued. “We should reach out to everyone, but we have to be real about it and as far as who you let come into the country.”
Nmachi Abengowe, 62, a native of Nigeria who attends Oak Cliff Bible Fellowship in Dallas, cited Muslim-on-Christian violence in Africa in defending Mr. Trump’s preference for Christian refugees.
“They believe in jihad,” he said of Muslims. “They don’t have peace. Peace comes from Jesus Christ.”
That was not the view of Makeisha Robey, 39, who was at the Atlanta church. “I think that is just completely opposite what it means to be a Christian,” she said. “God’s love was not for you specifically. It’s actually for everyone, and it’s our job as Christians to kind of enforce that on this planet, to bring God’s love to everyone.”
John and Noreen Yarwood, who attended Mass at the Co-Cathedral of St. Joseph, a Catholic church in Brooklyn, said they feared that a policy of preference for Christians could in practice become a preference for certain denominations of Christianity over others.
“What does this administration mean by Christian?” Mr. Yarwood, 37, asked. He said that refugees are deserving of help and mercy “because of desperation and poverty,” not because of their religion.
“This is not grace,” he said of the president’s order. “It doesn’t follow Christian teachings.”
Christian leaders who defended Mr. Trump’s executive order were rare this weekend.
One of the few was the Rev. Franklin Graham, the son of the evangelist Billy Graham and the president of Samaritan’s Purse, an evangelical aid organization.
Mr. Graham has long denounced Islam as “evil,” and in July 2015 proposed a ban on Muslims entering the United States as a solution to domestic terrorism, months before Mr. Trump made his first call for the same.
In a statement on Saturday, Mr. Graham said of refugees, “We need to be sure their philosophies related to freedom and liberty are in line with ours.”
He added that those who followed Sharia law — a set of beliefs at the core of Islam — hold notions “ultimately incompatible with the Constitution of this nation.”
Jim Jacobson, the president of Christian Freedom International, which advocates for persecuted Christians, applauded the executive order and said, “The Trump administration has given hope to persecuted Christians that their cases will finally be considered.”
Among the claims Mr. Trump made at his campaign rallies was that the Obama administration had denied refugee status to Christians, and had given preference to Muslims.
“How unfair is that? How bad is that?” he told supporters at a rally in St. Clairsville, Ohio, interlaced with boasts about his “tremendous evangelical support.”
The contention was consistent with the conspiracy theories held by some conservative Christians that Mr. Obama was secretly a Muslim, and that he was turning a blind eye to the suffering of Christians while using the reins of government to increase the Muslim population of the United States.
But the claim is simply untrue. In 2016, the United States admitted almost as many Christian refugees (37,521) as Muslim refugees (38,901), according to the Pew Research Center.
While only about one percent of the refugees from Syria resettled in the United States last year were Christian, the population of that country is 93 percent Muslim and only 5 percent Christian, according to Pew.
And leaders of several refugee resettlement organizations said during interviews that it took 18 months to three years for most refugees to go through the vetting process to get into the United States.
Many Syrian Christians got into the pipeline more recently.
“We have no evidence that would support a belief that the Obama administration was discriminating against Christian populations,” said the Rev. Scott Arbeiter, the president of World Relief, the humanitarian arm of National Association of Evangelicals.
His organization has resettled thousands of Muslim refugees, with the help of a network of 1,200 evangelical churches.
Mr. Arbeiter said that World Relief is opposed to “any measure that would discriminate against the most vulnerable people in the world based on ethnicity, country of origin, religion, gender or gender identity. Our commitment is to serve vulnerable people without regard to those factors, or any others.”
He said that World Relief had already gathered 12,000 signatures from evangelical Christians for a petition opposing Mr. Trump’s executive order.
“We’re going to call out to our network, the 1,200 churches that are actively involved,” he said, “and ask them to use their voices to change the narrative, to challenge the facts that drive the fear so high that people would accept this executive order.”
Il Fatto Quotidiano, blog "Economia occulta", 29 gennaio 2017
Ironicamente, all’inizio del secolo, quando si brindava quotidianamente alla globalizzazione, fu la politica della paura americana a convincere gran parte degli europei a seguire George W. Bush e Tony Blair in una guerra illegale e scellerata in Iraq. I motivi erano menzogne ma anche allora imperversavano le fake news, le notizie false. E così è stato gettato il seme del caos politico e dell’anarchia che oggi regna in molte regioni del mondo. E naturalmente queste sono tutte musulmane.
Come in un film di fantascienza dove passato, presente e futuro si intersecano, questa settimana, la paura del terrorista islamico, sempre lui che dal quel tragico 11 settembre influenza la politica estera di mezzo mondo, è stata presentata come giustificazione dell’ordine esecutivo “Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States” con il quale si blocca temporaneamente l’ingresso a cittadini di alcune nazioni: Siria, Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Il coro di voci contrarie ha fatto un boato che abbiamo sentito tutti. Ma Trump non è l’unico che sta facendo marcia indietro dentro il villaggio globale cancellando gli accordi del passato, è solo l’unico che suscita i lamenti del coro greco globale.
In Europa il problema dei migranti, e di come bloccarli non solo è all’ordine del giorno ma spesso diventa uno strumento politico nelle riaccese tensioni geopolitiche tra paesi limitrofi ad esempio tra la Grecia e la Turchia. Questa settimana la Corte Suprema greca ha bloccato l’estradizione di otto militari turchi accusati da Ankara di aver partecipato al fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso. Il motivo: se rimpatriati potrebbero essere uccisi. I militari erano atterrati ad Alexandroupolis il giorno dopo con un elicottero ed avevano chiesto asilo politico che ancora non gli è stato concesso.
Secondo il regime turco motivi politici di ostilità nei confronti del governo sono alla base della decisione presa dalla Corte Suprema. Tutto ciò mette a repentaglio l’accordo sulle migrazioni firmato dall’Unione Europea e dalla Turchia secondo cui chi arriva in Grecia dalla Turchia viene automaticamente rimandato indietro.
La politica di riammissione dei clandestini e dei migranti in Turchia è il muro europeo nei loro confronti. In cambio, la Turchia dovrebbe ricevere aiuti finanziari, l’esenzione dal visto per tutti i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e un’accelerazione dei negoziati per far entrare la Turchia nell’Unione europea. Turchia e Grecia hanno anche un accordo bilaterale sulla riammissione in Turchia dei clandestini.
Ankara ha detto chiaramente che sta considerando l’annullamento di questo accordo. Se così fosse la Grecia e l’Europa si ritroverebbero di fronte a ciò che è accaduto nel 2015, un esodo di migranti massiccio. A quel punto è molto probabile che si dovrà ricorrere a nuovi stratagemmi, e cioè alzare nuovi muri legali insieme a quelli veri, per bloccarne l’ingresso. Ma non basterà una firma per farlo!
Corriere della sera, 30 gennaio 2017
Un’incursione di forze speciali statunitensi a Yakla, regione centrale, in un rifugio di Al Qaeda si è chiusa con un bilancio serio. Un soldato americano morto e tre feriti. Un velivolo Osprey distrutto. Quattordici militanti eliminati, non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più. Tra loro ci sarebbe Nora, la figlia di 8 anni dell’imam Anwar Al Awlaki, ispiratore della jihad globale, riferimento per numerosi attentatori occidentali, anche lui fatto fuori nel 2011 da un drone. Numeri non definitivi.
La prima missione nel segno di The Donald e con il primo caduto sotto la sua amministrazione ha avuto le caratteristiche di una battaglia. Una task force, forse partita da una base in Eritrea o da una nave d’assalto anfibio, si è mossa a bordo di elicotteri e velivoli speciali Osprey. Al loro fianco i droni e gli Apaches. Testimoni hanno riferito di un primo bombardamento che ha centrato la casa di Abdul Raouf al Dahab, dirigente di al Qaeda. Quindi sono sbarcati i Navy Seal 6 che hanno aperto il fuoco sui sopravvissuti e hanno ingaggiato il combattimento con i mujaheddin.
Le fonti ufficiali parlano di un’ora di scontri, altre ricostruzioni parlano di due. Nel conflitto a fuoco alcuni commandos sono rimasti feriti. In loro soccorso è intervenuto un Osprey, ma che è rimasto danneggiato in un atterraggio duro. I soldati lo hanno allora distrutto con l’esplosivo. Quindi il reparto ha lasciato il campo portandosi via — come segnala il Comando centrale — materiale per l’intelligence utile per future missioni. Nello stesso comunicato si sottolinea che il blitz fa parte di una serie di mosse «aggressive» nello Yemen e su scala globale. La decisione di colpire al Dahab era stata presa ancora sotto Obama, ma il piano — per motivi tecnici — non era stato completato.
il manifesto, 29 gennaio 2017 (c.m.c.)
I decreti esecutivi con i quali Donald Trump ha stabilito di procedere al completamento della barriera divisoria lungo il confine tra gli Stati Uniti e il lucoMessico, ha dimezzato da 110.000 a 50.000 il numero annuale dei visti di immigrazione a disposizione dei rifugiati, privilegiando nell’assegnazione gli esuli cristiani, nonché ha sospeso a tempo indeterminato l’ingresso dei profughi siriani e per tre mesi l’arrivo dei cittadini di nazioni islamiche a rischio di terrorismo non rappresentano solo l’attuazione di alcune promesse che aveva formulato durante la campagna elettorale.
Le decisioni del presidente riflettono anche e soprattutto una particolare concezione degli Stati Uniti, cara a Trump e al suo elettorato, secondo la quale la società nordamericana dovrebbe essere composta preferibilmente da individui bianchi di ascendenza europea e di religione cristiana. Da questo punto di vista, chi non presenti tali caratteristiche, perché ispanico o mussulmano, costituirebbe una minaccia per la sicurezza nazionale e, come tale, non dovrebbe avere accesso al territorio del paese.
Manifestazioni di xenofobia e insensibilità nei confronti dei profughi, spesso in coincidenza con fasi di recessione economica, non sono nuove nella storia degli Stati Uniti e risalgono addirittura al periodo immediatamente successivo alla guerra d’Indipendenza. Nel 1798, infatti, venne allungato da cinque a quattordici anni il periodo minimo di residenza per ottenere la cittadinanza americana e fu attribuito al presidente il potere insindacabile di deportare gli stranieri sospettati di essere coinvolti in attività sovversive, per il timore che i giacobini francesi rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la caduta di Robespierre potessero influenzare la politica della terra d’adozione.
Quasi un secolo più tardi, nel 1882, l’immigrazione dalla Cina fu congelata, in quanto gli asiatici erano considerati una razza inferiore, e venne riaperta soltanto nel 1943, ancorché in misura poco più che simbolica, come gesto di riconoscenza per l’adesione del governo nazionalista di Pechino alla coalizione anti-fascista durante la seconda guerra mondiale.
I cittadini italiani (ritenuti mafiosi come oggi Trump considera i messicani stupratori e narcotrafficanti) e di altre nazioni dell’Europa meridionale e orientale si videro decurtati i visti di immigrazione nel corso della prima metà degli anni Venti del Novecento perché giudicati inassimilabili dal momento che non erano di ceppo anglo-sassone né di confessione protestante. Nel decennio successivo, gli ebrei in fuga dai provvedimenti antisemiti del nazifascismo in Germania, Austria e Italia non poterono usufruire di deroghe alla stretta sui visti attuata in precedenza da Washington.
La ragione ufficiale di tale ostracismo fu la paura che tra i profughi si annidasse qualche agente nazista, ma il motivo reale era il timore che gli immigrati ebrei facessero salire il tasso di disoccupazione in un paese ancora in preda alla depressione economica.
Soltanto nel 1980, durante l’amministrazione del presidente democratico Jimmy Carter, gli Stati Uniti introdussero nella loro legislazione la categoria giuridica del rifugiato, definendolo come la persona alla quale era precluso il rimpatrio a causa di persecuzioni, o rischio fondato di persecuzioni, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare ceto sociale o opinioni politiche. Così, in quell’anno, Washington accolse circa 125.000 esuli cubani che scappavano dal governo di Fidel Castro. Nello stesso periodo, però, la guardia costiera statunitense respinse centinaia di profughi haitiani che cercavano di sottrarsi alla dittatura di Jean-Claude Duvalier perché la natura non comunista del regime di Port-au-prince indusse Washington a considerare questi individui come semplici emigranti per ragioni economiche.
In passato, però, gli Stati Uniti hanno cercato, almeno a parole e attraverso atti simbolici, di mantenersi all’altezza della propria reputazione di terra delle opportunità, disposta ad aprire le sue porte alle “masse dei poveri che anelano a respirare l’aria della libertà”, per citare i celeberrimi versi di Emma Lazarus scolpiti sul piedistallo della Statua della Libertà.
Lo stesso Barack Obama, malgrado l’iniziale titubanza e nonostante la maggiore liberalità di Stati come la Germania e il Canada, aveva acconsentito ad accogliere 10.000 profughi siriani nel 2016 e ad accrescere il loro numero nel 2017. Con i decreti di Trump è, invece, scomparsa perfino la retorica del “sogno americano” e il nazionalismo dell’“America First” ha trovato una sua concretizzazione anche nelle politiche immigratorie, lanciando un pericoloso segnale di legittimazione per analoghe iniziative proposte da movimenti e partiti populisti sull’altra sponda dell’Atlantico.
l'Espresso online, 27 gennaio 2017 , con postilla (p.s.)
Ora la società italiana rischia di perdere le più grandi riserve di greggio del continente nero dopo averle pagate ben 1.092 milioni. Destinati allo Stato, ma finiti in realtà agli ex ministri corrotti.
L'Eni rischia di perdere il maxi-giacimento delle tangenti africane. La Commissione d'inchiesta sui crimini economici e finanziari della Nigeria ha ottenuto dall'Alta Corte Federale un'ordinanza che autorizza il governo ad intimare alla società italiana e alla Shell di restituire la licenza per sfruttare il giacimento OPL 245, che è da tempo al centro di indagini italiane e internazionali per una presunta corruzione da oltre un miliardo di dollari.
L'Eni e Shell si erano aggiudicate la licenza nel 2011 firmando l'accordo con l'allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan. La società italiana si è sempre difesa sostenendo di aver trattato solo con il governo e di aver versato l'intero prezzo (1.092 milioni di dollari) su un conto intestato all'esecutivo nigeriano. La procura di Milano, in collaborazione con gli inquirenti olandesi, britannici e americani, ha però scoperto che il conto del governo è stato interamente svuotato: tutti i soldi sono finiti a politici e faccendieri tra cui spicca l'ex ministro del petrolio Dan Etete, che in sostanza si era auto-assegnato il giacimento dietro lo schermo di una società offshore chiamata Malabu.
Oltre 500 milioni di dollari sono stati poi dirottati sui conti di un certo Abubakar Aliyu, un presunto fiduciario e tesoriere dell'ex presidente Jonathan e di altri ministri del suo governo. Alla fine lo stato e il popolo nigeriano non hanno intascato un soldo.
L'ordinanza firmata ieri mattina dal giudice federale John Tsoho, in sostanza, autorizza formalmente il governo nigeriano a revocare la concessione e a imporre all'Eni e alla Shell di restituire il giacimento. L'Alta Corte, nel provvedimento, precisa che l'incheista della Commissione per i crimini economici è ormai prossima alla conclusione. Anche la Procura di Milano ha ormai chiuso la sua inchiesta: tra gli indagati per corruzione internazionale spiccano l'attuale numero uno dell'Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni, primo responsabile dell'accordo. Entrambi sono stati interrogati e hanno negato qualsiasi responsabilità. Anche la Shell è stata indagata e perquisita dalla polizia olandese.
Con il via libera dell'Alta Corte, le autorità nigeriane hanno formalmente avviato la procedura che può portare alla revoca defintiva della licenza, che riguarda il più più grande giacimento scoperto in Africa, con riserve stimate per oltre 9 miliardi di barili di greggio.
Antonio Tricarico, responsabile italiano dell'organizzazione internazionale “Re:Common”, che fu la prima a denunciare il caso di corruzione alla procura di Milano, commenta così la svolta giudiziaria in Nigeria: «In quanto più grande azionista dell'Eni, il governo italiano deve intervenire al più presto e fare piena luce sul caso OPL245».
Nick Hildyard, a nome dell'altra organizzazione internazionale che ha seguito il caso, The Corner House, ha confermato la grande importanza del provvedimento giudiziario: «Ci complimentiamo con il nuovo governo nigeriano per la lotta contro la corruzione che sta conducendo».
«Questo è un evento storico», ha aggiunto Simon Taylor di Global Witness: «Generazioni di nigeriani sono stati derubati dei servizi essenziali, mentre i signori del petrolio si sono arricchiti a loro spese. Ora Shell ed Eni devono finalmente affrontare le conseguenze delle loro azioni: le aziende e i loro investitori devono capire che non possono più fare affari con i corrotti senza pagare un prezzo pesante».
postilla
Era ora che fosse cacciato, dall'Africa (si spera che vada a finire così) una delle corporation del Primo mondo che più ha concorso e concorre a provocare le devastazioni, le miserie e e le guerre che obbligano gli africani a cercare la via della fuga verso i paesi parassiti del Primo mondo. Poco male se il renzismo sarà più debole.
la Repubblica, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
La battaglia politica è in corso e gli esiti sono ancora incerti, ma quella dei numeri è già vinta. I profughi stanno dando una spinta notevole all’economia tedesca. La scommessa della cancelliera Angela Merkel di una politica generosa con i rifugiati - pensata soprattutto in prospettiva, come un beneficio demografico - sta dando già i suoi frutti. E, a giudicare dal bilancio per il 2016 diffuso ieri dal ministero delle Finanze, anche una seconda sfida di Merkel si sta rivelando vincente: quella su Mario Draghi.
La cancelliera ha sempre fatto scudo al presidente della Bce contro il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, che punta il dito da mesi - come tre quarti della Germania - contro i mini tassi di interesse. Ebbene, con quei rendimenti azzerati sul debito, il guardiano dei conti ha ormai una cassaforte che scoppia. E, grazie ai rendimenti negativi sui propri titoli di Stato, ha persino guadagnato soldi facendo debiti: 1,2 miliardi. Ma non ditelo al Paese dove “debito” e “colpa” sono sinonimi.
Intanto, le miriadi di centri di accoglienza e di appartamenti messi a disposizione dei richiedenti asilo, le migliaia di persone assunte nel settore pubblico per far fronte all’emergenza, le spese sostenute per adeguare i ministeri, le frontiere, le strutture pubbliche alla sfida storica del biblico esodo dal Medio Oriente, ma anche i consumi del milione e oltre di disperati fuggiti dalle guerre e dall’Isis, stanno facendo da gigantesco volano all’economia. Nel 2016 il Pil tedesco è cresciuto dell’1,9% e le entrate fiscali sono letteralmente esplose. Nonostante il governo abbia speso quasi 22 miliardi di euro per i profughi (ma 7 miliardi sono stati investiti nei Paesi di provenienza), il ritorno è stato notevole. Per il terzo anno consecutivo, i conti chiudono con un ricco sovrappiù di 6,2 miliardi di euro. Non solo grazie i richiedenti asilo, ovviamente, ma un contributo importante è arrivato da lì.
Per un Paese abituato ad associare i grandi piani congiunturali alle dittature più feroci e a diffidare profondamente di Keynes, è sempre difficile ammettere che la spesa pubblica spinga l’economia. Nella patria dell’ordoliberalismo, sono stati pochi gli economisti a leggere nei dati diffusi ieri dal ministero delle Finanze quello che c’era da leggervi (e men che meno sono stati i funzionari di Wolfgang Schaeuble ad ammetterlo nel rapporto). Tra le mosche bianche, il capoeconomista dell’autorevole istituto di ricerca DIW, Ferdinand Fichtner: «Possiamo considerare (le spese sostenute per l’arrivo dei profughi, ndr) come un gigantesco piano congiunturale.
Una gran parte dei soldi è stato trasmesso all’economia attraverso le spese per il sostentamento dei rifugiati, per i loro affitti, per gli investimenti in infrastrutture, eccetera. Mi riferisco ad oltre il 90% di quelle spese». L’altro grande rimosso di Berlino è Draghi. Le sue tanto vituperate politiche monetarie, improntate ormai da anni ad una strategia di tassi azzerati non soltanto stanno tenendo debole l’euro, come ha confermato nei giorni scorsi la Bundesbank, facendo un regalo al tradizionale campione delle esportazioni, alla “Cina d’Europa”.
Stanno anche, per stessa ammissione del sottosegretario alle Finanze, Thomas Steffen, aiutando il più austero dei guardiani dei conti a mantenere le finanze pubbliche in ordine. Il 2016, spiega Steffen, è «il terzo anno consecutivo di pareggio di bilancio », grazie ad uno «sviluppo congiunturale robusto», ma anche a «risparmi sugli interessi del debito». Timido, ma inconfutabile.
ytali, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
Interrogarsi se sia il degrado del ceto politico (o delle classi dirigenti in generale) la causa dello sfarinarsi di quasi tutti i legami che strutturano la società contemporanea o se sia vero il contrario, è domanda meno oziosa di quanto possa apparire. Perché l’assunzione di uno dei due poli di riflessione induce a comportamenti e a posizioni culturali e persino psicologiche del tutto diverse (anche se, in fondo, complementari).
Chi investe tutta la sua imprenditorialità sulla dimensione separata ed impermeabile della politica rispetto alla sfera drammatica di una società in cui crescono fortemente diseguaglianze sociali e culturali, coglie una parziale verità, ma si attribuisce inopinatamente un compito demiurgico di rappresentazione di sentimenti espressi in forme spesso contraddittorie se non proprio aggressive. Se contro la “casta”, indistintamente definita, tendi a raffigurare una società illibata e priva di pesanti increspature culturali e psicologiche finisci con l’essere travolto da una violenta vandea che rifiuta ogni forma di relazione con i migranti, i diversi ed alimenta scene di conflitti egoistici interni alla stessa società. Non può essere questa una tentazione per qualsiasi ipotesi che si autodefinisca progressista.
Eppure il deficit spaventoso di progettualità e di rappresentanza di un pezzo di ceto politico che fa riferimento a valori vaghi di radicalità progressista tenta questa avventura come aggiramento ad una mancanza di consenso. Ma se impasti temi sociali veri e fondati con egoismi violenti e grevi diventi inconsciamente, e un po’ stupidamente, parte attiva di un collante culturale e politico che è alla base di tutti i movimenti reazionari che stanno animando la scena politica del vecchio continente con esperienze di governo fino a ieri impensabili.
Ma anche fuori dal vecchio continente il populismo approda al governo sconquassando equilibri geopolitici. Trump ha vinto negli Usa con l’annuncio di politiche protezionistiche e di forte arretramento culturale, sociale e civile. Nonostante ciò la presidenza Trump viene salutata in alcuni ambienti di sinistra radicale come la “caduta del muro del liberismo globalizzato” (sarebbe comico se non fosse tragico dipingere così un governo composto da miliardari e finanzieri, da nemici giurati dei diritti delle donne, dei neri, dei gay, dei migranti e di ogni forma di ambientalismo). E se, in Europa, le destre xenofobe, razziste e reazionarie inneggiano coerentemente al nuovo modello di riferimento, anche il M5s saluta con entusiasmo la novità d’oltreoceano.
L’errore strategico
La povertà culturale ed analitica di una critica amplificata alla politica “tout court“, pur avendo spesso conferme da quel mondo, determina un pesante errore strategico non privo di conseguenze. L’eccesso di soggettivismo e politicismo di cui è figlia questa facile scorciatoia oscura colpevolmente un dato che è evidente da qualche decennio: la perdita di potere, di ruolo e di funzioni delle istituzioni a tutti i livelli. In particolar modo delle assemblee elettive in danno degli esecutivi. La globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, il peso crescente della tecnocrazia hanno svuotato la capacità di incidenza dei processi istituzionali e sottratto ogni forma di capacità alla politica di mutare i destini individuali e collettivi.
“Foglie morte in attesa dell’ultimo refolo di vento di autunno”, così il filosofo Emanuele Severino raffigura i politici lasciando intravedere quasi una vita autonoma della tecnocrazia nei processi di governo del mondo. Con quanta efficacia, però, è facile constatarlo nella polarizzazione della ricchezza in aree sempre più ristrette e con sempre meno legittimazione democratica a fronte di un impoverimento che tocca realtà sociali prima neanche sfiorate dalle varie congiunture economiche.
L’urlo indistinto contro la politica, l’urlo che reclama un cambio salvifico, l’urlo privo di progettualità alternativa e di un blocco sociale coeso di riferimento, alimenta facili illusioni e produce fortissime disillusioni che a loro volta incoraggiano passività e rabbia, depressioni e rivolte individualistiche. Se il problema del permanere della tua condizione di sofferenza è legato ad una rapida sostituzione del ceto politico di governo, l’obiettivo sembra così a portata di mano che quando si realizza e le attese vengono però deluse, il divario tra politica e società diventa una voragine.
I nuovi populismi
La via breve e spesso strumentale del populismo rimbalza sui social con toni apodittici e gravi. Brucia ogni ipotesi di soluzioni alternative e credibili ad una crisi economica e culturale che non ha alcun precedente storico per intensità, forma e durata. Un tempo queste modalità erano appannaggio di forze ristrette. Oggi queste forze, nella crisi perdurante, se non proprio l’agonia, delle vecchie formazioni politiche, hanno consensi sempre più significativi.
La soluzione semplice se pur improbabile di problemi complessi ha un appeal superiore a qualsiasi altra soluzione praticabile. Prima queste modalità erano atteggiamenti estremi di forze estreme spesso nostalgiche di altri periodi storici che narrano di un benessere antico il più delle volte mai esistito. Oggi il populismo è di sinistra, di destra e di…centro. È di opposizione e di governo.
Magari con forme di diversa intensità. Al populismo ci si oppone spesso con un “embrassons-nous” del sistema politico che si rinserra in una sorta di cittadella separata in un meccanismo di autodifesa che viene percepito come tutela di facili prerogative e antichi privilegi. Ovviamente questo atteggiamento non fa che alimentare il fuoco del rancore, della rabbia, fino al sentimento ingovernabile dell’odio.
La complessità della crisi
La complicazione strutturale del nostro tempo è determinata dal fatto che il degrado della società e l’irrilevanza della politica si intrecciano e si autoalimentano reciprocamente. Se non si produce un’analisi unitaria si finisce con il rincorrere vecchie antinomie tra autonomia del sociale ed autonomia del politico, entrambe deprivate di una dimensione vitale positiva e fortemente deteriorate. Qui siamo. Il paese che ha conosciuto il più alto livello di socializzazione e partecipazione politica, l’Italia, è stretto tra opzioni liberiste di natura tecnocratica e varie forme di populismo.
Il paese che, negli anni Settanta, ha conosciuto il più alto livello di conflitto sociale organizzato e, forse, la più importante sperimentazione di modelli sociali alternativi, vive oggi la dissoluzione di ogni forma di legame sociale e solidaristico. Dal conflitto collettivo ispirato alla giustizia sociale all’invidia di tipo individualistico. Dalla consapevolezza di essere parte di un grande movimento di massa con una idea di trasformazione o trascendenza della realtà al vuoto di senso esasperato che si cristallizza nel tempo presente. L’Italia, più che altri paesi europei, conosce la distruzione se non la dissoluzione dei corpi intermedi della società.
“L’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Pare che la dissoluzione liquida della società descritta tante volte da Bauman trovi qui una applicazione particolarmente favorevole. Ma di liquido ci sono solo i soggetti organizzati: partiti, associazioni ed in parte anche sindacati. Remo Bodei in una recente intervista parla infatti di un ritorno alla materialità dura determinato dalla crisi economica, dalle crescenti disparità e dalle sacche nuove e vaste de povertà. È singolare rilevare che in una delle fasi di maggiore difficoltà del capitalismo (forse la più critica dalla sua nascita) nel governare le società siano scomparsi i suoi antagonisti. Il capitalismo in crisi travolge i suoi avversari. Eppure non convince, anzi si disaccoppia dalle forme di democrazia liberali finora sperimentate in occidente disarmando e rendendo inutile la politica.
Possiamo affermare con buone ragioni che questo liberismo contemporaneo sia profondamente illiberale. A ben guardare sta mutando profondamente la dimensione dell’umano. C’è il capo e ci sono le folle. Un clima culturale e psicologico non dissimile dai periodi inquietanti dei totalitarismi del secolo scorso. Ma ancora Bodei osserva giustamente che tutto è cambiato. Si è chiusa un’era apertasi con la rivoluzione francese. C’è una copiosa letteratura che disvela l’allarmante prospettiva che ci attende, ma a differenza del secolo scorso la funzione intellettuale non orienta grandi masse. Torna la nota profezia di Keynes: ” l’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.
Il fattore umano
“L’inatteso”, nelle relazioni umane, accentua sentimenti estremi, esaspera competizioni e narcisismi. Trasforma il bisogno di giustizia sociale in invidia e rancore. Sedimenta sacche di odio che sfociano in episodi sempre più diffusi di violenza improvvisa e priva di una spiegazione razionale. Il narcisismo è sicuramente la malattia del nostro tempo. C’è un narcisismo manifesto ed esibito nelle competizioni dell’apparire. C’è un più diffuso narcisismo che possiamo definire “represso”. È quello di chi aspira a godere di uno status che non potrà mai raggiungere.
Una potente deprivazione che lacera gli individui lasciandoli macerare in una rabbia interiore a stento tenuta a freno da meccanismi di controllo che impediscono sentimenti e legami autentici. Una deprivazione di beni materiali ed emotivi che vengono assurti a beni irrinunciabili anche se spesso inconfessabili. Il rapporto del capo con le folle imprigiona gli individui in un rapporto muto ed unidirezionale.
È un rapporto di tipo adattivo privo di elementi di criticità. È una sorta di identificazione ed induce ad atteggiamenti compiacenti al volere del modello di riferimento. Atteggiamenti vissuti in condizione di solitudine rancorosa. È una forma di relazione di tipo verticale che impedisce la dimensione orizzontale del legame sociale.
La perdita della libertà
Di questo tipo di relazione è utile indagare la perdita di libertà dei soggetti coinvolti. Nel suo ultimo libro Il coraggio di essere liberi il teologo Vito Mancuso utilizza efficacemente la metafora della professione dell’attore che usa tante maschere e recita su testi di cui non è evidentemente l’autore. « L’attore parla obbedendo ad un copione… Né i movimenti sono naturali, ma costruiti, artefatti». È gratificato dalla sua capacità tecnica se apprezzata da chi giudica la sua prestazione. Ognuno di noi tenta di recitare sui diversi palcoscenici dell’esistenza. Tutte le nostre parole, il linguaggio corporeo, le movenze sono finalizzati al compiacimento di un regista esterno.
Per dare un senso al vuoto esistenziale del tempo presente lo si riempie con una trama comportamentale dettata da un modello esterno mitizzato. Non c’è possibilità di entrare in conflitto con l’altro da te, affrontare l’incertezza della relazione o subire le possibili ferite narcisistiche. L’altro è potenzialmente e tendenzialmente un competitore se non proprio un nemico. Il rapporto fideistico con il capo sottrae anche lo spazio di una riflessione sul sé e su quella parte del sè in cui abitano le “ombre” di cui ha tante volte parlato Jung. Si finisce con l’essere soli e contemporaneamente fuori da sè. Si placa così, artificialmente, un senso insopportabile di vuoto. È evidente che in questo contesto perdono senso e significato valori come libertà ed uguaglianza. Libertà da chi? Non certo dal capo. Uguaglianza con chi? Non certo con l’altro.
Solidarietà
Anche termini come fratellanza e solidarietà, valori propri non solo di un mondo laico ma anche cattolico e religioso hanno perso peso. Riappaiono in congiunture ed eventi straordinari, ma se la congiuntura e l’evento si protraggono nel tempo questi sentimenti rapidamente rifluiscono per lasciare il campo ad un sentimento di tipo individualistico ed utilitaristico. Il termine solidarietà rischia di essere una parola sempre più vuota se non viene praticata e vissuta in una dimensione concreta.
La politica che proclama solidarietà non viene creduta perché spesso non rappresenta un mondo o una comunità che la praticano. E quella parola si rovescia quasi fosse un disvalore propagandistico. Quella parola continua ad avere un senso in aree di volontariato ed associazionismo sia laico che religioso. Vale a dire in mondi vitali che hanno dato alternative concrete al senso di vuoto, di ingiustizia, di precarietà esistenziale provando a mettere in discussione sè stessi nella relazione con l’altro.
Papa Francesco ha proposto questa dimensione originaria della fede per cercare di recuperare una scissione evidente tra la Chiesa e la società. Processo non dissimile dalla divaricazione tra politica e società. Ma questi sforzi incontrano resistenze molto grandi. Si può evidenziare un conflitto aspro tra le gerarchie ecclesiastiche, ma anche, problema più serio, una resistenza o, nel migliore dei casi, una disabitudine a praticare la solidarietà concreta in tante strutture territoriali fino a disattendere apertamente le indicazioni del Pontefice.
Nel pieno della tragedia dei migranti e dei profughi la proposta di Papa Francesco di aprire chiese e sedi per dare loro ricovero è stata straordinariamente importante. Non a caso è stata dileggiata dai capi razzisti e da coloro che osannano i muri alzati di tutta Europa. Ma questa indicazione ha incontrato inerzie e ostilità anche all’interno della Chiesa. Anche il mondo cattolico è, dunque, attraversato da questa crisi di senso e di vuoto delle società contemporanee.
Radicalità nella società e responsabilità in politica
Il tema cogente è quello di provare a ricostruire legami, pratiche sociali, mutualismi. Per semplificare si potrebbe dire che occorrerebbero comportamenti determinati e coraggiosi nella società per sradicare convinzioni incancrenite o atteggiamenti narcisistici e cinici. Occorrerebbe investire personalmente e collettivamente nella costruzione di legami di tipo solidaristico e mutualistico. Ricostruire in forme moderne e contemporanee luoghi in cui far nascere assistenza, protezione sociale, scambio culturale ed emotivo, socialità e gratuità. Ma questi spazi dovrebbero avvalersi di una politica compatibile con la loro crescita. Una politica responsabile e di governo che si lascia contaminare da queste pratiche sociali.
Un tempo avremmo chiamato questi luoghi con un termine gramsciano “casematte”. Una politica capace di esprimere anche compromessi, sane mediazioni con l’intento di facilitare il diffondersi di queste esperienze di tipo comunitario. Radicali nella società e responsabili in politica. Solo così si può favorire un processo molecolare di trasformazione sociale e culturale.
Rifondare il popolo contro ogni tentazione populistica. Rifondare la politica contro ogni tentazione autoreferenziale o settaria. Non è più tempo, a sinistra, di posizioni moderate o rigoriste. Così si fa solo il gioco delle destre. Ma non è più tempo, a sinistra, di posizioni estremistiche e propagandistiche. Servono solo a riprodurre ceti politici mediocri e parassitari privi di qualsiasi relazione sociale. Spazio e tempo si sono stretti come una morsa.
Serve una nuova teoria e nuove idee credibili di governo della società. Ma serve un grande coraggio nel mettere in discussione unilateralmente sè stessi per incontrare l’altro/a e sostituire pazientemente la tela stracciata della vecchia società in un nuovo ordito in cui cominciano a prendere vita e senso parole come uguaglianza, libertà, fratellanza/sorellanza, solidarietà.
bilanciamoci online, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)
Il BES e la misurazione del benessere in Italia
Nel marzo del 2013, un giorno dopo la presentazione in pompa magna (a Roma presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, in presenza delle più alte cariche dello Stato) del primo rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), il Corriere della Sera sottotitolava la notizia relativa a tale evento con le seguenti parole “Istat: nel 2013 il Pil è già calato dell’1%”. Sarebbe come dare la notizia della vittoria di Donald Trump alle Presidenziali statunitensi sottolineando che Bernie Sanders è in rimonta nei sondaggi: inutile e fuori bersaglio.
Il fatto che uno dei principali quotidiani nazionali ponesse l’accento sull’andamento del Pil proprio mentre veniva presentato un progetto volto al superamento di simili misure mette in evidenza due questioni importanti. In aggiunta alle evidenti responsabilità dei media mainstream italiani, sulle cui competenza e affidabilità non ci soffermeremo oltre, è necessario riconoscere una seconda plausibile causa dell’infelice scelta, ovvero la scarsa fruibilità di BES e indicatori analoghi.
Il BES si presenta infatti come un sistema di 130 indicatori suddivisi in 12 macro aree, che puntano a catturare pienamente la complessità che caratterizza il concetto stesso di benessere. L’abbondanza di indicatori inclusi ogni anno nel rapporto BES è figlia del principio di inclusività secondo cui la definizione stessa di benessere deve risultare da un processo di deliberazione tra rappresentanti di istituzioni, società civile e parti sociali. Nonostante un simile approccio democratico abbia garantito al BES il supporto trasversale dei diversi attori in campo, ha al contempo pesato duramente sulla sua fruibilità e applicabilità dal punto di vista pratico.
Se è vero che il BES e simili misure, comunemente definite “dashboard”, vantano una grande universalità di contenuti – non esistono vincoli materiali al numero di indicatori inseriti –, allo stesso tempo tendono a generare confusione e smarrimento. Infatti, non è difficile immaginare che tanto il decisore quanto il cittadino affrontino la cascata di 130 indicatori con la perplessità di chi si domanda “e quindi?”.
Per quanto volgare e frutto di un dogmatismo anti-intellettuale che in questa epoca storica non necessita di ulteriori tutele, tale domanda è legittima e ci impone non tanto di mettere in dubbio la reale efficacia del BES, quanto di vagliare le sue possibili criticità. Al fine di valutare le effettive qualità dell’approccio dashboard e delle sue alternative, prima di tutto è necessario prendere in considerazione ognuna di esse separatamente.
Approcci alternativi al Pil
Nel corso degli ultimi 50 anni, ovvero dagli albori della ricerca di strumenti da sostituire agli approcci tradizionali di valutazione del benessere e del progresso socio-economico, quattro sono state le principali metodologie adottate o considerate su grande scala: le misure correttive di carattere monetario, le misure soggettive di benessere, gli indicatori compositi, e i dashboard di indicatori.
Le misure correttive di carattere monetario – utilizzando un neologismo potremmo definirle “post-Pil” – hanno rappresentato storicamente il primo passo verso il superamento del Pil: esse partono dal presupposto che la produzione e il consumo di beni e servizi di un determinato Paese riflettano in maniera molto approssimativa il suo benessere economico. Al fine di sopperire a questa imprecisione di fondo, gli indicatori post-Pil correggono il dato relativo al prodotto interno lordo attraverso la considerazione di parametri ritenuti importanti nella determinazione del benessere e che nonostante ciò rimangono al di fuori dalle statistiche conteggiate nel Pil.
I parametri in questione, il cui valore è prima quantificato in termini monetari e in seguito sottratto o aggiunto a quello del Pil, includono le esternalità dei sistemi diproduzione, tra cui l’inquinamento, le disuguaglianze e l’esaurimento delle risorse, ma anche elementi positivi come il valore dei servizi forniti in maniera informale, oppure a livello domestico. In buona sostanza gli indicatori post-Pil, pur impiegando una importante innovazione di contenuto, sono caratterizzati dal presupposto secondo cui il Pil non è di per sé uno strumento scorretto, bensì meramente incompleto, e si prefiggono di rimediare a tale carenza piuttosto che abolirlo del tutto.
Diametralmente opposto è il presupposto ideologico che sta all’origine delle misure soggettive di benessere. Questo tipo di approccio, le cui basi scientifiche si collocano nel campo della psicologia positiva, risponde alla volontà di andare oltre all’equivalenza “prosperità economica = benessere”, e racchiude gli sforzi messi in campo nel tentativo di quantificare il benessere come concetto definito e percepito dal punto di vista della persona. Le misure soggettive di benessere si costruiscono partendo dai risultati di studi basati su indagini di tipo sociologico-psicologico (principalmente questionari auto-valutativi), il cui obiettivo è quello di determinare il livello soddisfazione della persona per il tipo di vita che sta vivendo.
Un approccio alternativo che negli ultimi anni ha suscitato un crescente interesse in ambito istituzionale, sia a livello nazionale sia internazionale, è esattamente quello sopracitato dei dashboard di indicatori. La parola dashboard si può in questo caso tradurre come “cruscotto” o “quadro strumenti”, ovvero la parte dell’automobile sulla quale si trovano i segnalatori relativi a velocità, numero di giri del motore, stato del serbatoio di benzina, eccetera. Come si può intuire, questo tipo di indicatori ha precisamente il funzionamento di un quadro-strumenti: fornisce dati di varia natura (non omogeneizzati né aggregati) relativi alle diverse variabili che si reputano necessarie alla valutazione del benessere.
L’ultima categoria, quella degli indicatori compositi, rappresenta un passo in avanti – quantomeno potenziale – rispetto alla categoria dashboard. Pur mantenendo la concezione di benessere come fenomeno oggettivo determinato da una pluralità di aspetti, gli indicatori compositi sono così chiamati perché presuppongo l’aggregazione dei dati relativi alle singole variabili in un unico valore numerico. Negli indicatori compositi, una volta raccolti i dati relativi ad ogni variabile, questi vengono prima normalizzati – ovvero trasposti su una scala comune che permette di confrontare dimensioni altrimenti incomparabili (basti pensare all’aggregazione di dati relativi all’aspettativa di vita con dati relativi alla qualità dell’aria) – e in seguito accorpati tenendo in considerazione il “peso”, ovvero l’importanza relativa assegnata a ogni dimensione.
Misure alternative a confronto
All’inizio di questo articolo è stato presentato il problema del BES e delle misure dashboard rispetto alla difficoltà con cui essi vengono recepiti tanto dalle istituzioni e dai decisori quanto dai cittadini. Nonostante sia un elemento importante per la valutazione di un indicatore, la fruibilità non è l’unica caratteristica da tenere in considerazione: altre caratteristiche delle misure di benessere includono l’affidabilità (quanto attendibile è il dato prodotto), la rilevanza (quanto accuratamente si considera il benessere in quanto tale) e la democraticità (quanto condivisibili sono la metodologia e le variabili adottate).
In termini di democraticità nessuna delle misure alternative qui considerate presenta criticità degne di nota, in quanto ognuna di esse permette almeno in linea teorica di sviluppare un dibattito di tipo deliberativo volto a garantire l’espressione democratica degli interessi di ogni parte coinvolta.
Diverso è invece il quadro riguardante l’affidabilità e la rilevanza delle misure. In termini di affidabilità il Pil, che si basa su statistiche ufficiali e consolidate, è chiaramente superiore a tutti gli approcci alternativi, che arrancano notevolmente su questo fronte – prime fra tutti le misure soggettive di benessere. Nella valutazione di quest’ultime, infatti, è importante considerare il problema insito nel loro carattere soggettivo: domandare alle persone quanto siano soddisfatte della propria vita, o quale sia il livello di benessere che percepiscono, tende a generare risposte la cui attendibilità risente dell’influenza di elementi emotivi e cognitivi.
Basti pensare alla tendenza della persona ad adattarsi alla propria condizione e alla maniera in cui essa percepisce il cambiamento: immaginiamo un individuo abituato a vivere in condizioni di estrema indigenza e che improvvisamente vede il proprio reddito aumentare in misura tale da permettergli finalmente di consumare due pasti completi al giorno invece di uno. Ora immaginiamo un secondo individuo che, abituato a una vita agiata tra ville e auto di lusso, vede improvvisamente le proprie disponibilità economiche ridursi fino al punto di potersi permettere solamente di consumare due pasti completi al giorno.
Sebbene i due individui siano dal punto di vista oggettivo nella stessa condizione di benessere, è plausibile immaginare che il secondo tenderà a riportare una percezione di benessere nettamente inferiore rispetto al primo. Simili caratteristiche della natura umana, e nonostante i progressi metodologici che hanno portato a un netto miglioramento delle misure soggettive di benessere, fanno sì che quest’ultime non godano dell’attendibilità necessaria a gettare le basi di politiche pubbliche efficaci.
L’affidabilità è del resto un problema che riguarda non solo le misure soggettive, ma anche quelle oggettive, come ad esempio gli indicatori compositi. Sebbene dal punto di vista teorico questo tipo di indicatori non presenti criticità rilevanti, sotto il profilo metodologico gli indicatori compositi faticano a mantenersi su standard adeguati.
Infatti, pur guidate da metodi matematico-statistici sempre più affidabili, sia la procedura di normalizzazione dei dati sia quella di assegnazione dei pesi risentono dell’inevitabile arbitrarietà che guida la scelta dei parametri dai quali dipendono. Tuttavia, sebbene gli indicatori compositi non siano scevri da vincoli metodologici considerevoli, essi rappresentano una notevole opportunità di avanzamento nell’ambito della rilevanza. Infatti, come anche gli indicatori dashboard, grazie alla libertà di scegliere le variabili da tenere in considerazione, gli indicatori compositi permettono di adattarsi a qualsiasi definizione di benessere venga proposta, senza dipendere da precise espressioni culturali e ideologiche come nel caso delle misure soggettive e quelle post-Pil.
Pur equiparabili alle misure dashboard in termini di rilevanza, gli indicatori compositi sono notevolmente più immediatie fruibili. Diversamente da misure quali ad esempio il BES, gli indicatori compositi hanno il vantaggio di fornire una valutazione chiara attraverso un dato sintetico, che seppur non significativo in sé, attraverso la comparazione su scala temporale permette di valutare il progresso (o regresso) di una comunità su più dimensioni contemporaneamente. Sebbene altre misure di benessere siano equiparabili agli indicatori compositi in termini di fruibilità, pare evidente che essi abbiano un significativo vantaggio sul piano della rilevanza.
Lo stato attuale della ricerca nell’ambito della misurazione del benessere presenta dunque un quadro complesso all’interno del quale, pur in presenza di vantaggi comparati di una misura sull’altra, non esiste un candidato chiaramente superiore agli altri. Tutto ciò, purtroppo, contribuisce all’impasse della comunità “” di fronte alla scelta di un’alternativa chiara al Pil.
Al fine di superare le attuali difficoltà è necessario abbandonare la visione idealistica che ha prevalso fino a ora, in virtù di un approccio più pragmatico e orientato alla realizzazione di un obiettivo preciso. Se tale obiettivo, sul quale ormai da tempo sembra esserci consenso, è quello di superare il Pil e sostituirlo con una misura alternativa di benessere, allora la strategia vincente deve considerare le possibilità di successo di tale misura.
Questo implica la necessità di valutare non solo le caratteristiche puramente scientifiche di ogni indicatore, ma anche il suo impatto in termini politici. Per quanto il BES rimanga un importante esperimento di assoluta avanguardia, fino a quando si scommetterà su simili misure – scientificamente affidabili, ma di scarso impatto – l’effettivo superamento del male peggiore, ovvero il Pil, rimarrà con ogni probabilità un’utopia.
la Repubblica, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
LA “NUOVA” America di Donald Trump, per rispondere alla provocazione di Roberto Saviano, si presenta al mondo con i connotati del vecchio rinnovato a nuovo: un populismo nazionalista che non nasconde il desidero autoritario. Il menu offerto dalla Casa Bianca in questa prima settimana assomiglia all’indice di un libro di storia della prima metà del Novecento. E in questo senso l’America di Trump è insieme vecchia e insieme espressione rappresentativa di un capitalismo globale che vuole rivedere il suo rapporto con la democrazia e il cosmopolitismo dei diritti umani.
Di nuovo in questa America c’è la sepoltura senza esequie non solo dei Gloriosi Trenta ma anche dell’ideale che li aveva nutriti: politiche di eguali opportunità e ricerca di cooperazione internazionale. L’America di Trump è un rinnovato vecchio: protezionismo economico in età di globalizzazione finanziaria che, per irrobustire l’industria nazionale, farà prima di tutto gli interessi delle multinazionali imprenditrici, promettendo ai molti (che hanno votato Trump) che questo sarà positivo soprattutto per loro.
La stessa vetustà nel nuovo è rintracciabile nella propagandistica cancellazione per decreto di intenti della riforma sanitaria di Obama lasciando in sospeso il contenuto, ovvero come potrà rendere l’assicurazione altrettanto universale senza gravare sulla spesa pubblica. In questa cornice si inserisce l’obolo ai repubblicani: l’assalto rinnovato al diritto di interruzione di gravidanza. Vecchia e tradizionale è anche la politica antiambientalista che subito si afferma per decreto, dando via libera al passaggio dell’oleodotto anche nelle terre dove vivono gli Indiani d’America, e che rischiano l’inquinamento delle falde acquifere.
Vecchia politica di aggressione all’ambiente, dunque, cucinata insieme alla promessa di alleggerimento delle tasse agli imprenditori se promettono di investire in America. Una politica, faceva osservare un articolista del New York Times, che vende l’illusione ottocentesca di moralizzare il capitale, come se non sia realisticamente ovvio ( in primis a Trump, lui stesso un impresario che opera sul mercato globale) che esso segue la logica della convenienza, non della morale.
Ma il protezionismo rinnovato in grande stile si avvale dell’armamentario della filosofia liberista che Ronald Reagan portò alla Casa Bianca: anche Trump prova a giocare con la favola del trickle- down, vendendo l’illusione per cui abbassare le tasse ai ricchi equivarrà a indurli ad investire con un po’ di convenienza per tutti. E la guerra ideologica contro il Messico, al quale Trump vorrebbe imperialmente fare pagare il muro anti-immigrazione che lui vuole finire di costruire, rischia di diventare un boomerang perché molti dei beni abbordabili per i consumatori americani sono importati proprio dal Messico, mano d’opera compresa.
Ma di nuovo zecchino, qualche cosa c’è. Prima di tutto, la pratica in grande stile e alla luce del sole del conflitto di interessi, di fronte al quale la più vecchia democrazia del mondo non ha, proprio come l’Italia di Berlusconi, nemmeno uno straccio di impedimento normativo. In secondo luogo l’attacco, anche violento nel linguaggio, verso chi critica il presidente e, soprattutto, verso la stampa. Trump rovescia la tradizione jeffersoniana per cui un Paese può reggersi senza un governo ma non senza una stampa libera e rispettata.
La Casa Bianca inscena quotidianamente comunicati contro i giornalisti, e in aggiunta contro l’opinione democratica che gli ricorda che lui, il voto popolare non lo ha preso. Per questo, Trump sta facendo una crociata senza precedenti per contestare i “dati” veri nel nome di “dati alternativi” e quindi ricontare i voti. Il Presidente è in permanente campagna elettorale, come il populismo vuole.
Quale sarà l’effetto di questa vecchia-nuova politica populista e nazionalista fuori dagli Stati Uniti? Questa domanda mette in luce l’altra grande novità del governo Trump: la sua presidenza è un messaggio eloquente di sostegno ai populisti d’Europa, a partire dagli eredi della Brexit, ma soprattutto a quelli emergenti nel vecchio Continente che a Coblenza si sono riuniti in internazionale populista con un solo obiettivo: atterrare questa Unione per fare una nuova Europa, tanto populista, bianca e cristiana quanto l’America che Trump vuole.
La novità straordinaria che sta sotto i nostri occhi è che, oggi, il maggiore concorrente dell’Europa democratica viene proprio dall’America.La storia ha ricorsi mai identici perché avvengono in un nuovo contesto. Ritorna con l’elezione di Trump la reazione contro la democrazia tollerante e la voglia del nazionalismo geloso delle frontiere, e che però deve alzare muri fisici poiché mezzo secolo di libertà di movimento non si cancella per decreto.
Ritorna il senso di fallimento degli ordini liberali degli anni del primo dopoguerra, quando dalle disfunzioni dei partiti tradizionali emersero nuovi leader autoritari che si scagliarono contro l’umanitarismo democratico e la Lega delle Nazioni. Così Trump arringa contro l’Onu e dichiara che la tortura può essere buona strategia nella lotta contro l’Isis, ignorando che anche il suo Paese ha firmato una convenzione internazionale contro la tortura, che la pratica in silenzio e senza fanfara presumendone l’illegittimità.
La grande differenza è che nel Primo dopoguerra, in alternativa ai regimi totalitari che quei “nuovi” leader misero in scena, negli Stati Uniti si stava sperimentando una risposta democratica alla crisi economica, a guida Frank Delano Roosevelt. La nuova America è, al contrario, omologa alla voglia di populismo che c’è in Europa. E questa novità è una cattiva notizia per tutti.
il manifesto, 28 gennaio 2017
Primo. La crisi perdura in modo feroce. La profezia di Krugman di una lunga stagnazione dopo gli anni del crollo si sta avverando. Non sarà lo zero virgola a cambiare le cose nei prossimi mesi e anche le locomotive del Pil mondiale arrancano. In Italia le cose vanno peggio.
A questi tassi di crescita, ci vorrà ancora una decina d’anni per tornare allo stesso livello del Pil del 2007. Nel frattempo il Censis ci dice che 10 milioni di italiani rinunciano a curarsi per mancanza di soldi, l’Istat che più di un giovane su tre non ha lavoro e che la povertà assoluta è tornata a crescere: 4milioni e 600mila italiani nel 2016.
Secondo. L’Europa. È diventata nel corso di questi anni non la soluzione, ma parte del problema. Uscire dall’euro risolverà i problemi? Fare l’euro senza politiche comuni è stato un grave errore. Ma è un errore anche pensare che senza euro sarebbe possibile tornare a fare politiche keynesiane.
Se si dovesse uscire dall’euro il segno sarà quello della destra nazionalista e non quello della sinistra radicale. I lavoratori hanno pagato un enorme prezzo per entrare nell’euro: non gliene facciamo pagare un altro per uscirne.
Serve un «aggiustamento radicale», dice Varoufakis: politiche comuni, democratizzazione della Bce, conferenza del debito, ecc. Non ci sono i rapporti di forza? Perché ci sono forse i rapporti di forza per uscire dall’euro senza il rischio di una catastrofe sociale?
Terzo. L’Italia ha sofferto più di altri questa crisi, ma l’ha affrontata con gli stessi strumenti del neoliberismo europeo ed atlantico: riduzione della spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, mercato. Prima con la tecnocrazia di Monti, poi con il populismo dall’alto di Renzi, le politiche seguite sono state le stesse: quelle neoliberiste, con risultati economici catastrofici, conseguenze sociali drammatiche, un sistema industriale devastato. Le imprese italiane sono state svendute al miglior offerente o (come la Fca/Fiat) se ne sono andate: il nostro paese è diventato una sorta di bad company del modello neoliberista globale.
Quarto. Il Pd – Renzi o non Renzi – ha alzato bandiera bianca di fronte alla destra. Ed è questo che rende impossibile alcuna coalizione o le primarie con un partito che ha fatto politiche neoliberiste. C’è una mutazione strutturale e irreversibile che ha trasformato il Pd, da «partito» di centro-sinistra a «partito della nazione», coacervo di comitati elettorali. La minoranza del Pd – che ha alternato afonia politica ed errori madornali – appare assolutamente ininfluente e residuale.
Quinto. Il centro-sinistra è morto. Dobbiamo invece costruire una sinistra alternativa, fondata sull’autonomia e non sull’opportunismo di alleanze spurie. Il congresso di Sinistra Italiana può dare un decisivo contributo, ma senza autosufficienza. Solo un campo aperto di una politica diffusa e plurale – fatto di partiti, movimenti, associazioni, liste civiche, territoriali, organizzazioni del lavoro, ecc. – può ricostruire una cultura politica che si sottrae ad un politicismo rifiutato da chi a sinistra non va più a votare. Si tratta poi di prepararsi alle imminenti elezioni. In coalizione con questo Pd non si può andare. E nemmeno con tre più liste diverse alla sinistra del Pd o con una lista frutto di accordi dell’ultimo minuto.
Serve da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione. E serve una leadership corale capace di federare e di interpretare – anche con la propria storia personale nelle lotte sociali e per i diritti- la volontà di unità e di cambiamento che ci ha consegnato il voto del 4 dicembre. A queste condizioni è possibile mantenere aperta la costruzione di una sinistra capace di dare voce alle domande di cambiamento del paese.
La Repubblica, 28 gennaio 2016
A PALAZZO Chigi c’è una grande anticamera a pianta quadrata: dà accesso alla Sala Verde, quella in cui il governo ospita riunioni medio-grandi come quelle coi sindacati che fanno parte della archeologia politica; e anche agli appartamenti del presidente del Consiglio. Il bianco panna che la connota, illuminato dal riflesso dei lucidi marmi del pavimento recentemente restaurato, gli dà l’aura algida e solenne che deve avere un luogo di Stato. Sui lati corre una lunga galleria fotografica: cornicine anch’esse chiare, con sobrio filetto ad anticarle e uniformarle. E dentro i primi piani dei presidenti del Consiglio dell’Italia unita. Una lunga sequenza che finisce sempre con il presidente del Consiglio in carica, collocato sempre nella stessa posizione, appena di lato alla porta del suo ingresso. La nomina di un nuovo premier, fa infatti scivolare indietro tutti gli altri: sicché ad ogni cambio di governo Cavour arretra sul muro e con lui tutti gli altri, in un moto retrogrado che ha qualcosa di simbolico.
È in questa anticamera qui che bisognerebbe fare il giorno della memoria. Perché fra le sobrie immagini, spicca la foto di Benito Mussolini. La sua foto apre una diluvio di domande: e alle domande più serie e difficili questa giornata non deve dare risposte, appaganti e sedative; ma deve dare ragioni per tenerle aperte, come gli occhi con cui lo spirito critico guarda il mondo.
Com’è possibile che quella foto sia lì? Qualcuno può immaginare cosa accadrebbe se ci fosse una foto di Hitler nell’anticamera di Merkel? E qualcuno si chiede cosa può pensare di questo Paese chi, in visita alla sede del governo, vede un’Italia che ingloba e riassorbe anche il proprio passato più nero, e si autoassolve accontentandosi di far identificare in un cortocircuito emozionale i discendenti dei carnefici col dolore dei discendenti delle vittime?
Eppure Mussolini è lì. Come tante vestigia del regime che ci diede l’infamia delle leggi razziali, che predispose il laccio in cui fu preso l’ebraismo italiano, che consegnò il paese alla guerra e vide 600mila internati militari italiani preferire il lager al ritorno nell’Italia repubblichina. In uno scambio storicamente datato nel quale la chiusura della guerra civile e l’impegno dei partiti di massa per un patriottismo costituzionale valeva la scelta di non rimuovere i simboli netti e allusivi che disegnarono l’Italia fascista. È lì che si colloca (da quando?) questa foto, che non può stare lì “così”.
Per toglierla ci vorrebbe niente. E allora si dovrebbe discutere come l’Italia rappresenterebbe in quel vuoto il crimine politico e morale di quel regime: che non è stato un “male assoluto” (come dicevano i missini pentiti), ma un male umanissimo, costruito dalla cecità e dalla pulsione politicamente suicidaria di una generazione che non capì che l’emergenza storica richiede unità e non cipiglio divisivo che allora dilaniò il Paese.
Oppure la si potrebbe lasciar lì: per non occultare una verità storica. Come dice Giuseppe Galasso, uno di quegli uomini che dà lustro ad una categoria spesso meritevole della irrilevanza in cui sguazza, quella foto dice chi ha fatto e chi ha ereditato quel male. Può stare lì se ricorda i gesuiti mandati dal capo del governo dopo la liberazione a chiedere di salvare la “parte buona” delle leggi razziali; le università che non restituirono le cattedre agli espulsi del 1938; il risarcimento morale negato ai 600mila Imi che preferirono rimanere schiavi nei lager piuttosto che tornare in Italia al soldo dei repubblichini; coloro che a 5mila lire denunciarono gli ebrei; i cappotti di chi a Fiume andò ad arrestare la famiglia di Andra e Tatiana Bucci; e quel male che non ammette sottrazioni e accomodamenti.
Per darle questo significato non possiamo contare sul “patriottismo costituzionale” da noi esile e raro (da noi si arriva al massimo alla faziosità costituzionale che ispirava l’accozzaglia del No): ci vorrebbe una scelta, un gesto. Quello di un passante che rompa almeno il vetro e supplichi il governo di non ripararlo mai. Quello di un artista che la macchi di sangue. Oppure bisogna che stia lì, senza null’altro che la coscienza di tutti nel saperla lì: così che il rischio di doverci vergognare se un ospite dovesse notarla incomba sulle nostre istituzioni, sulla nostra storia e sul nostro Paese: e consegni al sapere il compito di fare di una generica memoria la sostanza di una vita civile, ancora oggi fragile.
La città invisibile online, n. 56 26 gennaio 2017 (c.m.c.)
Il quotidiano trattamento da “dannati della terra” riservato a bambini, donne e uomini in fuga da disastri sociali e ambientali, rende manifesta la strategia securitaria cui in Italia è stata ridotta la politica dell’accoglienza.
Una civile e lungimirante politica dell’accoglienza non può relegare i profughi dello sviluppo nelle inqualificabili macrostrutture: CIE (Centri di Identificazione e di Espulsione) o CPA (Centri di Prima Accoglienza). Il “popolo nuovo” ha invece bisogno di case e diritti, lavoro, uguaglianza e cittadinanza. Di ospitalità diffusa e capillare, come già messa in pratica in alcune, isolate, realtà peninsulari.
A fuggiaschi, clandestini per legge e rifugiati politici devono essere destinati alloggi dignitosi nel cuore delle città e dei centri minori. Non ricoveri provvisori nelle estreme periferie, non ghetti, non soluzioni securitarie.
Nelle città italiane abbondano edifici vuoti, privati ma più spesso pubblici, non raramente di valore monumentale, in attesa di essere venduti a faccendieri e multinazionali. Edifici che in tal modo, da bene comune, diventano oggetto di speculazione immobiliare e la cui trasformazione, il più delle volte in residenze e alberghi di lusso, contribuisce a desertificare le città e i centri storici. Città che mancano invece di luoghi di socialità, di aggregazione e di cura e che necessitano di essere ripopolati.
Per attrarre nuovi abitanti, in una nazione dal tasso di natalità assai basso, la città può rispolverare le virtù civiche dell’accoglienza attingendo a una plurisecolare tradizione ospitale. Una hospitalitas rivolta ai bisognosi di ogni provenienza e fede.
Molti edifici pubblici (alcuni nati proprio in funzione dell’accoglienza) si trovano ora in stato di abbandono e potrebbero essere riabilitati allo scopo. Caserme, ospedali, ex conventi, scuole etc., costituiscono un imponente «vuoto pubblico nazionale». Cui si aggiunge il patrimonio edilizio privato, per il quale non va sottovalutata la possibilità, specie da parte dei Comuni, di formulare protocolli speciali con i proprietari disponibili; laddove invece la proprietà è rappresentata da persone non fisiche – spesso immobiliari a scopo di lucro – che tengono fuori dal mercato sociale milioni di appartamenti, vanno ricercati gli idonei strumenti coercitivi: dalla tassazione progressiva sul vuoto inutilizzato fino alla requisizione per pubblica utilità.
Su questo monumento allo spreco sociale, economico e ambientale, gli enti potrebbero far leva per trasformare l’accoglienza in una delle componenti fondamentali delle azioni, non solo abitative, ma anche di rinascita di qualità civile e ambientale delle città.
La presenza di nuova popolazione può infatti favorire la ricostituzione del tessuto socio-culturale urbano e rurale, oggi slabbrato. Di più, i migranti possono essere gli attori principali di nuove occasioni lavorative, nella cura e nel recupero degli ambienti di vita, soprattutto nei centri abbandonati che, come già avviene in alcuni contesti meridionali, vivono una nuova stagione di sostenibilità sociale legata all’agrorurale e al turismo socioculturale.
A tale riguardo, sarebbe auspicabile affidare ai migranti interessati ruoli più “strutturali” per rivitalizzare attività utili all’economia locale, specie nelle aree interne e abbandonate dell’arco alpino e dell’«osso appenninico», che costituiscono la parte preponderante del territorio italiano. Queste aree, che il dramma dei terremoti nell’Appennino dell’Italia centrale ha evidenziato nella loro struttura di un fittissimo reticolo insediativo di piccole città, borghi, frazioni, e che costituisce un patrimonio estesissimo e unico in Europa, possono diventare, con l’aiuto dei migranti, i luoghi di una nuova civilizzazione collinare e montana, di un ripopolamento urbano e rurale agro-ecologico in grado di curare le urbanizzazioni malate delle aree metropolitane di pianura.
Iniziative di livello e responsabilità pubblica municipale, di lungo termine, conformi ai tempi della pianificazione e non a quelli dell’emergenza, potrebbero esaltare la vocazione delle città, dei piccoli centri, dei borghi e delle loro campagne come luoghi in cui si intrecciano storie e nascono nuove identità perché esse sono plurimondi di vita. Luoghi dello stare insieme, della convivenza, della solidarietà. Luoghi da cui ripartire per costruire un tessuto sociale in cui si riconoscano e crescano le generazioni future.
Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg le cartelle EsodoXXI e Accoglienza Italia
il manifesto, 28 gennaio 2017
È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady.
È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada.
Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale.
Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Stati uniti i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni.
Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras.
Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine. Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori.
la Repubblica, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)
L’ultima battaglia racconta molto di Gerardo Marotta. L’avvocato Marotta, che si è spento a Napoli alla vigilia dei novant’anni, l’ha condotta senza stancarsi, contro il trascorrere del tempo che rendeva ordinaria, trascurabile, una storia che restava pazzesca: la dispersione dei suoi trecentomila volumi raccolti con pazienza e ardore, rincorsi negli anfratti dell’ultimo rigattiere e che un groviglio burocratico lasciava marcire.
Trecentomila volumi: non sono tante le cose culturalmente più rilevanti. E dire che Marotta, il cappello a larghe tese indossato anche in casa, calcato sui capelli candidi, ne ha sostenute di battaglie per una cultura che rompesse i diaframmi elitari, diventando lievito civile.
«Dobbiamo chiedergli perdono », diceva ieri l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele. Mentre Massimiliano, figlio di Gerardo, ricordava «i libri sparpagliati in diversi depositi, da Arzano a Casoria, che attendono la ristrutturazione dei locali che dovrebbero ospitarli, acquistati dalla Regione nel 2008, ma per i quali manca il progetto esecutivo».
I ritardi, accumulati durante la precedente amministrazione, impediscono l’uso della biblioteca. Più il tempo passava, più i capelli dell’avvocato si appoggiavano sulle spalle e il viso smagriva al pensiero che con i libri si disperdesse il patrimonio che aveva condiviso non solo con la sua città. Nel 1975 Marotta diede vita all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Fondamentale era il “per”. Gli studi filosofici come obiettivo, un complemento di scopo o di vantaggio e non un genitivo. Per tanto tempo l’Istituto ha avuto sede a casa Marotta,all’estremità di Monte di Dio. Nel salotto affacciato su Capri ci si ammassava per ascoltare Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Norberto Bobbio, Paul Oskar Kristeller, Paul Dibon, Eugenio Garin e il meglio del pensiero filosofico europeo.
Marotta era un principe del diritto amministrativo, il suo studio discuteva cause miliardarie. Ma lui lo lasciò, vendette proprietà. I soldi servivano per l’Istituto e per i libri. All’inizio degli anni Ottanta gli fu assegnata la seicentesca Biblioteca dei Girolamini. Ma prima del trasloco, subito dopo il sisma del 1980, quelle stanze furono aperte ai terremotati. Nel bel film La seconda natura di Marcello Sannino si vede Marotta che racconta ai senzatetto il divario che a Napoli ha separato l’alta cultura e il popolo e aggiunge che una casa andava loro assicurata, ma non la sala con i volumi appartenuti a Giambattista Vico. Al che un uomo gli si avvicina: «Te do ‘nu vaso ‘nfronte» (ti do un bacio in fronte).
Nel salotto-istituto si respirava il lascito crociano, degli hegeliani napoletani e del meridionalismo liberale (Giustino Fortunato più che Gaetano Salvemini). Su tutto aleggiava la Repubblica giacobina del 1799 e quando parlava dei giovani impiccati dal re Borbone, Marotta era colto da commozione vera. Avvicinandosi Tangentopoli, Marotta istituì le Assise di Palazzo Marigliano, laboratorio sulla storia e la società meridionale.
Per i duecento anni dalla Repubblica del 1799, sindaco Bassolino, Marotta fece aprire il portone principale del Palazzo Serra di Cassano, dove si era trasferito l’Istituto, chiuso da due secoli. Si affacciava su Palazzo Reale e i Serra di Cassano lo avevano sbarrato per disprezzo verso i Borbone che avevano ucciso il figlio Gennaro, fra i protagonisti della rivoluzione giacobina. Il portone era il simbolo della separatezza fra un potere nutrito di umori plebei e una cultura mortificata. Fu riaperto, poi di nuovo chiuso. Napoli sembrava la capitale di una rinata Repubblica delle Lettere, dell’Istituto scrivevano riviste internazionali.
Gli ultimi anni sono più tristi: i libri dispersi, i finanziamenti risicati che non consentivano più le borse di studio né i convegni internazionali. Un crepuscolo ha avvolto la spettacolare scalinata di Ferdinando Sanfelice e tutto Palazzo Serra di Cassano, dove Marotta sempre più piccolo, si aggirava intabarrato in un cappotto nero. Mai domo, però. «Martedì mattina sembrava riprendersi », racconta Massimiliano, «per i suoi novant’anni voleva una lezione su Bertrando Spaventa e su Luigi Einaudi».
Comune.info, 27 gennaio 2017 (i.b.)
Dopo la guerra che Israele scatenò contro la popolazione di Gaza nel 2008, Stefano Nahmad (la cui famiglia subì le persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
La guerra che Israele conduce contro il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti dell’esercito di Israele.
Come ogni anno si avvicina il giorno della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato. Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: «Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?». Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti.
Ammesso che la parola «identità» significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Yehoshua, Amos Oz, Gershom Scholem e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico.
Come scrive Singer nelle ultime pagine del suo Meshugah, «la libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta». Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. È il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: «Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico».
Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. «Due popoli due stati» é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanya o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude.
Per quanto io sappia che il sionismo va compreso nel contesto della persecuzione di cui gli ebrei sono stati vittime per secoli, non posso ignorare che l’ideologia sionista si è evoluta come nazionalismo colonialista, è causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, e rischia, nel lungo periodo, di rivelarsi un pericolo mortale per lo stesso popolo ebraico.
La violenza sistematica che lo stato di Israele ha scatenato negli ultimi sessant’anni alimenta la bestia antisemita che sta diventando maggioritaria nel subconscio collettivo. Poiché non si può affermare che il nazionalismo sionista è una politica sbagliata che produce effetti criminali senza essere accusati di antisemitismo, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo. Dato che non è possibile affermare a viso aperto che uno stato che si definisce ebraico e discrimina i cittadini sulla base dell’appartenenza religiosa è uno stato integralista, allora molti lo tacciono ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il governo colonialista di Israele con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico. Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne agli studenti della mia scuola? Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché sanno quel che sta accadendo. E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia? È vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo poche migliaia. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito «campo di concentramento») non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in un decennio hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). È vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam o i coltelli da cucina. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?
Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole «con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro».
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo del gruppo dirigente di Israele è un pericolo mortale. La violenza degli insediamenti, la violenza dell’operazione Piombo Fuso del 2008 e dei bombardamenti su Beirut del 2006 è segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche la prossima guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei palestinesi fa nascere in loro un odio che oggi si manifesta nelle forme del terrorismo islamista. Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e mezzo di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà da anni si manifesta l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.