«I legislatori degli Stati conservatori ipotizzano norme per imbrigliare la libertà di manifestare. Le critiche delle associazioni per i diritti civili».
la Repubblica online, 5 febbraio 2017 (p.s)
NewYork - Pugno di ferro contro le proteste: nell'America di Trump sempre più scossa dalle continue manifestazioni contro le azioni decise del presidente, almeno otto Stati americani stanno considerando misure straordinarie per punire coloro che partecipano a cortei non autorizzati o provocano disagi alle normali attività pubbliche. Occupazioni, blocchi stradali, concentramenti spontanei: se dunque le proposte di legge passeranno, mettere in atto queste forme di contestazione potrebbe diventare un rischio ben più elevato di quel che è oggi.
Il pensiero dei legislatori, d'altronde, non va solo alle recenti proteste anti Trump. Il riferimento fatto nelle proposte è legato anche ad altri eventi recenti: come l'occupazione a Standing Rock dei terreni Sioux dove dovrebbe passare la Dakota Access pipeline, gli incidenti accaduti a Ferguson dopo la morte per mano della polizia del giovane Michael Brown e quelli di Baltimora dopo l'uccisione di un altro afroamericano, Freddie Gray.
Gli esempi sono vari e fantasiosi: lo scorso novembre, subito dopo le elezioni, il repubblicano Doug Ericksen dello stato di Washington ha depositato una proposta per creare una nuova forma di reato, quello di "terrorismo economico": 5 anni di carcere a chiunque venga riconosciuto colpevole di "aver causato danni economici". Vetrine infrante dunque, ma anche blocchi stradali o ferroviari, e comunque tutto quello che fa perdere soldi a qualcuno.
In Minnesota, invece, s'ipotizza di far pagare le spese dell'intervento della polizia a chi viene arrestato durante una manifestazione non autorizzata. Mentre in Indiana, lo stato iper-conservatore da cui proviene il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, si vogliono inasprire le condanne per chi blocca autostrade ed aeroporti - come accaduto anche di recente dopo il bando anti musulmani di Trump. Sì, perché nello Stato dell'Indiana oggi quel tipo di protesta prevede solo una multa di 35 dollari, non molto salata dunque. Così ora si pensa a punizioni esemplari, con condanne di almeno 5 anni di carcere. Non solo: l'ipotesi è anche quella di proteggere per legge un eventuale guidatore che "senza averne l'intenzione" investirà un manifestante perché "esasperato".
Naturalmente le associazioni dei diritti civili inorridiscono: "Sarebbe un passo indietro di oltre 50 anni" ha detto al Washington Post Cody Hall, uno degli animatori della protesta degli indiani contro l'oleodotto a Standing Rock: "La libertà di parola è una conquista inalienabile".
Per ora, nessuna delle leggi è ancora stata votata e il margine che vengano bocciate perché incostituzionali è molto alto. Ma le proposte, tutte avanzate da Repubblicani, sono certamente il segno delle tensioni sempre più esasperate che stanno dividendo l'America.
Le donne con il loro impegno nel costruire nuove forme di organizzazione e aggregazione, sono in prima linea nel tracciare la via verso il raggiungimento di una piena cittadinanza».
reset, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
Una ragazza vestita di rosso che viene investita in pieno dai lacrimogeni, durante le proteste di Gezi Park, in Turchia, nel 2013; la giovane manifestante col reggiseno blu picchiata dai poliziotti, durante gli scontri in Piazza Tahrir al Cairo. Queste immagini, dopo aver fatto il giro del mondo, sono divenute simboli delle rivolte che hanno animato il Medio Oriente e il Nord Africa, a partire dal 2009, con le proteste del movimento dell’Onda Verde in Iran, poi in maniera sempre crescente durante le sollevazioni popolari della cosiddetta “Primavera Araba”, fino ad arrivare alle manifestazioni del 2013 in Turchia.
Questi scatti fotografici sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo internazionale, tramutando le ignare giovani protagoniste in icone del proprio tempo. Quanto è stato immortalato in quei fotogrammi, infatti, rappresenta esattamente la cifra dei cambiamenti e delle trasformazioni socio-politiche avvenute negli ultimi anni nella regione mediorientale: il ruolo e la presenza femminile e giovanile in prima linea all’interno di quei movimenti di contestazione e dissenso politico che hanno sfidato e, in qualche misura, sovvertito l’ordine politico costituito di alcuni paesi dell’area.
Questa nuova soggettività politica della donna deve, tuttavia, essere messa in relazione con la lunga storia di lotte e movimenti femministi di cui è stata testimone la regione mediorientale. Infatti, sebbene la condizione delle donne nei paesi arabo-musulmani venga per lo più descritta in Occidente, attraverso narrazioni mediatiche generalizzanti, come immobile e retrograda, occorre sottolineare invece che l’attivismo delle donne nei paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa) risale alla fine dell’800 e si interseca con la costruzione degli Stati-Nazione nel corso del ‘900, attraverso una storia fatta di percorsi plurali e di differenti anime: dai gruppi che adottano un approccio “secolare” che riconduce la religione alla sfera privata, a quelli che, invece, la pongono al centro delle rivendicazioni di uguaglianza, considerandola il principale strumento per reclamare e ottenere diritti.
Lo studio dell’evoluzione nel tempo dei movimenti femminili suddetti e della loro relazione con l’attivismo femminile attuale è stato il motore che ha portato avanti la ricerca di due studiose italiane, Renata Pepicelli, docente presso l’Università LUISS Guido Carli e l’American University of Rome, e Anna Vanzan, dell’Università degli studi di Milano. È appena stato pubblicato, infatti, sul numero 1/2016 della rivista “Afriche&Orienti” il dossier, da loro curato, “I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente: percorsi e generazioni ‘femministe’ a confronto”.
Il volume raccoglie al suo interno diversi saggi che, attraverso approcci diversi, raccontano le esperienze dei movimenti femminili in Marocco, Tunisia, Egitto, Iran e Turchia, ponendo l’accento sia sugli obiettivi comuni, sia sulla pluralità dei percorsi che caratterizzano le rivendicazioni delle donne nei diversi paesi. Oltre a Renata Pepicelli e Anna Vanzan, sono autrici dei saggi anche tre studiose che vivono, fanno ricerca e insegnano sulle rive nord e sud del Mediterraneo: Maryam Ben Salem, docente all’Università di Sousse e ricercatrice del CAWTAR (Center of Arab Woman for Training and Research); Mulki al-Sharmani, dell’Università di Helsinki; e Leila Şimşek-Rathke dell’Università di Marmara, Istanbul.
Attraverso approcci diversi, basandosi su metodologie storiche e sociologiche, le ricercatrici descrivono l’utilizzo, da parte delle giovani donne, di nuovi modelli di attivismo di cui sottolineano gli elementi di frizione, influenza e tensione in relazione a quelli usati dalle generazioni precedenti. Infatti, il filo conduttore che tiene insieme i diversi saggi è il tema del confronto tra differenti generazioni di attiviste e diverse forme di azione politica delle donne. Un confronto che a volte si caratterizza per elementi di continuità, a volte di rottura.
Ciò che emerge dalle ricerche contenute in questo volume è la diffusa e generale difficoltà per le nuove generazioni di ritrovarsi all’interno di un discorso femminista “tradizionale”. Infatti, secondo Renata Pepicelli, durante il periodo delle recenti proteste «una nuova generazione di attiviste è emersa al di fuori dei tradizionali spazi di azione delle organizzazioni femministe storiche»: il femminismo non costituisce più la principale identità militante di queste giovani, ma, piuttosto, un’identità tra molte altre.
Le loro rivendicazioni di genere sono, infatti, calate in una più ampia cornice di rivendicazioni di democrazia, libertà e giustizia. Come descrive Anna Vanzan nel suo saggio, durante la recente ondata rivoluzionaria che ha sconvolto la regione mediorientale «le donne, nonostante la loro cruciale presenza nelle piazze e nelle fasi della transizione, sembrano partecipare soprattutto come cittadine, ovvero senza articolare le proteste in una vera e propria cornice di genere».
In questo momento storico di transizione e cambiamenti, le donne sembrano aver momentaneamente accantonato le istanze femministe, per dare, invece, la priorità a obiettivi politici e sociali che riguardano l’intera società in cui esse vivono. Come afferma una giovane attivista marocchina, durante un’intervista, alla Prof.ssa Pepicelli: «non abbiamo bisogno di domandare, di scrivere, di trattare la donna in un contesto a sé stante, separato dalla società. Quando si dice democrazia automaticamente si parla di cittadini, donne e uomini, tutti uguali davanti alla legge».
Quello che è certo, dunque, è che le donne con il loro impegno nel costruire nuove forme di organizzazione e aggregazione, sono in prima linea nel tracciare la via verso il raggiungimento di una piena cittadinanza.
«La Repubblica
Donald Trump e Paolo Gentiloni si sono parlati per la prima volta al telefono: una breve conversazione, mezz’ora circa, per conoscersi e avviare la discussione su alcune questioni di interesse comune. Il tema più sentito, che ha occupato un terzo della telefonata, è stato la Libia, anche in chiave di lotta al terrorismo. Un argomento su cui Trump ha insistito particolarmente nel corso della conversazione. Gentiloni gli ha illustrato i termini dell’accordo appena stipulato con Tripoli per la lotta contro il traffico di esseri umani e per le politiche dell’accoglienza e la regolazione dei flussi migratori nel rispetto dei diritti umani. Poi hanno discusso della commessa degli F-35, del vertice di Taormina del G7 a maggio, del ruolo della Nato e dell’Unione europea.
I due leader hanno ribadito l’importanza dell’alleanza e della cooperazione tra Italia e Stati Uniti su problemi regionali e globali.Non è ancora chiaro, ovviamente, se si nasconda dell’altro dietro questo giudizio ufficiale. Nelle precedenti telefonate con altri capi di Stato e di governo, infatti, il neopresidente americano aveva dimostrato di voler adottare un stile più battagliero e meno diplomatico: con il premier australiano Malcolm Turnball, ad esempio, si era irritato a tal punto su un accordo per i rifugiati, da buttargli giù il telefono. L’obiettivo di Trump, secondo gli osservatori, è sempre lo stesso: conquistare una posizione negoziale più forte nei confronti degli interlocutori, cercando di metterli sulla difensiva.
È successo così anche con Gentiloni? Certo Trump ha accolto con piacere l’invito di Gentiloni a venire a Taormina con la moglie Melania, in primavera. Il presidente americano, ha detto, sarà felicissimo di partecipare perché l’Italia occupa un bel posto nel suo cuore, grazie anche ai tanti elettori italoamericani che lo hanno votato.
Oh quanto piace agli arroganti sindaci dell'era trumpista indossare la stella da sceriffo e brandire, se non la colt, il virile manganello. Per fortuna che c'è chi non si fa convincere« Intervista di Alberto Vitucci a Donatella Ferranti. La Nuova Venezia, 5 febbraio 2017 (m.p.r.)
«Più poteri ai sindaci e processi per direttissima affidati ai giudici di pace. Assurdo e anche inutile. Nel disegno di legge in discussione al Senato l’inasprimento delle pene c’è già. E per i reati minori la strada da seguire non può essere solo quella dell’inasprimento delle pene, ma la socializzazione di chi compie questi reati». Donatella Ferranti, ex magistrato a presidente della Commissione giustizia della Camera, boccia senza appello la proposta di legge del centrodestra sollecitata dal sindaco Luigi Brugnaro.
I deputati Renato Brunetta (capogruppo di Forza Italia alla Camera), Andrea Causin (Alleanza popolare-Ncd) e Maurizio Lupi (capogruppo del Nuovo centrodestra) l’hanno illustrata due giorni fa a Montecitorio, alla presenza del sindaco Brugnaro. «Vandali e ubriachi in cella per una notte, processi per direttissima ai giudici di pace, maggiori poteri ai sindaci».
Onorevole Ferranti, perché questa proposta non le piace?
«Non la conosco nei dettagli, ma mi pare un diversivo rispetto alle questioni più importanti. Ai promotori dico: se davvero hanno a cuore una giustizia che funzioni meglio, approvino il disegno di legge in discussione di cui è relatore il senatore Casson. Lì c’è tutto, a cominciare dall’inasprimento delle pene e dal risarcimento del danno».
Questa proposta non va nella stessa direzione?
«No. Mi pare che si voglia distogliere l’attenzione dalle questioni strutturali della giustizia».
Qui si parla di piccoli reati.
«Appunto. Forse i proponenti di questo nuovo disegno di legge non si sono accorti che è già in vigore la legge 76 del 2014, che permette di sospendere il processo all’imputato che sia impiegato in lavori di pubblica utilità. Non soltanto punizione, ma il recupero sociale e l’educazione».
La proposta prevede di affidare il processo per direttissima al giudice di pace per chi è colpevole di danneggiamento, ubriachezza molesta.
«Un modo per non risolvere nulla. I giudici di pace hanno già il loro daffare, ma poi che il processo per direttissima lo faccia il giudice di pace e non quello ordinario non risolve nulla».
Perché?
«Se uno danneggia una vetrina mica gli puoi dare l’ergastolo. Se la pena è come ovvio al di sotto della sospensione perché non siamo in presenza di gente con precedenti penali, l’imputato resta a piede libero. E non si risolve nulla. Molto meglio seguire l’altra strada, ora prevista dalla legge. Cioè metterlo alla prova con lavori di pubblica utilità nel suo comune. Riparare le strutture danneggiate, rimettere a posto i giardini, pulire le strade. E con i risarcimenti».
Niente carcere allora?
«Abbiamo una visione molto diversa da chi intende la pena come recupero sociale. Non funziona così. Soprattutto per i piccoli reati. Credo che si debba seguire la strada del recupero».
Niente maggiori poteri ai sindaci, come chiede Brugnaro?
«Proprio no. Il sindaco ha compiti di sicurezza e di prevenzione, certo non di pubblica sicurezza. Il nostro ordinamento non lo prevede».
I vigili urbani hanno meno possibilità di intervento.
«Assolutamente no. La polizia urbana ha già oggi compiti di polizia giudiziaria in certi casi. Ma è alle dipendenze dell’Autorità giudiziaria per l’ordine pubblico e non del sindaco. Questo sarebbe anticostituzionale».
Insomma, un “no” a questa proposta che viene dall’opposizione ma anche da una forza di governo come Ncd.
«Collaborazione massima a discutere di questi temi. Ma a fine mese riprende l’iter il disegno di legge sul nuovo processo penale. Se il centrodestra vuole una giustizia più efficiente lo può votare. Lì dentro c’è tutto»
Il missionario camboniano, costretto dai suoi superiori ecclesiastici ad abbandonare l'Africa, ed attualmente esiliato a Napoli, riprende nei confronti dell'attuale governo e dell'episcopato italiani la pesante denuncia dell'inumanità del Migration compact, già espressa nei conronti del Governo Renzi. Lettera del 4 febbraio 2017
“Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente della Commissione Europea, Tusk - possiamo ora chiudere la rotta libica.” Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia.
E’ la vittoria del cosidetto Migration Compact (Patto per l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora Ministro degli Esteri ,Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, -aveva affermato lo scorso anno davanti alla Commissione Trilaterale Gentiloni,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE hanno scritto con al Turchia - ha affermato C. Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati - una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.”
Visto il successo(!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli.
Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea di protezione’(una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact , definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario, anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi.chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’ significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari- scrive il missionario Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un diritto!”
Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa a"svilupparsi" per impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli, affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani. Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato,campi profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager.
”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso novembre- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la "bancarotta dell’umanità"! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…molto cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.”
Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come missionari.
Non possiamo più tacere: è in ballo la vita, la vita di milioni di migranti, che per noi sono, con le parole di Papa Francesco.”la carne di Cristo.”
Riferimenti
Vedi il precedente articolo di Alex Zanotelli sul Migration compact del maggio 2016 No Migration compact su eddyburg i numerosi articoli sul Migration compact e di Alex Zanotelli li trovi digitando le parole sul "cerca".
L'Imperatore è palesemente matto, non è un tiranno qualunque. «Procuratore di Seattle sospende il divieto. È il caos: ripristinati i visti per i cittadini di sette Paesi “Anche un presidente è soggetto alla legge”. La replica: “Atto ridicolo”. E annuncia contromosse».
la Repubblica, 5 febbraio 2017
NEW YORK.-L’America riapre. Non sono più sigillate le frontiere con i sette Paesi “proibiti”. Donald Trump incassa la prima seria sconfitta a due settimane dall’insediamento. È un giudice federale di Seattle, di nomina repubblicana, ad annullare il suo ordine esecutivo sigilla-confini: da venerdì sera e con effetto su tutto il territorio nazionale. Il presidente ha una reazione violenta, sabato mattina twitta un primo attacco al magistrato che lo ha bloccato: «L’opinione di questo cosiddetto giudice, che impedisce alla nostra nazione di far rispettare la legge, è ridicola e sarà rovesciata!». Seguono altri tweet che trasudano indignazione: «Quando un Paese non è più in grado di decidere chi può entrare per ragioni di sicurezza – guai grossi! Morte e distruzione». L’attacco personale al giudice che ha sospeso il suo decreto è inusuale per un presidente degli Stati Uniti; ma non per Trump: già in campagna elettorale lui accusò un magistrato che indagava sulla truffa della Trump University di essere «prevenuto perché di origini messicane». Il capo dell’opposizione democratica al Senato, Chuck Schumer, condanna Trump per «il disprezzo verso un magistrato indipendente, la prova di una mancanza di rispetto verso la nostra Costituzione».
Le conseguenze della sentenza di Seattle sono immediate. Il Dipartimento della Homeland Security – che ha la polizia di frontiera alle sue dipendenze – si è dovuto piegare subito e ha confermato il ritorno allo status quo precedente. I cittadini dei sette Paesi che erano stati messi al bando (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen) sono riammessi negli Stati Uniti purché muniti del visto. Cessano i problemi anche per quei cittadini di altre nazionalità, europei inclusi, che la settimana scorsa erano stati bloccati perché avevano visitato uno dei sette paesi della lista nera. Le compagnie aeree, a cominciare da quelle del Medio Oriente come Etihad e Qatar Airways hanno ripreso ad accettare viaggiatori diretti negli Stati Uniti dai sette Paesi.
L’attenzione si concentra sul “cosiddetto giudice” che ha bloccato Trump, e contro il quale è annunciato un contro-ricorso da parte del governo. Si chiama James Robart, 69 anni, dal 2004 presiede la corte federale distrettuale di Seattle nello Stato di Washington. Fu nominato da George W. Bush e quindi è “in quota ai repubblicani”: il sistema giudiziario americano è una complessa sovrapposizione fra magistrati di carriera, cariche elettive, e funzioni di nomina governativa che come tali hanno almeno all’origine una coloritura politica. Robart ha fama di essere un moderato e questo si riflette in parte nella sua sentenza di venerdì, dove c’è un richiamo alle prerogative del federalismo care alla destra repubblicana. Il giudice di Seattle si è mosso in conseguenza di una denuncia degli Stati di Washington e del Minnesota che hanno accusato il decreto Trump di danneggiarli nei loro diritti e nel loro interesse economico, chiudendo le frontiere a un’immigrazione essenziale per le aziende. Dando ragione a quei due Stati, il giudice ha costruito un’argomentazione che può mettere in difficoltà i repubblicani fino alla Corte suprema, dove potrebbe sfociare il contenzioso sull’ordine esecutivo. Nell’immediato la Casa Bianca spinge per avere una contro-sentenza in tempi brevi.
È difficile fare previsioni su chi vincerà, ma intanto il decisionismo su cui Trump ha costruito la propria immagine, si è arenato. L’ordine esecutivo che proibiva gli ingressi da 7 Paesi ha avuto un’esecuzione confusa e pasticciata dall’inizio, fino allo stop completo con la sentenza di Seattle. L’immagine del presidente- imprenditore che demolisce in pochi giorni l’America di Barack Obama, ne capovolge tutte le riforme alla velocità della luce, si scontra con una realtà più complicata da governare. Il sistema politico della più antica liberaldemocrazia occidentale almeno per ora non si lascia comandare come i candidati di un reality-tv. Improvvisazione e dilettantismo cominciano a pesare su Trump, che ha voluto accelerare il passo senza neppure avere attorno a sé una vera squadra: molti dei suoi ministri compreso quello della Giustizia non hanno ancora superato la conferma al Senato. In quanto alla magistratura è un corpo ramificato e con tradizioni di indipendenza, non basta blindare la Corte suprema per avere risolto una volta per tutte l’ostacolo dei contropoteri.
Una vergogna tutta italiana. Il nostro governo ha convinto i governi dell'ex Europa ad avviare un programma di respingimento continentale incoraggiando i carnefici, gli schiavisti, i governanti corrotti i saccheggiatori di tutto il mondo, a unirsi in un grande sforzo per ricacciare all'inferno i dannati dallo "sviluppo" che volessero evaderne.
il manifesto, 4 febbraio 2017
«Il muro di Malta. Via al piano italiano per fermare le carrette in partenza dalla Libia. Soldi e mezzi al leader libico, che però non controlla il paese»
A questo punto c’è solo da sperare che la stretta sui migranti voluta dall’Europa per impedire loro di partire dalla Libia, non finisca per soffocarli. Il rischio non solo esiste, ma è anche probabile se non addirittura scontato.
Il primo passo perché questa accada è stato fatto ieri nel vertice dei capi di Stato e di governo che si è tenuto a Malta. I 28 leader europei hanno sostenuto il piano messo a punto dall’Italia Roma e che prevede di affidare alla Guardia costiera libica il compito di riportare indietro i barconi carichi di disperati, mentre le navi della missione europea controlleranno dal limite delle acque internazionali. Sono inoltre previsti aiuti economici sia alle comunità locali costiere, che alle tribù che popolano il sud del paese e che l’Unione europea spera di coinvolgere nel contrastare i migranti provenienti dal Corno d’Africa attraverso Ciad e Sudan.
Tribù nomadi che, ha ricordato ieri il premier maltese Jospeh Muscat, oggi guadagnerebbero fino a «sei milioni a settimana» aiutando le organizzazioni criminali che trafficano in migranti e con le quali, sempre secondo Muscat, sarebbero già stati avviati dei contatti. In che modo questa gente potrà fermare i migranti, sembra essere per tutti un problema secondario. E questo anche se la Ue si impegna a migliorare le condizioni di vita dei centri nei quali migliaia di migranti vengono tenuti prigionieri, anche con l’aiuto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma mentre l’Oim già la prossima settimana potrebbe essere a Tripoli per effettuare i primi sopralluoghi, qualche resistenza ci sarebbe da parte dell’Unhcr. Non ha caso ieri l’organismo dell’Onu ha sottolineato i rischi di un piano che si limita a parlare genericamente di migranti senza considerare la posizione dei rifugiati.
Per finire ci sono poi i capitoli relativi alla fornitura di mezzi (sono previste otto motovedette per la futura guardia costiera insieme a droni per il controllo delle frontiere, equipaggiamenti, infrastrutture e training di addestramento) e al finanziamento del piano. E qui si rilevano altri problemi. In attesa che il parlamento europeo decida sui fondi da stanziare per i migration compact (fino a 40 miliardi di euro) per ora di fatto ci sono solo 200 milioni di euro. Pochi, come non ha mancato di far notare il premier libico Fayez al Serraj parlando nei giorni scorsi sia con il premier italiano Paolo Gentiloni che con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.
Proprio Gentiloni ieri a Malta non tratteneva la soddisfazione per i consensi ricevuti dai partner europei al piano italiano. In realtà quella di Roma e Bruxelles è una scommessa dagli esiti molti incerti. Intanto perché tutto si basa sulla tenuta di Serraj, nella speranza che il riconoscimenti che gli arrivano da interlocutori internazionali possano aiutarlo a rafforzarsi. Ammesso e non concesso che questo avvenga si tratta sempre di un premier che controlla un’area ristrettissima del paese. E anche la nuova Guardia costiera libica, che da ottobre viene addestrata dalla missione europea Sophia, potrà controllare solo poche miglia delle coste libiche.
C’è poi il problema non trascurabile della sorte dei migranti. Che fine fanno quelli riportati indietro dalla Marina libica? Serraj può garantire l’accesso alle organizzazioni internazionali solo in una minoranza dei 24 centri di detenzione presenti nel paese, quelli che si trovano in Tripolitania, regione solo in parte controllata dal governo di accordo nazionale che presiede. Tutti gli altri, compresi le centinaia di magazzini e hangar dove i trafficanti tengono prigionieri in condizioni disumane uomini, donne e bambini, sono e restano fuori controllo. Senza contare che, proprio in vista di un’attuazione del piano europeo, le bande criminali stanno già organizzando nuove rotte, compreso un passaggio a est della Libia nella parte controllata dal generale Haftar amico dell’Egitto e della Russia. Mettendo così di fatto il traffico di migranti nelle sue mani. E rendendo così l’Europa più ricattabile di quanto non lo sia oggi.
Nel vertice di La Valletta i 28 si sono trovati d’accordo nell’intensificare i rimpatri dei migranti irregolari (ma accordi in tal senso esistono solo con quattro paesi), sorvolando però sui ricollocamenti europei ancora al palo. Una «rigidità», come l’ha definita lo stesso Gentiloni, sulle quali l’Europa non sembra intenzionata a cedere. All’ultimo minuto, invece si è riusciti a cancellare dal documento finale del vertice ogni riferimento alla riforma di Dublino. La formula utilizzata inizialmente non piaceva all’Italia che è riuscita a farla togliere grazie all’aiuto del premier greco Tsipras. La proposta che gira da tempo in Europa continua a penalizzare i paesi di primo sbarco contrariamente a quanto vorrebbero Italia, Grecia e la stessa Malta. Ma su questo l’unanimità dimostrata dai leader nel fermare i disperati in Libia, si subito persa.
«La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa "come questione strutturale" in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, "strumento primario di violenza", uno dei nodi globali». il manifesto,
4 febbraio 2017 (c.m.c.)
Il movimento delle donne verso lo sciopero globale. Per arrivare all’8 marzo – quando ognuna si asterrà da ogni attività produttiva e riproduttiva, reinventando nuovamente la formula proposta dalle argentine e, prima, dalle polacche -, si moltiplicano i momenti di confronto. Oggi e domani, le donne che hanno manifestato a Roma il 26 novembre al grido di «Non una di meno» (oltre 200.000 persone in piazza) si riuniscono a Bologna per discutere e rilanciare le proposte degli 8 tavoli tematici: Lavoro e Welfare, Femminismo migrante, Diritto alla salute sessuale e riproduttiva, Educazione e formazione, Percorsi di fuoriuscita dalla violenza, Sessismo nei movimenti, Narrazioni della violenza attraverso i media, Piano legislativo e giuridico: verso un Piano femminista contro la violenza.
Come si può interrompere e sovvertire ogni attività produttiva e riproduttiva? Quali pratiche possono esprimere il rifiuto dei ruoli imposti dal genere, il rifiuto di ogni forma di violenza contro le donne e della loro oppressione, dentro e fuori i luoghi di lavoro? Allo sciopero globale hanno aderito già 30 paesi. All’indomani dell’insediamento di Trump negli Usa, milioni di donne sono scese in piazza per manifestare «contro il volto patriarcale e razzista del neoloberismo americano».
Un inedito ciclo di lotte femministe si sta «facendo largo nel mondo»? Venerdi sera, a Roma, nello spazio autogestito Communia, in tante ne hanno discusso con Celeste, Magda ed Eleonor, provenienti dall’Argentina, dalla Polonia e dalla Finlandia (Eleonor, di origine etiope-eritrea).
La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa «come questione strutturale» in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, «strumento primario di violenza», uno dei nodi globali. E così, anche Al tavolo sul Femminismo migrante è emersa la necessità di «fare una critica radicale al sistema di “accoglienza” (dagli Hotspot agli Sprar) ed espulsione», basato su una logica violenta «di potere e privilegio», che spesso nella materialità si riduce a esercitare controllo e repressione: «un sistema che priva le donne migranti della propria libertà e autodeterminazione».
E anche la civilissima Finlandia – dice Eleonor – messa alla prova di massicce richieste di asilo si chiude, stringe le maglie della legge e non accoglie i rifugiati. Inoltre, in Finlandia, «il livello della violenza domestica contro le donne è molto alto anche se poco percepito. E le donne nel lavoro, vengono pagate meno». Il diversity management – se n’è discusso al tavolo Lavoro e welfare – «è ormai un meccanismo di valorizzazione e messa a produzione delle soggettività stesse». Quanto alla violenza domestica, fra le proposte del tavolo su Piano legislativo e giuridico, c’è «l’urgente necessità di una modifica legislativa che introduca la violenza intra-familiare quale causa di esclusione dell’affido condiviso e il divieto di mediazione nei casi di violenza intrafamigliare».
Ma poi: come intendiamo noi occidentali il femminismo «in relazione alle donne immigrate nel nostro paese e in Europa?» Che uso facciamo dei termini «a partire dal nostro posizionamento privilegiato»?
Le donne immigrate sono anche europee, provenienti dai paesi dell’est. Magda, che ha messo in moto il primo sciopero globale intercettando un sentire diffuso, racconta la lotta delle donne polacche intorno alla legge sull’aborto che le destre vorrebbero ulteriormente peggiorare: «Nel periodo comunista – dice – l’aborto era un diritto pienamente garantito. Dopo l’89 è diventato il primo bersaglio della chiesa cattolica. Nel ’95, la legge è stata peggiorata e l’aborto limitato solo a pochissimi casi. Una soluzione di compromesso da cui ora ci tocca ripartire. Nel socialismo le donne avevano la parità totale e piena occupazione. Solo che, dopo aver guidato il trattore, tornavano a casa a fare il doppio lavoro».
Un'occasione per dire che la sbarra va posta sempre in alto: verso il sovvertimento complessivo dei rapporti di potere. «Perché ad ogni femminicidio il patriarcato si rifonda», dice Celeste, raccontando il percorso in crescendo del movimento delle donne argentine.
(segue)
Forse la critica più rilevante che una parte di Sinistra Italiana muove al gruppo dirigente impegnato a svolgere il suo congresso fondativo è quella di un rischio di chiusura minoritaria. Una preoccupazione che appare anche ragionevole, visti gli esiti di tanti tentativi falliti nel recente passato. Ma tale preoccupazione è essa stessa miope e minoritaria, assai più di quanto non appaia a prima vista. Essa infatti guarda solo al breve periodo, agli esiti elettorali prossimi, alla frazione di presenze possibili in Parlamento nell’immediato futuro. Esattamente le preoccupazioni, tutte inclinate sull’immediato, nate sotto urgenze elettorali, che hanno fatto fallire, più o meno, tutti i precedenti tentativi di creare un soggetto politico di sinistra.
Non che la consistenza elettorale e la presenza in Parlamento siano elementi che un nascente partito politico debba trascurare. Ma essi non possono costituire gli aspetti condizionanti della sua nascita e del suo progetto generale. Un nuovo soggetto politico non può vincolarsi sin dalla fondazione ai problemi tattici del momento, e deve proiettarsi in una temporalità che scavalca il calendario delle tornate elettorali.
Perché il suo problema e il nostro, quello dell'Italia intera, non è la percentuale di consensi che riuscirà a ottenere alle prossime elezioni. E’ la creazione di un forza capace di rimettere in moto il conflitto anticapitalistico, di ridare protagonismo politico ai lavoratori, ai giovani e al ceto medio impoverito, senza cui il declino del paese sarà irrimediabile.
Certo, non si può ignorare che l’iniziativa di D’Alema e compagni sta creando un nuovo scenario. Ma attenzione: si tratta di una iniziativa a suo modo disperata, resa peraltro necessaria dall’avventurismo del loro segretario. Quel Matteo Renzi che tanti in Italia avevano scambiato per uno statista. Un tentativo che si svolge all’interno di un’area politica moderata su cui occorrerebbe esprimere un giudizio storico-politico. I tanti che oggi invocano la nascita di un nuovo centro-sinistra dovrebbero infatti rammentarsi che per realizzarlo occorrerebbe la presenza di un partito di sinistra. Che non c’è. E’ esattamente quel che sta cercando di fare Sinistra Italiana.
E’ dunque un errore pretendere che una nuova formazione, nata per affrontare un lavoro di lunga lena, si inceppi nelle questioni tattiche delle alleanze prossime venture. Per fare quale politica, con quale prospettiva strategica? E’ un errore che nasce da una inadeguatezza storiografica, teorica e culturale che ancora pesa in tanti settori della sinistra, tradizionale e non, incapaci di un bilancio sereno di quanto è accaduto negli ultimi 30 anni. Oggi un tale bilancio è possibile trarlo molto più agevolmente che non dieci anni fa. Perché quel che è accaduto è facile da interpretare: la sinistra storica, non solo quella italiana, ma anche quella delle socialdemocrazie europee, ha di fatto abbandonato il suo tradizionale insediamento sociale (classe operaia e ceti medi e popolari) e ha salvato se stessa come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione, favorendolo, talora anticipandolo (riforme del mercato del lavoro a partire da Treu e Schroeder, liberalizzazione dei capitali, a partire da Mitterand, ecc). Ancora oggi essa pratica un riformismo caritatevole, direi di riparazione.
Il capitalismo avanza lacerando e frantumando il tessuto sociale e la sinistra cerca di lenire gli esiti di quanto avviene con politiche alla giornata di puro tamponamento. È significativo che nel suo linguaggio non sia più presente la parola capitale, capitalismo e soprattutto lotta anticapitalistica. La globalizzazione ha generato un mondo di vincenti e di perdenti, il ceto politico della sinistra, appunto in quanto ceto, appartiene ai vincenti, malgrado la sconfitta storica dei ceti che un tempo rappresentava, malgrado il fallimento di fatto delle sue politiche.
C’è un’ altro aspetto grave di questa storia, segnata da una catastrofe teorico-culturale di vasta portata. Un aspetto che dovrebbe consigliare ogni sincero democratico a guardare con simpatia il tentativo di SI di costituire una forza antagonista ma aperta e non settaria, radicale nella visione e riformatrice nella prassi, un nuovo gruppo dirigente che sappia leggere in profondità i caratteri dirompenti del capitalismo attuale, che si propone di mostrare alle nuove generazioni e ai tanti italiani smarriti che una alternativa è possibile. E che non è quella dei 5S.
Il PD è il partito che ha firmato tutti i trattati europei, che ha sottoscritto la nascita dell’euro, che ha inserito in Costituzione il vincolo di bilancio, che ha autorizzato il fiscal compact, che ha insomma avuto un ruolo rilevante nel costruire l’architettura giuridica e finanziaria dell’Unione. Tale architettura, con ogni evidenza, oggi appare come un’ipoteca sull’avvenire del nostro Paese. L’euro, riconosciuto da economisti premi Nobel come un errore fondativo dell’Unione, è ormai considerato da un’opinione pubblica maggioritaria una trappola che assicura l’egemonia della Germania e l’inesorabile declino delle economie più deboli. E allora dov’è, non l’autocritica – vecchia parola che sa di rituale espiatorio – ma una rilettura storica degli errori del passato e soprattutto il nuovo orizzonte progettuale per uscirne?
». Altreconomia, n. 190 Febbraio 2017 (c.m.c.)
Le tre Destre. Sono le forze rimaste a contendersi il potere: la Destra tradizionale (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia), la nuova Destra populista (Movimento 5 Stelle) e la Destra neoliberista (Partito Democratico, con la fuorviante etichetta di “centro-sinistra”). Che molti neghino la distinzione tra destra e sinistra è un sintomo di quanto la mentalità di destra sia diffusa. Benché falsa, tale credenza ha finito per dire qualcosa di reale: in effetti la differenza da tempo non si vede. Non perché non esista in sé, ma perché la sinistra politica è sparita e così anche quella culturale.
È vero che la prima politica è quella dei cittadini e delle comunità civili che costruiscono risposte ai problemi senza affidarsi ai voleri dei politici. Ma l’interazione con la politica seconda, quella istituzionale, resta imprescindibile. Quindi un partito ci serve, benché come strumento debba essere profondamente trasformato. Il partito che serve non è di destra, né di finta sinistra, né neutro. Dev’essere uno strumento capace di aprire strade inedite, democratico anzitutto internamente, adatto per logica, regole e formazione dei suoi aderenti a trasformare il potere in servizio. Dovrà essere eticamente ispirato non per la presunzione settaria che i suoi iscritti siano per principio tutti onesti, ma per il metodo di prendere ogni decisione alla luce dell’etica del bene comune.
La differenza tra destra e sinistra è politica, ma ha radice etica: infatti la sinistra si definisce per l’impegno a tradurre in ogni situazione il criterio dei diritti umani e della natura, a scegliere la democrazia come forma di ordinamento della società e la nonviolenza come metodo. Non c’è sinistra dove manca la ricerca di un’alternativa al capitalismo. Il compito attuale è quello di dare seguito coerente (anche nella politica istituzionale) a questo orientamento, invece di incartarsi nella suggestione per cui si crede che la differenza con la destra non esista. Quest’ultima adotta ben altri criteri: il primato del mercato, il potere del capo, l’ostilità verso gli stranieri, il culto della piccola “comunità” chiusa, l’individualismo, il nazionalismo. In varia misura le tre Destre seguono criteri simili. La conferma sta nel fatto che nessuno dei partiti nominati è contro il sistema capitalista, anzi.
La promessa del Movimento 5 Stelle di porsi oltre destra e sinistra è inconsistente: lo strapotere del capo, la mancanza di una lettura critica della globalizzazione, la carenza di democrazia interna, l’ostilità verso i migranti e le alleanze nel Parlamento europeo attestano che questo partito non è affidabile. La sinistra politica e culturale è finita quasi ovunque in Europa perché non ha saputo rinnovarsi collocandosi dalla parte giusta rispetto alla contraddizione tra tutelati e non tutelati, tra Nord e Sud del mondo, tra generazioni vecchie e nuove, tra uomini e donne, tra violenza e nonviolenza, tra crescita e decrescita. Ha rinunciato a promuovere un’altra economia e un’altra società.
Segnalo l’esigenza di dare vita originale a un partito di sinistra non per nostalgia di forze come Sinistra Ecologia e Libertà o Rifondazione Comunista, le cui angustie sembrano riproporsi anche in Sinistra Italiana. Un partito strutturalmente diverso potrà nascere solo dalla maturazione della coscienza collettiva dei gruppi e delle associazioni (compresi i “Comitati per il ‘No’ al referendum costituzionale”) che lavorano per arrivare un giorno a sostituire il capitalismo con la democrazia intera. Purché diano forma politico-progettuale alla loro azione e, senza accontentarsi di restare alla forma di reti, spesso autoreferenziali, sappiano diventare movimenti di liberazione radicati e popolari.
La rigenerazione di una sinistra autentica in Italia e in Europa è condizione della rinascita della politica in quanto cura del bene comune. Chi lavora per un’altra economia, anche se non vuole avere a che fare con i partiti né con la sinistra, non può disinteressarsi di questa rinascita.
” con gli studenti della Rete della Conoscenza promuove un patto per il lavoro culturale aperto a studenti e docenti, precari e freeance nei beni culturali». il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
«La situazione dei lavoratori del settore dei beni culturali in Italia non è più accettabile e crea un problema nazionale: biblioteche che chiudono, cultura meno accessibile, flussi turistici sotto le aspettative, tutela del patrimonio storico-artistico a rischio, marginalità del patrimonio culturale, della Storia, dell’Arte e della cultura dalla coscienza collettiva del Paese» – dichiara Andrea Incorvaia, attivista della campagna Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali – «Si è potuti arrivare a questo punto a causa di un chiaro disegno politico, ma anche della limitata opposizione di professionisti (o aspiranti tali), di chi questi professionisti li deve formare (insegnanti e professori) e dei datori di lavoro o committenti: da qua nasce l’esigenza di un Patto fra i soggetti che vivono il mondo dei Beni Culturali, un patto che abbia come obiettivo fondamentale la tutela dei diritti del lavoro e della dignità professionale».
«La sottoscrizione del Patto impegna studenti e professori, professionisti e aspiranti tali, datori di lavoro a censurare il ricorso al lavoro gratuito e sottopagato, ai tirocini formativi per coprire le carenze di organico, al volontariato in sostituzione del lavoro retribuito, alla negazione di diritti e di retribuzioni adeguate: sono tutte piaghe che affliggono il settore dei Beni Culturali da anni anche perché i suoi protagonisti hanno finito per considerare normale questo stato di cose inaccettabile» – prosegue Martina Carpani, Coordinatrice nazionale della Rete della Conoscenza – «Ma non è una situazione piovuta dal cielo: questo Governo è direttamente responsabile di politiche occupazionali insufficienti e della diffusione del lavoro precario: non solo ha liberalizzato i voucher, ma lo stesso MiBACT ha legittimato definitivamente il volontariato nel settore, con sistematici bandi volti ad assumere volontari laureati e preparati, ma senza retribuzione o con retribuzioni ridicole e vergognose».
*** Mille nuovi precari al Mibact: volontari al posto dei lavoratori
«Migliaia di professionisti sono stati spinti ad accettare condizioni di lavoro indegne per poter rimanere nel campo, e tanti altri a cambiare lavoro, per non dover accettare condizioni di lavoro indegne; datori di lavoro e committenti hanno spesso accettato di buon grado la prospettiva del massimo ribasso, facendo fronte alla mancanza di fondi con collaborazioni gratuite o appoggiandosi a varie associazioni di volontariato; anche il mondo accademico si è reso corresponsabile, facendo sempre troppo poco per il futuro dei propri laureati e per evitare che la selezione, a forza di titoli post-laurea e lavoro gratuito, divenisse sempre più censitaria» – prosegue Incorvaia – «Quella di oggi vuole essere una giornata di svolta per il mondo dei beni culturali: PLaC – Patto per il Lavoro Culturale vuole rompere questo meccanismo, mettendo ognuna delle persone che hanno a cuore il patrimonio culturale italiano di fronte alle proprie responsabilità, chiedendo di esporsi con nome e cognome per sottoscrivere impegni precisi»
Al patto hanno aderito, al momento, Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Claudio Meloni della Fp-Cgil, Vittorio Emiliani, Rita Paris, Adriano La Regina, Margherita Corrado, Manlio Lilli e tanti altri. La giornata di lancio del Patto per il Lavoro Culturale è proseguita verso il Mausoleo di Augusto, in Piazza Augusto Imperatore a Roma, monumento da anni simbolo di spreco e degrado del patrimonio culturale per un’azione di denuncia da parte degli attivisti.
«Non c’è più tempo, dobbiamo coalizzarci e rompere, a partire da questo Patto, lo sfruttamento e lo svilimento del lavoro nel settore dei beni culturali. Ne va del futuro del nostro patrimonio culturale, cuore pulsante del Paese, e del futuro di intere generazioni di professionisti dei beni culturali presenti e futuri» – concludono gli attivisti nella nota – «Si tratta di un’emergenza nazionale, per il nostro patrimonio e il futuro di tantissimi giovani professionisti altamente qualificati»
Domani, a Malta, al centro del mare della sua vita, l'affronto più grande al suo sogno, se il Mediterraneo diventerà una trincea. Realizzare la sua visione sarà compito di quelli che oggi e domani sapranno resistere.
la Repubblica, 3 febbraio 2017
È stato nemico di ogni nazionalismo e di ogni esaltazione dell’appartenenza etnica. La parola identità la declinava al plurale, per sottolineare che tutte le persone hanno più appartenenze e l’unica lealtà dovuta è quella a difesa dei valori universali e umanistici. Predrag Matvejevic, morto ieri a Zagabria, di identità e appartenenze ne aveva molteplici. Era nato, nel 1932 a Mostar, una città jugoslava, oggi in Bosnia, abitata da cattolici croati e bosniaci musulmani e divisa, o forse unita, da un antico ponte, che venne fatto saltare in aria il 9 novembre 1993 dagli
ustascia, i fascisti croati. Il padre di Matvejevic è stato un russo, nato a Odessa, città plurinazionale, plurireligiosa, sul Mar Nero, contesa tra Russia e Ucraina, e che agli occhi dello stesso scrittore assomigliava a Genova e Marsiglia. La madre invece era una croata, cattolica devota. Il nonno e uno zio di Matvejevic sono stati prigionieri del
gulag sovietico; il padre la prigionia la subì invece, durante la seconda guerra mondiale, nella Germania nazista. Tornato a casa, non parlò al giovane Predrag di vendetta, ma anzi, gli raccontò, come un giorno, un pastore evangelico lo invitò a casa, gli diede da mangiare, gli offrì un bicchiere di vino. Predrag, si sentì a quel punto in dovere di offrire, a sua volta, un tozzo di pane a un prigioniero di guerra tedesco.
E lui, stesso chi era? Era nostalgico della Jugoslavia di Tito Matvejevic? Della Jugoslavia, probabilmente sì. Di Tito un po’ meno. Da giovane aveva aderito alla Lega dei comunisti. Ma, nel 1974, venne espulso dal partito. La colpa: aver scritto una lettera, a Tito, in cui lo esortava a preparare la successione, a non lasciare che la Jugoslavia andasse a pezzi. Dissidente, Matvejevic è rimasto per il resto della sua vita. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi davvero, e i discorsi sulla guerra e sulla “pulizia etnica” li facevano leader e forze che si richiamavano alla democrazia, coniò il neologismo “democratura”. La parola ebbe tanto successo, che oggi viene adoperata per parlare del regime di Putin in Russia. Nemico del nazionalismo anche di quello “suo” croato, nel 1991 dovette andarsene dal Paese. Esperto di letteratura francese, approdò alla Sorbona. Nel 1994, si trasferì a Roma, insegnò slavistica a La Sapienza, dopo 18 anni di esilio tornò in Croazia. Nel frattempo, subì una condanna a cinque mesi di prigione (la pena non fu mai eseguita), per aver scritto parole che un poeta locale considerò ingiuriose nei confronti della nazione.
Per Matvejevic la vera patria era il Mediterraneo. Il suo libro più importante è stato Breviario mediterraneo (Garzanti), tradotto in 23 lingue. Vi si susseguono racconti su persone incontrate e leggendarie, analisi sulle origini delle parole, narrazioni su modi di preparare il cibo e sui nomi delle pietanze e degli oggetti, annotazioni geografiche, considerazioni sulla forma delle isole e sulla particolarità delle capitanerie di porto. Matvejevic spiega che i confini del Mediterraneo non sono determinati dallo spazio, e che quindi hanno qualcosa di mitico e immaginario; ma poi mette in guardia dalle troppo facili illusioni sulla presunta somiglianza delle persone e dei popoli. Il Mediterraneo è fascinoso perché contraddittorio e inafferabile per chi voglia classificare l’umanità e la natura a seconda delle rigide categorie. In questo senso il libro è una critica radicale della modernità, che come ha insegnato Bauman, ama la gerarchia, l’esclusione e l’eliminazione di tutto quello che disturba l’ordine prestabilito.
Matvejevic nutriva una certa diffidenza nei confronti di teorie filosofiche complicate. Contrapponeva quella che chiamava “l’identità dell’essere” a “l’identità del fare”. Siamo quello che facciamo. Per questo ha scritto Pane nostro, in cui raccontava come e perché il pane fosse al contempo un oggetto sacro da venerare e un profano saper fare il cibo. Ma pane significa anche, per una persona segnata nella storia familiare dai totalitarismi del Novecento, morire di fame: così morì suo zio, in un lager sovietico.
Negli anni della guerra balcanica Matvejevic rifletteva sulla follia dei politici; sul fatto che i padri dei leader serbi fossero suicidi. Tornato in Croazia, da Zagabria, seguiva con un certo scetticismo l’integrazione del Paese in Europa. Due anni fa, già malato, pubblicò un libro Granice i sudbine (“Confini e destini”). E in un’intervista a un giornalista croato spiegava come l’idea stessa della Jugoslavia fosse un’invenzione ottocentesca intelligente perché rendeva possibile la vita in uno spazio come i Balcani diviso tra diverse fedi, tradizioni. Diceva: certo, non ci sarà più la vecchia Jugoslavia, ma una cooperazione tra i nostri popoli è indispensabile. Per arrivare a questo, basterebbe, suggeriva, capire che le nostre memorie sono divise e spesso contrapposte. Ma il passato, se compreso ed elaborato, non impedisce di costruire un futuro comune.
Barriere sempre più aggressive per impedire alle popolazioni il cui sfruttamento ha alimentato il nostro benessere di uscire dal loro inferno. Articoli di A.M. Merlo, F. Miraglia, A. Sciotto.
il manifesto, 3 febbraio 2017
UE, COME BLOCCARE IMIGRANTI
DALLA LIBIA?
di Anna Maria Merlo
«Vertice a Malta. Alla vigilia del summit sulla crisi dei migranti per «chiudere la rotta del Mediterraneo centrale», il leader libico Serraj incontra Tusk e Gentiloni. Che avverte Roma e Bruxelles - «Siamo un paese sovrano» - e detta le sue condizioni. La Ue cerca di conciliare l'impossibile: i valori universali e il blocco degli sbarchi. Difesa comune e risposta a Trump in agenda»
PARIGI- Inizia con una seduta di lavoro sulle migrazioni nel Mediterraneo centrale – cioè dalla Libia verso l’Italia – il vertice informale dell’Unione europea, oggi a Malta. Tutti i 28 saranno attorno al tavolo, mentre la Gran Bretagna, dopo il pranzo dedicato alla situazione internazionale, sarà esclusa dalla discussione del pomeriggio, a 27, sul seguito da dare dopo l’incontro di Bratislava, lo scorso settembre, in vista del vertice di Roma del 25 marzo, per i 60 anni della costruzione europea. Conciliare l’impossibile: una riflessione sui “valori”, che vanno sottolineati e anche rilanciati in questo periodo di crisi e di sfide accresciute con Trump, mentre in pratica c’è la ricerca del modo più efficace per impedire ai migranti di imbarcarsi verso l’Europa, facendo ricorso con Frontex ad attività operative civili e militari.
Ieri, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha affermato che “il flusso di migranti dalla Libia verso l’Europa non è sostenibile”. Bisogna agire e il “modello” è l’azione tra Turchia e Grecia, anche se tra i paesi membri c’è chi non nasconde che la situazione umanitaria in Grecia resta preoccupante per i migranti: “l’Europa ha dimostrato di essere in grado di chiudere le rotte di immigrazione illegale, come ha fatto nel Mediterraneo orientale”, ha pero’ affermato Tusk a Bruxelles, dove ha ricordato di aver “discusso di questo esempio” con il governo italiano, perché “è ora di chiudere la rotta tra Libia e Italia”. Per Tusk, “il piano è a nostra portata, abbiamo solo bisogno di una piena determinazione per realizzarlo”.
Dopo un incontro con il libico Fayez al Sarraj a Bruxelles, ha promesso per oggi a Malta “misure operative”. Nelle principali capitali sono pero’ molto più prudenti. Quando la Germania ha deciso di concludere un accordo con la Turchia, Erdogan non aveva ancora portato l’affondo definitivo contro la democrazia anche se ieri Merkel ha visto il sultano turco diventato dittatore senza troppi stati d’animo. Per la Libia non c’è nessun fragile paravento di rispettabilità, una cooperazione diretta con il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj è complicata, anche se ha il sostegno dell’occidente, la Libia resta un paese non sicuro, c’è il conflitto con l’esercito del generale ribelle Khalifa Haftar (sostenuto da Egitto, Emirati, Russia) e l’Onu si allarma per il trattamento inumano dei migranti sul posto.
La dichiarazione di oggi a Malta cercherà cosi’ di conciliare l’impossibile: ricordare i “valori” (rispetto del diritto internazionale, umanitario ecc.) e proporre alcune misure, che saranno soprattutto un ampliamento di quelle già in parte in atto (formazione di guardiacoste, equipaggiamento, sostegno ai comitati locali sulla strada dei migranti, aiuto alle organizzazioni internazionali che operano sul posto). La Ue si interessa anche alle frontiere della Libia, da cui entrano i candidati all’emigrazione in Europa: da mesi si è intensificata la cooperazione con il Niger, da cui passa l’80% dei flussi (500 milioni di euro in cooperazione), verrà evocata la collaborazione con Tunisia e Egitto, l’aiuto allo sviluppo per Mali, Nigeria, Senegal, Sudan, con l’obiettivo di “scoraggiare” le partenze. Nella dichiarazione finale c’è un riferimento a un “migliore ritorno” dei migranti espulsi o caldamente invitati ad andarsene (alcuni paesi versano somme in denaro). Il problema è che molti paesi, Tunisia compresa, mettono ostacoli alla riammissione dei loro cittadini.
I 27 cercheranno un fronte unito di fronte alla Brexit, anche se c’è l’intenzione di evitare che questa questione assorba tutte le energie. Malta è una tappa intermedia, verso il Consiglio del 9 marzo (e poi a giugno), dove dovranno essere prese decisioni sulla difesa comune: le “tappe” per uno stato maggiore permanente, il funzionamento della rivista annuale di difesa, un aumento dei finanziamenti, dei programmi di ricerca comuni, un processo che dovrebbe venire concluso entro il 2020 e che dovrebbe essere potenziato, vista la sfida di Trump, sia per l’integrità e l’esistenza stessa della Ue, che per la Nato. Francia e Germania sperano di convincere i reticenti, il gruppo di Visegrad e i Baltici, finora aggrappati alla Nato ma che si sentono traditi da Trump. Francia e Germania vorrebbero anche convincere sulla difesa del libero scambio e degli obiettivi della Cop21 per far fronte al disordine climatico. Ai paesi del sud in crisi, la Commissione offrirà un Libro bianco, pronto per metà marzo, dove verrà promesso per la zona euro “stabilità, convergenza e crescita”.
CANALI D’INGRESSO LEGALI
PER SALVARE I MIGRANTI
di Filippo Miraglia
Il razzismo di stato del neo presidente degli Usa dimostra che i principi della democrazia moderna non sono dati una volta per tutte. Avere un sistema democratico dotato di strumenti di controllo, pesi e contrappesi, non è di per sé sufficiente a impedire che si affermino nuove forme di fascismo. Il turbo capitalismo finanziario non solo mina i principi delle costituzioni democratiche, a partire dal principio di uguaglianza, ma punta ad affermare modelli che sono l’esatto contrario della democrazia.
In un sistema democratico ciò che conta è che chiunque vinca le elezioni garantisca i diritti di tutti, in primo luogo quelli delle minoranze. I giudici da soli non possono rimediare ai guasti della politica, come si vede nel caso dei provvedimenti firmati da Trump, contro i quali si è per fortuna levata una grande protesta popolare.
Intanto cresce la rabbia di chi ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita, rabbia che viene strumentalmente indirizzata verso l’immigrazione e il mondo islamico, vittime di continue campagne razziste e oggi principali capri espiatori nel dibattito pubblico. In Europa e in Italia ci sono state reazioni anche molto critiche alle decisioni del presidente americano, mentre la destra xenofoba si augurava che simili misure venissero adottate anche da noi.
Le istituzioni europee e i governi, al di là delle parole di sdegno, in realtà stanno da tempo muovendosi nella stessa direzione. L’accordo con la Turchia è servito a impedire ai rifugiati siriani e iracheni (due dei Paesi colpiti dal provvedimento di Trump) di arrivare in Europa. Venerdì prossimo, a La Valletta, capi di Stato e di governo dell’Ue s’incontreranno per discutere di flussi migratori nel mediterraneo centrale.
L’obiettivo, dopo aver chiuso la rotta balcanica, è quello di chiudere anche la rotta che passa dalla Libia, stanziando 200 milioni di euro per formare ed equipaggiare la guardia costiera libica e per favorire i ritorni volontari dei migranti verso i Paesi d’origine. Un finanziamento che viene ipocritamente presentato all’interno di un quadro di cooperazione internazionale.
La verità è che, come per l’accordo con la Turchia, si vogliono esternalizzare le nostre frontiere, chiedendo all’instabile governo libico di fermare l’immigrazione per conto dell’Ue. E presentando questa operazione come una forma di aiuto ai Paesi d’origine o transito dei migranti.
In questo quadro, il Fondo italiano per l’Africa, così come in generale gli aiuti allo sviluppo, rischiano di diventare lo strumento per finanziare accordi con governi o regimi che si impegnino ad attuare politiche aggressive di controllo delle frontiere e contenimento dei flussi. Questa sarà probabilmente la linea che verrà confermata dal prossimo vertice a La Valletta, un favore ai regimi dittatoriali e ai trafficanti di esseri umani.
I fondi per la cooperazione dovrebbero invece essere condizionati al rispetto dei diritti umani, introducendo per legge una clausola in tal senso. Non si vuole prendere atto che l’emigrazione rappresenta, con le rimesse e con le relazioni che s’innescano, il principale fattore di sviluppo delle comunità locali nei Paesi di provenienza. Bisogna scegliere se promuovere quella legale o favorire quella irregolare, come è stato finora.
E importante che il governo italiano usi il Fondo Africa per far fronte alle cause che determinano i fenomeni migratori, sostenendo attivamente le comunità locali, incentivando le loro economie, producendo occupazione, difendendo i diritti umani.
Va valorizzato il ruolo delle Ong (Organizzazioni non governative) come soggetti attuatori delle azioni di solidarietà, aiuto umanitario e di sviluppo comunitario che il Fondo metterà in campo. Deve essere garantito l’accesso alla procedura d’asilo a chiunque ne faccia richiesta, così come prevedono la legge e la Costituzione. È infine necessario che il Parlamento vigili attentamente sui contenuti del decreto d’implementazione del Fondo per l’Africa e in particolare sugli aspetti che riguardano i diritti e le libertà delle persone.
Si impedisca all’Ue di criminalizzare le organizzazioni umanitarie che operano al largo della Libia per mettere in salvo le persone in cerca di protezione e si cancelli qualsiasi forma di guerra ai migranti praticata impiegando le nostre forze armate o quelle di altri Paesi. Solo realizzando canali d’ingresso sicuri e legali si può salvaguardare la vita delle persone, combattere scafisti e trafficanti, fermare la tragica conta delle morti nel Mediterraneo.
«BASTA MURI, UN FONDO UEPER I MIGRANTI».
IL PATTO DELLA UIL A LAMPEDUSA
di Antonio Sciotto
«L'iniziativa. Accordo con sette sindacati dei paesi mediterranei, presenti anche i rappresentanti di quattro religioni. Barbagallo: «I lavoratori possono fare da pacificatori e sostenere lo sviluppo». La sindaca Nicolini: La nostra isola simbolo di accoglienza è un orgoglio»
Stop ai muri e alle barricate, l’Italia, l’Europa, i paesi mediterranei devono allearsi per un’accoglienza intelligente e solidale dei migranti. Il messaggio arriva da Lampedusa, dove ieri si è tenuto «Per un mare di pace e di lavoro», iniziativa della Uil con i sindacati di Israele e della Palestina, Tunisia (con Hassine Abbassi, premio Nobel 2015 per la Pace), Algeria, Marocco, Egitto, Libia (con Nermin Sharif, la prima donna leader di un paese del Nord Africa). Con loro anche i rappresentanti di quattro religioni. Gli otto sindacati hanno firmato l’Accordo di Lampedusa, che oltre ai principi contiene anche iniziative concrete.
L’Accordo di Lampedusa chiede alla Ces (confederazione europea dei sindacati) di «proporre all’Unione europea l’istituzione di un Fondo in cui tutti i Paesi membri facciano confluire risorse derivanti da forme di solidarietà fiscale – sul modello dell’8 per mille – da destinare alla realizzazione di progetti idonei a creare lavoro in quelle zone prostrate dall’indigenza, dalla povertà e dalla guerra. La Ue dovrà farsi carico del coordinamento e della gestione di tale attività di sostegno alla crescita».
La Uil, dal canto suo, ha preso un ulteriore impegno, da realizzare nei diversi paesi grazie alla collaborazione dei sindacati ospiti: istituirà uffici o punti di Patronato, con l’obiettivo di limitare i casi di immigrazione offrendo assistenza e tutela alle persone coinvolte. Verrebbero poi realizzati, in loco, «corsi di formazione per l’apprendimento di specifiche mansioni o di rudimenti e tecniche di auto-imprenditorialità che i lavoratori formati potrebbero mettere a frutto, quando le condizioni lo consentissero, nei Paesi di origine o, secondo indirizzi preventivamente individuati, in Paesi dell’Unione europea».
«Per un mare di pace e di lavoro» verrà replicato ogni anno in uno dei paesi firmatari, possibilmente lo stesso 2 febbraio, ma c’è l’obiettivo di allargare la sua rete anche ad altri paesi del Mediterraneo come Spagna, Grecia e Turchia, e agli altri sindacati italiani.
«Non si possono sperperare risorse per la costruzione di muri e barriere – ha spiegato il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo – Bisogna puntare al contrario sulla cooperazione, la partecipazione e l’inclusione. Solo così cominceremo ad aprire una nuova strada per la pace, la coesione e il lavoro nel mondo. La Uil ha lanciato un progetto di cooperazione con quegli stessi paesi da cui i migranti sono costretti a fuggire per i conflitti, la povertà e la fame. Il sindacato può e deve assumersi le proprie responsabilità, svolgendo il ruolo di pacificazione e di sviluppo economico».
Se si riuscirà a creare il Fondo europeo sollecitato dal sindacato, esso si andrà ad aggiungere ad altre importanti iniziative per i migranti finanziate proprio dall’8 per mille: come i già collaudati Corridoi umanitari messi in campo dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche e la Chiesa valdese.
L’Accordo di Lampedusa è stato salutato con favore dalla sindaca dell’isola, Giusi Nicolini: «Siamo persone normali, cittadini, pescatori, gente che vive di turismo – ha detto – Un’isola da cui anche gli abitanti volevano scappare. Ma oggi c’è il nostro orgoglio: l’orgoglio che come sindaco ho della mia isola e della mia gente. Lampedusa oggi è un ponte, è un esempio – ha concluso – e può dare un esempio diverso. È stata lasciata sola in Europa, e sola nel suo contesto nazionale, dove ogni giorno vediamo l’esempio di altre città che invece fanno barricate. Di accoglienza non si muore».
«Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia».il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)
La pronuncia della Corte costituzionale non ha sciolto i nodi politici, ma ha certamente aperto una fase nuova passando la palla alle forze in parlamento. E mentre è vero per i giuristi che la lettura di una sentenza richiede le motivazioni, così non è necessariamente per i politici. Per quel che serve, il risultato è già definito: no al ballottaggio, sì al premio con soglia e ai capilista bloccati. Dei tre elementi essenziali dell’Italicum, solo uno cade. Si discuterà molto della continuità della pronuncia sull’Italicum rispetto alla sentenza 1/2014 sul Porcellum. Ma conta che con la normativa di risulta il disegno politico-istituzionale di Renzi – concentrazione del potere sul leader e sull’esecutivo, asservimento delle assemblee elettive, riduzione degli spazi di partecipazione democratica – è intaccato ma non cancellato. La disproporzionalità possibile tra voti e seggi rimane molto – troppo – alta. E il voto bloccato sui capilista può comunque produrre l’effetto che i deputati siano in gran parte sottratti alla scelta degli elettori.
In queste ore traspaiono i calcoli di convenienza delle forze politiche. Renzi ha immediatamente assunto come obiettivo primario il 40% e il premio conseguente. Lo stesso Grillo, per M5S. Ma anche la Lega guarda con interesse al premio con soglia, come strumento di potere contrattuale verso Forza Italia. Lo stesso vale per quella parte della sinistra fuori del Pd che considera inevitabile muoversi insieme al Pd in una prospettiva di governo. E possiamo anche aggiungere quelli che nel Pd alzano i toni contro il segretario. È dubbio che – ad oggi – ci siano in parlamento i numeri per cancellare il premio, o per innalzare la soglia sopra il 40%. Quanto ai capilista bloccati, nessuno può dirlo in chiaro, ma a molti non dispiace affatto che siano sopravvissuti.
Tutto questo spiega l’accordo raggiunto alla Camera tra Pd, M5S, Lega e FdI per iniziare il 27 febbraio le danze, con l’intenzione di estendere il Consultellum camera al senato e minimi aggiustamenti. Un accordo che poi Grillo ha denunciato, avendo capito – magari un po’ in ritardo – che a M5S, per le sue peculiarità, i capilista bloccati non interessano. E che le ultime convulse ore forse hanno già superato.
Politica e istituzioni sono entrate in un corto circuito dal quale faticano a uscire. Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017 perché recidivo nella volontà di forzare gli argini costituzionali, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia. Come può cogliere il senso del voto referendario del 4 dicembre, che è stato soprattutto il rigetto di un modo arrogante e chiuso all’ascolto di esercitare il potere, di ridurre il governo al comando? È proprio questa filosofia del governare che può alla fine trovarsi confermata se si accetta la normativa di risulta per la camera così com’è, magari estendendola al senato. A questo obiettivo punta Renzi quando chiede il voto subito, con argomenti collaterali quali lo slittamento dei referendum Cgil, e il voto prima di una legge di stabilità che quest’anno si preannuncia dura. Cresce la fronda nel Pd, e persino un ministro prende posizione contro il voto subito.
Ma il disegno in campo si contrasta davvero in altro modo: costruendo a sinistra un progetto politico alternativo rispetto a quello portato avanti, e in parte realizzato, dagli ultimi governi. Un progetto che dia una nuova centralità ai diritti e ai bisogni della persona, come la Costituzione vuole, sul quale far convergere tutta la sinistra degna di questo nome e quella parte del paese che si è riaccostata all’impegno civile con il voto del 4 dicembre. Un progetto che sia competitivo nel paese, qualunque sia la regola elettorale che alla fine si sceglierà.
Per un progetto e una sinistra di tal genere è utile una robusta correzione in chiave proporzionale della normativa di risulta. Non basta ad escluderla il trito argomento della governabilità, come ha argomentato Floridia su queste pagine. Se tale fosse l’esito della confusione di oggi, avremmo ritrovato – quale che fosse la data del voto – un paese civile che pensavamo di avere perduto.
il manifesto, 2 febbraio 2017
Mezzi, tecnologie e addestramento delle forze di sicurezza di Libia, Niger e Tunisia in cambio dell’impegno da parte dei tre paesi africani a fermare le partenze dei migranti. La logica del «do ut des», avviata con l’accordo firmato un anno fa tra Unione europea e Turchia, comincia a estendersi concretamente anche in Africa. L’iniziativa, però, questa volta è del governo italiano che pur di riuscire a mettere un argine agli sbarchi di migranti sulle nostre coste ha creato un nuovo Fondo per l’Africa nel quale per ora sono stati stanziati 200 milioni di euro, soldi che vanno a sommarsi ai 430 milioni già previsti per la Cooperazione.
Ad annunciare l’iniziativa è sotto ieri Angelino Alfano «Noi diamo una mano nel finanziare sviluppo e attività di controllo, ma in cambio chiediamo una mano per diminuire le partenze» ha spiegato il ministro degli Esteri annunciando l’intenzione di arrivare in futuro ad accordi simili anche con Nigeria, Senegal, Egitto ed Etiopia.
Per il governo Gentiloni è sempre più urgente riuscire chiudere la rotta del Mediterraneo centrale attraversata dai migranti. Per questo i tre paesi africani destinatari dei finanziamenti risultano fondamentali. Dalla Tunisia partono molti dei barconi diretti in Sicilia, mentre il Niger è uno snodo centrale per chiunque tenti di imbarcarsi dalla Libia. Chiudere le frontiere di questi Stati significa creare un grosso ostacolo ai migranti. Come poi i governi locali adempiranno allo scopo è qualcosa che non sembra interessare Roma. «Loro dovranno dirci di cosa hanno bisogno e noi lo finanzieremo, gli daremo una mano nel controllo delle frontiere», ha aggiunto Alfano.
Certo, sulla carta il rispetto di diritti umani di quanti fuggono da dittature o miseria continua a essere fondamentale ma difficilmente eventuali controlli, sempre ammesso che ci saranno, metteranno in luce violazioni che già oggi sono all’ordine del giorno.
L’iniziativa della Farnesina arriva quando mancano ormai poche ore al vertice dei capi di stato e di governo che si terrà domani a Malta e durante il quale verranno decise le strategie europee per fermare il flusso di migranti. «Non c’è una soluzione tutta italiana al problema dei flussi migratori irregolari, occorre fare squadra con l’Unione europea, le agenzie specializzate dell’Onu e le Ong», ha proseguito Alfano.
Per Bruxelles come per Roma l’obiettivo è lo stesso: coinvolgere – sempre in cambio di soldi e attrezzature – il governo libico di Fayez al Serraj nel contrasto all’immigrazione. Nelle scorse settimane il ministro degli Interni Marco Minniti si è recato in Libia per parlare con Serraj annunciando subito dopo di aver raggiunto un accordo che ora l’Unione europea vorrebbe replicare. Peccato, però, che da Tripoli non sia finora arrivata nessuna conferma dell’esistenza di una simile intesa e che solo due giorni fa la stessa Marina libica si è detta contraria a operazioni nelle proprie acque territoriali per fermare e portare indietro i barconi dopo la loro partenza. «Noi non siamo i gendarmi dell’Europa nel Mediterraneo», ha detto un portavoce, il generale Ayoub Omar Qassem.
Serraj, da ieri a Bruxelles, incontrerà oggi la rappresentante della politica estera della Ue Federica Mogherini per chiarire la fattibilità del piano europeo. E’ possibile che il leader libico si limiti a chiedere maggiori finanziamenti, visto che per ora l’Ue ha stanziato 200 milioni di euro. Oppure, ed è più probabile, sul tavolo c’è la fragilità del governo Serraj e di conseguenza l’impossibilità – al di là di inutili proclami – di garantire la fattibilità del piano di contrasto dei migranti. Così come, al di là delle rassicurazioni, è impossibile garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti in un paese dove pestaggi, stupri e violenze sono all’ordine del giorno.
Il FattoQuotidiano online, 1 febbraio 2017 (p.s.)
A firmarla il senatore Renato Guerino Turano, eletto nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale, con un emendamento che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica”. E la dicitura che reintroduce la copertura è la stessa stralciata a novembre dalla legge di Bilancio
L’anno è nuovo, il premier pure, ma lo straordinario interesse del governo per il golf non è cambiato di una virgola. E così la garanzia statale da 97 milioni di euro per la Ryder Cup 2022 è ritornata ad essere una priorità per il Pd, che l’ha inserita in una norma che con il golf e con lo sport non ha nulla a che vedere. L’occasione giusta, infatti, non è stata il Milleproroghe, ovvero il provvedimento più naturale per reinserire la norma: troppo sotto le luci dei riflettori.
L’esecutivo oggi guidato da Paolo Gentiloni (ma con la costante presenza di Luca Lotti, divenuto nel frattempo ministro dello Sport) ha preferito il decreto Salva Banche, che dovrebbe parlare di tutto tranne che di manifestazioni sportive. E invece un emendamento Pd alla legge che approderà a Palazzo Madama la settimana prossima potrebbe diventare la volta buona per i quasi 100 milioni di garanzia pubblica sulla buona riuscita del torneo di golf.
Partendo dal Senato, il testo probabilmente arriverà blindato a Montecitorio, dove verrà votato con la fiducia. Schivando il controllo di Francesco Boccia (presidente della commissione bilancio alla Camera, che già due volte aveva fatto stralciare la norma a fine 2016) e di chi non vede di buon occhio la concessione di altri soldi al faraonico progetto della FederGolf di Franco Chimenti. Con i 60 milioni di contributi pubblici già nascosti e approvati nella Legge di Bilancio, lo Stato si esporrà per una cifra complessiva superiore ai 150 milioni di euro.
Il ruolo del credito sportivo
Risultato: la garanzia uscita dalla porta della manovra (e del decreto fiscale) rientra quindi dalla finestra del dl Salva banche. Un provvedimento pensato per tutelare i risparmi dei cittadini, che però accoglierà anche la norma tanto preziosa per la Federazione Golf. Grazie ad una proposta presentata dal Partito Democratico, che interviene su una vecchia legge del 2002 in materia di “disposizioni per l’attività dilettantistica” (ma del resto anche i 60 milioni cash erano inseriti nel capitolo “Giovani e sport”). A firmarlo il senatore Renato Guerino Turano, residente a Chicago ed eletto con il Pd nella circoscrizione estera dell’America Settentrionale e Centrale. Turano, 74 anni, origini calabresi, è un imprenditore di successo che ha realizzato il suo sogno americano creando la più grande azienda di produzione di pane artigianale del Nord America. E forse proprio negli Usa, dove il golf è molto seguito, sarà cresciuta la sua passione per questo sport. Ilfattoquotidiano.it lo ha cercato nel pomeriggio e a sera per chiedergli spiegazioni e approfondimenti.
Tutto inutile: Turano è irraggiungibile. Ciò che è certo è che stavolta la garanzia passerà attraverso l’Istituto del Credito Sportivo (commissariato dal 2011 per una vicenda di “finanza creativa”): l’emendamento (all’articolo 26-bis) prevede infatti che in futuro l’ente possa emettere garanzie non soltanto per la costruzione e la ristrutturazione degli impianti, ma anche “a favore di organizzatori di manifestazioni sportive nell’interesse del Coni e delle Federazioni sportive per lo svolgimento di competizioni internazionali di rilevante interesse pubblico”. E per l’occasione il fondo viene anche integrato con una “garanzia da parte dello Stato a favore di Ryder Cup Europe LLP, nel periodo 2017-2027, per un ammontare fino a 97 milioni di euro”. La stessa identica dicitura stralciata a novembre dalla legge di Bilancio.
E intanto l'open d'Italia passaallla famiglia Agnelli.
Due mesi dopo il cerchio si chiude. A Palazzo Chigi non c’è più Matteo Renzi, ma evidentemente la presenza nell’esecutivo Gentiloni di Luca Lotti come ministro dello Sport era l’assicurazione migliore che il progetto Ryder Cup non venisse lasciato a metà: la garanzia, infatti, è importante per il Comitato organizzatore almeno quanto i 60 milioni di contributi che serviranno per far schizzare alle stelle il montepremi dell’Open d’Italia nei prossimi dieci anni.
Una delle tante clausole della sfarzosa offerta che Chimenti ha presentato per aggiudicarsi la rassegna del 2022, i cui primi effetti cominciano già a vedersi: l’edizione 2017 del torneo nazionale, la prima col nuovo montepremi da 7 milioni di euro, inizialmente in programma ad ottobre all’Olgiata Golf Club di Roma si disputerà invece al Royal Park I Roveri di Torino (di proprietà della famiglia Agnelli); secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, è stato proprio lo spropositato valore della rassegna (e dei relativi oneri) a far tirare indietro il circolo romano.
La storica edizione del 2022 e il compito di Infront.
La Federgolf, però, non bada a spese e ha voluto fare le cose in grande: la storica edizione 2022 (la prima ospitata dal nostro Paese) costerà più di 100 milioni di euro. Oltre al montepremi dell’Open, bisognerà ad esempio ristrutturare il Marco Simone Golf Club, su cui ci sarebbe già qualche frizione con la famiglia Biagiotti proprietaria della struttura.
Il Comitato si è attivato per rastrellare la restante parte delle risorse non statali necessarie: è già stato pubblicato un bando pubblico per trovare un concessionario che metta sul piatto almeno 40 milioni (si dice che la Federazione punti tutto su Infront, il colosso dei diritti tv). Ma gli organizzatori della Ryder Cup non vogliono correre rischi: a parere della stessa FIG, del resto, “l’escussione della garanzia è da ritenersi a basso rischio”, ma non nullo. Per questo a scanso di equivoci qualcuno dovrà farsi garante delle spese: lo Stato italiano, appunto. Se per qualche ragione la Federazione non dovesse riuscire a trovare i soldi, toccherà al governo aprire il portafoglio.
«I populismi si possono sconfiggere avanzando un’idea degli spazi urbani e metropolitani fortemente segnata dalla capacità di cooperare attraverso la costruzione di linguaggi ed immaginari condivisi». EuroNomade,
31gennaio 2017 (c.m.c.)
«Esattamente come la distruzione delle macchine industriali non poteva condurre alla distruzione della soppressione del dominio capitalistico, così la distruzione o il tentativo di sfuggire alle macchine securitarie per rifugiarsi in un’illusoria “esteriorità” non permette di sfuggire al regno astratto della sicurezza. È dunque sul terreno delle lotte politiche contro l’oppressione securitaria – il controllo attuato sulla base delle sembianze fisiche, la sorveglianza al lavoro, ecc. – e attraverso la presa in considerazione della sua iscrizione nei rapporti di classe, genere e razza che potrà svilupparsi una resistenza globale contro la sicurezza». (Paul Guillibert, Memphis Krickeberg
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Seppur poco affezionato al contributo dato dalle statistiche ufficiali e radicalmente orientato ad approcci di tipo qualitativo mi sembra doveroso partire da un elemento quantitativo che emerge dall’ultimo rapporto di Frontex sui flussi migratori che interessano l’Europa1. Pur presentandosi come un dato consistente non è quello degli sbarchi sulle coste italiane durante il 2016 (181.436) a colpire principalmente l’attenzione.
Il primo elemento che spicca maggiormente e si presenta più funzionale per avere uno sguardo più adeguato e approfondito sulla situazione attuale riguarda la nuova inversione di tendenza del numero di approdi in Grecia, diminuiti addirittura del 79% grazie agli accordi con la Turchia, il forte calo degli arrivi attraverso la rotta Balcanica grazie al durissimo inasprimento e alla chiusura delle frontiere a fronte di un tendenziale consolidamento del numero di sbarchi avvenuti attraverso il mediterraneo.
La seconda rilevazione interessante riguarda la distribuzione dei richiedenti Asilo in Italia nelle varie forme dell’accoglienza. Nel 2016 su un totale di 176.554 migranti presenti in questo sistema 137.218 ( il 77,7%) sono ospitati nelle strutture temporanee in un regime totalmente emergenziale, 23.822 ( 13,5%) nel sistema SPRAR, 14.694 (8.3%) nei Centri di prima accoglienza ed 820 (0.4%) negli Hot Spot.
L’Europa si trova in una posizione di sostanziale marginalità strategica rispetto a una situazione geopolitica che con un forte acuirsi di guerre e situazioni di alta conflittualità sociale e militare sta interessando l’Africa centro-settentrionale ed il Medioriente. Questa ormai conclamata perdita di centralità si accompagna ad una tendenziale assenza di una progettualità politica strutturata a livello delle istituzioni europee nella governance dei movimenti migratori che interessano i confini esterni e quelli interni del vecchio continente.
Le ragioni di questo trend possono essere individuate nella pochezza politica dei pochi leader europeisti rimasti, nelle frammentazioni prodotte dalla comparsa e dal radicamento dei populismi antieuropeisti o guardando alle caratteristiche del capitale finanziario che sembra sempre meno vincolato alla presenza di piani organici e coerenti (nazionali o sovrannazionali) di governo, disciplinamento e controllo mirato degli individui.
Se una politica migratoria coerente e condivisa dagli Stati membri e dalle varie istituzioni transnazionali è difficilmente individuabile la gestione di questi fenomeni sembra delegata a soluzioni, anche molto radicali, contingenti ed estemporanee come l’accordo con la Turchia che viene costantemente richiamata per la sistematica negazione dei diritti umani, ma risulta utile, come dimostra il dato richiamato prima sul crollo degli arrivi in Grecia, per bloccare i flussi, soprattutto dalla Siria.
Nello stesso modo dobbiamo leggere l’inasprimento di controlli frontalieri in zone specifiche attraverso massicci presidi militari e polizieschi attivati di volta in volta dai singoli stati che, come abbiamo visto prima, ha portato al crollo dei passaggi sulla rotta balcanica e più in generale attraverso il fronte orientale. Il caso ungherese si presenta come sintomatico di questa frammentazione politica.
Se da una parte alcuni leader invocano nuove politiche migratorie comunitarie (ad esempio con la proposta delle quote di “ricollocamento” o con la costituzione di una polizia europea specializzata nel controllare i confini ed effettuare i respingimenti dei migranti irregolari in un mix di accoglienza e repressione) il presidente ungherese Orban siglilla unilateralmente i suoi confini attraverso l’innalzamento di reti e l’utilizzo dei militari e decide, come ha annunciato negli ultimi giorni, di derogare al diritto internazionale mettendo in stato di detenzione i pochi richiedenti asilo che raggiungono l’Ungheria.
Per quanto riguarda invece la rotta meridionale un primo tentativo di filtrare gli imbarchi dalla Libia avviene attraverso il rafforzamento dei campi libici dove notizie di violenze, torture e stupri sono all’ordine del giorno, mentre il rafforzamento degli Hotspot rappresenta una soluzione per il contenimento e la ricollocazione disciplinata di chi riesce a raggiungere le coste italiane.
La governance europea rappresenta oggi un mosaico di equilibri e strategie abbozzate in modo controverso e spesso contraddittorio dove razzismi del tutto istituzionalizzati, separatismi, ordoliberismi appena farciti da logori welfarismi, populismi di varia natura e radicali antieuropeismi convivono come separati in una casa che di certo ha abbandonato un’idea forte di politica di progresso e di modernità. La direzione intrapresa per arginare una potenza soggettiva immensa che di fatto ridisegna le sembianze del territorio europeo è quella di de-localizzare in Turchia e in Libia i confini stessi dell’Europa, sigillare con brutalità il perimetro esterno orientale (con un conseguente utilizzo sempre più sporadico della logica dell’inclusione differenziale) e costituire infiniti confini interni.
Si tratta di confinamenti strutturati culturalmente attraverso una generale “razzializzazione” dei fenomeni di instabilità e conflittualità sociale e materialmente attraverso l’impermeabilizzazione delle zone di frontiera come Ventimiglia, Calais e Idomeni e l’attivazione di nuove perimetrazioni interne rappresentate da campi di internamento e segregazione per migranti irregolari e richiedenti asilo, fenomeni, gli ultimi, sempre più diffusi in alcuni paesi dell’Europa meridionale come la Grecia, l’Italia e la Spagna.
Il confine tende a perdere la caratteristica di fortificazione immobile e rigida. Per quanto sia tracciato su un territorio e produca dinamiche ben situate di violenta segregazione si presenta, in quanto dispositivo, come estremamente flessibile e malleabile. Sono confini mobili dunque addetti a governare un fenomeno sociale imprevedibile e ingovernabile con rigidità, confini che compaiono e scompaiono, che si riposizionano con velocità dentro e fuori dallo spazio europeo e ne segmentano di continuo gli spazi interni.
I movimenti migratori di cui parliamo qui non sono entità astratte o trascendentali, ma materialmente animate da centinaia di migliaia di soggetti che rappresentano certamente un potenziale bacino di forza lavoro a bassissimo costo oltre a prefigurarsi come esercito di riserva per minare ulteriormente la capacità di negoziazione dei lavoratori, ma allo stesso tempo minacciano gli interessi produttivi e finanziari di una frastagliata elite capitalistica europea che dovrà fare i conti con nuove possibili rivendicazioni legate proprio al tema del reddito e del lavoro e dell’universalizzazione del welfare.
Il moltiplicarsi di muri, recinti, presidi militari, Hotspot, canali forzati di transito e centri straordinari per l’accoglienza è animato, come hanno ben sottolineato a diversi livelli Martina Tazzioli e Francesco Ferri2, dalla finalità di contenimento e dispersione della reale e potenziale carica conflittuale della soggettività migrante che si presenta sempre più come una forza costituente transnazionale.
La situazione italiana ci può indicare il senso di questo tipo di approccio al fenomeno delle nuove migrazioni.
Il Ministro degli interni Marco Minniti ci ha messo poco per mettere a punto il primo provvedimento coerente con la sua “sinistra” carriera. Parliamo della riattivazione e della moltiplicazione dei CIE nell’ottica di rendere più efficaci le procedure di identificazione ed espulsione dei migranti irregolari. Il quadro pubblico-mediatico è ormai quello in cui gli ultimi attentati terroristici in Germania e Turchia ed episodi come la drammatica morte di Sandrine Bakayoko nell’hub di Cona, con la relativa rivolta di centinaia di ospiti della struttura, vengono naturalmente collegati tra loro e presentati come segnali della forte minaccia rappresentata dai processi migratori che interessano l’Europa. Era forse dai tempi delle “war on terror” seguita all’attacco delle Torri Gemelle che i dispositivi di controllo non attingevano così diffusamente alla qualifica di “potenziale terrorista” per stigmatizzare e tenere sotto pressione la popolazione migrante.
Le parole del procuratore aggiunto della procura di Venezia Carlo Nordio che, interpellato sulla morte di Sandrine in quanto titolare dell’inchiesta che porta avanti le indagini, parla di possibili strutture criminali organizzate nei campi di accoglienza e di possibili infiltrazioni terroristiche ci trasmettono un’idea chiara della situazione. Le sue sono allusioni assolutamente generali ed estemporanee, ma capaci di produrre senso comune, e vengono presentate sulla stampa in totale assenza di dettagli investigativi e specifiche ipotesi di reato. Quello che più ci interessa è il modo particolarmente diretto con cui il procuratore stesso ci illumina sull’operazione in atto quando interrogato da un giornalista di Repubblica sulle ragioni di tali riferimenti a crimine e terrorismo risponde in questo modo:
«Alcuni sembrano molto pacifici e interessati a vivere nella legalità accettando le regole dell’accoglienza, altri appaiono più violenti e fomentatori. I primi sono collaborativi, i secondi no. Dobbiamo capire perché».
Raramente la retorica che contrappone l’immigrato buono da quello pericoloso è stata così ben descritta da un importante attore istituzionale che ricordiamo ha sempre gravitato nell’area del centro-sinistra italiano. La logica di criminalizzazione che sembra imporsi in questa fase vede dunque la separazione tra chi subisce in silenzio le angherie tipiche dell’attuale sistema di accoglienza ed è dunque meritevole di essere lasciata lì dov’è rischiando ogni giorno di ammalarsi o morire e chi si lamenta o si ribella allo stato di cose etichettato come criminale e potenziale terrorista.
Per trovare una conferma di questa tendenza torniamo a Minniti il quale dichiara alla stampa che i nuovi CIE che verranno attivati non coinvolgeranno tutti gli irregolari ma soltanto quelli considerati “socialmente pericolosi” e ci tiene ad aggiungere, a conferma della forte esigenza in Italia di manodopera ricattabile e dunque a basso costo, che di certo non ci verranno portate le badanti irregolari. Viene di nuovo esplicitato che questo nuovo sicuritarismo risponde direttamente all’esigenza di effettuare una selezione stigmatizzante attraverso la criminalizzazione di chi non si rassegna alle inaccettabili condizioni nelle varie tappe dell’accoglienza e la tolleranza caritatevole verso chi accetta in silenzio e passivamente violenze, umiliazioni e privazioni sistematiche della libertà.
La proposta (sempre contenuta nel “pacchetto Minniti” che ricordiamo mette emblematicamente insieme politiche migratorie e sicurezza urbana) di rendere obbligatori per tutti i richiedenti asilo lo svolgimento di lavori di pubblica utilità svolge proprio la funzione di alimentare ulteriormente l’idea che il migrante deve meritarsi l’accoglienza (sarebbe forse più preciso chiamarla carità o benevolenza) accettando passivamente la lunga serie di violenze e “disciplinamenti” che vengono messi in campo dagli Hotspot fino alle risposte delle Commissioni territoriali.
Quello che si va pericolosamente delineando in Italia sembra dunque assumere le sembianze di un nuovo frame sicuritario estremamente grezzo connotato da orientamenti dichiaratamente essenzialisti xenofobi e razzisti che tende a imporre un ordine discorsivo e delle politiche di controllo finalizzate a contenere e neutralizzare e prevenire, attraverso l’illusoria logica della deterrenza, le diffuse resistenze dei migranti: rifiuto di lasciare le impronte digitali negli hotspot, proteste e ribellioni alle condizioni nei campi di accoglienza, indisponibilità a rinunciare alla loro autodeterminazione negata dai regolamenti di Dublino e quella a sottostare a forme di lavoro schiavistico e ipersfruttato.
Gli uomini e le donne che, nelle varie tappe successive al loro approdo in Europa, si battono auto-organizzandosi per la loro libertà di movimento e per i loro diritti, seppur in forme frammentate, segmentate e non immediatamente riconducibili a claim caratterizzati politicamente, alludono oggi direttamente a un’idea di Europa che vede le soluzioni sovraniste e populiste, che esse giungano da destra o da sinistra poco importa, semplicemente anacronistiche, materialmente superate da irrefrenabili processi materiali i corso.
Non ci scordiamo certamente il carattere forzato di questi movimenti legato alle condizioni di estrema deprivazione e ingiustizia che caratterizzano i luoghi di partenza per non parlare dei bombardamenti e delle guerre in corso a variabile intensità, guerre sempre più asimmetriche e a geografia mobile.
Detto questo, proprio per evitare approcci caritatevoli (e a tratti neocoloniali) e di farci tentare da populismi in salsa sinistroide, dobbiamo necessariamente concentrarci su quello che queste donne e questi uomini esprimono strappando ogni giorni porzioni di libertà e nuovi diritti nella direzione di divenire a tutti gli effetti attori innovativi di un’Europa multietnica e moltitudinaria. Non sono utopie o concettualizzazioni ottimistiche, sono fenomeni che si stanno già sviluppando e diffondendo ridefinendo interi tessuti urbani di gran parte dell’Europa. Pensare di costringere le lotte migranti dentro la categoria soffocante di popolo e all’interno degli spazi della sovranità si presenta come un operazione che trascende pericolosamente la materialità dei processi che innervano i nostri territori.
Un esempio ancora più territorialmente situato, la gestione dell’accoglienza nel territorio Veneto ed in particolar modo a Padova e Provincia, aggiunge ulteriori elementi di analisi e di comprensione della situazione in corso. Anche qui partiamo da un dato numerico. Secondo il “Rapporto sulla protezione internazionale 2016”3 al mese di ottobre del 2016 in Veneto su 14.754 richiedenti asilo presenti su territorio 11.426 trovavano posto nei vari CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e soltanto 500 nel sistema SPRAR, con un’incidenza di quest’ultimo del 4.3%.
Secondo rilevamenti non ufficiali almeno la metà di loro sono ospitati negli Hub di Cona (Venezia), di Bagnoli (Padova), Oderzo (Treviso), spazi militari dismessi dove vengono letteralmente ammassate centinaia di persone “invisibilizzate”, se non in casi drammatici come la morte di Sandrine, che vivono l’attesa del giudizio sulla loro domanda di Asilo in condizioni socio-sanitarie molto gravi.
I richiedenti asilo incontrati nel corso di una inchiesta in corso sulle forme dell’accoglienza nel territorio padovano, spesso protagonisti di forme autorganizzate di protesta con cortei e blocchi stradali nelle aree circostanti i campi che li ospitano dove ricordiamo rimangono anche per un anno intero, denunciano la qualità scadente del cibo causa di diffusi problemi gastro-intestinali, la pressoché assenza di servizio medico e di medicinali ( l’unica soluzione esistente è la distribuzione massiccia di paracetamolo!), la mancanza totale di fornitura di vestiti (alcuni ragazzi a diversi mesi di distanza dall’approdo hanno addosso ancora i vestiti e le scarpe con cui hanno affrontato il viaggio verso l’Europa) e l’insufficienza di servizi igienici ( in diverse occasioni abbiamo visto fossati scavati all’aperto che fungevano da vespasiani).
A questo si aggiunge l’assenza di corsi di italiano e di programmi orientati a creare un rapporto virtuoso tra loro ed il tessuto sociale del territorio. Questa modalità totalmente emergenziale che caratterizza l’accoglienza in questi territori può essere spiegata considerando l’intreccio di almeno tre elementi. Innanzitutto è frutto dell’inesistenza di progetti nazionali incentrati sui soggetti stessi, sulla tutela e sull’implementazione dei loro diritti e della loro volontà di scelta.
Negli ultimi due anni il Governo si è limitato a potenziare gli Hotspot per garantire le regole di Dublino (ricordiamo che i piani di “ricollocamento” stabiliti recentemente dalla Commissione Europea sono tuttora del tutto disattesi nella pratica) e a collocare gran parte di queste persone in strutture emergenziali attraverso bandi di assegnazione privi di meccanismo di controllo: questi bandi hanno evidentemente agevolato quel “business umanitario” le cui caratteristiche cominciano finalmente a venire a galla ed interessare anche il dibattito pubblico mainstream anche per le sue connessioni con le note faccende di “Mafia Capitale”.
Eccoci al secondo elemento. Sono alcuni settori del capitalismo veneto, fortemente segnato da corruzione e familismo clientelare, a sostenere finanziariamente questo tipo di gestione emergenziale dell’accoglienza4. Parliamo di veri monopoli (vedi la Cooperativa Ecofficina oggi rinominata Edeco) che nonostante diverse inchieste giudiziarie in corso continuano a gestire grandi centri come quello di Conetta e di Bagnoli e dunque a essere al centro di dinamiche di speculazione che riguardano introiti e giri di capitali di grande volume. Basti ricordare che il fatturato di Ecofficina-Edeco negli ultimi 4 anni, e dunque da quando si è prettamente occupata di accoglienza, è passato da 114 mila euro e circa 10 milioni di euro.
Infine troviamo un fatto di una certa rilevanza dal punto di vista politico, ma anche tecnico-burocratico, e cioè l’indisponibilità di gran parte delle amministrazioni comunali venete a prevalenza leghiste a fare la loro parte ad esempio mettendo a disposizione risorse per attivare forme di accoglienza diffusa o partecipando ai bandi SPRAR, soluzioni che potrebbero senz’altro rappresentare una svolta importante.
Questo incrocio di interessi economici e orientamenti politici ha come conseguenza materiale il collocamento di migliaia di Richiedenti Asilo in una posizione di estremo disagio e marginalità a cui si aggiunge una infame ricattabilità a cui sono sottoposti nell’attesa della riposta della Commissione Territoriale che giudica le loro domande di Asilo. Molti avvocati e operatori di piccole strutture ci riportano la tendenza sempre maggiore di queste Commissioni a giudicare non tanto in base a un già discutibile metro di misura legato alla storia migratoria del soggetto, ma al suo comportamento più o meno “adeguato” successivo all’approdo in Italia. Ecco di nuovo, nel vivo delle procedure territoriali, il dispositivo di selezione tra migranti buoni e cattivi orientato violentemente a colpire chi protesta e si batte per strapparsi porzioni di libertà.
C’è però un’altra dimensione, più simbolica, ma di certo non priva di effetti anche violentemente materiali, toccata fortemente dalle attuale approccio al fenomeno delle migrazioni e cioè quella dei populismi che sempre più vanno radicandosi in Italia e altrove. La recente tendenza che vede in campo sempre più strutturalmente queste soluzioni emergenziali di irretimento di migliaia di perone e una forte “accelerazione del processo di risemantizzazione del corpo migrante”5, presenza una base ideale per la cristallizzazione della rabbia e delle insicurezze degli autoctoni intorno alla presenza migranti e ai loro comportamenti.
Che questo avvenga attraverso i filtri e discorsi, in verità sempre meno edulcorati, della “sinistra” di governo che (come nella precedente stagione sicuritaria del 2008/2009, dei vari Amato, Cofferati, Domenici, Zanonato ecc..) si affanna a dimostrare che la “sicurezza dei cittadini” è sua naturale prerogativa e terreno di intervento o con i canali tradizionalmente razzisti delle destre cambia poco. Il risultato è comunque di nutrire pericolosamente le passioni tristi del populismo e dei suoi poco raccomandabili surrogati.
Non è facile individuare il modo migliore per accompagnare, mettersi al servizio ed implementare la conflittualità, la “politicità” e la forza costituente di questi processi in corso nei nostri territori. Sicuramente bisogna partire intervenendo direttamente nei contesti locali e nel farlo la condizione principale è quella di trovare ogni soluzione per interagire e relazionarsi con continuità con i migranti stessi. È la loro voce diretta e la valorizzazione della molteplicità di necessità e desideri in campo, opportunamente amplificate attraverso reti territoriali che la sappiano fare irrompere nel dibattito pubblico, a dover veicolare la potenzialità politica delle nuove rivendicazioni soggettive che già attraversano i territori in cui viviamo.
La costruzione di reti cittadine allargate che abbiano la forza di chiedere la chiusura immediata dei grandi concentramenti in cui vivono i richiedenti asilo si presenta ormai come una battaglia politica improrogabile. In termini pratici e concreti quello di chiedere l’allargamento dei progetti SPRAR attraverso il coinvolgimento delle amministrazioni comunali e, nella prospettiva di una sua cancellazione, di rivoluzionare l’accoglienza temporanea con un utilizzo esclusivo di strutture qualificate di piccole e medie dimensioni (dove la preparazione degli operatori e la presenza di programmi di “inclusione” spazzino via la logica assistenziale e caritatevole) sono obiettivi minimi che parlano direttamente delle condizioni materiali di vita dei migranti, ma contemporaneamente si presentano come condizione necessaria per cercare di neutralizzare l’offensiva razzista e xenofoba.
In questo senso le sperimentazioni “neo-municipaliste” in corso in alcuni territori, e quelle in divenire, dovranno necessariamente misurarsi con questi nodi ed avere la capacità di imporre in tutte le discussioni cittadine il tema della libertà e dei nuovi diritti dei migranti e la progettazione di nuovi percorsi di una cittadinanza attiva. I populismi si possono sconfiggere non assumendo i loro angusti frame di riferimento, ma avanzando un’idea degli spazi urbani e metropolitani fortemente segnata dalla capacità di soggettività diverse di cooperare e costruire forme di lotta e innovazione sociale comuni attraverso la costruzione di linguaggi ed immaginari condivisi.
Sarebbe infine necessario non scordarci della nostra attitudine, per nulla utopica, a elaborare rivendicazioni universalitistiche e “ricompositive” situando proprio dentro questi processi alcune battaglie come quelle per un permesso di soggiorno europeo per tutti i migranti che approdano o che già vivono sul territorio a prescindere dagli status normativi in cui sono costretti e quelle orientate alla conquista di un reddito minimo d’esistenza e di nuove forme di welfare universale.
La straordinaria mobilitazione di decine di migliaia di persone nelle metropoli e negli aeroporti contro l’executive order di Trump diventa per tutti noi un punto di riferimento importante non solo per la sua naturale vocazione anti-sovranista e anti-populista, ma anche alla luce della sua composizione moltitudinaria che vede ad esempio movimenti antirazzisti come Black Live Matters intrecciare in questi giorni le loro lotte insieme a quelle femministe per la libertà e l’autodeterminazione messe in scena il 21 gennaio con la women’s march on Washington.
1 http://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annula_Risk_Analysis_2016.pdf
2 http://www.euronomade.info/?p=8566; http://www.euronomade.info/?p=8521
3 http://centroastalli.it/wp-content/uploads/2016/11/Rapporto_protezione_internazionale_2016_SINTESI.pdf
4 http://ilmanifesto.info/ecofficina-lanima-nera-del-modello-veneto-fra-capannoni-dismessi-e-simulacri-industriali/; http://ilmanifesto.info/le-mani-sul-business-dei-profughi-ma-il-sistema-di-borile-c-non-e-inossidabile/; http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/03/venezia-tutte-le-ombre-su-chi-gestisce-il-centro-di-cona-indagini-per-truffa-parentopoli-e-la-cacciatada-confcooperative/3293882/
5 http://www.euronomade.info/?p=8638
la Repubblica online, 1 febbraio 2017 (p.s)
«Abbiamo firmato con le associazioni del tavolo islamico italiano un importantissimo documento, cruciale, che riguarda il presente e il futuro dell'italia attraverso il dialogo interreligioso». Così il ministro dell'Interno Marco Minniti, al Viminale, presenta il 'Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente e ai valori e principi dell'ordinamento statale', redatto con la collaborazione del consiglio per i rapporti con l'islam italiano e recepito dal ministero dell'Interno.
Minniti è soddisfatto, il documento è stato sottoscritto dalle principali associazioni e organizzazioni islamiche in italia, rappresentative di circa il 70 per cento dei musulmani che attualmente vivono in italia. «È un atto che considero straordinario - dice il ministro -, un importante passaggio utile per la vita del nostro Paese».
Tra i punti salienti del patto, come sottolinea Minniti in conferenza stampa, c'è la «formazione di imam e guide religiose» che prelude a un albo degli imam. Inoltre, le associazioni islamiche si impegnano a «rendere pubblici nomi e recapiti di imam, guide religiose e personalità in grado di svolgere efficacemente un ruolo di mediazione tra la loro comunità e la realtà sociale e civile circostante; ad "adoperarsi concretamente affinchè il sermone del venerdì sia svolto o tradotto in italiano»; ad «assicurare in massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti». Il documento di fatto consente di superare anche antiche contrapposizioni tra alcune associazioni islamiche.
Condividi «Il patto - sottolinea - si muove nell'alveo della nostra Costituzione, che sono i nostri valori. I valori che tutti quanti insieme ci impegniamo a difendere e a ripudiare qualsiasi forma di violenza e di terrorismo». «La prima parte del Patto - prosegue Minniti - richiama i valori della Costituzione italiana, che sono i valori dei firmatari, valori che tutti insieme ci impegniamo a difendere. Il cuore del documento - ha aggiunto - è il giusto equilibrio tra diritti e doveri».
Il segretario generale del centro Islamico culturale d'Italia (la grande moschea di Roma), Abdellah Redouane, tra i firmatari, esprime apprezzamento per lo "spirito" che ha portato alla firma: «Il centro continuerà a dare il suo contributo nel favorire una crescita e responsabile dell'islam in Italia».
Il Patto contiene dieci impegni da parte delle associazioni islamiche chiamate a far parte del Tavolo di confronto presso il ministro dell'Interno ed altrettanti da parte del ministero. Si sottolinea, rileva il ministro, «che la libertà di culto è una delle libertà inalienabili e che lo Stato non dà regole alle religioni, ma può fare intese. È l'incontro di libere volontà, non la supremazia di una volontà». Il titolare del Viminale definisce poi «un grave errore l'equazione tra immigrazione e terrorismo, ma è un errore anche dire che non c'è rapporto tra mancata integrazione e terrorismo. L'attentato di Charlie Hebdo ha dimostrato che livelli di integrazione non adeguati formano un brodo cultura per i terroristi».
Minniti quindi mette in guardia dagli imam fai da te, definiti "un grande pericolo" e illustra gli altri punti del documento: il contrasto al radicalismo religioso, l'impegno a garantire che i luoghi di preghiera siano accessibili a visitatori non musulmani e che il sermone del venerdì sia «svolto o tradotto in italiano", la massima trasparenza sui finanziamenti ricevuti per la costruzione e le gestione di moschee e luoghi di culto. "Non sono - conclude il ministro - standard che uno decide e gli altri devono accettare, sono condivisi e ho visto una straordinaria volontà dei firmatari di impegnarsi nella realizzazione di questo percorso. Sarà promossa una serie di incontri con le comunità musulmane, si organizzerà un tour per i giovani musulmani di seconda generazione e faremo una grande assemblea».
Infine il ministro ringrazia i docenti musulmani «per il lavoro straordinario svolto, per aver permesso con la loro professionalità e la loro apertura culturale di raggiungere un obiettivo non semplice. In altri momenti non tutte le associazioni avrebbero firmato un documento simile, oggi lo hanno fatto. Qualcuna magari convincendosi all'ultimo momento: quando ho fatto notare che nella nostra religione c'è piu festa in cielo per la pecorella smarrita, mi hanno fatto notare che lo stesso vale anche per la loro. Tanto che potremmo anche chiamarlo il patto della pecorella smarrita...».
Se per "radicalizzazione" si intende il ricorso sistematico alla violenza una società appena decente non dovrebbe rispondere alla "radicalizzazione" propria a quella altrui.
huffingtonpost online, 1 febbraio 2017 (p.s.)
In un saggio del 1963, "Radicalism and the organization of radical movements", il sociologo cecoslovacco Egon Bittner definiva il radicalismo come reazione di rigetto rispetto al "normale e tradizionale" orizzonte assiologico vigente in un dato gruppo sociale e in un determinato momento storico. Essere radicali significa, per lo studioso, interiorizzare una serie di modi di agire, pensare e sentire che si pongono in antitesi con lo spirito del proprio tempo.
Questa prospettiva mette in luce l'essenziale: la radicalizzazione non è un processo socio-cognitivo che riguarda solamente terroristi irriducibili e sanguinari quanto, al contrario, costituisce una dinamica ricorrente nella vita quotidiana di ogni attore sociale. Percorrere contromano un senso unico, per intenderci, significa essere, a proprio modo, radicali.
Quando Bittner scriveva, erano anni nei quali il mondo degli intellettuali stava ancora cercando di razionalizzare il misterioso geroglifico che aveva condotto l'umanità occidentale nel baratro di due disastrosi conflitti che, erodendo le fondamenta della ragione, avevano provocato uno stato di barbarie e distruzione. È quantomeno sorprendente, tuttavia, che la lezione di Bittner sia stata quasi completamente ignorata nel dibattito attuale sulla radicalizzazione.
In particolar modo, nonostante tale dibattito abbia consentito di far luce su ogni singolo aspetto del percorso socio-psicologico che conduce un individuo "normale" verso la violenza politica e religiosa, ci si è completamente dimenticati che le stesse identiche dinamiche incidono sulla radicalizzazione, eguale e contraria, della quota parte di società che combatte la radicalizzazione. In parole più semplici, non è stato compreso che le dinamiche che regolano la radicalizzazione della violenza islamica sono in realtà le stesse che determinano quella che definisco "radicalizzazione dell'Occidente" nei confronti dell'Islam.
Per spiegare tale concetto occorre, tuttavia, fare un piccolo passo indietro, definendo cioè quali sono le macro-componenti della radicalizzazione, cioè di quel processo socio-cognitivo che porta un individuo "normale" ad acquisire una mentalità radicale che potrebbe condurlo verso la crescente volontà di sovvertire l'ordine esistente. Gli studiosi dividono la radicalizzazione in due sotto-processi che prendono il nome di radicalizzazione cognitiva (l'acquisizione mentale di una ideologia radicale) e comportamentale (la progressiva disponibilità all'azione violenta).
La violenza verbale, fisica, virtuale e terroristica, trova sempre la sua genesi nella selva psico-cognitiva del pensiero individuale. Spiegare la radicalizzazione significa, quindi, dipanare la matassa della mente dell'individuo che si radicalizza, tenendo a mente l'ironica provocazione di Joseph Margolin secondo cui "il terrorista" - e, dunque, ogni uomo - «è prima di tutto un uomo». Proprio da lì occorre partire.
La frustrazione come causa profonda della radicalizzazione
Per spiegare la dinamica della radicalizzazione del «noi contro di loro», cioè la reazione di rigetto del mondo Occidentale nei confronti dell'Islam, parto dal concetto di frustrazione e dai suoi effetti sulla vita delle persone. Nel 1954, lo psicologo statunitense Maslow Abraham propose una gerarchizzazione piramidale dei bisogni umani, suddividendoli in 5 macro-categorie: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione.
La relazione tra bisogni e soddisfazione, secondo Maslow, è di inversa proporzionalità. Più precisamente, considerati i bisogni fisiologici come la base della piramide e quelli legati all'autorealizzazione il vertice, la probabilità di soddisfare i secondi sarà di gran lunga inferiore rispetto ai primi. Questo comporta, inevitabilmente, una frustrazione crescente nell'uomo: al crescere dei bisogni, diminuiscono le possibilità di soddisfarli.
Questo è particolarmente evidente nelle moderne civiltà occidentali, dove il progresso ha generato crescente benessere materiale, consentendo a miliardi di persone di riempire la base della piramide di Maslow. Tuttavia, il progresso materiale non offre particolari risposte per quanto riguarda i bisogni di livello superiore, e cioè quelli legati, per così dire, alla dimensione spirituale della vita degli umani. Soddisfare lo spirito significa sentirsi appagati mentalmente, essere in pace con sé stessi, col mondo circostante, significa costruire un solido architrave attorno a cui erigere le "pareti" della propria esistenza terrena. L'ascensione della piramide è paragonabile all'arrampicata di uno scalatore: lenta, stancante e, talvolta, impossibile da terminare.
Date queste premesse e nonostante la realizzazione dei bisogni spirituali sia un percorso che ha come durata la vita stessa dell'uomo, in determinate circostanze e in date congiunture storiche segnate da crisi globali, sfiducia nel progresso umano e ultra-individualismo nelle relazioni, tale frustrazione assume delle caratteristiche ben precise, passando da essere la causa di un problema allo strumento per combatterlo. Gli individui soggetti alla frustrazione crescente della propria autorealizzazione cominciano improvvisamente a temere, non solo di essere giunti al termine del cammino di avvicinamento a essa, ma anche di dover difendere la propria posizione raggiunta dal rischio di perdere terreno, aggrediti da minacce esterne.
L'ideologizzazione della frustrazione
Qualora rimanga un fenomeno relegato alla mera vita privata di un individuo, la frustrazione non coincide con la radicalizzazione. Come sostiene il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar in un suo studio illuminante sulla radicalizzazione islamica nelle carceri francesi, la frustrazione è un parametro insufficiente per innescare la radicalizzazione. L'individuo frustrato, infatti, potrebbe reagire alle sue inquietudini chiudendosi in sé stesso, senza cercare in alcun modo la via del riscatto. La frustrazione - fattore determinante per la radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam - necessita di un solvente, di un catalizzatore che ne faciliti la trasformazione. La source del passaggio dalla frustrazione alla sua dimensione applicativa è costituita dall'ideologia, in un processo che Khosrokhavar definisce «ideologizzazione della frustrazione».
Nonostante la civiltà contemporanea si definisca post-ideologica, ritengo che le nuove organizzazioni politiche anti-sistemiche e populiste rappresentino il condensato più evidente di come l'ideologizzazione dei gruppi sociali sia un fattore preponderante e tutt'altro che scomparso.
Un'ideologia trasversale, che non ha più i connotati dei vecchi impianti del Novecento, ma che, comunque, ha il potenziale sufficiente per innescare una nuova forma di conflitto sociale che, come scrissi a margine dell'elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, «non ha più il suo fine nella conquista dei diritti, ma nella difesa di privilegi» e, addirittura, nell'introduzione di nuovi privilegi in opposizione frontale rispetto a chi, al contrario, vuole solamente garantire diritti.
Il successo dei movimenti anti-sistema, che trascendono i confini, deriva dal fatto che «sono tutte manifestazioni dello stesso fenomeno, che affonda le sue radici in una paura ormai radicata nell'inconscio di una maggioranza perlopiù silenziosa, ma che trova espressione politica in una narrativa rassicurante», estremamente "autoreferenziale" e capace di generare "una sorta di psicosi collettiva".
Qual è l'origine di tale paura? La frustrazione individuale per l'impossibilità di progredire nella marcia di soddisfazione dei propri bisogni, provoca la necessità di trovare appiglio nel mondo reale per lenire, almeno parzialmente, la propria angoscia esistenziale.
Questo processo virale, che si autoalimenta grazie anche ai mezzi di comunicazione, all'incessante creazione di "bufale" e, soprattutto, al fatto che ci siano persone che le prendono per vere, porta come logica conseguenza al settarismo e alla necessità di difendersi dal pericoloso assedio di agenti esogeni che minacciano direttamente i nervi scoperti della propria persona. Gli agenti patogeni, percepiti come origine della frustrazione, sono spesso identificati nell'"altro", nel "diverso", in chi si discosta dal proprio gruppo sociale di riferimento (per esempio, musulmani e migranti). Attraverso una narrativa riduttiva e semplicistica, viene a costituirsi un nuovo e potentissimo serbatoio ideologico.
L'operazionalizzazione della frustrazione
Chiunque ritenga ancora che l'ideologizzazione della frustrazione non sia, in realtà, un esempio di ideologia, non mette a fuoco l'essenziale. L'ideologia costituisce, da sempre, un complesso sistema di norme condivise da un dato gruppo sociale e che, in quanto tali, hanno un potente valore coattivo per i membri del gruppo. Per misurare la presenza di una narrativa condivisa, di un insieme di valori interiorizzati negli aderenti a tali movimenti, basti prendere come esempio il contenuto tematico ricorrente, verificabile nelle interazioni tra gli utenti delle varie piattaforme social, mentre esprimono la propria posizione su determinate tematiche.
Facendo questo esercizio, si potrà verificare con estrema facilità come funziona, da un punto di vista pratico, la frustrazione, nel momento in cui essa diventa ratio e guida per l'azione. Parole come "perbenismo", "buonismo", "ripulire", "povertà", "carestia", "miseria", "invasione", "questa gente/noi", ricorrono con un'insistenza maniacale, anche in frasi totalmente decontestualizzate. Detto in altri termini, fanno parte di un alfabeto parallelo costruito ad hoc dai membri di tali movimenti. In breve: la parola "ripulire", per esempio, ha raggiunto un tale livello di significatività da essere immediatamente visualizzabile e di grande efficacia.
Nel momento in cui si passa dalla fase della frustrazione alla fase della cyber-lotta per procura, avviene, definitivamente, quella che potrebbe essere denominata "operazionalizzazione della frustrazione", che sancisce il passaggio dalla radicalizzazione cognitiva alla radicalizzazione comportamentale. Si potrebbe obiettare che la radicalizzazione di un movimento anti-sistemico è differente da quella verso il terrorismo, in quanto mentre il primo produce morte e brutalità, il secondo genera, al massimo, odio virtuale.
Chi scrive, al contrario, ritiene che, i fattori che guidano la radicalizzazione cognitiva finalizzata al terrorismo e quelli che operazionalizzano la frustrazione siano gli stessi. Sottolineare una forte soluzione di continuità tra i due fenomeni significa ignorare completamente un concetto fondamentale: le manifestazioni di violenza verbale online, pur non producendo morte, sono atti gravissimi di violenza che potrebbero generare conseguenze irreversibili nelle vittime.
L'operazionalizzazione della frustrazione è un processo multifasico, i cui tratti ricorrenti sono i seguenti: frustrazione, individuazione della causa della stessa, ricetta per curarne gli effetti. Tutto comincia con la descrizione, ovvero la narrazione della frustrazione: "questa gente vuole rubarci il lavoro e imporci di aderire alla loro religione, svilendo i valori fondanti dei nostri antenati".
Poi si passa all'individuazione delle cause della frustrazione: «L'invasione islamica porterà allo stermino di noi cattolici ed ebrei, e se non fermiamo - noi italiani in primis - questa invasione, i nostri futuri figli non avranno neanche un lavoro, una casa, e una famiglia. Se è questo quello che volete buonisti, allora andate a vivere con loro: noi stiamo sia con Trump che con Israele. Israele fa bene a massacrare tutti i musulmani, e Trump fa bene a non fare entrare gli islamici nel suo paese, è ora che impariamo sia da Trump che da Israele».
Infine, si propone la ricetta per curarne gli effetti: «Siamo proprio ben messi, che schifo! Ripulire l'Italia da questa gente che porterà solo miseria e carestia per noi italiani senza contare tutte le malattie che non avevamo più ritorneranno e per causa loro sarà la fine della nostra specie».
I virgolettati appena riportati sono commenti di utenti di movimenti politici anti-sistema, su differenti piattaforme social. Si tratta di un esempio pertinente, utile per capire il funzionamento della radicalizzazione dell'Occidente. Si parte da una narrativa che, denunciando uno stato di pesante frustrazione legato alle condizioni materiali e spirituali del vivere presente, rintraccia nei gangli della società degli elementi patogeni di imperfezione e di impurità, che devono essere estirpati per evitare la «fine della nostra specie». Curioso notare, a questo proposito, che associare il linguaggio della parassitologia a gruppi sociali rivali è stato un tratto storicamente ricorrente in ogni gruppo radicale.
Le emozioni non costituiscono l'azione ma la predispongono
Nonostante i condizionamenti che si impongono agli attori sociali in virtù della coattività del contesto normativo in cui essi sono socializzati, si ritiene che la source delle azioni di un individuo sia da rintracciare nella dimensione psicologica ed emotiva insita nell'essere umano. In parole semplici, tanto in una storia d'amore, quanto nell'attività di un terrorista, di un criminale e di un assassino, agisce una interiorità emotiva capace di condizionarne i comportamenti.
È erroneo, dunque, sottovalutare il ruolo delle emozioni nel definire il cammino di ogni persona. Anche se è fuor di dubbio che le emozioni non costituiscono l'azione, esse hanno, tuttavia, la capacità di predisporla. Questo in virtù della cosiddetta "dimensione motivazionale" delle emozioni, e cioè del loro essere la cinghia di trasmissione in grado di trasferire i contenuti dello spirito alle azioni del corpo.
La radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam nasce, dunque, nelle innervazioni profonde della psiche collettiva di una certa parte di civiltà occidentale che, non trovando risposte alla necessità di soddisfare bisogni spirituali personali, trova nel "diverso" - musulmani e immigrati in primis - una facile e congeniale valvola di sfogo. Le prime mosse anti-immigrazione della Presidenza Trump costituiscono una estrinsecazione sinistra di tale radicalizzazione.
Tutto ciò produrrà, inevitabilmente, effetti negativi per ciò che concerne la lotta alla radicalizzazione jihadista vera e propria. Come sottolineano gli approcci più recenti nel campo del contrasto al terrorismo, una delle procedure-chiave per combattere la radicalizzazione violenta dell'Islam, consiste nel prevenire la dimensione cognitiva che guida l'intero processo. È imperativo categorico, dunque, che l'Occidente non risponda alla radicalizzazione con la radicalizzazione. Questo, oltre a essere oltraggioso nei confronti di una tradizione di difesa dei diritti tipicamente occidentale, ha pure effetti velleitari - se non addirittura peggiorativi - nella prevenzione della violenza. Nell'informare questo percorso, infine, gli intellettuali hanno una responsabilità imprescindibile.
Postilla
Noi per "radicale" intendiamo qualcosa di diverso: andare alla radice delle cose. Vedi su eddyburg Moderati e radicali secondo Bevilacqua
la Repubblica online, 1 febbraio 2017 (p.s)
Telegramma urgente a tutte le questure: «Rintracciare cittadini nigeriani in posizione irregolare sul territorio nazionale». L'obiettivo è riempire entro febbraio un volo charter per la Nigeria. Per questo, vengono riservati 95 posti nei Cie di Roma, Torino, Brindisi, Caltanissetta. Scatta la stretta sugli irregolari. Il Viminale prova a far ripartire la macchina delle espulsioni: precedenza assoluta ai nigeriani.
Un passo indietro: il complesso meccanismo di contrasto all'immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali ed espulsioni è in stallo da tempo. Un sistema imponente che dà miseri frutti: nel 2016 i rimpatri effettivi sono stati meno di 6mila. L'obiettivo è ora raddoppiarli. Per questo, il Viminale annuncia più Cie e nuovi accordi di riammissione con i Paesi d'origine. Su questa linea, si muove l'ultimo telegramma del ministero.
Il telegramma spedito alle questure italiane dalla Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere
Condividi Il 26 gennaio 2017 la Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere spedisce a tutte le questure italiane un telegramma. Oggetto: «Audizioni e charter Nigeria. Attività di contrasto all'immigrazione clandestina». L'obiettivo è rintracciare nigeriani irregolari per provvedere al loro rapido rimpatrio forzato.
«Al fine di procedere, d'intesa con l'ambasciata della Repubblica federale della Nigeria, alle audizioni a fini identificativi di sedicenti cittadini nigeriani rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale per il loro successivo rimpatrio, questa direzione ha riservato a decorrere dal 26 gennaio al 18 febbraio 2017 50 posti per donne nel Cie di Roma, 25 per uomini a Torino, 10 a Brindisi, 10 a Caltanissetta». Posti che andranno resi disponibili urgentemente anche tramite dimissioni di altri trattenuti. Le questure «sono invitate a effettuare mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale».
Per Filippo Miraglia, vicepresidente dell'Arci, «si tratta di un'azione di espulsione collettiva, vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità, quindi discriminatoria, a prescindere dalle condizioni delle singole persone».
Un dibattito interessante sul lavoro, a partire dal "reddito di cittadinanza. Ma raramente la sinistra riesce a uscire dall'angusto recinto del capitalismo. Neppure col pensiero. Articoli di Laura Pennacchi, Marco Bascetta, Aldo Carra, Andrea Fumagalli.
il manifesto, 29 gennaio - 1° febbraio 2017, con postilla
29 gennaio 2017
PERCHÉ AL «REDDITO DI CITTADINANZA»
PREFERISCO IL LAVORO
di Laura Pennacchi
Ha più di un fondamento l’affermazione de Le Monde secondo cui è «una falsa buona idea» l’ipotesi del «reddito universale» o «reddito di cittadinanza», che in tempi di populismi dilaganti ricorre dall’Italia alla Francia. Questa ipotesi (con cui si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale non sottoposto a nessun’altra condizione) pone immensi problemi di costo – si discute di centinaia di miliardi di euro -, a fronte del ben più limitato ammontare che sarebbe richiesto da «Piani per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne» ispirati alla prospettiva del «lavoro di cittadinanza» e al New Deal.
Un costo così illimitato rende la prima semplicemente irrealizzabile e i secondi assai più credibili e questo basterebbe a chiudere la diatriba, se non fosse che l’ipotesi di «reddito di cittadinanza» pone anche rilevantissimi problemi culturali e morali, sui quali è bene soffermarsi.
Non può essere sottovalutato che tra i primi sostenitori della proposta di «reddito di base incondizionato» ci fu Milton Friedman, il monetarista antesignano del neoliberismo che ne formulò una versione a base di riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa».
Ma anche vari teorici di sinistra finiscono con l’avvalorare, pur di realizzare il «reddito di base», l’immagine di uno stato sociale «minimo», specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.
Sottostante a tutto ciò c’è una strana resistenza, anche a sinistra, a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi «senza fine» esplosa nel 2007/2008, quasi si fosse indifferenti ad un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e del suo esito più devastante, la «crisi permanente» per l’appunto. La motivazione con cui da parte di molti si giustifica il «reddito universale» è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile». Con questa motivazione, però, il «reddito di cittadinanza» viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe a essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde e l’operatore pubblico si vedrebbe giustificato nella sua crescente deresponsabilizzazione (perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).
In questa prospettiva è quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ci si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Problemi di allocazione e di struttura si pongono tanto più al presente: il necessario «nuovo modello di sviluppo» non nasce spontaneamente, né solo per virtù di incentivi monetari, quale è anche il «reddito di cittadinanza», ma ha bisogno di pensiero, ideazione, progetti.
Chiarezza concettuale e culturale va fatta sulla stessa concezione del lavoro. L’escamotage a cui alcuni a sinistra ricorrono – sosteniamo insieme sia il «reddito universale» sia la «piena occupazione» – è fittizio e lascia tutti i problemi irrisolti. Stupisce, piuttosto, che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo «l’economia che uccide» – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’«essere» del lavoratore. Così come stupisce che non si faccia appello al Marx che, con Hegel, vede nel lavoro – nella sua «inquietudine creatrice» – il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.
Dunque, piuttosto che ambire a costruire un «welfare per la non piena occupazione», la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della «piena e buona occupazione», nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
Non a caso il grande studioso Anthony Atkinson, scomparso da pochi giorni, da un lato proponeva un «reddito di partecipazione», cioè un beneficio monetario da erogare sulla base dell’apporto di un contributo sociale (lavoro di varia forma e natura, istruzione, formazione, ecc.), dall’altro si riferiva a Keynes e a Minsky e consigliava di tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione, facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito», dall’altro ancora suggeriva che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di «reddito di cittadinanza») di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di «reddito di cittadinanza».
31 gennaio 2017
REDDITO UNIVERSALE,
COSÌ LA VITTORIA DI HAMON
PARLA AI NONGARANTITI
di Marco Bascetta
Benoit Hamon, che ha prevalso con ampio margine nelle primarie del Partito socialista francese per la candidatura all’Eliseo, e che guarda a una possibile alleanza rosso-rosso-verde, ha posto tra gli obiettivi centrali del suo programma il reddito di cittadinanza.
Seppure, nei tempi e nei modi della sua realizzazione, ha spesso oscillato dall’originaria impostazione universalistica e incondizionata a soluzioni più graduali e circoscritte, resta un segnale forte che, insieme al rifiuto della Loi Travail, ha saputo mobilitare una parte consistente dell’elettorato di sinistra, giovanile in particolare.
Del reddito di cittadinanza esistono infinite varianti e interpretazioni nel corso di una storia assai lunga che ha attraversato movimenti e progetti politici antagonisti, del tutto antitetici alla tradizione liberale nella quale gli avversari del basic income, si sforzano insistentemente di rinchiuderlo. Ricordare che Milton Friedman proponesse, a suo modo, forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione.
Resta il fatto che a sinistra il reddito di cittadinanza (o di base) incontra molteplici resistenze, ideologiche prima ancora che contabili. Il che rende questa vittoria di Hamon tanto più significativa e probabilmente dovuta, oltre che alla presa di distanza dal neoliberismo, dall’aver incrociato la domanda dei tanti soggetti sociali esclusi dagli ammortizzatori sociali che la sinistra tradizionalmente difende e gelosamente amministra.
Ormai stufi di rincorrere la promessa della piena occupazione da cui tutto dovrebbe discendere. L’articolo di Laura Pennacchi, pubblicato su queste pagine domenica scorsa, ci offre un catalogo piuttosto completo di queste resistenze. Che spaziano dal costo finanziario del basic income al «valore etico» del lavoro, con immancabile citazione di papa Francesco il quale, facendo il suo mestiere, fa risiedere nell’ora et labora, l’essenza della persona. Quanto ai costi del reddito universale (che dovrebbe riassorbire altre forme di previdenza) esistono tanti calcoli quante ne sono le varianti.
Qui, non potendo entrare in questioni tecniche, basterà dire che nel mondo barbaramente diseguale descritto da Piketty, l’insufficienza delle risorse è un argomento generalmente piuttosto debole.
Vi sono due tendenze alle quali quanti coltivano la fede nella piena occupazione non danno risposta.
La prima è che l’automazione e la tecnologia sono, per loro essenza, votate al risparmio di lavoro, a ridurre cioè il dispendio di fatica umana nella produzione di ricchezza. Che questa potenzialità si rovesci in disoccupazione e miseria è una conseguenza dei rapporti sociali. Solo nei momenti di più feroce sfruttamento (come la prima rivoluzione industriale) moltiplicano lavoro, perlopiù ripetitivo, dequalificato e sottoposto a un rigido comando gerarchico.
Oppure, come nell’epoca digitale, lavoro gratuito più o meno inconsapevole. Veniamo così alla seconda tendenza, del tutto invisibile a quanti guardano al reddito di cittadinanza con gli occhiali appannati dei classici ammortizzatori sociali. Viviamo in una società nella quale gran parte delle attività che ne fanno la ricchezza e la qualità sociale non sono riconosciute come lavoro e non danno diritto ad alcuna forma di reddito.
L’inattività assoluta è una pura e semplice invenzione ideologica. Per dirla con una formula secca non è di disoccupazione, ma di «disretribuzione» che dovremmo parlare. Il rapporto tra lavoro e reddito è stato di fatto già reciso, ma non dal reddito garantito, bensì dal dilagare del lavoro gratuito. Tradurre in contratti di lavoro retribuiti e regolamentati, per non dire stabili, queste molteplici attività che formano il fitto tessuto della cooperazione sociale va, questo sì, ben oltre il più strenuo sforzo di fantasia.
Detto altrimenti, ci troviamo già in una situazione di piena occupazione, la quale si presenta appunto nelle forme del lavoro precario, intermittente e gratuito da cui trae alimento il cosiddetto «capitalismo estrattivo». In questa prospettiva il reddito di base non è che il trasferimento di una parte di questa ricchezza a coloro che effettivamente la producono e non un semplice ammortizzatore sociale.
Si tratta, insomma, di un obiettivo pienamente politico e anche di un relativo trasferimento di potere.
La garanzia di un reddito comporta infatti maggiore forza contrattuale e più ampi margini di libertà dalle pretese del dirigismo pubblico di stabilire l’ «utilità sociale» come da quelle dello sfruttamento privato. «Datori di lavoro» è una espressione che non consente equivoci di sorta, che si tratti dello stato o del padrone.
Esprime, infatti, il potere di stabilire se, come, quanto, quando e cosa «dare». Una prerogativa alla quale non si rinuncia certo facilmente. E con la quale il desiderio di autonomia di innumerevoli soggetti produttivi non può che entrare in rotta di collisione.
1° febbraio 2017
REDDITO E LAVORO DUE IPOTESI DIVERSE
MA NON ALTERNATIVE
di Aldo Carra
Gli articoli di Laura Pennacchi e di Marco Bascetta, mentre nel partito socialista francese vince un candidato con la bandiera del reddito universale e della riduzione degli orari di lavoro, ripropongono la divaricazione dei punti di vista della sinistra italiana.
Da una parte centralità della creazione di nuovo lavoro come fonte di reddito, dall’altra affermazione del diritto ad un reddito di cittadinanza a prescindere dalla prestazione lavorativa.
Dopo il No dei giovani al referendum, la denuncia della crescita delle disuguaglianze per scarsità di lavoro e bassa remunerazione, mentre si sta dispiegando una ristrutturazione dei soggetti politici e tra poco dovremo affrontare referendum Cgil ed elezioni, una piattaforma politica della sinistra sulla materia si impone con urgenza. Proporrei alcuni punti di riflessione.
1 – Il matrimonio tra reddito e lavoro per cui non si dava reddito senza lavoro e lavoro senza reddito è finito da tempo: le diverse forme di welfare hanno introdotto sostegni al reddito che prescindono da prestazioni lavorative; negli ultimi anni si sono diffuse forme diverse di lavoro non retribuito connesse a prestazioni fatte per un mix di impegno civile, aspettative indotte, piacere personale. Forse se la dimensione spaventosa della disoccupazione misurata col metro tradizionale di lavoro e non lavoro non assume caratteri di rivolta è anche per questa area cuscinetto che vive in un limbo sostenuto spesso da ammortizzatori familiari.
2 – In uno quadro così dinamico le due ipotesi estreme presentano diverse criticità. La proposta di puntare esclusivamente a programmi di crescita capaci di creare occupazione in presenza di livelli di disoccupazione straordinari – 10 milioni tra disoccupati, scoraggiati, cassintegrati – non appare realistica, tenendo presente che innovazioni e robotizzazione ridurranno ulteriormente il lavoro necessario. Sul lato estremo, concentrare attenzione e risorse su una forma di sostegno come il reddito di cittadinanza appare a molti rinunciataria perché non si cimenta con la costruzione e la sfida di un nuovo modello di sviluppo oltreché negativa e dannosa sul piano etico.
3 – Collocando queste due ipotesi alle estremità di una scala, si possono ipotizzare svariate soluzioni intermedie come un reddito di cittadinanza attiva, cioè erogato in funzione di prestazioni lavorative prevalentemente di carattere sociale, ed un lavoro di cittadinanza come dovere delle istituzioni verso i cittadini e diritto dei cittadini. Le diverse proposte non sono necessariamente alternative. Al contrario, penso si possa progettare una strategia articolata, percorsi che consentano l’adattamento alle esigenze dell’individuo e dei territori con soluzioni e strumenti differenziati in veri e propri piani pluriennali. Maggiore credibilità alle due proposte dovrebbe venire dalla riduzione degli orari di lavoro, incoraggiandola nei rinnovi contrattuali con misure condizionate a nuove assunzioni e incentivi compensativi delle perdite di salario.
4 – Le diverse ipotesi, prese singolarmente o intrecciate e graduate, hanno implicazioni in termini di costo. Ciò implica investimenti pubblici sia nei settori produttivi che in quelli sociali (dai servizi alle manutenzioni, ripensando in forme nuove ai lavori socialmente utili) reperendo le risorse con una maggiore progressività sulle fasce alte sia delle imposte sui redditi che sui beni patrimoniali e sulle successioni, con investimenti diretti europei, con spesa pubblica esclusa dai vincoli di bilancio, senza trascurare l’ipotesi, a questo fine, di creare la moneta fiscale.
Un Piano straordinario di investimenti per il lavoro e per il reddito come programma minimo comune per un nuovo soggetto politico della sinistra. Se si discutesse di più di questo e, a cominciare dal congresso di Sinistra Italiana, si potesse delineare una piattaforma da discutere con il mondo giovanile innanzitutto, come base di possibili alleanze penso che il progetto ambizioso di Sinistra Italiana partirebbe col piede giusto.
1° febbraio 2017
«REDDITO DI BASE CONTRO LA PRECARIETÀ,
MODELLO HAMON PER SINISTRE E SINDACATO»
intervista di Roberto Ciccarelli ad Andrea Fumagalli
«Intervista a Andrea Fumagalli, economista dell'università di Pavia e membro del Basic Income Network Italia: "A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste sostenendo il reddito di base nel suo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica"»
«Dai dati Istat sulla forza lavoro emerge che il mercato del lavoro italiano è in forte stagnazione e gli sperati effetti del Jobs Act non si sono fatti sentire – afferma l’economista Andrea Fumagalli, docente all’università di Pavia e membro dell’associazione del Basic Income Network per il reddito di base in Italia – Una volta terminata la droga degli incentivi la crescita occupazionale si è interrotta e quella che c’è stata è trainata dai contratti precari. Il contratto a tutele crescenti, anche se viene considerato un contratto a tempo indeterminato nelle statistiche, in realtà è un contratto a tempo o un contratto di apprendistato lungo tre anni. Già adesso si inizia a vedere che molti lavoratori assunti con questo contratto sono licenziati a un costo irrisorio per le imprese ed è probabile che a tre anni dall’introduzione del Jobs Act il numero di coloro che saranno assunti stabilmente sarà relativamente basso. Ciò dipende dalle politiche assistenziali all’impresa deliberate dal governo Renzi non hanno avuto effetti sul livello della domanda e dei consumi interni e ha favorito la stagnazione del Pil e una riduzione del potere di acquisto, oltre che il rischio di una deflazione strutturale».
Perché cresce la disoccupazione giovanile?
C’è un effetto demografico dovuto non tanto all’aumento della componente giovanile che è in calo, ma all’aumento della fascia dei lavoratori con più di 50 anni, uno degli effetti dell’onda lunga del boom demografico degli anni Sessanta. Fenomeno accentuato anche dalla riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile in modo drastico. Questa situazione fa da tappo a un potenziale aumento dell’occupazione giovanile. Aumenta lo scollamento tra una forza lavoro giovanile mediamente più istruita rispetto alla domanda di lavoro che ancora ricerca competenze basse. Questo dipende dalla struttura produttiva italiana votata a produzione tradizionali a basso valore aggiunto e meno innovative.
Il programma «garanzia giovani» ha funzionato?
Grazie anche a un cospicuo finanziamento europeo doveva favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I risultati sono stati di gran lunga inferiori all’obiettivo dichiarato dal ministro Poletti di inserire nel mercato del lavoro quasi un milione di giovani. Quelli inseriti vivono condizioni contrattuali precarie ad alta ricattabilità o forme di lavoro non pagato.
Perché il mercato del lavoro italiano si conferma sempre tra i peggiori in Europa?
In Italia, più che altrove, il perseguimento ottuso di politiche di sostegno all’offerta produttiva si è coniugato con politiche salariali inadeguate. Non esiste un salario minimo, né un sostegno al reddito minimo. E sono continuate le politiche di riduzione della spesa pubblica sociale in un contesto economico dove la produttività del lavoro cresce a ritmi insufficienti proprio a causa dell’eccesso di precarietà.
È possibile un’inversione di tendenza?
Con le elezioni politiche a breve è difficile che possa esserci. Sul medio-lungo periodo potrebbe essere possibile solo se cambiasse la prospettiva culturale e politica, anche all’interno delle forze di sinistra e sindacali.
In che modo?
Che non si facciano schiacciare da una retorica di tipo lavoristico e che riescano invece a elaborare politiche aperte e innovative di sostegno al reddito in grado di creare le premesse per una valorizzazione delle competenze e delle capacità lavorative che già esistono.
Sarà mai possibile?
Al momento attuale non se ne vedono le premesse. A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste su questo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica.
postilla
Sembra davvero difficile per la sinistra italiana (non consideriamo ovviamente parte della sinistra la compagine renziana) guardare al tema del lavoro dell’uomo fuori dal confine del capitalismo. Quasi mai si sente il respiro, il desiderio, l’esigenza di porre la questione del lavoro nell’ottica di una nuova visione della persona umana. In questo gruppo di articoli – che abbiamo ripreso da un recente dibattito del manifesto – l’unica che vi accenna è Laura Pennacchi. E ne accenna riprendendo le parole di un uomo che non può essere ricondotto al concetto classico, e forse obsoleto, di “sinistra”: Papa Francesco.
Stupisce, scrive Pennacchi «che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’"avere" ma l’”essere” del lavoratore».
Da qui bisognerebbe ripartire, magari ricordando i ragionamenti di un altro grande economista troppo presto dimenticato, Claudio Napoleoni. Ma qui ci fermiamo, promettendoci di riprendere il discorso in uno spazio un po’ più ampio di una postilla. (e.s.)
Una interessante riflessione critica di un eminente psichiatra sulla strumentalizzazione politica dell’emergenza migranti e sulla necessità di costruire nuove strategie di accoglienza capaci di coniugare conflitto e mediazione
. Souk online, 14 novembre 2016. (m.c.g.)
Troppi morti innocenti nel mare Mediterraneo, troppe vite innocenti respinte, aggredite, umiliate e, infine, "vendute" a una dittatura (tuttavia "alleata") perché non invadano l'Europa delle democrazie. Troppi morti innocenti trucidati in nome di dio. Troppi morti innocenti trucidati in nome della democrazia che vende armi al supermercato. Troppe donne uccise per il solo fatto di essere donne.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che nel 2015, 65.3 milioni di persone erano dislocate dai loro paesi di origine, quasi 6 milioni di piú che l'anno precedente. Di questi 65.3 milioni, 3.2 milioni (ossia meno del 5%) attendono di essere accolti in paesi ad alto reddito. L'Alto Commissario Filippo Grandi scrive: "Un impressionante numero di rifugiati muore ogni anno in mare e quando si trovano in terraferma queste persone che sfuggono la guerra vengono bloccate da confini chiusi. Chiudere le frontiere non risolve il problema". (UNHCR, 2016).
Sembra davvero che il "Male" si radicalizzi a misura in cui la "Speranza" cristiana e la "Utopia" laica si affievoliscono e si perdono schiacciate dalla evidenza e dalla razionalità (presunte evidenza e razionalità) del pragmatismo senza visione della politica e dalla chiusura individualistica in nome della nuova "religione" miope del "well being", della "mindfulness" e di tutte le forme serie e meno serie, solide e meno solide di perseguimento del benessere individuale.
Vi è certamente una emergenza grave e pressante ma non è quella mediatizzata ogni giorno della "invasione" dei rifugiati, dei profughi e dei migranti (evitiamo aggettivi che classifichino i migranti ora come "politici" e dunque da compatire ora come "economici" e dunque da temere). Ció che deve fare riflettere è che una entità politica (l'Unione Europea) di 500 milioni di abitanti definisca emergenza l'arrivo di una popolazione che rappresenta meno dell' 1% della propria popolazione: si è deciso di chiamare emergenza la propria intolleranza, il proprio egoismo e soprattutto la propria cecità di fronte alla drammatica crisi demografica europea che beneficierebbe di una iniezione di immigrazione massiccia. Malgrado dunque la pressione mediatica, non è il caso di parlare di "emergenza migranti" per i paesi europei. Semmai i migranti stessi sono esposti a una emergenza che è quella di dovere fuggire e trovare paesi che li accolgano.
La vera emergenza occidentale, grave e pressante e da contrastare è quella della rinuncia alla Utopia quando, invece, contro la radicalità del male dovremmo dare vita e forza alla radicalità del bene, della utopia del bene, della speranza del bene, dell'operare per il bene. Con la troppo entusiasticamente celebrata "morte delle ideologie" (che hanno giustificato pensieri unici e totalitari ma che hanno anche prodotto sogni e speranze e visioni di società) siamo rimasti senza sogni e speranze ma non ci siano disfatti dei pensieri unici e totalitari che non sono piú sorretti da weltanshaung del bene (anche se subito tradite, è vero) ma piuttosto da deliri mortiferi (Palingenesi Islamiche che si scontrano con Identità Nazionali Xenofobe)
A partire dagli anni di piombo ci hanno inculcato (e troppo volentieri abbiamo accettato) che fra utopia e realtà c'è da fare un grande compromesso, che dobbiamo mediare fra i sogni del buono, del vero e del bello e la pratica quotidiana della realtà, pena l'infantilismo politico e individuale. Questo sembra ragionevole e certamente lo è. Tuttavia, dobiamo discutere e decidere quale sia la "misura" accettabile della mediazione; quale sia la quota di verità a cui rinunciare, quale sia la quota di bene da ritenere procrastinabile e quale quella di male da ritenere accettabile: questa è la questione politica e privata che ci si pone sempre piú pressante.
Negoziazione e Mediazione hanno fornito prove brillanti in un passato recente e basti pensare alla Commissione del perdono istituita in Sud Africa alla fine dell'apartheid. Ma anche prove disastrose e basti pensare ai fallimenti ripetuti e irreversibili del dialogo Palestinese-Israeliano. Gli operatori di pace, riconciliazione e perdono ritengono che la mediazione sia la unica strada possibile e umana affinché realtà e speranza si incontrino a mezza strada ma, e ancora una volta va ripetuto, c'è da decidere chi stabilisce quale sia la mezza strada e questo vale sia quando sono gruppi, popoli e nazioni a parlarsi sia quando la questione si presenta in forme individuali e talvolta intime: quale è la "mia misura" accettabile di mediazione?
Dunque, è necessario creare Laboratori di Mediazione per potere definire nuove forme piú efficaci di Mediazione? Oppure, a fronte della radicalità del male dobbiamo forse rinunciare all'ottimismo della mediazione e ri-pensare il Conflitto come unica risposta? Non vi è dubbio tuttavia che il Conflitto nelle sue forme tradizionali è fallito: gli anni di piombo hanno mostrato che il conflitto armato poteva solamente generare morte e banalizzare la morte. Ma anche nelle sue forme tradizionali non violente (lo sciopero, la manifestazione di piazza) il Conflitto non si declina piú con sufficiente efficacia e, non a caso, viene rapidamente reso inefficace dalla violenza degli ambigui "black bloc" che servono interessi spesso estranei alle buone ragioni del conflitto. Dunque laboratori di ricerca di nuove forme di Mediazione o di nuove forme di Conflitto?
C'è da chiedersi se il ripensamento non debba essere radicale e la ricerca debba volgersi al medesimo tempo verso nuove forme di conflitto e verso nuove forme di mediazione. Infatti, non c'è conflitto efficace che non abbia
in sè i germi della mediazione e non c'è mediazione autentica che non abbia in sè l'ipotesi della ripresa del conflitto: se non fosse cosí il conflitto sarebbe cieco e distruttivo e la mediazione troppo pragmatica e arrendevole. Il Conflitto efficace si nutre di speranza, di utopie, di weltanshaung, di ipotesi di società e solo se cosí nutrito avrà la capacità di confliggere, di resistere e anche di mediare.
Se riflettere e cercare queste nuove forme di conflitto-mediazione è la vera urgenza che ci attraversa in questi tempi di violenza e di perdità di umanità, questa ricerca ci deve attrezzare fino da ora a leggere e agire la pseudo-urgenza dei migranti. La pseudo urgenza dei migranti va decostruita, destrutturata, negata, deistituzionalizzata
Innanzitutto si deve chiarire una volta per tutte che la emergenza cui sono esposti i migranti esiste ed è reale e drammatica mentre la emergenza rappresentata dall'arrivo dei migranti e che colpirebbe i paesi di accoglienza non esiste.
Infatti, secondo la definizione dell'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) una emergenza per rifugiati è quella situazione in cui la vita e il benessere dei rifugiati è minacciata se non si prendono misure immediate e eccezionali (UNHCR 2007). Dunque non vi è alcun dubbio che i rifugiati e i migranti in generale sono esposti a una emergenza.
Ma che dire della emergenza cui si dicono esposti i paesi di accoglienza (o presunta accoglienza)? Una emergenza è un evento totalmente inaspettato, relativamente raro, di durata relativamente definita: il massicccio arrivo di migranti da paesi in guerra ove i piú basilari diritti sono assenti e le condizioni di vita materiale sono al di sotto di ogni soglia di tollerabilità non era inaspettato ma anzi era prevedibile; il fenomento della migrazione verso l'Europa è da tempo frequente, inarrestabile e destinato a durare.
Dunque, di tutto si puó parlare fuorchè una emergenza per i paesi che dovrebbero accogliere i migranti. Se una emergenza si definisce come un incidente che pone una minaccia immediata alla vita, la salute, la proprietà o l'ambiente , i paesi europei non possono dirsi esposti a queste minacce e dunque non possono definire emergenza quella rappresentata dai migranti (loro sí esposti a una emergenza che minaccia le loro vite e il loro benessere).
Ma allora cui prodest definire emergenza ció che emergenza non è?
I "benefici" di un regime di emergenza sono numerosi anche se ambigui, cinici, ingiusti.
Inanzitutto una emergenza in quanto eccezionale e inaspettata esime i governi nazionali e locali dall'assumere la questione dei migranti cone "sistemica" e come tale da gestire come fenomeno "normale" che richiede politiche, interventi sistemici, di largo respiro, di durata indeterminata e assimilabili agli interventi per tutti i cittadini vunerabili. Si tratta di una differenza non da poco: si tratta infatti di abbandonare la cultura del "materasso e della tazza di brodo" e assumere la cultura dell'intervento strutturale che garantisca diritti, salute, abitazione e educazione.
Il regime di emergenza facilita la creazione di stati di allarme, panico, disinformazione, isteria collettiva ("invasioni di migranti", "minaccia per i posti di lavoro nazionali", "pericoli di epidemie", "rischio di violenze sulle donne", "rischio terrorismo", "attentati alla identità etnica, religiosa e culturale nazionale"). Queste paranoie sociali sono alimentate dalle crescenti formazioni xenofobe che fondano la propria propaganda efficace sulla disinformazione sistematica e sulla intolleranza (in Italia la Lega, in Francia il Front National, nel Regno Unito il movimento di Farage, in Austria, Ungheria, Polonia i movimenti neofascisti xenofobi). Questi movimenti di "chiamata all'odio" fondano il loro successo sul regime di emergenza.
La disinformazione sistematica sulle conseguenze della emergenza migranti occulta "altre" verità e "altre" informazioni vere e scomode: la disoccupazione nazionale non è causata dai migranti ma dal crollo degli investimenti nazionali, dalle delocalizzazioni industriali e dal restringimento del mercato del lavoro; le grande maggioranza delle violenze sulle donne è perpetrata in famiglie nazionali da coniugi "nazionali"; il terrorismo non si serve dei migranti ma di cittadini di non recente immigrazione; gli unici veri rischi epidemici non dipendono dai migranti ma sono legati alla propaganda criminale contro le vaccinazioni ecc...
Infine, il regime di emergenza favorisce il business della emergenza; convenzioni e rette per capita rappresentano un giro di affari importante che alimenta molte organizzazioni non governamentali con e senza fini di lucro. Inoltre vi è un effetto economico indiretto legato alla formazione che rappresenta un altro business significativo anche se non viene mai sottoposto a verifiche e valutazioni di efficacia: formare per formare senza mai sapere quali effetti virtuosi abbia potuto avere la formazione.
Dunque, è urgente decostruire il paradigma della emergenza, smascherarne le ambiguità e reticenze. E' urgente "dire la verità". Ancora, l'Alto Commisario scrive: "La battaglia dell' Europa per gestire i poco piú di un milione di migranti e rifugiati arrivati attraverso il Mediterraneo ha dominato l'attenzione di tutti i media nel 2015 ma in realtà la maggiorparte dei rifugiati di tutto il mondo stanno altrove. In totale l'86% dei rifugiati sotto il mandato del UNHCR nel 2015 si trovavano in paesi a medio e basso reddito....la Turchia è stato il paese di maggiore accoglienza con 2,5 milioni di rifugiati; il Libano ha accolto il maggiore numero di rifugiati in proprozione alla propria popolazione nazionale: 183 rifugiati ogni 1000 abitanti..." (UNHCR, 2016).
E' necessario attrezzarsi con i saperi e le pratiche del conflitto e della mediazione. Essere capaci di andare allo scontro diretto, duro e aggressivo per denunciare la sistematica disinformazione, per mostrare i dati statistici reali e non quelli mediatico-emozionali, per denunciare gli abusi e le violazioni delle leggi nazionali e internazionali, per pretendere giustizia, salute, educazione, integrazione. Andare allo scontro duro ma anche essere pronti alla mediazione tecnica insieme a tutti quei giuristi, medici, economisti di buona volontà disponibili a costituire un esercito tanto determinato nel conflitto quanto astuto nella mediazione.
Scrive Virginio Colmegna nell'articolo intitolato "Indignarsi" e pubblicato su questo stesso numero di Souq: "Per questo mi chiedo: come contribuire a liberare l'umanità, la terra da questa morsa? Non si può realizzare questo solo raccontando un altro mondo, un'altra ideologia spesso retorica, ma è ancor più urgente e possibile stare dentro alle esperienze concrete di lotte,di condivisione per l'uguaglianza e inclusione. Va vissuta sul campo questa speranza straordinaria di cambiamento di novità, di utopia. Certamente è un cammino lungo e faticoso che forse riuscirà solo a passare da condizione di minore giustizia a condizione di maggiore giustizia, a uno sforzo di inclusione maggiore.E' questa l’unica ma esigente possibilità e responsabilità: stare nel mezzo di iniziative locali,di comunità territoriali,di laboratori operosi che testimoniano che si può e si deve non rassegnarsi."
Qui è detto tutto di questa sfida a coniugare conflitto e mediazione, scontro e ricerca di soluzioni.
In questa prospettiva dello "stare nel mezzo", per ancora citare Colmegna, Souq sta nel mezzo e il 6 marzo 2017 organizza una giornata a Milano in Università Statale per riflettere su questi temi invitando i protagonisti delle esperienze coraggiose e radicali della accoglienza ma anche le voci autorevoli delle istituzioni locali, nazionali e internazionali: l'alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) Filippo Grandi ha accettato di tenere in quella occasione una Conferenza Magistrale.
Bibliografia
- UNHCR Handbook for Emergencies. United Nations High Commissioner for Refugees, Geneva, Third Edition February, 2007.
- UNHCR Press Release 20 June 2016. United Nations High Commissioner for Refugees, Geneva Decostruire il paradigma della "emergenza migranti"
Riferimenti
L’autore, Benedetto Saraceno - psichiatra che si è formato a Trieste con Franco Basaglia e Franco Rotelli e che è stato per 12 anni il Direttore del Programma di Salute Mentale della Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra – è Direttore scientifico della rivista online Souk Quaderni pubblicata dal ‘Centro Studi sulla sofferenza urbana’ che è parte integrante delle attività della Casa della Carità presieduta da Don Virginio Colmegna. Il centro studi promuove e presenta reti e connessioni con le grandi città del mondo che vivono situazioni simili, contesti analoghi di urbanizzazione e quindi di marginalizzazione e di nuove povertà. (m.c.g.)
Una delle tante inadempienze del governo italiano in materia di accoglienza. Il testo integrale dell'intervento di Barbara Spinelli, eletta nella lista "L'Altra Europa con Tsipras". barbara-spinelli.it, 30 gennaio 2017
«Fra i problemi più drammatici associati all’esodo dei migranti sono le vittime di tratta e la carenza di adeguate strutture di accoglienza e protezione per i minori non accompagnati, in gran parte destinati a finire nelle mani delle reti criminali internazionali. In Europa, secondo l’Europol e l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR), nel gennaio 2016 erano 10.000 i minori scomparsi; di questi, più di 6.000 in Italia, dove l’incuria delle istituzioni è sovrana e dove le procedure di identificazione, spesso crudeli e inaccettabili, spingono alla fuga. Un gruppo di esperti del Consiglio d’Europa ha denunciato le gravi carenze dell’accoglienza nel nostro paese. Secondo la parlamentare europea si tratta di “un successo nato dalla collaborazione tra società civile e istituzioni europee”» (m. c. g.)
Accolgo positivamente – ha dichiarato l’eurodeputata del gruppo GUE/NGL – il rapporto del gruppo di esperti anti-tratta incaricato dal Consiglio d’Europa di monitorare l’attuazione della Convenzione sulla lotta contro la tratta degli esseri umani nel nostro Paese. Benché l’Italia abbia ratificato la Convenzione, permangono gravi lacune e violazioni verificate dal GRETA durante una visita effettuata a settembre dello scorso anno negli hotspot e nei centri di accoglienza.
Il procedimento d’urgenza avviato nel 2016 sull’Italia ha messo in luce preoccupanti falle nell’accoglienza, nella detenzione e nel rimpatrio delle vittime di tratta e una grave situazione di incuria nei riguardi dei minori non accompagnati. Oltre che alle denunce delle Ong che con competenza e determinazione si occupano di vittime di tratta e minori non accompagnati, la visita ha fatto seguito a una mia lettera inviata a Frontex, al Ministero dell’Interno italiano e per conoscenza all’Ombudsman il 14 ottobre 2015, e a un’interrogazione scritta alla Commissione europea del 10 novembre 2015, in cui criticavo il rimpatrio forzato di venti donne nigeriane dal CIE romano di Ponte Galeria, e a un’interrogazione
scritta alla Commissione europea del 13 maggio 2015 in cui denunciavo l’uso del manganello elettrico nel CPA di Pozzallo per il rilascio forzato delle impronte, anche di minori.
Entrambe le denunce sono state possibili grazie a una stretta collaborazione con attivisti e associazioni della società civile, tra cui BeFree, Terre des Hommes, Campagna Lasciatecientrare e Clinica legale dell’Università Roma3.
Unendomi alla richiesta del Consiglio d’Europa affinché il governo italiano metta al più presto in atto le misure necessarie per proteggere adeguatamente i migranti e i rifugiati in balia dei trafficanti di esseri umani e agisca con determinazione per combattere il fenomeno della tratta in Italia, auspico che la collaborazione tra rappresentanti della società civile e istituzioni – che ha prodotto questo importante risultato – venga sostenuta e incoraggiata nelle democrazie dell’Unione come un elemento chiave per la tutela dei diritti, anziché subire crescenti e preoccupanti limitazioni.
...» Franco Arminio. "La poesia al tempo della rete” è il capitolo finale di Cedi la strada agli alberi, che esce domani per Chiarelettere. doppiozero online, 1° febbraio 2017 (c.m.c.)
La poesia è un mucchietto di neve
In un mondo col sale in mano.
La poesia è amputazione.
Scrivere è annusare
la rosa che non c’è.
Il naufragio della letteratura
Una volta c’era la letteratura e poi c’erano gli scrittori.
Immaginate un mare con i pesci dentro. Adesso ci sono solo i pesci, tanti, di tutte le taglie, ma il mare è come se fosse sparito. È successo in poco tempo, e non ce l’ha comunicato un esperto. Ce ne siamo accorti incontrando un poeta da vicino, parlando con un narratore al telefono. Abbiamo sentito che qualcosa non c’era più. Ognuno ha i suoi libri, le sue parole, sono sparite le strade che mettevano in comunicazione uno scrittore con l’altro, tra chi muore e chi vive non c’è alcuna differenza, non c’è differenza tra chi lotta e chi è vile.
Oggi tra gli scrittori regna una pacata indifferenza e lo spazio vuoto che c’è tra quelli che scrivono accresce lo spazio tra chi scrive e chi legge. La letteratura è una barca che ha fatto naufragio e ognuno coi suoi libri lancia segnali di avvistamento che nessuno raccoglie perché ognuno è impegnato a farsi avvistare.
Le voci non si sommano e non spiccano. La letteratura fa pensare a un’arancia virtuale: a ciascuno il suo spicchio, ma dov’è il succo?
Poesia e guarigione
C’è un problema quando si hanno rapporti con i poeti. Il problema deriva dal fatto che il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore. Una creatura in subbuglio con cui non si può mantenere un’amicizia generica e blanda. Col poeta non ci possono essere pratiche attendistiche e interlocutorie, bisogna gettargli in faccia il nostro amore o il nostro odio, bisogna tenerlo ben vivo nella nostra mente, bisogna pensarlo, parlargli delle sue parole, raccontargli le sue storie.
Uno allora può dire: ma a che serve tutto questo? Io penso che alla fine non serva al poeta, perché il poeta non ha mai bisogno di quello che gli viene dato. Penso che tutto questo serva a chi dà, a chi si protende a lenire le varie disperazioni del poeta. L’atto di guarire chiude le ferite, ma solo al guaritore.
L’embargo della poesia
Il poeta è quella creatura che non può stare in questo mondo ed è la persona che più ha bisogno delle cose del mondo. La sua è una bulimia spirituale e, proprio perché è spirituale, non conosce limiti e confini.
È molto grave che il mondo abbia dichiarato un vero e proprio embargo verso i poeti. Il mondo dei disperati che vogliono distrarsi odia i disperati che invece cantano la loro disperazione. Fra le tante guerre in corso, strisciante e non dichiarata, c’è quella che vede i poeti come vittime.
Ogni giorno una cenere sottile cade, attimo dopo attimo, sulle spalle degli spiriti più luccicanti. Lo scopo è opacizzare tutto, rendere tutto intercambiabile, omologabile, smerciabile.
Questa è una società totalitaria e come tale non può che essere ferocemente ostile al grido solitario del poeta, alla sua natura irrevocabilmente intangibile. Il poeta è fuori dall’umano e come tale è un pericolo. Gli uomini non possono tollerare che esistano creature che hanno gli occhi, il cuore e le parole, ma che nulla hanno da spartire con loro.
Bordello facebook
Qualche tempo fa mi era venuta l’immagine di facebook come di una strada a luci rosse. Ognuno sta in vetrina a esporre la sua merce. Chi mostra i glutei, chi spalanca le cosce. Tutto un susseguirsi di merci che cercano acquirenti nella scabrosa condizione in cui i produttori sono assai più dei possibili compratori. E questo i compratori lo sanno e da lì nasce la figura del compratore sadico, colui che entra nel box, gira intorno alla merce e magari se ne va lasciando semplicemente un commento sarcastico. Non c’è differenza tra chi esibisce la sua gamba monca, l’occhio in cui cigola il delirio, e quelli che fanno finta di stare qui perché vogliono cambiare il mondo, fanno finta di indignarsi, insomma fanno finta di essere scrittori.
Facebook è una creatura biforcuta perché porta la scrittura, ma la porta in un clima che sembra quello televisivo. Chi scrive, chi commenta, deve ogni volta decidere da che parte stare, sapendo che da quando abbiamo smesso di credere all’invisibile e al sacro tutto il visibile e il profano non ci basta più, e ci basterà sempre meno.
Nuove percezioni dell’umano
La letteratura non può ridursi a un ballo in maschera. Gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono. Scrivere è un martirio oppure non è niente. Per divertirsi e per divertire ci sono altre cose, forse. La letteratura è un luogo in cui ci si affanna a costruire nuove percezioni dell’umano. Chi si sporge, chi si pone in bilico è meno elegante e per questo merita di essere consolato.
Abbiamo bisogno di compassione. Abbiamo bisogno di consolazione e di amore. Dare amore per me significa dare nuove visioni di noi stessi e degli altri. Darle non per cantarcela tra noi, ma per puntare a uno sfondamento, per sfondare la creazione e vedere cosa c’è dietro questa parata che chiamiamo vita.
Ci sarà sicuramente un giorno in cui neppure un filo d’erba parteciperà alla parata. La nostra mente può andare già adesso in quel punto, farsi fecondare da quel buio e con quel buio stare nella luce che abbiamo adesso, la luce degli angeli e del sole, la luce delle piante e degli occhi. Scrivere significa gettare scompiglio nella parata, non lasciarla fluire come fosse una volgare scampagnata.
Per una comunità poetica
Ho due problemi. Il primo è che potrei morire da un momento all’altro. Il secondo è che prima o poi morirò. Da qui nasce la mia imperiosa urgenza, da qui il mio scalpitare senza reticenze e aloni. Sono tutti scoperti i miei passaggi, sono offerte intimamente politiche perché contengono sempre un richiamo alla costruzione di una nuova comunità in cui sogno e ragione vadano insieme, una comunità poetica.
Ormai siamo tutti alle prese con cose che riguardano solo noi. Non c’è un’assemblea, un foro in cui si dibatta il nostro caso. Al massimo riusciamo a incuriosire qualcuno per un attimo, poi dobbiamo farci da parte. Se invece insistiamo a proporre la nostra questione, come sto facendo adesso, dobbiamo aspettarci che gli altri diventino insofferenti.
C’è una sola notizia di noi che può un po’ sorprendere, un po’ emozionare gli altri: è la notizia del nostro decesso, ma è una carta che possiamo giocarci una sola volta e, una volta che ce la siamo giocata, non abbiamo modo di verificare la risposta.
Poesia è malattia
Poesia è malattia, diceva Kafka. Il poeta che manda in giro le sue poesie manda in giro i suoi virus, le sue fratture, i suoi tessuti infiammati. Il poeta anela alla cura, o almeno alla consolazione, ma dall’altra parte si pensa a difendersi dal contagio.
La poesia dice sempre del tentativo di riparare un lutto e, quando viene spedita, fa un po’ l’effetto di un afflitto che va in giro a chiedere le condoglianze. E questo movimento rende dubbio il lutto stesso, come se ci trovassimo davanti a qualcuno che volesse venderci le azioni del suo dolore, azioni destinate inevitabilmente al ribasso in una società in cui tutti piangono e dove i morti senza lutto si confondono con i lutti senza morto.
Il poeta è alla guida di un’impresa fallimentare perché ogni suo prodotto resta invenduto e la ragione dell’impresa consiste esattamente in questo. Anche se il prodotto risultasse smerciabile, al poeta non può venirgli nulla, non ci sono rendite, bisogna subito ricominciare da capo. La poesia è radicalmente anticapitalista, non prevede nessuna forma di accumulazione. Un dolore antico è sempre un dolore fresco di giornata.
Quando scrivi ti devi impaurire
Scrivo da tanti anni, mi pare di non aver fatto altro nella vita.
Scrivo a Ferragosto e a Capodanno, scrivo dal mio paese, scrivo dai miei nervi perennemente infiammati.
Senza l’assillo della morte mi sento una cosa inerte. Ho bisogno dello spavento. Lo spavento falcia la mia vita e la trasforma in scrittura, un po’ come fa la mietitrebbia col grano.
Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, col buco in mezzo. Mi piace arrivare nei paesi per sentire questa cosa nuova che è la desolazione, questa cosa che ha preso il posto della miseria.
Il paese è diventato interessante perché è come se avesse finito i suoi umori, il suo ciclo vitale, persiste a essere abitato, ma sembra quasi incurante dei gingilli con cui si trastulla il mondo.
La faglia è la mia figura, il bordo, la fessura. Abito un orlo senza precipizio, un luogo ideale per poggiare l’orecchio sulla morte. Quando scrivi ti devi impaurire, altrimenti non stai facendo niente.
Il libro infinito
Il mondo simbolico è diventato reale e il mondo reale è diventato simbolico. In questa condizione il poeta trova un ulteriore motivo di disagio perché ogni volta che c’è un mondo per il poeta c’è un esilio. E se i mondi sono due, l’esilio è doppio.
Per anni abbiamo pensato alla poesia come a una realtà marginale, un lavoro per animi eletti, per animi disposti a lavorare ossessivamente sulla lingua. Adesso le poesie le fanno tutti. Il problema non è scrivere cose belle, ma far circolare quello che scriviamo.
È come una città nell’ora di punta. Tutti escono in strada con la macchina e non si cammina. Tutti escono in Rete con le loro parole e dunque non si legge. Per leggere abbiamo bisogno di avere davanti a noi un testo con un inizio e una fine. Può essere anche di mille pagine, ma i confini devono essere precisi.
In Rete non c’è un nostro testo, il nostro testo entra in un libro infinito a cui ognuno aggiunge la sua pagina. A volte sembra quasi che per avere la sensazione di essere letto devi strapparla, la tua pagina, devi sparire. L’unica pagina che viene letta è la pagina bianca.