«». arcipelagomilano.org, 7 febbraio 2017 (m.c.g.)
Evidenziare collegamenti tra le due città una settimana fa era quasi immediato: là un grande attivismo di avvocati, qui una grande ammirazione per il loro agire, per le generose modalità di opposizione all’ordine di Trump sul «ban dei cittadini o nativi dei 7 paesi». Come altre volte prima (come già fu per il digitale e sulla collaborazione per la giovane imprenditoria) cercare nessi e distinzioni nei comportamenti degli abitanti delle due città sembrava immediato. Unica la domanda che nasceva: perché a tanta ammirazione per gli avvocati americani, che si esprimeva sui nostri social e nelle conversazioni, non corrispondeva un analogo ammirato rispetto verso i giuristi italiani che nel nostro paese sono costantemente impegnati nella tutela dei diritti civili? Mentre promuovono azioni di advocacy, difesa degli stranieri e dei migranti, esprimono pubblicamente a Milano la loro solidarietà ai colleghi incarcerati nella Turchia di Erdogan.
Certo un’insorgenza di attenzione, emozionata e preoccupata o a momenti esultante, per quelle che apparivano vittorie, anche se parziali e temporanee in USA, era determinata dall’enormità del fatto, dal senso di valanga che avrebbe potuto determinare tra gli stati del pianeta; mentre qui in Italia più che in Europa abbiamo i nostri “momenti” nei lutti, nel dolore di una nuova strage nel Mediterraneo, di un assassinio di un giovane africano. E purtroppo non fanno quasi notizia i numerosi episodi di discriminazione razziale e religiosa e siamo ormai assuefatti all’incessante numero di morti in mare al quale i media prestano sempre meno attenzione. Ma non ancora assuefatti a Milano, non così diffusamente, non sempre: è l’orgoglio del nostro senso civico.
Una settimana fa la domanda era come rendere più conosciute le azioni dei singoli legali e delle associazioni presenti (dall’ASGI Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, ad Avvocati per Niente, ma anche la Camera Penale e la Camera Minorile); come creare presso i cittadini “normali”, i non esperti, i non professionisti nel campo, eppure mediamente informati, un moto di vicinanza. Attenzione e conoscenza, considerazione per quelli che nel nostro paese come i loro colleghi negli aeroporti americani sono protagonisti di quotidiane azioni legali dirette a fianco di vittime della tratta, di diritti di famiglie da ricongiungere, di espulsioni, di trattenimento nei CIE e di altrettante significative attività di formazione verso studenti universitari e più giovani colleghi, di informazione a operatori sociali … registrando negli ultimi anni un aumento di sensibilità negli ambiti appunto giuridici e sociali.
Una settimana fa era una domanda da rivolgere ai cittadini milanesi, a quelli e quelle che hanno costituito una compagine infaticabile e una costante presenza di supporto alle variegate forme di accoglienza ai migranti, ai rifugiati, ai transitanti, alle decine di migliaia che sono passati di qui … una domanda a una città che è stata protagonista dell’accoglienza sociale, dalle prime necessità allo sviluppo di modalità sempre più accurate, per esempio verso i minori che viaggiano da soli.
Una domanda da rivolgere alla città perché questa esperienza, e le scelte che l’hanno sottesa, vengano portate con sempre maggior forza a livello nazionale, al Parlamento e al Governo; perché vengano sviluppate norme necessarie per l’integrazione, come la riforma della cittadinanza cioè la legge sullo ius soli, sia pure nella forma temperata, e l’abolizione della Bossi-Fini.
Sono passati pochi giorni e abbiamo invece un accordo sulla Libia che segue le orribili orme di quello sulla Turchia, e le nostre frontiere non sono diverse dal Ban di Trump. Come scrive Annalisa Camilli su Internazionale: «Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con la firma del memorandum d’intesa con la Libia l’Italia viola “il diritto di asilo consacrato nella costituzione italiana e il dovere di rispettare i diritti umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per il nostro paese». Secondo l’Asgi, inoltre, l’Italia usa i fondi della cooperazione per finanziare la militarizzazione della frontiera.
“L’Unione Europea tradisce i principi cardine della civiltà giuridica e viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei cittadini” afferma il presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’avvocato Lorenzo Trucco. E anche Emma Bonino ha espresso una posizione molto netta sulla Stampa: «L’Europa si è scandalizzata per il bando di Trump e il muro al confine con il Messico, ma quello che stiamo facendo in Europa non è poi così diverso. Un Paese, la Libia, viene pagato perché metta un “tappo” per trattenere tutti i migranti di qualunque nazionalità. Un piano che qualcuno ha definito “Trump soft”, simile a quello già applicato in Turchia».
La nostra indignazione sui Ban di Trump ci coinvolgerà anche e fino a difendere la nostra Costituzione e i principi fondativi dell’Europa? Questa domanda ci riguarda tutti, tecnici professionisti e cittadini.
Huffington Post, 13 febbraio 2017
A soli due giorni dal voto del Parlamento Europeo sul Ceta, l'accordo di libero scambio tra Canada e Ue, la maggioranza degli eurodeputati sembra non aver ancora letto il testo. In molti tentano di rassicurare le migliaia di persone che, insieme a noi della Campagna Stop TTIP Italia, stanno scrivendo e telefonando ai loro uffici, con la richiesta di respingere un trattato dai gravi impatti sociali e ambientali.
Le 1600 pagine del Ceta, infatti, sono dense di concreti pericoli per la salute dei cittadini e per l'ambiente. Come ha denunciato il parlamentare europeo Dario Tamburrano, il rischio di ingresso di Ogm e pesticidi attualmente vietati è non solo possibile, ma altamente probabile, così come l'importazione di prodotti derivati da animali trattati con ormoni della crescita.
Più volte la Commissione Europea ha tentato di smentire con dichiarazioni nette questi rischi. Il ruolo del pompiere, in Italia, lo ha svolto il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Ma le rassicurazioni di Roma e Bruxelles non trovano riscontro sul testo consolidato del Ceta, che anzi le priva di ogni fondamento.
È sufficiente leggere l'allegato 5-D, che traccia le linee guida per il riconoscimento di equivalenza delle misure sanitarie e fitosanitarie nei due Paesi. Stando al Ceta, è possibile ottenere il mutuo riconoscimento di un prodotto - e quindi evitargli nuovi controlli nel Paese in cui verrà venduto - se si è in grado di dimostrarne "oggettivamente" la sostanziale equivalenza con quelli commercializzati dalla controparte. La sostanziale equivalenza si valuta in base ad una serie di criteri o linee guida. Ma il testo del Ceta non le ha mai definite.
Quel paragrafo cruciale, sulla determinazione e il riconoscimento dell'equivalenza, è lungo mezza riga e dice così: "Saranno concordate in un secondo momento".
Il Ceta fallisce clamorosamente nel tutelare la salute dei cittadini e dell'ambiente. Invece di vietare chiaramente l'ingresso di alimenti geneticamente modificati e sostanze chimiche tossiche, spalanca le porte a una deregolamentazione violenta e irreversibile. Questo accordo contiene espressioni vaghe e pericolosissime, e potrà essere implementato anche dopo la ratifica dall'organismo di cooperazione regolatoria, un gruppo di tecnici il cui operato non è soggetto ad alcun controllo pubblico. Tutto questo è inaccettabile, il Parlamento Europeo non può mettere la testa dei cittadini sotto la scure del grande business. Gli eurodeputati italiani devono respingere il Ceta e rispettare le richieste della società civile.
Verona-in online, 13 febbraio 2017 (c.m.c.)
Le vicende di questi ultimi giorni, legate all’accoglienza dei profughi in città e in provincia, aiutano molto a chiarire perché in Italia, ogni volta che ne arriva qualcuno, ci troviamo perennemente nella confusione più totale e nell’emergenza.
Le politiche migratorie sono regolate dalla Legge 189 del 2002, la Bossi-Fini. Non si può quindi ragionevolmente pensare che contenga indicazioni buoniste o di sinistra. In base a questa legge il Prefetto di Verona ha deciso di destinare all’accoglienza di una quindicina di profughi (mica migliaia) un edificio del quartiere San Zeno, sede dello Sportello Immigrazione. La Lega Nord ha promosso una raccolta di firme contro questa decisione, raccogliendone 517, fra persone della zona e passanti occasionali.
Poco lontano, a Lugagnano, il Prefetto ha pure richiesto al Sindaco la disponibilità ad accogliere giovani profughi o mamme italiane vittime di violenza coi loro bambini. Il Sindaco Mazzi, invece di opporsi, ha avviato una serie di incontri coi membri della sua comunità, cercando di coinvolgere tutti per trovare la soluzione migliore. Ha fatto il suo dovere. Si sta dando da fare per risolvere il problema nel migliore dei modi invece di crearne altri.
Le leggi in materia, anche se discutibili, ci sono. Vanno ottemperate senza sollevare continue opposizioni. Basterebbe organizzarsi, basterebbe che tutti si attivassero per fare la propria parte e i cittadini non vivrebbero in uno stato d’ansia permanente per le paure sollevate ad arte da politici poco interessati al loro benessere. I problemi sono già tanti senza che ci sia chi li ingigantisce.
Detto questo, diamoci da fare perché questi centri funzionino al meglio. Mi pare che la scelta di favorire gruppi poco numerosi, all’interno della città, sia più positiva rispetto a quella dei grandi CIE sovraffollati e isolati che abbiamo visto tante volte in televisione.
E’ importante che ci siano regole ferme e chiare e che gli ospiti vengano coinvolti nella gestione del Centro, nella sua pulizia, nella preparazione dei pasti… Lasciare delle persone inattive serve solo ad incattivirle. Bisognerebbe organizzare da subito corsi di lingua italiana per dar loro la possibilità di comunicare in fretta; far intervenire i mediatori linguistico-culturali (a Verona ce ne sono molti, formati anche attraverso Master universitari); mettere i richiedenti asilo in contatto con i loro compatrioti arrivati in Italia già da tempo; creare occasioni di incontro con gli abitanti del quartiere per facilitare la loro inclusione sociale.
Fra un po’ avremo una nuova amministrazione cittadina; spero che si adoperi da subito per organizzare una dignitosa accoglienza di queste persone, che non scappano da casa per puro divertimento, favorendo in questo modo anche la serenità di tutti i cittadini.
il manifesto, 12 febbraio 2017
Paura del futuro, diseguaglianze, bassi salari. Un paese dove si vive male, anche dal punto di vista abitativo, più interessato alla delega che a praticare una solidarietà e un’azione diretta. È il ritratto che emerge nel «Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia» realizzato da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio-Cgil. Il ceto medio è più fragile, aumenta la povertà relativa che interessa oggi più di 8 milioni di persone. Cresce la diseguaglianza che resta inferiore al Nord rispetto al Sud. Solo il 31% pensa che la situazione economica dell’Italia migliorerà nel prossimo anno (era il 44% nel 2015). appena l’11 per cento crede che la propria situazione personale registrerà un miglioramento (era il 13%). Il lavoro è sempre più instabile ed è difficile migliorare le proprie condizioni: solo il 24% pensa che l’occupazione crescerà (era il 31% nel 2015).
Si parla di politica, ma si ascoltano meno i dibattiti. Non si partecipa troppo alle manifestazioni, ma cresce l’interesse individuale per le notizie sul paese. Il 66% degli interpellati frequenta gli amici almeno una volta a settimana (era il 67% nel 2015), il 18% ha ascoltato un dibattito politico (era il 20% l’anno scorso), il 4% ha partecipato a un’iniziativa politica (5% un anno fa), l’1% ha svolto attività politica gratuita per un partito. Non va meglio sul fronte sociale e dei diritti: il 2% ha partecipato a riunioni in associazioni ambientaliste e per i diritti civili, il 9% in associazioni culturali e ricreative (ma in queste rientrano anche i concerti e le esibizioni sportive e artistiche a scopo benefico). Va meglio per quanto riguarda le attività gratuite in associazioni di volontariato (11%) che si fanno, però, più sporadiche e meno strutturate. È la politica in poltrona, l’italiano in crisi come Napalm51, la sublime maschera inventata da Maurizio Crozza nei panni di un troll di professione.
Il rapporto parla di «fiducia economica» definendola «uno dei motori più importanti della crescita». Nel complesso l’indice scenda da 100 a 76, con il nord-ovest in testa con 97 punti (120 nel 2015), seguito dal nord-est con 88 punti (erano 134), dal centro con 76 punti (86) e dal mezzogiorno con 56 punti (erano 72). La Lombardia (100 punti) guida la graduatoria, seguita dal Veneto (98) e dalla Liguria (92). Questa categoria è intrecciata a quella di fiducia interpersonale. In un paese diffidente, dove torna a farsi sentire, in rete e non solo, la xenofobia ci si fida di più delle persone vicine, non solo fisicamente ma anche socialmente. Questo ripiegamento di classe si salda con la riscoperta del senso dell’autorità identificata con le forze dell’ordine. Resta bassissima la «fiducia incondizionata».
Poco convincente è l’uso di due categorie neoliberali per indicare lo stato della cooperazione sociale e della produzione culturale: «capitale sociale» e «capitale culturale». Con il primo nel rapporto si intende le reti di relazioni socio-politiche che creano partecipazione. La seconda categoria è bifida: indica sia il patrimonio culturale italiano che potrebbe «rappresentare un grande volano di crescita economica». In pratica, la vecchia idea di Confindustria sulla «cultura come petrolio d’Italia». Singolare è la definizione della scuola intesa come un «sistema meritocratico poco premiante dei talenti». Sono giudicate positivamente la crescita delle imprese che si occupano di infrastrutture e si criticano gli investimenti molto bassi in ricerca e sviluppo (circa l’1% del Pil) e le «imprese innovatrici rappresentano appena il 34%». Un’analisi dei tagli all’istruzione e alla ricerca in Italia, unico paese Ocse che li ha praticati negli anni della grande crisi, avrebbe contribuito a una maggiore profondità.
«Emerge la fotografia di un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi» e in cui le persone vedono sempre più difficile uscire da una situazione di difficoltà – sostiene la segretaria Cgil Susanna Camusso – Dare fiducia evitando dumping e diseguaglianze. Sono questi i tratti essenziali dei due referendum Cgil contro voucher e sugli appalti e della Carta dei diritti universali, sui quali oggi, in tante piazze d’Italia, diamo voce ai diritti del lavoro».
il manifesto, 12 febbraio 2017
Hanno provato di tutto, per colpire Virginia Raggi. Bambolina, fatina. Ora che le voci sulle sue relazioni sentimentali si levano più alte, ecco il titolone di Libero. Una donna inchiodata al suo sesso. Non molto diverso dai tanto deprecati social, mi sembra. Giornali splatter che trasudano sessismo, si fanno portavoce della più odiosa misoginia. Puro stile Trump. Nessuno sembra interessato a capire chi sia, Virginia Raggi, donna a miei occhi imperscrutabile, dai comportamenti che oscillano tra la sfida della dura, che tira dritto, al mostrarsi fragile, e per questo seduttiva.
Intendiamoci. L’operato di Raggi è più che discutibile, e non solo per gli aspetti di abuso di ufficio su cui le indagini sono in corso. Ma critiche politiche, vi prego, alla sindaca di Roma.
Battute da spogliatoio, da maschi che si fanno tronfi della loro miseria, basta. E su questo non c’è altro da dire.
la Repubblica, 12 febbraio 2017 (c.m.c.)
«Siate realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente - e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.
È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalle procedure democratiche alle dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo.
Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’azione di una molteplicità di attori.
L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia. Si riscopre l’«utopia concreta» di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari.
Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.
Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.
In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’impossibilità di eludere una questione che riguarda l’antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano — qui distratto, come in troppi altri casi — dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.
Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio «diritto all’esistenza»: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) — un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.
Un tema tanto significativo per la costruzione dell’agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.
È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.
Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza «degna dell’uomo», «dignitosa». Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento — appunto la dignità — compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà.
Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi «dannati della terra», come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.
«». il blog di GuidoViale,
Si può essere sovranisti in campo economico (no all’euro e all’Unione europea, sì a svalutazioni competitive e protezionismo, ecc.) senza essere anche razzisti in campo politico?
Il razzismo di oggi si manifesta innanzitutto nell’atteggiamento e nelle misure da adottare nei confronti dei profughi: il principale problema politico, oltre che sociale e culturale, che l’Europa, e con essa l’Italia, si trova di fronte; quello che ne mette in crisi la coesione sia tra gli Stati membri che all’interno di ogni paese; e che continuerà a sussistere nei prossimi decenni, perché nasce da processi epocali.
Non è casuale che nei numerosi interventi a favore dell’uscita dall’euro o dall’Unione europea, il tema dei profughi non venga mai toccato; oppure vi si accenni di sfuggita, alla fine del ragionamento, senza rendersi conto che invece è il perno intorno a cui ruota e si qualifica ogni prospettiva politica di cambiamento radicale. Il presupposto tacito di questo approccio è che le questioni dell’euro, dell’austerity, della sovranità monetaria possano essere affrontate isolandole dal contesto sociale e geopolitico in cui sono nate e si sono sviluppate, come se il campo economico fosse dotato di leggi proprie, quelle del mercato, che si insegnano all’università, e che “valgono” sempre: sia in presenza di politiche cosiddette liberiste che di politiche interventiste. Di qui la tesi che esistano due sovranismi: uno di destra e uno di sinistra; e che si distinguano tra loro non tanto per le diverse misure economiche che propongono, ma solo per le opzioni in campo sociale e politico.
Ma la questione dei profughi è una questione europea, che può essere affrontata solo a livello europeo. Sbarcano, se non annegano nel Mediterraneo, in Italia – come sbarcavano e torneranno a sbarcare in Grecia, non appena Erdogan avrà perso interesse ai buoni rapporti con l’Unione – perché sono i loro punti di approdo; ma la loro meta è l’Europa, dove Italia e Grecia sono e restano i paesi meno appetibili: quelli che fino a un anno fa, per la maggior parte di loro, erano solo paesi di transito; poi le frontiere interne dell’Unione, quelle che il trattato di Schengen dovrebbe tenere aperte, si sono chiuse e quell’umanità dolente ha cominciato ad accumularsi nel nostro paese. Accumularsi è il termine giusto, perché le autorità italiane la trattano come “cose”: da stoccare in qualche modo in attesa di potersene liberare. In Grecia, per ora, non ne arrivano quasi più; ma anche lì ne sono rimasti “intrappolati” più di 60mila.
Che fare? L’Europa ha la possibilità e l’interesse ad accoglierli tutti: perde, per calo demografico, tre milioni di abitanti all’anno e ha – e avrà sempre più – bisogno di rimpiazzarli per motivi sia economici che sociali e culturali; per non diventare un continente di vecchi, in declino economico, ripiegato su se stesso, culturalmente sclerotizzato, geo-politicamente isolato. Perché la trasformazione del continente in fortezza è bidirezionale. Respingere profughi e migranti, posto che sia possibile, significa ributtarli tra le braccia dei governi, delle bande armate, del degrado sociale e ambientale da cui sono fuggiti; trasformarli in ostaggi o reclute delle forze in campo. Ma significa anche rendere tutti quei paesi off limits per gli europei: chi potrà più andare di persona a fare investimenti, o cooperazione, o turismo, o “scambi culturali” nelle regioni controllate da uno Stato Islamico?
Poi ci sono più di 40 milioni di cittadini europei o di immigrati residenti in Europa che appartengono a comunità religiose o linguistiche in qualche modo legate ai paesi da cui provengono quei profughi. Trattarli come cose da respingere al mittente significa rinfocolare in quelle comunità sentimenti di estraneità e reazioni di ripulsa e di vendetta di cui le stragi che hanno insanguinato il continente sono solo le prime avvisaglie. Continuare su questa strada significa rendere la convivenza in Europa sempre più difficile, alimentando paure e reazioni difensive che sconfineranno sempre più in aperto razzismo.
Per questo la lotta per l’accoglienza e l’inclusione dei profughi che arrivano o cercano di arrivare in Europa va condotta a livello europeo, unendo tutte le forze che si stanno mobilitando contro i respingimenti – e che non sono poche, anche se non hanno voce sui media – in una prospettiva che è al tempo stesso culturale, sociale, politica ed economica: perché esige un cambio di passo nelle politiche economiche al solo livello, quello europeo, in grado di rendere efficace, in termini di occupazione, di redditi e di welfare, la lotta contro l’austerità.
E’ l’austerità, infatti – quella che ha creato 25 milioni di disoccupati tra i cittadini europei – ad aver reso l’arrivo dei profughi un problema, mentre prima della crisi un numero molto maggiore di cosiddetti “migranti economici” veniva non solo accolto e inserito nella società, ma anche richiesto e apprezzato dai datori di lavoro.
L’alternativa a questo irrinunciabile cambio di passo è respingere, o cercare di respingere, o far credere – per meschine ragioni elettorali – di poter respingere; cioè lavorare per estendere a tutti i paesi del Medioriente e dell’Africa centrosettentrionale da cui provengono i profughi diretti in Europa accordi analoghi a quello con la Turchia. Un disegno feroce che equivale a condannare a morte, o a violenze e soprusi di ogni genere, o all’inedia o, nella migliore delle ipotesi, a riprendere da capo la strada da cui sono stati riportati indietro, tutti i profughi che si sarà riusciti a respingere o a “rimpatriare”.
Se non è razzismo questo, che cosa è mai il razzismo? Ma è anche un disegno, come già si intravvede, troppo complesso e impegnativo, oltre che cinico e criminale, per andare in porto: quei paesi non sono la Turchia; in molti ci sono persino Governi che non governano. Senza contare che anche l’accordo con la Turchia è molto precario. Da un momento all’altro Erdogan potrebbe rovesciare in Europa i “suoi” tre milioni di profughi in un colpo solo…
In ogni caso, una volta fuori dall’euro e dall’Unione europea per tutte le forze che lottano per un mondo diverso sarà impossibile anche solo battersi per una politica comune di accoglienza in Europa. Le frontiere al Brennero, a Ventimiglia, a Como, già oggi chiuse, non si apriranno più e sull’Italia, lasciata sostanzialmente sola, verrà scaricato, ben più di quanto già non succeda ora, tutto il peso e l’orrore delle attività operative e delle responsabilità politiche dei respingimenti. E’ questo che vogliamo?
Il cuore e il cervello dei governanti italiani continuano a rimpicciolirsi. Ciò che resta del secondo viene impiegato per per irrigidire le barriere e rendere schiavi chi riesce a superarle. Articoli di Leo Loncari e Alessandro Dal Lago.
il manifesto, 11 febbraio 2017
RIMPATRI, LAVORO E MENO DIRITTI
PER I RICHIEDENTI ASILO
di Leo Lancari
Papa Bergoglio con un discorso pronunciato in Vaticano il 4 febbraio scorso ha compiuto un passo decisivo nella definizione del suo pensiero in materia di economia. L’occasione è stata un’udienza con il movimento dell’Economia di Comunione che si ispira a Chiara Lubich, un’imprenditrice che negli anni ’70 in Brasile dette vita ad esperimenti di imprese organizzate in “cittadelle” industriali che si sono date la regola di ripartire i profitti a beneficio dei dipendenti e di “coloro che sono nel bisogno”. Anche in Italia, a Loppiano in Toscana, esiste un Polo produttivo di imprese che seguono i principi dell’Economia di comunione e una Scuola di Economia civile coordinata dall’economista Luigino Bruni.
La novità del discorso di Bergoglio, rispetto alla stessa enciclica Laudato si’ (Papa Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, 2015) e a tutta la Dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2004), è che questa volta il Papa non si è limitato a denunciare i peccati (gli eccessi, gli effetti collaterali indesiderati) dell’economia, ma ha chiamato il peccatore per nome: il capitalismo. “Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il capitalismo continua a produrre scarti”, cioè poveri, emarginati, esclusi dalla società. Non mi pare che dalla Chiesa romana sia mai giunta una condanna così esplicita del capitalismo.
Vediamo alcuni passaggi dell’impegnativo discorso pubblicato sull’Avvenire di domenica 5 febbraio con il significativo titolo di prima pagina a 4 colonne: “Altra economia, ora”. Gli imprenditori che applicano i principi e le regole dell’“economia di comunione” operano un “profondo cambiamento del modo di vedere e di vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla”. Tre i temi scelti: il denaro, la povertà e il futuro.
Sul denaro Bergoglio ricorda il Gesù di Giovanni della cacciata dei mercanti dal tempio e prosegue con un bagno di realismo: “Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine (…) [quando] l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire”. La soluzione: “Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri”. Per Bergoglio la lotta alla povertà (“curare, sfamare, istruire i poveri”) ha bisogno di istituzioni pubbliche efficaci fondate sulla solidarietà e il reciproco soccorso. Qui sta “la ragione delle tasse” come forma di solidarietà e la condanna morale all’“elusione e alla evasione fiscale”. Ma attenzione, l’assistenza ai bisognosi non deve servire a nascondere le cause della povertà: “questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere”. Il ragionamento di Bergoglio riguarda il funzionamento dell’economia in senso generale e ridicolizza i puerili tentativi con cui un certo capitalismo tenta di riparare i danni arrecati alle persone e all’ambiente naturale. Lo scritto è davvero magistrale: “Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!”. Più avanti precisa: “Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione”. Leggendo queste parole a me sono venute in mente tanta parte della cooperazione internazionale, la fondazione Bill&Melinda Gates che pretende di insegnare agli africani come vivere, ma anche le illusioni distribuite a piene mani dalle industrie della green economy, dai “fondi di investimento etici”, dei certificati di Responsabilità sociale delle imprese e così via, tentando di umanizzare il capitalismo. Prosegue quindi Bergoglio più chiaro che mai, quasi a voler richiamare i suoi bravi interlocutori imprenditori dell’economia di comunione ad un impegno ancora più profondo: “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. E ancora: “Occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. Verso la fine torna sul concetto: è necessario “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti”.
Infine il tema del futuro; come comportarsi per apportare cambiamenti.“Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita”, dice Bergoglio. “Piccoli gruppi” possono funzionare da seme, sale ed enzima per il lievito. “Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri”. Dono e amore, reciprocità e condivisione sono le leve del cambiamento. “Il ‘no’ ad un’economia che uccide diventi un ‘sì’ ad un’economia che fa vivere”, conclude. Per quanti si occupano in vario modo e in varie forme di economia solidale questo discorso del Papa appare molto incoraggiante.
Internazionale online, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)
Premessa
Fu negli anni del secondo governo Berlusconi che il Parlamento italiano approvò la legge 30 marzo 2004, n.92,
«Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti
degli infoibati». Iniziò molto presto - come controcanto alle manifestazioni della destra neofascista e nazionalista -la civile protesta delle voci più riflessive. Il primo intervento critico fu forse quello di Corrado Staiano con un articolo sull'Unità, dal titolo emblematico: La memoria e gli avvoltoi. L'indignazione per la pesante mistificazione dei fatti ci spinse a raccogliere su eddyburg documenti che rivelassero ai frequentatori del sito la verità. Pubblicheremo presto una visita guidata che aiuti a ritrovare quegli scritti.
Stavamo per concludere un nostro scritto in occasione della nuova celebrazione di quell'iniziativa quando ci è capitato di leggere in anteprima l'eccellente servizio che la preziosa rivista Internazionale ha dedicato alla demistificazione della cerimonia, ahimè ripetuta ancora una volta. Ringraziando calorosamente Internazionale (il numero in edicola dovrebbe essere distribuito in tutte le scuole) riprendiamo di seguito gli interventi di Nicoletta Bourbaki, Federico Tenca Montini, Piero Purini, Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Jože Pirjevec, Sandi Volk. Raccomandiamo di acquistare in edicola il testo cartaceo della rivista per giovarsi anche dell'apparato iconografico.
Infine, riprendiamo dal sito web "Burattini senza fili" una limpida testimonianza delle numerose falsificazioni compiute per accreditare le menzogne sull'"infoibamento" operato dai trucidi "comunisti slavi" : Come si manipola la storia attraverso le immagini"(e.s.)
di Nicoletta Bourbaki
Dal 2005, ogni 10 febbraio, sui mezzi d’informazione italiani viene raccontata una versione parziale e distorta di quel che accadde a Trieste, in Istria e in tutta quanta la “Venezia Giulia” nella prima metà del ventesimo secolo. La legge che nel 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo” allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni.
L’inquadratura, strettissima e al tempo stesso sgranata, si concentra sugli episodi di violenza chiamati - per metonimia - “foibe” e sull‘“esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italofona di quelle regioni.
Nel discorso pubblico italiano, infatti, dagli anni novanta e seguendo una precisa agenda politica, due argomenti diversi sono stati collegati in modo sempre più stretto e frequente, fino a sovrapporsi. Il giorno del ricordo ha dato a tale sovrapposizione il crisma dell’ufficialità, e oggi le foibe sono presentate come causa immediata dell’esodo. È un nodo che va districato con pazienza.
Quando si parla di foibe, sul confine orientale la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia.
I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani - stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola - sono un enorme non detto. La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano.
Il non detto pesa e condiziona tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza “jugoslava” presero parte numerosi italiani: civili italofoni di quelle zone, ma anche disertori e sbandati del regio esercito. Nei territori oggi indicati come Friuli-Venezia Giulia, Repubblica di Slovenia e Repubblica di Croazia, l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale.
Se si scostano i pesanti drappeggi scenici di una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali certissime e indiscutibili, alimenta le “passioni tristi” del rancore e del revanscismo, il “confine orientale” si rivela - per citare il titolo di un importante libro dello storico Piero Purini - un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati. Anche la frontiera postbellica tra Italia e Jugoslavia, oggi descritta come un solco invalicabile, in realtà rimase sempre porosa, permeabile, mutevole.
In una Lettera aperta sul Giorno del ricordo, abbiamo espresso le nostre critiche alla scheda Cosa sono le foibe pubblicata il 10 febbraio 2016 sul sito di Internazionale, e proposto alla rivista – che riteniamo un esempio di giornalismo scrupoloso, competente e indipendente – uno speciale che affrontasse la complessità di questa storia, coinvolgendo alcuni degli storici che, negli ultimi anni, hanno pubblicato le più interessanti ricerche storiografiche sul tema.
Ringraziamo Internazionale per la disponibilità e l’apertura.
Gli storici che hanno contribuito sono: Federico Tenca Montini, Piero Purini, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Anna Di Gianantonio, Jože Pirjevec e Sandi Volk. Le loro note biobibliografiche sono nei rispettivi articoli e interviste.
SUL CONFINE ORIENTALE,
LA STORIA TRASFORMATA IN OLOCAUSTO
di Federico Tenca Montini
La preminenza attribuita nel nostro paese alla storia del confine orientale non rappresenta un’esclusiva italiana, ma la variante locale di un fenomeno più ampio che ha interessato diversi paesi europei a partire dalla fine degli anni ottanta.
Il caso più simile è l’espulsione (Vertreibung) di svariati milioni di tedeschi dai territori del Großgermanisches Reich, il reich nazista nella massima estensione dei suoi ideatori, passati alla fine della guerra sotto l’amministrazione della Polonia e della Cecoslovacchia. La storia segreta del paese è riscoperta negli stessi anni anche in tanti stati dell’Europa centrale e orientale, nella fase di passaggio dal modello comunista all’economia di mercato.
Il contesto generale di queste “riscoperte” è la ritrovata popolarità di narrazioni storiche rimaste inutilizzabili per decenni a causa della guerra fredda.
Nonostante si ripeta ossessivamente che una congiura del silenzio avrebbe impedito di dare agli eventi dei confini orientali la meritata notorietà (meccanismo centrale nell’esposizione mediatica di cui sono oggetto all’improvviso), essi in realtà erano stati già assai dibattuti. Come accaduto per le foibe, anche il Vertreibung aveva occupato una posizione importante nel dibattito postbellico nella Germania Occidentale. Alcuni avevano pure tentato di porre le sofferenze inflitte ai tedeschi dalla vendetta dei confinanti orientali sullo stesso piano delle atrocità naziste, come testimonia la tesi dello storico e sociologo Eugen Lemberg, risalente al 1950, secondo cui «ciò che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, i polacchi e i cechi l’han fatto ai tedeschi».
Le vicende del confine orientale nostrano furono assai frequentate dai mezzi d’informazione nazionali almeno fino al 1954. Lo dimostra, tra i vari contributi dedicati all’argomento, la mole di scritti sulle foibe e la questione di Trieste apparsi sulla stampa locale lombarda, raccolti nel 2008 da Antonio Maria Orecchia in La stampa e la memoria. Il fatto che la questione sia passata di moda con il ritorno di Trieste all’Italia nel 1954 si deve principalmente alla considerazione che simili argomenti erano ormai privi di sbocchi politici: gli effetti della ricostruzione e del boom economico erano ritenuti più appetibili dei ricordi di guerra.
La fine del blocco sovietico e i nuovi irredentismi
Le cose sono cambiate, appunto, sul finire degli anni ottanta, principalmente come effetto dell’agonia del socialismo reale in Europa orientale. Nel passaggio da una retorica basata sull’internazionalismo all’incontrastata affermazione di logiche centrate sullo stato-nazione si verifica quasi contemporaneamente l’unificazione della Germania e lo scioglimento delle compagini federative ex socialiste di Cecoslovacchia e Jugoslavia. Subito, poiché l’equilibrio politico disegnato dalla conferenza di pace di Parigi appare suscettibile di ulteriori revisioni, si attivano gli irredentismi. In Germania si valuta brevemente la possibilità di rinegoziare il confine con la Polonia, prima che il confine esistente, tecnicamente provvisorio dal 1945, sia accettato formalmente con una serie di trattati tra il 1990 e il 1991.
Allo stesso modo, la dissoluzione della Jugoslavia stimola in certi ambienti l’idea che i vari trattati stipulati tra questa e l’Italia, tra cui quello di Osimo che nel 1975 aveva stabilito definitivamente il confine, non sarebbero stati ereditati dalle nuove repubbliche di Slovenia e Croazia.
A farsi portavoce di una simile interpretazione fu soprattutto un partito di estrema destra, il Movimento sociale italiano. Il suo segretario, Gianfranco Fini, nel novembre del 1992, sebbene l’Italia avesse riconosciuto la Slovenia e la Croazia all’inizio dell’anno, si imbarcò con Roberto Menia, un rappresentante locale del partito, per lanciare nel golfo di Trieste 350 bottigliette con all’interno un suggestivo messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo nel 1975 oggi non valgono più… È anche il nostro giuramento: ‘Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!’».
Come anche nel caso tedesco, l’impraticabilità di una revisione del confine si risolse nella richiesta della restituzione dei beni abbandonati dai cittadini italiani dopo la guerra. Per questo motivo, per una specie di ricatto, l’Italia (sotto il primo governo Berlusconi) pose il veto all’ingresso della Slovenia nell’Unione europea nel 1994. Il veto fu sollevato dal successivo governo di centrosinistra, su preghiera del presidente americano Bill Clinton. Ancora nel 2006, per raccontare la vicenda, il quotidiano Libero non trovò titolo migliore che «I beni degli esuli regalati da Prodi alla Slovenia». In Germania, invece, la questione della restituzione dei beni durò fino al 2004, quando il cancelliere Gerhard Schröder prese pubblicamente le distanze dall’argomento.
In assenza di ripercussioni pratiche, la questione dei confini orientali ha continuato a operare sul piano culturale e simbolico per tutti gli anni duemila.
Dal plurale al singolare
Ma in che modo gli eventi storici legati ai confini orientali sono entrati nel discorso pubblico? Ancora una volta, le traiettorie di Italia e Germania mostrano importanti tratti di convergenza.
Entrambi paesi invasori di territori situati a oriente e organizzati in deboli stati di recente formazione, entrambi sconfitti in guerra, Italia e Germania subirono la vendetta dei popoli che avevano invaso, con alcune differenze. Se l’esodo dei tedeschi si misura sulla scala dei milioni, nel caso degli esuli istriani si può parlare di circa 250mila persone. I tedeschi furono cacciati dalla Cecoslovacchia con i provvedimenti emessi dal presidente Edvard Beneš ben prima del colpo di stato comunista del 1948, mentre nessun provvedimento di espulsione riguardò la minoranza italiana in Jugoslavia, a cui in buona parte fu consentito di optare per la cittadinanza italiana e il trasferimento nella madrepatria dalle clausole del trattato di pace del 1947.
In entrambi i paesi, poi, le complesse dinamiche storiche del periodo postbellico sono riassunte in semplici slogan. Nel caso del Vertreibung, il termine è usato per descrivere trasferimenti di popolazione che hanno occupato la durata di svariati anni, dai reinsediamenti ordinati dai nazisti già al termine degli anni trenta per rinforzare la componente etnica tedesca nei territori di recente occupazione (dagli stati baltici verso Polonia e Boemia), ai circa sei milioni di tedeschi evacuati dalle autorità naziste nell’ultimo anno di guerra, comprendendo infine tutti quelli che sono stati effettivamente cacciati dopo la liberazione dei paesi dell’Europa orientale. Allo stesso modo, nella categoria di “esodo istriano” sono inclusi movimenti di popolazione avvenuti in circostanze e situazioni diverse, dall’evacuazione forzata di Zara a seguito dei bombardamenti alleati ai trasferimenti clandestini a quelli operati legalmente e in forma variamente organizzata attraverso le opzioni, il tutto lungo un periodo più che decennale.
Il corollario naturale della trattazione pubblica di questi argomenti è l’incertezza, se non l’esagerazione, sul numero delle vittime. Gli “espulsi” tedeschi variano, nei rapporti dei mezzi d’informazione, da cinque a venti milioni, con una congettura sul numero delle vittime fissata attorno ai due milioni e mezzo. Nel caso italiano il numero degli esuli varia da duecentomila a 350mila, cifra citata nella maggior parte dei casi, mentre le stime degli “infoibati” variano a seconda dei casi da alcune centinaia – il numero dei corpi che secondo le ricerche disponibili è stato effettivamente individuato sul fondo delle grotte carsiche – a diverse migliaia di italiani che persero variamente la vita in territorio jugoslavo dopo l’armistizio.
Poiché il concetto di “infoibamento” è per lo più utilizzato in maniera simbolica, stime ancora più elevate sono state calcolate da ambienti militanti includendo anche tutti i soldati italiani caduti e dispersi in territorio jugoslavo per i più vari motivi, al punto che nel volume Albo d’oro di Luigi Papo, il tenente colonnello Cuiuli, comandante del campo di concentramento fascista di Rab/Arbe, morto suicida in stato d’arresto a seguito dell’insurrezione dei prigionieri del campo dopo l’8 settembre, risulta tra le vittime delle foibe. Nel cimitero monumentale costruito in prossimità del campo è ancora possibile osservare una frusta uguale a quella con cui amava picchiare personalmente gli internati.
Curiosamente, tanto in Italia quanto in Germania l’interesse giornalistico verso le storie riscoperte non si estende alle opere storiografiche che trattano l’argomento da un nuovo punto di vista o a partire da nuove acquisizioni archivistiche. Sebbene esistano lavori di buon livello scientifico usciti negli ultimi anni, questi, quando non sono osteggiati, non ricevono solitamente grande pubblicità, mentre sono in genere reclamizzate pubblicazioni di carattere sensazionalistico o libri di ricordi personali di testimoni diretti, dei loro discendenti nonché semplici ammiratori. In assenza di nuove ricerche di grande impatto, e dunque in un circuito per lo più parallelo rispetto a quello del dibattito e della ricerca storiografica, il “mutato atteggiamento” nei confronti della storia dei confini orientali rispecchia semplicemente un modo diverso – ma che in realtà somiglia alla visione sviluppata da ambienti militanti settant’anni fa – di interpretare eventi noti da tempo.
Il Giorno del ricordo
In Germania le espulsioni assumono una visibilità particolare nel corso del Tag der Heimat, la ricorrenza patriottica dal più ampio significato celebrativo che ricorre annualmente la seconda domenica di settembre. In Italia, invece, si è optato per l’istituzione di un’apposita giornata commemorativa, il Giorno del ricordo, il 10 febbraio. La giornata è stata introdotta dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004, per iniziativa del secondo governo Berlusconi. Solo quattro anni prima, il precedente governo di centrosinistra aveva reso l’Italia uno dei primi paesi a commemorare le vittime della shoah il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, ben prima che le Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 2005, incoraggiasse tutti i paesi a fare lo stesso.
Al di là del diverso orientamento politico dei due governi, vi sono altri elementi che indicano una sorta di complementarietà tra le due date, in una tendenza che sembra accodarsi alla condanna dell’Unione europea degli opposti totalitarismi, fattore che alcuni autori indicano alla base della crisi del paradigma antifascista al livello continentale.
Se, soprattutto nella prima proposta di legge firmata dal già menzionato Menia, l’intento di commemorare ufficialmente le foibe conteneva effettivamente elementi di vendetta politica, nella formulazione definitiva della legge del Giorno del ricordo, approvata ad ampia maggioranza, è importante il ruolo di quel settore della sinistra ex comunista che accettò di buon grado l’occasione di segnare una cesura rispetto alla propria storia politica nonché sottolineare la propria adesione a quel neopatriottismo che negli ultimi anni stava prendendo il posto della discriminante antifascista messa in crisi dalla partecipazione dell’ex Msi al governo.
Questa critica è peraltro emersa durante la discussione della legge, quando il deputato Franco Giordano, tra i pochi a votare contro, disse che «non si può dedicare una giornata della memoria, al pari del 25 aprile e di quella dell’Olocausto, in quanto stiamo parlando di fenomeni che non sono assolutamente equivalenti e la proposta di renderli equivalenti […] in realtà allude ad un processo di revisionismo storico che cambia la natura dello Stato e della Costituzione antifascista».
La scelta della data, anzitutto, approvata su proposta delle associazioni degli esuli. Il 10 febbraio è infatti l’anniversario della ratifica del trattato di Parigi con cui le potenze alleate (Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica) stabilirono le condizioni per la fine delle ostilità con l’Italia. Tra le date alternative disponibili si possono elencare il 20 marzo, data della partenza dell’ultimo viaggio del piroscafo Italia carico di profughi da Pola, o il 15 settembre, data di entrata in vigore del trattato di pace stesso.
Il 10 febbraio 2007 il presidente della repubblica Giorgio Napolitano commemorò le foibe attribuendole a «un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947». Tale riferimento al trattato, per di più nell’anniversario della sua ratifica, suscitò l’allarmata reazione dell’omologo croato Mesić. Questi, oltre a denunciare quelli che riteneva «elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e ricerca di vendetta politica», dichiarò senza mezzi termini «disdicevole e potenzialmente pericoloso mettere in questione il Trattato di pace che l’Italia ha firmato nel 1947». Definiva anche «assolutamente inaccettabile per la Croazia qualsiasi tentativo di mettere in discussione gli accordi di Osimo (…) che la Croazia ha ereditato come uno dei paesi successori della Federazione jugoslava».
Tornando alla scelta del 10 febbraio, essa, come si è visto, da un lato suggerisce un nesso causale tra la pace imposta dalle potenze cui l’Italia aveva dichiarato guerra e gli eventi luttuosi che la festività si propone di commemorare e tramandare, dall’altro fa sì che le foibe e l’esodo siano ricordati esattamente due settimane dopo la Giornata della memoria della shoah. Considerato anche che in genere gli eventi legati alle due ricorrenze si sviluppano a cavallo delle giornate stesse e la somiglianza delle due denominazioni, oggetto di frequenti lapsus e malintesi sui mezzi d’informazione, ne deriva una certa confusione, come prova l’iniziativa di alcuni comuni di fare economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date.
Oltre agli effetti osmotici del calendario civile e delle gaffe, ne vanno considerati altri, altrettanto incisivi e significativi.
L’estetica dell’appiattimento
L’impianto di celebrazione della shoah, così ben strutturato e declinato in prodotti d’arte di qualità spesso elevata, tanto da essere divenuto patrimonio della cultura di massa e del senso comune, esercita, proprio in virtù del suo successo, un indubbio potere attrattivo sul tentativo di reclamizzare uccisioni e persecuzioni, nonostante queste abbiano spesso poco o nulla a che spartire con quelle commesse da Hitler e dai suoi volenterosi collaboratori di varie nazionalità. Non appena ci si accinge a raccontare una qualsiasi storia di massacri e persecuzioni, quindi, l’estetica della shoah emerge quasi naturalmente e procede a livellare per vaghi nessi associativi vittime di cui viene esaltata l’innocenza, la giovinezza e il candore a prescindere dalla natura della persecuzione subita, mentre i carnefici vengono nazificati.
Uno degli effetti di questo appiattimento si produce al livello iconografico, ed è il motivo per cui le fotografie sono usate in maniera indifferenziata: i profughi francesi che scappano dai nazisti diventano esuli istriani, immagini di fosse comuni naziste valgono per l’Holodomor (la grande carestia ucraina del 1929-1933). Le didascalie cambiano, ma stranamente il crimine ritratto è quasi sempre fascista.
Un altro effetto è l’utilizzo sempre più frequente della parola “genocidio”. Il termine è stato coniato in ambienti ebraici durante la seconda guerra mondiale e ratificato nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio nel 1948 con la risoluzione 260 dell’Onu: «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
Tale definizione, come si vede, non menziona le persecuzioni politiche. Ciononostante, dato il capitale morale che deriva dall’accusa di genocidio, c’è una tendenza a usare il termine per un’ampia gamma di massacri e persecuzioni, abuso che ne ha mutato profondamente il significato e il valore di condanna eccezionale.
Il senso della storia
Si diceva di un modo nuovo e “nazionale” di guardare alla storia in un certo numero di paesi, sia ex fascisti sia tra quelli in via di transizione dal comunismo. Nel 1989 Franjo Tuđman, l’aspirante leader di un paese, la Croazia, che si candidava a rientrare in entrambe le categorie, pubblica un libro indicativamente intitolato L’assurdità della realtà storica. Il volume è una raccolta di riflessioni vagamente filosofiche sul ruolo della violenza nella storia, in cui, tra le altre cose, viene posta in dubbio la consistenza numerica delle vittime ebraiche nel corso della seconda guerra mondiale, sia al livello europeo sia in Jugoslavia.
Mentre l’élite politica croata cercava di liberarsi della pesante eredità del regime fascista di Pavelić, in Italia e in Germania, oltre alle “riscoperte” di cui si è detto, cominciava a manifestarsi un interesse nuovo anche per il comportamento degli alleati durante la seconda guerra mondiale. Negli eccessi più noti, come l’incendio di Dresda – ma si pensi anche alla recente insistenza, in Italia, sui bombardamenti di Zara –, tale comportamento viene considerato su un piano simile a quello delle atrocità nazifasciste, collocando tutti questi eventi nella categoria molto generica di una guerra in cui i partecipanti, tutti e senza distinzione, si sarebbero macchiati di crimini analoghi.
L’elevazione dei crimini nazisti – crimini contro l’essenza innata delle persone – a una categoria di ordine superiore, a crimine terribile e inedito, a orrore tramandato agli eredi politici (e perfino biologici) di chi lo ha compiuto o più semplicemente a precetto morale centrale della nostra civiltà, ha coinciso con l’inizio di un periodo storico che ha conosciuto l’espansione dei diritti civili e l’emancipazione e integrazione di ampie quote di umanità oppressa – si pensi all’emancipazione politica delle donne e alla decolonizzazione.
La sostanziale negazione dell’unicità di questi crimini, confusi in una variegata schiera di pretesi genocidi tra cui le vendette postbelliche ai danni di italiani e tedeschi, le sofferenze patite da determinate categorie sociali e politiche nei paesi comunisti e i crimini degli alleati occidentali nel corso della guerra scatenata dalla Germania e dai suoi sostenitori, rischia di ripristinare un antico ordine del mondo in cui la storia è accettata come un naturale susseguirsi di violenze e sopraffazioni.
Non è un caso che la rappresentazione dell’Europa centrale e orientale promossa dalla “nuova sensibilità storica” in Italia e Germania abbia riscoperto una serie di cliché razzisti – si pensi all’immagine degli slavi in molto del materiale divulgativo sulle foibe – sostanzialmente affine alle rappresentazioni prodotte all’inizio del novecento per giustificare l’intervento armato in quello che veniva definito un oriente barbarico in preda a odi ancestrali. Ci si può chiedere quale sarà il risultato dell’incontro di rappresentazioni di questo genere con le emergenze degli ultimi anni: la crisi della democrazia liberale, l’ascesa dei populismi e la tendenza alla chiusura dei confini.
In questo senso non può che preoccupare una recentissima dichiarazione di Björn Höcke, politico tedesco del partito populista di destra Alternative für Deutschland (Afd), in prima linea contro rifugiati e immigrati. Parlando non a caso a Dresda ha annunciato che “la Germania deve smetterla di sentirsi colpevole e operare una svolta nel modo di ricordare il periodo nazista” e i tedeschi sarebbero gli unici che “hanno costruito un monumento alla vergogna nel cuore della loro capitale”, riferendosi al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, eretto nel 2005 a Berlino.
IL PREQUEL DEL GIORNO DEL RICORDO.
LA VENEZIA GIULIA
DALLA PRIMA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Piero Purini
Non è possibile affrontare i temi del Giorno del ricordo senza prima analizzare il contesto in cui l’esodo e le foibe avvennero e senza conoscere la complessità umana e nazionale del “confine orientale”. Per fare questo è necessario fare un salto all’indietro ed esaminare la situazione del territorio che all’inizio del novecento era chiamato Litorale austriaco.
Il Litorale (Küstenland in tedesco, Primorska in sloveno e croato) si trovava alla confluenza delle tre macroaree linguistiche più grandi d’Europa: la neolatina, la germanica e la slava. Di conseguenza la popolazione era mista, con zone a maggioranza slovena (il vasto territorio a est e a nord di Gorizia, il Carso triestino, il nord dell’Istria), italiana (il centro di Trieste, gran parte della costa istriana, il Friuli orientale e la Bisiacaria – cioè la zona del monfalconese), croata (l’interno dell’Istria). Erano presenti anche numerosi gruppi minoritari (romeni, serbi, ebrei, greci, cechi, armeni): il gruppo più consistente era quello tedescofono, presente soprattutto nelle città medie e grandi.
Spesso l’identità linguistica non era nettamente definita: in parte dell’Istria gli abitanti parlavano dialetti che non erano chiaramente sloveni o croati, ma mescolavano le due lingue; nel Friuli orientale la popolazione si esprimeva in lingua friulana; in quasi tutta la regione il dialetto venetomorfo rappresentava il vero veicolo di comunicazione ed era molto più usato della lingua italiana dagli stessi italiani.
Il plurilinguismo era una situazione estremamente diffusa, sia per la frequenza dei matrimoni misti, sia per la necessità di parlare più lingue in un territorio multietnico. Il meticciato linguistico era piuttosto normale, con persone che nei vari ambiti della propria esistenza usavano una lingua o l’altra (tanto che a Fiume - che non faceva parte del Litorale, ma nel 1924 fu annessa alla Venezia Giulia - si diceva che “el più stupido omo parla quattro lingue”) e le stesse lingue e dialetti erano abbondantemente contaminati da molti forestierismi.
Negli ultimi decenni dell’ottocento e all’inizio del novecento, l’espansione del porto e della città di Trieste, l’indotto, le infrastrutture e i commerci provocarono un forte sviluppo industriale e causarono una forte immigrazione e un aumento esponenziale della popolazione dell’intera regione. Trieste in particolare presentava nel 1914 un numero doppio di abitanti rispetto al 1870 e quasi decuplicato rispetto agli inizi dell’ottocento.
In questa nuova immigrazione erano prevalenti gli sloveni (provenienti sia da altre zone del Litorale, sia dalla Carniola), gli italiani immigrati dalle città dell’Istria e dal vicino Regno d’Italia (soprattutto dal Veneto e dal Friuli), i croati dell’Istria interna e della Dalmazia, i cechi provenienti dalla Boemia e i tedeschi da tutto l’impero, ma anche dalla Germania e dalla Svizzera.
Sloveni e croati, almeno fino agli ultimi decenni dell’ottocento e prevalentemente nei grandi centri, tendevano ad assimilarsi alla componente italiana, in quanto cultura dominante, in una o due generazioni. Si trattava del gruppo più forte da un punto di vista culturale ed economico, anche perché la borghesia del Litorale era in gran parte italiana o italianizzata. Assimilarsi offriva dunque più possibilità di avanzamento sociale e un più rapido miglioramento economico individuale.
Inoltre la diversità dei dialetti in molti casi rendeva difficile ai singoli la percezione di un’identità nazionale comune: la presa di coscienza della propria nazionalità da parte di sloveni e croati fu un fenomeno successivo (basti pensare che una codificazione definitiva e unitaria dell’alfabeto sloveno era stata raggiunta solo verso il 1835). Solo nella seconda metà dell’ottocento la tendenza degli immigrati a italianizzarsi diminuì, grazie a una maggior coscienza nazionale dovuta all’apertura di numerose scuole slovene e all’aumento del livello d’istruzione tanto nelle zone d’origine quanto in quelle di arrivo. Contribuirono a fermare l’assimilazione anche l’aumento dell’immigrazione che rese i nuovi arrivati meno vulnerabili, dato che trovavano sul territorio comunità nazionali già coese, la nascita di una coscienza di classe nel proletariato che si contrapponeva alla borghesia – italiana –, e infine la politica delle autorità austriache che, temendo il crescente peso dell’irredentismo italiano, tentavano di contrapporvi le altre nazionalità presenti.
La popolazione italofona di Trieste era anch’essa composita: autoctoni residenti in città da molte generazioni, italiani immigrati da altre zone della duplice monarchia (soprattutto dall’Istria, dalle città della Dalmazia, dal Friuli orientale e dalla Bisiacaria) e cittadini italiani – i “regnicoli” – residenti a Trieste ma privi della cittadinanza austriaca. Politicamente solo una minoranza degli italiani del Litorale era favorevole all’irredentismo e all’annessione del territorio all’Italia, ma furono proprio i leader e gli intellettuali irredentisti, in particolare durante gli anni della prima guerra mondiale, a fornire gli strumenti interpretativi della situazione locale all’opinione pubblica italiana.
La popolazione tedesca, nella sola Trieste, contava quasi 12mila persone. Si trattava soprattutto di funzionari imperiali, di impiegati nelle filiali di imprese austriache e di commercianti che da oltre un secolo avevano sul territorio le proprie attività. Erano presenti anche nuclei consistenti di operai di lingua tedesca tra i ferrovieri e i cantierini.
Il censimento del 1910 registrò nel Litorale una popolazione totale di 928.046 persone, di cui 354.908 italiani, 466.730 sloveni e croati, 39.798 di altra lingua e 66.611 cittadini stranieri, compresi i regnicoli. L’appartenenza nazionale fu stimata in base alla “lingua d’uso”, ma tale criterio era ambiguo: poteva essere interpretato tanto come lingua d’uso nelle relazioni interpersonali e lavorative quanto come lingua d’uso in famiglia. Le rilevazioni furono affidate a funzionari comunali, ma in buona parte dei centri più grandi (in primis a Trieste) i comuni erano guidati dal partito liberalnazionale, cioè dalla borghesia irredentista italiana, per cui si ritenne già allora che gli addetti alla rilevazione avessero censito come italiani una parte significativa dei bilingui e trilingui. In alcune zone le autorità imperiali procedettero a una revisione dei dati: per esempio a Trieste gli italiani passarono da 170mila a 148.398, mentre gli sloveni da 38mila a 56.917.
I primi cambiamenti forzati
La complessità etno-nazionale del Litorale non diede comunque adito, nel periodo precedente alla grande guerra, a violenze. Gli attriti si limitarono quasi esclusivamente a polemiche o ad articoli derisori sui giornali. Maggiori tensioni si ebbero in occasione dell’apertura di alcune scuole slovene in città o per la proposta di istituire una università italiana a Trieste, ma la situazione non degenerò mai in scontri pesanti
Lo scoppio della guerra nel 1914 portò ai primi cambiamenti forzati della popolazione del Litorale: decine di migliaia di giovani del territorio furono arruolati e spediti sul fronte russo, qualche migliaio di renitenti anarchici o socialisti e di irredentisti si rifugiò nell’ancora neutrale Italia, mentre una parte dei regnicoli rimpatriò a causa del crollo economico causato alla città dal conflitto. Quando cominciò a prospettarsi l’entrata in guerra dell’Italia anche i regnicoli rimasti dovettero fuggire in massa per non trovarsi nella situazione di cittadini stranieri in un paese nemico. Al momento dell’inizio delle ostilità il Litorale aveva perso la grande maggioranza dei cittadini italiani in esso residenti, quasi 35mila persone.
Durante la guerra il Litorale subì un grave spopolamento: il Friuli orientale, la Bisiacaria e l’Isontino, zone di operazioni o immediata retrovia, furono evacuati. Lo stesso accadde per il sud dell’Istria, ritenuto un territorio strategicamente importante per la presenza del porto di Pola. Gli sfollati furono ammassati in campi profughi sparsi per il territorio austriaco, mentre chi non era riuscito ad andarsene fu trasferito verso l’interno dell’Italia dopo l’occupazione dei paesi friulani e bisiachi da parte delle truppe italiane. Altri abitanti del Litorale, sorpresi altrove all’interno della monarchia asburgica dallo scoppio della guerra, non poterono ritornare a causa della limitazione del movimento dei civili. Con il procedere del conflitto molte amministrazioni, ditte e fabbriche (e il loro relativo personale) furono spostate in luoghi più sicuri all’interno dell’Austria-Ungheria. A Trieste, che nel 1914 contava 243mila abitanti, la popolazione si ridusse a sole 150mila unità.
La metamorfosi successiva alla guerra
La sconfitta dell’Austria-Ungheria produsse una vera e propria metamorfosi nella composizione etno-linguistica del territorio: già nei giorni precedenti l’arrivo delle truppe italiane si verificarono i primi incidenti con vittime slovene. Le nuove autorità italiane presero una serie di iniziative che via via resero più difficile la permanenza di coloro che non erano italiani e ostacolarono il ritorno degli sfollati di nazionalità slovena, croata o tedesca: ai reduci dell’esercito austriaco fu permesso di restare nel Litorale (ormai ufficialmente ribattezzato Venezia Giulia) solo se nativi del territorio, mentre quelli di altre nazionalità dovevano trasferirsi oltre la linea di demarcazione. Ciò significava che tutti i non italiani immigrati di recente e anche sloveni, croati e tedeschi residenti nella regione ma malauguratamente nati altrove dovevano andarsene. In seguito fu previsto l’arresto per coloro che ancora non avevano ottemperato all’ordinanza e da dicembre scattarono forme di internamento per i reduci ancora presenti sul territorio.
Anche i civili non italiani cominciarono a subire pressioni: circa 800 insegnanti e sacerdoti, considerati il veicolo più pericoloso del nazionalismo slavo e croato, furono internati, altri furono espulsi. Provvedimenti del genere furono adottati anche per ex prigionieri di guerra austriaci in Russia, ritenuti potenziali bolscevichi.
Nel pubblico impiego si verificarono cambiamenti radicali: buona parte dei funzionari dell’apparato burocratico asburgico e degli organi imperiali di pubblica sicurezza partirono negli ultimi giorni di guerra o subito dopo. Molti addetti all’ordine pubblico non italiani furono trasferiti nel corso del 1919 nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in base a un accordo tra i due governi. Migliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando in alcune zone a un vero e proprio spopolamento: addirittura dalla sola Pola vi fu un esodo che coinvolse da venti a venticinquemila individui, nella maggioranza persone legate alle attività del porto militare.
La comunità tedesca fu particolarmente colpita: le sue scuole furono chiuse (e trasformate per dileggio in caserme), circoli e giornali dovettero sospendere le attività, si verificarono epurazioni e licenziamenti nei posti di lavoro, ci furono delazioni nei confronti di persone che in ambito familiare e privato continuavano a parlare tedesco e atti intimidatori per spingere i tedescofoni ad andarsene in Austria. La vox populi dell’epoca parlò di 40mila persone emigrate da Trieste soprattutto a Vienna e a Graz.
Anche verso la Jugoslavia si verificò un flusso di partenze (che continuò anche per tutto il ventennio fascista) di sloveni e croati che trovarono più opportuno lasciare la zona invece di rimanere nelle proprie case. Alcune organizzazioni di aiuto ai profughi fornirono la prima assistenza a questi profughi e crearono strutture di accoglienza: nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia oscillavano già dalle 30 alle 40mila persone (di cui 15mila alloggiate in campi profughi). Nella sola Lubiana erano presenti quasi cinquemila profughi dichiarati, ma tra questi non era conteggiato chi non si era rivolto a organizzazioni ufficiali.
La bonifica fascista
A fronte di questi mancati rientri e di queste partenze, le autorità italiane insediarono nei nuovi territori migliaia di neoimmigrati dal regno. I primi a esservi trasferiti furono membri delle forze dell’ordine, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione pubblica necessari per il controllo dei “territori redenti”. La politica dell’Italia fu analoga a quella che si adottava nei confronti dei territori coloniali e il numero delle forze militarizzate presenti nella Venezia Giulia aumentò a dismisura: 47mila unità contro le 25mila del periodo asburgico (di cui però ben 17mila concentrate nel porto militare di Pola).
Ben presto cominciarono a trasferirsi dal regno anche moltissimi civili. I primi furono i regnicoli già residenti prima della guerra, seguiti da un numero sempre più consistente di neoimmigrati italiani. Nel 1921 il numero complessivo dei nuovi immigrati civili nella sola Trieste era di circa 40mila persone, di cui 25.500 già residenti prima della guerra. Vi erano diverse motivazioni per l’insediamento nella città: la fama di ricchezza di cui Trieste godeva nell’immaginario collettivo italiano, gli inviti che i nuovi immigrati inoltravano ai parenti, l’effettiva migliore qualità della vita che Trieste, pur nella situazione di crisi postbellica in cui la città si trovava, offriva rispetto al contesto rurale di molte zone dell’Italia.
Tuttavia la nuova situazione geopolitica del territorio mostrò presto tutti i suoi limiti economici, generando marginalità sociale e disoccupazione tra gli italiani immigrati di recente. Nel 1921 le autorità dovettero bloccare il flusso in arrivo e imporre misure di rientro all’immigrazione: dall’inizio di quell’anno alla metà del 1922 furono respinte ai luoghi di partenza più di diecimila persone. Nel censimento del 1921 i nuovi abitanti di Trieste provenienti dal regno arrivavano circa al 10 per cento della popolazione complessiva. Negli anni del fascismo l’immigrazione ebbe nuovo impulso a causa della politica fascista di italianizzazione dei nuovi territori, ormai definita ufficialmente “bonifica etnica”. Tra il 1918 e il 1931 furono 128.897 gli italiani immigrati nella Venezia Giulia, dei quali 63.932 concentrati nella provincia di Trieste e 49.009 nella città, dove risiedevano dunque i due quinti dell’intera comunità italiana immigrata. Nel 1931 un abitante su sette risultava essersi stabilito nella Venezia Giulia dopo la guerra.
Comunità cancellate
La politica di bonifica etnica del fascismo non si attuò solo con l’immigrazione di italiani, ma soprattutto con la snazionalizzazione, l’assimilazione e la spinta all’emigrazione degli “allogeni” o “alloglotti”. Sloveni e croati della Venezia Giulia nel corso del ventennio fascista videro l’annientamento di tutte le iniziative economiche e culturali delle due minoranze. Nel giro di pochi anni le banche e gli istituti assicurativi di proprietà slovena e croata furono chiusi o assorbiti da istituti nazionali, i circoli e le istituzioni culturali soppressi, la stampa e l’editoria sospese, l’uso dello sloveno e croato vietato nei tribunali e negli uffici pubblici.
Ai contadini sloveni e croati che avevano ottenuto prestiti pubblici per l’aiuto postbellico furono aumentati talmente i tassi di interesse da costringerli a svendere le proprietà allo stato, che poi provvedeva a riassegnarle, a prezzo stracciato, a coloni italiani neoimmigrati. La “riforma Gentile” portò alla chiusura di tutte le scuole con lingua d’insegnamento non italiana, mentre i simboli delle due comunità furono distrutti. L’episodio più significativo fu l’incendio del Narodni dom, la casa del popolo che rappresentava il cuore culturale e simbolico delle comunità slovena, croata e ceca di Trieste, dato alle fiamme il 13 luglio 1920 in una delle prime “imprese” degli squadristi giuliani.
Le violenze colpirono istituzioni e singoli individui: scuole, circoli, giornali, negozi e studi professionali furono devastati dagli squadristi; intellettuali, attivisti o anche persone comuni colpevoli solo di esprimersi nella loro madrelingua furono brutalmente malmenati o addirittura assassinati dai militi fascisti. L’organista sloveno Lojze Bratuž, colpevole di dirigere un coro sloveno, fu ucciso dagli squadristi facendogli bere olio per motori; altre volte i fascisti spararono contro gli elettori che si recavano alle urne o contro operai in sciopero.
Lo sloveno e il croato furono cancellati addirittura dalla toponomastica: i nomi delle località slovene e croate furono modificati in lingua italiana, traducendoli (il monte Snežnik, da sneg, neve, divenne monte Nevoso), italianizzandoli per assonanza (Hrastovlje, bosco di querce, divenne Cristoglie) o addirittura inventandoli ex novo (Ricmanje divenne San Giuseppe della Chiusa). A volte furono fatti errori marchiani, come nel caso del monte Krn, italianizzato come monte Nero, confondendo il termine krn (mozzo, tronco) con črn (nero). Inoltre fu avviata una campagna per il cambiamento dei cognomi e nomi “allogeni” e la loro “restituzione” in italiano (spesso chi manteneva il cognome slavo non aveva accesso al posto di lavoro). Anche per i cognomi si procedette con traduzioni (Kovač=Fabbri, Lisjak=Volpe) e con assonanze (Kocijančič – Canciani, Jamsek – Giani). Come nel caso dei toponimi si verificarono episodi grotteschi: Smerdel (da smrditi, puzzare) divenne alternativamente Smeraldi oppure Odorosi; il cognome sloveno Starec (vecchio) divenne il fascistissimo Starace.
Molte famiglie smisero di esprimersi in sloveno e croato per adottare l’italiano; l’impossibilità di frequentare scuole dove si imparassero le due lingue staccò definitivamente numerosi giovani dal proprio ambito culturale d’origine. Altri scelsero di andarsene: circa centomila alloglotti lasciarono il Litorale tra le due guerre per dirigersi soprattutto in Jugoslavia, Argentina, Brasile, Francia, Belgio, Austria, Egitto. In Jugoslavia e in Argentina sorsero delle vere e proprie colonie di sloveni del Litorale che comprendevano decine di migliaia di persone.
La Jugoslavia fu la meta privilegiata di quest’emigrazione per il legame nazionale e culturale con la Venezia Giulia. Furono numerosi gli intellettuali, i professionisti, gli insegnanti, i funzionari di istituti che si trasferirono nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, andando incontro anche a prestigiose carriere. Molti di questi “profughi intellettuali” andarono a formare l’intellighenzia del nuovo stato jugoslavo, come docenti universitari, musicisti, architetti, avvocati, direttori di imprese. Operai, ferrovieri e cantierini trovarono lavoro nei porti adriatici, nelle nascenti industrie jugoslave e nel comparto ferroviario. I profughi senza specializzazione invece ebbero un destino meno fortunato: una parte considerevole dei contadini fu trasferita in Macedonia, una delle regioni più arretrate del nuovo stato jugoslavo.
La catena degli eventi
La snazionalizzazione diede i suoi frutti: nel 1921 il censimento segnalò nella regione 884.251 abitanti, di cui 503.134 italiani, 257.868 sloveni e 92.806 croati. Nel 1936 un altro censimento, i cui risultati però furono tenuti segreti, rilevò 1.001.719 abitanti (Fiume compresa), dei quali 606.623 italiani, 251.760 sloveni e 135.182 croati. Il risultato leggermente più alto fra i croati fu dovuto, oltre che all’annessione di Fiume, al fatto che in questo censimento ormai il grosso dell’operazione di bonifica etnica era già avvenuto, per cui le rilevazioni furono usate come una sorta di “verifica” della politica di snazionalizzazione e le pressioni sui censiti furono molto inferiori rispetto al 1921.
Contro la politica di bonifica etnica e le violenze fasciste nacquero movimenti clandestini di resistenza nazionale. I più importanti furono il Tigr – acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka) – e Borba (Lotta) che attuarono azioni e attentati contro simboli e istituzioni legate alla politica di bonifica etnica fascista. Per piegare questi gruppi e per intimidire la popolazione fu impiegato il tribunale speciale per la difesa dello stato, una magistratura fascista istituita dopo l’attentato del 1926 a Mussolini, che non prevedeva né ricorsi né appelli. Il tribunale speciale fu largamente impiegato dallo stato contro gli sloveni e i croati: i processi a loro carico furono 131, gli anni di carcere irrogati a residenti nella Venezia Giulia 4.893 (il 17 per cento delle condanne complessive emesse dal tribunale in tutta Italia), le condanne a morte 33 su 42 totali, le condanne eseguite 23 su 31.
Durante e alla fine della seconda guerra mondiale si svolsero episodi di violenza che una certa vulgata istituzionale, attraverso il Giorno del ricordo, ha trasformato in eventi a sé stanti: le “foibe” e l‘“esodo”. Ma non sono eventi a sé stanti, non possono essere estrapolati da una situazione storica di violenza e di sopruso che continuava da oltre vent’anni. Per non parlare dei crimini avvenuti durante l’occupazione della Jugoslavia, di cui tratteranno in questo speciale altri studiosi.
Senza conoscere la catena di eventi che scatenò reazioni di tal genere, non è possibile dare una chiave di interpretazione corretta a quegli avvenimenti e il Giorno del ricordo, anziché essere un’occasione di riflessione storica, rimarrà esclusivamente uno strumento politico.
PERSECUZIONI, CRIMINI FASCISTI E RESISTENZE
NEI BALCANI E NELLA VENEZIA GIULIA, 1920-1945
di Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki
Una conversazione con gli storici Carlo Spartaco Capogreco, Anna Di Gianantonio ed Eric Gobetti.
Nicoletta Bourbaki. Nell’ottobre 1993, su iniziativa dei governi dei due paesi, si è costituita una commissione mista storico-culturale italo-slovena, che ha presentato la sua relazione nel 2000. Lo scopo dichiarato era ricostruire i processi storici che, nel periodo 1880-1956, influenzarono i rapporti tra italiani e sloveni, per poter avviare nuove relazioni tra i due stati. Come giudicate quella vicenda, sia riguardo a come è nato e si è svolto quel lavoro di ricerca storica comparata, sia alla luce della diffusione pressoché nulla – ai limiti della censura – che ha avuto in Italia la relazione finale?
Eric Gobetti. Ho forti perplessità sui tentativi di creare una “memoria condivisa”, cosa oggettivamente molto difficile in situazioni di violenze estreme e di lunga durata. Ritengo più logico un riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o trovare una, spesso impossibile, mediazione. Fatta questa premessa, il lavoro della commissione ha rappresentato un enorme sforzo, portato avanti con estrema abilità diplomatica e nobili obiettivi di pacificazione delle memorie. Si possono muovere molte critiche a quel lavoro (a titolo d’esempio si può notare la totale assenza del termine “crimini” nel descrivere le repressioni italiane durante la guerra), tuttavia l’elemento più significativo è proprio la sua mancata circolazione in Italia. L’impostazione oggettiva e fattuale di quel testo infatti andrebbe in contraddizione con la vulgata che si è preferito diffondere al livello politico e mediatico in questi anni. In definitiva, pur con tutti i suoi limiti, credo che quel documento potrebbe aiutare almeno a ristabilire corretti dati fattuali dai quali partire per una seria analisi di un fenomeno complesso. In questa fase storica, sarei favorevole a un utilizzo della relazione per esempio nelle scuole e nelle commemorazioni del 10 febbraio. Tutto sommato, su quei decenni di violenze l’Italia ha prodotto un vero e proprio documento ufficiale, perché non utilizzarlo nella data ufficialmente destinata a ricordarli?
Carlo Spartaco Capogreco. Infatti, la mancata diffusione della relazione da parte dell’Italia non depone bene. Soprattutto considerando la discutibile impostazione impressa dall’Italia, alcuni anni dopo, alla legge sul Giorno del ricordo. In questo senso, come scrissi nel 2007 in occasione della polemica intercorsa tra gli allora presidenti di Croazia e Italia, Mesić e Napolitano, il modo in cui era stata scritta la legge istitutiva di questa commemorazione finiva per consolidare una lettura degli eventi storici sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale.
Al di là di ogni altra considerazione, aggiungo solo che nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004) l’omissione del contesto storico e, perfino, del termine “fascismo” non aiutano gli italiani di oggi a “fare memoria” realmente. A comprendere e a ricordare, anche, le sofferenze cagionate al nostro e ad altri popoli dalla dittatura fascista. Sulla legge del 2004 relativa alle foibe, confermo quanto scrivevo nel 2007 sul numero di aprile di L’Indice dei libri del mese: con la sua impostazione chiusa e nazionalistica, corre seriamente il rischio di “legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)”.
Anna Di Gianantonio. Si è tentato di trovare dei punti di equilibrio, dei punti di contatto incontrovertibili tra italiani e sloveni, in base all’idea che gli italiani hanno sbagliato con il fascismo e gli sloveni con le foibe, ma non so quanto possa reggere dal punto di vista storico questo tentativo di contemperare le varie responsabilità. Ultimamente un filone storiografico mette in discussione il rapporto causa-effetto nella storia.
Certamente i fatti storici hanno un’evoluzione più complessa dei processi chimici o meccanici, eppure il fascismo e la guerra hanno determinato le vicende al confine orientale in misura tale che risulta impossibile pensare che non abbiano avuto conseguenze nel 1945. Non mi pare che si possano accusare gli sloveni degli abusi da essi stessi subiti durante il ventennio. Al contrario, al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale. Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.
Tutta la cultura italiana legge lo slavo come l’Altro, compreso Scipio Slataper, che pure era una delle persone più attente alle implicazioni sociali del “problema slavo”. Nel suo libro Il mio Carso dipinge gli slavi come rozzi contadini senza cultura e senza storia. Certo ci sono intellettuali diversi, come Angelo Vivante, che nel suo Irredentismo adriatico si mostra molto consapevole del problema sociale ed economico che l’irredentismo può creare all’impero austroungarico, ma mi pare un caso molto isolato. Quando poi gli slavi già nei primi anni del novecento riescono a costruire le loro banche e le loro imprese, a emergere economicamente, si scatena anche una concorrenza. L’affermazione dell’italianità in ambienti misti porta a negare i legami che ci sono in una società come questa, dove è molto difficile dire chi è italiano e chi è sloveno. Aggiungo che la relazione del 2000 non è stata divulgata anche a opera degli stessi studiosi che l’hanno scritta. Gli stessi che ci hanno lavorato poi non hanno preteso che il lavoro fosse divulgato.
NB. Entriamo nel cuore delle questioni. Cosa rappresenta la Jugoslavia per l’Italia fascista?
EG. La Jugoslavia rappresenta il principale obiettivo strategico non solo dell’Italia fascista ma del nazionalismo italiano in generale. La prospettiva di espansione territoriale verso est è infatti precedente al fascismo e viene motivata storicamente con la secolare presenza veneziana lungo le sponde orientali dell’Adriatico. Con l’attacco del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo (della Dalmazia in particolare), il regime ottiene dunque un significativo successo politico e propagandistico, raggiungendo obiettivi strategici di lunga durata.
NB. L’aspetto che lei sottolinea, della volontà di espansione italiana nei Balcani anche prima del ventennio fascista e per tutta la sua durata, è centrale. Il razzismo antislavo a cui accennava Anna Di Gianantonio ne costituisce un aspetto davvero oscuro e poco conosciuto, che però serve a comprendere tutto ciò che avverrà in seguito. Ci torneremo più avanti. Prima analizziamo il culmine di questo processo: quello delle violenze belliche nei confronti delle popolazioni slovena, croata e montenegrina.
EG. Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza nei Balcani, che avvengono già poche settimane dopo la resa dell’esercito jugoslavo, e cioè nell’estate del 1941. In ogni diversa realtà geografica i fenomeni resistenziali e repressivi assumono forme differenti. In Montenegro l’apice della repressione si raggiunge immediatamente dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, quando l’esercito italiano impiega fino a 70mila uomini in quella che si caratterizza come una vera e propria spedizione punitiva. In quelle stesse settimane nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti. In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia. L’inizio di questa nuova fase repressiva coincide con la costruzione di una vera e propria cintura di filo spinato e posti di blocco attorno a Lubiana, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942. Nei mesi successivi, poi, una serie di rastrellamenti sempre più massicci seminano morte e distruzione in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina.
NB. Che ruolo hanno in tutto questo personaggi come Mario Roatta e Mario Robotti?
EG. Mario Roatta, ex capo del servizio informazioni militare (Sim) e delle forze fasciste in Spagna, è uno dei più apprezzati generali italiani. Non a caso viene scelto per comandare la seconda armata, che governa i territori jugoslavi annessi e occupati, dal confine italiano fino al Montenegro (escluso). Roatta guida l’esercito italiano in Jugoslavia nei mesi centrali dell’occupazione (essenzialmente nel corso del 1942) e imposta la strategia italiana su un doppio binario: un sistema di ampie alleanze militari con le realtà locali disposte a collaborare in una logica anticomunista, e una durissima repressione, codificata nella famosa circolare 3C (emessa in due versioni nella primavera e poi nell’estate del 1942) che identifica esplicitamente i civili come possibili favoreggiatori dei partigiani e dunque obiettivo privilegiato delle operazioni repressive.
CSC. La circolare 3C era un articolato repertorio rivolto alle forze di occupazione, contenente disposizioni per l’internamento dei civili e la lotta antipartigiana non molto diverse da quelle utilizzate dai nazisti nello stesso periodo. E dai rapporti della polizia segreta fascista dell’epoca emerge un forte apprezzamento dei comandi militari italiani per i metodi antiguerriglia usati dai tedeschi nei Balcani.
EG. Quanto a Robotti, già comandante militare in Slovenia, succede a Roatta al comando dell’armata nel febbraio del 1943. La sua nomina (che avviene però in una fase di recessione dell’impegno italiano in questi territori) è dovuta allo zelo con cui ha condotto la repressione in Slovenia nei mesi precedenti. Robotti è infatti noto agli studiosi per la severità con cui condusse le operazioni di rastrellamento, ma soprattutto per un atteggiamento particolarmente cinico verso le vittime delle repressioni italiane, esemplificato dalla famosa annotazione: «Si ammazza troppo poco!».
CSC. I nomi di Roatta e Robotti – accusati di crimini come fucilazione di ostaggi, terrore pianificato e atrocità e rappresaglie di vario genere – figurarono tra i primi negli elenchi degli italiani di cui, nel 1945, il governo di Belgrado chiese l’incriminazione alla War crimes commission dell’Onu.
NB. È possibile quantificare il numero di vittime dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia?
EG. Non sarà mai possibile stabilire una cifra precisa. Esistono però cifre parziali, che danno un’idea di un fenomeno niente affatto estemporaneo o marginale. Gli sloveni fucilati dagli italiani sono tra i 1.500 e i duemila; cinquemila montenegrini sono vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941.
Le vittime dell’internamento italiano sono invece circa centomila, e tra questi si contano cinquemila morti per fame, malattie, inedia. E ovviamente non stiamo contando i profughi, le migliaia di persone rimaste senza casa e proprietà in seguito alle devastazioni, ai saccheggi, agli incendi ordinati dagli italiani. Poi bisognerebbe considerare le vittime “indirette” del sistema di occupazione italiano, ovvero uccise fisicamente per mano di ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste che operano grazie al supporto italiano.
NB. Nel suo I campi del Duce, edito anche in Slovenia e in Croazia, il professor Capogreco ha ricostruito l’intera rete del sistema concentrazionario fascista operante in Italia e in Jugoslavia. Quanti furono i campi italiani in Jugoslavia? Potrebbe parlarci di quelli operanti sulle isole di Rab (Arbe) e di Molat (Melada)?
CSC. L’internamento dei civili jugoslavi, nell’ambito più generale dell’internamento civile fascista, fu numericamente preponderante. Se prendiamo in considerazione anche i più piccoli campi di transito e quelli temporanei, il numero complessivo delle strutture concentrazionarie italiane attive in Jugoslavia tra la fine del 1941 e l’8 settembre 1943 fu alquanto alto. Considerando, invece, solo i campi maggiori, essi furono una decina. Furono impiantati soprattutto lungo la costa adriatica, mano a mano che si andò sviluppando la resistenza nei confronti degli occupanti. E per i campi più importanti gli italiani preferirono la localizzazione insulare, come avvenne, per esempio, ad Arbe (nel golfo del Quarnero), a Melada (nell’arcipelago Zaratino) e a Mamula (all’imbocco delle Bocche di Cattaro).
I campi di Arbe e Melada furono indubbiamente tra i più grandi per capienza, e i peggiori per condizioni di vita. Peraltro, le pratiche d’internamento “a tappeto” realizzate dall’Italia fascista in quei due campi – vista l’assoluta arbitrarietà del sistema di “internamento parallelo”, irrispettoso delle più elementari tutele previste per i civili dal diritto internazionale – rientrano nella fattispecie dei crimini di guerra.
La mortalità, ad Arbe e Melada, fu sempre molto alta e legata soprattutto alla fame, alle intemperie e agli stenti. Ad Arbe morirono 1.477 persone su un numero totale di reclusi che nell’anno di funzionamento oscillò dai duemila agli ottomila. È una cifra raccapricciante. Gli internati di Melada, talvolta, morivano anche per fucilazione: giustiziati in quanti ostaggi, in occasione di particolari azioni partigiane.
NB. Che memoria ha avuto l’Italia del dopoguerra dei campi di concentramento fascisti e dei luoghi a essi collegati?
CSC. All’indomani della seconda guerra mondiale, la storia dei campi allestiti, tra il 1940 e il 1945, dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, fu pressoché rimossa dalla memoria collettiva. Questi argomenti – poco congeniali alla narrazione del passato che andò affermandosi dopo la fine della guerra – rimasero sostanzialmente avulsi dal sentire comune degli italiani e dall’interesse della ricerca accademica. Anche le strutture fisiche e i siti geografici dei campi italiani – al centro-nord non meno che al sud – furono oggetto di questa rimozione, restando privi di tutela e divenendo perciò, per così dire, “luoghi dell’oblio”…
La ricostruzione storica del sistema concentrazionario fascista, la relativa mappatura geografica e la riappropriazione di quel retaggio da parte della comunità nazionale richiesero tempi lunghissimi (e in parte restano ancora incompiuti). Anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza” della storiografia ufficiale – a farsi carico delle ricerche e della riscoperta dei siti, il più delle volte, furono studiosi free-lance, che agivano unicamente per passione personale.
La rimozione o la lettura assolutoria del passato più scomodo – supportate dalla mancanza di una “Norimberga italiana” – ebbero, evidentemente, nei campi di concentramento fascisti uno dei propri momenti topici, dando luogo a un vuoto di memoria tra i più emblematici e persistenti del secondo dopoguerra: un buco nero che, oltre alle vicende dei siti legati alla shoah (i “campi provinciali” per ebrei istituiti dalla Rsi, a partire dal dicembre 1943), avvolse anche quelle dell’“internamento parallelo”, la rete di campi fascisti per slavi che interessò sia la penisola sia i territori jugoslavi occupati; e azzerò perfino la memoria dei campi coloniali, nonostante che il suo stesso ideatore, il generale Rodolfo Graziani, ne avesse ammessa e rivendicata la creazione fin dagli anni trenta.
Tant’è che, nel 1965, a una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di tanti propri connazionali internati a Monigo (Treviso), le autorità trevigiane non seppero dir nulla di quel campo, e neppure indicare il luogo di sepoltura degli internati deceduti. Un episodio che testimonia la rimozione dello stesso dato storico dell’esistenza di campi di concentramento italiani. Una cancellazione tanto tenace e diffusa che contagiò, talvolta, perfino le benemerite associazioni dei deportati nei lager. In un libro del 1963 – Notte sull’Europa, a cura di Fernando Entasi e Roberto Forti – l’Associazione nazionale ex-deportati (Aned) attribuì sbadatamente alcune delle immagini più raccapriccianti del campo fascista di Arbe all’universo concentrazionario hitleriano.
NB. Quando comincia la partecipazione degli italiani alla resistenza jugoslava nei territori occupati nel 1941? Che caratteristiche e dimensioni ha il fenomeno, e che rapporto c’è tra resistenza jugoslava e resistenza italiana?
EG. Sono circa 300mila gli italiani che sperimentano sulla propria pelle la straordinaria capacità organizzativa e militare della resistenza jugoslava. Molti di loro porteranno a casa questa esperienza e, per chi farà la scelta partigiana dopo l’armistizio, la Jugoslavia rappresenterà sempre un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare.
Si calcola che siano almeno 50mila gli italiani che scelgono di resistere ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una cifra considerevole, ma va sottolineato che molti di questi uomini finiranno per essere uccisi o catturati nei primi mesi dopo l’armistizio. Per esempio i primi tentativi di resistenza nelle città dalmate di Spalato e Dubrovnik vengono subito stroncati dai tedeschi, che riconquistano le località e fucilano gli ufficiali catturati. Solo i più fortunati e i più motivati riescono a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e aderiscono o trovano un accordo con le unità partigiane jugoslave. Col tempo saranno costituite due divisioni partigiane interamente italiane – Italia e Garibaldi – che combattono agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo fino alla fine della guerra; mentre molti volontari italiani restano inquadrati come singoli o piccoli gruppi nelle unità jugoslave.
Nel caso che ho studiato più a fondo, quello della resistenza italiana in Montenegro raccontata nel mio film Partizani, dei 20mila uomini che inizialmente scelgono la resistenza, solo cinquemila andranno a formare la divisione Garibaldi nel dicembre del 1943. Dopo aver subìto gravissime perdite ed essere stata integrata con numerosi rimpiazzi, la Garibaldi rientrerà in Italia nel marzo del 1945 con circa 3.800 uomini.
NB. Con Anna Di Gianantonio, i cui studi si basano molto sulla raccolta di fonti orali, focalizziamo lo sguardo sulle regioni dell’alto Adriatico, la cosiddetta Venezia Giulia, a partire dalle centinaia di interviste con i testimoni diretti che ha realizzato. Che caratteristiche ha la resistenza in queste regioni e perché si manifesta per certi versi molto prima? Qual è il collante che permette di tenere assieme le forme prima embrionali e poi più strutturate di collaborazione antifascista tra i diversi gruppi “nazionali” e linguistici fin dalla fine della prima guerra mondiale?
ADG. Per quanto riguarda le caratteristiche della resistenza, il punto di partenza è sicuramente il lavoro operaio nelle fabbriche, in particolare nei cantieri navali, sia di Trieste sia di Monfalcone. Qui la manodopera è mista, composta da italiani e sloveni, in un cantiere lavorano migliaia di operai ed è facile avere rapporti con persone di diverse nazionalità. Tra l’altro è molto significativo che gli operai italiani, che avevano mansioni più elevate, riescono a costruire con i colleghi sloveni un rapporto che dura per tutti gli anni trenta. Quindi il dibattito sul fascismo e successivamente la coesione nella resistenza hanno radici profonde. Le cellule erano miste, si riunivano in anfratti del cantiere, nelle navi in costruzione e discutevano della situazione politica nei momenti di pausa.
L’operaio qualificato spiegava agli altri non solo il lavoro ma anche la politica. C’erano stati poi dei collegamenti negli anni trenta con le organizzazioni come il Tigr (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka – Fiume), composte da sloveni e croati che compivano attentati terroristici per reagire alle condizioni di vita cui erano costretti. Quindi nel 1941, al momento dell’occupazione italiana e tedesca del Regno di Jugoslavia e l’annessione della provincia di Lubiana, i contatti sono già attivi.
NB. Quali paure innesca la collaborazione tra antifascisti italiani e sloveni nelle classi dominanti dell’epoca?
ADG. Già all’indomani della prima guerra mondiale ci furono scontri di piazza e scioperi molto decisi nel cantiere, che il padronato tentò di sedare. Queste lotte erano nate soprattutto per il problema della casa, che era drammatico. Monfalcone era distrutta, gli operai erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna precari, per di più in un territorio affetto da malaria, cui erano esposte soprattutto le donne. Lottavano per un aumento salariale, un orario di lavoro adeguato e contro gli incidenti sul lavoro, che erano all’ordine del giorno.
Gli operai quindi entrarono in azione subito, spinti da un lato dalla volontà di riscattare con più diritti i sacrifici patiti dai soldati e dai loro familiari durante la guerra, dall’altro dalle condizioni economiche e sociali in cui vivevano, dure e precarie.
E non solo gli operai. Dopo la guerra il clima insurrezionale è diffuso, nel periodo che nella storiografia italiana viene chiamato “biennio rosso”. Fin da subito ci sono occupazioni dei comuni nel 1920, nel 1921 un gruppo di fascisti assalta il cantiere di Monfalcone con lanci di bombe contro i lavoratori, uno dei quali viene ucciso. Dalla fine del 1919 a tutto il 1920 vengono colpite sedi dei circoli di cultura e delle camere del lavoro, subito entrano in gioco le squadre fasciste esterne e interne al cantiere, gli “operai a doppia paga” che si guadagnavano un surplus con il pestaggio dei loro colleghi di lavoro. Lo scontro è acuto, così come precocissimo è il manifestarsi del fascismo. La violenza si scatena immediatamente, dalla fine della guerra e sotto i regimi liberali, grazie all’intervento di squadre sovvenzionate dagli armatori Cosulich in risposta a scioperi e manifestazioni. Il clima è incandescente – come ho detto – e proprio per questo a Monfalcone le squadre entrano in azione praticamente da subito.
NB. Stiamo parlando di episodi di violenza squadristica, antislovena ma anche antioperaia, che avvengono già prima della presa del potere da parte del fascismo.
ADG. L’opera di repressione, sia nei confronti degli operai sia nei confronti degli sloveni, avviene già sotto il governo liberale. L’azione delle squadre fasciste è precoce, precede di molto la marcia su Roma, che è la data di inizio del fascismo al livello nazionale. I lavoratori di questo parlano, anche perché gli sloveni conoscono l’italiano. Trascorrono insieme le domeniche, fanno feste, si incontrano, discutono, quindi la situazione politica è nota a tutti e due i gruppi “nazionali”. Questi gruppi di operai però nel corso del tempo si assottigliano, con i licenziamenti in fabbrica da un lato e la repressione dall’altro le cellule si riducono a pochi operai.
Si tratta tuttavia di una fetta importante della popolazione, di un mondo sloveno che è da subito antifascista perché anche la persecuzione comincia subito. Il Tigr nasce e agisce alla fine degli anni venti e già nel 1930 si celebra il primo processo di Trieste che si conclude con le fucilazioni di Basovizza. In seguito si forma una larghissima aggregazione clandestina di tutte le componenti politiche slovene – cristiano-sociali, cattolici, liberali, comunisti – che subisce la sua battuta d’arresto con il secondo processo di Trieste nel 1941, un processo grandioso e unico nella storia europea, in cui decine di esponenti di una comunità linguistica, di ogni estrazione politica, furono processati perché non volevano scomparire, e cinque furono mandati a morte senza che fosse provato nulla contro di loro.
NB. Spostiamoci al secondo dopoguerra, al “controesodo” dei cantierini monfalconesi che dal 1946 decidono di trasferirsi in Jugoslavia. Per quella scelta viene proposta l’interpretazione del perseguimento dell’ideale socialista, o di adesione alle direttive di partito, quindi motivazioni tutte ideologiche, fino ad arrivare, pensiamo al libro di Claudio Magris, Alla cieca, a questa idea dei cantierini che se ne vanno come degli ingenui idealisti che non hanno capito che si stanno gettando tra le braccia di un potere dispotico. Leggendo le testimonianze nei suoi libri sembra emergere una questione spesso non considerata, ovvero quella di una classe operaia multietnica che è abituata fin dall’ottocento a muoversi in un’area geografica molto vasta, che non guarda per niente al fatto se ci si muova nel mondo slavo o meno.
ADG. Va considerata assolutamente la dimensione europea di questa ricerca del posto di lavoro. In molti casi parliamo di operai provetti che trovano lavoro facilmente, come i Fontanot che vanno a Vienna, dove trovano lavoro, poi vengono mandati in Bulgaria in un piccolo cantiere, infine ritornano a Trieste e poi a Monfalcone. Un altro pezzo della famiglia va in Francia, dopo un tentativo fatto negli Stati Uniti, ma anche in quel caso continua l’attività antifascista sul campo. Spartaco, per esempio, entra nel famoso gruppo partigiano composto esclusivamente da mano d’opera immigrata, cioè da stranieri, che ha compiti di guerriglia urbana. Finirà fucilato dai nazisti come i cugini Nerone e Jacques, ma anche in quel caso i superstiti tornano a Monfalcone alla fine. Sono persone che sanno lavorare, costruire una nave a quel tempo è un’operazione artigianale, c’è un sapere che viene fatto valere.
Per quanto riguarda coloro che vanno in Jugoslavia dopo la guerra, bisogna ricordare che nel periodo 1945-1947 operava il Partito comunista della regione Giulia (Pcrg) e permanevano i “poteri popolari”, forme di democrazia diretta instaurate dopo il conflitto e prima dell’amministrazione americana. Aleggiava l’idea che si potesse ancora “dare una spallata” e creare un mondo nuovo, ma ci fu anche una sequela spaventosa di attentati fascisti e una mancanza di posti di lavoro dovuta ai novemila licenziamenti minacciati e ai duemila messi in atto dal cantiere. A Monfalcone e a Trieste nel luglio del 1946 si svolse un enorme sciopero chiamato “dei dodici giorni” che cominciò con il blocco del Giro d’Italia a Pieris e proseguì con il blocco totale di tutte le fabbriche e le campagne, ma poi fu represso e fallì.
Va ricordato il clima nel dopoguerra alimentato dal Pcrg, che il partito di Togliatti cercò di “moderare” nel suo desiderio di passare alla Jugoslavia, cosa che riuscì solo con il ritorno a Trieste di Vittorio Vidali, che stroncò anche in modo violento coloro che non avevano rinnegato Tito dopo il 1948. Il Pcrg dunque aveva creato il mito della Jugoslavia e pertanto esitava a fermare le partenze degli operai.
In conclusione, c’è stata la spinta dei licenziamenti, della repressione, e l’idea che lì si potesse stare meglio, alimentata anche dal partito. Infine ci sono gli esuli dall’Istria, che si stabiliscono a Gorizia, Monfalcone, Trieste. Ci sono scontri, lotta per il posto di lavoro, licenziamenti da una parte e assunzioni dall’altra. Molti esuli vengono assunti in cantiere. Mario Udovisi, un esule e un fascista dichiarato che ho intervistato, sostiene di essere stato una specie di ufficio di collocamento del cantiere che suggeriva ai responsabili chi assumere e chi licenziare. Quindi si genera una situazione politica e sociale di grande tensione. E poi appunto i rapporti e i contatti che c’erano stati spingono la gente a cercare lavoro altrove, sia per motivi economici sia per ideali politici.
NB. Cosa comportò realmente la rottura tra Tito e Stalin per gli italiani trasferiti in Jugoslavia? Quali e quanti finirono stritolati nel conflitto? Negli ultimi anni si è parlato molto del campo di prigionia di Goli Otok, dove furono mandati i “cominformisti” e dove finirono anche italiani.
ADG. Non tutti cadono nella dinamica repressiva che segue la rottura tra Stalin e Tito del 1948. Centinaia di persone partecipano a un’assemblea a Fiume a favore dell’Unione Sovietica dopo lo strappo del Cominform, subito individuate dalla polizia e quindi incarcerate, anche se pochi italiani finirono a Goli Otok. A Fiume vi è una forte concentrazione di dissidenti che prende posizione pubblicamente, ma quelli che erano da altre parti della Jugoslavia, della risoluzione verranno a sapere molto tempo dopo, nessuno gli chiede da che parte stanno, non si pronunciano e continuano a lavorare. Non tutti sono repressi, e non tutti se ne andranno, alcuni torneranno in Italia molti anni dopo.
Pino Petean, uno dei miei intervistati, rimane e anche Silvano Cosolo, che vive a Sarajevo e ne parla come un mondo per lui meraviglioso, dove si fanno le lotte per migliori condizioni di lavoro. Ha scritto un libro intitolato Amare Sarajevo in cui descrive un mondo che sente più libero, parla di libertà religiosa e sessuale, di un mondo che non aveva nulla a che fare con la rigidità dei costumi nell’Italia degli anni cinquanta. È il racconto di una bellissima gioventù, con un rapporto molto aperto con le donne per esempio, in cui lui fa le lotte operaie nel contesto jugoslavo per avere maggior reddito, e dove non è che venga perseguitato perché è italiano. Lui torna molti anni dopo perché vuole tornare al suo paese, a San Canzian d’Isonzo.
Questi che vanno in Jugoslavia trovano un ambiente per loro stranamente liberale, riconducibile al fatto che non è un paese cattolico. A Sarajevo poi già nell’immediato dopoguerra sono rappresentate e praticate tutte le confessioni religiose, non c’è discriminazione religiosa. Infine diversi lavoratori con le loro famiglie tornano in Italia, ma dalla metà degli anni cinquanta. E magari poi diranno «eravamo sciocchi perché pensavamo di trovare le salsicce che cascavano dagli alberi»: erano partiti con l’idea di vivere in un mondo economicamente più ricco, solo perché socialista, mentre si erano ritrovati in una nazione distrutta dalla guerra.
Tutto questo non significa negare Goli Otok, ma collocare quella vicenda nella sua prospettiva di repressione politica mirata sugli oppositori interni, tant’è vero che vi finirono anche alti dirigenti militari, professionisti, professori jugoslavi. Il fatto è che Tito, oltre ai problemi di ricostruzione di un paese distrutto, non vuole avere anche il problema della quinta colonna sovietica al suo interno. A Goli Otok ci sono quelli che si schierano con l’Urss, e nemmeno tutti, e la maggior parte proviene da altre repubbliche jugoslave.
Conversazione avvenuta via email dal 10 al 24 gennaio 2017.
ESODO E FOIBE.
SEPARARE CIÒ CHE APPARE UNITO
di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk Intervista con gli storici Jože Pirjevec e Sandi Volk.
Nicoletta Bourbaki. Ogni anno si sente ripetere dai mezzi di informazione che gli infoibati tra 1943 e 1945 furono almeno diecimila, e si parla spesso di un genocidio della popolazione italiana paragonabile alla Shoah per crudeltà se non per i numeri. È credibile tutto ciò? Ci può dare una stima attendibile del numero di persone uccise nella Venezia Giulia dalle forze legate alla resistenza Jugoslava, nel corso di esecuzioni collettive, tra il settembre 1943 e il maggio-giugno 1945? Queste vittime sono tutte “infoibate”?
Jože Pirjevec****. Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato. Penso che al massimo si possa parlare di 400 – 500 vittime.
Relativamente alle persone decedute a causa di tutte le forme di violenza – arresti, deportazioni, “infoibamenti” – dopo il 1 maggio 1945, secondo la storica slovena Nevenka Troha le vittime nella zona di Trieste sarebbero state 601. Claudia Cernigoi fornisce cifre leggermente più basse e parla di 498 morti. Sempre secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Per queste ultime zone, determinare il numero dei morti risulta più difficile. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.
Questi numeri trovano conferma in una recente ricerca: Urška Lampe, nella sua tesi di dottorato dell’Università del Litorale di Capodistria – Deportazioni dalla Venezia Giulia dopo la seconda guerra mondiale, 1945-1954 – cita documenti dell’ufficio zone di confine, tra i quali ha reperito i dati di uno studio sugli scomparsi, coordinato negli anni cinquanta dal commissariato generale del governo per il Territorio di Trieste. Nel 1959, dopo alcuni anni di ricerca, i risultati mostrarono che nel territorio di Trieste, Gorizia e Udine i morti per diverse cause – “infoibati”, fucilati o deceduti per malattia – furono 645; i deportati che poi rientrarono dai campi jugoslavi 1.239; quelli che non ritornarono 1.982.
Dunque, secondo questa indagine il numero totale delle vittime per mano jugoslava nel periodo dopo la liberazione non dovrebbe superare i 2.627, numero non dissimile dalle stime sopra menzionate. Inoltre possiamo ritenere che un certo numero di persone rimpatriate non sia stata registrata o non si sia presentata alle autorità per paura di un nuovo arresto dovuto al presunto passato fascista. Sono cifre che le autorità italiane avevano a disposizione già nel 1959, ma non sono mai state pubblicate. Ciò mi sembra significativo, perché dimostra che grande operazione propagandistica e politica sia stata portata avanti negli ultimi decenni.
NB. Quali persone furono uccise, e in quali contesti? Si parla di foibe istriane, dell’occupazione di Trieste nel maggio del 1945, di deportazioni…
JP. Si tratta di situazioni molto diverse. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, fondamentalmente anarchica, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale.
I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale. In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale.
Quando all’inizio dell’ottobre 1943 i tedeschi cominciarono a occupare l’Istria per assicurarsi il controllo sulla neocostituita Zona di operazione Litorale Adriatico (Ozak), le forze partigiane non furono in grado di far fronte alla Wehrmacht. Per questa ragione decisero di sbarazzarsi dei prigionieri. Molti di questi furono frettolosamente fucilati. In altri casi si procedette invece al loro rilascio, in alcuni frangenti liberando, senza rendersene conto, anche criminali fascisti. Relativamente al numero delle vittime, nelle stime degli storici non ci sono grandi divergenze: dovrebbero aggirarsi tra 400 e 500, sebbene il numero delle persone realmente “infoibate” – cioè gettate nelle voragini carsiche – sia inferiore, tra le 250 e le 300. Le altre morirono in modi diversi e alcune semplicemente scomparvero. I morti sul territorio dell’attuale Repubblica di Slovenia dovrebbero essere 26, mentre le altre vittime si riferiscono alla parte dell’Istria che oggi si trova in Croazia.
Va sottolineato che i tedeschi, quando occuparono l’Istria nell’ottobre del 1943, fecero decisamente molte più vittime e deportarono moltissimi istriani a Dachau e in altri campi di concentramento, ma di questo non parla quasi nessuno.
A guidare la repressione sul Litorale Adriatico fu mandato Odilo Globočnik, uno degli alti ufficiali nazisti più vicini a Himmler. Globočnik ha una storia particolare: nato a Trieste da padre sloveno, emigrato in Austria dopo il crollo dell’impero asburgico, aveva fatto una notevole carriera dentro il partito, diventando uno dei leader del nazismo carinziano. Nel 1941 fu inviato in Polonia per pianificare lo sterminio degli ebrei. Nel 1943, accusato di malversazioni e di appropriazione indebita, fu mandato punitivamente a Trieste con i suoi collaboratori per combattere i partigiani.
Oltre a effettuare repressioni e rappresaglie, lo staff di Globočnik sfruttò la questione foibe in funzione antibolscevica, come era stato già fatto nel caso dell’eccidio di Katyń in Polonia. I corpi decomposti delle vittime istriane furono recuperati, le loro foto affisse nelle vie cittadine. Furono pubblicati opuscoli sull’argomento. Le autorità fasciste, quelle di Salò, si agganciarono immediatamente a quel filone, e l’azione propagandistica acquisì un’enorme risonanza, collegandosi poi – a guerra finita – alla questione delle foibe triestine e goriziane.
NB. Riguardo alle foibe triestine e goriziane e alle deportazioni, abbiamo visto che negli avvenimenti del 1943 le vittime appartengono alla borghesia dei paesi istriani. Invece nei fatti del 1945 le vittime chi sono?
JP. Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone. Diverse cause convergevano in quella vicenda: da una parte la volontà di controllare e neutralizzare i possibili avversari, dall’altra ragioni di vendetta personale, di rivalsa. Si verificarono pure episodi di saccheggio, perché le nuove autorità non erano in grado di controllare la situazione.
NB. Si accusano spesso i partigiani jugoslavi di avere infoibato molti dirigenti e partigiani del Comitato di liberazione nazionale di Trieste, è vero? Perché le forze legate alla resistenza jugoslava, compresi diversi reparti formati da partigiani italiani comunisti, si scontrarono con le forze della resistenza italiana “moderata”?
JP. La resistenza italiana – che oltre a essere appunto “moderata”, era anche numericamente modesta – non fu in grado di comprendere che la frontiera stabilita nel 1920 a Rapallo era ormai obsoleta. Pensava ancora di poter conservare il vecchio confine, che privava la nazione slovena di un quarto del suo territorio. Quei “liberali” italiani riconoscevano i molti torti subiti dagli sloveni durante il fascismo, e assicuravano che in futuro i rapporti interetnici nella zona sarebbero stati più corretti, ma non erano disposti ad accettare una frontiera diversa tra Italia e Jugoslavia. Men che meno, l’idea di Trieste jugoslava.
Per questo motivo i rapporti tra le due resistenze furono conflittuali fin dall’inizio: alcuni esponenti della resistenza moderata, non molti per la verità, furono arrestati e rinchiusi nelle prigioni dell’Ozna, la polizia segreta della Jugoslavia. Vi rimasero per qualche mese e alla fine del 1945 alcuni furono fucilati.
NB. Di quante persone stiamo parlando?
JP. Non abbiamo dati certi. Grazie all’intervento di uno dei capi comunisti sloveni, Boris Kraigher, i membri del Cln incarcerati a Trieste – tra i più noti lo storico Carlo Schiffrer – furono tutti rilasciati tranne uno. Due membri del Cln goriziano furono deportati e probabilmente uccisi già a maggio. Uno dei capi del Cln di Trieste, Giovanni Paladin, pubblicò un elenco di trenta partigiani del Corpo volontari per la libertà a suo dire deportati o “infoibati”. Tra questi troviamo i nomi di alcuni morti in prigionia, ma anche di altri che riuscirono a ritornare dopo alcuni anni.
NB. Perché fin dall’immediato dopoguerra in Italia si comincia a parlare di foibe? E perché questo termine diventa così carico di significati simbolici?
JP. Bisogna dire innanzitutto che l’idea della voragine in cui sono gettati i nemici ha qualcosa di orrido, di spaventoso, è molto efficace nel colpire emozionalmente ed evocare paure primordiali.
Da un punto di vista politico, invece, in una situazione in cui la questione del confine orientale era ancora aperta, le forze di destra – non tanto la politica ufficiale, ma piuttosto i giornali ed i fascisti che si erano riscoperti “democratici” – sfruttarono a fondo le “foibe”, elaborando una narrazione che colpisse l’immaginario collettivo.
NB. La foiba di Basovizza è stata proclamata monumento nazionale perché vi sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone. Su quali basi si afferma ciò?
JP. Su nessuna, per quanto mi risulta. Io ho visto i documenti statunitensi e britannici su Basovizza. Appena presero il controllo di Trieste, dopo il 12 giugno 1945, gli alleati furono sollecitati dalle forze politiche italiane a effettuare un’esplorazione della foiba. Nei primi giorni dopo la ritirata jugoslava ci furono alcune esplorazioni. Ricerche più concrete cominciarono alla fine di luglio o all’inizio agosto, e si protrassero fino alla fine di novembre. Nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti, Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene.
Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo.
Negli anni cinquanta il pozzo di Basovizza fu usato per un certo periodo come discarica dal comune di Trieste. Gli alleati, prima di abbandonare Trieste nel 1954, vi gettarono a loro volta molta ferraglia. Successivamente, una ditta locale ottenne il permesso di sgomberare la “foiba” da quel materiale, per poterlo riutilizzare come ferrovecchio. Nemmeno gli operai che ci lavorarono trovarono resti umani.
Nel 1959 il pozzo fu sigillato con una lastra di pietra, affinché nessuno potesse procedere a ulteriori indagini, con il pretesto che la sua esplorazione era troppo pericolosa per la presenza di esplosivi o simili. C’era stato effettivamente un ferito, si trattava di uno degli operai della ditta incaricata di svuotare il pozzo. Aveva utilizzato durante il carnevale un petardo trovato nella fossa.
Nei primi anni sessanta il pozzo di Basovizza diventò una specie di simbolo di tutte le “foibe” della nostra zona, un luogo di pellegrinaggio, tanto che nel 1992 è stato proclamato monumento nazionale.
NB. È corretto a suo parere parlare di “negazionismo” in merito alle foibe come si fa riguardo alla shoah?
JP. È offensivo, francamente. Per il libro sulle foibe che ho pubblicato con Einaudi nel 2009 insieme ad alcuni collaboratori, sono stato accusato di essere un negazionista, alla stregua di David Irving, lo studioso che nega la shoah. Ma io non nego affatto le foibe: ne contesto l’uso politico e l’entità delle cifre riportate. Si tratta di conoscere la verità storica e inserirla in una realtà oggi lontana e difficilmente comprensibile nella sua drammaticità. Non va dimenticato che in ogni paese dove c’è stata la resistenza, a guerra finita ci furono episodi di repressione analoghi, anche feroci. Ma dove si sono ammazzati tra connazionali – italiani che uccidevano italiani, francesi che uccidevano francesi, norvegesi che uccidevano norvegesi… – la questione è stata lasciata cadere nell’oblio.
Nelle nostre terre, dove sloveni, croati, serbi, jugoslavi hanno ammazzato italiani, ovviamente la vicenda è stata coltivata e sfruttata da coloro che hanno interesse che i rapporti tra i nostri popoli non migliorino.
Il Territorio libero di Trieste (TlT), istituito dal trattato di pace del 1947 e diviso provvisoriamente in zona A (sotto amministrazione angloamericana) e zona B (sotto amministrazione jugoslava). Nel 1954, in base al memorandum di Londra, la zona A passò sotto amministrazione italiana. Con il trattato di Osimo nel 1975 Italia e Jugoslavia sancirono la definitiva spartizione del TlT tra i due stati.
Nicoletta Bourbaki. Parliamo dell’esodo dai territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia al termine della seconda guerra mondiale. I numeri dei profughi sono nebulosi e non c’è completa chiarezza nemmeno sull’arco temporale. Perché?
Sandi Volk. Perché quei numeri servivano allo stato italiano alla conferenza di pace, quale dimostrazione dell’attaccamento della popolazione all’Italia e proprio per questo sono numeri inattendibili. La verifica più facile, rispetto al numero canonico di 350mila, consiste nel prendere e sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.
Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Oapgd, più conosciuta come Opera profughi) agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili. L’Opera profughi reperì 140.091 persone con la qualifica ufficiale di profugo rilasciata dalle prefetture e 4.553 profughi deceduti dopo l’emigrazione. A questi furono aggiunte 46.260 persone non materialmente reperite, verosimilmente emigrate all’estero, e altre 10.536 persone che non avevano avuto la qualifica di profugo ma che, a dire dell’Opera profughi, “non potevano essere escluse”, compresi i familiari acquisiti dopo l’emigrazione. In questo modo l’Opera profughi è arrivata a “censire” 201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.
Questo tipo di “censimento” è alla base di tutte le ancor più fantasiose quantificazioni successive. Padre Flaminio Rocchi, artefice della cifra “ufficiale” dei 350mila, aggiunge al numero dei profughi anche i deceduti prima dell’esodo! Mi pare evidente che ci sia una volontà politica di non arrivare a una quantificazione seria, che peraltro potrebbe essere ottenuta tranquillamente ricorrendo alle schede di censimento dell’Opera profughi oppure, meglio ancora, alle anagrafi slovene e croate, dove sono annotate le cancellazioni dalla residenza e dalla cittadinanza.
NB. Per quale ragione si associano le foibe all’esodo, pur essendo fenomeni distinti?
SV. L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto. L’argomento degli intenti genocidi dei partigiani nei confronti degli italiani fu utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943, per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana. Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco.
L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.
NB. Si dice che gli italiani d’Istria scelsero di andarsene per rimanere italiani e al tempo stesso che furono obbligati ad andarsene in quanto italiani: cosa c’è di vero – o di falso – in queste affermazioni? Quale fu il destino di chi scelse di rimanere?
SV. Chi rimase si trovò in una situazione in cui da gruppo dominante passava a gruppo minoritario. Sebbene la Jugoslavia si facesse vanto delle numerose minoranze che vivevano al suo interno, compresa quella italiana, e garantisse agli italiani posti negli organismi rappresentativi e nelle istituzioni politiche, ci furono anche spinte alla “slovenizzazione” o “croatizzazione”, con i diritti garantiti sulla carta alla minoranza italiana applicati in maniera molto diseguale.
Quanto alle interpretazioni citate, si tratta dell’ennesima semplificazione a uso politico. Se ne andarono italiani, sloveni e croati, come attestano le stesse organizzazioni dei profughi. Anche perché il diritto a optare per la cittadinanza italiana non era legato alla nazionalità, bensì alla “lingua d’uso italiana”.
Sul fatto che gli italiani furono tutti cacciati, diverse testimonianze di profughi e documenti delle associazioni attestano che la Jugoslavia rigettò parecchie domande d’opzione per la cittadinanza italiana. Credo che le cose vadano viste nel contesto complessivo: si trattò sicuramente di uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi anche di discriminazione degli italiani da parte di alcune autorità locali (le autorità federali jugoslave erano decisamente contrarie a tali pratiche e intervennero in varie occasioni), ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche. Il geografo Gianfranco Battisti ha descritto l’esodo come l’intensificazione di un processo, già in atto precedentemente, di spostamento degli italiani dalle zone del confine orientale verso l’interno dell’Italia, verso il “triangolo industriale”, che infatti fu una delle principali zone d’insediamento dei profughi del dopoguerra.
Inoltre vanno considerate le singole realtà dell’Istria, spesso molto diverse tra loro, e le realtà di singoli gruppi, per esempio i funzionari dello stato italiano immigrati tra le due guerre che “seguirono il posto di lavoro” tornando in Italia.
Sarebbe inoltre necessario indagare l’attività delle organizzazioni filoitaliane e il peso che ebbero nello spingere gli istriani a partire: il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria distribuiva denaro alle famiglie dei sostenitori e simpatizzanti dell’Italia e sovvenzionava attività di propaganda. Il fatto che all’inizio degli anni cinquanta, in una situazione di totale indigenza della popolazione, il Cln dell’Istria comunicasse che i sussidi sarebbero cessati e i soldi sarebbero stati utilizzati per il sostegno ai profughi in Italia, fu certamente un fattore che spinse la gente ad andarsene, come anche la propaganda volta a far partire gli istriani. Sicuramente ci fu chi se ne andò “per restare italiano”, ma si trattava di solito del ceto dominante. Si verificarono anche episodi di persone espulse, solitamente oppositori politici o attivisti delle organizzazioni filoitaliane, prese e accompagnate alla frontiera, ma si trattò di casi molto limitati.
NB. Si diceva che l’esodo è avvenuto in un arco temporale molto ampio, ma è corretto parlare di un unico esodo?
SV. È problematico, perché in realtà cominciò nella primavera del 1941, con l’esodo da Zara decretato dalle autorità militari italiane in previsione dell’attacco alla Jugoslavia, esodo che coinvolse alcune migliaia di persone. Se teniamo conto che la data limite “ufficiale” è il 1958 e in realtà le persone ebbero la qualifica di profughi anche più tardi, definirlo un unico esodo è piuttosto azzardato.
NB. Dipendeva anche dall’anno, dalla situazione internazionale?
SV. Sì, sicuramente. Infatti, come già detto, per capire contesti e motivazioni andrebbero approfondite le singole ondate. Ma evidentemente si preferisce ridurre tutto a una “partenza degli italiani per rimanere italiani”. Questa è una spiegazione politica che non spiega nulla, in ciò speculare a quelle date da parte jugoslava secondo cui quelli che se ne n’erano andati erano tutti fascisti ovvero “sfruttatori del popolo”.
NB. Qual è il ruolo dei Cln di Pola e Fiume nell’esodo dalle rispettive città? E quale fu l’atteggiamento dell’Italia rispetto a questi trasferimenti da Pola e Fiume, che sono un po’ diversi rispetto agli altri?
SV. Il Cln di Fiume fu il primo a usare apertamente l’invito all’esodo come strumento di lotta politica con il quale convincere gli alleati ad assegnare la città all’Italia. Ma, a parte qualche volantino, ebbe poco peso reale. Il Cln di Pola, invece, era un’organizzazione probabilmente maggioritaria in città, interlocutrice ufficiale del governo italiano e con in mano le leve del potere politico. Di fatto, decretò e organizzò l’esodo, sempre per convincere la conferenza di pace che quelle terre dovevano tornare all’Italia, nella speranza che ciò potesse accadere magari a lungo termine. Il governo italiano mise a disposizione del Cln di Pola denaro, trasporti e posti dove alloggiare gli emigrati, senza però un piano preciso per il loro insediamento definitivo. I profughi furono dunque sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta.
Ad allungare i tempi per la sistemazione definitiva di istriani e dalmati contribuì anche la scelta, collaudata proprio con l’esodo da Pola, di insediarli il più compattamente possibile, in particolare nelle zone del confine orientale, soprattutto a Trieste e nel goriziano, e in zone politicamente inaffidabili per i governi democristiani, come Emilia-Romagna e Toscana, allo scopo di “bonificare” nazionalmente o politicamente quelle zone. L’insediamento compatto in borghi destinati esclusivamente ai profughi istriani corrispondeva anche all’interesse delle organizzazioni degli esuli. Queste, evitando che i profughi – cioè la loro base – si “diluissero” nella società, potevano mantenere il proprio peso e il ruolo politico.
Tuttavia già negli anni cinquanta gli stessi dirigenti delle organizzazioni dei profughi cominciarono a porsi la domanda se fosse stato giusto scegliere la strada dell’emigrazione definitiva. Alcuni, come Guido Miglia, dirigente del Cln di Pola, giunsero a sostenere che l’esodo era stato usato strumentalmente dalle forze politiche italiane più reazionarie in funzione anticomunista e per mantenere tesi i rapporti con la Jugoslavia.
NB. Il nome Comitato di liberazione nazionale di solito è associato alla lotta antifascista. I Cln di Fiume, di Pola e dell’Istria sono coinvolti nella lotta antifascista?
SV. No, nascono dopo la fine della guerra. Durante la guerra, in Istria i Cln praticamente non ci sono. Quello di Pirano e quello di Isola sono gli unici di cui abbia conoscenza, ma la loro attività fu pressoché insignificante. Tutti gli altri Cln sono nati, come dicevo, dopo la guerra e avevano come obiettivo il mantenimento di quei territori all’interno dello stato italiano. Facevano anche attività clandestina: raccoglievano informazioni di tipo giornalistico, che venivano passate a Radio Venezia Giulia, e di tipo spionistico, che passavano ai servizi segreti. C’era anche un’attività di tipo “militare” (sabotaggi, eccetera), ed è uno degli aspetti meno studiati di questa vicenda.
Il più importante e duraturo di questi Cln fu quello dell’Istria, che fu organizzato a Trieste con i rappresentanti dei comitati clandestini delle varie località istriane. Una volta riorganizzato su base partitica, il Cln dell’Istria diventò l’interlocutore principale di Roma per quanto riguardava l’appartenenza statale dell’Istria, ma fu anche molto importante nella vita politica triestina. Per esempio, fu proprio il Cln dell’Istria a portare la maggioranza dei partecipanti alla prima manifestazione di massa del fronte favorevole all’Italia a Trieste nella primavera del 1946. Dopo il 1954 si trasformò da organizzazione dei filoitaliani dell’Istria in organizzazione dei profughi a tutto tondo, mantenendo rapporti privilegiati con il governo e aumentando il suo peso nella politica triestina.
NB. Quali altre organizzazioni si occupavano dei profughi?
SV. Ce n’erano una miriade, organizzate su base di provenienza geografica o di categoria, ma per quanto riguarda l’assistenza, la più importante fu di gran lunga l’Opera profughi, che ho già citato. L’Opera fu un organismo unico, nato su iniziativa dello stato italiano ma diretto da privati, che gestì completamente l’assistenza agli esuli in qualunque aspetto, dall’alloggio nei campi profughi, all’assistenza all’infanzia, alla sistemazione lavorativa. Ebbe un ruolo molto importante anche perché contribuì a costruire una nuova identità “profuga” che sostituì la precedente identità locale, fatta anche di dialetti diversi e di accentuate rivalità campanilistiche.
La costruzione di questa identità “profuga” comune avvenne nei vari enti, istituti e iniziative dell’Opera – dove giocoforza si trovarono insieme esuli di tutte le età e di tutte le località dell’Istria – attraverso l’uso del dialetto quale “lingua ufficiale”, attraverso la costruzione di una memoria storica patriottica comune, attraverso i mezzi d’informazione (negli anni cinquanta la radio Rai nazionale trasmetteva uno specifico programma per i profughi), attraverso i raduni e le celebrazioni delle organizzazioni degli esuli.
NB. Qual è l’identikit del profugo istriano?
SV. In realtà non c’è un identikit del profugo istriano, perché se ne andarono persone di tutti i tipi, provenienti da luoghi diversi, di condizioni sociali diverse, per ragioni diverse. Nell’Archivio centrale dello stato ci sono elenchi molto dettagliati dei profughi, divisi per categorie professionali o addirittura di mestiere, in cui si trova di tutto.
NB. Ma dunque esiste una statistica sui profughi?
SV. Esistono le statistiche basate sul censimento dell’Opera profughi, che sono del tutto inaffidabili. Tuttavia, potendo accedere ai moduli del censimento, che sono molto dettagliati, sarebbe sicuramente possibile fare delle statistiche. Ma l’archivio, con il pretesto che contiene dati personali, è consultabile solo da pochi eletti e, purtroppo, chi ha avuto modo di accedere a quei dati non ha mai prodotto nulla di interessante o di scientificamente significativo.
NB. L’orientamento politico dei profughi era determinante?
SV. Direi discriminante per poter accedere ai sostegni e agli aiuti dello stato. Per avere la qualifica di profugo, che dava diritto all’assistenza (aiuti economici, accesso al campo profughi, assistenza all’infanzia, ai giovani e agli anziani, impiego, assegnazione degli alloggi), si doveva passare per apposite commissioni al livello provinciale, di cui facevano parte, con ruolo decisivo, le organizzazioni dei profughi. Chi era considerato “non abbastanza italiano” non otteneva la qualifica. Va anche detto che non tutti i profughi erano ritenuti ugualmente meritevoli o affidabili per le iniziative di “rafforzamento dell’italianità” e di bonifica politica di zone ritenute “calde”. Spesso ai profughi le commissioni chiedevano anche di fornire informazioni su conoscenti e altro, e non tutti erano disponibili a farlo. I “cominformisti” istriani, cioè i comunisti che nel 1948 si schierarono con Stalin contro Tito e poi si rifugiarono in Italia, spesso nemmeno si rivolsero alle commissioni. E in queste ultime ci fu chi propose di non dare loro nessun tipo di assistenza. Alla fine, ai cominformisti fu concesso unicamente l’alloggiamento nei campi.
Ci furono inoltre notevoli differenze nel livello di assistenza, anche a seconda delle varie “ondate” di profughi. Ciò generò proteste e recriminazioni anche pesanti da parte di chi era partito già nel 1945 e considerava i profughi recenti “meno fedeli all’Italia” rispetto a chi se n’era andato subito. Una categoria particolare fu poi quella dei cosiddetti “muggesani”, quelli che abbandonarono alcune frazioni del comune di Muggia comprese nella zona A del Territorio libero di Trieste, cedute alla Jugoslavia nel 1954. Erano in gran parte operai dei cantieri navali di Muggia (che rimase in Italia) di orientamento comunista. Proprio per questo della loro sistemazione non si occuparono gli organismi di governo o l’Opera profughi, bensì l’amministrazione comunista del comune di Muggia. Fu l’unico caso in cui fu rotto il monopolio dei partiti di governo, della Dc in primis, nella gestione dell’assistenza ai profughi a Trieste. Un monopolio che fu segnato anche da pesanti scandali finanziari e da appropriazioni indebite.
NB. Al termine del secondo conflitto mondiale in Europa abbiamo diversi esempi di spostamenti forzati di popolazione, che a loro volta rientrano nel quadro degli scambi di popolazione che hanno interessato il continente per tutto il novecento. Quali sono le differenze e quali le similitudini con l’esodo dell’Adriatico orientale? Per esempio rispetto ai tedeschi della Polonia o dei Sudeti?
SV. La differenza sostanziale è che non c’è uno scambio di popolazioni, anche se l’Italia l’aveva proposto durante le trattative di pace, né un esodo forzato. Nulla di paragonabile con gli scambi di popolazione tra Polonia e Ucraina o con l’espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale, fenomeni accompagnati da massacri, campi di concentramento e scontri armati. Le stesse organizzazioni dei profughi hanno focalizzato le similitudini piuttosto sulla gestione della sistemazione dei profughi. In particolare, ho trovato richiami alla vicenda dei finlandesi emigrati dai territori annessi all’Urss dopo il 1945, in parte a quella dei tedeschi espulsi dai paesi dell’est, ma soprattutto a quella dei profughi greci dopo il 1923, quando i cristiani ortodossi dell’Anatolia dovettero emigrare in Grecia mentre i musulmani di Grecia dovettero trasferirsi in Turchia. In Grecia l’insediamento dei profughi ebbe un impatto molto maggiore che in Italia, dato che i profughi erano più di un milione su una popolazione totale di circa 4,5 milioni di abitanti. Il loro insediamento fu mirato, gestito da organizzazioni ad hoc ed ebbe anche precise finalità politiche, in questo caso opposte a quelle perseguite in Italia: i profughi greci erano infatti generalmente schierati su posizioni liberali e di sinistra e furono utilizzati per rafforzare il partito liberale di Venizelos.
NB. L’antropologa Pamela Ballinger paragona gli esuli istriani a quelli cubani, per l’ideologia, per l’uso politico dei profughi a Miami…
SV. Credo il paragone possa essere plausibile, anche se personalmente li vedo più simili ai pieds noirs, i coloni francesi emigrati dopo l’indipendenza algerina. I dirigenti e le organizzazioni degli ex coloni francesi usarono spesso argomentazioni razziste nei confronti degli algerini, sottolineando la “missione civilizzatrice” dei francesi nei confronti dei barbari indigeni, argomentazioni simili a quelle usate dalle organizzazioni degli esuli nei confronti degli “slavi”. Chiaramente questo paragone calza relativamente all’atteggiamento delle organizzazioni e delle loro dirigenze, non a quello della massa profuga.
IL VIAGGIO CONTINUA.
POSSIBILI PERCORSI DI APPROFONDIMENTO
di Nicoletta Bourbaki
Per questo speciale abbiamo camminato nelle terre attraversate dal confine orientale d’Italia guardando al di là dell’Adriatico. Abbiamo incontrato sette autori le cui ricerche ci hanno colpito per la capacità di far luce su aspetti poco noti, o per l’originale sguardo multidisciplinare e sovranazionale. Accanto ai loro saggi ne aggiungiamo alcuni altri per chi voglia proseguire su questo cammino, valorizzando anche lavori scritti da storici stranieri. Per ogni proposta spieghiamo cosa ci ha indotto a selezionarla nella vasta letteratura scientifica disponibile sul tema. Molto infatti si è scritto in Italia in proposito, talora con risultati molto validi, ma spesso rimane da superare la ritrosia a varcare letteralmente il confine e confrontarsi con l’altro.
Ecco perché ci sembra inevitabile, pur con tutti i limiti del caso evidenziati nelle interviste, partire da Relazioni italo-slovene 1880-1956. Il testo è stato
approvato all’unanimità il 27 giugno 2000 dalla commissione storico-culturale italo-slovena, costituita nel 1993 sotto l’egida dei ministeri degli esteri dei due paesi e formata da storici sia italiani sia sloveni. Purtroppo, la relazione non ha avuto in Italia alcuna diffusione ufficiale. Lo scritto è lungo 30 pagine ed è liberamente scaricabile in diversi formati.
Per una carrellata visiva sulle medesime vicende sipuò guardareMeja - guerre di confine, documentario di Giuseppe Giannotti, prodotto da Rai Educational nel 2008, della durata di 58 minuti. Realizzato con il supporto scientifico del Centro di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini di Gradisca d’Isonzo (Go), è stato presentato in pubblico nel 2011 e infine trasmesso su Rai Storia nel 2016. Il video intervalla le immagini dell’epoca e le interviste ai testimoni con l’intervento di storici di diverse nazionalità, affrontando le vicende del confine orientale dal 1918 alla firma del trattato di Maastricht. Qui è suddiviso in 4 puntate di 12-15 minuti.
Entrando in biblioteca proponiamo un percorso cronologico, a partire dalle tematiche analizzate in questo speciale.
Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (il Mulino, 2009). Dalla costruzione dell’identità nazionale, al nazionalismo come forma di rappresentanza politica, al fascismo, all’occupazione nazista, alla lotta partigiana e alla nascita della Jugoslavia socialista: la storia politica e sociale del confine orientale vista da uno storico tedesco che conduce un’analisi comparativa tra la storiografia italiana, tedesca e slovena.
Piero Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) (Kappa Vu, 2014). I bruschi sovvertimenti demografici sul confine orientale cominciano con la grande guerra. Questo saggio segue attraverso fonti italiane, tedesche, inglesi, slovene e croate tutti gli spostamenti di popolazione nell’area dal 1914 fino alla firma del trattato di Osimo nel 1975, pacificazione finale di un’area soggetta a svariati traumi correlati ai diversi scenari politici internazionali.
Marta Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli, 2008). Il libro di Verginella, professoressa ordinaria di storia del diciannovesimo secolo all’università di Lubiana, racconta la storia del litorale sloveno in maniera empatica e originale, conducendo il pubblico italiano alla scoperta delle ragioni dell’altro.
Milica Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine: gli sloveni della Venezia Giulia sotto l’occupazione italiana 1918-1921 (Fondazione Sklad Dorce Sardoc, 2010). La storia della comunità slovena della Venezia Giulia dall’annessione del territorio all’Italia fino all’invasione della Jugoslavia: dalle promesse tradite da parte delle nuove autorità italiane, alle violenze fasciste, alla snazionalizzazione forzata, all’emigrazione, alla nascita del movimento antifascista sloveno.
Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943) (Bollati Boringhieri, 2003). Le politiche di occupazione italiane in Europa durante la seconda guerra mondiale sono inquadrate come parte integrante del progetto imperiale fascista. Con un occhio particolare alle vicende della Grecia e dei Balcani, Rodogno rende esplicito il progetto di sfruttamento economico alla base dell’espansionismo italiano nell’Europa orientale, e descrive in modo preciso la logica tipicamente coloniale con cui furono gestiti i rapporti con le popolazioni dei territori occupati.
Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) (Laterza, 2013). L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’esplodere della violenza su base “etnica” a opera di ustascia e cetnici (sostenuti rispettivamente da tedeschi e italiani nel quadro di una concorrenza tra alleati), il sorgere e lo sviluppo della resistenza guidata dai comunisti, le rappresaglie e le politiche repressive messe in atto dal regio esercito italiano. Attraverso citazioni e documenti non si tralascia di ricostruire le motivazioni e il vissuto delle parti in lotta.
Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) (Einaudi, 2006). Il saggio descrive le diverse forme di reclusione dei civili a opera dell’Italia fascista nella seconda guerra mondiale e tratta la storia e il funzionamento di ogni singolo campo di prigionia, sia quelli posti sul territorio italiano sia quelli nei paesi occupati, tra cui spicca per dimensioni e mortalità quello dell’isola di Arbe/Rab, destinato ai familiari dei resistenti jugoslavi.
Alessandra Kersevan, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, 2008). Una ricostruzione minuziosa e documentata del sistema concentrazionario italiano allestito prima e durante l’invasione nazifascista della Jugoslavia. L’opera descrive struttura e funzionamento dei lager ubicati a Gonars, Arbe, Visco, Cairo Montenotte, Renicci, Colfiorito, luoghi dove morirono di fame, stenti ed esecuzioni sommarie migliaia di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini. Istituzioni oggi dimenticate, delle quali anche il paesaggio – come la coscienza nazionale italiana – reca pochi segni.
Galliano Fogar, Dalle aggressioni fasciste alla occupazione nazista, in Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera (con il resoconto del processo). Trieste-Istria-Friuli 1919-1945 (Aned-Trieste, 1974). Nella “Venezia Giulia” la resistenza e la conseguente repressione antipartigiana cominciarono già nell’autunno del 1941, dopo l’invasione della Jugoslavia. Lo stato fascista mise in moto una macchina repressiva che, senza soluzione di continuità, dopo l’8 settembre 1943 fu inglobata nell’amministrazione militare nazista dell’Ozak. Fogar analizza i vari aspetti del collaborazionismo giuliano: amministrativo, militare, confindustriale.
Karl Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione Prealpi e Litorale Adriatico, 1943-1945 (Libreria Adamo, 1979). La ricostruzione dettagliata della storia della Zona d’operazioni Litorale Adriatico basata sull’analisi della documentazione esistente in lingua tedesca.
Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica (Mursia, 1973). Un libro non recentissimo (la prima edizione per la University of Chicago è del 1970), scritto da uno storico sloveno poi trasferitosi negli Stati Uniti. È stato uno dei primi studi ad analizzare comparativamente la storia di Trieste basandosi su fonti italiane, statunitensi e jugoslave, riuscendo in questo modo a inserire la questione della Venezia Giulia in un contesto realmente internazionale.
Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009). La storia della questione di Trieste vista dall’altra parte, cioè da quella jugoslava. Questo volume ha permesso agli storici italiani di avere una visione degli avvenimenti non italocentrica, ma con un focus privilegiato sulla situazione e le aspettative degli abitanti del territorio di lingua slovena e sulle azioni e i provvedimenti delle autorità jugoslave.
Glenda Sluga. The problem of Trieste and the italo-yugoslav border, difference, identity, and sovereignty in twentieth-century Europe (SUNY Press, 2001). Analizzata da una prospettiva postcoloniale la questione della sovranità sulla città di Trieste nel secondo dopoguerra rivela l’inadeguatezza degli strumenti della “geopolitica” e la strumentalità delle retoriche nazionali di fronte a una realtà multiculturale e plurilinguistica.
Anna Di Gianantonio et alii, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese (Consorzio Culturale del Monfalconese; Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 2005). La vicenda dell’esodo dei cantierini monfalconesi in Jugoslavia e del turbolento dopoguerra in uno dei centri industriali più importanti dell’alto Adriatico, raccontata attraverso le testimonianze dei testimoni diretti e dei protagonisti.
Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Una ricerca che affronta il tema delle foibe inserendolo nella narrazione della storia dei rapporti tra le diverse popolazioni dell’alto Adriatico e nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Il testo svolge l’analisi sia dei documenti d’archivio sia delle narrazioni che hanno sovraccaricato i corpi rinvenuti nelle cavità carsiche di significati politici e identitari.
Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952) (Ombre corte, 2007). Chi furono davvero gli infoibati? Nella maggior parte dei casi si trattò di deportati e talvolta di prigionieri di guerra. Quest’opera indaga in parte sul loro destino nei campi di prigionia jugoslavi nel drammatico dopoguerra di un paese devastato, ma soprattutto consente di esplorare la più vasta tematica dello scambio di prigionieri tra Italia e Jugoslavia nell’ambito dell’escalation politico-diplomatica avvenuta tra questi due paesi e di come essa abbia influenzato anche il discorso sulle foibe.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu, 2005). Elenchi di infoibati/deportati della Venezia Giulia cominciarono a essere diffusi già durante la guerra, ritornando in auge negli anni ottanta-novanta con numeri di vittime ancor maggiori. Con una verifica accurata negli archivi, Claudia Cernigoi ha scoperto molti dati inesatti (persone ancora vive, duplicazioni, morti per altre cause, eccetera), in molti casi la collaborazione attiva con i nazisti degli scomparsi da Trieste, e ha indagato sul passato spesso torbido dei personaggi che pubblicarono queste liste. È significativo che alcuni ambienti abbiano reagito con l’accusa di negazionismo: un’accusa solitamente riferita alla negazione della shoah e per estensione a realtà scientifiche incontrovertibili, che in questo caso è stata strumentalmente rovesciata di significato e da allora è utilizzata frequentemente per chiunque manifesti un approccio critico al tema delle foibe.
Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980). A tutt’oggi il punto di partenza per ogni ricerca sull’esodo istriano del secondo dopoguerra. Un’indagine sulla situazione precedente alla partenza, sulle paure reali o indotte negli istriani, sulla dinamica dell’esodo, sulle sue ragioni, sulla propaganda sia jugoslava sia italiana. In questo studio sono trattate per la prima volta con sistematicità la varie fasi dell’esodo, i problemi di quantificazione dei profughi, le loro condizioni e il loro destino una volta giunti in Italia. Recentemente l’Irsml ha digitalizzato il volume, che è oggi liberamente consultabile su Google Books.
Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (Kappa Vu, 2004). Un libro che si focalizza soprattutto sulla condizione degli esuli dopo la partenza e sull’uso che fu fatto di essi da parte dei partiti di area governativa e da parte delle associazioni dei profughi per modificare gli equilibri etnico-nazionali e politici dei territori dove vennero insediati.
Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960 (LEG, 2015). Alla metà degli anni novanta Nemec ha condotto un’importante opera di ricerca nell’ambito della storia orale relativamente alla comunità di un piccolo paese istriano, Grisignana d’Istria. La ricercatrice ha raccolto le testimonianze di coloro che se ne andarono nel dopoguerra ma anche di alcuni rimasti. Il puntuale confronto tra le memorie degli intervistati e una ricostruzione della storia sociale e politica dell’Istria fa emergere le complesse realtà celate dietro la scelta dell’esodo così come di quella di rimanere nel proprio paese d’origine, nonché i processi di costruzione dell’identità legati a tali scelte.
Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani (Il Veltro Editrice, 2010). Gli istriani, esuli e rimasti, sono stati per l’antropologa statunitense Pamela Ballinger il case study perfetto per indagare l’intreccio tra identità, memoria e frontiera. Nel saggio passa al setaccio ogni narrazione dell’esodo, sia essa pubblica o privata, storiografica o letteraria, nazionale o internazionale. Il risultato è una cartina di tornasole delle rappresentazioni date nel tempo del confine orientale, dall’irredentismo fino alla “vigilia” del Giorno del ricordo (il testo originale in inglese è stato pubblicato nel 2003).
Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico (Kappa Vu, 2014). La ricostruzione di come il tema “foibe” è stato ed è trattato nel dibattito pubblico e sui mezzi d’informazione italiani, analizzando le semplificazioni e le distorsioni dei fatti storici in una chiave comparativa europea e rintracciando le radici e lo sviluppo delle narrazioni contemporanee.
il manifesto, 9 febbraio 2017
Da quando per legge fu istituito nel 2004, il 10 febbraio, come «Giorno del ricordo» (anniversario del Trattato di pace che nel 1947 aveva fissato i nuovi confini con la Jugoslavia), per «conservare e rinnovare», come scritto, «la memoria di tutte le vittime delle foibe» e della «tragedia dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», abbiamo assistito a una sorta di accaparramento di questa giornata da parte delle destre, con il prevalere nel corso degli anni dei fascisti. Quasi un’egemonia.
Possiamo ora dire, in sede di valutazione storica, che la decisione di inserire nel calendario nazionale questa data, a dieci giorni dalla giornata per il ricordo dalla Shoah e di tutte le vittime e i perseguitati del nazifascismo, abbia indubbiamente segnato una svolta facendo parlare correntemente di foibe come «Olocausto degli Italiani».
Questo anniversario è più che altro servito a nascondere le responsabilità e gli orrori del fascismo nelle vicende di Trieste, della Venezia Giulia e del confine orientale; a riscrivere e a deformare la storia di quelle terre e delle sue popolazioni; a occultare i crimini di guerra italiani e le gesta infami di chi collaborò con i nazisti; a scorporare dal contesto l’esistenza a Trieste della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento in territorio italiano con forno crematorio; a tentare di porre, in una specie di «dualità della memoria», le vittime delle foibe sullo stesso piano di quelle dell’Olocausto. Una sorta di contraltare.
All’origine di questa deriva crediamo si debbano anche porre alcuni interventi, a partire dal 2007, tenuti solennemente dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parlò apertamente di «cieca violenza», di «furia sanguinaria», di «parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana», nonché di «disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”». Il tutto senza alcun riferimento alla precedente oppressione fascista delle minoranze slovene, all’invasione della Jugoslavia e ai precedenti crimini di guerra italiani commessi in quel Paese dal 1941 al 1943.
Almeno 230mila furono i civili montenegrini, croati e sloveni massacrati, fucilati o bruciati vivi nelle loro case durante i rastrellamenti (alcuni storici parlano di più di 400mila), diverse migliaia i civili, uomini, donne e bambini, deportati e rinchiusi in decine di campi di concentramento (i «campi del Duce») disseminati nelle isole dalmate, in Friuli e nel resto d’Italia. Parole che suscitarono anche le rimostranze del presidente della Croazia Stipe Mesic.
Nella stessa celebrazione vennero, tra gli altri, decorati da Napolitano i parenti di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara, fucilato dagli jugoslavi nel 1947 come criminale di guerra e in quanto tale già inserito nel 1946 da un’apposita commissione d’inchiesta italiana fra i civili e i militari italiani passibili di essere posti sotto accusa presso la giustizia penale militare, in quanto nella loro condotta erano «venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità».
Poi, nel 2015 ci fu il caso della consegna, per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, dell’onorificenza (ritirata in aprile) «per cause riconducibili a infoibamenti», ai familiari del capitano del battaglione Benito Mussolini, Paride Mori. Il capitano Mori era stato ucciso in combattimento, il 18 febbraio 1944, in uno scontro con i partigiani titini, e non “infoibato”. Questo caso svelò come su mille riconoscimenti dal 2004, con tanto di medaglia, circa trecento riguardassero militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Tra loro carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi, poliziotti, finanzieri e volontari nella Guardia nazionale repubblicana. Il novanta per cento appartenenti a formazioni al servizio dei nazisti. Nella lista si rintracciarono anche cinque criminali di guerra.
Con il «Giorno del ricordo» così costruito, volto a ricordare «tutte le vittime», nascondendo i giudizi di valore sulle responsabilità storiche, era inevitabile che riemergessero le destre peggiori. Anche quest’anno saranno, infatti, loro in diverse città d’Italia a celebrare questa data, con una serie di convegni e iniziative in cui si esalteranno il fascismo e la Repubblica di Salò.
A Pavia sarà addirittura il locale gruppo naziskin a farsene carico con un presidio, a Firenze, sabato prossimo, con un convegno, la Lega e Lealtà azione, la finta associazione culturale dietro la quale operano gli Hammerskin, mentre a Milano il Municipio 4, presieduto dalla Lega, aveva addirittura organizzato, sempre con Lealtà azione, per lunedì 13 alla Palazzina Liberty (quella di Dario Fo e Franca Rame), un concerto nazi-rock, poi annullato a seguito delle proteste antifasciste. A suonare era stato chiamato Skoll, nome di battesimo Federico Goglio, un cantautore il cui nome d’arte, per sua stessa ammissione, si ispirerebbe a un «lupo feroce» della mitologia germanica, dedito «alla violenta cancellazione della vita sulla terra azzannando il pianeta e riempiendo l’universo di spruzzi di sangue». Già esibitosi per Casa Pound e per i nazisti di Varese (la Comunità militante dei dodici raggi), era appena stato condannato dal Tribunale di Milano per apologia di fascismo. Fatto che non aveva minimamente turbato i promotori.
Riferimenti
Nell'icona cinque sloveni fucilati dai soldati italiani del generalwìe Roatta ( quello di :«testa per dente») Dane, Slovenia, , 31 luglio 1942. Vedi Come si manipola la storia attraverso le immagini
il manifesto, 9 febbraio 2017
Pare che finalmente manchi poco alla pubblicazione delle motivazioni che hanno condotto la Corte Costituzionale ad esprimersi sull’Italicum. Giovedì prossimo i 13 giudici leggeranno la sentenza approntata dal relatore, che verrà resa nota pochi giorni dopo. Se l’essenziale è già stato scritto nel comunicato del 25 gennaio - bocciato solo il ballottaggio mentre restano l’abnorme premio di maggioranza e gli indigeribili capilista bloccati -, le motivazioni potranno forse indirizzare la discussione verso lidi meno incerti e melmosi. Ove allignano ogni sorta di accusa e di mercanteggiamento. Il tutto fa parte di quel clima di restaurazione che si vorrebbe imporre dopo la grande vittoria popolare – non populista - del 4 dicembre.
Il tentativo è quello di derubricare un obbligo/diritto democratico – quello di avere al più presto un parlamento eletto con una legge costituzionalmente legittima – in una querelle politica su chi trarrebbe maggiore profitto da una interruzione della legislatura o dal suo contrario. Così si perpetua la logica politicista e a-democratica che ha guidato le ultime riforme elettorali finite sotto la tagliola della Consulta.
Emergono ora i guasti profondi provocati dal non scioglimento del parlamento dopo la sentenza 1/2014 della Consulta sulla incostituzionalità del Porcellum.
Quest’ultima considerava sì le elezioni avvenute in base a norme illegittime “un fatto concluso”; ribadiva il principio fondamentale della continuità dello Stato e quindi dei suoi organi costituzionali, ma quando si spingeva a esemplificazioni citava solamente la proroga delle camere fintanto che non vengono convocate le nuove (art. 61 Cost.) e nel caso della conversione di decreti – legge già in vigore (art. 77 Cost.). Casi limitati temporalmente che avrebbero dovuto sconsigliare la prosecuzione per ben tre anni dell’attuale parlamento, che ha votato, con l’apposizione della questione di fiducia, una legge elettorale ancora peggiore e la manipolazione del dettato costituzionale. Ma Napolitano aveva altro per la testa, cioè la revisione della Costituzione la cui paternità Renzi gli ha attribuito.
La sonora sconfitta non è bastata. Ora riparte la girandola. Renzi vuole le elezioni a giugno soprattutto perché teme i rimbalzi negativi di una nuova manovra restrittiva nella prossima legge di Bilancio. I suoi messi corrono dalla minoranza del Pd, come da Alfano e Berlusconi per vedere se si può scambiare un voto anticipato a giugno con un premio di maggioranza ad una coalizione anziché ad una lista, con il che si vorrebbe resuscitare il cadavere di un centrosinistra aperto a destra. Davvero lungimirante! Franceschini ha fatto sapere che ci sta. Gli altri della minoranza dem nicchiano, memori del precedente bluff dell’intesa Renzi – Cuperlo.
Rilanciano chiedendo il congresso. Come se il diritto dei cittadini di andare a votare con leggi costituzionali fosse scambiabile con un appuntamento congressuale interno a una forza politica. Ma proprio l’Italicum ha reso di difficile applicazione le regole sulle coalizioni che pure sopravvivono nella normativa elettorale del Senato. La strada del poco astuto mercimonio è irta di difficoltà difficilmente sormontabili. Se si vuole l’armonizzazione tra le due camere, essa non può avvenire che abbattendo le soglie di ingresso troppo alte previste al Senato, che rendono diseguali gli effetti del voto tra i due rami del parlamento e quindi sono incostituzionali.
Ma soprattutto, se si ha a cuore il principio dell’uguaglianza e della libertà del voto (art. 48 Cost.), non si può che eliminare il premio abnorme conferito ad una minoranza del 40% e il sistema dei capilista bloccati (il sorteggio non tura la falla). La Consulta li ha lasciati in piedi, venendo meno alla coerenza con la sua stessa giurisprudenza.
Di un parlamento come quello attuale vi è poco da fidarsi, se lasciato a sé stante. Quindi la lotta non è finita.
I Comitati del 4 dicembre devono restare e sono in campo per una legge elettorale proporzionale priva di distorsioni, che attui il principio della rappresentanza giubilato in questi anni da quello della governabilità, peraltro praticata in modo pessimo con guasti enormi per il Paese.
Lettera 43 online, 9 febbraio 2017 (c.m.c.)
Ventimiglia «controlli alla frontiera del diritto». Il titolo del rapporto pubblicato da Amnesty International France non poteva essere più esplicito: secondo l'organizzazione umanitaria decine di migliaia di respingimenti dalla Francia di richiedenti asilo sono avvenuti e continuano ad avvenire in maniera «illegale e contraria agli accordi internazionali, in violazione dei diritti umani».
Ninte possibilità di ricorso. Ai rifugiati, secondo il documento, non verrebbe messo a disposizione un interprete e il foglio di espulsione consegnato dalla polizia francese conterrebbe soltanto l'ordine di allontanamento e sarebbe privo delle due pagine (obbligatorie per la legge francese) nelle quali la persona viene informata dei propri diritti, in particolare quello di presentare ricorso contro l'espulsione. Anche i minorenni, secondo Amnesty, vengono maltrattati: il rapporto indica casi di ragazzini non accompagnati, fermati dalla polizia e caricati da soli sui treni per l'Italia.
Il rapporto è frutto di due fonti: l'analisi dei dati del 2016, forniti dalla prefettura delle Alpi marittime francesi, e che parlano di 35 mila persone controllate, e la missione di un gruppo di osservatori di Amnesty che, tra il 19 e il 26 gennaio 2017, sono andati alla frontiera di Ventimiglia, dal lato francese. Sul suo sito, Amnesty spiega che i suoi uomini hanno stilato un «resoconto preciso delle violazioni che la Francia commette verso i rifugiati che attraversano la frontiera franco-italiana».
Respingimenti senza formalità. Secondo il documento «le autorità non applicano le garanzie né rispettano i diritti delle persone che controllano alla frontiera». E l'accusa si fa più pesante quando l'organizzazione osserva che «nella gran parte dei casi i respingimenti in Italia sono organizzati senza formalità, in condizioni che lasciano pensare che tutto potrebbe essere organizzato in modo tale che le persone non possano esercitare i propri diritti».
Obiettivo di tutto ciò, secondo gli osservatori, sembra essere quello di rispedire i rifugiati in Italia: nel 2016 ne sono stati respinti quasi 30 mila.Il rapporto cita una serie di testimonianze raccolte direttamente sul campo dagli osservatori e spiega che «nemmeno i minori non accompagnati sono oggetto dell'attenzione richiesta dalla legislazione francese per la protezione dell'infanzia». Quindi riporta il racconto di una giovane eritrea, Bilal: «Se vieni fermato dalla polizia a Mentone o un po' prima, se sei un minorenne la polizia ti rimette direttamente sul treno» che conduce in Italia, dove il ragazzino si ritroverà da solo.
Cammino a piedi per 10 chilometri. Invece «se sei maggiorenne o ti considerano tale, ti portano alla stazione di Mentone, ti circondano di poliziotti e ti consegnano alla polizia italiana che si trova proprio di fronte». E da lì «comincia un cammino a piedi di 10 chilometri», con gli agenti francesi «silenziosi, che non ti informano nemmeno dei tuoi diritti».
Amnesty parla di «violazioni dei diritti umani», perché ai richiedenti asilo non viene nemmeno permesso di compilare la domanda alla quale avrebbero diritto, mentre le attese dell'espulsione avvengono in condizioni di gravissime carenze igieniche, senza accessi a luoghi per dormire né servizi. E di questa situazione «Francia e Italia sono corresponsabili». Il rapporto sostiene che la durezza dei controlli francesi ha spinto negli ultimi mesi i rifugiati, in gran parte africani, a cercare nuovi punti di passaggio della frontiera, con un «conseguente aumento dei rischi».
Chiesta l'apertura di un'indagine. La prefettura delle Alpi marittime riferisce di aver controllato nel 2016 circa 35 mila persone, il 40% in più rispetto all'anno precedente. E aggiunge che nove persone su 10 controllate sono state respinte in Italia. E dato l'esito della missione degli osservatori, Amnesty considera come sia lecito pensare che la gran parte delle espulsioni sia avvenuta nella violazione di garanzie e diritti dell'uomo previsti dalle leggi francesi e dagli accordi internazionali. Contro queste prassi, Amnesty chiede la mobilitazione dei cittadini e l'apertura di inchieste da parte della magistratura.
. il manifesto, 8 febbraio 2017 (c.m.c.)
Se è indubbio che con TzvetanTodorov se ne va una delle maggiori personalità intellettuali del XX secolo, è certo meno facile riassumere in poche battute che tipo di pensatore e di scrittore sia stato. Impossibile l’etichettatura, e non solo perché tutti i cavalli di razza difficilmente si lasciano imbrigliare in abiti preconfezionati. La sua biografia intellettuale è irriducibile a uno schema, o a una carriera, e appare evidentemente bipartita.
Da una parte, tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo, lo studioso delle forme letterarie, dello strutturalismo linguistico, l’erede inquieto del formalismo russo; dall’altro la strana, e fascinosa, figura del saggista-testimone che riflette sul male del Novecento, sulla catastrofe dei fascismi e dello stalinismo, dei campi e dei gulag, della violenza etnica e politica portata all’estremo.
Questa conversione può essere situata facilmente alla fine degli anni ’80, guarda caso in corrispondenza della caduta del muro di Berlino e della fine dei sistema sovietico. È allora che – sembra di poter dire – Todorov consente a se stesso di alzare il velo su un passato recente che gli appartiene in pieno, quello del regime oppressivo dal quale era riuscito a sfuggire; lui che poco più che ventenne, all’inizio dei ’60, era emigrato dalla Bulgaria comunista e si era installato in una Parigi oltremodo scintillante, vero centro mondiale delle scena artistica e intellettuale.
Todorov è diventato così uno dei rappresentanti esemplari, e fra i più nobili, di un modo di pensare il Novecento «dall’interno» di un suo nucleo presunto, oscuro e per ciò stesso quasi insondabile (e dal quale appunto si era mantenuto a lungo lontano occupandosi di rarefatte geometrie poetiche), che egli, come molti altri prima di lui, fa coincidere con la pulsione totalitaria, a lungo latente nella società europea moderna e che poi, liberatasi da ogni impedimento, assume il suo volto più autentico nei regimi nazi-fascisti e in quello staliniano. È qui che appare il «secolo delle tenebre» come lui stesso ebbe a definirlo.
Il confronto faticoso con una delle categorie più tormentate, ambigue e controverse del dibattito politico e storiografico da molti decenni a questa parte dovette apparirgli ineludibile. Per non restare incagliato nelle sue aporie, di cui era consapevole, Todorov assunse però una prospettiva diversa da quella dei maggiori indagatori del totalitarismo come sistema (Hannah Arendt in primis).
Egli provò soprattutto a interrogare criticamente il punto di vista di coloro che avevano vissuto in pieno la violenza totalitaria, facendosene testimoni: figure assai diverse, da Margaret Buber-Neumann a David Rousset, da Primo Levi a Vasilij Grossman. L’interrogazione sulla memoria diveniva centrale, ma sulla scia di Ricoeur, Todorov ha mostrato più volte come sapersi districare nei labirinti dei resoconti fondati sul confronto con il passato privato, come distinguere l’eticità del ricordo dai controsensi dei suoi usi, come rivendicare persino il diritto all’oblio.
Nello stesso modo, è vero che la contrapposizione netta di totalitarismo e democrazia ha costituito in continuità lo schema fondamentale di tutte le sue ricognizioni critiche sul Novecento. Ma sbaglierebbe chi vedesse in questa coerenza la fedeltà a un banale modulo interpretativo. L’euforia, se ci fu, «post-89» si volse presto in una dolorosa presa di coscienza. Il totalitarismo europeo – Todorov ha spesso insistito su questo sulla scia di analisi chiaramente francofortesi – ha solide radici «moderne» illuministiche e razionalitiche, ma la dicotomia gli apparve presto un’illusione.
Riflettendo sulle guerre nella ex-Jugoslavia, e in particolare sulla vicenda dell’intervento della Nato in Kosovo, egli ebbe a scrivere «Il totalitarismo può apparirci, a giusto titolo, l’impero del male; ma da ciò non consegue in alcun modo che la democrazia incarni, sempre e dappertutto, il regno del bene».
Un segno, fra i tanti, della lucidità di uno sguardo che si è mantenuto vigile fino all’ultimo.
Scheda. Dai formalisti russi al «male estremo» del Novecento
Nato nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, Tzvetan Todorov cominciò a interessarsi di teoria della letteratura nel suo paese, scontrandosi con gli imperativi ideologici. Solo quando arrivò nel 1963 a Parigi i suoi interessi di studioso voltarono pagina definitivamente. In realtà, vi giunse già attrezzato criticamente, sulla scia dei formalisti russi («Conobbi Roman Jacobson in Bulgaria, ne ricevetti una grande impressione. Fui attratto dal suo rigore scientifico, che si combinava felicemente con la passione per la poesia e per l’arte»).
A sua cura, presso Einaudi, nel 1965, uscì il libro I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico), mentre fra i numi tutelari della sua ricerca può iscriversi anche Michail Bachtin (al quale dedicò una monografia nel 1981, in Italia tradotta nel 1990): i suoi studi gli indicano la strada verso quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione. Todorov scelse di perseguire una più libera nozione del testo intenso come un «incontro» polifonico tra diverse voci e autori.
Una direzione questa che lo indusse ad accostarsi al problema dell’«altro» e dei rapporti tra individui e culture (La conquista dell’America, Einaudi, 1984), allargando l’orizzonte verso la storia delle idee (Noi e gli altri, Einaudi, 1991). Passò poi dalla socialità come condizione umana alle ideologie dominanti, indagando quella «banalità del male» presente in istituzioni totali, come i gulag o i campi di sterminio nazisti (Di fronte all’estremo, Garzanti, 1992), non trascurando i cambiamenti fatali dei destini individuali che si producono durante i conflitti (Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile, Garzanti, 1995).
Fra le ultime pubblicazioni, un saggio sui totalitarismi, Memoria del male, tentazione del bene (2000), Il nuovo disordine mondiale (2003), La pittura dei lumi. Da Watteau a Goya (2014, in cui l’arte resta strettamente connessa al pensiero che circola nella sua stessa epoca) e, nel 2016, Resistenti, Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia.
. Articoli di Bernardo Valli e Michele Giorgio. la Repubblica, il manifesto, Internazionale, 8 febbraio 2017 (c.m.c.)
la Repubblica
NELLE COLONIE FUORILEGGE DOVE ISRAEELE SFIDA IL MONDO
di Bernardo Valli
Forse la storia sta cambiando ancora. Ma accade troppo spesso e pochi ci fanno attenzione. La città era impassibile. Sulla Ben Juda, cuore della metropoli israeliana, le radio diffondevano a tutto volume la cronaca del mattino alla Knesset. Dei giovani coloni, col mitra a tracolla, hanno applaudito quando hanno udito che il loro insediamento, nella Samaria, non era più un accampamento di fuorilegge, ma una cittadina legale. Così ha deciso il Parlamento. Parlavano russo e nessuno gli ha dato retta. Più tardi, alla Porta di Jaffa, scendendo verso il Santo Sepolcro, i mercanti arabi, indaffarati con comitive giapponesi, non ascoltavano quel che le radio dicevano.
Legittime o non legittime le colonie, attorno a Gerusalemme, si moltiplicano come funghi. Il voto eccezionale della Knesset che le promuove, le legittima, non scuote la città araba. Per i palestinesi di Gerusalemme la storia non è cambiata. Loro non hanno sentito l’“effetto Trump”. Eppure alla Knesset c’è stato. Ed è stato provocatorio come il linguaggio del neo presidente. È come se tutto avvenisse ai piedi della Casa Bianca e si udisse la sua voce. Anche se in realtà lui si è ben guardato dall’incoraggiare e ancor meno dal dare la benedizione alla decisione del parlamento israeliano. L’influenza che esercita va oltre le sue parole. È dettata dalle sue virutali o supposte intenzioni.
Con Barack Obama alla Casa Bianca 60 deputati (contro 52) avrebbero esitato ad approvare una legge definita provocatoria in molte capitali anche amiche di Israele. E infatti ne ha tutte le caratteristiche poiché, con valore retroattivo, quella legge legalizza migliaia di edifici costruiti su proprietà private di palestinesi, che sorgono in sedici colonie israeliane di Cisgiordania. Si tratta di insediamenti approvati, protetti quando necessario dall’esercito israeliano, anche se i coloni (circa 700mila tra Cisgiordania e Gerusalemme) sono armati, ma la cui espropriazione di fatto non era mai stata approvata da una legge del parlamento. Erano quindi formalmente illegali. Da ieri mattina non lo sono più.
Ma non si capisce fino o quando saranno legali. La Corte suprema sarà presto investita del caso e potrebbe dichiarare incostituzionale la legge appena approvata dal parlamento. Il procuratore generale ha già fatto sapere che si guarderà bene dal difenderla. Per cui il voto della Knesset appare un colpo di mano ispirato dall’avvento di Trump. Un colpo di mano accompagnato dal dubbio che la legge approvata possa essere applicata. Vale a dire che diventi di fatto un primo serio passo verso una annessione definitiva dei territori occupati da Israele nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni.
L’opposizione internazionale è per ora forte. Il voto dei sessanta deputati israeliani riporta ai momenti peggiori i rapporti tra le due comunità, quella degli occupati e quella degli occupanti. Situazione che dura da mezzo secolo. Quest’anno si potrebbe celebrare il cinquantenario.
Il dinamico Yair Lapid, che punta al posto di Benjamin Netanyahu, ha definito il voto della Knesset «ingiusto, non elegante, dannoso per Israele e la sua sicurezza». Saeb Erekat, il negoziatore palestinese al momento senza lavoro, ha parlato di «un saccheggio della pace che ne affossa le possibilità di realizzarla e cancella la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese». Altri hanno denunciato il tentativo di annessione della Cisgiordania.
Ad affrettare l’approvazione della legge non è stata soltanto la speranza di poter contare sul Donald Trump, in più occasioni dichiaratosi in favore di Israele, al punto da dare l’annuncio (poi ritrattato o ritardato) di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv e Gerusalemme, che potrebbe provocare una sollevazione degli arabi, già in aperta tenzone con Trump. Ad accelerare i tempi parlamentari è stata anche la decisione di sfrattare quaranta famiglie di coloni e di demolire le loro case ad Amona, perché da dieci anni giudicate illegali. Per evitare la distruzione di quell’insediamento è stata votata la legge retroattiva di gran fretta.
Benjamin Netanyahu era esitante. Dopo avere accolto con entusiasmo la partenza di Obama e l’arrivo di Trump il primo ministro ha capito che il neo presidente, pur sostenitore della destra israeliana, non poteva inimicarsi il mondo arabo. Ne aveva bisogno nella guerra contro lo Stato islamico e per questo era diventato vago sul trasloco dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e aveva invitato a non estendere gli insediamenti in Cisgiordania per non impedire la ripresa del dialogo israelo-palestinese.
Durante la visita a Londra, al primo ministro britannico che insisteva sulla formazione dei due Stati, Netanyahu non ha risposto. Ha sorvolato sul problema. Non ha parlato della possibile creazione di due entità indipendenti. Il silenzio è stato interpretato come un tentativo di non apparire contrario al colpo parlamentare che si stava preparando a Gerusalemme. Fino ad allora, senza manifestare entusiasmo, adottando una accurata riservatezza, il primo ministro non aveva ripudiato del tutto la possibilità remota di creare due Stati. In realtà si adattava alla volontà di larga parte della società internazionale. Al tempo stesso era prigioniero della forte contraddizione di cui era ed è prigioniera la sua società, quella israeliana.
Da un lato, ad ogni sondaggio i cittadini dello Stato ebraico non si dichiarano contrari alla nascita di un Stato palestinese alle porte di casa. Ma i meccanismi politici, alimentati da una classe politica sempre più a destra e sempre più votata, porta in un’altra direzione. La situazione viene descritta in modo irriverente da un intellettuale di Tel Aviv: la soluzione dello Stato palestinese è considerata ineluttabile come la morte, nessuno può negarla, ma tutti la vogliono ritardare. In mille maniere, non sempre confessandolo.
Il caos mediorientale, il mosaico di guerre ai confini, il livello del terrorismo che non decresce, l’instabilità delle frontiere nazionali in tutta la regione, sono tutti fattori che conducono a radicalizzare le posizioni. Non a caso si è praticamente spento il Movimento della Pace che ha avuto un ruolo di rilievo nella vita politica israeliana degli ultimi decenni. Un tempo i giovani scendevano in piazza, anche in divisa militare, per invocare la pace. Oggi pacifista viene spesso tradotto disfattista.
Esitante, preoccupato di non turbare Donald Trump, di cui sarà ospite il 15 febbraio alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu è ritornato da Londra a Gerusalemme lasciandosi alle spalle la finzione dei due Stati e deciso ad adeguarsi alla provocazione che si stava preparando alla Knesset. In parlamento si stava celebrando con il voto retroattivo della legalizzazione di tante colonie l’avvento di Trump alla presidenza americana.
Anche se Trump non è affatto d’accordo con quel voto, che accresce l’inimicizia degli arabi, già furiosi per l’annullamento dei visti, ma necessari come alleati per combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq. La guerra dei Sei Giorni, che nel 1967, portò all’occupazione della Cisgiordnia e di Gerusalemme Est, fece nascere il sogno del grande Israele. Il sogno è diventato un progetto. Alla Knesset, di primo mattino. Si è tentato di realizzarlo almeno in parte.
il manifesto
«Israele/Territori Palestinesi Occupati. Intervista ad Hanan Ashrawi del Comitato esecutivo dell'Olp e storica portavoce palestinese sull'approvazione della legge che regolarizza gli avamposti coloniali. "Il colpo più duro è l'indifferenza internazionale verso le politiche di Israele"».
La sottovalutazione, se non il disinteresse, dell’Europa per la legge approvata lunedì sera dalla Knesset che ha regolarizzato retroattivamente circa 4.000 case in decine di avamposti coloniali, amplifica la soddisfazione del governo Netanyahu e della destra religiosa alla guida del paese. Il ministro Bennett, leader del partito dei coloni “Casa ebraica”, ha vinto la sua storica battaglia in fondo senza penare troppo.
Ha solo dovuto aspettare qualche anno, l’uscita di scena di Barack Obama (che in verità la colonizzazione l’ha solo frenata e mai fermata), l’ingresso nella Casa bianca dell’alleato Donald Trump e la paralisi della comunità internazionale messa a nudo il mese scorso dall’insulsa dichiarazione finale della Conferenza di Pace di Parigi alla quale il ministro degli Esteri italiano Alfano ha dichiarato con orgoglio di aver dato il suo fattivo contributo.
«È una rivoluzione», ha commentato Bennett. Ha ragione. In due settimane Israele ha autorizzato la costruzione di quasi 6.000 case nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est, annunciato un nuovo insediamento e legalizzato 4.000 case in decine di avamposti.
E il voto della Knesset apre la strada alla estensione della sovranità israeliana alla Cisgiordania. Non su tutta, sulle colonie ma non sui centri abitati palestinesi, per evitare uno Stato binazionale con ebrei e arabi insieme, ha spiegato il ministro Ofer Akunis.
L’apartheid, avvertono anche diversi israeliani, è dietro l’angolo. Ormai è solo cronaca giornalistica il clamore suscitato a dicembre dal “colpo di coda” di Obama che non bloccò con il veto l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza Onu della risoluzione 2334 che ha riaffermato lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e condannato la colonizzazione. La leadership palestinese intanto è debole, balbetta, non è in grado di elaborare una strategia politica degna di questo nome.
«Questa legge israeliana è inaccettabile», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. Un po’ poco.
Non sorprende l’amarezza sul volto di Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp e, più di tutto, storica portavoce palestinese durante la prima Intifada e la Conferenza di Madrid.
Scuote la testa Ashrawi: «Il colpo più duro – ci dice – è l’atteggiamento internazionale verso tutto questo».
Cosa potrebbero fare i palestinesi?
Dobbiamo ridefinire la nostra politica e ripensare alle relazioni con Israele. Sappiamo che questo potrebbe costarci caro ma non possiamo rimanere con le mani in mano. E se gli Usa e l’Europa non faranno la loro parte per fermare l’escalation messa in moto dal governo Netanyahu, la strada da percorrere è quella della giustizia internazionale e del ricorso alla Corte penale dell’Aja.
Appaiono però rituali gli appelli che i palestinesi lanciano ogni volta alla comunità internazionale. Non sembrano produrre un granché.
Non possiamo che continuare a rivolgerci all’Onu e invocare la giustizia internazionale. Non dobbiamo stancarci di reclamare i nostri diritti anche se il mondo volge lo sguardo da un’altra parte. I nostri diritti non sono meno importanti di quelli degli israeliani.
Alcuni dirigenti palestinesi hanno minacciato l’annullamento del riconoscimento di Israele fatto dall’Olp venti anni fa. È una possibilità che ritiene concreta?
Tutto è possibile, questa e altre opzioni. Dobbiamo mettere insieme un piano che contempli le diverse possibilità a nostra disposizione e, a mio avviso, dovranno essere discusse pubblicamente.
Queste opzioni includono la fine della cooperazione di sicurezza con Israele?
Anche questa è una possibilità, assieme a molte altre.
Quanto l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca è stato determinante per l’azione del governo israeliano?
L’elezione a presidente di Trump è stato l’evento scatenante. Netanyahu non parlava d’altro prima del 20 gennaio, nonostante Barack Obama sia stato un presidente molto generoso con Israele, forse il più generoso dal punto di vista politico, finanziario e militare. Il governo israeliano si sente incoraggiato a portare avanti la sua politica da Trump e dalle persone che il nuovo presidente ha scelto per determinati incarichi. A cominciare dal nuovo ambasciatore Usa a Tel Aviv \[David Friedman, aperto sostenitore delle colonie israeliane, ndr\]. Ora abbiamo coloni nel governo israeliano e, di fatto, coloni in quello statunitense.
Il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di avvertimenti dell’amministrazione Trump ai palestinesi: se denunceranno Israele alla procura internazionale perderanno il sostegno finanziario degli Usa e l’Olp tornerà nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. È vero?
Non sono in grado di rispondere. Ciò che so è che queste minacce fanno parte di una posizione adottata dal Congresso americano.
È delusa dalla Ue?
Sì, moltissimo. Ci sono voluti ben 30 anni solo per arrivare all’etichettatura diversa dal Made in Israel per le merci delle colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati dirette in Europa. E nel frattempo Israele resta un partner privilegiato della Ue, sotto tutti i punti di vista, nonostante le sue politiche nei nostri confronti. L’Europa parla ma poi fa molto poco per difendere concretamente i diritti dei palestinesi.
Internazionale online
PERCHÉ LA NUOVALEGGE ISRAELIANA
Il 6 febbraio il parlamento israeliano ha approvato in maniera definitiva, con 60 voti favorevoli e 52 contrari, una legge che permette a Israele di legalizzare retroattivamente 3.800 alloggi in Cisgiordania costruiti su terreni di proprietà di palestinesi. Secondo la norma i proprietari non possono opporsi, ma possono chiedere un risarcimento.
Considerata un ostacolo alla soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese, la legge è stata duramente criticata dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dalla Lega araba, dalla Turchia, dalla Giordania e dall’opposizione israeliana guidata dal laburista Isaac Herzog, che ha parlato di una possibile incriminazione di Israele da parte della Corte penale internazionale. Il 7 febbraio le autorità europee hanno rimandato un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu previsto per il 28 febbraio, che avrebbe dovuto sancire il disgelo nei rapporti tra Israele e l’Unione europea.
Cosa prevede la nuova legge?
La nuova legge, spiega il quotidiano israeliano Haaretz, permette a Israele di espropriare i terreni privati palestinesi in Cisgiordania dove sono già stati costruiti insediamenti o avamposti. Inoltre permette ai coloni ebrei di restare nelle loro case, anche se non diventeranno i proprietari della terra su cui vivono. Impedisce ai palestinesi di rivendicare la proprietà dei terreni o di prenderne possesso finché “non arriverà una soluzione diplomatica che determini lo status dei territori”.
Come si chiama la legge?
La legge è stata chiamata in un modo che può essere fuorviante, scrive Haaretz, perché il nome ebraico può essere tradotto in diversi modi. La traduzione più usata è “legge della regolarizzazione”. L’obiettivo è “disciplinare gli insediamenti in Giudea e Samaria, permettere il loro mantenimento e il loro sviluppo”. Secondo il quotidiano israeliano progressista, un nome più adatto potrebbe essere “legge dell’esproprio”.
Perché tanto clamore?
La Cisgiordania non è comunque sotto occupazione?
La nuova legge supera un limite che Israele non aveva mai oltrepassato. Anche secondo politici conservatori come Dan Meridor, che è stato a lungo membro del Likud, la knesset (il parlamento israeliano) non ha mai affrontato il tema dei diritti di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania perché “gli arabi di Giudea e Samaria non votano per la knesset, che non ha l’autorità di approvare leggi in loro nome”. Meridor sostiene che se Israele vorrà esercitare la piena sovranità sulla Cisgiordania dovrà garantire ai palestinesi in quella regione la cittadinanza israeliana e il diritto di voto.
Il procuratore generale di Israele cosa ne pensa?
È d’accordo con Meridor. Avichai Mandelblit ha dichiarato che se qualcuno farà causa contro la legge, lui non la difenderà perché viola la Quarta convenzione di Ginevra. Questo non ha impedito alla ministra della giustizia Ayelet Shaked, del partito di estrema destra Habayit hayehudi (Casa ebraica), di promuovere la legge. Shaked ha detto che, se necessario, incaricherà un avvocato privato di rappresentare il governo in tribunale.
Quanti sono gli insediamenti tutelati dalla legge?
Secondo l’ong Peace Now, saranno legalizzati retroattivamente cinquanta avamposti e insediamenti costruiti con il consenso dello stato di Israele o da coloni che non sapevano di trovarsi su terre private. Tra questi, sedici sono interessati da ordini di demolizione che, in base alle nuove regole, saranno congelati per un anno mentre si valuterà se lo stato può appropriarsi di quei terreni.
La legge autorizza futuri insediamenti?
In teoria, sì. La misura permette al ministro della giustizia di aggiungere altri nomi alla lista degli insediamenti e degli avamposti espropriati, ma solo con l’approvazione della commissione parlamentare Costituzione, legge e giustizia.
In che modo saranno risarciti i palestinesi?
Avranno la possibilità di scegliere, se possibile, un lotto di terra alternativo oppure si vedranno versare ogni anno dei diritti d’uso di quei terreni. A meno che non venga raggiunto un accordo di pace tra Israele e Palestina che risolva anche la questione della proprietà terriera.
Com’è stato l’iter legislativo?
La norma ha ottenuto le prime approvazioni a novembre e a dicembre, ma in seguito il voto è stato spostato varie volte. La ragione principale era la preoccupazione del primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo alle ultime mosse dell’amministrazione Obama, tra cui il mancato veto a una risoluzione di condanna del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e il timore di cominciare con il piede sbagliato i rapporti con la nuova amministrazione Trump. La legge, però, è stata promossa aggressivamente dal ministro dell’istruzione Naftali Bennett.
Perché la legge è stata rilanciata e votata in tutta fretta la sera del 6 febbraio?
Gli Stati Uniti avevano chiesto a Netanyahu di non fare mosse importanti prima dell’incontro con Donald Trump previsto per il 15 febbraio. Ma Bennett e Shaked, fortemente pressati dalla loro base dopo lo smantellamento dell’avamposto di Amona, hanno respinto ulteriori rinvii. Non potendo fermare l’iter, Netanyahu ha informato rapidamente Trump, nello stesso giorno in cui la premier britannica Theresa May aveva detto al presidente statunitense che la legge era controproducente.
Secondo il New York Times, «mentre i sondaggi mostrano che gli israeliani sostengono ancora la soluzione a due stati, i loro leader e la realtà sul terreno puntano nella direzione opposta: a cinquant’anni dall’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, molti politici israeliani di destra dicono che ora che i negoziati con i palestinesi sono fermi, è arrivato il momento per Israele di decidere in che direzione procedere».
LasciateCIEntrare online, 7 febbraio 2017.
"LasciateCIEntrare" condanna fermamente la politica di accordi e partenariati con i Paesi terzi portata avanti dall’Europa e dal Governo italiano in totale sfregio ai valori fondanti e fondamentali UE, al diritto di asilo sancito dalle leggi internazionali e al dovere di accoglienza previsto dalla nostra Costituzione.
Con il Memorandum con il Governo libico, infatti, l’Italia si impegna a fornire strumenti e sostegno, sia economico che militare, ad un paese che di fatto non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, continuando a sottoporre le persone in fuga e intrappolate in Libia a trattamenti disumani e degradanti. Attualmente, sono centinaia di migliaia di migranti e rifugiati (oltre 300.000 secondo OIM) che si trovano in Libia, gran parte detenuti in centri che non rispettano gli standard stabiliti dal diritto internazionale e costretti a vivere in condizioni inumane, alla mercé di violenze e abusi di ogni sorta per mano delle forze dell’ordine, delle milizie, dei trafficanti e delle reti criminali. Campi che la stessa Commissione Europea definisce “inaccettabili e lontani dagli standard di rispetto dei diritti umani”, e che l’ambasciata tedesca ha definito “peggiori dei campi di concentramento”, denunciando esecuzioni, torture e stupri al loro interno.
Gabriella Guido (LasciateCIEntrare): “L’Europa delega la gestione del diritto di asilo ad un Paese che, di fatto, non lo riconosce. La Libia, infatti, non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.” E precisa: “L’assenza di un sistema di asilo in Libia impedisce alle persone in cerca di protezione internazionale di vedere la propria richiesta esaminata secondo procedure eque conformi al diritto internazionale dei rifugiati. Un memorandum illegale, quanto vergognoso, concluso peraltro con un “referente” politico non riconosciuto e che ancora di fatto non governa l’intero Paese. Le immagini dei migranti fermati dalla flotta libica e riportati indietro, tra i quali donne e neonati, sono le immagini per le quali un giorno l’UE verrà condannata per crimini contro l’umanità.”
La CEDU - Corte europea dei Diritti Umani - si è già pronunciata nel 2012 sui respingimenti in mare effettuati dal nostro paese verso la Libia di migranti condannando l’Italia per la violazione del divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti, l’impossibilità di ricorso, il divieto di espulsioni collettive e la violazione del principio di non-refoulement.
Questo accordo non è che l’ennesima dimostrazione della volontà dei leader europei di voltare le spalle ai rifugiati.
Ma questo punto ci chiediamo: esiste davvero differenza tra i muri di Trump e le navi militari europee? Nei giorni scorsi alla Valletta è andata in scena l’ennesima farsa dell’Europa e dei suoi leader politici che criticano a gran voce i provvedimenti USA ma si preparano a fare di peggio.
L’Italia revochi immediatamente il memorandum e fermi i rimpatri: impedire alle persone di lasciare Paesi non sicuri o costringerle a ritornarvi, equivale a sancire la loro vita e la loro morte.
Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg. i numerosi articli di Alex Zanotelli, Guido Viale, Filippo Miraglia, Luigi Manconi, Carlo Lania, Ilaria Boniburini, Alberto D'Argenio, Leo Loncari, nelle cartelle 2017 Accoglienza Italia e 2015. EsodoXXI
Unire “economia e comunione”, raccogliendo l’invito di Chiara Lubich. Papa Francesco ha sottolineato l’importanza dell’esperienza promossa dal Movimento dei Focolari, 25 anni fa in Brasile. E subito ha constatato con amarezza che la cultura attuale tende a separare l’economia e la comunione con conseguenze disastrose.
No al capitalismo che fa del denaro un idolo, contrastare sistema dell’azzardo
Innanzitutto, ha avvertito, bisogna guardarsi dal fare del denaro un idolo. “Il denaro - ha tenuto a precisare - è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine”:
“Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La 'dea fortuna' è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte”.
Ecco perché, ha soggiunto, è di grande “valore etico e spirituale” la “scelta di mettere i profitti in comune”. E ha soggiunto che “il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri, soprattutto con i poveri”. Ricordarsi sempre, ha soggiunto, che non si possono servire due signori, due padroni e che “il diavolo entra dalle tasche”.
L’evasione delle tasse viola la legge basilare del reciproco soccorso
Ha così rivolto il pensiero al tema della povertà. Il Papa ha rilevato che ci sono sempre state forme di aiuto verso i poveri ma nonostante gli aiuti, gli scarti della società “restavano molti”:
“Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso”.
Il capitalismo crea scarti e non riesce più a vedere i suoi poveri
Francesco ha così denunciato che il capitalismo “continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare”. “Il principale problema etico di questo capitalismo - ha ripreso - è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti”:
“Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”.
A tutto questo, ha affermato, si contrappone l’economia di comunione che non scarta mai la persona. Per il Papa, “bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale”, non basta comportarsi come buoni samaritani. E ha sottolineato che il grande lavoro da svolgere è “cercare di non perdere il principio attivo” che anima l’economia di comunione, puntando sulla qualità, non sulla quantità:
“Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo”.
Mettere al centro la comunione, il capitalismo conosce solo la filantropia
“L’economia di comunione - ha ripreso - avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra ‘casa’. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno”, perché “il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona”:
“Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle 'briciole'. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza”.
“Il 'no' ad un’economia che uccide - ha concluso Francesco - diventi un 'sì' ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”.
». il blog di GuidoViale, 6 febbraio 2017 (c.m.c.)
Trump è già tra noi. L’accordo che il Governo italiano ha siglato con la Libia per trattenere là, schiavizzati, rapinati, massacrati e stuprate, profughe e profughi che vorrebbero raggiungere l’Italia è sicuramente peggio del muro che Trump ha promesso di costruire a spese del Messico. Non solo. L’elezione e le prime mosse di Trump hanno anche accelerato lo smottamento di una parte consistente della cosiddetta sinistra verso il “sovranismo”: uscire dall’euro, uscire dall’Unione Europea, battere moneta nazionale, svalutare per recuperare competitività, innalzare barriere doganali, richiamare in “patria” le produzioni delocalizzate, rilanciare così la “crescita”.
Sono misure popolari, si dice, antiliberiste, con le quali Trump ha intercettato, e le destre europee stanno intercettando, il voto della classe operaia. Sfugge innanzitutto a molti la contraddittorietà di queste misure: soprattutto per un’economia fragile e marginale come quella italiana. A rimetterci, come sempre, sarebbero i salari e l’occupazione nazionali. Ma sullo sfondo di quelle ricette aleggia, sottaciuto, il clou delle politiche delle destre a cui si vorrebbe contenderne l’esclusiva di quelle misure: scoraggiare, frenare, fermare l’arrivo di profughi e migranti; fare o lasciar credere che disoccupazione, precarietà, perdita di reddito e di sicurezza sono provocate non dal dominio della grande finanza e dei suoi interessi, ma dall’arrivo di profughi e migranti; ristabilire le dinamiche di un tempo (make America great again) bloccando quei flussi.
Perché – lo insegnano sia Trump che il nazionalismo che avanza in Europa – le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista. Prospettata per il nostro paese, poi, l’idea di “chiudere le frontiere” è un’idiozia grottesca.
Ai profughi e ai migranti le frontiere tra l’Italia e il resto d’Europa, come quelle della Grecia, sono già state chiuse, mentre quelle tra Italia e i paesi di provenienza dei profughi (8.000 chilometri di costa) sono e resteranno aperte, perché lì i muri di Trump e Orban non si possono costruire. L’idea di mobilitare una force de frappe italiana o europea per creare in mare una barriera armata anti-profughi (la missione Sofia) invece di mettere al centro delle politiche europee l’abolizione della convenzione di Dublino – che obbliga i profughi a restare nel paese di sbarco e questo a provvedere alla loro sistemazione o al loro “rimpatrio” – è pari solo alla pretesa di estendere l’infame quanto precario accordo con la Turchia, che ha temporaneamente bloccato l’afflusso di profughi in Grecia, ai paesi della sponda sud del Mediterraneo; o addirittura a quelli, più a sud ancora, di origine o transito di quei flussi. Cioè a governi che non ci sono o non governano, o che lucrano sul traffico dei profughi ben più di quanto li possa compensare un contributo economico dell’Italia o dell’Europa (la paga dei carcerieri); e senza mettere nel conto la violenza a cui sottopongono le loro vittime.
I Governi dell’Unione Europea stanno adottando nei fatti le ricette propugnate dalle destre xenofobe e razziste; anche perché il sovranismo di queste è perfettamente compatibile, per lo meno sul breve periodo, con il quadro economico perseguito dai primi. Gli obiettivi di fondo sono gli stessi: crescita del PIL e dei profitti (l’occupazione, come l’intendenza, “seguirà”…), riduzione di tasse e spesa pubblica, privatizzazioni un po’ di tutto. Grande industria e finanza non hanno reagito negativamente all’elezione di Trump: perché, se la globalizzazione “neoliberista” mostra la corda, gli interessi del capitale possono facilmente conciliarsi anche con un bel po’ di sovranismo.
Le politiche di tipo keynesiano propugnate dai (pochi) avversari tanto dell’austerità “neoliberista” che del sovranismo nazionalista – spesa pubblica spinta, grandi lavori, rincorsa prezzi-salari, ecc. – non funzionano più: sono venute meno le forze che le sostenevano: la grande industria fordista e la classe operaia di fabbrica. Quelle politiche Obama in parte ha cercato di applicarle; ma occupazione (vera) e redditi non ne hanno beneficiato gran che; il senso di precarietà è aumentato; il protagonismo sociale che lo aveva portato alla presidenza è stato soffocato; le guerre hanno continuato a dominare il campo e ad assorbire risorse. Un cocktail che ha lasciato come eredità la vittoria di Trump.
L’alternativa non è più spesa pubblica (questa la spinge anche Trump), ma la conversione ecologica; che non è una green economy in cerca di profitto e di incentivi statali, ma promozione di decentramento, di una cultura diffusa, di iniziative di base e di partecipazione per cambiare in forme condivise uso delle risorse, stili di vita, prodotti e modo di produrli. Cose che nessuno dei governi e delle forze politiche in campo sa, può o vuole promuovere; e che per una lunga fase potranno svilupparsi solo dal basso, attraverso mille conflitti e a “macchie di leopardo”. Partendo da quello che già oggi c’è. Che è molto; ma disperso nei mille rivoli di iniziative scollegate e di riflessioni isolate, perché nessuno ha ancora trovato la strada per farne i mattoni di un nuovo blocco sociale e di una cultura e di un sentire diffusi, prima ancora che di un programma articolato o di un nuovo partito.
Così la giustizia sociale non viene collegata (papa Francesco a parte) a quella ambientale, né la lotta contro le diseguaglianze alla difesa della natura; il programma della decrescita viene prospettato – e a volte eroicamente praticato – senza porsi il problema della conversione ecologica (di cose e produzioni che comunque dovranno continuare a funzionare per molti anni a venire) e questa non è stata capace di confrontarsi in forme organizzate con i tanti punti di crisi occupazionale e ambientale in atto. Un’incapacità che la accomuna finora al territorialismo, unica alternativa praticabile tanto a un protezionismo becero che a un “liberismo” eslege.
L’accoglienza – vero baluardo europeista e internazionalista contro il montante razzismo – non sa farsi programma di inclusione sociale e di valorizzazione dell’umanità e della ricchezza culturale delle tante comunità di profughi e migranti presenti in Europa; mentre la lotta per la pace e contro il terrorismo non riesce a far leva su quelle comunità per prospettare soluzioni di pace e di rigenerazione economica, sociale e ambientale nei loro paesi di origine. E si potrebbe continuare.
Nella (strato)sfera politica si fa continuo riferimento a movimenti, lotte, riflessioni e mobilitazioni; ma non si riuscirà a cumularne e moltiplicarne le forze senza imboccare con umiltà un cammino che cerchi di svilupparne le potenzialità politiche a partire dalle specificità in cui ciascuna di esse è impegnata. Cosa difficilissima, resa ancora più ardua da una sacrosanta diffidenza nei confronti della monotona vacuità che circonda il mondo politico che ad esse pretende di fare riferimento.
« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)
L’attivismo della presidenza Trump non dà tregua ai cittadini che lo criticano, agli opinionisti che lo analizzano e, ora in maniera esplicita, a uno dei poteri dello Stato: i giudici che impugnano le direttive bonapartiste della Casa Bianca contro la libertà di ingresso nel Paese di una specifica categoria di persone, identificate ex ante e senza alcuna evidenza come potenzialmente terroriste. È dal 2001 che gli Stati Uniti non subiscono attentati organizzati da gruppi terroristici stranieri, eppure Trump adotta politiche da stato permanente di emergenza che fanno quasi impallidire quelle del suo predecessore repubblicano George W. Bush.
In seguito al provvedimento noto come “ Muslim Ban” che chiude le frontiere alle persone provenienti da sette Paesi musulmani, sono stati sospesi migliaia di visti per gli Stati Uniti, creando caos per le compagnie aeree e le dogane. Pochi giorni fa il giudice federale di Seattle, James Robart, ha bloccato il decreto di Trump, e il Dipartimento di Stato ha annunciato l’annullamento della revoca provvisoria dei visti. Davvero un punto di svolta il conflitto tra potere centrale e giudici degli Stati, poiché dai tempi di Ronald Reagan i repubblicani parteggiavano per le politiche decentrate degli Stati contro il governo centrale — Trump rovescia questa tradizione.E dagli Stati parte la lotta contro il suo decisionismo.
Il ricorso della Casa Bianca contro la decisione del giudice Robart non ha sortito effetto: la Corte di Appello del Nono Circuito ha deciso di non dar corso alla richiesta di Trump in attesa di ricevere la documentazione per la decisione finale. Per ora quindi il potere giudiziario ha prevalso sul potere del presidente e la previsione è che se ne occuperà infine la Corte Suprema.
La reazione di Trump alla resistenza istituzionale ha provocato un terremoto: ha offeso i giudici che lo ostacolano chiamandoli «sedicenti giudici»; ha infranto la regola aurea del rispetto delle istituzioni. Lottare nell’arena politica senza trascinare nella lotta le istituzioni: questo è il patto costituzionale che tiene insieme gli Stati Uniti e che ha fatto scuola nel mondo politico moderno.
La cronaca di questi giorni è un vero e proprio libro di testo nel quale le categorie politiche prendono corpo: Trump sfida la “democrazia madisoniana” nel nome della “democrazia populista”. Molti analisti scrivono senza remore che questo presidente plebiscitario fa riemergere lo “spirito tirannico” per neutralizzare il quale la Costituzione degli Stati Uniti è stata concepita nel 1787.
Dall’altra parte, l’argomento populista è che il leader eletto debba mettere in atto le sue promesse che sono la volontà del popolo; questa è la ragione per la quale il potere populista non ama coalizioni né alleanze, che sono un freno, e vince più facilmente nei sistemi presidenziali che in quelli parlamentari; e questa è anche la ragione per la quale la volontà populista è insofferente verso la divisione dei poteri. Ciò a cui assistiamo è l’inasprirsi del conflitto tra i poteri dello Stato in risposta al conflitto aperto tra due principi che, dal tempo della fondazione degli Stati Uniti, coesistono: la presidential leadership e la institutional leadership.
In questa battaglia si materializza la lotta classica tra il principio costituzionale o anti-tirannico e il principio dell’Uomo forte al governo. Dunque, da un lato, la “democrazia madisoniana” idealizzata da chi considera illiberale ogni tentativo di semplificare e concentrare il potere, non importa se quadagnato con il consenso elettorale; dall’altro la presidential leadership, idealizzata da chi considera anti-democratico il controllo istituzionale della volontà popolare impersonata dal presidente.
Con la fine dei regimi totalitari, il plebiscitarismo è apparso a molti un relitto del passato. Sull’onda del successo di opinione di Obama, alcuni studiosi come Eric A. Posner e Adrian Vermeule hanno provato a riabilitare la democrazia plebiscitaria sostenendo che «l’occhio del pubblico» riesce a limitare il potere politico meglio (e più democraticamente) del meccanismo istituzionale. Ma Trump costringe gli indulgenti del populismo a moderare la loro astratta certezza che la leadership che si alimenta del plebiscito dell’audience sia davvero sicura per la libertà e i diritti.L’attrazione per l’Uomo forte, sulla quale in Europa e in Italia opinionisti e media indugiano con troppa leggerezza, è preoccupante e si può facilmente caricare di significati nazionalisti e illiberali.
« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)
Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.
Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi.
C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia elettorale”.
È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso.
A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria ».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti. Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.
Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è fallito.
Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile.
Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio. Del resto, ogni sistema elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle due, è meglio?
Fra un mese. Le donne di 22 paesi unite in un 8 marzo di lotta «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare». Articoli di Geraldina Colotti e Bia Sarasini,
il manifesto, 7 febbraio 2017
NON UNA DI MENO:
«SIAMO PRONTE A BLOCCARE IL PAESE»
di Geraldina Colotti
Sul pullman che da Roma ci porta a Bologna, l’età media non supera i 25 anni, con qualche punta verso il basso o verso l’alto: si va dai piccolissimi che impongono a tutte di rispettarne il sonnellino, a qualcuna più avanti con gli anni. Sui piccoli schermi compaiono le immagini di Zootropolis, il nuovo cartone animato targato Disney che ha per protagonista una coniglietta-poliziotta. «Ma è ’na guardia», esclamano in molte, e parte un coro di «buuh». Sul pullman stracolmo, tutte realtà autogestite, centri sociali, sindacaliste di base o centri anti-violenza che lavorano con le migranti. Marta prende il microfono e dispensa le informazioni di viaggio e gli appuntamenti che ci attendono…
All’università di Bologna, la partecipazione ai tavoli è maggiore di quella di Roma, il giorno dopo la grande manifestazione del 26 novembre, che ha portato in piazza oltre 200.000 persone. Allora, si era più di 1200, in questo fine settimana, circa 2000. Gli 8 tavoli tematici sono gli stessi stabiliti a Roma: Piano Legislativo e Giuridico; Lavoro e Welfare; Educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità: la formazione come strumento di prevenzione e di contrasto alla violenza di genere; Femminismo migrante; Sessismo nei movimenti; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Narrazione della violenza attraverso i media; Percorsi di fuoriuscita dalla violenza. La discussione – a volte animata ma inclusiva – si protrae anche oltre «l’allarme» di chiusura, annunciato ossessivamente dagli altoparlanti dell’istituto alle 18.
Alla plenaria – aula magna stracolma e diretta streeming per chi si trova sopra in un’altra sala – si presentano le sintesi dei tavoli, temi e proposte per lo sciopero globale dell’8 marzo: astensione da ogni attività produttiva e riproduttiva e anche dal consumo. Uno sciopero generale di 24 ore, «dentro e fuori i luoghi di lavoro; per le precarie, le occupate, le disoccupate e le pensionate; le donne senza salario e quelle che prendono un sussidio; le donne con o senza il passaporto italiano; le lavoratrici in proprio e le studentesse; nelle case, per le strade, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri».
La sfida politica del «nuovo sciopero femminista» è stata lanciata anche ai sindacati. Quelli di base, come Cobas e Usb, hanno aderito, ma è in corso la discussione per far convergere sull’8 marzo, come vorrebbero le donne, anche la seconda data di astensione dal lavoro nel comparto scuola, stabilita per il 17, di cui si condividono i contenuti. Molte, infatti, le proposte provenienti dal tavolo su Educazione e formazione. L’educazione di genere, necessaria a tutti i livelli del percorso scolastico, «non è una materia, ma una postura politica e culturale per prevenire la violenza maschile». Per l’8 marzo, si porteranno «le lezioni in piazza», per denunciare la violenza sistemica del patriarcato, quella del capitalismo e del neocolonialismo, per «costruire ponti e non frontiere».
Impossibile dar conto della pluralità di percorsi e di voci che cercano tonalità comuni, ri-nominando antichi nodi e nuovi problemi in un’ottica femminista. Radicale la critica al cosiddetto sistema dell’accoglienza, basato su logiche securitarie e sulle deportazioni. L’orizzonte è quello di un mondo senza permessi o respingimenti, la barra viene posta in alto ma gli obiettivi sono concreti: cittadinanza, permesso senza condizioni e condizionamenti familiari per le migranti, adempimento degli obblighi stabiliti dalla Convenzione Oil per le lavoratrici domestiche, abolizione dell’«obiezione di coscienza» in ospedali e strutture pubbliche, rilancio politico dei consultori…
«Con o senza sindacati, bloccheremo il paese. Non un’ora di meno», si è detto nelle conclusioni, comunque in divenire: perché il percorso non si ferma all’8 marzo. L’appuntamento sarà per il 22 e 23 aprile a Roma. L’obiettivo è quello di far convergere pratiche e riflessioni nella stesura di un Piano femminista antiviolenza da presentare alle istituzioni. Un nuovo movimento connesso a livello internazionale. Allo sciopero, che ha preso avvio dalla proposta delle donne argentine, a ottobre dell’anno scorso, hanno già aderito oltre 30 paesi. Nel solco delle polacche, che hanno innescato il movimento, le argentine hanno scelto il nero per riconoscersi. In Italia, per lo sciopero e per i percorsi che lo prepareranno nei territori, i colori saranno due: il nero e il fucsia. «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare»
In Italia e non solo. Di questo hanno parlato le duemila donne riunite in assemblea a Bologna, lo scorso weekend, convocate da NonUnaDiMeno, il coordinamento di collettivi e organizzazioni che già il 26 novembre ha portato almeno 400.000 donne a manifestare a Roma contro la violenza maschile. Ma ci saranno ben 22 paesi in sciopero, l’8 marzo. Tutto parte dall’Argentina, ultimi ad aderire gli Stati Uniti, sulla spinta della “Women’s March on Washington” del 26 gennaio scorso. Un appassionato confronto, a Bologna, sui temi della violenza contro le donne, si è preparato il piano-antiviolenza, e sui temi dello sciopero. Cosa vuol dire scioperare? Chi partecipa, come si indice?
E se va notato, ancora una volta, che l’informazione mainstream ha mancato un evento politico di prima grandezza – del resto anche la marcia statunitense è stata attivata dai social, non da tv e da carta stampata – sarebbe un peccato che la sottovalutazione mediatica trascinasse con sé anche una sottovalutazione politica. Cosa è questo sciopero? Come si mette in pratica?
Bisognerà ricordare che in Polonia, nel “black monday” del 3 ottobre 2016, nella loro azione contro la minaccia di una legge che vietasse del tutto l’aborto, le donne polacche dissero: se ci fermiamo noi si ferma tutto. Come è effettivamente è successo. Questo vuol dire sciopero delle donne, in un mondo in cui il lavoro si è completamente trasformato. Mettere tutti in condizione di guardare cosa è il lavoro, oggi. Chi più di una donna sa che il lavoro è precario, sfaccettato e spezzettato, e investe direttamente la vita? Chi può saperlo meglio di chi è stata obbligata da sempre al lavoro di cura, per di più gratuito?
C’erano molti uomini, perlopiù ragazzi ovviamente, all’assemblea. Alcuni provenienti dal mondo queer, perché lo sciopero è anche uno sciopero dai generi, dagli stereotipi e dai ruoli obbligati. Uno dei modi per metterlo in pratica sarà il kindergarten gestito dai compagni, un accudimento dei bambini già messo in pratica durante l’assemblea. Ma lo sciopero, è stato ripetuto in tanti interventi, è sospensione, astensione. Blocco delle attività. Di tutti i tipi. Per esempio dall’insegnamento ma anche dal portare i bambini a scuola. Con l’attivazione di fondi di solidarietà, per permettere a tutte di scioperare. E qui sta il nodo centrale. Per astenersi dal lavoro, per chi lavora a contratto, occorre che lo sciopero sia indetto. Erano presenti molte sindacaliste, soprattutto Usb e Cobas, anche se non mancavano iscritte alle confederazioni, soprattutto Fiom. C’è una forte pretesa di attenzione, da parte dell’assemblea, rivolta a tutte le sigle sindacali. Come è giusto, si tratta della più importante manifestazione politica sul lavoro prevista nei prossimi mesi.
La scelta è stata di non mobilitarsi per una manifestazione nazionale. Si sciopererà insieme nelle città. Per bloccarle. Contro la violenza maschile, contro il neocapitalismo che di questa violenza è permeato, contro il dominio che entra nelle pieghe della vita quotidiana. In Italia contro il jobs act, contro la cancellazione dei diritti. Fondamentale è riconoscere che sono le donne a guidare la lotta per un lavoro diverso, oggi. L’esperienza diretta, nella propria vita, della violenza e dell’ingiustizia è forza viva, trascinante. Il coraggio è ascoltarla.
<
il manifesto, 7 febbraio 2017
Che la Ue possa implodere e con essa la sua moneta era ed è una consapevolezza che si sta facendo strada persino nei templi del pensiero mainstream e tra le elites europee. Specialmente dopo la Brexit e il possibile asse Trump-May. Il guaio è che il morto rischia di afferrare il vivo. Così le terapie che vengono avanzate appaiono peggiori della malattia, mancando una diagnosi corretta. Non solo si vuole un ennesimo giro di vite nei confronti della Grecia ed entrano nel mirino dei contabili di Bruxelles il Portogallo e l’Italia. Ma in vista dell’incontro, che si profila non solo celebrativo, del 25 marzo, in occasione del 60° dei trattati di Roma, tiene banco la trovata dell’Europa a due velocità. L’ha rilanciata Merkel, trovando il plauso di Gentiloni, ma soprattutto il placet entusiasta di Prodi. Il quale ha scoperto che l’America di Trump si comporta come un «cugino dispettoso» nei confronti dell’Europa e che quindi bisogna reagire.
Solo che lo si vuole fare nella direzione sbagliata. I nazionalismi e i populismi dall’alto, d’oltreoceano o europei, Trump come Le Pen, vengono agitati sia per motivi interni ai singoli paesi che vanno incontro a elezioni, fra cui la Germania, sia per allargare il metodo Schaeuble, proposto a suo tempo alla Grecia, nei confronti di un arco di paesi più ampio. Ne risulterebbe un’Europa a due velocità, o due gironi, nella quale il nucleo forte sarebbe naturalmente a dominanza tedesca, magari con un ministro delle finanze unico, in grado di tenere ancor meglio sotto controllo i bilanci altrui in un quadro istituzionale del tutto a-democratico. Attorno si distribuirebbe una corona di paesi più deboli, con l’onere di fare da filtro e da assorbimento dei processi migratori. Il tema centrale al vertice di Malta.
Si può e si deve osservare che già questa è la tendenza reale. Ce lo dicono i dati economici con la potenza germanica incurante delle regole: il suo surplus non dovrebbe superare il 6%, mentre veleggia di più di due punti e mezzo al di sopra. Ce lo ricorda il fatto che proprio quest’anno il famigerato fiscal compact dovrebbe entrare nel diritto europeo di primo livello, come i trattati istitutivi dell’Unione. Ma la codificazione di questa realtà costituirebbe una potente accelerazione verso l’implosione e la disgregazione dell’Europa. Anche perché è ben poco chiaro quali siano le effettive condizioni che dovrebbero regolare i due diversi livelli di integrazione sotto il profilo economico e delle sorti debito pubblico dei singoli paesi.
Diversi i toni usati da Draghi che ieri ha ammonito chi vuole andarsene di regolare prima i propri conti con la Bce, cosa devastante per chi ha i debiti pubblici più elevati. Poi ha orgogliosamente difeso la funzione della moneta unica, attribuendole addirittura ruoli taumaturgici nei confronti della crisi economica, per ribadire che la Bce è pronta ad aumentare “in termini di mole e durata” il programma di acquisti di titoli, cioè il quantitative easing. Ma pensare di battere i nazionalismi rilanciando le virtù del liberoscambismo, del quale approfitta solo il neomercantilismo tedesco, appare del pari suicida.
Non è questa la risposta, come però non lo è neppure l’illusione, coltivata anche a sinistra, che il ritorno alle sovranità nazionali e alle monete di un tempo aiuti la lotta alle diseguaglianze e per un diverso sviluppo. Spaccare in due l’Europa non è l’uovo di Colombo ma la china che porta alla negazione di ogni progetto europeo. La indispensabile lotta contro il liberismo dei trattati, quelli originari e quelli che hanno costruito la governance europea in questi ultimi anni di crisi, non può che coinvolgere e svolgersi nell’Europa nel suo complesso, con un ruolo crescente proprio dei paesi che si vorrebbero collocare nel secondo girone, come già la crescita di movimenti politici e sociali, alcuni assurti a esperienze di governo, hanno dimostrato di sapere fare. Un’Europa dimidiata sarebbe un interlocutore ancora meno credibile, in uno scenario internazionale ove le spinte belliche con Trump sono destinate a moltiplicarsi e ad aggravarsi.
C
. il manifesto, 5 febbraio 2017, con postilla
Ragionare e intervenire sul processo politico in atto diventa ogni giorno più difficile in questo nostro, sempre più confuso paese. La tentazione di tacere è grandissima, tuttavia, anche tacere mi sembrerebbe fuori luogo. A meno che non si accetti di uscire definitivamente di scena. In mancanza di meglio, perciò, procediamo per punti separati. Può darsi che alla fine, rimettendoli insieme, un senso comune ne scaturisca.
1. Il voto anticipato
Io penso che in questo momento auspicare, e battersi, per il voto anticipato, sia più che sbagliato, criminale.
Si capisce, razionalmente, che lo facciano le destre estreme e il Movimento 5 Stelle: desiderano approfittare della congiuntura favorevole rappresentata dalla clamorosa sconfitta renziana al referendum, cui anche noi abbiamo contribuito (ma non potevamo fare altrimenti). Ma il Pd? Il Pd è trascinato al voto solo perché Renzi sa che molto probabilmente sarà sconfitto, ma ha bisogno di garantire alle sue personali posizioni una consistenza parlamentare sufficiente a garantirgli di traghettare il momento difficile, o quanto meno a non uscire di scena, o per sempre. A lui, s’intende: non al partito, che rischia di andare in frantumi ancor più di quanto non sia già accaduto nei frangenti precedenti.
Poi, per chi lo avesse dimenticato, c’è l’Italia. Può questo nostro sempre più confuso e disgraziato paese consentirsi il lusso di una campagna elettorale a breve termine ancor più violenta e distruttiva di quella passata, rischiando al tempo stesso la più che probabile affermazione della componente politica grillina, con tutto ciò che questo significherebbe sia sul piano interno sia su quello internazionale? La risposta, semplice e inequivocabile, è: no, non può.
L’Italia e, persino, il Pd non possono essere messi così facilmente in gioco al solo scopo di salvare quel che resta della carriera politica di Matteo Renzi. Possibile che il (cosiddetto) gruppo dirigente del Pd non ne prenda atto e non ne tragga le conseguenze logiche e necessarie? Arrivare alla scadenza naturale del 2018 attenuerebbe e in taluni casi cancellerebbe gli effetti negativi dei processi in atto, e forse qualche dato più positivo farebbe nascere.
2. La legge elettorale
Il fatto che non ci sia una legge elettorale decente è un argomento in più a favore della tesi sopra sostenuta. Votare con l’Italicum, emendato dalla Corte costituzionale sarebbe anche questo suicida. Incongruenze, contraddizioni, ecc. ecc., ne segnano il testo. Alle molte osservazioni da più parti già avanzate io ne aggiungerei una, cui attribuisco, diversamente da altri, un’importanza estremamente grande, anzi, una valenza quasi simbolica: quella che si riferisce ai capilista bloccati (emendata dalla Corte costituzionale con la misura, un po’ ridicola a dir la verità, dell’estrazione a sorte dell’unico beneficiario).
I capilista bloccati, infatti, sono l’espressione più lampante di una concezione della democrazia delegata ai capi e capetti di ogni genere. Io ritengo che tale misura confligga clamorosamente, nella sostanza, con l’art. 67 della Costituzione (appunto), il quale recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni, senza vincolo di mandato».
Spiega sapientemente il costituzionalista Ernesto Bettinelli: «In verità la norma costituzionale intende sottolineare che, dopo la competizione, gli ‘eletti’ acquisiscono in Parlamento una posizione esclusiva (status): una nuova dignità…. della quale devono essere consapevoli e meritevoli…». E cioè: sono liberi di pensare, decidere e votare, checché ne dica il loro partito o gruppo di appartenenza. Ma come questo potrebbe correttamente e, diciamo, agevolmente avvenire, se i deputati, invece di essere eletti dal popolo, lo fossero, pressoché direttamente, da un Matteo Renzi o da un Beppe Grilllo?
(A questo proposito, e sia pure marginalmente – ma non tanto – rispetto al discorso principale. Possibile che in nessuna sede, né politica né giudiziaria, sia stata osservata e denunciata la rilevanza penale delle norme che nel Movimento 5 Stelle regolamentano la fedeltà degli eletti al Capo, addirittura con un sistema di multe monetarie da appliccarsi nel caso di una qualsiasi infrazione al comando ricevuto? Se l’art. 67 della Costituzione è ancora in vigore, questo starebbe a significare che le procedure sono assolutamente fuori norma. E allora?).
Una nuova legge elettorale, sensata e coerente, rispettosa il più possibile della libera espressione della volontà popolare, cioè, il più possibile, senza vincoli né premiazioni fuori ogni misura, non si fa in due mesi, soprattutto sotto l’urgenza del voto. Ci vuole tutto il tempo che ci vuole, e ci vuole una saggezza sopra le parti, che per ora non si vede..
3. Le prospettive della sinistra
Poiché sono intervenuto su questo giornale (10 dicembre 2016) anticipatamente rispetto ad altri interlocutori e ad altre formazioni, vorrei tornare su quelle idee, precisarle e se possibile rilanciarle.
Scrivevo in quell’occasione che non c’è prospettiva politica strategica per la sinistra italiana al di fuori di un centro-sinistra di governo. Questo non vuol dire un centro-sinistra in qualsiasi forma e a qualsiasi condizione. Vuol dire, appunto, un’ipotesi strategica da costruire: prospettive, programmi, radicamento sociale e… uomini. Allo stato attuale delle cose Matteo Renzi, per le cose dette più volte, e anche in questo articolo in precedenza, appare non un possibile alleato ma un sicuro avversario (potrebbe cambiare? Altamente improbabile, e poco credibile, se accadesse). Per cui, anche questa volta separando l’uomo dal suo partito, il Pd potrebbe (dovrebbe) stare dentro il disegno di un possibile centro-sinistra soltanto se, com’è auspicabile – l’ho già detto più volte – rientrasse nella sua storica e irrinunciabile prospettiva (non ce n’è un’altra neanche per lui), liquidando la strategia destrorsa e populista del suo attuale leader.
Ma, per la precisione, occorre aggiungere: se si vuole fare un centro-sinistra, ci vuole oltre che un centro serio, orientato a guardare a sinistra, anche una sinistra seria, seriamente orientata a guardare verso il centro. Ripeto e preciso, perché non ci siano equivoci: una sinistra seria, cioè una sinistra-sinistra, seriamente (cioè con argomenti e fermezza di posizioni) orientata a guardare verso il centro. C’è? Non lo so: anche questo si vedrà, se le sarà consentito anche temporalmente di emergere (motivo in più, com’è comprensibile, per gli “altri”, e forse soprattutto per Renzi, per accelerare il più possibile il voto allo scopo di scongiurare questa prospettiva.
Un’ultima osservazione si può ancora fare. E’ un dato di fatto che la rivoluzione neoliberista, degenerata ora in trumpismo e populismo, e in Italia, fra l’altro, nelle fortune sproporzionate di una formazione di chiaro orientamento populistico-reazionario, come il Movimento 5 stelle, ha frantumato quasi dappertutto la sinistra, relegandola ai margini (se si pensa che in Inghilterra i laburisti di Corbyn si apprestano a votare in Parlamento per la Brexit, un brivido ci corre lungo la schiena). E se invece si assumesse come orientamento strategico e propria cultura politica la persuasione che mettere da parte (anche strumentalmente) le divisioni e praticare, anticipatamente rispetto ai tempi storici, l’unità, – l’unità di tutte le forze di sinistra (anche se le vicende più recenti sembrano muoversi nella direzione contraria) – non sarebbe utile questo a formulare in maniera più efficace la strategia e a modellare su quella l’azione?
Illusioni, utopia? Ma anche in questo campo la sinistra appare vistosamente avere dimenticato quanto illusioni e utopia servano, anzi siano necessarie a fare funzionare meglio la pratica, o almeno ne siano indissociabili. Stiamo tutti con il naso rivolto verso il basso a rimuginare la sconfitta. E se, una buona volta, lo volgessimo verso l’alto a guardare cosa c’è, se c’è qualcosa di possibile oltre la nostra sconfitta?
postilla
Il guaio è che se continuiamo a riferirci alla sinistra del millennio scorso (non solo come testimonianza storica ma anche come concretezza politica) non riusciremo mai a dare alcuna prospettiva credibile a quanti soffrono in mille modi diversi (con la fame e la sete, la miseria, la morte fisica, la disperazione, l'annichilimento personale, la mancanza di presente e di futuro ecc.ecc) a causa dei danni che ha procurato l'incarnazione attuale del capitalismo. Una forza rivoluzionaria (cioè fortemente orientata a uscire dal sistema vigente), se ci fosse e fosse abbastanza consistente potrebbe stipulare alleanze con altre, ma dovrebbe esserci. Io, non la vedo. Quindi non mi resta che consolarmi con l'antico motto di Claudio Napoleoni, «cercare ancora». Ma fuori dai residui del passato, e magari anche tra i cespugli di Grillo (e.s.)
il Fatto Quotidiano online, 6 febbraio 2017, (p.d.)