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Drive Approdi online, 13 giugno 2018.Un'analisi cruda, e perciò veritiera e convincente delle profondità oscure nelle quali la nostra civiltà, stremata sta affogando. Ma è chiaro il mostro che bisogna abbattere per uscirne (e.s.)

In quale abisso stiamo sprofondando non è chiaro, ma che si tratti di un abisso non c’è dubbio. Il cambiamento politico che è accaduto in Italia deve essere letto nel contesto dell’evoluzione mondiale e della disintegrazione d’Europa, e da questo punto di vista sembra essere il colpo finale alla democrazia liberale occidentale, e quindi la fine del traballante ordine del mondo che abbiamo conosciuto dopo il 1989.

Se vogliamo capire la vittoria dei partiti anti-europei in Italia dobbiamo ripensare al collasso finanziario del 2008 e all’imposizione del Fiscal compact sulla vita sociale dei paesi d’Europa. In quegli anni lo smantellamento dello stato sociale fu perfezionato e la vita sociale impoverita oltre ogni attesa.

L’Unione europea si fondava un tempo sulla promessa di pace e di prosperità; dopo la svolta neoliberale di Maastricht, dopo la drammatica riduzione del salario implicita nel passaggio alla moneta comune, la regola austeritaria rappresentata dal Fiscal compact determinò una rottura con la prosperità e la pace del passato.

Nel 2011 la protesta contro l’austerità finanziaria fu guidata da un movimento di indignados che trovò il suo punto più alto nell’acampada spagnola, e continuò fino all’estate del referendum greco.

Nel luglio del 2015 Syriza, alfiere del movimento anti-austerity europeo, chiamò la popolazione greca a decidere sul diktat della troika. Una larga maggioranza dei greci disse di no al memorandum, ma Alexis Tsipras fu costretto comunque a piegarsi all’umiliazione politica. In quel momento la morte della democrazia fu ufficialmente riconosciuta nel posto in cui venticinque secoli fa la democrazia è stata concepita.

I governi del centro sinistra, particolarmente Hollande e Renzi, si allinearono con l’arrogante imposizione della governance rappresentata dal governo tedesco, tradirono Tsipras e con questo atto segnarono il loro destino come si è visto negli anni successivi.

Piegandosi alle richieste del sistema finanziario globale il centro sinistra divenne dovunque oggetto del disprezzo popolare. Dopo quell’umiliazione i lavoratori europei abbandonarono in massa la sinistra e in un paese dopo l’altro votarono per i partiti di destra. Il ritorno del nazionalismo fu così il risultato dell’umiliazione sociale e l’Unione entrò in una lunga fase di paralisi. Il trionfo degli euro-scettici in Italia è la fine dell’Unione che ora è ridotta al suo scheletro finanziario, la moneta comune che appare a tutti come una trappola che non si può rompere.

Qui sta il problema: può la volontà politica rompere l’entità astratta che si chiama governance? Il fallimento di Syriza mostrò l’impotenza dell’azione politica, mostrò che la decisione politica non può interferire con il castello matematico del governo finanziario.

Cosa accadrà ora, dopo la formazione in Italia di un governo che si pone esplicitamente in rottura con le implicazioni economiche del Fiscal compact, e ha promesso agli italiani di ridurre le tasse e di migliorare gli standard salariali implicitamente prevedendo la violazione delle regole europee?

Riuscirà il pilota automatico a soggiogare le intenzioni proclamate dal nuovo governo italiano, oppure la sfida di Salvini e Di Maio toglierà all’Unione il suo residuo potere, che è quello di imporre la regola finanziaria?

Syriza accettò l’umiliazione politica perché la maggioranza di sinistra accettò la ragione dei potenti, e il risultato è che la Grecia, privata della proprietà dei suoi aeroporti, dei suoi porti e delle sue infrastrutture, è oggi in una condizione di massiccia disoccupazione e depressione psichica mentre i giovani scolarizzati abbandonano il paese. Ma il governo italiano non è espressione di una decisione razionale, ma espressione del desiderio di vendetta.

Vendetta è il solo concetto che può spiegare quel che sta accadendo su scala mondiale. Tradita dalla democrazia liberale e dalla sinistra neo-liberista, la maggioranza degli elettori sono guidati soltanto dal desiderio di vendetta. E la vendetta non vuol sentir ragioni.

I liberal-democratici che credono (o fingono di credere) che stiamo passando attraverso una tempesta temporanea e alla fine la democrazia ragionevole tornerà, si fanno delle illusioni. La democrazia è morta e non risorgerà né in Italia né negli Stati Uniti.

Quando coloro che hanno votato per Trump o per Salvini capiranno che il loro salario non ha smesso di diminuire, e che la precarietà e la disoccupazione non sono destinate a recedere, non per questo torneranno a votare per i patetici politici della sinistra. I social-nazionalisti cercheranno piuttosto un capro espiatorio.

Nella Germania del secolo passato capri espiatori furono gli ebrei e i rom. Ora sono molto più numerosi e più facili da identificare: le vittime di cinque secoli di colonialismo premono ai confini d’Europa e sono già rinchiusi in campi di concentramento tutt’intorno al mar Mediterraneo.

La memoria dell’Olocausto del passato è destinata a impallidire di fronte all’Olocausto che si sta preparando. La differenza è che lo Stato ebreo stavolta è dalla parte dei nazisti. Poiché la politica non può rompere le trappole astratte, non credo che lo scontro finale sarà sul tema del denaro e della finanza. Sarà piuttosto relativo alla ridefinizione dei confini culturali del mondo.

Dopo la Seconda guerra mondiale i confini vennero stabiliti all’intersezione tra mondo libero occidentale e il totalitario impero orientale dell’Unione sovietica. Poi dopo il collasso dell’Unione sovietica i confini furono dichiarati irrilevanti nella prospettiva della globalizzazione. Ora il sogno politico della globalizzazione è stato cancellato dagli effetti culturali ed economici della deterritorializzazione globale, e perciò si ridisegnano i confini, ma le linee sono diverse da quelle del passato.

La vittoria di Trump, la tenacia strategica di Putin e l’effetto destabilizzante del cambiamento italiano convergono verso una nuova definizione del disordine del mondo. Non più occidente e oriente, non più democrazia liberale contro governi totalitari. Queste sono cose del passato. La democrazia liberale non c’è più e non ritornerà. Il totalitarismo non è più un affare dei governi ma è l’affare delle info-corporazioni globali. E il nemico non è più politico, ma culturale, religioso ed etnico. I confini opporranno il mondo del nord bianco e cristiano e le vittime del colonialismo passato e del presente suprematismo.

È lo scenario perfetto per l’apocalisse che il capitalismo ha preparato.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Il discorso pubblico di queste ultime ore – almeno quello mainstream: in televisione, sui giornali, sulla rete ­– restituisce con impietosa fedeltà l'immagine di un'Italia con tre destre.

Quella della Lega: la destra xenofoba, razzista, con importanti venature fasciste che ha in pugno il governo del Paese.

La destra di fatto: il Movimento 5 Stelle, che ha deciso di rinnegare il mantra per cui non era "né di destra né di sinistra" portando al governo la Lega, e qui praticando la genuflessione invece dell'attrito. Perché la chiusura dei porti disposta dal ministro Danilo Toninelli, nel silenzio vergognoso della cosiddetta sinistra interna, non lascia spazi di manovra retorica: di destra è chi la destra fa. Punto.

Infine, la destra per convenienza: il Partito Democratico. Che prima ha aumentato a dismisura diseguaglianza e ingiustizia sociale, poi si è identificato come il partito della "ristretta cerchia dei salvati" (Franco Marcoaldi) e ha praticato schiette misure da destra securitaria.

La prima conseguenza è che non c'è, oggi, una opposizione moralmente, culturalmente e politicamente credibile.

Prendiamo la vicenda orrenda della nave Aquarius bloccata in alto mare da un Salvini che contemporaneamente postava sui social la propria foto in posa mussoliniana accompagnata dall'hashtag #chiudiamoiporti.

Ebbene, chiunque può criticare questo atto di teppismo fascista: chiunque tranne chi ha sostenuto, o non ha apertamente e duramente criticato, le politiche del predecessore di Salvini, Marco Minniti. E questo vale per i parlamentari e i dirigenti del Pd, naturalmente: ma anche per tutta la stampa che ha sostenuto quella politica.

Perché davvero non è credibile lo sdegno per i 629 dell'Aquarius in bocca a chi ha plaudito o taciuto di fronte alle migliaia e migliaia di morti e di torturati in campi di concentramento libici voluti e sostenuti dall'Italia.

Ma il problema è assai più profondo. Nel gennaio del 2016, nel suo editoriale di insediamento alla guida di Repubblica, Mario Calabresi scriveva che "la nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda".

È andata davvero così, ma questa non è stata una conquista: anzi è la radice del disastro di oggi. I frutti avvelenati che cogliamo in questi giorni del 2018 si devono all'innesto che, Veltroni e D'Alema prima e infine Renzi, hanno praticato sull'albero della sinistra, snaturandolo.

La "modernizzazione" di Blair al posto della giustizia sociale e dell'eguaglianza: è da quella breccia che è venuto giù tutto. Negando – in pensieri, parole, opere e omissioni – la differenza tra destra e sinistra, e praticando attivamente politiche di destra economica e securitaria, la sinistra politica si è suicidata, aprendo all'attuale stagione delle tre destre.

Pensare di uscirne rilegittimando la destra di convenienza del Pd "è peggio di un crimine: è un errore". Cioè non è solo sbagliato culturalmente, ma è anche perdente: non funzionerà.

In concreto: se io votassi a Pisa o a Siena, non parteciperei ai ballottaggi. Perché non saprei scegliere tra i vecchi sindaci del sistema di potere del Pd e i candidati della Lega. Sono due facce della stessa medaglia: sono l'uno l'innesco dell'altro.

Esattamente come non avrei saputo scegliere tra la Clinton e Trump: perché un'eventuale vittoria della Clinton avrebbe preparato solo uno schianto ancora più grande. E se a Pisa o a Siena dovesse rivincere il Pd non sarebbe un nuovo inizio: ma un prolungamento di agonia che aprirebbe la strada ad esiti ancora peggiori.

Un esempio concreto: nella mia Firenze la moschea non c'è perché prima Renzi e poi Nardella l'hanno impedito in tutti i modi, in perfetta intesa con un vescovo drammaticamente di destra, esatto opposto della Chiesa di Francesco. Chi mai potrebbe correre a rivotare per Nardella, sindaco della terza destra, quando, l'anno prossimo, si profilerà anche a Firenze un sindaco della prima destra?

Non bisogna sopravvalutare il dato elettorale di domenica 10 giugno, perché il Movimento 5 Stelle è sempre stato debole alle amministrative. Ma non c'è dubbio che se lo schiacciamento sulla Lega continua, il Movimento è destinato a scomparire: ha già perso gli elettori di sinistra, e quelli di destra presto preferiranno il partito del capo (Salvini) al partito del pallido esecutore (Conte).

È in questo spazio che può rinascere una sinistra che non sia solo culturale e sociale (l'unica che oggi esista e che abbia una qualche voce), ma che si ponga anche il problema di costruire rappresentanza politica, e che magari perfino ci riesca.

È una strada lunga e stretta, perché, prima che politicamente, la sinistra va ricostruita nelle lotte, in un sindacato dei diritti e dunque nel senso comune. È una strada che prevede la totale rimozione delle macerie, di sigle e storie personali, che ancora giacciono in mezzo alla strada della sinistra.

Ma non ci sono alternative: se non quella di rassegnarsi all'Italia delle tre destre, senza opposizione.

E rassegnarsi non è possibile.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

openmigration.org.

Themis sostituisce la vecchia missione Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

Il 28 agosto 2014 la Lega non era ancora al governo, e Matteo Salvini si esprimeva così sulla sua pagina Facebook: “Secondo voi dire che FRONTEX PLUS è una PRESA PER IL CULO è troppo forte??? Il 18 ottobre TUTTI A MILANO per dire NO a Mare Nostrum, Frontex, Frontex Plus o come diavolo vorranno chiamare operazioni che, invece di respingere i clandestini, favoriscono l’invasione!”.

Frontex Plus, diventata poi Triton, è stata fino a febbraio di quest’anno la missione di Frontex a difesa della frontiere marittime italiane. Non è “indipendente”: infatti lo scopo è il supporto ai mezzi italiani impiegati per la ricognizione in mare, cioè Guardia di Finanza, Guardia costiera e Polizia di stato. L’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere – Frontex appunto – finanzia e aiuta il coordinamento della missione Themis, mentre i paesi partecipanti contribuiscono mettendo a disposizione uomini e mezzi, a seconda delle esigenze espresse dall’Italia.

Alla fine del 2016, la storia tra Salvini e Frontex ha preso un’altra piega: il Financial Times ha pubblicato il famoso report interno (ve ne raccontammo qui) in cui l’agenzia sosteneva che i trafficanti dessero ai migranti “precise indicazioni prima di partire per raggiungere le navi delle Ong”. Luigi Di Maio, ad aprile 2017, ha attribuito a un altro report di Frontex (Risk Analysis 2017) la tanto citata espressione “taxi del mare” per definire le Ong. Quella frase nel report non c’è, ma ci sono critiche all’atteggiamento poco collaborativo delle Ong e a salvataggi che avverrebbero “prima di chiamate d’emergenza”.

Quello è stato l’inizio delle intese tra Lega e Cinque Stelle sull’immigrazione, con Frontex citata a sostegno delle argomentazioni anti-Ong – il primo atto della campagna condotta dalla procura di Catania e dal suo capo Carmelo Zuccaro. “Io sto con Zuccaro, io sto con Frontex”, diceva Salvini a maggio 2017, “che certificano, sostengono e confermano quello che qualunque normodotato in Italia e nel mondo ha ormai intuito: l’immigrazione clandestina è organizzata, finanziata, è un business da 5 miliardi di euro e ha portato a 13 mila morti sul fondo del mare”.

Ora la missione di Frontex cominciata a febbraio è cambiata per nuove esigenze dell’Italia. La “revisione” del mandato è cominciata a luglio del 2017 per volere dell’allora ministro Marco Minniti, che aveva inserito questa missione nella strategia più complessiva dell’Italia in Libia. Come vedremo, il compito principale di raccordo con le autorità marittime locali lo svolge la Marina Militare.

La nuova missione di Frontex è stata battezzata Themis. È la prima a supporto di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” in mare.

Da paese di frontiera, è ovvio che l’Italia sia uno dei principali interlocutori di Frontex. Il fatto che il governo Lega-Cinque Stelle abbia in animo di respingere i migranti prima che sbarchino, presumibilmente anche con l’ausilio dei mezzi messi a disposizione da Themis, è invece un fatto unico.

Queste sono le caratteristiche della missione pensata da Minniti e che si ritroverà a gestire, invece, Matteo Salvini. E questo è il modo in cui la missione si inserisce all’interno del piano italiano ed europeo sulla Libia, spesso scoordinato e incomprensibile.

Le novità di Themis e l’allargamento del mandato deciso dal Viminale

Nella missione Themis partecipano insieme a Frontex 27 stati membri. La missione dispone di dieci navi, due elicotteri e altrettanti aerei e un budget annuale di 39 milioni di euro, con i quali Frontex paga sia per i propri mezzi, sia per quelli appartenenti ai paesi europei impiegati poi nella missione.

Themis ha alcune caratteristiche differenti rispetto alla precedente Triton. In primo luogo, come spiega il Viminale, il limite dalle coste italiane della linea di pattugliamento: Triton arrivava fino a 30 miglia nautiche dalle nostre coste, Themis si fermerà a 24, ossia il confine delle cosiddette acque continue. È il limite canonico delle acque di competenza di un paese, superato in occasione della missione Triton a causa delle condizioni particolari del 2014, il suo anno di nascita. C’è da ipotizzare che il lieve indietreggiare di Themis sia anche un modo per dare maggiore spazio di manovra alle nuove autorità libiche, alle quali l’Italia sta fornendo assistenza per realizzare a Tripoli un nuovo Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli.

Una seconda differenza tra Triton e Themis riguarda il mandato. Themis non ha come unico scopo il contrasto all’immigrazione irregolare, né si concentra solo sul Mediterraneo centrale: copre anche i flussi di uomini e droga nel Mediterraneo orientale (Albania e Turchia) e occidentale (Tunisia e Algeria), che erano fuori dal mandato di Triton. Uno spostamento di focus legato anche al calo negli sbarchi.

Le nuove aree interessano a Frontex e agli inquirenti italiani soprattutto per gli “sbarchi fantasma” dalla Tunisia. Pescherecci, barche a vela, motoscafi con poche decine di persone a bordo che sbarcano sulle coste della Sicilia meridionale senza che i migranti a bordo passino da strutture di accoglienza o identificazione: ogni loro spostamento è gestito da organizzazioni italo-tunisine. Sono vittime di tratta? Lavoratori forzati? Manodopera criminale? Potenziali terroristi? Le ipotesi sono tutte al vaglio degli inquirenti.

Sulla carta, poi, Themis rompe il vincolo stabilito da Triton per il quale ogni migrante salvato nella missione doveva sbarcare in un porto sicuro italiano. Al momento, però, non sono registrati sbarchi, a parte per urgenze mediche individuali, in porti diversi da quelli italiani. E il 7 giugno c’è stato l’ennesimo braccio di ferro tra Malta e l’Italia, quando le autorità dell’isola non hanno concesso a Sea Watch di sbarcare 120 migranti in un momento in cui l’imbarcazione dell’Ong era in difficoltà per le condizioni del mare. Ora, con il caso Aquarius, lo scontro con La Valletta è diventato aperto e duro.

Poca trasparenza

Da parte di Frontex c’è molta riservatezza sulle operazioni in corso. Piano operativo e contratti di utilizzo di ogni mezzo impiegato in mare sono i documenti fondamentali per capire esattamente cosa faccia Themis. L’agenzia per il pattugliamento delle frontiere, però, fino a oggi ha diffuso questo genere di documenti soltanto a missioni concluse.

“Nella mia esperienza, Frontex è molto riluttante a condividere i dati delle proprie missioni, soprattutto i piani operativi”, spiega Luisa Izuzquiza, ricercatrice indipendente che da un anno e mezzo deposita richieste di accesso agli atti presso gli uffici dell’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere. La motivazione con cui le viene negato l’accesso è sempre la stessa: la pubblica sicurezza.

A gennaio 2018, dopo l’ennesimo rifiuto, Luisa Izuzquiza ha portato Frontex di fronte alla Corte di giustizia europea per ottenere la pubblicazione dei contratti impiegati nella scorsa missione, Triton. Alcuni Stati membri, come la Svezia, non hanno avuto problemi a rendere pubblici i documenti con cui mettono a disposizione di Triton i propri mezzi. Tipologia di accordi e costi sono certamente molto simili anche nel caso di Themis. Le spese coperte interamente da Frontex sono un forte incentivo affinché i paesi diano il proprio contributo alle missioni.

Il coordinamento e i sistemi di condivisione dei dati

A partire da settembre 2015, la Commissione europea ha introdotto gli hotspot, sviluppati in via sperimentale in Grecia e in Italia, come prime strutture di identificazione dei migranti. A Catania c’è la sede della Task force regionale (Eurtf), che coordina le strutture italiane. Qui, per evitare sovrapposizioni fra le missioni gestite da ciascuno, siedono nello stesso ufficio uomini di Frontex, Easo (l’ufficio europeo per il sostegno all’asilo), Europol, Eurojust, operazione Sophia, polizia, Guardia di finanza e Guardia costiera.

Meno chiara, però, è la situazione dei canali di comunicazione delle diverse missioni, specialmente fuori dai confini europei. Il principale canale di condivisione dei dati per i paesi del Mediterraneo si chiama Seahorse Mediterraneo Network, una piattaforma utilizzata dalle polizie dei paesi dell’area allo scopo di “rafforzare il controllo delle frontiere”. È un database al momento adottato da Spagna, Italia, Malta, Francia, Grecia, Cipro e Portogallo. La Commissione europea ha messo sul piatto 10 milioni di euro per fare in modo che possano partecipare allo scambio anche Libia, Egitto, Tunisia e Algeria. Se ne discute da ormai tre anni, ma l’unico paese che sembra poterci (e volerci) entrare – tramite l’Italia – è la Libia. Vuol dire che la guardia costiera locale avrà accesso, almeno via Seahorse, agli stessi database marittimi delle nostre forze dell’ordine.

Nella “Relazione sulla performance per il 2016” del Viminale si legge che Seahorse “è stata installata nel Centro Interforze di Gestione e Controllo (Cigc) Sicral di Vigna di Valle (Roma), teleporto principale del Ministero della Difesa, mentre presso il Centro Nazionale di Coordinamento per l’immigrazione “Roberto Iavarone” – Eurosur, sede del Mebocc [Mediterranean Border Cooperation Center], sono stati installati gli altri apparati funzionali alla rete di comunicazione”.

Il nodo italiano, dunque, sembrerebbe operativo: Seahorse è gestito dal Cigc Sicral, mentre il database-ombrello per mappare in tempo reale tutto ciò che sta accadendo in mare, Eurosur, è gestito dal Centro Roberto Iavarone, che è anche sede del Mebocc, la centrale operativa da cui passano le comunicazioni tra paesi europei, Frontex e paesi terzi.

Nella stessa relazione c’è anche un secondo passaggio, che conferma la partecipazione dei libici: si legge che nel 2016 in tutto sei “ufficiali della Guardia Costiera-Marina Militare Libica” sono stati ospitati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche e per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto Sea Horse Mediterranean Network. Non è chiaro, al momento, se gli ufficiali libici hanno poi avuto l’accesso al sistema Seahorse anche da Tripoli.

La sovrapposizione fra Marina militare italiana e autorità marittima libica

Nel Mediterraneo centrale agisce poi la Marina militare. Rispetto alle tre forze dell’ordine che collaborano con Frontex ha altre regole di ingaggio e un’altra linea di comando. Come ora vedremo, ha anche altre priorità.

Oltre a partecipare alle operazioni congiunte di Eunavformed, infatti, la Marina militare italiana ha riattivato la cooperazione con la Libia nata nel 2002, all’epoca di Gheddafi, con il nome in codice di Nauras. Difficile sapere quali navi vengono utilizzate e quali siano gli obiettivi strategici attuali dell’accordo militare tra Roma e Tripoli.

I pochi elementi certi sono emersi grazie al caso giudiziario che ha portato questa primavera prima al sequestro e poi al dissequestro della nave Open Arms, fermata alla fine di marzo 2018 dopo un salvataggio in zona Sar, che aveva visto un duro scontro con le motovedette libiche. Attraverso le informative del comando generale della Guardia costiera italiana, i magistrati – prima di Catania e poi di Ragusa – hanno potuto ricostruire la gestione dei salvataggi del 15 marzo, quando il Mrcc di Roma aveva affidato il coordinamento delle operazioni alle motovedette libiche. Lì emergeva che la nave Capri della Marina militare italiana era intervenuta fin dalle prime ore del mattino parlando con Roma per conto di Tripoli e chiedendo espressamente di fermare l’intervento della Ong – le informative riportano anche un messaggio partito dall’addetto militare italiano a Tripoli.

Dai brogliacci delle comunicazioni partite e ricevute dal Mrcc di Roma durante le operazioni di salvataggio si ricava inoltre che la Marina militare è intervenuta più volte – sia da unità navali inserite nell’operazione Nauras, sia dal Comando della squadra navale (Cincinav), che dipende direttamente dallo Stato maggiore della Difesa. Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una relazione del comando di un’altra nave militare coinvolta, la Alpino – qui nelle vesti di polizia giudiziaria e presente a poche miglia dall’area di salvataggio dove stavano agendo contemporaneamente la Open Arms e la Guardia costiera di Tripoli.

Lo stretto legame che esiste tra la Guardia costiera libica e la Marina Militare italiana appare ancora più evidente da un messaggio inviato dal comando delle motovedette libiche al Mrcc di Roma. Il numero di telefono del mittente – ovvero dell’autorità marittima libica – ha il prefisso +39 della rete italiana, e porta direttamente alla nave Capri. In altre parole, se chiami la Guardia costiera libica risponde la Marina militare italiana. E non è l’unico caso. Un paio di mesi dopo, la nave di soccorso tedesca Sea Watch ha ricevuto una telefonata dai libici durante un’operazione di salvataggio, che appariva sul display con un numero italiano.

Quanto siano coinvolte la Marina militare e la Guardia costiera italiana nel respingimento dei migranti è un tema che presto verrà affrontato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a discutere una denuncia presentata nei mesi scorsi contro le autorità di Roma.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

il manifesto 12 giugno 2018, Ecco come e perché la cecità dei governanti, la voracità dei padroni e il risorgente razzismo colonialista dell'Europa rappresentata da Salvini sta divorando se stessa e il suo futuro. Con commento, (e.s.)

Diventa sempre più facile individuare quali sordidi interessi e quale inguaribile cecità si nascondano dietro l’ipocrisia di Matteo Salvini, odierna espressione della peggiore Europa finora conosciuta. Sono governanti accecati dall’ignoranza quanti ritengono che la marea della fuga creata dai colonialismi nordatlantici possa essere arrestata, quale che sia l’altezza e la virulenza delle barriere che si possano costruire. La presunzione razzista fa credere ai governanti europei che i barbari siano quelli che hanno la pelle scura, non si accorgono che sono invece i “bianchi” rappresentati da Salvini i veri “barbari” di questo millennio.
Dietro la cecità si camuffa una realtà forse ancora più sordida: la massa di clandestini che l’impossibile respingimento provocherà, procurerà, ai padroni delle fabbriche e delle terre, una massa di manovalanza acquistabile a pochi soldi, in aggiunta agli indigeni dell’Europa, già in sempre più larga misura ridotti alla condizione precaria. Questo e altro ci racconta Guido Viale nell'articolo che segue (e.s.)

il manifesto,
12 giugno 2018
La Fortezza Europa ringrazia Salvini
di Guido Viale

«Garantiamo una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia». Così il ministro della Repubblica Salvini, nell’atto di negare l’accesso ai porti italiani a una nave di Sos Mediterranée con a bordo con 629 profughi (non tutti «ragazzi»; ci sono anche 7 donne incinte, 11 bambini e 123 minori non accompagnati). Ora ad accoglierli sarà la Spagna e non sarà facile, anzi. Ma poi c’è in vista anche il blocco di una seconda nave, la Sea Watch, in attesa di altri naufraghi salvati da navi mercantili e di decine di gommoni stracarichi che non troveranno più navi delle Ong a raccoglierli, per le quali si prospettano ulteriori e drammatiche strette.

La «vita serena in Africa» che Salvini offre a quei ragazzi è il ritorno in Libia.

Con le donne stuprate in modo seriale, gli uomini venduti come schiavi e tutti e tutte torturate, affamati, ricattate, ammazzati come insetti. Quanto a quella garantita ai «nostri figli», anche per loro c’è l’emigrazione; certo in condizioni di maggiore sicurezza, ma per andare a fare i lavapiatti dopo una laurea o un diploma.
Così si svuotano i paesi «periferici» – dell’Africa, con il politiche coloniali tutt’altro che finite; ma anche dell’Europa, con l’«austerità» – delle forze migliori; purché quelle peggiori continuino a governare.

«Tutta l’Europa si fa gli affari suoi», aggiunge «vittorioso» Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto di tutti coloro che sono al governo dei paesi europei. Perché per difendersi dal «nemico» – che ormai sono i profughi, e solo loro – la Fortezza Europa ha tracciato due distinti confini: uno alle frontiere esterne dell’Unione: muri, reticolati, filo spinato, guardie, cani, hot spot, eserciti, navi militari, leggi, regolamenti di polizia, accordi e laute mance per i governi dei paesi di transito, truppe mascherate da consiglieri e chilometri di costosissimi impianti di sorveglianza. L’altro alla frontiera delle Alpi (e a Idumeni o a Lesbo), per impedire a chi è già arrivato in Europa senza affogare di raggiungerne il cuore: i paesi dove ha parenti, amici, compatrioti che lo aspettano e forse persino la possibilità di trovare lavoro.

Per questo le alternative, per l’Italia e il suo governo, sono due: o rafforzare ulteriormente il primo di questi confini o cercare di «sfondare» il secondo. Salvini, in perfetta continuità con il predecessore Minniti, ha scelto la prima, aumentando la dose con il blocco dei porti e rivendicando per sé una responsabilità che i suoi colleghi europei non hanno il coraggio di assumersi: di far affogare, morire di fame e di sete, respingere e rinchiudere nel lager libico i fuggiaschi che l’Europa non vuole accogliere.

Ma Salvini sostiene, con questa sua scelta, di voler mettere alle strette il resto d’Europa: non rivendicando l’apertura dei confini alle Alpi, la libera circolazione di profughi e richiedenti asilo, un grande piano di investimenti – magari, per la rigenerazione ambientale dell’Europa – che offrirebbe occasioni di impiego anche a tutti i nuovi arrivati e ne favorirebbe l’accettazione da parte delle comunità locali (preparando magari anche le condizioni per un ritorno volontario, dopo qualche anno, nei paesi da cui sono scappati, per ricostruirlo). Senza un piano del genere, infatti, anche l’accoglienza non ha futuro.

Invece Salvini chiede un maggior impegno europeo nel rafforzamento dei confini «esterni»: più soldi a chi si impegna nei respingimenti, più navi a sbarrare le rotte marine, più leggi e regolamenti liberticidi, più deroghe alle convenzioni internazionali, più campi di concentramento fuori dei confini dell’Unione, ecc. Per questo, di fronte a una timida proposta di riforma della convenzione Dublino 3 – che impone ai profughi di rimanere nello stato di approdo – Salvini si è alleato con i governi più ferocemente ostili ai migranti, quelli capeggiati dall’ungherese Orbán, le cui politiche comportano di fatto un aggravamento degli oneri che gravano sull’Italia.

Salvini queste cose le sa, come sa che i respingimenti su cui ha basato tutta la sua campagna elettorale sono impossibili e si risolvono solo in più «clandestinità», lo «stato giuridico» dei senza diritti istituito dalla legge Bossi-Fini. Centinaia di migliaia di profughi e migranti senza permesso di soggiorno, o perché «denegati» per le spicce, o perché rimasti senza lavoro; tutti messi per strada e costretti ad arrangiarsi: a cader vittime della tratta, a raccogliere arance e pomodori o mungere vacche nei tanti lager dispersi in tutte le campagne del paese, a rischiare la vita nei cantieri illegali, ad elemosinare o a farsi reclutare dalla malavita, ad accamparsi sotto i viadotti. È questa la situazione che «crea allarme» nel paese e su cui Salvini e i partiti come il suo stanno costruendo le proprie fortune elettorali – ma non solo – in tutta Europa; nel doppio ruolo di vittime e di persecutori di un popolo di persone private di tutto: nella speranza che nessuno possa o voglia più guardare negli occhi quegli esseri umani senza diritti.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Lettera da Parigi. Anche dall'estero qualcuno segue gli scandali peggiori che avvengono nel Belpaese. L'assassinio di Peppino Impastato da parte della mafia 40 anni fa, è ricordato da un Memoriale a Cinisi, Che cosa ricorderà gli scandali compiuti da signori in giacca e cravatte e senza sacrifici umani evidenti? (e.s.)

Don Ciotti, il creatore di Libera, ha osservato, qualche giorno fa, a proposito della mafia, che «nessuno in campagna elettorale ne aveva parlato perché disturba» [1]. Nella rivista MicroMega del 30 aprile, due giornalisti minacciati personalmente dai criminali, Amalia De Simone e Sandro Ruotolo, hanno intitolato un loro articolo: «La mafia è scomparsa dalla televisione e dai giornali».

Anche quando Sergio Mattarella fu eletto, pochissimi giornalisti osarono ricordare che il nuovo Presidente della Repubblica aveva tenuto tra le suoe braccia suo fratello morente, Piersanti, ucciso nel 1980 da Cosa Nostra, con la probabile complicità di Andreotti. Roberto Scarpinato, procuratore nel processo del 2003 contro Andreotti, ricorda che contrariamente a quel che si dice e scrive, la Corte ha stabilito che l’Inossidabile ha collaborato con Cosa Nostra, era informato della sua decisione di uccidere Piersanti Mattarella, non ha impedito il crimine e non ha denunciato i criminali.

Ma, a causa della sopravvenuta prescrizione, la corte non ha potuto condannare Andreotti, che eriuscito a fare tacere giornali e TV su tutto questo[2].

E quando pure la stampa osa menzionare i crimini della mafia, talvolta commette gravi omissioni. Il 29 aprile l'Espresso ha dedicato nove pagine e la copertina a Peppino Impastato, massacrato 40 anni fa da Cosa Nostra[3]. Ma solo quattro righe menzionano, limitandosi a ricordare l'evento e senza nemmeno citare ll lavoro paziente a accurato che Umberto Santino e sua moglie Anna Puglisi, stanno compiendo volontariamente da anni, creando, coltivando e animando il centro Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato".

Il giovane Peppino Impastato, nato a Cinisi in una famiglia mafiosa, aveva rotto con la parentela, svolgendo una serie di attività, tra cui la radio: aveva creato "Radio Aut", e denunciava i potenti mafiosi del paese e i loro complici. Il 9 maggio 1978, il corpo di Peppino è stato trovato sui binari della ferrovia, fatto a pezzi da quattro chili di tritolo.

Gli investigatori hanno immediatamente concluso che Peppino era un terrorista maldestro, vittima della carica che stava portando per preparare un attentato. Subito dopo il delitto, Umberto Santino e Anna Puglisi, coraggiosi combattenti contro la mafia, hanno avviato un lavoro per salvare la memoria di Peppino e ottenere giustizia;. Tra l'altro hanno organizzato una manifestazione nazionale nel 1979, riunendo a Cinisi 2000 persone. E' stata la prima manifestazione antimafia della storia d'Italia.

Ma sono stati necessari vent'anni di azione congiunta del Centro siciliano di documentazione Peppino Impastato, del fratello di Peppino e della sua madre, perché la giustizia sia giunta a riconoscere l'omicidio e a denunciare i colpevoli. Il boss che ha ordinato la strage, Tano Badalamenti, è stato condannato solo nell'aprile 2002. Il Centro Impastato ha dovuto lanciare una petizione per chiedere la riapertura del caso, che era stato prudentemente chiuso dalla giustizia nel 1992.

Oggi Anna Puglisi e Umberto Santino [6] stanno lavorando alla realizzazione di un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia. La loro azione costante dimostra che cittadini coraggiosi e ostinati possono, a rischio della loro vita, costringere l'apparato statale a riconoscere verità che disturbano troppe persone sul ruolo delle mafie. Ciò è particolarmente utile in questi anni,, allorché sono arrivati al governo dell’Italia, fascisti nostalgici[7] e figure inquietanti anche per altre ragioni.

Abbiamo letto che si è ampiamente discusso sull'inserimanto nel nuovo governo del professor Paolo Savona. Questo nome ci ha ricordato un altro scandalo italiano: l'intervento sulla Laguna di di Venezia denominato MOSE: un intervento scandaloso per ragioni diverse della mafia ma paragonabile a essa per l'effetto di corruzione su vasti corpi sociali. Ma di questo scriveremo in una prossima occasione, Perchè lo scandalo sembra prosegiore e aggravarsi con nuove devastanti iniaiative

Ci siamo ricordati che Savona è stato [8] presidente del Consorzio Venezia Nuova, il potente blocco d'intessi finanziari, immobiliari, industriali privati cui lo Stato ha affidato la gestione di una straordinari . Il nuovo ministro aveva affermato: “Le critiche sono prive di fondamento, il progetto delle opere mobili è tra i più studiati e più moderni del mondo”. Il Mose, diga galleggiante che avrebbe dovuto salvare Venezia dalle acque, non funziona ancora, deve essere già restaurata e causa gravi danni alla Laguna di Venezia che non proteggerà mai. Secondo il procuratore Scarpinato,[9] “uno dei più famosi casi di corruzione è il Mose di Venezia, 2 miliardi il costo iniziale previsto e costo finale, invece, di 6 miliardi, di cui 4 di spesa di corruzione. » E questi 4 miliardi « sono tagli agli ospedali, alle scuole, alle pensioni… »

9 giugno 2018, Parigi

[1] Silvia Bignami. 30 Maggio 2018. http://www.libertaegiustizia.it/2018/05/30/don-ciotti-ben-venga-governo-m5s-lega-ma-rispettino-la-costituzione/ et http://bologna.repubblica.it/cronaca/2018/05/30/news/don_ciotti_governo_m5s_lega-197736822/

[2] Saverio Lodato, Roberto Scarpinato. Il ritorno del Principe. Chiarelettere. 2008. Leggere anche :Umberto Santino. L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri. Ed. Rubbettino. 1997.

[3] http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/04/26/news/ancora-cento-passi-contro-la-mafia-1.321074

[4] Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato". http://www.centroimpastato.com

[5] Arles Arloff (Arlette Portnoff). Italie, un pouvoir corrompu. Futuribles n°381, gennaio 2012.

Ho incontrato nel 2003 e 2008 Anna Puglisi e Umberto Santino a Palerme. Arlette Portnoff.

http://www.eddyburg.it/2018/06/un-razzifascista-al-viminale.html

[https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/27/paolo-savona-e-il-ruolo-chiave-nellideazione-del-mose-indispensabile-critiche-sono-senza-fondamento/4384651/

[9] Di Matteo e Scarpinato: “La mafia non spara più, i politici se li compra” MicroMega, 5 settembre 2017. http://temi.repubblica.it/micromega-online/di-matteo-e-scarpinato-“la-mafia-non-spara-piu-i-politici-se-li-compra”/

Riteniamo che questo sia non solo è ingiusto nei confronti dei creatori a Palermo del primo centro italiano di documentazione sulle mafie, il Centro Peppino Impastato[4], ma è anche antipedagogico. In effetti, questa storia illustra la penetrazione della criminalità organizzata nello Stato italiano, fino nei servizi d’ordine e giudiziari, per non parlare della classe politica

la Nuova Venezia,

LA BATTAGLIA DI GHOLAM NAJAFI
«VENIAMO DALLA POVERTÀ PIÙ ASSOLUTA, SENZA UNA IDENTITÀ»
di Vera Mantengoli

Lettera al capo dello Stato per la cittadinanza

«Veniamo da villaggi e città poverissime e non abbiamo una identità. Io come afghano, quando vado in Ambasciata per un semplice rinnovo del passaporto, mi sento chiedere i documenti dei miei genitori. Ma i miei genitori sono morti senza alcun documento». Gholam Najafi è arrivato al porto di Venezia nel 2007, all'età di 16 anni, dopo un viaggio della "speranza", in fuga dall'Afghanistan in guerra, iniziato a 10 anni. Era un minore non accompagnato, senza certezze sulla data di nascita, senza istruzione di base. Aiutato dai servizi sociali e affidato ad una coppia muranese che è la sua famiglia, Najafi oggi fa il portiere di notte; ha conseguito il diploma di scuola media superiore poi ha preso una laurea triennale e infine quella magistrale a Ca' Foscari. Porta la sua storia, raccontata nel libro Il mio Afghanista nelle scuole per parlare di immigrazione, guerre e migranti con i ragazzi.

Alla notizia del connazionale, morto sul camion in A57 mercoledì, Gholam si rattrista. Per uno che ce la fa, come lui, tanti vivono tragedie, legate al rimpatrio. «Molti si suicidano per non essere rimpatriati, perché siamo tutti consapevoli di ciò che avviene nei nostri paesi. E nessuno ne parla. Nessuno vorrebbe lasciare il proprio villaggio e i propri parenti ma cerca una illusione di vita vera lontano». Per Gholam il rimpatrio è disperazione. «Oggi i nostri paesi sono indeboliti, non siamo ancora in grado di viaggiare con un documento in regola ma siamo costretti a salvarci dalla guerra», racconta. Altro che "pacchia", per dirla alla Salvini. Per Najafi le storie di molti clandestini sono ben più complicate di quanto la politica pensi. I documenti, a volte, neanche esistono. Come nel suo caso. Per questo Najafi ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non riesce ad ottenere la cittadinanza per l'assenza di documenti originali nel suo paese. «Mi rivolgo a Lei nella speranza che ciò che le Ambasciate, italiana e afghana, e la Prefettura di Venezia non possono fare per la particolarità del mio caso, possa essere affrontato e reso più facile con la serenità di giudizio del Presidente di quello che considero il mio Paese», è il passo finale della sua lettera. Con cui chiede di avere una identità, finora negata.

AMADI: «MODIFICARE IL TRATTATO DI DUBLINO»
di Vera Mantengoli

«L'ideatore dell'Orient Experience: “La politica deve creare luoghi di condivisione, non dividere”»

Ha ancora davanti agli occhi le immagini di Zaher Rezai e nelle orecchie i versi intensi delle poesie del giovane afghano, morto schiacciato da un Tir nel 2008, cercando di sfuggire ai controlli di frontiera del Porto. Hamed Amadi, imprenditore afghano ormai venezianizzato di 38 anni, ideatore dell'Oriente e African Exprience, a quel tempo faceva da interprete per le forze dell'ordine. Fu lui a chiamare i genitori di Zaher e comunicare l'orrenda realtà: «Le pagine erano piene di piantine di immobili e all'inizio si pensava che potesse essere la bozza di un piano» ricorda Hamed Amadi. «Quando iniziai a tradurre i versi, capii che scriveva poesie nel quaderno che usava probabilmente come falegname in Afghanistan e mi misi a piangere. Erano piantine di case afghane, con appunti degli interventi da fare».

Amadi è arrivato in Italia nel 2006, a 25 anni, come regista. Doveva essere un viaggio di piacere alla Mostra del Cinema al Lido, ma dopo la proiezione del suo film Maama, iniziò a ricevere minacce di morte dai talebani e chiese asilo in Italia. Iniziò come interprete e al Forte Rossariol, dove vivevano i rifugiati minori, inventò le cene in cui ognuno preparava un piatto del proprio Paese. Il successo che ebbero è quello che oggi lo ha portato a gestire cinque locali e 75 dipendenti con una sola ricetta: mescolare le culture. «Pur essendo coinvolto in tante tragedie» ricorda «quello che mi è sempre rimasto dentro è stato vedere il coraggio e i sogni di chi intraprendeva un viaggio di quel tipo. Parliamo di persone che lasciano tutto pur di inseguire una speranza ed è questo coraggio che lo Stato dovrebbe cogliere perché chi mette in gioco la propria vita per il sogno di una vita migliore, ha tantissimo da dare, ma bisogna metterlo nelle condizioni di farlo».

Secondo Amadi «la pacchia» di cui ha parlato il neoministro dell'interno Matteo Salvini è il risultato di una precisa scelta politica: «Il governo attuale sta facendo un autogol se non modificherà il Trattato di Dublino, l'origine di tante tragedie. Non serve militarizzare le frontiere perché chi vuole scappare troverà sempre un modo di farlo. Sono per la fotosegnalazione, ma non per bloccare le persone in uno Stato dove magari non vogliono nemmeno stare. Inoltre quella che chiama pacchia Salvini è la conseguenza dei tempi lunghissimi di attesa che uccidono ogni speranza. Chi attende non può lavorare, non può fare nulla». Hamadi è per la creazioni di spazi in cui le culture si possono conoscere: «La politica dovrebbe fare questo, trovare dei luoghi di condivisione» spiega «Quando le persone si conoscono da vicino le distanze culturali spariscono e si capisce che siamo un'unica grande famiglia.

MORTO NEL TIR
ERA IN FUGA DALL'AFGANISTAN
di Carlo Mion

«Il giovane di circa trent'anni si era nascosto nel vano portaoggetti al porto di Patrasso. La procura ha disposto l'autopsia»

Gli inquirenti sono convinti che l'uomo trovato morto all'interno del porta oggetti del rimorchio del Tir fermato lungo l'A57 mercoledì dalla polizia stradale, sia afghano. Il camion greco, sbarcato al porto di Venezia, era partito da Patrasso dove ancora oggi migranti afghani cercano di salire sui mezzi diretti in Italia per raggiungere l'Europa. Anche se in maniera decisamente minore rispetto al passato quando almeno tre compagnie di traghetti garantivano i collegamenti tra i porti della Grecia e quelli italiani sull'Adriatico.Le indagini. Ad occuparsi della sua morte sono gli agenti della Squadra Mobile di Treviso e la procura del capoluogo della Marca. Infatti il camion al momento del controllo è stato fermato dalla polizia stradale all'altezza di Venezia Est, ma in provincia di Treviso.

Il pubblico ministero di turno ha disposto l'autopsia per stabilire le cause della morte e il rilievo delle impronte per risalire alla possibile identità. Morto da giorni. I poliziotti della stradale si sono accorti della presenza del morto perché, durante il controllo, avvicinandosi al vano porta oggetti che si trova sotto al rimorchio, hanno sentito un forte odore. Fatto aprire il vano la tragica scoperta. Secondo il medico intervenuto sul posto, il corpo in avanzato stato di decomposizione era lì da diversi giorni anche se va sottolineato che le temperature elevate di questi giorni sia in Grecia che da noi, hanno accelerato il processo di decomposizione. Questo è avvenuto ancora di più mentre il camion imbarcato a Patrasso è rimasto nella stiva del traghetto, dove si toccano temperature anche oltre i 35 gradi.

Quasi sicuramente si tratta di una morte da malore causato da alte temperature. Il porto dove è avvenuto l'imbarco, il sistema usato per nascondersi e la destinazione, fanno pensare che si tratti di un afghano che voleva raggiungere l'Europa. L'autopsia consentirò di controllare se in quel che resta degli abiti avesse dei pezzi di carta o qualche cosa per risalire all'identità. Per gli inquirenti, fino a questo momento, non ci sono elementi per dire che il camionista era a conoscenza che nel suo camion si era nascosto un clandestino. L'unica cosa strana è che dal momento in cui è andato a prendere il camion in stiva non abbia mai sentito il cattivo odore che usciva dal vano oggetti. La rotta abbandonata. Da quando colpa la crisi, delle tre compagnie di traghetti greche che collegavano i porti di quel paese con quelli italiani, ne è rimasta una sola che garantisce pochi collegamenti settimanali con Venezia, questa rotta è stata abbandonata dai clandestini afghani per raggiungere l'Europa centrale e la Scandinavia.

Nigrizia online,
Non tutti gli italiani sono complici dell'efferata campagna razzista, e nazista dell'uomo che Di Maio e i suoi compari hanno scelto come ministro dll'Interno, e della politica di respingimento dei profughi e migranti che sta perseguendo. Ma lo diventeranno se non saranno capaci di utilizzare per fermarlo gli strumenti di cui dispongono dalla protesta di massa, allo sciopero e al voto. Qui sotto l'appello di Nigrizia. Ma in Italia per la giustizia e l'umanità si mobilitano solo i preti? (e.s.)

, 11 giugno 2018
Migranti. Appello dei missionari comboniani

I missionari comboniani si dicono "esterrefatti e indignati" per il rifiuto del ministero dell'Interno di concedere l'approdo a una nave carica di migranti. Chiedono al governo di proseguire sulla strada dell'accoglienza e a Bruxelles di spostare nel Mediterraneo l'epicentro delle politiche europee.

Come cittadini e cristiani siamo esterrefatti e indignati della decisione del ministro degli interni Matteo Salvini che impedisce alla nave Aquarius di portare in salvo nei porti italiani 629 migranti, salvati in acque territoriali libiche.

Il rifiuto di prestare soccorso ai migranti non ha precedenti nella nostra storia ed è in flagrante violazione delle convenzioni internazionali, di cui anche l’Italia è firmataria, che obbligano il soccorso in mare a chi è in pericolo di morte.

Tra i migranti sulla nave ci sono oltre cento minori non accompagnati e sette donne incinte. Una cinquantina di migranti sono stati salvati mentre erano a rischio di morire annegati.

Deploriamo la decisione di Malta, prima destinazione di sbarco, che si è rifiutata di accettare l’attracco della nave Aquarius. Così come la chiusura di Francia e Spagna ad ogni possibilità di accoglienza dei migranti. Ma è deplorevole e vergognoso che l’Italia decida di allinearsi, facendo così pagare a persone innocenti, bisognose di aiuto, il prezzo di una diatriba tra stati su chi si debba assumere la responsabilità di accogliere i migranti.

Chiediamo pertanto che il nuovo governo italiano ritorni sulla decisione presa dal ministro Salvini e dia immediatamente il benestare alla nave Aquarius di approdare a uno dei porti italiani più vicini a dove si trova ora la nave.

È vero, l’Italia non può essere lasciata sola di fronte a un fenomeno migratorio che ha una portata enorme e implicazioni internazionali (specie nel bacino del Mediterraneo) che chiamano in causa l’attenzione e il peso geopolitico dell’Unione Europea. È quindi corretto e giusto che il governo italiano faccia sentire le propria voce a Bruxelles, chiedendo ai partner europei di farsi carico, anche loro, del dossier migranti.

Ma nello stesso tempo l’Italia non può sottrarsi al dovere di accogliere persone che, in gran parte, cercano di costruirsi una vita migliore in Europa e che, in alcuni casi, fuggono da guerre e da regimi dittatoriali.

È importante che l’Italia mantenga un doppio ruolo: essere un porto sicuro per i migranti e nel contempo non smettere di sollecitare l’Europa a trovare soluzioni percorribili (non semplicemente fondate sul controllo militare delle aree di transito dei migranti, come avviene in Niger e Mali), anche nei paesi di partenza dei migranti.

I partner europei devono essere sollecitati a spostare il baricentro delle proprie politiche verso il Mediterraneo. È qui - in particolare attraverso la pacificazione e la stabilizzazione degli stati nordafricani - che si possono cominciare a costruire nuovi equilibri politici ed economici.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

L'Aquarius con 629 migranti a bordo attende nel Mediterraneo. Salvini chiude i porti e pretende che sia Malta ad accoglierli, che rifiuta. Tanti esultano del braccio di ferro, ma alcuni comuni del sud, da Reggio C. a Taranto, Napoli e Palermo sono pronti a disobbedire al governo, facendo l'unica cosa possibile: accoglierli.

Osservatorio Diritti

Lo ha scoperto l'Osservatorio Mil€x da documenti del ministero della Difesa. Una svolta epocale nella storia militare italiana: per i droni militari sarà possibile attaccare, non solo fare missioni di ricognizione. A questo si aggiunge il costo per rinnovare il parco droni con nuovi esemplari. Un investimento da 700 milioni di euro.

L’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dal 2015, il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense. Finora sembrava che il progetto di trasformarli in delle vere e proprie armi da guerra non dovesse andare in porto.

Invece, come rivela Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, nel suo rapporto Droni, Dossier sul APR militari italiani, sul piatto ci sono già 19,3 milioni di euro, di cui 0,5 spesi nel 2017 e 5 da spendere nel 2018. La voce, contenuta in documenti ufficiali del ministero recuperati da Mil€x, è definita stanziamento per sviluppare «capacità di ingaggio e sistema Apr Predator B». Tradotto dal gergo militare, significa che i droni italiani (Apr, aerei a pilotaggio remoto) Predator B hanno cominciato la procedura per l’armamento.
Il costo dei droni militari italiani

Finora l’Italia ha stanziato 668 milioni di euro in droni, principalmente allo scopo di acquistare mezzi da ricognizione. Duecentoundici milioni sono stati spesi all’interno del programma Nato Alliance ground surveillance (Ags), attraverso cui si sono acquistati in tutto 15 velivoli (uno costa circa 187 milioni di euro).

Altri 142 milioni di euro sono stati spesi per sei Reaper prodotti dalla statunitense General Atomics. Sono questi i famosi Predator B che l’Italia sta armando, visto che il loro scopo, oltre alla ricognizione, è l’attacco. Terza voce di spesa la partita di nove Predator A (di cui due precipitati) acquistati tra il 2004 e il 2015: 95 milioni di euro.
I droni militari americani che partono da Sigonella in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.
La questione droni in Italia finora è sempre passata sotto silenzio. Anche quando a settembre dello scorso anno la Repubblica ha dato la notizia di attacchi missilistici effettuati da droni americani in Libia partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.

Italia: i nuovi droni militari della Piaggio Aerospace

Fin qui lo stato dell’arte, con le spese già effettuate. Il bilancio della difesa però potrebbe raddoppiare. L’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, a febbraio, ha presentato al Parlamento una richiesta per 20 nuovi droni militari P2HH, armabili, per sostituire il vecchio parco velivoli (Predator A e B). Li produce Piaggio Aerospace, azienda con sede ad Albenga, in Liguria, dal 2014 controllata al 100% dal fondo d’investimento Mubadala degli Emirati Arabi Uniti.

La società ha passato anni travagliati sul piano economico. La sua crisi, che ha fatto sfiorare il fallimento al comparto Aerospace, si è acuita con lo sviluppo del primo prototipo di droni Piaggio, i P1HH, uno dei quali scomparso misteriosamente nel Mediterraneo.

Lo scorso anno, il fondo Mubadala ha iniettato nell’azienda 700 milioni di euro per prendere un minimo di ossigeno. La commessa dell’Aeronautica italiana potrebbe essere la spallata per farla uscire dalla crisi.

I dubbi intorno al programma, però, sono molteplici. La commessa vale 15 anni e 766 milioni di euro: 51 milioni all’anno. Non solo: i primi prototipi si vedranno nel 2022. Per altro, il progetto rischia di sovrapporsi al più ambizioso progetto europeo Male 2025(Medium altitude long endurance), a cui partecipano consorziate le più grandi compagnie che si occupano di sistemi di difesa in Europa, compresa l’italiana Leonardo. L’Italia ha investito nel progetto 15 milioni di euro.


Altre spese inutili per gli F35: prezzo medio 190 milioni

Il ministero della Difesa non è nuovo a investimenti discutibili per rinnovare la flotta aerea. L’esempio più clamoroso sono gli F-35: il volo inaugurale degli esemplari acquistati dalla Royal Air Force (Raf) britannica, avvenuto a giugno, è stato definito dal «imbarazzante» e «patetico» dal Times di Londra. Gli aerei sono prodotti da Lockheed Martin e assemblati in Italia da Leonardo.

Dieci di questi cacciabombardieri sono stati già consegnati, al prezzo medio di 150 milioni di euro l’uno, a cui si aggiungeranno altri 40 milioni di euro di “ammodernamento” di ogni singolo aereo, nato già vecchio. La Corte dei conti, l’estate scorsa, nella relazione sulla Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter – F35 Lightning II, il programma di sviluppo dei nuovi cacciabombardieri, ha detto:

«Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021».

Si poteva fare meglio, anche perché ai ritardi hanno fatto seguito aumenti dei costi.
Mil€x ha scoperto che al già costoso programma la ministra Pinotti ha aggiunto un’ulteriore commessa di otto F-35, arrivando a un totale di 26 nuovi aerei. L’ultimo Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa redatto sotto la ministra Pinotti, prevedeva un esborso di 727 milioni per quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

il manifesto,

In un’intervista del ministro Salvini a Repubblica.tv, diventata virale sui social, il leader della Lega invitato dall’intervistatore a mandare un messaggio al sindaco di Riace “Lucano” ha testualmente risposto: «Al sindaco di Riace non dedico neanche mezzo pensiero. Zero. È lo zero».

Questa risposta si commenta da sé e il ministro dovrà risponderne di fronte ai calabresi, ai meridionali e a tutti le italiane e gli italiani che in questi venti anni son venuti a Riace per tirare una boccata di ossigeno, per scoprire come si possa convivere tra tante etnie e culture diverse, per vedere con i propri occhi quello che un grande regista tedesco ha dichiarato di fronte a dieci premi Nobel per la pace: «A Riace, un paesino della Calabria, ho scoperto la vera civiltà e quale potrebbe essere il nostro futuro». È successo nel 2009, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, quando Wim Wenders, dopo aver girato un docufilm su Badolato e Riace, ha così esordito stupendo la stampa di mezzo mondo.

Chi come chi scrive ha vissuto l’esperienza di Riace fin dall’inizio, ha visto rinascere un paese completamente abbandonato, ha esultato come calabrese e meridionale nel vedere Riace citato dai mass media di tutto il mondo, che normalmente della Calabria se ne sono occupati solo per la ‘ndrangheta. Finalmente agli onori della cronaca come segno di civiltà. Un paese di meno di 1.200 abitanti, di cui oltre ottocento stanno nella marina, ha ospitato fino a quattrocento migranti senza che ci fosse in vent’anni un solo reato, un solo conflitto interetnico, in un clima di fratellanza e amicizia con tutti gli esseri umani da qualunque parte provengano.

Ho conosciuto nell’ottobre del 1998 Domenico Lucano e gli amici dell’associazione “Città futura” (nomen omen) che si presentarono a Badolato dopo la prima esperienza italiana di accoglienza di profughi curdi in un paese semi-abbandonato, quando la popolazione locale e il sindaco Gerardo Mannello accolsero a braccia aperte e sistemarono nelle case vuote di Badolato superiore più di ottocento curdi. Erano venuti a vedere questa esperienza di accoglienza, sostenuta economicamente e fattivamente dal Cric, allora una delle Ong più attive in questo campo, che volevano replicare nel loro paesino. In meno di un anno, grazie anche al sostegno della Banca etica di Padova, della comunità anarchica di Longo Mai in Provenza, di Cornelius Cock, uno straordinario prete svizzero che sosteneva il diritto alla vita dei migranti clandestini, alla rete italiana del fair trade, Riace divenne il punto di riferimento della solidarietà ai profughi che attraversano il Mediterraneo rischiando la vita.

Cinque anni dopo Domenico Lucano venne eletto sindaco e intensificò il suo impegno per l’accoglienza dei migranti e per la rinascita del paese che in pochi anni vide riaprire le scuole, i servizi , bar, ristoranti, sistemare e abbellire le piazze, le stradine, costruire un anfiteatro dedicato alla pace, colorare il paese grazie ad artisti e turisti solidali provenienti da tutta l’Italia, e non solo. Grazie al costante e straordinario impegno di Recosol (Rete Comuni Solidali), questo piccolo paesino calabrese è diventato un punto di riferimento per tanti Comuni italiani e europei, un luogo di incontri, di cultura, di festa.

Oggi a Riace lavorano nei progetti di accoglienza circa quaranta giovani locali, e grande è l’indotto che le attività legate ai migranti hanno prodotto nell’economia locale, anche grazie all’introduzione di una “moneta locale” che Lucano ha immesso nel 2010 per contrastare i ritardi nei pagamenti statali. Un esempio virtuoso che dovrebbe essere moltiplicato e applicato su grande scala. È proprio dalle aree interne, da quello che Manlio Rossi Doria chiamava l’osso del Mezzogiorno, che potrebbe rinascere il Sud e di riflesso il nostro paese. Ed invece, prima dell’arrivo al potere del ministro Salvini, la burocrazia della Prefettura di Reggio Calabria si è messa di traverso, come il sindaco Lucano ha più volte raccontato. Inutilmente il sindaco di Riace ha chiesto la relazione dei funzionari che sono stati a Riace nello scorso ottobre, e solo dopo l’intervento della magistratura sono stati aperti i cassetti che custodivano questo report. Il motivo? Semplice: era una relazione estremamente positiva che smentiva le accuse rivolte all’amministrazione di Riace sulla gestione dell’accoglienza dei migranti. Risultato: sono due anni che il Comune deve ricevere fondi che gli spettano, rischiando il dissesto secondo quello che sembra un piano preordinato.

Tratto dal Manifesto qui raggiungibile

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Con il bel saggio di Emanuele Leonardi Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita siamo al sesto saggio della serie di recensioni di testi sull’Ecologia Politica, presa in un senso un po’ più esteso che comprende una riflessione sul Comune e il capitale, mettendo così insieme una bibliografia ragionata dei contributi più recenti. L’autore lo avevamo già trovato (qui) come coautore della introduzione al testo di J. Moore, nonché come co-curatore (sempre con Alessandro Barbero) dello stesso.

In questo caso, siamo di fronte a un lavoro che ci restituisce lo stato dell’arte di tutte quelle ricerche inerenti l’ecologia politica (della quale Gorz – citato nel sottotitolo – è stato uno dei primi interpreti e uno dei più lucidi). Ma l’autore ci dà anche molti contributi originali:
i – indagando le trasformazioni del paradigma che raccoglie la triade Lavoro Natura Valore e quindi le dinamiche tra Valore e Ricchezza;
ii – mettendo a confronto l’elaborazione teorico pratica dell’esperienza operaista italiana e quella dell’ambito della decrescita;
iii – prendendo in considerazione il potenziale neghentropico del lavoro, in particolare di quello cognitivo, in contrapposizione al dispositivo entropico, espressione del nesso Lavoro Natura Valore classico orientato alla crescita;
iv – indagando le conseguenze della messa a profitto di quella parte del lavoro detta riproduttivo con disvelamento del lavoro occulto (di riproduzione, cura, formazione della forza lavoro).

Il filone di pensiero è quello che fa riferimento al concetto di riproduzione nella coppia riproduzione/produzione che caratterizza il sistema capitalistico. Il primo ambito svela la riproduzione della forza lavoro intesa come procreazione e come cura, rivelando quindi quel lavoro occulto quale il lavoro domestico e quello servile, da una parte (operazione ampiamente acquisita per merito dei movimenti femministi, Ariel Salleh parla di lavoro meta-industriale), dall’altra mettendo in primo piano l’atteggiamento che il sistema di produzione capitalistico tiene nei confronti della natura sia in termini estrattivi (in ingresso), sia usandola come discarica (in uscita).

Qui Leonardi ci fa prendere atto del carattere entropico del sistema, carattere che rivela una non riproducibilità all’infinito dello stesso, ma anche ci fa intravedere il potenziale neghentropico del lavoro di riproduzione, verso il quale il sistema post fordista ha però già rivolto le sue attenzioni. È dove, con un gioco di prestigio, trasforma quella parte del lavoro di riproduzione che corrisponde alla formazione della mano d’opera, in capitale fisso, fenomeno questo evidenziato dalla natura sempre più cognitiva del lavoro stesso, tutto questo non facendo nessun investimento ma delegandolo al lavoratore. Così il tempo della riproduzione, tempo non pagato, lavoro occulto, in realtà contribuisce – e sempre di più – alla produzione; il tempo passato in fabbrica non è ormai più di una frazione del tempo realmente dedicato al lavoro.

Leonardi cita una affermazione di Paolo Virno per il quale il general intellect non fa più riferimento al capitale fisso per divenire di fatto lavoro vivo. Il carattere neghentropico del lavoro cognitivo deve perciò essere liberato dalla sua subordinazione al profitto, sostituendo la logica del valore (valore di scambio) con quella della ricchezza (valore d’uso). Un uso che dovrà perciò privilegiare una produzione – realmente sostenibile – di valori in grado di soddisfare bisogni e desideri di tutti e non profitto per pochi. Questo significa anche un orientamento delle lotte non soltanto per il salario ma “oltre il salario”. L’elemento oltre, sarebbe lo spazio che le lotte operaie per il salario e per il controllo della produzione possono aver aperto per ipotizzare e provare a mettere in pratica sistemi e relazioni non impattanti e più egualitarie.

Ma l’autore ci dice di fare attenzione, il carattere neghentropico del lavoro cognitivo è simultaneamente espresso – messo in atto – e occultato in dispositivi che riescono a metterlo a profitto, a riprodurre cioè tutte le contraddizioni del capitale. Per Leonardi questi dispositivi sono la green economy e il carbon trading dogma dei quali parla (in termini critici) nei capitoli V VI.

Il lato ecologico dell’economia politica abita, dunque, dentro l’elemento riproduttivo della diade riproduzione/produzione, in quel versante dove la lotta di classe e le lotte per l’ambiente e per i beni comuni si caratterizzano come forme di svelamento dall’operazione di occultamento che il capitale ha fatto mettendo in atto quella che Moore (citato da Leonardi) chiama accumulazione per appropriazione (lavoro domestico, lavoro servile, doni gratuiti dell’ambiente). Ma anche nel semplice concetto che vede la natura come unica entità di produzione, verificando invece che il ciclo delle altre trasformazioni agisce su materie prime a bassa entropia verso scarti ad alta entropia.

La connessione tra lavoro e natura è tutta insita nel sistema di produzione capitalista. Il conflitto di classe non si può allora esaurire nel campo del salario e sulle condizioni del lavoro, ma deve potersi esprimere sulle finalità della produzione e sul tipo di forma merce messa in cantiere. Forse l’insieme è quello che aveva intuito Benjamin già nel 1940, quando – commentando Fourier – formula un auspicio dicendo che «un lavoro così ispirato al gioco non è diretto alla produzione di valori, ma al miglioramento della natura […] Una terra ordinata secondo questa immagine cesserebbe di essere parte “di un mondo in cui l’azione non è sorella del sogno”. L’azione e il sogno vi diverrebbero fratelli» (W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986 p.7; parzialmente citato da Leonardi, p. 66).

C’è un’altra citazione di Benjamin in esergo al primo capitolo che coglie trasversalmente quella connessione tra marxismo e progresso che ha rallentato l’incontro tra lotta di classe e difesa dell’ambiente. Si intende criticare quell’aspetto del marxismo quando ipotizza un percorso storico determinato e ineluttabile verso la società senza classi.

«Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno» (p. 31).

Il testo di Leonardi si muove su una doppia chiave. Da una parte la ricerca di strumenti di analisi della realtà, dall’altra quella degli strumenti per incidere sulla realtà. In questo, il riferimento a Gorz, trova materiale imprescindibile. Ad esempio, il ruolo e l’efficacia dei movimenti rispetto ai partiti politici. Movimenti che proprio nel momento nel quale si dichiarano apolitici (nei confronti dei partiti) trovano la loro efficacia politica, perseguendo lotte che rappresentano degli interessi specifici, lotte quindi non asservite alla logica del potere. Lotte che quindi esprimono libertà di espressione, di contestazione e di immaginazione.

Stranamente, i limiti dello sviluppo sono stati percepiti più chiaramente dal capitale che non dalle sue vittime, altrimenti come si spiegherebbero le azioni convulse quali «le riforme delle imposte, l’austerity fiscale, la deregulation e le privatizzazione, gli aggiustamenti strutturali, il crollo della sicurezza del lavoro, lo sbriciolamento del welfare» (nota 31, p. 86), quasi un raschiare il fondo del barile, attraverso l’appropriazione compulsiva di qualsiasi risorsa da espropriare alla ricchezza comune.

Come dicevo all’inizio uno dei meriti del libro è anche quello di avere raccolto i contributi speculativi della quasi totalità degli studiosi che hanno scritto qualcosa a proposito di “ecologia politica” con ampi spazi dedicati, ad esempio, agli apporti di diverse studiose femministe. Mettere al centro i processi riproduttivi e non soltanto i conflitti sul piano dell’organizzazione della produzione, mettere in discussione la centralità della forma salario per spiegarne i funzionamenti, sono i ragionamenti che quadrano e fanno convergere le lotte di genere, antirazziste, di classe e quelle per l’ambiente in un unico contenitore che cerca di organizzarsi a partire da questa nuova cognizione. I bisogni fondamentali si potrebbero racchiudere intorno a due obiettivi specifici quello della sostituzione della logica della ricchezza contro quella del valore e quello di ridurre il metabolismo sociale, Si constata così che entrambi gli obiettivi sono incompatibili con il modo di produzione capitalista, dice Leonardi.

Uno dei temi messi al centro della sua indagine è anche quello del possibile rapporto tra le eredità operaiste e il mondo delle “decrescite”. Ovviamente, queste ultime, sono spostate su un piano qualitativamente diverso non si tratta di crescere ma di prosperare; non tanto competere ma condividere (p.152). «Non si snellisce il metabolismo sociale perché la catastrofe incombente lo impone, bensì perché il pieno godimento e la realizzazione diffusa del lavoro neghentropico richiedono da un lato un processo di de-mercificazione e dall’altro un intervento di messa in sicurezza dell’ambiente in quanto base materiale della riproduzione della vita sociale e dell’attività economica (svincolata dall’ingiunzione al profitto)» (p. 153). Vedi comunque il decalogo catalano (p. 172), che parla di debito, riduzione dell’orario di lavoro, reddito di base, così come di ecotasse, di incentivi alla produzione alternativa, riduzione dello spazio pubblicitario, limiti all’inquinamento, abolizione del PIL come indicatore di progresso.

Lo spostamento dell’attenzione dall’ambito produttivo a quello riproduttivo, non è una critica a Marx (semmai una nuova deduzione inserita di fatto nell’organicità del suo pensiero), ma a certi marxismi, perché, a ben vedere, per Marx il conflitto tra accumulazione capitalista e qualità dell’ambiente era già stato preso in considerazione. Leonardi cita la «frattura metabolica – cioè la rottura della circolarità energetica chiusa tra città e campagna a partire dalla seconda metà del XVIII secolo» (p.157) che Marx.

Non si tratta di mettere in piedi delle operazioni generiche di decrescita, ma di sostituire al concetto di quantità di crescita, quello della qualità della stessa. Il divorzio, purtroppo, ha origini lontane nel tempo. La scienza di Galileo si occupava e si può occupare soltanto di quantità, la qualità era esclusa. Così arte, piacere, bellezza, amore e reciprocità si sono separate dalla scienza, permettendo, subito dopo, che l’organizzazione del mondo avvenisse intorno al profitto. Profitto in termini astratti, in termini di pura quantità, profitto per pochi e briciole per la maggioranza.

Questo non lo dice esplicitamente Leonardi, ma dice qualcosa di simile quando auspica, ad esempio, il riavvicinamento tra dimensione esistenziale e pratiche lavorative; che «i diritti della Pachamama e il reddito di base salgano sulla stessa barca rivoluzionaria» (p. 191). E qualche cosa a cui fare riferimento già esiste: «la forza propulsiva dei movimenti indigeno-contadini africani, asiatici e latino-americani sul piano globale, degli Indignados sul piano continentale, della sperimentazione municipalista napoletana sul piano nazionale» (idem).

Emanuele Leonardi, Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita, Orthotes, Napoli Salerno 2017. Pagine 216, € 18.00.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, alia è divenuta una malata terminale alla cui agonia assistiamo impotenti. Con commento (e.s.)

Auguriamo lunga vita al ministro dell'interno Matteo Salvini. Più precisamente, auguriamo a lui, e soprattutto a noi e agli altri connazionali, una vita brevissima alla sua permanenza al ministero degli Interni e una vita lunghissima al signor Matteo Salvini. Una vita così lunga perché possa riflettere sull'odio che è riuscito a concepire ed esternare nel periodo - speriamo breve - in cui ha ricoperto questa e altre cariche pubbliche. Leggete, commiserandolo, i pensieri che ha potuto esprimere oggi, riportati da Tommaso Di Francesco nell'articolo che riportiamo di seguito.
L'immagine che abbiamo scelto come icona rappresenta Mammona, emblema della smodata avidità della persona umana (ricorda il dilemma posto nella Bibbia: "amare Dio o Mammona". Non pensiamo che Salvini condivida con Mammona la cupidigia per la ricchezza, ma non abbiamo trovato un'altra immagine che esprima in modo così cupo l'odio per il suo simile diversamente colorato espresso dall'attuale occupante del Viminale.(e.s.)

l manifesto, 6 giugno 2018
Salvini papà e la pacchia dei migranti
di Tommaso Di Francesco

«Ong vice-scafisti», «Taglierò i fondi per l’accoglienza, i soldi vanno dati lì in Libia, in Tunisia dove non mi risulta ci sia la guerra ma che ci invia i galeotti, e poi in Niger…», Salvini non cambia look, è ministro degli interni ma aizza all’odio; una aggressività che deve far paura a lui stesso se si lascia andare alla retorica nuova del buon padre di famiglia, (la famiglia -nazione, che peggio non si può), «ma figuratevi – dice in una intervista in tv – se io che sono papà di due bambini voglio affogare la gente in giro…».

Eppure noi ce lo figuriamo.

Perché proprio mentre esternava alimentando odio, le notizie che arrivavano lo chiamavano direttamente in causa. Naufragio nell’Egeo con nove vittime di cui 6 bambini, strage a mare sulle coste tunisine con 48 persone affogate; mentre non si è spenta l’eco del misfatto che pochi giorni fa si è consumato in Libia, dove le milizie che gestiscono le prigioni hanno sparato a terra uccidendo 16 migranti.

E, come se non bastasse, nelle piane di Vibo Valentia, dove i braccianti-migranti vengono ogni giorno sfruttati per pochi euro, è stato ucciso Sacko Soumalyla, ventinovenne maliano e attivista del sindacato di base Usb.

Nella fossa comune che è diventato il Mediterraneo gli esseri umani disperati, ridotti alla condizione di ultimi degli ultimi, continuano a fuggire. E ad essere uccisi; sono sempre in fuga da condizioni di vita insopportabile nell’Africa dell’interno,– ricchissima di materie prime ma ridotta in povertà grazie al nostro modello di sviluppo-rapina rispetto al quale da nessuna parte si annunciano cambiamenti radicali; e in fuga dalle tante guerre mediorientali che abbiamo contribuito ad innescare secondo il rituale ormai collaudato di scelte occidentali bipartisan. Ma, è vero, gli arrivi, conti alla mano, sono sempre di meno: perché non si devono vedere e non stanno in nessuna statistica le disperazioni di quel quasi milione di persone di cui parlano le Nazioni unite rimaste intrappolate tra la costa della Libia e il confine sud del Sahara.

Né dobbiamo gettare l’occhio, nemmeno distratto, sulla realtà della detenzione di decine edecine di migliaia di persone in campi di concentramento, lager prigioni sottoposte ogni giorno a torture e violenza. Meglio non vedere e accontentarsi delle statistiche «brillanti». E ripetere il mantra sempre meno credibile che ha ben funzionato il famigerato Codice dell’ex ministro degli interni Minniti che ora si dice preoccupato che Salvini non diventi «l’Orbán del Mediterraneo».
Di che si lamenta Minniti: Salvini aspira fortemente al ruolo di facente funzioni di Orbán nel Mediterraneo, ma alla fine sarà respinto anche dal leader ungherese della Mitteleuropa di destra.

Il taglio naziona-populista all’accoglienza che Salvini agita preoccupa la Chiesa di Bergoglio perché è l’anticamera della morte certa per migliaia e migliaia di esseri umani; perché la disperazione africana non è finita, con le crisi che si moltiplicano, e la guerra afghano-mediorientale continua, anzi deve continuare nonostante i ripetuti, vecchi e nuovi annunci – per capirlo, guardate il «retroterra culturale» della nuova ministra della difesa, la grillina Elisabetta Trenta. È stato proprio Minniti a tirare la volata a Salvini sui migranti – come denuncia ora perfino il presidente del Pd Matteo Orfini.

Proviamo a ricordare infatti le caratteristiche del Codice neo-coloniale dell’ex ministro dell’interno Pd: blocco dell’accoglienza a mare, criminalizzazione delle Ong di soccorso; finanziamento della cosiddetta «autorità» libica – ma la Libia non ha alcuna autorità tantomeno unica e rappresentativa, è un paese spaccato in quattro tronconi contrapposti dopo la guerra della Nato nel 2011, con 700 milizie armate e tanti Paesi «alleati» che se la contendono per via della sua immensa ricchezza petrolifera. Il risultato è l’allargamento dell’universo concentrazionario in una miriade di galere, prigioni, torture, campi di concentramento che, ora con il consenso dell’Unione europea, vogliamo estendere a mezza Africa, perché dice la Commissione di Bruxelles che «il Niger è la frontiera sud dell’Europa». Il risultato delle statistiche è «brillante», così tanto che lo stesso Salvini fa sapere a Minniti che il suo è stato «un discreto lavoro» e che non ha intenzione di «smantellare nulla».

Un «lavoro», quello di Minniti, che continua ad esaltare con i suoi editoriali Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, manco fosse diventato come uno dei tanti «giornaloni» tradizionalmente schierati con il governo in carica.

Minniti sosteneva che così facendo avrebbe salvato la democrazia dalla deriva xenofoba; a quanto pare non solo non è servito ma, facendosi destra e attivando la devastazione della democrazia in mezzo continente africano da ridurre a campo di concentramento, ha anche soffiato il vento in poppa al nazional-populismo razzista ora al potere.

L’unica vera risposta gli viene per ora dalle parole di un dirigente sindacale dei braccianti della piana di Vibo Valentia: «È finita la pacchia per Salvini, perché noi risponderemo». . La protesta non si fermerà. E ci riguarda.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Internazionale,

Sono più di 1,5 milioni su una popolazione libanese di sei milioni di persone. Vivono a pochi chilometri da casa ma temono di non poterci tornare più. Soprattutto, soffrono per la loro invisibilità. E invece, i profughi siriani in Libano hanno un piano, dice un loro portavoce, Sheik Abdo.

La proposta che Sheik Abdo, maestro di scuola siriano rifugiato in Libano, porta in Europa a nome dei profughi siriani è incentrata sul ritorno. Dopo aver riconquistato città dopo città e sconfitta la resistenza con massicci bombardamenti, il regime siriano si sta dedicando allo spostamento della popolazione. Mettendo così a grave rischio il futuro del paese e il fragile equilibrio comunitario precedente alla guerra.

Sulla questione degli spostamenti della popolazione, la memoria dell’esperienza palestinese è onnipresente nella regione. I palestinesi, scappati nel 1948, non sono mai potuti tornare. E oggi, settant’anni dopo, secondo l’Unrwa 450mila palestinesi vivono ancora nei 12 campi profughi del Libano.

Così, un gruppo di profughi siriani ha redatto una proposta di pace. Vogliono la creazione di una zona umanitaria in Siria, “ovvero di territori che scelgano la neutralità rispetto al conflitto, sottoposti a protezione internazionale, in cui non abbiano accesso attori armati, secondo il modello, per esempio, della Comunità di pace di San José de Apartadó, in Colombia” e dove, sotto la protezione internazionale, siano garantite la sanità e l’istruzione.

Sheik Abdo, accompagnato dall’organizzazione Operazione colomba che lavora nei campi profughi libanesi, sta girando l’Europa per convincere politici e diplomatici a non ascoltare solo quelli che in Siria hanno le armi.

Nella sua chiavetta usb, Abdo porta invece con sé la testimonianza dei siriani disarmati. I bambini, per esempio, che hanno realizzato il valore delle cose una volta che le hanno perse e che raccontano quanto rimpiangano i giorni in cui aspettavano l’autobus per andare a scuola. Su questo, Abdo presenta il lavoro di organizzazioni che pensano davvero al futuro, come Save syrian schools.

A nome di chi parla Sheik Abdo? Rappresenta chiaramente la maggioranza della popolazione siriana, muta, senza voce, che sogna la pace e il ritorno, senza il ricorso alle armi.

Prima della guerra, Sheik Abdo era un maestro elementare ad Al Qusayr, vicino alla città martire di Homs. Nel 1982, Homs fu quasi rasa al suolo dall’allora presidente Hafez al Assad. Oggi è quasi totalmente distrutta per volere del figlio, Bashar al Assad.

Durante proteste pacifiche, Abdo ha visto i cecchini governativi sparare sui manifestanti e ha organizzato ospedali di fortuna per i feriti che non potevano andare in quelli governativi per paura di essere arrestati. La sua attività non è piaciuta al regime e nel 2012 è dovuto scappare e cercare rifugio in Libano: ha attraversato il confine pensando di dover stare lontano da casa solo pochi mesi.

Oggi, adiacente al campo dove vive Abdo, sorge anche una scuola per bambini siriani, di cui è il preside. Il documentario Lost in Lebanon, di Sophia Scott e Georgia Scott, racconta il suo impegno per dare un’istruzione a una generazione di bambini che non ne riceve più, e che rischia di essere lasciata senza voce anche in futuro:

"A noi, vere vittime della guerra e veri amanti della Siria, l’unico diritto che viene lasciato è quello di scegliere come morire in silenzio. Ma noi, nel rumore assordante delle armi, rivendichiamo il diritto di far sentire la nostra voce, insieme a coloro che ci sostengono e a chi vorrà unirsi al nostro appello."

Sheik Abdo e gli altri profughi che collaborano con lui mettono in discussione la legittimazione dalla violenza:

"Nel nostro paese ci sono centinaia di gruppi militari che, con la sola legittimità data loro dall’uso della violenza e dal potere di uccidere, ci hanno cacciato dalle nostre case. Ancora oggi ci uccidono, ci costringono a combattere, a vivere nel terrore, a fuggire, umiliati e offesi. Ai tavoli delle trattative siedono solo coloro che hanno mire economiche e politiche sulla Siria."

Sheik Abdo sta viaggiando in Europa per diffondere la Proposta di pace per la Siria, e cercare sostegno a più livelli: politico, istituzionale, popolare, perché oggi “in Libano la situazione è insostenibile, ed è urgente che i profughi siriani abbiano un posto dove poter vivere in pace, senza rischiare la vita”.

Iniziative come quella di Sheik Abdo sono fondamentali, permettono di dare dignità e voce a più di 5,6 milioni di profughi siriani e a più di sei milioni di profughi interni in Siria che vivono oggi senza nessuna prospettiva.

Tratto dall'Internazionale, qui raggiungibile.

il manifesto,

Se scendi da un’auto e, senza dire una parola, da settanta metri di distanza spari a tre uomini e ne colpisci uno alla testa, vuol dire che non volevi spaventare, ma uccidere. Siccome la vittima, Sacko Soumayla, 29 anni, veniva dal Mali, in tempi di salviniana muscolarità anti immigrati si è dato subito a questo omicidio uno sfondo razzista. Leggendo la biografia della vittima, viene il dubbio che le ragioni dell’assalto non siano dovute solo al colore della pelle o a ciò che Soumayla stava facendo, e cioè portare via qualche lamiera per costruire una baracca da una ex fornace chiusa da dieci anni e sotto sequestro perché vi erano state sversate 135mila tonnellate di rifiuti tossici.

Per cercare di capire quali motivi portino un italiano a uccidere a sangue freddo un lavoratore africano bisogna guardare a chi era Sacko Soumayla, che cosa faceva, dove e per chi.
Siamo nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, terra fertile di agrumi, kiwi, ulivi. Sacko Soumayla aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava come bracciante per 4,50 euro l’ora, era un sindacalista iscritto all’USB e lottava contro lo sfruttamento della mano d’opera immigrata.

Circa un mese fa, il 3 maggio, la testata online osservatoriodiritti.it ha pubblicato un’inchiesta intitolata "Migranti: nella Piana di Gioia Tauro vivono i dannati della terra" basata su un rapporto di Medu (Medici per i diritti umani). Lì c’è tutto quello che serve per capire che un lavoratore immigrato che si ribella può dare molto fastidio. Dà fastidio a chi, in questo caso italiani, vuole pagare il meno possibile la mano d’opera per lucrare di più. Dà fastidio a chi conviene mantenere i lavoratori in condizioni di precarietà, come l’attesa di un permesso di soggiorno, che rende più facile il gioco al ribasso e, infatti, 7 braccianti su 10 sono sfruttati e non hanno un contratto.

Se il contratto arriva, non è mai veritiero perché, per esempio, figura che hai lavorato 30 giorni invece dei reali 3 mesi, 2 giorni anziché i 16 effettivi. Non contenti di pagare poco e in nero, di ricorrere al reclutamento secondo l’odioso sistema del caporalato, questi pseudo imprenditori hanno tutto l’interesse a tenere i lavoratori in condizioni di vita miserevoli, come braccia da usare e buttare. Quando, come dicono gli operatori di Medu, «Oltre tremila persone vivono fra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti, dormono su materassi a terra o vecchie reti, circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati per scaldarsi», il loro primo pensiero è non soccombere. Chi si ribella a tutto ciò dà fastidio.

Otto anni fa, a Rosarno i braccianti protestarono contro queste forme di schiavismo, ma nulla è cambiato, come se lo Stato guardasse da un’altra parte. L’uccisione di Soumayla ha sicuramente uno sfondo razzista, ma emerge da un substrato di avidità, egoismo, disprezzo per la vita e stupidità, sì, stupidità perché lavoratori trattati e pagati in modo civile portano sviluppo e ricchezza alla zona in cui vivono. Evidentemente nella piana di Gioia Tauro gli interessi sono altri.

Come ha detto Antonello Mangano, curatore del sito d’inchiesta terrelibere.org, «Rosarno è uno dei luoghi centrali dell’economia globale. La mano d’opera arriva dall’Africa occidentale, i contributi alle coltivazioni da Bruxelles e, infine, le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco». Quindi, per favore, non chiamatelo solo razzismo.

Avvenire,

Comprensibile e apprezzabile la speranza che la Costituzione del 1948 costituisca il punto di riferimento, addirittura la «architrave», del governo giallo-verde affidato al professor Conte, sotto stretta vigilanza dei due cagnacci Salvini e Di Maio. Credo però che si possa già affermare che non è una speranza, ma un'illusione. Lo dimostrano le parole scritte e gli atti annunciati, e in parte già effettuato dal governo Conte e dai suoi membri.
Basta pensare alla flat tax e alla somma di effetti perversi che essa genererà nel rapporto tra i ricchi e i poveri: si ridurrà l’apporto dagli introiti fiscali allo Stato commisurata all’entità dei reddito (più sei ricco più alta è la percentuale del tuo reddito che versi alla cassa comune), e bisognerà compensarlo aumentando l’Iva (che è l’imposta che tutti pagano, e che quindi incide più sui poveri che sui ricchi. E se la somma della flat tax e dell’iva sarà inferiore a quello attuale (come è previsto) diminuirà l’apporto dello Stato al welfare, e quindi la salute, l’assistenza, la scuola e l’università, i trasporti collettivi e gli altri servizi pubblici dovranno essere pagati dai singoli utenti, attingendo ai loro redditi, tutto ciò in palese contrasto con l’articolo 38 della Costituzione.
Nell'articolo su Avvenire (che pubblichiamo sotto il nostro commento) Marcelli scrive: chi si interroga sulle radici di questo governo dovrebbe domandarsi quanto ha influito sull’approdo odierno, prima la dissoluzione di «quei partiti 'tradizionali' indeboliti sì dalla svolta del 1989, ma poi travolti dalla loro degenerazione in camarille di potere e in élites distinte e distanti dalla gente e, dunque, incuranti del Bene comune». E' giusto e vero, ma diciamolo chiaramente: la vecchia politica era ridotta in un ammasso di rifiuti. Ma sembra che oggi da quei rifiuti non nascano fiori, ma vermi. A noi i vermi non piacciono affatto (e.s.)

vvenire, 3 giugno 2018
Primo governo senza più tradizioni. Una storia tutta da fare
di Gianfranco Marcelli

Soltanto i fatti sapranno dirci se quello che ha giurato l’altro ieri al Quirinale sarà davvero per l’Italia un "governo del cambiamento". Fin d’ora invece si può affermare che questo è senz’altro l’esecutivo della storia repubblicana meno legato alle culture politiche che per oltre settant’anni hanno dominato la scena nazionale. Fino a Paolo Gentiloni, infatti, come anche prima nelle compagini a guida berlusconiana o ulivista-democratica, non mancavano mai esponenti che provenivano dai grandi filoni tradizionali della prima Repubblica: democristiani, socialisti, liberali, comunisti, destra post-fascista. Tutti raccolti sotto etichette in qualche modo aggiornate o rivisitate dopo il crollo del muro di Berlino, ma pur sempre ancorate, spesso negli stessi simboli elettorali, alle radici originarie.

Pure la Lega di Matteo Salvini, che nominalmente calca il palcoscenico da più di trent’anni e che alle urne del 4 marzo rappresentava la più vecchia "sigla" del panorama elettorale, è oggi lontana anni luce dal manipolo ultra nordista e secessionista guidato dal senatur Umberto Bossi, rimasto a lungo attivo solo entro un perimetro territoriale ben circoscritto. Siamo insomma di fronte, perfino dal punto di vista anagrafico vista l’età media dei componenti, al primo governo "post-partitico" della nostra vicenda politica, senza con ciò voler esprimere in partenza un giudizio positivo o negativo.

Anche i consueti spartiacque fra destra, centro e sinistra, nel caso del governo Conte, vanno ripensati. Le analisi più accurate dei flussi elettorali, che tre mesi fa hanno causato il successo dei "gialli" e l’avanzata dei "verdi", dimostrano che le provenienze dei loro consensi, specie a proposito dei 5Stelle, sono le più disparate. I voti sono cioè arrivati da ogni direzione e l’identikit finale dell’esecutivo, almeno come base elettorale che lo sostiene, non è facilmente definibile. In altri tempi, poi, si sarebbe parlato quasi di "governissimo", non tanto per l’ampiezza della maggioranza parlamentare – di fatto appena sufficiente – quanto per la distanza programmatica abissale che separava gli alleati odierni prima di firmare l’ormai celebre contratto. Saranno perciò le scelte concrete a qualificarne meglio l’orientamento.

È comprensibile che in molti osservatori l’assenza di riferimenti ideali chiari, il profilo culturale indistinto e piuttosto confuso del neonato esecutivo, possano destare sconcerto e inquietudine.

Chi ha vissuto o è cresciuto nel culto dell’ispirazione popolare o democratico-cristiana, non può certo sentirsi tranquillizzato dalle episodiche citazioni degasperiane di Luigi Di Maio. E chi oggi nutre nostalgia dell’austera leadership berlingueriana ascolterà con raccapriccio le semplificazioni populiste di Matteo Salvini.

C’è dunque un giustificato interrogativo su dove un governo dal Dna culturale imprecisabile, o comunque 'a bassa intensità', possa condurre il Paese. Quanti però agitano tale incognita dovrebbero domandarsi anche quanto ha influito sull’approdo odierno, prima l’appannarsi, e poi il vero e proprio rinnegamento dei modelli oggi rimpianti, da parte di chi ne ha incarnato nel tempo la realizzazione. Al punto da cancellarne nella gran parte dell’opinione pubblica la memoria e il desiderio di coltivarne l’eredità, proprio attraverso quei partiti 'tradizionali' indeboliti sì dalla svolta del 1989, ma poi travolti dalla loro degenerazione in camarille di potere e in élites distinte e distanti dalla gente e, dunque, incuranti del Bene comune.

Ma se davvero è scoccata oggi l’ora del pragmatismo, come la genesi e l’esito del patto di maggioranza dimostrano e come le prime battute del nuovo premier confermano («Ora passiamo ai fatti»), sarà bene prestare molta attenzione al modo in cui il primo esecutivo della XVIII Legislatura saprà declinarlo. Perché anche nel fare i conti con la realtà o la verità 'effettuale' (sembra, a proposito, che in M5S ci siano appassionati cultori di Machiavelli) si possono seguire criteri più o meno nobili.

Tra tutti i criteri possibili, il più utile e il più adatto alle circostanze storiche e geopolitiche nella quali si muoveranno il professor Conte e la sua squadra è di sicuro quello dell’umiltà, implicitamente richiamata da Sergio Mattarella nel suo messaggio di ieri per il 2 Giugno, quando ha ricordato che l’Italia repubblicana ha una storia e una collocazione internazionale chiari, sorretti dall’«architrave» della nostra Costituzione. Umiltà, dunque, che è poi l’approccio non solo più consono a un sano realismo, ma anche il più etico.

cronachediordinariorazzismo.org,

La situazione è sotto gli occhi di tutti da anni. Eppure la si nota sempre all’ultimo minuto, quando è già troppo tardi per organizzare una degna accoglienza. Oltre 50 baracche di legno e lamiera senza acqua corrente né energia elettrica e in pessime condizioni igienico-sanitarie. Insediamenti abusivi su terreni di proprietà privata. Non è una novità: è la puntuale “emergenza braccianti” che si ripropone ogni anno, nello stesso periodo, in una delle zone del Siracusano più esposta al fenomeno del caporalato. Dopo la scoperta da parte delle forze dell’ordine e il sopralluogo fatto anche con l’assessorato alle Politiche ambientali, la baraccopoli è rimasta ancora dov’era. E le soluzioni alternative tardano ad arrivare. Così, da molti anni quella resta l’unica soluzione abitativa possibile per i migranti stagionali, che portano avanti gran parte del sistema della raccolta agricola nei campi. E mentre fra Comune di Siracusa, prefettura, diverse forze dell’ordine, Azienda provinciale sanitaria, ispettorato del lavoro, si gioca a scaricabarile, la situazione resta immobile.

Qui di seguito il comunicato stampa della Rete Antirazzista Catanese.

Come ogni anno, da aprile a giugno, in occasione della raccolta delle patate, ai circa 5.000 residenti a Cassibile si aggiungono numerose centinaia di migranti, per lo più di origine marocchina e sudanese; questi giungono nella frazione siracusana, dopo aver terminato altre raccolte in Italia: una vera transumanza del lavoro migrante nelle campagne.

Anche quest’anno, come nelle 3 stagioni passate, la latitanza delle istituzioni locali è totale nell’approntare un minimo d’accoglienza per le centinaia di lavoratori stagionali che vengono super sfruttati dai caporali e dai proprietari terrieri, che evadono i contributi, ricorrendo alla manodopera in nero.
Quest’anno la produzione delle patate è notevolmente aumentata, come pure la presenza dei migranti, quasi raddoppiata rispetto agli ultimi anni. All’inizio di maggio sono aumentati i controlli delle forze dell’ordine, che hanno “scoperto” i casolari abbandonati (da quasi 10 anni!) di contrada Stradicò, che hanno portato all’identificazione ed alla denuncia di 79 migranti per “invasione di terreni”; come al solito lo stato riesce a dimostrare la sua forza solo con i deboli, peccato che sia quasi sempre debole con i forti.
La presenza stanziale di una comunità marocchina (circa 300) rende più semplice il “primo impatto” per chi proviene dal Maghreb. Per questi ultimi è infatti possibile affittare stanze nel centro abitato. Per gli altri (Sudanesi, Somali, Eritrei, Nigeriani) invece non esistono più neanche le tendopoli gestite negli anni scorsi dalla Protezione civile o dalle Misericordie, che accoglievano almeno 140/150 migranti. Così i migranti sono costretti a trovare rifugio- privi di acqua, luce e servizi igienici- nei casolari di campagna abbandonati e diroccati o in tende di fortuna.
La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano a Cassibile è regolare con il permesso di soggiorno – rifugiati, richiedenti asilo, protezione umanitaria, in regola con il PDS, in attesa di rinnovo – ma, non essendo riconosciuto a loro il diritto di lavorare nel rispetto delle norme contrattuali, viene spinta verso il lavoro irregolare con il rischio di perdere il permesso di soggiorno, grazie a vergognose leggi razziali come la Bossi-Fini ed il “pacchetto sicurezza”.
Teoricamente l’assunzione di manodopera dovrebbe essere eseguita tramite gli uffici preposti, il salario orario netto dovrebbe essere di 6 euro e venti, sei ore e trenta minuti la giornata lavorativa, spese logistiche, di trasporto e materiale di lavoro (scarpe antinfortunistiche, guanti) a carico del datore di lavoro. Ma nella pratica il collocamento è sostanzialmente in mano ai “caporali” e ai subcaporali, in base alle varie etnie; costoro gestiscono anche i trasporti (da 3 a 5 euro il costo) e impongono salari differenziati: chi viene dal Maghreb percepisce 35 euro al giorno e gli altri 30 o ancora meno. Gli orari sono “flessibili”, se vuoi lavorare devi comunque essere in grado di riempire quotidianamente almeno 100 cassette, ognuna del peso di 20/22 chili .

Perché non si controllano a monte le aziende che beneficiano del “servizio” svolto per loro conto dai caporali? Perché ci si accanisce contro i migranti, criminalizzandoli, quando invece ci sono non poche ditte locali e non solo, che evadono i contributi ed ingrassano i caporali? Le istituzioni preposte sanno intervenire solo in senso repressivo contro i migranti?

Purtroppo oramai il senso delle parole è capovolto, si criminalizzano le vittime e non i carnefici e le forze apertamente razziste fanno il pieno di voti, la Solidarietà (vedi Ong delle navi umanitarie) viene considerata oramai un reato . Facciamo appello a tutto l’associazionismo antirazzista ed al sindacalismo conflittuale siracusano e regionale a non rimuovere questa drammatica realtà. E’ drammatico che ciò si ripeta in una terra dove proprio 50 anni fa ci furono eroiche lotte bracciantili ( che costarono la vita ad Angelo Sigona ed a Giuseppe Scibilia) che riuscirono a debellare a livello nazionale le piaghe delle gabbie salariali e del caporalato.

La storia siciliana ce l’ha insegnato Emigrare non è reato. Solidarietà con gli immigrati, Unità di tutti gli sfruttati!

Qui il link all'articolo in originale.

La condizione perché la parola "mutualismo" non diventi un passepartout, una parola magica da evocare per ogni cosa e il suo contrario - come è avvenuto per esempio, per le parole "sostenibilità" "partecipazione" e"sviluppo" - è che sia chiaro il suo significato nel contesto attuale, e quindi il suo contenuto, è fortemente conflittuale e anticapitalistico. Il libro di Salvatore Cannavò, recensito di seguito da Ciccarelli per i

l manifesto, è molto chiaro in proposito (e.s.)

il manifest0, 2 giugno 2018
Mutualismo, un’idea conflittuale e politico
di Salvatore Cannavò

Mutualismo è un concetto ricorrente nell’ultimo quinquennio. Salvatore Cannavò lo riporta alla realtà storica, momento germinale del movimento operaio e anarchico, e ne mostra l’attualità con una serrata rassegna delle esperienze italiane e internazionali, più o meno riuscite. Scritto da un ex parlamentare di Rifondazione Comunista, fondatore della corrente di Sinistra Critica, prima vice-direttore di Liberazione, oggi lavora al Fatto Quotidiano, Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, pp.191, euro 15) è un libro esigente che non fa sconti alla parte dell’autore.

Inizia raccontando il tempo dell’ultimo governo Prodi 2006-2008. Dall’opposizione interna alla Rifondazione di Bertinotti, Cannavò scrive: «Avevamo ragione a dire che abbandonare il movimento no-global per allearsi con Clemente Mastella avrebbe condotto la sinistra alla disfatta; ragione nello spiegare ai governi di centro-sinistra che a furia di fare le politiche di destra avrebbe vinto non solo la destra, ma quella più estrema». Certo «avere avuto ragione, però, non consola».
In un ventennio, da Genova in poi, si è esaurita la ricerca di una società «altra». Il «sociale» è diventato un vicolo cieco quanto la ricerca di una «globalizzazione» equa e giusta dall’alto. Oggi viviamo sul rovescio di quell’antica promessa, le istanze immaginarie del ritorno alla «nazione» e la saldatura con la «sovranità» sembrano avere assorbito, e sconvolto, la critica al capitalismo globale.

Per uscire da questo labirinto Cannavò propone un’idea «conflittuale e politica» del mutualismo. La precisazione è opportuna perché in questa categoria si avverte il rischio di giustificare l’esistente, fare da tappabuchi alla scomparsa del Welfare. Il mutualismo sembra essere un’istanza risarcitoria, consolatoria e sussidiaria di un’istituzione pubblica che non c’è più. O, tutt’al più, un’integrazione al welfare aziendale. In queste condizioni pensare che il mutualismo sia una via d’uscita è un’illusione.

Cannavò denuncia questo rischio. «Serve – scrive – un obiettivo di sistema» dove le esperienze di «autogestione» – raccontate nel libro – «possano divenire strumenti per un ordine sociale diverso contro questo modo di produzione e i suoi poteri». Per farlo serve un mutualismo conflittuale in senso anticapitalista. Cannavò lo descrive ripercorrendo il lavoro storico che Pino Ferraris fece un quarto di secolo fa. È una genealogia ricorrente, l’abbiamo riportata alla luce con Giuseppe Allegri nel Quinto Stato cinque anni fa. Un anno dopo l’abbiamo ritrovata in Comune di Dardot e Laval. Nel frattempo è riemersa nei discorsi di base e nelle reti già attive e ritorna in questo libro.

Cannavò fissa il movimento carsico in un concetto importante: l’auto-governo dell’essere umano. L’autogestione non basta, è necessario affermare una politica democratica ampia. Non quella basata sulla delega al leader, né sulla fusione mistica in un «popolo», ma sulla cooperazione, ovvero l’esercizio delle potenzialità dell’essere umano con i suoi simili. Tale esercizio non è ipotecato da leggi superiori (il Bene, la Legge, il Popolo) o dal Capitale. È la sperimentazione delle possibilità generate dall’uso comune, e non proprietario, della vita; la creazione di una resistenza contro lo sfruttamento; l’organizzazione di un’alternativa concreta e una critica attiva dell’alienazione.

Il mutualismo 2.0 sembra avere intercettato queste domande diffuse. Per questo si torna a parlare di società di mutuo soccorso, cooperative aperte, reti di mercato alternative, sindacati sociali, partiti a rete e federati su scala locale, nazionale e sovra-nazionale. Una prospettiva che ricorda la Prima internazionale. La storia del mutualismo antagonista ci ha trasmesso una tecnica di auto-difesa; una politica neo-comunista, e non statale; cooperativa e non burocratica; di classe e non di «popolo»; federativa, non nazionalista; anti-sessista e anti-razzista. Un’impostazione fondamentale per creare «coalizioni», utile per organizzare una battaglia per il salario minimo e il reddito di base incondizionato, due tra gli obiettivi individuati nel libro, centrali in un momento politico dove entrambi sono stati riscoperti dal dibattito politico.

Nulla tuttavia è scontato, vista la frammentazione e l’identitarismo della «sinistra». Ciò non toglie, conclude Cannavò, che bisogna mantenere alti gli obiettivi e «costruirli con lenta impazienza».

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Avvenire

Il nuovo premier Giuseppe Conte, tra la calca dei cittadini ai Fori Imperiali, invita alla prudenza: «Non fatemi i complimenti adesso, non ho fatto ancora nulla. Spero che me li possiate fare dopo. Finora sono state fatte troppe chiacchiere, ora bisogna fare i fatti. Tenete duro, teniamo duro». Nel pomeriggio il premier ha parlato al telefono con la cancelliera tedesca Merkel e con il presidente francese Macron.

Fontana: incentivare le nascite. Polemiche
Incentivare le nascite e disincentivare gli aborti; sostenere la famiglia, che è «quella naturale», mentre le famiglie arcobaleno «per la legge non esistono». Così il neoministro della Famiglia e disabilità, Lorenzo Fontana, intervistato da Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Avvenire e Gazzettino. Parole bocciate dall'opposizione e dalle associazioni per i diritti gay. «Trovo gravissimo - dice la senatrice del Pd Monica Cirinnà - che un ministro della Repubblica neghi la realtà, anche se ne capisco la funzione reazionaria e oscurantista. Negare l'esistenza di chi chiede diritti e riconoscimento equivale a voler oscurare dei cittadini, silenziarli, relegarli fuori dal dibattito politico e sociale».

Lo stesso compagno di partito e di governo Matteo Salvini ha cercato di gettare acqua sul fuoco: "Io personalmente ritengo che il nostro Paese debba ancora avere alcuni principi, come che la mamma si chiama mamma e il papà si chiama papà e il bambino viene al mondo se li ha e viene adottato se ci sono un papà e una mamma. L'amico Fontana ha detto oggi una cosa che mi sembra normale", ma "sono cose fuori dal contratto di governo e non perderemo tempo su questo".

Di Maio: quota 100 per superare la Fornero

Dalla flat tax per le famiglie con tre figli alla quota 100 per superare la legge Fornero, dal miglioramento dei centri per l'impiego al reddito di cittadinanza. L'agenda economica delle prime mosse del nuovo Governo giallo-verde prende forma. A tracciarla è anche il vice premier e leader del M5s Luigi Di Maio, che in un video su Facebook in diretta dal Ministero dello sviluppo economico, che guiderà insieme a quello del Lavoro, indica le "iniziative che vanno affrontate subito". Misure già delineate nel contratto M5s-Lega e che potrebbero confluire nella prossima manovra, che è il veicolo naturale per questo tipo di interventi, ma per le quali ora bisognerà fare i conti con il nodo coperture.

Il costo complessivo delle principali misure annunciate potrebbe infatti superare i 100 miliardi, ma per alcune si potrebbe procedere per gradi: il reddito di cittadinanza, ad esempio, come indicato anche nel contratto, arriverà solo dopo il potenziamento dei centri per l'impiego. E anche la flat tax, secondo quanto annunciato dal neo ministro della famiglia Lorenzo Fontana, partirà subito mo solo dai nuclei con almeno
tre figli.

Fisco, flat tax e via spesometro.
La 'tassa piatta', che il neo ministro dell'economia Giovanni Tria sostiene anche a costo di aumentare l'Iva, è una delle misure più costose. Il nuovo modello di tassazione con due aliquote al 15% e 20%, per famiglie e imprese, ha un costo di circa 50 miliardi di euro, ha spiegato l'ideologo leghista della flat tax, il senatore Armando Siri, precisando che sarà in vigore dal 2019. Per dare una mano agli imprenditori ("li dobbiamo lasciare in pace", dice Di Maio), inoltre, via lo spesometro, via il redditometro e gli studi di settore: una misura il cui costo è però difficilmente quantificabile. Nel capitolo fisco bisogna tener conto anche della neutralizzazione dell'aumento dell'Iva, che scatterebbe il prossimo gennaio, per la quale servono 12,5 miliardi.

Industria, investimenti auto elettrica.

Sul fronte delle politiche industriali, Di Maio ha indicato gli investimenti nell'auto elettrica, accogliendo con "molto entusiasmo" gli investimenti annunciati da Fca in questo settore: "Vuol dire che potremo lavorare a quel milione di auto elettriche che ci eravamo prefissati come obiettivo anche insieme alla principale azienda automobilistica del Paese". Fca su questo capitolo punta 9 miliardi ma ancora non è noto quanto investirà il governo.

Lavoro, revisione jobs act e centri impiego.

Sul fronte del lavoro si parte dalla revisione del Jobs act, perché c'è troppa precarietà, ha annunciato Di Maio, indicando anche la necessità di migliorare i centri per l'impiego. A questo fine, Di Maio vuole mettere assieme gli assessori al lavoro di tutte le Regioni e cominciare a "lavorare per migliorare questi centri che hanno bisogno di più personale, di più risorse e di una filosofia diversa dove c'è lo Stato che mi consiglia su cosa formarsi in attesa che arrivi una proposta di lavoro". Per il potenziamento dei centri per l'impiego, il contratto M5s-Lega prevede una spesa di 2 miliardi. Potrebbe invece slittare ad una fase successiva il reddito di cittadinanza: "Prima dobbiamo lanciare i centri per l'impiego e poi facciamo il reddito di cittadinanza", spiegava qualche settimana fa Laura Castelli(M5s), indicando un orizzonte di 6-8 mesi per mettere in piedi i centri per l'impiego. Per il reddito di cittadinanza il contratto stima 17 miliardi annui per un assegno mensile da 780 euro. Ma per l'Inps la proposta arriverebbe a costare fino a 35-38 miliardi.

Pensioni, superamento Fornero con quota 100.

"Il tema delle pensioni è fondamentale e una delle prime cose su cui ci siamo messi d'accordo è fare quota 100 per superare la legge Fornero", ha annunciato Di Maio. Nel contratto M5s-Lega si stima per questo un costo di 5 miliardi. Ma nei calcoli dell'Inps, permettere il pensionamento con quota 100 tra età e contributi o con 41 anni di contributi a prescindere dall'età costerebbe il primo anno 15 miliardi per poi arrivare a regime a 20 miliardi l'anno.

Salvini: migliorare gli accordi con i Paesi di origine dei migranti

In un comizio pomeridiano a Vicenza Salvini elenca le priorità: il dossier immigrazione, il dossier sicurezza, il dossier lotta alla mafia e beni confiscati ai mafiosi, l'alta età media della polizia e dei vigili del fuoco. E annuncia che chiederà al ministro dell'Economia "assunzioni di persone giovani".

Parlando della necessità di migliorare gli accordi con i Paesi da cui partoni i migranti, ha aggiunto: "Bisogna andare in Tunisia da cui parte la maggior parte delle persone, in Marocco, in Egitto, in Libia seppure la situazione è complicata - e concordare il fatto che le partenze devono diminuire. Siamo disposti ad aiutare anche economicamente per fare crescere lì famiglie e aziende senza mettere gente sul primo barcone".

Quanto alle ong che soccorrono i migranti in mare, Salvini ha confermato che "stiamo lavorando": "quello che è certo è che gli Stati devono tornare a fare gli Stati e nessun vice scafista deve attraccare nei portiitaliani".I toni non sono proprio ancora da ministro: "Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia, preparatevi a fare le valigie, in maniera educata e tranquilla, ma se ne devono andare".

Domani pomeriggi, domenica, Salvini sarà in Sicilia, a Pozzallo, dove oggi sono sbarcati dalla nave Aquarius 158 persone, "ospiti non desiderati".Poi in settimana, il 5 giugno, il ministro Salvini volerà a Lussemburgo per la riunione dei ministri Ue.

I senatori Pd: Trenta (Difesa) chiarisca sui suoi rapporti con Sudgestaid

"Notizie di stampa affermano che la neoministra della Difesa Elisabetta Trenta è stata per anni presidente di Sudgestaid, una società che si occupa di reclutare mercenari che operano nei teatri di guerra del Medio Oriente. Sarebbe importante che la ministra Trenta chiarisca quali sono oggi i suoi rapporti con quella società". Lo chiedono in una nota congiunta i senatori del Pd Eugenio Comincini, Simona Malpezzi e Valeria Sudano, che preannunciano un'interrogazione parlamentare urgente sulla questione sollevata da Il Fatto Quotidiano in particolare che titola: "Trenta e l'ombra dei contractor: la prof. guerriera", spiegando anche che il ministro insegna intelligence alla Link University. "Sempre dalla stampa - continuano i senatori dem - apprendiamo che sono intercorsi rapporti tra le società che la neoministra ha presieduto e i servizi di sicurezza. Anche su questo è necessario fare chiarezza. Ci auguriamo che la ministra voglia al più presto spiegare la situazione".

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L'icona è tratta da una caricatura di Mannelli, ripresa da il Fatto quotidiano

il manifesto 2 giugno 2018. La truffa del "debito pubblico" mera invenzione di un sistema di mass media prezzolato, corrotto o demente, continua a portarci via fette di salario, diretto, indiretto, o differito (stipendi, pensioni, welfare). Con commento (e.s.)


Sono riusciti a far credere a un popolo di creduloni, incapaci di pensare e affidatisi alle mani e alle "informazioni" di una banda di persuasori prezzolati (ormai, l'intero mondo dei media) che esiste davvero un debito che ogni cittadino italiano, presente e futuro, sarà obbligato a pagare prima o poi. Approfittando di questa truffa lanciano e attuano progetti utili solo ad arricchir i più ricchi e a dare una piccola elemosina ai più miserabili (a condizione che esprimano gratitudine rafforzando il potere degli sfruttatori. Marco Bersani spiega come fanno. (e.s.)


il manifesto, 2 giugno 2018
Fiscal compact e manganello
di Marco Bersani


«Le speculazioni finanziarie fatte in questi giorni dai mercati, che si alimentano dell’instabilità, vengono narrate come preoccupazione dei mercati, i quali vorrebbero tanto il bene collettivo, se solo noi lo capissimo»
Il risultato finale con cui si è conclusa la crisi politica e istituzionale del nostro Paese rappresenta con piena evidenza l’utilizzo del debito come arma di disciplinamento sociale. Un’arma interamente giocata sul terreno simbolico, in quanto nessuno degli attori principali ne ha mai messo in discussione i fondamenti, aldilà di dichiarazioni di rito buone per tutte le stagioni.

Viene da pensare che il fuoco e le fiamme (fatue), prodotte ed alimentate nell’arco di 48 ore da entrambe le parti, non fossero rivolte agli attori in campo, ma avessero una funzione di alfabetizzazione di massa per tutti quelli che vi assistevano attoniti.

Da una parte, i sostenitori dell’establishment, interni ed esterni, ci hanno detto mai così chiaramente come nell’economia del debito la libertà è solo un contesto apparente: i popoli indebitati rimangono formalmente liberi, ma la loro libertà si può esercitare solo dentro il vincolo del debito contratto, e attraverso stili di vita che non ne pregiudichino il rimborso.

La precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici, la mercificazione dei beni comuni non sono estrazioni di valore dettate da brutali atti di forza e di potere, ma la “naturale” conseguenza di quel vincolo “liberamente” contratto.

E’ così che le speculazioni finanziarie fatte in questi giorni dai mercati, che si alimentano dell’instabilità, vengono narrate come preoccupazione dei mercati, i quali vorrebbero tanto il bene collettivo, se solo noi lo capissimo.

Dall’altra, i sostenitori del sovranismo ci hanno detto mai così chiaramente come non sia assolutamente in discussione la trappola del debito, bensì solo i luoghi di potere da cui essa dev’essere narrata: “prima gli italiani”, intendendo con questo una gerarchia che vedrà i ricchi sempre più ricchi grazie alla flat tax, e il resto della popolazione con in tasca le briciole di un sussidio di disoccupazione spacciato per diritto al reddito e fra le mani possibilmente un’arma per difendersi dagli stranieri.

Ciò che in realtà i contendenti hanno voluto comunicare al popolo è l’impossibilità di un’altra via fuori dalle due predefinite: il sostegno all’establishment in quanto tale, fiscal compact e pareggio di bilancio compresi, e il sovranismo reazionario, flat tax e razzismo compresi. Dentro il terreno di gioco, più che condiviso, delle politiche liberiste e d’austerità, che non possono in nessun modo essere ridiscusse e che hanno bisogno dello shock del debito per disciplinare la società e quanti dentro la stessa non rinunciano a voler cambiare il mondo.

La pretestuosità del conflitto diventa evidente nel risultato finale, così velocemente conseguito: abbiamo ora un governo che nei ruoli chiave ha di nuovo inserito i “tecnici” (Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Economia e Finanze e Ministero degli Esteri) dichiarando nei fatti la totale compatibilità con i vincoli monetaristi, con l’aggiunta dell’odore del manganello che promana dal nuovo Minsitero dell’Interno. Più che “la Cina è vicina”, come si diceva una volta, siamo “all’Ungheria è dietro l’angolo”con la benedizione di Francoforte.

Dentro questo quadro, c’è un’altra possibilità, a patto che si decida di prendere davvero parola collettiva sul tema del debito, ponendo alcune questioni reali: a) è accettabile aver pagato, dal 1980 ad oggi, 3.400 mld di interessi su un debito che, nonostante questo, continua ad essere di 2300 mld? b) è accettabile, per chi paga le tasse, aver dato allo Stato, dal 1990 ad oggi, 750 mld in più di quello che lo Stato ha restituito sotto forma di servizi? E’ accettabile aver ridotto i Comuni sul lastrico, nonostante il loro contributo al debito pubblico nazionale non superi l’1,8%? Solo la risposta a queste domande può aprire la discussione su quale modello di società vogliamo.

Con una certezza: il loro potere dura finchè dura la nostra rassegnazione.

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lI manifesto, 1 giugno 2018. Questi sciocchi italiani, credono di essere schiavi dell'Unione europea, in realtà il tallone è l'Impero statunitense. Il quale comunque rafforza il suo armamento in Euroa(e.s.)

Il titolo un po' ermetico che il manifesto ha dato all'articolo di Dinucci non aiuta a comprendere il reale problema . Le turbolenze che si agitano alla periferia dell'Impero non possono non turbare la Corte assisa tra la CasaBiance e Wall street. Se l'Italia, in un empito nazionalistico, volesse sganciarsi dalle alleanze attuali, o addirittura mutare casacca e indossate quella si Putin, uscire uscirebbe dalle catene che la legano ferreamente nel blocco militare della Nato. Un blocco che nacque per bilanciare e contrastare il blocco simmetrico degli stati e delle armate dek Patto di arsavia, Un patto, quello Nordatlantico, che ha ormai 'unica funzione di essere lo strumento militare per evitare l'uscita di qualche stato dal dominio coloniale degli Usa. E per twnere sotto scacco l'Impero russo, sempre possibile avverario e potenziale nemico.(e.s.)
il manifesto, 1° giugno2018«Sovranità» da Bruxelles, non da Washington
di Manlio Dinucci


Steve Bannon – ex stratega di Donald Trump, teorico del nazional-populismo – ha espresso il suo entusiastico sostegno all’alleanza Lega-Movimento 5 Stelle per «il governo del cambiamento».

In una intervista (Sky TG24, 26 maggio) ha dichiarato: «La questione fondamentale, in Italia a marzo, è stata la questione della sovranità. Il risultato delle elezioni è stato quello di vedere questi italiani che volevano riprendersi la sovranità, il controllo sul loro paese. Basta con queste regole che arrivano da Bruxelles». Non dice però significativamente «basta con queste regole che arrivano da Washington».

Ad esercitare pressione sull’Italia per orientarne le scelte politiche non è infatti solo l’Unione europea, dominata dai potenti circoli economici e finanziari soprattutto tedeschi e francesi, che temono una rottura delle «regole» funzionali ai loro interessi. Forte pressione viene esercitata sull’Italia, in modo meno evidente ma non meno invadente, dagli Stati uniti, che temono una rottura delle «regole» che subordinano l’Italia ai loro interessi economici e strategici.

Ciò rientra nelle politiche che Washington adotta verso l’Europa, attraverso diverse amministrazioni e con metodi diversi, perseguendo lo stesso obiettivo: mantenere l’Europa sotto l’influenza statunitense. Strumento fondamentale di tale strategia è la Nato. Il Trattato di Maastricht stabilisce, all’Art. 42, che «l’Unione rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la Nato». E il protocollo n. 10 sulla cooperazione stabilisce che la Nato «resta il fondamento della difesa» dell’Unione europea.

Oggi 21 dei 27 paesi della Ue, con circa il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, le cui «regole» permettono agli Stati uniti di mantenere, sin dal 1949, la carica di Comandante supremo alleato in Europa e tutti gli altri comandi chiave; permettono agli Stati uniti di determinare le scelte politiche e strategiche dell’Alleanza, concordandole sottobanco soprattutto con Germania, Francia e Gran Bretagna, facendole quindi approvare dal Consiglio Nord Atlantico, in cui secondo le «regole» Nato non vi è votazione né decisione a maggioranza, ma le decisioni vengono prese sempre all’unanimità.

L’ingresso nella Nato dei paesi dell’Est – un tempo membri del Patto di Varsavia, della Federazione Jugoslava e anche dell’Urss – ha permesso agli Stati uniti di legare questi paesi, cui si aggiungono Ucraina e Georgia di fatto già nell’Alleanza atlantica, più a Washington che a Bruxelles.

Washington ha potuto così spingere l’Europa in una nuova guerra fredda, facendone la prima linea di un sempre più pericoloso confronto con la Russia, funzionale agli interessi politici, economici e strategici degli Stati uniti. Emblematico il fatto che, proprio nella settimana in cui in Europa si dibatteva aspramente sulla «questione italiana», è sbarcata ad Anversa (Belgio), senza provocare alcuna significativa reazione, la 1a Brigata corazzata della 1a Divisione statunitense di cavalleria, proveniente da Fort Hood in Texas.

Sono sbarcati 3.000 soldati, con 87 carri armati Abrams M-1, 125 veicoli da combattimento Bradley, 18 cannoni semoventi Paladin, 976 veicoli militari e altri equipaggiamenti, che saranno dislocati in cinque basi in Polonia e da qui inviati a ridosso del territorio russo. Si continua in tal modo a «migliorare la prontezza e letalità delle forze Usa in Europa», stanziando dal 2015 16,5 miliardi di dollari. Proprio mentre sbarcavano in Europa i carri armati inviati da Washington, Steve Bannon incitava gli italiani e gli europei a «riprendersi la sovranità» da Bruxelles.

il manifesto,

«Disordine nuovo» titolava il manifesto del 29 maggio scorso. E fotografava perfettamente il carattere del tutto inedito del caos istituzionale e politico andato in scena allora sull’«irto colle» e diffusosi in un amen urbi et orbi. Ma quell’espressione va al di là dell’istantanea, e non perde certo attualità per la nascita del governo Conte.

Con la sua doppia allusione storica (all’ordinovismo neofascista ma anche all’originario Ordine Nuovo gramsciano) ci spinge anzi a riflettere da una parte sul potenziale dirompente del voto del 4 marzo, reso assai visibile ora che è esploso fin dentro il Palazzo provocandone una serie di crisi di nervi.

Dall’altra sul carattere anche questo «nuovo» del soggetto politico insediatosi nel cuore dello Stato: sull’ircocervo che sta sotto la bandiera giallo-verde e che per ora è difficile qualificare se non in forma cromatica. Perché quello che è andato abbozzandosi «per fusione» nei quasi cento giorni di crisi seguita al terremoto del 4 di marzo, e infine è diventato «potere», forse è qualcosa di più di una semplice alleanza provvisoria. Forse è l’embrione di una nuova metamorfosi (potenziata) di quel «populismo del terzo millennio» su cui dalla Brexit e dalla vittoria di Trump in poi i politologi di mezzo mondo vanno interrogandosi. Forse addirittura è una sua inedita mutazione genetica che, fondendo in un unico conio vari ed eterogenei «populismi», farebbe ancora una volta del caso italiano un ben più ampio laboratorio della crisi democratica globale.

Sbagliano quanti liquidano l’asse 5Stelle-Lega con le etichette consuete: alleanza rosso-bruna, coalizione grillo-fascista, o fascio-grillina, o sfascio-leghista, e via ricombinando. Sbagliano per pigrizia mentale, e per rifiuto di vedere che quello che va emergendo dal lago di Lochness è un fenomeno politico inedito, radicato più che nelle culture politiche nelle rotture epocali dell’ordine sociale. Altrimenti dovremmo concludere che (e spiegare perché) la maggioranza degli italiani – quasi il 60% – è diventata d’improvviso «fascista». E sarebbe assai difficile capire come e per quale occulta ragione l’elettorato identitario della Lega si è così facilmente rassegnato al connubio con la platea anarco-libertaria grillina, e viceversa come questa si sia pensata compatibile con i tombini di ghisa di Salvini…

È dunque per molti versi un oggetto misterioso quello che disturba i nostri sonni. E in questi casi, quando si ha di fronte un’entità politica che non ci dice da sé «chi sia», è utile partire dall’indagine delle cause. Dalla «eziologia», direbbero i vecchi padri della scienza politica, prendendo a prestito il termine dalla medicina, come se appunto di malattia si trattasse. Da dove «nasce» – da quale sostrato, o «infezione», prende origine -, questa «cosa» che ha occupato il centro istituzionale del Paese, destabilizzandolo fino al limite dell’entropia?

Una mano, forse, ce la potrebbe dare Benjamin Arditi, un brillante politologo latino-americano che ha usato, per il populismo del «terzo millennio», la metafora dell’”invitado incomodo”, cioè dell’ospite indesiderato a un elegante dinner party, che beve oltre misura, non rispetta le buone maniere a tavola, è rozzo, alza la voce e tenta fastidiosamente di flirtare con le mogli degli altri ospiti… È sicuramente sgradevole, e «fuori posto», ma potrebbe anche farsi scappare di bocca «una qualche verità sulla democrazia liberale, per esempio che essa si è dimenticata del proprio ideale fondante, la sovranità popolare». È questo il primo tratto identificante del new populism: il suo trarre origine dal senso di espropriazione delle proprie prerogative democratiche da parte di un elettorato marginalizzato, ignorato, scavalcato da decisioni prese altrove… Son le furie del (popolo) Sovrano cui per sortilegio è stato sfilato lo scettro il denominatore comune delle pur diverse anime. E queste furie (confermate purtroppo dalle recenti improvvide esternazioni istituzionali) attraversano la società in tutte le sue componenti, sull’intero asse destra-sinistra.

Il secondo fattore è lo «scioglimento di tutti i popoli». Può sembrare paradossale, ma è così: questo cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo. Anzi, è il prodotto della fine di tutte le precedenti aggregazioni socio-politiche. Nella marea che ha invaso le urne il 4 di marzo non c’è più il «popolo di sinistra» (lo si è visto e lo si è detto), ma neppure più il «popolo padano» (con la nazionalizzazione della Lega salviniana), e neanche il «popolo del vaffa» (con la transustanziazione di Di Maio in rassicurante uomo di governo): c’è il mélange di tutti insieme, sciolti nei loro atomi elementari e ricombinati. Così come ci sono ben visibili le tracce di tutti e tre i «populismi italiani» che nel mio Populismo 2.0 avevo descritto nella loro successione cronologica (il telepopulismo berlusconiano ante-crisi, il cyberpopulismo grillino post-Monti e il populismo di governo renziano pre-referendario), e che ora sembrano precipitare in un punto solo: in un unico calderone in ebollizione al fuoco di un «non popolo» altrimenti privo di un «Sé».

Per questo credo di poter dire che siamo lontani dai vari fascismi e neofascismi novecenteschi, esasperatamente comunitari in nome dell’omogeneità del Volk. E nello stesso tempo che viviamo ormai in un mondo abissalmente altro rispetto a quello in cui Gramsci pensò il suo Ordine Nuovo fondando su quello l’egemonia di lunga durata della sinistra. Se quel modello di «ordine» era incentrato sul lavoro operaio (in quanto espressione della razionalità produttiva di fabbrica) come cellula elementare dello Stato Nuovo, l’attuale prevalente visione del mondo trae al contrario origine dalla dissoluzione del Lavoro come soggetto sociale (si fonda sulla sua sconfitta storica) e dall’emergere di un paradigma egemonico che fa del mercato e del denaro – di due entità per definizione «prive di forma» – i propri principii regolatori. È appunto, nel senso più proprio, un «disordine nuovo». Ovvero un’ipotesi di società che fa del disordine (e del suo correlato: la diseguaglianza selvaggia) la propria cifra prevalente.

A questo modello «insostenibile» il soggetto politico che sta emergendo dal caos sistemico che caratterizza la «maturità neoliberista» non si contrappone come antitesi, ma ne trasferisce piuttosto lo statuto «anarco-capitalista» nel cuore del «politico». Non è il corpo solido piantato nella società liquida. È a sua volta «liquido» e volatile. Continuerà a quotare alla propria borsa l’insoddisfazione del «popolo esautorato», ma non gli restituirà lo scettro smarrito. Continuerà a prestare ascolto alla sua angoscia da declino e da marginalizzazione, ma non ne arresterà la discesa sul piano inclinato sociale (scaricandone rabbia e frustrazione su migranti, rom e homeless secondo la tecnica consumata del capro espiatorio). Condurrà probabilmente una lotta senza quartiere contro le attuali «oligarchie» (per sostituirsi ad esse) ma non toccherà nessuno dei «fondamentali di sistema». È pericoloso proprio per questo: per la sua adattabilità ai flussi umorali che lavorano in basso e per la sua simmetrica collusione con le logiche di fondo che operano in alto. E proprio per questo personalmente non farei molto conto sull’ipotesi che a breve tempo il loro governo vada in crisi per le sue contraddizioni interne. O per un conflitto «mortale» con l’Europa, che non saranno loro ad affossare con un’azione deliberata e consapevole (sta già facendo molto da sola, con la sua tendenza suicida).

Se vorremo combatterli dovremo prepararci ad avere davanti un avversario proteiforme, affrontabile solo da una forza e da una cultura politica che abbia saputo fare, a sua volta, il proprio esodo dalla terra d’origine: che sia preparata a cambiarsi con la stessa radicalità con cui è cambiato ciò che abbiamo di fronte. Non certo da un fantasmatico «fronte repubblicano», somma di tutte le sconfitte.

Internazionale

«Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi», afferma l'autrice. Il punto è cha la categoria della "sinistra" così come l'abbiamo ereditata dai secoli passati a me sembra del tutto superata, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello, per così dire, congiunturale. Se la componente socialista della sinistra si è dissolta nella "modernizzazione" di Benito Craxi, quella comunista è stata seppellita sotto le rovine del Muro di Berlino dall'incauto e precipitoso Occhetto. Sopravvissuti a quell'evento sono solo alcune piccole compagini, delle quali Rifondazione comunista è l'unica di un qualche rilievo, sia dal punto di vista dell'ideologia che dell'organizzazione. Il resto non ha più nulla a che fare con le precedenti formazioni della sinistra. È avvenuto un grande rimescolamento delle formazioni politiche italiane, accompagnato da una e vera mutazione antropologica nel personale ex comunista

Sotto il profilo della congiuntura mi sembra (e mi è sembrato fin dalle prime apparizioni del ragazzo di Rignano, a suo tempo sponsorizzato da Silvio Berlusconi) che il buon Matteo Renzi e il residuo di militanti e strutture che Bersani gli ha lasciato conquistare non abbiano mai avuto nulla di ciò che era la vecchia sinistra, e quindi neppure qualcosa che possa definissi centrosinistra. Il PD è uno dei molti partiti della vecchia impallidita centrosinistra via via risucchiate nel gorgo del liberismo capital-finanziario.

Per concludere questo lungo commento introduttivo all'interessante articolo di Ida Dominijanni ripeterà quanto ho ampiamente argomentato nel mio scritto "La parola sinistra". La sinistra è sempre stata quella parte politica che ha promosso e difeso la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori. Ma i due mondi alternativi degli sfruttati e degli sfruttatori sono sostanzialmente (economicamente, socialmente, geograficamente, ideologicamente) del tutto diversi da quelli che era nel XX secolo. È da qui che bisogna cominciare, uscendo dalla palude di idee ed eventi limpidamente raccontato da Ida Dominijanni nell'articolo che segue (e.s.).

Internazionale, 1° giugno 2018
Ottantotto giorni
di Ida Dominijanni

Alla fine ci abbiamo messo la metà del tempo della Germania, e senza elezioni a ripetizione come in Spagna. Il governo concepito nelle urne il 4 marzo ha avuto una gestazione lunga 88 giorni e a dir poco rocambolesca, ma alla fine assomiglia al voto da cui nasce e di questo deve prendere positivamente atto anche chi di quel voto non è contento affatto. La gestazione rocambolesca ha rischiato di mandare in default l’istituzione più alta della repubblica, nonché l’unica a essere fin qui sopravvissuta alla crisi di legittimazione di tutte le istituzioni repubblicane, ma alla fine e in qualche modo Sergio Mattarella ha vinto: governo politico (anche se infarcito di tecnici nei ruoli più importanti, a cominciare dal presidente del consiglio), composto dai vincitori delle elezioni (anche se uniti non da una solida alleanza ma da un sospettoso, e sospetto, contratto), senza presenze troppo inquietanti per l’Unione europea e i famigerati mercati (il caso Savona si chiude con un compromesso di facciata, ma accettabile per tutti).

L’antica sapienza democristiana della prima repubblica ha avuto la meglio sulle intemperanze dei due capopopolo che si vorrebbero levatori della terza? Sì e no. Sull’operato di Mattarella, sulla sua gestione del fattore-tempo, sulla sua tolleranza per gli strappi alle forme e alle procedure, sulle sue rigidità (il discutibile veto su Savona) e le sue condiscendenze (l’ancor più discutibile incarico a Conte) si discuterà ancora a lungo. Ma è lecito pensare che nel piegare Di Maio e Salvini alla disciplina della formazione del governo il cinismo dei mercati e di chi li muove, Bce compresa, abbia pesato almeno quanto la suddetta sapienza e pazienza del capo dello stato. Tre giorni di impennata dello spread devono aver convinto Di Maio e Salvini che altri due mesi passati a gridare all’impeachment e ad arringare le piazze avrebbero avuto sui loro elettorati la forza devastante di un’atomica.

Il centrosinistra e la sinistra si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi.

E qui finisce il brindisi per il lieto evento, perché né la laboriosità del parto né le fattezze della creatura promettono alcunché di buono per il futuro. Del presidente del consiglio non sappiamo che cosa pensi dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Luigi Di Maio può intestarsi la mossa finale che ha vinto le resistenze di Salvini, ma solo dopo aver ingoiato a sua volta tutte le condizioni del suo alleato, che non solo si insedia al Viminale con intenzioni fieramente razziste ma incassa ministeri chiave per l’egemonia sul senso comune quali l’istruzione (Bussetti) e la famiglia (Fontana, militante pro-vita ed eteronormativo sfegatato. A proposito, il tanto apprezzato Giorgetti, sottosegretario in pectore alla presidenza del consiglio, fu a suo tempo il principale estensore della legge 40 contro la procreazione assistita). Sulla giustizia (Bonafede, M5s) il “contratto di governo” si segnala per essere il più forcaiolo della storia della repubblica. Sulla politica industriale, e in generale sull’idea di sviluppo del paese, il più omissivo. Sui rapporti con la Ue, come s’è visto nell’ultima tumultuosa settimana, il più opaco. Sulla politica estera il più pericolosamente ambiguo. E siccome il mondo ci mette sempre lo zampino, per ironia della storia la prima gatta da pelare del governo del “prima gli italiani” sarà la guerra dei dazi contro l’Europa dell’alfiere di America first: contraddizioni in seno al sovranismo.

Restano sul campo i morti, i feriti e gli effetti collaterali di questi 88 giorni. Gli sconfitti del 4 marzo, ovvero il centrosinistra a trazione renziana e il centrodestra a trazione berlusconiana, ne escono entrambi ma diversamente triturati. Il centrodestra perde la maschera del preteso moderatismo berlusconiano, si radicalizza sotto la guida di Salvini (nonché di Meloni) ma mantiene e rafforza la sua pretesa egemonica sulla società e sullo scacchiere politico. Il centrosinistra e la sinistra, al contrario, si ritrovano ben avviati sul viale della marginalità, per giunta silenziosa e priva di guizzi reattivi. Che se la siano cercata e meritata non è di nessuna consolazione, la situazione attuale essendo la dimostrazione che senza sinistra in questo paese vacilla l’intera impalcatura democratica.

Gli effetti collaterali non sono meno rilevanti. L’odiosa formula del “contratto di governo” segnala un processo preoccupante di privatizzazione della politica che si cristallizza nel linguaggio (para)giuridico. La scomposta spericolatezza dei principali protagonisti di questa lunga crisi nel rapporto con il Quirinale accentua una crisi di autorità della politica e delle istituzioni che sembra ormai priva di anticorpi nei leader delle nuove generazioni, e che il sempre più frequente ricorso alle “competenze” e ai “tecnici” copre malamente. Infine ma non ultimo, il rapporto fra politica e comunicazione ha subìto un’ulteriore torsione: mai la formazione di un governo era stata così spettacolarizzata, con un assedio così pervasivo della scena e del retroscena e un accavallarsi così rapido dei fatti e delle reazioni, in tv e in rete: una saturazione dell’informazione e della comunicazione che fa tabula rasa dei tempi e dei riti residui della decisione e della riflessività politica.

Ma che accelera inevitabilmente, e positivamente, anche tutte le contraddizioni in campo. L’opposizione – politica e giornalistica – all’establishment, ora che è al potere, dovrà trovare nuove, e si spera più pacate e razionali, strategie narrative di autolegittimazione. Il populismo di governo dovrà fare i conti con i limiti che il populismo d’opposizione ignora. La questione europea, fin qui inchiodata fra l’ottusità della governance comunitaria da un lato e le falene regressive del sovranismo dall’altro, dovrà dispiegarsi, da qui alle elezioni del 2019, in tutta la sua gigantesca portata. Se Bruxelles, Francoforte e Berlino dovessero finalmente realizzare che la gabbia soffocante dei parametri, della moneta e delle direttive calate dall’alto rischia di partorire solo mostriciattoli, il laboratorio italiano anche stavolta non avrà funzionato invano.

Nel Paese della commedia dell'arte il governo Conte nasce come una farsa, una pochade.

Un governo che nasce mentre il presidente del consiglio incaricato viene nascosto in tutta fretta in un armadio del Quirinale, in tasca la lista dei ministri: mentre torna al talamo nuziale l'altro, il marito scacciato, e ora benevolmente riammesso.

Un governo del paradosso: con i due vicecapi che comandano il capo. Anzi: con un vicecapo che è il vero capo, e tiene gli altri due al guinzaglio.
Un governo il cui vicepresidente tre giorni fa ha annunciato in diretta la messa in stato d'accusa del Capo dello Stato che oggi lo ha nominato.

Un governo che nasce con una manifestazione antifascista (del sedicente Fronte Repubblicano) in solidarietà di un presidente della Repubblica che ha appena nominato ministro della polizia e vice premier uno in cui Casa Pound si riconosce, uno che annuncia rastrellamenti di migranti "con le maniere forti", uno che vuole gli italiani armati, uno che dice che "il fascismo ha fatto anche cose buone". Un fascista.

Un governo che nasce con un presidente della Repubblica che prima forza la Costituzione per fermare Savona, nemico dell'Europa, e quattro giorni dopo nomina Savona ministro dell'Europa.

E delle due l'una: o Mattarella ha dato disco verde perché è riuscito a imporre al governo il proprio indirizzo politico (violando la Costituzione); o Mattarella ha affidato il Paese a un governo che farà il disastro che egli ha descritto domenica 27 maggio.

Un governo di destra, a tratti di estrema destra, che nasce grazie all'aventino del Partito Democratico. E grazie al fatto che la solidarietà del Pd con il suo presidente della Repubblica finiva prima della disponibilità a votarne il governo.

E, ancora prima, grazie alla politica di una Sinistra diventata destra, che, in venticinque anni e infine con l'abisso renziano, ha sfigurato il Paese con la diseguaglianza, e poi ha indegnamente cavalcato il vento di destra (si veda alla voce "Minniti").

Un governo delle forze antisistema che nasce mettendo Economia ed Esteri saldamente nelle mani del Sistema. Così che concreto è il rischio che tutto continui esattamente come prima: ma con la devastante arma di distrazione di massa della caccia al diverso (di pelle, di sesso, di pensiero).

Un governo del cambiamento: che per cambiare un Paese maschilista è un governo di maschi.

Un governo del cambiamento: che per cambiare l'ingiustizia sociale diminuirà le tasse ai ricchi, le aumenterà ai poveri.

Un governo in cui un Movimento del 33 % e "del cambiamento" si fa tappeto e sgabello di un partito del 17% e che governa da anni mezzo Nord. Un Movimento che firmando il contratto col diavolo si è venduto l'anima. E che non vedrà realizzato il suo pallido reddito di cittadinanza nemmeno col binocolo.

Un governo del merito con il presidente del Consiglio che scrive il curriculumcome i pescatori della domenica raccontano le loro imprese. E con un integralista alla Famiglia, un ginnasta alla Scuola, un manager della scuola privata alla Cultura.

Con il presidente del Consiglio che si dichiara avvocato difensore degli italianimentre nomina alla guida della Pubblica Amministrazione l'avvocato difensore di Andreotti.

Un governo senza opposizione in Parlamento: perché la miccia non può diventare l'opposizione alla bomba, la causa non può opporsi al suo effetto, la radice all'albero. E il Pd di destra non è il rimedio al governo della Destra.

Mentre si ammaina la speranza del Movimento 5 Stelle, si alza su Palazzo Chigi la bandiera della paura.
La notte sarà lunga e sarà nera.
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