a Repubblica, 8 marzo 2017
Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”.
Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione (diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata. Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico ( demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” ( idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’”educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».
Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide.
Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.
Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino.
Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.
la Repubblica, 8 marzo 2017
La nuova sfida di Orbán arriva proprio nel giorno in cui la Corte di giustizia europea, respingendo il ricorso di una famiglia siriana che tentava di entrare in Belgio, ha deciso a sorpresa con una sentenza che gli Stati “non sono obbligati a garantire visti umanitari a persone che desiderano entrare nel loro territorio con l’obiettivo di presentare richiesta d’asilo”. In Ungheria, i nuovi migranti che riusciranno a entrare nel Paese saranno alloggiati in campi di raccolta costruiti con enormi alloggi-container in fila parallela circondati da filo spinato, finché il loro caso non sarà esaminato. Verso il summit straordinario della Ue a Roma il 25 marzo, è una sfida. Si reintroduce l’arresto automatico dei richiedenti asilo, sospeso nel 2013 su richiesta della Ue e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). «Con Donald Trump presidente eletto a Washington, elogiato da Orbán, il vento è cambiato», dicono fonti diplomatiche Nato per telefono.
Di loro solo 425 hanno ottenuto asilo. È in costruzione la seconda barriera anti migranti al confine serbo: “barriera intelligente”, un sensore ogni 15 cm. Human Rights Watch accusa, ma senza prove, i soldati ungheresi di pestare i migranti e filmare tutto su selfies. Il partito di Orbán è membro del Ppe (Popolari europei).
il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Il fischio delle bombe, il senso di insicurezza, lo sfollamento e la perdita di fiducia negli adulti segnano il futuro del paese: «Questi bambini, questi corpi, sono in costante conflitto o fuga, il livello accumulato di stress tossico avrà indubbiamente conseguenze sul lungo termine», spiega la psicologa Marcia Brophy, che ha condotto le interviste. Uno stress tossico che accomuna tutti i siriani, dentro e fuori il paese. Dal 2011 sette milioni di persone, di cui la metà minori, hanno abbandonato la Siria in cerca di un rifugio nei paesi confinanti: la Giordania ne ospita il numero maggiore. Secondo le agenzie internazionali (tra cui Unicef e Ocha), tra i rifugiati siriani di qualsiasi età sussiste un alto tasso di disordini emozionali (54%), tra i più comuni depressione e ansia. In tutti i paesi ospitanti e in Siria, sono numerosi i casi di epilessia. Il 79% dei minori fa i conti con almeno un lutto in famiglia; il 60% è stato testimone di atti di violenza estrema.
Ai traumi da guerra va aggiunto il «trauma migratorio». Il non aver potuto preparare normalmente il proprio progetto migratorio è un notevole fattore di rischio: gli effetti sulla salute dipenderanno dalle capacità di adattamento del singolo e il superamento del trauma da caratteristiche individuali e l’ambiente circostante. La Giordania, come la Turchia, non ha una legislazione ad hoc sulla salute mentale. Ci sono dei piani programmati con il supporto delle ong internazionali, che stabiliscono però in maniera confusa le azioni da intraprendere. Secondo dati dell’International Medical Corps, ci sono 3 psichiatri, 0.1 medici di base, 12 infermieri, 0.5 psicologi, 0.75 assistenti sociali ogni 300 mila persone. Per quanto riguarda la sfera educativa, la Giordania permette ai minori siriani l’ingresso nelle scuole pubbliche, mentre in Turchia per poter frequentare la scuola un bambino siriano deve parlare la lingua turca. In nessun paese confinante è concesso ai professori siriani di insegnare: non hanno il permesso di lavoro. Le difficoltà economiche spingono molte famiglie siriane a far lavorare nel mercato nero anche i minori, spesso costretti a ritirarsi dalla scuola per aiutare la famiglia ad arrivare alla fine del mese.
Oltre l'80% dei rifugiati siriani in Giordania non vive nei campi profughi ufficiali, ma risiede nelle comunità locali. Nonostante l’atteggiamento ospitale e solidale di una buona parte dei giordani, sono in aumento casi di discriminazione verso i rifugiati: negli ultimi anni una netta stratificazione sociale sta generando cambiamenti radicali nella società. Ad Amman la trasformazione è tangibile ed evidente. Nelle periferie risiedono le famiglie di classe medio-bassa, strette nella morsa della difficoltà economica, a causa di salari troppo esigui per stare al passo dello stile vita diffusosi di recente. Il lavoro nero con l’arrivo dei rifugiati siriani è aumentato a livello esponenziale e il salario medio ha subito un andamento inverso.
Sono moltissimi i minori che lavorano, spesso in condizioni che compromettono ulteriormente il loro benessere psicofisico. La sanità è diventata un lusso che non tutti riescono a permettersi: una gastroscopia può arrivare a costare 500 euro, lo stipendio di un lavoratore medio. Più della metà dei rifugiati siriani in Giordania soffre di malattie croniche e necessita cure, ma l’accesso ai servizi pubblici è sempre più ristretto.
Difendere la lingua italiana: d'accordo, ma come, da che cosa, in quale contesto? Il caso milanese è proprio identico a quello di Bolzano? Abbiamo qualche dubbio, cercheremo di spiegarci meglio. la Repubblica, 8 marzo 2017
Il caso del Politecnico di Milano e il ricorso al Tar per abolire i corsi in inglese Abbiamo dimenticato che la lingua di un popolo è un bene come la Pietà.
Parrebbe un’ovvietà lapalissiana, rischia di trasformarsi in una prece, una speranza, un desiderio. Non solo per il degrado culturale dei nostri studenti, né per la sciatteria linguistica che trasuda in tv così come dalle pagine dei libri. No, la questione ormai investe la sopravvivenza stessa dell’italiano, quale lingua ufficiale dello Stato. Tocca il ruolo delle istituzioni che dovrebbero proteggerlo. E in ultimo interroga l’identità degli italiani, la loro comune appartenenza.
Ne sono prova due episodi, fra i molti che potrebbero elencarsi. Il primo riguarda una vicenda giu- diziaria innescata dal Politecnico di Milano, dove vengono impartiti — dal 2014 — corsi di laurea magistrale e dottorati di ricerca esclusivamente in lingua inglese. Succede, del resto, anche in altri atenei. A Milano, però, un gruppo di docenti si è rivolto al Tar, ottenendo l’annullamento di quell’iniziativa. Dopodiché il Politecnico si è appellato al Consiglio di Stato, che a sua volta ha chiamato in causa la Consulta. Oggetto del contendere: è legittimo che professori italiani, in territo- rio italiano, insegnino a studenti italiani usando una lingua straniera?
L’altravicenda si sviluppa a Bolzano. Dove la commissione paritetica Stato-Provincia autonoma ha annunziato una riforma della toponomastica, per cancellare il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana. Risultato: oltre 1500 toponimi si pronuncerebbero soltanto in tedesco. Fra questi la Vetta d’Italia, il punto più a nord della penisola; d’ora in poi si chiamerebbe Glockenkarkopf, cancellando la doppia dizione. E altri luoghi come il Monte Sant’Anna, il lago Trenta, la montagna della Palla Bianca.
Da qui la reazione dell’Accademia della Crusca, subito appoggiata da 102 senatori. Anche perché proprio lo Statuto del Trentino, all’articolo 99, proclama l’italiano «lingua ufficiale dello Stato». Certo, in Alto Adige vige un regime di separatismo linguistico, figlio dell’accordo De Gasperi-Gru- ber del 1946. Un’eccezione rispetto al primato dell’italiano nei documenti ufficiali della nostra Re- pubblica. Ma l’eccezione non può divorare la regola, rimpiazzandola con la regola contraria. Se ne occuperà, probabilmente, la Consulta.
Che nel frattempo ha tuttavia deciso la querelle sul Politecnico. Stabilendo che è lecito impartire corsi di studio in lingua inglese, purché in misura residuale rispetto all’offerta complessiva dei singoli atenei; altrimenti verrebbero penalizzati sia gli studenti (con una barriera linguistica che pre- scinde dai loro saperi), sia gli stessi docenti (rispetto alla libertà d’insegnamento, che comprende anche la scelta sulle forme di comunicazione didattica). Insomma, l’obiettivo dell’internazionalizza- zione non può andare a scapito della nostra lingua nazionale, della sua dignità sociale e culturale. La sentenza n. 42 del 2017 - pubblicata nell’ultima settimana di febbraio — non è affatto un ine- dito nella giurisprudenza costituzionale. Già nel 1982 (sentenza n. 28) la Consulta sancì l’obbligo d’usare la lingua italiana nelle comunicazioni degli uffici pubblici; mentre nel 1999 (sentenza n. 159) aggiunse che la tutela attribuita alle minoranze linguistiche non può mai relegare l’italiano in una posizione marginale. Stavolta, però, vi si coglie un pathos, un’enfasi speciale. Dice la Corte: vero, il plurilinguismo è un tratto delle società contemporanee. Vero, la globalizzazione abbatte confini, mescola culture. Ciò nonostante, la difesa della nostra lingua nazionale non è un retaggio del passato, bensì strumento «per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica ». E l’italiano costituisce «un bene culturale in sé», al pari delle sinfonie di Verdi o della Pietà di Michelangelo. Dovremmo allora chiederci perché, da dove scaturisca questo tono
d’allarme. Ma dopotutto ciascuno conosce la risposta. Noi italiani abbiamo un’identità debole, sfo- cata. Non a caso perfino il più grande monumento edificato dopo l’unificazione nazionale — il Vit- toriano — rimane orfano di qualsiasi rappresentazione dell’Italia. Se si eccettua la parentesi dolente del fascismo, la nostra storia viene scandita dal localismo, non dal nazionalismo. Ma adesso gli ele- menti di disgregazione prevalgono, e di gran lunga, sull’integrazione. Ne è specchio la politica, ne èvittima, a suo modo, la lingua. Dal fascismo allo sfascismo.
il manifesto, 8 marzo 2017
Oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per capire oltre l’invito di Candido «Dobbiamo coltivare il nostro orto», evocato in un altro scritto di Revelli sul manifesto. O ancora se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato, della civiltà materiale.
Sono tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Può sembrare retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”. Che diventa, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Questo sommerso carsico ha poco a che fare con il “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria.
Riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero/Mediterraneo. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi. In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e lo sfarinamento dei ceti medi cui si aggiunge oggi la forma partito. Il sommerso ascendente dei tardi anni ’60 sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi.
Questa voglia collettiva di rendersi ed essere visibili nel fare società e nel fare economia non c’è più. Per molti l’ascesa e la visibilità non hanno significato inclusione nel passaggio d’epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso, milioni di posti di lavoro sono andati distrutti, molti sono tornati nei sottoscala e nell’economia informale. E’ una spaccatura che attraversa anche il sindacato, che firma accordi di welfare aziendale con le medie imprese globalizzate e di formazione al lavoro “ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova a svuotare con il cucchiaio il mare dei voucher. E che dire e che fare di fronte alla proposta di Bill Gates di tassare i robot? E del mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con la grande distribuzione e i grandi gruppi assicurativi e in basso con le false cooperative dei lavori ai margini della logistica o, peggio ancora, speculando sui profughi richiedenti asilo? E’ così che si è scomposto l’operaio massa e il volontario come sostituto del militante, di cui scrivevamo su Communitas. Si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibili le vite minuscole della piccola borghesia. Pochi sono andati verso l’alto, a fare i manager, gli altri sono andati in basso pieni di incertezze per il destino dei figli a rischio neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più un rifugio, alcune banche sono fallite con le loro assemblee di popolo. La borsa poi…
Ci si “aerbirizza”, quelli a cui è rimasta la casa, facendosi affittuari per studenti e turisti, ci si “uberizza” in lavoratori autonomi di terza generazione fatti di lavoretti vari offerti dai padroni degli algoritmi, magari in conflitto con il lavoro autonomo di prima generazione. Oppure ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti. Ragionammo anni fa dei forconi, che si prendevano il centro delle città. Si trattava di un “popolino” di ambulanti commercianti e artigiani ormai working poors, provenivano dal contado e non dalle fabbriche, segno di un territorio desertificato. Un deserto che sotto il sole dei flussi surriscalda un magma sociale difficile da toccare e trattare con le categorie del ‘900 senza scottarsi. A seconda del punto di eruzione è fatto di taxisti in deficit corporativo, da ambulanti che reclamano spazi, di espulsi dai robot, sino ai nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti. Ne deduco che lo scomporre e ricomporre questo magma sia questione politica quanto il tema nodale delle povertà. Così come mi pare urgente capire che cosa ne sia del lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita Iva terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo.
I pifferai della ruota della fortuna raccontano spesso delle start up che si quotano o sono acquistate dai padroni della rete, o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa. In quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per l’apparire. A noi tocca ragionare della ruota del criceto che mostra, in una stasi accelerata, tanti smanettoni al lavoro invisibili e sommersi, o precari a partita Iva a basso reddito, quando va bene. Anche la composizione dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi. Ed anche per loro, per gli scampati al Mediterraneo, è questione il rimanere sommersi ed invisibili, nella speranza di andare verso un altrove, di andare oltre un muro, per non essere rimpatriati (se di patria si può parlare). Il grande esodo nasce da guerre, da mutamenti ambientali che producono i dannati della terra.
A fronte di questo salto d’epoca, la paura ed il rancore si sono fatti razzismo nell’Europa dell’indifferenza che non coglie la sfida delle migrazioni come questione politica che interroga un modello di sviluppo che produce fame, guerra e desertificazione. Verrebbe da dire “non voglio essere complice di questa economia e di questa politica”. Visto che non trovo un altrove, mi ritiro a coltivare il mio orticello. Ma proprio l’alzare lo sguardo nel riconoscere e riconoscersi nella sociologia delle macerie induce l’urgenza di un lavoro sociale di lunga lena, prepolitico, di ricostruzione, che vada oltre il nostro circoscritto coltivare l’orto volteriano.
il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2017 (p.d.)
il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Oggi, 8 marzo 2017, le donne scioperano, non sono in festa. “Se la mia vita non vale, io non produco” è lo slogan chiave della giornata che invita allo sciopero. Perché non c’è nulla da festeggiare, c’è molto contro cui lottare, molto da cambiare.
Lotto marzo, appunto, come dice l’invenzione felice di NonUnaDiMeno, l’insieme di gruppi, associazioni, femminismi diversi (le sigle originarie sono D.I.R.E, Udi, e coordinamento dei collettivi romani) che dal settembre scorso hanno dato vita al nuovo movimento. E alla entusiasmante manifestazione del 26 novembre 2016. 200.000 in strada a Roma, un corteo che accoglieva anche tantissimi ragazzi e uomini, la più grande manifestazione di movimento vista in Italia negli ultimi anni. Una scelta vitale, di notevole forza politica, che va oltre differenze e contrapposizioni troppo presenti anche nei femminismi. È stata la violenza maschile contro le donne, il ripetersi di femminicidi feroci a spingere a unirsi, a lottare insieme. A cercare la strada e la forza per ribaltare un potere che agisce sulle vite singole, fino ad armare la mano di un uomo che non sopporta di essere abbandonato. È un nuovo rischio, che minaccia le donne proprio perché sono libere. Perché possono e vogliono decidere di sé. Per questo lo sciopero è globale, un movimento internazionale che attacca alla radice il potere. Il potere del neocapitalismo che, lungi dal modernizzarsi, ha assunto il patriarcato come una propria articolazione.
La prima volta era successo in Polonia, il Black Monday del 3 ottobre 2016. Vestite di nero le polacche si sono fermate, per lottare contro la completa abolizione della possibilità di aborto. Se le donne si fermano, si ferma tutto. E con loro gli uomini, che le hanno aiutate, e in parte sostituite. In Argentina, da dove viene NiUnaDeMenos, è stato un mercoledì nero il 17 ottobre, dopo che Lucia Pèrez, 16 anni, è stata violentata, torturata e uccisa a Mar de Plata. Infine il 21 gennaio 2017, già dopo la proclamazione dello sciopero globale delle donne per l’8 marzo, la Women’s March on Washington. Una mobilitazione imponente, un milione solo negli Usa, due milioni nel mondo. Contro Trump, cioè contro il potere machista, razzista, sessista, classista.
Per questo le donne chiedono il reddito di autodeterminazione. Perché la precarietà è insopportabile. E una redistribuzione del reddito necessaria. Un welfare per tutte e tutti, chiedono. Lo sciopero proclamato dalle donne rende visibile il taglio verticale del potere neo-capitalistico. Che si fa forte del patriarcato per dominare la vita. Fin nelle pieghe prima nascoste e ora visibili, in piena luce. Proprio perché la libertà delle donne ha rotto la divisione tra privato e pubblico, la famiglia non è più quello spazio di potere riservato anche all’ultimo degli uomini, in cui nell’ombra si riproduceva l’esistenza. Lo sciopero, dice il manifesto «per uscire dalle relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà… per avere un salario minimo europeo, perché non siamo disposte ad accettare salari da fame, né che un’altra donne, spesso migrante…sia messa al lavoro in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». E ancora si sciopera «perché vogliamo essere libere di muoverci e restare». Contro le frontiere per le/i migranti, contro il razzismo. E si sciopera per la formazione, per cambiare la cultura che sostiene la violenza. E soprattutto si sciopera «perché la risposta alla violenza è l’autonomia delle donne». Non sono vittime, le donne che scioperano. Sono donne libere. Con l’invito ad astenersi dal lavoro, obbligano tutti a pensare cosa sia il lavoro. Anche chi ha ritenuto che uno sciopero non può essere politico. E chi lavora si muove solo per difendere i propri diritti. E il diritto a vivere?
La posta in gioco è molto alta. Judith Butler la chiama «alleanza dei corpi». Lo abbiamo visto nelle strade, in diversi continenti, in questi mesi. In quelle foto dall’alto, straripanti. Questo è in campo oggi, otto marzo 2017. La potenza di corpi alleati tra loro, che non si nascondono, che si mostrano, non irreggimentati in discipline e totalizzazioni. Che partono da sé, perché solo questo sé corpo-mente hanno a disposizione. E non vogliono cederlo. Sono tempi in cui si ragiona e si discute di popolo, e di populismi. Si costruisce un nuovo popolo. Ricco di differenze, pieno di speranze di trasformazione. Guidato dalle donne.
«». connessioni precarie, 7 marzo 2017 (c.m.c.)
«Pubblichiamo sul nostro sito ‒ e in contemporanea su EuroNomade.info ‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia chiamiamo "inchiesta militante", all’interno del Colectivo Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón.
Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati, collettivi di migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe complesse dell’economia popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia popolare, offre una prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario ripensare radicalmente questa pratica politica al di là dei confini del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta avvenendo in tutta l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che sono strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne.
La convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come in Italia ‒ una tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un «monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità di convocazione, ma anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo sciopero anche al di là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni.
Lo sciopero è considerato da Véronica come un salto: esso ha imposto di andare al di là di semplici rivendicazioni rivolte alle istituzioni, per porre con la forza di un movimento di massa l’ambizione a una trasformazione radicale. Il salto dello sciopero mette in campo un femminismo che rompe con ogni discorso identitario per diventare pratica di massa e moltitudinaria, capace di connettere lotte diverse attraverso i confini e a partire dal protagonismo delle donne. Attraverso lo sciopero, le donne si sono affermate come soggetto politico e, così facendo, hanno reso lo sciopero una pratica disponibile per molti altri soggetti, hanno ridato vigore alle lotte di chi, come i migranti, negli ultimi anni ha utilizzato lo sciopero politicamente.
In Argentina i migranti, uomini e donne, non solo incroceranno le braccia l’8 marzo, ma hanno già convocato "una giornata senza di noi" contro le nuove politiche migratorie del governo Macri. La sfida lanciata dall’8 marzo – indicato come "il primo giorno della nostra nuova vita" ‒ è di dare continuità e una prospettiva organizzativa all’impressionante e inattesa forza messa in campo dallo sciopero sociale e transnazionale delle donne».
Verónica, come descriveresti l’inizio dell’esperienza di NiUnaMenos? Quali sono stati i momenti più significativi per il suo consolidamento e la sua accelerazione?
«Seppure molto vicina, non sono parte del gruppo originario di NiUnaMenos. Posso però parlare di NiUnaMenos come fenomeno sociale che, come tale, appare con le due grandi manifestazioni del 3 giugno 2015 e 2016. Un vero e proprio straripamento che nessuno si aspettava. È stata impressionante la connessione che si è data, totalmente inattesa per le stesse organizzatrici. Il 3 giugno 2015 era impossibile arrivare alla piazza perché la mobilitazione era completamente disorganizzata, del tutto anomala.
«La stessa cosa è accaduta l’anno seguente e la piazza ha tolto ogni dubbio sul carattere di massa della mobilitazione. Posso dire di più sul «salto», la trasformazione che si è imposta il 19 ottobre, quando è stata lanciata per la prima volta la idea dello sciopero delle donne. Lo sciopero del 19 segna già un cambiamento per il tipo di appello e mobilitazione, ancora una volta di massa, e per il fatto che a scatenarlo è l’omicidio cruento di Lucía Pérez, un omicidio che si è consumato nello stesso momento in cui 70.000 donne erano riunite nell’incontro nazionale di Rosario. La sovrapposizione di questi due eventi ci dice molto sulla dimensione di massa e sulla trasversalità che ha avuto la mobilitazione del 19 ottobre.
«L’aspetto importante di questa giornata è che con la parola sciopero abbiamo connesso la violenza maschilista alla trama economica, politica e sociale. Mi pare che con questo tipo di connessione si superano due questioni. Da una parte, il ruolo della donna esclusivamente come vittima, con tutta quella sorta di architettura che, di volta in volta, si costruisce intorno al femminicidio, a un linguaggio che parla solo di dolore, di vittima e di assassinio. Se l’essere riuscite a imporre la parola femminicidio è stato un trionfo rispetto alla cronaca dei crimini passionali, si corre però il rischio di sostenere una narrazione dominante di violenza e di vittimizzazione. L’appello allo sciopero opera una torsione di questa narrazione, per mescolare la questione del lutto e della rabbia con la potenza che si dà nello stare insieme nelle strade».
Prima di parlare dello sciopero dell’8 marzo. Come hai detto NiUnaMenos ha travalicato, fin dall’inizio, ogni aspettativa… Da questo punto di vista, che relazione vedi con gruppi e reti organizzate?
«Credo che l’interessante di NiUnaMenos come parola d’ordine, come movimento che raggiunge una trasversalità impressionante, come fenomeno sociale è che riesce a catalizzare una rabbia e delle narrazioni che nominano una nuova forma di violenza nei territori. Ciò che da un po’ di tempo stiamo chiamando una nuova conflittualità sociale ha un asse specifico nella violenza contro il corpo delle donne. Queste mobilitazioni di massa mostrano il tentativo di connettere la specificità della violenza sulle donne con altre forme di violenza, dando conto di un nuovo tipo di guerra nei territori. Rita Segato le chiama «guerre contro le donne». L’interessante qui è mostrare come questa guerra contro le donne fa sì che un femminismo popolare, di massa, che vive nelle strade si trovi obbligato a connettere la violenza contro le donne con altre forme di violenza. In questo modo si toglie dal centro il discorso specifico di genere. Mi sembra che in Argentina sia la prima volta che il femminismo, i suoi discorsi e le sue narrazioni si connettono con un’esperienza più popolare, più di quartiere, più di strada.
«In generale c’era una resistenza all’uso della parola «femminista» perché la si circoscriveva a una tradizione liberale o accademica. C’erano in Argentina un sacco di lotte che riguardavano le donne, che però non si riconoscevano come lotte femministe e, come ho detto, molte volte c’è stato un pregiudizio rispetto al termine «femminismo». Negli ultimi due anni mi sembra che stiamo assistendo alla riappropriazione dei discorsi e delle esperienze femministe. Ed è molto interessante vedere come in America Latina sta circolando una discussione molto profonda intorno a cosa significa un femminismo popolare, un femminismo comunitario, un femminismo che si lega alle lotte territoriali, alla difesa della vita e delle risorse naturali… E qui confluiscono tutta una serie di lotte che hanno al proprio centro le questioni del territorio e della violenza. La questione fondamentale è che il femminismo produca connessioni e si traduca in un’istanza espressiva di questo tipo di conflittualità».
Che cosa distingue questo movimento dalle lotte per l’estensione dei diritti portate avanti dalle organizzazioni LGBT, che pure hanno ottenuto dei risultati durante i governi Kirchner?
«Credo che in questo momento ci sia qualcosa nel movimento delle donne che sta andando oltre le rivendicazioni puramente identitarie. In un certo senso si tratta di quello che Angela Davis ha chiamato intersezionalità, una parola che risuona molto oggi in America Latina e che per me è più interessante delle rivendicazioni di tipo identitario e della forma in cui queste rivendicazioni hanno espresso domande che poi si sono tradotte in leggi che certamente sono significative, però mi sembra che oggi il movimento vada oltre un’agenda di richieste in chiave identitaria. E non si esaurisce in una serie di richieste puntuali alle istituzioni. Certamente abbiamo una serie di domande e rivendicazioni concrete, per esempio un maggior reddito per garantire una maggiore autonomia economica per le donne in un contesto di violenza; certamente ci sono proteste contro la politica razzista e conservatrice di vari governi in America Latina, però mi sembra che si sta dicendo che esiste un «oltre» rispetto a queste rivendicazioni e non è ancora molto chiaro che cosa sia questo oltre.
«Siccome non si traduce nel linguaggio delle richieste o rivendicazioni, è un linguaggio che dobbiamo inventare per dire che cosa significa politicamente questa trasformazione più radicale. C’è un altro tema che mi pare interessante pensare. Si parla molto nel continente della fine del cosiddetto ciclo dei governi progressisti e di una svolta conservatrice e di destra. Mi pare che i punti nodali che sta ponendo il movimento delle donne offrano dei vettori di analisi che indicano anche un’altra agenda politica che non è solo quella del cambiamento elettorale, ma che invece sta pensando più in chiave sociale, di come si è acutizzato lo sfruttamento del lavoro, come si è data la finanziarizzazione dell’economia popolare, qual è il legame tra economia e violenza nei territori, ecc. Mi sembra che questo movimento sta dando alla luce una prospettiva più complessa…»
Potremmo dire che il movimento delle donne sta ponendo una discussione che va ben oltre il dibattito kirchnerista /antikirchnerista?
⋄Esattamente. E credo che ci immetta in un contesto che non è quello della depressione perchè è terminata l’epoca dei governi progressisti, quando arrivavano risorse dallo Stato, è un altro il tipo di dibattito che si pone. Si è mosso profondamente l’asse, e lo ha mosso un soggetto che nessuno pensava potesse attuare un così grande spiazzamento, in una forma così moltitudinaria».
Tornando al «salto» dello sciopero… Se l’opposizione allo stupro e al «femminicidio» permette di tenere insieme forze molto diverse, che possono convergere su una questione così essenziale, nel momento in cui si è articolato il problema della violenza come questione non solo femminile ma sociale, che riguarda precarietà, sfruttamento, regime dei confini, devastazione ambientale, ecc. sono emerse delle differenze all’interno del movimento legate, per esempio, a diverse ‘tradizioni politiche’ o alle identità e programmi delle strutture organizzate? Come avete governato le differenze di posizione emerse con la dichiarazione dello sciopero?
«Come prima cosa direi che a NiUnaMenos si è aggiunto VivasNosQueremos, che è una parola d’ordine che viene dal movimento delle donne in Messico e che cerca di pensare che non si tratta solo di morte, ma anche di come vogliamo vivere. E qui mi sembra che si apra un’interlocuzione con l’America Latina. Poi chiaramente il tema dello sciopero è un ulteriore gradino che sicuramente mette molta più gente a disagio. E questo si vede nella forma in cui i media hanno ripreso una parte del discorso di NiUnaMenos perché la narrazione della vittimizzazione li metteva abbastanza a loro agio, perfino i media mainstream, e questo è un elemento che sicuramente ha giocato un ruolo nell’impatto iniziale di NiUnaMenos. Inoltre, il discorso della vittimizzazione è quello che oggi cerca di riconvertirsi nella logica «punitivista». È un’altra delle forme possibili di appropriazione o di cattura in cui si rischia di incorrere quando si parla solo di femminicidio. È la deriva della traduzione in termini securitari ‒ o nell’agenda della destra ‒ delle questioni portate avanti dal movimento delle donne.
«Non meno importante è il fatto che lo sciopero, oltre a spiazzare la questione della vittimizzazione, rivendica che qui c’è un movimento di donne che è un soggetto politico e che come tale sta imponendo una discussione trasversale sia a livello della società nel suo complesso, sia all’interno delle organizzazioni sociali. La questione dello sciopero ha prodotto dibattiti molto interessanti, però anche controversie e polemiche molto accese con i sindacati, per esempio. Lo stiamo vedendo nell’organizzazione dell’8 marzo. I sindacati, da una parte, mettono in discussione la legittimità del movimento delle donne per parlare di sciopero, perché avvertono che c’è qualcosa intorno alla disputa sul monopolio di questo strumento politico che li indebolisce. Però, dall’altro, emerge una chiara questione generazionale perché quella che è sentita come una minaccia dalla cupola, dalle giovani militanti donne del sindacato è vista come la possibilità di una confluenza tra la loro militanza sindacale e la loro militanza come donne.
«Di fatto, ed è un dato abbastanza impressionante, negli ultimi mesi c’è stata una quantità di giovani donne elette come delegate sindacali che hanno portato dentro al sindacato l’agenda di genere e per molte di queste il 19 ottobre è stata la prima esperienza nelle strade come donne sindacaliste. Questo significa che si è aperta una discussione che non si esaurisce nel modo in cui molti sindacalisti vorrebbero risolverla, vale a dire, sostenendo, per esempio, «da questo momento è politicamente corretto avere nell’organizzazione una segretaria di genere femminile…», quando invece la dinamica del movimento delle donne sta dicendo «no, ciò che reclamiamo non riguarda una segretaria di genere, si stanno ponendo discussioni in maniera trasversale alle stesse organizzazioni».
Negli ultimi mesi si sono date alcune mobilitazioni particolarmente forti. Da una parte, a seguito dei licenziamenti in ambito statale e in particolare nei Ministeri di Educazione e di Scienza e Tecnica. Dall’altra, le grandi manifestazioni intorno alla questione dell’emergenza sociale. Che tipo di ruolo hanno giocato queste mobilitazioni nella dichiarazione dello sciopero dell’8M? Vedi una relazione con queste mobilitazioni? Anche perché in queste lotte, se sei d’accordo, abbiamo assistito a un nuovo protagonismo delle donne che generalmente restava un poco coperto dalle logiche sindacali più classiche…
«Mi sembra che il 19 ottobre e oggi l’idea di sciopero posta dal movimento delle donne ci obbliga a una ridefinizione e soprattutto a un ampliamento dell’idea di sciopero perché si includano esplicitamente le donne dell’economia informale, dell’economia popolare, oltre a fare riferimento alla politicizzazione del lavoro domestico, riproduttivo, di cura. Si assume una mappatura del lavoro che almeno in America Latina ‒ dove la discussione sull’economia popolare è abbastanza importante ‒ si caratterizza per una forte eterogeneità.
«L’ampliamento dell’idea di sciopero credo interpelli questi settori del lavoro, ovvero è necessario chiedersi come uno sciopero possa contenere al suo interno realtà del lavoro così eterogenee. Per esempio, ci diceva una donna cartonera[2]: «se io non lavoro un giorno non mangio, perché il mio sostentamento è garantito dal lavoro di tutti i giorni». Come è possibile pensare che quest’aspetto non sia una debolezza di questo settore ‒ che visto da questa prospettiva non riuscirebbe a prendere parte allo sciopero ‒ ma piuttosto una specie di sfida alla stessa idea di sciopero, che deve essere capace di contenere questo tipo di realtà? Quindi lo sciopero è anche uno strumento capace di politicizzare figure del lavoro molto diverse però anche molto trasversali. La discussione intorno all’economia popolare, la sua relazione con i sussidi statali, con l’eredità del movimento piquetero[3], ecc. è qualcosa che si può vedere in tutta la sua complessità alla luce dello sciopero.
«Mi sembra che sia possibile una riconsiderazione del lavoro in chiave femminista e questo a partire dal 19 ottobre. «Il primo sciopero contro Macri lo facciamo noi donne»: questa parola d’ordine è stata molto forte il 19 ottobre. E l’8M sarà il secondo sciopero che facciamo, mentre nel frattempo tutte le centrali sindacali minacciano scioperi che però non fanno mai! La forza dello sciopero, quindi, chiama in causa la situazione argentina più congiunturale ‒ ciò che significa il governo neoliberale e conservatore ‒, però anche, più specificamente, le centrali sindacali che stanno chiaramente agendo sul terreno della negoziazione delle misure di austerity. E l’altro punto molto interessante e, credo, abbastanza sorprendente, è come l’idea di sciopero abbia avuto un’eco transnazionale, regionale e non solo regionale».
Tornando per un momento alla questione sindacale. Come hai accennato, ridefinire lo sciopero come pratica politica femminista significa anche sottrarlo al «monopolio sindacale». Alla fine, i sindacati argentini hanno dovuto dichiarare la loro adesione formale. Puoi dirci come avete articolato il rapporto con i sindacati, che tipo di difficoltà avete incontrato e come siete arrivate a questo risultato?
«Come prima cosa bisogna sottolineare che l’esigenza di un pronunciamento delle centrali sindacali esce da un’assemblea convocata da NiUNaMenos, che è stata un’assemblea moltitudinaria, con organizzazioni, movimenti sociali, gruppi culturali, ecc. Dalla stessa assemblea sorge la necessità di interpellare i sindacati.
«Da lì si apre tutto un processo di negoziazione che ancora stiamo attraversando e che ha a che vedere con la discussione intorno a quali sono gli attori legittimi per convocare lo sciopero, e la discussione continua a essere aperta… Però, come accennavo, questo processo evidenzia anche lo sfasamento generazionale all’interno del sindacato, le diverse esperienze militanti con cui le giovani arrivano al sindacalismo e la capacità della dirigenza sindacale di essere più o meno aperta all’emergenza di questi nuovi quadri giovani. È una disputa molto forte. Rispetto allo sciopero delle donne i sindacati attuano una sorta di duplice strategia: da un lato, assumono il discorso dello sciopero come strumento molteplice per diluirlo e non per potenziarlo come, al contrario, facciamo noi. Quindi, per esempio, ti dicono che sarebbe lo stesso dire «giornata di lotta», però noi sappiamo che non si tratta della stessa cosa. Dall’altro, cercano di imporre l’idea dello sciopero come misura che possono convocare solo loro in quanto sindacati.
«Mi sembra che tra questi due poli si sia aperta una tensione in queste settimane e si tratta di una tensione ancora molto attiva. In ogni modo, è un evento storico che i tre sindacati aderiscono insieme a uno sciopero che ha al proprio centro le questioni di genere. Ed è anche la prima volta, secondo quello che ci dicono le compagne, che si dà questo livello di discussione dentro al sindacato a partire dal movimento delle donne. È anche interessante come si stia producendo un nucleo di riflessione femminista sul tema del lavoro».
L’appello internazionale per lo sciopero dell’8 marzo fa espressamente riferimento alle politiche dei confini e alla condizione delle donne migranti. In che modo NiUnaMenos ha articolato il proprio discorso? Esistono percorsi di organizzazione per lo sciopero insieme alle donne migranti?
«Ci sono molte compagne di diversi collettivi e reti migranti che stanno partecipando nell’organizzazione dello sciopero. Inoltre la questione del lavoro migrante è fondamentale in questa mappatura del lavoro in chiave femminista, di questi lavori permanentemente invisibilizzati, oltre che femminilizzati. Tutto questo è molto presente. L’altro punto è che ‒ in Argentina in particolare, però potremmo parlare a livello continentale ‒ con l’apertura del primo centro di detenzione per migranti nel settembre scorso e l’ultima riforma per decreto del governo di Macri, che riduce le possibilità di soggiorno dei migranti, ci troviamo di fronte a politiche concrete di criminalizzazione. Quindi la dinamica di connessione con i lavoratori migranti è molto importante per costruire lo sciopero. Inoltre, proprio in questi giorni, i collettivi migranti hanno lanciato uno sciopero per il 30 marzo.
«C’è qualcosa di questa apertura dell’idea di sciopero che comincia a essere riappropriata anche da altri collettivi e da altre esperienze. E da questo punto di vista, la questione migrante parla un linguaggio che connette lo spazio regionale latinoamericano e per questo esce dalle dinamiche nazionaliste cui, tradizionalmente, fanno riferimento molte organizzazioni sociali».
Che cosa significa convocare uno sciopero che è uno sciopero sociale e transnazionale? Sociale perché impone una trasformazione radicale della società e transnazionale perché aggredisce questioni che non sono vincolate alle politiche dei singoli Stati ma attraversano i confini… Che cosa pensi di questa prospettiva e come cambia per voi il significato dello sciopero nel momento in cui sono le donne a rivendicare questa pratica in una prospettiva esplicitamente globale? Quali prospettive apre questa dimensione dopo l’8 marzo?
«È proprio questa potenza che è stata sorprendente, imprevista e che al tempo stesso esprime una forza che dobbiamo chiederci come sostenere. Perché è un tipo di connettività transnazionale che già dal 19 ottobre si è rivelata molto efficace nel tradurre una serie di domande fatte con un linguaggio molto diverso. Per esempio, lo sciopero in Paraguay ha una forte componente impegnata nella lotta contro l’avvelenamento da agro-tossici, quindi parte da una domanda di salute e dal ripudio delle multinazionali che ci stanno avvelenando.
«In Honduras e Guatemala lo sciopero ha a che vedere fortemente con la discussione sul femminicidio e sul territorio in relazione alle miniere multinazionali che stanno uccidendo i leader contadini e indigeni. In Brasile è legato alla protesta contro la chiesa evangelica e la sua offensiva contro l’autonomia delle donne sul loro corpo. Questa capacità di connessione, ripercussione e traduzione messa in campo dallo sciopero lo rende una misura molto elastica, cioè capace di contenere tutte queste domande, senza però diluirle in una dimensione globale astratta. Però questa stessa capacità di traduzione e di elasticità apre una domanda su come ci organizziamo: cosa facciamo il giorno dopo? Nell’appello abbiamo detto che l’8 marzo è il primo giorno della nostra nuova vita… è un movimento che dice che vuole cambiare tutto e credo che questo «voler cambiare tutto» esprime esattamente la capacità di politicizzare tutti questi temi.
«Lo sciopero deve essere uno strumento e un linguaggio capace di dar conto di tutte queste dimensioni della vita, della riproduzione della vita e del rifiuto del suo sfruttamento. Quindi qui gioca questa sorta di versatilità che può connettere a livello globale e che lascia aperta la domanda intorno a che cosa significa il movimento delle donne come soggetto politico: quali sono le sue forme di organizzazione? Che cosa significa questa eterogeneità quando riempie le strade? Che cosa si tesse tra una mobilitazione e l’altra? Penso che le mobilitazioni di piazza siano molto importanti però lasciano aperta la domanda su come tutto questo si strutturi nella lotta quotidiana per cambiare radicalmente le nostre vite».
[1] Verónica Gago, La razón neoliberal. Economías barrocas y pragmática popular, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014.
[2] Con cartoneros ci si riferisce alle donne e agli uomini che raccolgono i rifiuti riciclabili.
[3] Movimento dei disoccupati che si consolidó in Argentina durante le politiche neoliberali degli anni Novanta. Cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberalismo, Roma, DeriveApprodi, 2003.
«». il blog di Guido Viale, 7 marzo 2017 (c.m.c.)
A che punto è la notte? Molto avanti. Sull’Europa è calata una coltre buia. Quando ci ridesteremo ci ritroveremo nelle tenebre. Si è ormai affermato un vero e proprio apartheid continentale che sconfina in pratiche di sterminio. Certo, nel corso della storia l’”uomo bianco” ha fatto di peggio: conquista delle Americhe, schiavismo, colonialismo, nazismo… Ma non è una ragione per non vedere ciò che sta ora di fronte a tutti.
Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza alcuna base giuridica, aperte violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie impegnate nel salvataggio dei profughi, eserciti mobilitati ai confini, reti, filo spinato e muri (tra cui quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani). Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.
Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’ONU come UNHCR, OIM, UNICEF e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per “disincentivare l’afflusso di nuovi profughi”: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.
Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico. Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.
Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.
Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il Governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.
Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.
Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.
la Repubblica. 7 marzo 2017 (p.d.)
la Repubblica online, ed Genova
la Repubblica online, ed Firenze
PRATO, OPERAIA CINESE MUORE
il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)
Nei giorni scorsi un incendio e due morti hanno richiamato di nuovo l’attenzione dell’opinione pubblica sul ghetto di Rignano Garganico (vicino Foggia), un gruppo di miserabili baracche abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali e ora distrutte con le ruspe. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”.
Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro “prossimo”.
Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce.
Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di “caporali”, proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna.
Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il “New Deal”. Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della “Rural Resettlement Administration”, l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri.
Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: “Gli zingari dei campi” (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda.
È la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i “caporali”, le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento.
La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa “comunista” che Roosevelt però difese con coraggio.
Il libro Furore finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto. Furore è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali.
Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi: lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità, costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole.
”Muoiono di fame perché noi si possa mangiare”, oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro.
La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale, vogliamo dire cristiana?, della politica.
il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)
LAVORO SALUTE DIRITTI
LE MATRIOSKE IN NERO E FUCSIA ALL'ATTACCO.
di Geraldina Colotti
Matrioske in nero e fucsia mobilitate in tutta Italia per lo sciopero globale. Ieri, a Roma e nel Lazio, tre le iniziative di avvicinamento all’8 marzo, giornata dell’astensione globale da ogni attività produttiva e riproduttiva indetta dal movimento Non una di meno. Le matrioske si sono fatte sentire davanti all’ospedale Grassi di Ostia, al Policlinico di Tor Vergata e al Policlinico Umberto I. Tre momenti coordinati per evidenziare il nesso tra salute, lavoro, autodeterminazione femminile e formazione di genere. Con l’hashtag #saluteliberatutte.
«Acqualuce deve riaprire. Zingaretti, che aspetti?» hanno gridato le donne davanti al Grassi di Ostia. Un’iniziativa contro la violenza ostetrica. «Questa era l’unica casa di maternità pubblica, è stata unaugurata l’8 marzo del 2009, ma è rimasta chiusa – spiega al manifesto Mirta, di Freedom-Non una di meno -. Nonostante gli impegni presi dai presidenti della Regione Lazio, prima Polverini poi Zingaretti, non sono mai state assunte ostetriche. In tutta evidenza, il diritto alla salute è garantito dal diritto al lavoro. Abbiamo organizzato un piccolo corteo interno, ricevendo l’appoggio degli operatori. Le donne devono poter scegliere il parto in casa maternità, assistito da ostetriche. Le principali evidenze scientifiche dicono sia una scelta sicura che produce migliori risultati di salute per la donna e per la persona che nasce». Tantopiù che la sentenza Ternovsky della Corte europea dei diritti umani, del 2011, «impone agli Stati membri di garantire la libertà di scelta delle donne rispetto al luogo del parto».
Punti rivendicati dal Tavolo Salute e Autodeterminazione, uno degli 8 discussi dal movimento in due grosse assemblee nazionali. Il nesso salute-lavoro è emerso anche dall’iniziativa che si è svolta davanti al Policlinico di Tor Vergata, «con una duplice richiesta – spiega Simona -: l’apertura di un reparto di ginecologia e maternità, e l’assunzione di solo personale laico negli ospedali pubblici. Questo garantisce sia i diritti che il lavoro per tante persone formate che però sono disoccupate o precarizzate dalla sanità nazionale e regionale. La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne».
Al policlinico Umberto I, le donne della rete Io decido – lavoratrici e studentesse della Sapienza – hanno distribuito volantini e sono state ricevute dal Direttore generale. «È inconcepibile – spiega Ambra, di Io decido – che in una università come La Sapienza non vi siano sportelli antiviolenza e consultori autogestiti. E che a Roma vi sia una percentuale sempre più alta di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche. Al Policlinico Umberto I, la questione principale è il Repartino che funziona al minimo per mancanza di personale non obiettore. E conserva una parziale attività solo per la protesta degli scorsi anni agita dalla rete Io Decido».
Le studentesse hanno organizzato la settimana «Sui generis», lezioni universitarie autogestite che sono state riprese anche dai ragazzi, presenti ieri all’iniziativa con i cartelli per il pieno accesso alla Ru486 e all’aborto libero, sicuro e gratuito. Lezioni «su concetti base dello sciopero dall’attività riproduttiva, che non significa l’astensione dal sesso, ma dal lavoro di cura, da quello domestico».
Dalla gran Bretagna, Payday/ Refusing to Kill – una «rete internazionale multirazziale di uomini etero e queer, compresi i trans, che lavora con lo Sciopero globale delle donne» – ha invitato gli uomini ad appoggiare lo sciopero dell’8 marzo, le campagne e la resistenza delle donne. Intanto, i paesi che aderiscono, dai cinque continenti, sono già 48. Dalla Colombia, hanno comunicato la propria partecipazione anche le guerrigliere delle Farc, impegnate in un difficile processo di smobilitazione. Insieme in tutto il mondo – dicono – «per costruire alternative all’attuale crisi capitalistica coloniale, che approfondisce le violenze patriarcali evidenziati dagli tassi di femminicidi in America latina e nel mondo, dalle espulsioni forzate, dalle guerre, dalle morti per gli aborti insicuri, dalla subordinazione e discriminazione delle donne nella partecipazione politica».
Anche le donne curde hanno inviato un comunicato di adesione intitolato «Facciamo del Ventunesimo Secolo il Secolo della Liberazione delle Donne» e firmato Jin Jiyan Azadî – Donne Vita Libertà. «Il nostro secolo – scrivono – può diventare il secolo nel quale la liberazione delle donne si realizza. Il sistema mondiale patriarcale e capitalistico attraversa una profonda crisi strutturale. Dobbiamo sfruttare queste storiche opportunità». Scrivono le femministe dal Venezuela: «Di fronte all’attacco patriarcale e neoconservatore nella regione e nel mondo, il movimento delle donne indica un’alternativa globale per tutti i popoli».
Secondo dati del Censis e dell’Ocse, l’Italia è la peggio piazzata in Europa per superare le differenze di genere. Gli uomini italiani dedicano in media solo 100 minuti al giorno per aiutare le donne nei lavori domestici: appena un po’ di più dei turchi, dei portoghesi e dei messicani… Le donne percepiscono salari inferiori agli uomini sia nel settore privato (meno 19,6%) che nel pubblico (meno 3,7%). Nel 2016, l’Italia è risultata all’ultimo posto in Europa per occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni (prima la Svezia e ultima la Grecia). Per assolvere ai loro molteplici compiti, le donne accettano più degli uomini il part time involontario (60,3%, Italia terza dopo Grecia e Cipro).
Non una di meno ha come obiettivo quello di stendere un Piano femminista nazionale contro la violenza di genere che abbracci tutti temi che la sottendono ed eviti «ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale». Scioperiamo – dicono – «per un reddito di autodeterminazione, per resistere al ricatto della precarietà, per un salario minimo europeo, perché nessuna donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». Libere di scegliere, pronte a reagire. È la consegna per l’8 marzo alle 10 presso la Regione Lazio, a Garbatella. In piazza per la Salute, l’Autodeterminazione e il Lavoro. Poi, alle 17, tutte al corteo al Colosseo.
NON UNA DI MENO RINNOVA
LA NOSTRA RIVOLUZIONE
di Lea Melandri
«Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente
Nel corso del mio lungo impegno nel movimento delle donne ho visto molte manifestazioni di piazza, le ho attese a lungo, vi ho preso parte con entusiasmo e ho sperato ogni volta che potessero avere continuità. Di quella che sta per invadere le città, da noi come in altri paesi del mondo – Non Una di Meno – dirò che cosa ha di particolare rispetto alle precedenti, e perché la considero una ripresa della rivoluzione culturale, o di quel salto della coscienza storica, che è stato il femminismo degli anni Settanta.
Allora come oggi si è trattato di un movimento internazionale: una generazione giovane che compariva, “soggetto imprevisto” sulla scena pubblica, abbandonando la “questione femminile” – lo svantaggio delle donne, la loro cittadinanza incompiuta, ecc. – per un’analisi del rapporto di potere tra i sessi, le problematiche del corpo, sessualità,maternità, aborto, considerate “non politiche”, per interrogare l’ordine esistente nella sua complessità. Negli slogan “il personale è politico”, “modificazione di sé e del mondo”, c’era la sfida, la protesta estrema di una inedita cultura femminista che – come scrisse Rossana Rossanda – si poneva «come antagonista, negatrice della cultura altra»: «Non la completa, la mette in causa».
Le esigenze radicali, che allora si rivelarono impossibili per ostacoli esterni ed interni al femminismo stesso, ricompaiono oggi, come spesso accade, in una situazione mutata e nel protagonismo di una generazione che, a differenza della nostra, non è “contro” le donne che l’hanno preceduta e in qualche modo fatta crescere.
Nei report usciti dalle affollatissime assemblee bolognesi del 4/5 febbraio, il richiamo al femminismo, alle sue pratiche e all’autonomia con cui ha dato vita ad associazioni, consultori, centri antiviolenza, interventi formativi nelle scuole, è ricorrente. Sia per quanto riguarda i media e la necessità di un «osservatorio indipendente», sia in riferimento ai consultori autogestiti nati nella prima metà degli anni Settanta per iniziativa dei gruppi di Medicina della donne e poi istituzionalizzati nel 1975. Con il timore che la stessa sorte possa toccare ai centri antiviolenza: «…i consultori devono tornare a essere aperti e accoglienti, liberi e gratuiti, diffusi nel territorio….Vogliamo vivere i consultori come luoghi di aggregazione e centri culturali (…) capaci di accogliere e riconoscere le molteplici identità di genere che un individuo può sperimentare …».
Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente.
Benché partito sull’onda di una rivoluzione che avrebbe dovuto investire il patriarcato e il capitalismo, liberare dai modelli interiorizzati del maschile e del femminile, sovvertire la divisione sessuale del lavoro, la politica separata, nel momento della sua diffusione il femminismo si è fatto quasi fatalmente, data l’ampiezza dei suoi temi, frammentario. Le manifestazioni che si sono succedute nel tempo hanno sempre avuto un tema specifico -la legge 194, la violenza domestica, ecc.
Lo Sciopero internazionale delle donne dell’8 marzo 2017 in Italia sembra averne ricomposto tutte le anime, in una visione di insieme che va dall’autodeterminazione sessuale e riproduttiva alla precarietà del lavoro, dal partire da sé come pratica di presa di coscienza ai problemi riguardanti le migrazioni, dal femminicidio alla violenza maschile vista come “fenomeno culturale”, dal sessismo al razzismo, all’omofobia. La ricerca dei nessi tra sessualità e politica, tra patriarcato e capitalismo, che già compariva nei volantini degli anni Settanta, ma che era sembrata a lungo come l’Araba fenice, negli “8 punti” con cui da Bologna è partita la decisione di riscrivere il “Patto straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, ha trovato per la prima volta concretezza e radicalità nel tenere insieme obiettivi e lavoro sulle vite singole.
La violenza maschile nelle sue forme più selvagge e criminali si può dire che ha fatto da catalizzatore nel collegare i molteplici aspetti di un dominio che attraversa le vicende più intime così come i poteri e i linguaggi delle istituzioni pubbliche, e che paradossalmente proprio negli interni delle case, dove si intrecciano perversamente amore e violenza, rivela la sua «normalità».
Se le donne sono state per secoli un corpo a disposizione di altri, l’8 marzo – come si legge nel documento Ni Una Menos delle donne argentine, da cui è partito il Paro Internacional De Mujeres, sarà il primo giorno della loro «nuova vita» e il 2017 «il tempo della nostra rivoluzione».
SCIOPERO DELLE DONNE
( E NOI MASCHI?)
di Alberto Leiss
«In una parola. Possiamo aderire in molti modi: incrociando le braccia per pura solidarietà, occupandoci dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Altrimenti impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a identificarci».
Domani è l’8 marzo e quest’anno c’è una novità. Molte donne in tutto il mondo pronunciano una parola che fa parte della storia del movimento operaio: sciopero! In Italia firma la dichiarazione di sciopero generale il movimento Non una di Meno, che – formato da soggetti diversi, dalla rete dei centri antiviolenza Dire, alla storica Unione donne in Italia (Udi) alla galassia romana Io decido – ha già dato vita alla grande manifestazione romana del 26 novembre scorso e a due assemblee nazionali a Roma e a Bologna.
Questo giornale ha già raccontato le caratteristiche e i contenuti di uno sciopero che si propone di coinvolgere sia il lavoro produttivo, sia il lavoro di cura che soprattutto le donne continuano a fare.
La reazione contro la violenza maschile si carica di protesta contro un intero sistema economico e sociale che rende in modo violento precaria la vita soprattutto delle (e dei) giovani, e che non elimina ancora troppi svantaggi per le donne, nonostante la forza e la libertà conquistata e ereditata dalla rivoluzione femminista.
La scelta di rilanciare una forma di lotta che rievoca apertamente le origini dei movimenti antagonisti di un altro tempo – qualche giornale ha ricordato come una enorme e pacifica manifestazione di donne russe avesse aperto le giornate della Rivoluzione sovietica (poi rovinata dai maschi) un secolo fa – secondo me non va confusa con un eccesso di nostalgia o di ideologia. C’è qualcosa di profondamente vero nell’idea che si debba in qualche modo ricominciare da capo per conquistare nuove libertà, per reagire a nuove sopraffazioni, e che un movimento mosso da queste ambizioni, sentimenti, desideri, per vincere debba assumere una dimensione globale.
In un momento in cui sembra prevalere ovunque lo spirito di scissione e di contrapposizione, anche intorno allo sciopero delle donne non sono mancate le polemiche. Ma è davvero possibile – dice una “madre di famiglia” – “astenersi”, sia pure per una sola giornata (ma quanto sono lunghe in certe situazioni 24 ore!) dall’accudire un bambino piccolo o un anziano malato? E che senso ha – dice un altro (sindacalista) – rinunciare a ore di stipendio per obiettivi un po’ vaghi come combattere la violenza maschile? E perché Non una di Meno – scrive su facebook la mia amica Isoke – non ha affrontato con la forza necessaria la violenza della tratta delle straniere costrette a prostituirsi?
Opinioni e dubbi forse fondati. Ma in me prevale l’aspettativa: domani scatterà una scintilla capace di illuminare un’altra scena per quella cosa che chiamiamo politica? E saranno le donne a accendere questa luce?
Lo sciopero – si legge nel blog di Non una di Meno – è “sciopero dei generi” e “sciopero dai generi”. Non solo una “mobilitazione di massa”, ma anche una “mobilitazione” per una trasformazione personale. Un invito a riconoscere e scartare gli stereotipi che una cultura millenaria ci cuce addosso.
Noi maschi possiamo aderire in molti modi. Incrociamo le braccia per pura solidarietà, un sentimento che andrebbe riscoperto. Occupiamoci – per un giorno – dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Se non possiamo fare questo, impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a metterci nei panni di quella ragazza che si è laureata a pieni voti, ha fatto il master, ha già scritto pagine geniali, o prodotto filmati esteticamente perfetti, ma trascorre i suoi giorni obbligata a dare consigli stupidi ai clienti di un call-center. E magari alla sera viene maltrattata dal fidanzato.
Non verrebbe in mente anche a noi di proclamare uno sciopero generale?
. MicroMega online, 6 marzo 2017 (c.m.c.)
Lo avevano detto che la manifestazione del 26 novembre scorso contro la violenza maschile sulle donne non sarebbe stata che una tappa di un percorso più ampio e ambizioso. E le donne del movimento “Non una di meno” sono di parola: quella promessa trova infatti oggi conferma e nuovo slancio con lo sciopero generale indetto per l’8 marzo sotto lo slogan: “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!”.
«Constatiamo ogni giorno quanto la violenza sia fenomeno strutturale delle nostre società, strumento di controllo delle nostre vite e quanto condizioni ogni ambito della nostra esistenza: in famiglia, al lavoro, a scuola, negli ospedali, in tribunale, sui giornali, per la strada… per questo – spiegano le promotrici – il prossimo 8 marzo sarà uno sciopero in cui riaffermare la nostra forza a partire dalla nostra sottrazione: una giornata senza di noi».
Accogliendo l’invito a organizzare uno sciopero internazionale lanciato dalle donne argentine, la rete “Non una di meno” ha fatto quindi appello a tutti i sindacati per una giornata di mobilitazione nazionale. Cgil, Fiom, Cisl e Uil non hanno accolto la richiesta. Ma lo hanno fatto alcuni sindacati di base che hanno dunque indetto uno sciopero generale di 24 ore (Usi, Usb, Cobas, Slai Cobas per il sindacato di classe, Confederazione dei comitati di base, Sial Cobas, Usi-ait, Sindacato generale di base; la Flc-Cgil - lavoratori settore della scuola pubblica e privata - ha indetto 8 ore di sciopero).
La copertura sindacale dunque c’è: in ogni luogo di lavoro, a prescindere che si appartenga o meno a un sindacato, si possono incrociare le braccia come forma di protesta contro la violenza sulle donne in tutte le sue forme.
Otto i punti intorno ai quali il movimento “Non una di meno” – composto dalla Rete IoDecido, da D.i.Re-Donne in rete contro la violenza e dall’Unione donne in Italia – chiama alla mobilitazione:
contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali («i centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere»);
per la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne;
per l’aborto libero, sicuro e gratuito e l’abolizione dell’obiezione di coscienza;
per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà;
contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà dei migranti e delle migranti;
affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università («per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere»);
per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti («perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività»);
contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista e che discrimina lesbiche, gay e trans.
Una piattaforma di rivendicazioni che costituisce un assaggio di ciò che sarà il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne su cui il movimento sta lavorando già da qualche mese.
Tantissime le iniziative previste per l’8 marzo: l’elenco completo e in continuo aggiornamento si trova sul sito nonunadimeno.wordpress.com. A Roma, tra le altre cose, alle 17 è prevista una manifestazione con partenza dal Colosseo.
Ma le braccia, quel giorno, non verranno incrociate solo in Italia: sono 40 i paesi che, sull’onda delle proteste che si sono dispiegate nel mondo intero nell’arco del 2016, hanno accolto l’invito delle donne argentine.
In prima linea gli Stati Uniti, dove lo sciopero – a solo un mese e mezzo dal corteo anti-Trump che il 21 gennaio scorso ha visto sfilare per le strade della capitale mezzo milione di donne – ha incassato il sostegno di un ampio ventaglio di realtà (femministe, afroamericane, lgbt eccetera) nonché di personalità del calibro di Angela Davis e Nancy Fraser.
E non è un caso che sia in primo luogo alle donne statunitensi che, a pochi giorni dallo sciopero, abbiano pensato di rivolgersi le donne polacche, le quali per prime hanno sperimentato, con il Black Monday dell’ottobre scorso, la forza di uno sciopero globale delle donne. La loro lettera (di cui in calce trovate una nostra traduzione) è il grido di allarme di chi già da più di un anno sperimenta sulla propria pelle scelte politiche scellerate. Ma è anche un messaggio di speranza che dice a tutte le donne del mondo: le vostre paure sono fondate, ma non siete sole.
Alle donne d’America e di tutto il mondo: un avvertimento
e un grido di battaglia dalla Polonia
Noi donne polacche abbiamo assistito con una nauseante sensazione di familiarità all’emergere della più grande minaccia alla democrazia americana, nella persona di Donald Trump. Mentre ci avviciniamo all’8 marzo, giorno del nostro sciopero internazionale contro il ridimensionamento dei diritti delle donne, vogliamo condividere con voi qual è la posta in gioco, dalla prospettiva di un paese in cui un governo Alt-Right [1] è al potere da più di un anno. Care donne americane e di tutto il mondo le vostre paure sono fondate. Ma non siete sole.
L’8 marzo sarà il nostro secondo momento di protesta contro la tossica relazione nella quale il nostro attuale governo sta cercando di forzare le donne polacche. Il nostro primo sciopero è stato il Black Monday, nell’ottobre dello scorso anno, quando abbiamo inondato le strade con i nostri ombrelli neri in difesa dei nostri diritti riproduttivi. Proprio come Donald Trump, che nel suo primo giorno da presidente ha imposto il “bavaglio globale” alle ong che sostengono i diritti riproduttivi delle donne, il governo polacco ha iniziato il suo mandato con il tentativo di criminalizzare quelle poche eccezioni alla nostra già restrittiva legge anti-aborto. Non potevamo permettere e non abbiamo permesso che questa proposta passasse.
Da allora abbiamo visto che la strategia di un governo che inizia attaccando i diritti delle donne prosegue inserendo nazionalismo e demonizzazione dei migranti nei libri di storia degli studenti. Abbiamo visto che una presidenza che inizia facendo passare le redini della vita delle donne nelle mani delle autorità prosegue rimuovendo le tutele all’ambiente in pericolo.
Abbiamo anche sperimentato che quando un uomo eletto per rappresentare un’intera nazione volta le spalle alle donne, velocemente fa lo stesso con i media e i tribunali. Quando un bullo detiene un grande potere politico, le conseguenze sono quelle che vediamo in Polonia oggi: una corte costituzionale storpia, un sistema educativo immerso nel caos, un paese soffocato dallo smog, dove foreste e alberi urbani vengono sconsideratamente abbattuti, dove i media indipendenti sono indeboliti da sanzioni economiche e i mezzi di comunicazione pubblici sono trasformati in una macchina di propaganda del governo. Quello che era cominciato con una pugnalata ai nostri diritti riproduttivi è andato avanti attaccando molto di ciò cui, in quanto società moderna, avevamo più a cuore. Questi cambiamenti in Polonia sono avvenuti molto velocemente. Potrebbe accadere lo stesso negli Usa.
Per la verità, potrebbe accadere lo stesso in molte parti del mondo. Ci rendiamo conto che le politiche occidentali hanno oltrepassato il limite di tolleranza sociale rispetto alla disparità di reddito e alla corruzione. Cambiamenti sono inevitabili ed è certo che tutti ci troveremo di fronte un turbolento periodo di trasformazione. Ma non dobbiamo permettere che il fascismo e altri errori del passato siano presentati come soluzioni alle sfide di oggi. È nostra incrollabile convinzione che i diritti delle donne sono diritti umani. E un futuro costruito sulla democrazia, che implica il rispetto di tutti i diritti umani, è l’unico al quale prenderemo parte.
Ventotto anni fa, con Solidarność abbiamo portato la democrazia in Polonia dopo decenni di occupazione comunista. L’8 marzo, un giorno senza donne, ispirato al nostro Black Monday, sciopereremo di nuovo in solidarietà internazionale per difendere questi valori.
Sciopereremo con voi in quanto donne del 99%. In quanto madri, vedove, sorelle, figlie e leader della rivoluzione per un futuro inclusivo e sostenibile per tutti: quello in cui la notevole connettività della tecnologia può diffondere saggezza e cooperazione più velocemente e più lontano di false verità e odio. Un mondo in cui il valore degli esseri umani è basato su ciò che conoscono, su ciò che sanno fare e sul contributo che possono dare, non sul loro genere, sul loro luogo di nascita o sul loro dio. Una società in cui la mano invisibile dei valori democratici garantisce l’eguaglianza di tutti. Scioperiamo contro l’oppressione, nel nome di un nuovo progresso, dei diritti umani faticosamente conquistati da coraggiosi uomini e donne del passato. Ci impegniamo a prendere parte attiva nella creazione di un nuovo equilibrio, che emergerà dalle crisi odierne su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Per far capire l’impatto del nostro incontro globale, proponiamo di contarci. Scopriamo e lasciamo che gli altri scoprano quanto grande è la forza del nostro movimento. Contiamoci! Indipendentemente se abitiamo in una grande città o in un piccolo villaggio, se viviamo in Europa, America, Africa o Asia, se saremo in grado di partecipare a qualche dimostrazione pubblica o meno. Se condividi l’idea di un nuovo futuro interconnesso basato sull’uguaglianza democratica per tutti, allora per favore prendi il tuo numero.
Al link www.CountMeIn.pl ti sarà dato un numero di identificazione unico nel movimento globale delle donne per la democrazia. Usalo! Mostralo l’8 marzo e ogni volta che hai bisogno di sfidare un’ingiustizia, di denunciare un abuso, di elogiare una collaborazione, o di chiamare aiuto. Mostralo online e ovunque tu possa farlo in sicurezza. Usalo per costruire sostegno per un futuro di cui tutti possiamo essere fieri. E prendi il tuo numero così da non sentirti sola. Perché non lo sei.
Firme
Kongres Kobiet – Poland's Congress of Women (www.kongreskobiet.pl) International Women’s Strike – Poland (www.parodemujeres.com)
Lilja Ólafsdóttir e Gudrún Hallgrímsdóttir, tra le organizzatrici dello sciopero delle donne islandese del 1975, entrambe fanno parte del movimento femminista Redstockings Guðrún Jónsdóttir, una partecipante allo sciopero islandese del 1975, attualmente attivista di Stigamot, organizzazione che lotta contro gli abusi sessuali sulle donne
Wysokie Obcasy – settimanale polacco che si occupa di questioni relative alle donne (www.wysokieobcasy.pl ) Gazeta Wyborcza – maggiore quotidiano polacco liberale (www.wyborcza.pl)
NOTE
[1] Abbreviazione di Alternative Right, termine coniato dal suprematista bianco Richard Bertrand Spencer per indicare un insieme di idee di estrema destra incentrate sull’"identità bianca" e sulla conservazione della “civiltà occidentale”. Uno dei megafoni mediatici dell’Alt-Right è il sito Breitbart News di cui il neo capo stratega della Casa bianca, Steve Bannon, è stato direttore esecutivo.
La Nuova Venezia, 6 marzo 2017 (m.p.r.)
I recenti sei arresti in Puglia per la morte di una bracciante, sollevano il problema del ruolo delle agenzie interinali, che hanno avuto sorprendentemente Marghera come incubatore. Vediamo perché. Sino alla liberalizzazione degli anni Novanta, in Italia il mercato del lavoro era sottoposto al regime del sistema di collocamento pubblico obbligatorio gestito da uffici pubblici, regolato dalla legge 264 del 1949. La successiva legge 1369 del 1960 vietava la mediazione e l’interposizione nei rapporti di lavoro; l’inosservanza di questa norma comportava l’applicazione di pesanti sanzioni penali. Il divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale aveva la giusta finalità di tutelare i lavoratori.
Il Fatto Quotidiano online, 4 marzo 2017 , con riferimenti (m.p.r.)
Cronaca
Da vent'anni raccoglie i migranti che arrivano in Puglia per raccogliere i pomodori, in estate ospita quasi 3mila persone. "Vogliono lavorare, non delinquere" dice a il Fatto Quotidiano. il questore di Foggia, secondo cui "è una città alternativa da chiudere subito". Per il ministro Orlando "è qualcosa di inaccettabile". Eppure la favela più grande d'Italia è ancora lì, nonostante progetti e idee che le varie amministrazioni locali hanno messo in campo negli anni per radere al suolo le baracche. Invano, a causa dei molti interessi, primo fra tutti quello dei caporali e della criminalità organizzata, che hanno gioco facile con la disperazione lavorativa degli schiavi stagionali. Nel frattempo all'interno è nata anche una radio, che dà voce a chi voce non ne ha mai avuta.
Una città invisibile nata attorno a un gruppo di vecchie masserie e costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. Il ‘Grande Ghetto’ è sorto nei campi tra San Severo, Rignano Garganico e Foggia quasi una ventina di anni fa, dopo lo sgombero di uno zuccherificio abbandonato, dove trovavano riparo molti braccianti stranieri sfruttati nei campi vicini. Mentre lo Stato si voltava dall’altra parte (ma non facevano lo stesso mafia e caporali) questo ‘non luogo‘ è diventato il più grande accampamento di migranti e lavoratori stagionali d’Italia. D’estate sono quasi tremila quelli ospitati in baracche dopo aver lavorato tutto il giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori. Per poche manciate di euro. Fra i tre e i quattro euro per ogni ora o per ogni cassone di raccolto riempito.
La città fantasma
Capo free-ghetto out
Roghi, morti e un piano mai finanziato
Cos’è accaduto da allora? A maggio 2016 è stato sottoscritto un Protocollo sperimentale contro il caporalato, mentre la Regione ha ideato un piano da 5 milioni di euro per chiudere la baraccopoli, utilizzando strutture di proprietà dell’Ente in alcuni comuni vicini. Non se n’è fatto nulla a causa del mancato finanziamento da parte del Ministero dell’Interno. Il ghetto è rimasto lì ancora una volta e, a luglio dello scorso anno, un altro cittadino del Mali è morto nel corso di una rissa scoppiata nell’accampamento invisibile. Il 2 dicembre scorso si è verificato un altro incendio che ha interessato un centinaio di baracche, anche in quel caso senza feriti. Il 9 dicembre, invece, un rogo ha ucciso un migrante di 20 anni nel cosiddetto Ghetto dei bulgari, tra Borgo Tressanti e Borgo Mezzanone non lontano da Foggia. Giovedì notte, l’ennesimo incendio nel quale sono morti altri due migranti del Mali.
A il Fatto quotidiano.it il questore di Foggia, Piernicola Silvis, parla di una “città alternativa, una favela”, dove però i migranti “si sono raccolti per lavorare nei campi e non per delinquere”. Nel frattempo le operazioni per cercare di bonificarlo sono state difficili. “Bisogna assolutamente chiuderlo - spiega Silvis - perché ad oggi si rischia la sicurezza ogni giorno”. Le soluzioni alternative al ‘Gran ghetto’ sarebbero due strutture nei pressi di San Severo, ossia Casa Sankara e l’Arena, ma c’è molta resistenza. Dopo l’incendio di giovedì sera è intervenuta la federazione regionale dell’Usb Puglia: “Queste sono le conclusioni tragiche di anni di assenza di politiche del lavoro, in modo particolare sull’agricoltura e contro il caporalato”. Il problema, dunque, non è solo quello dell’accoglienza. Secondo l’Unione sindacale di Base “aver avviato lo sgombero del campo di Rignano senza coinvolgere i lavoratori che lo abitano è stato un atto di prepotenza istituzionale che non è possibile accettare”, mentre “gravissime sono le responsabilità del prefetto di Foggia” ed “enormi i ritardi della politica”.
L’esperienza di radio ghetto
il manifesto, 5 marzo 2017
La crisi che sta attraversando il Pd riguarda e interroga tutte le forze progressiste: non tanto per continuare a coltivare l’illusione che l’ennesima diaspora di gruppi dirigenti sia di per sé sufficiente a garantire un riscatto dei subalterni. Ma perché è lo specchio nazionale della più generale crisi istituzionale che sta attraversando tutto l’occidente.
Il Pd è fallito perché è fallita la cornice dentro la quale era stato costruito, quella della governance neoliberale. La costituzionalizzazione cioè dell’idea che all’interno delle società, finalmente pacificate in seguito alla caduta del muro di Berlino, non ci siano conflitti, e quindi interessi da elevare e altri da reprimere, ma “problemi” a cui dare risposte “tecniche”. Risposte magari da trovare anche attingendo dal calderone radicale, purché rimangano all’interno del perimetro di ciò che da noi si attendono “i mercati”. Il “centrismo radicale”, insomma, che può prosperare sia in regime di grande coalizione (Germania) che bipolare (paesi anglosassoni) che tecnico (l’Italia ha sperimentato tutte e tre le versioni), ma che sottende comunque l’esistenza di un meta-partito unico delle classi dominanti.
Il peccato originale del Pd non è stato quello di essere il prodotto di una fusione a freddo tra culture differenti (e già allora fortemente diluite), ma di essere nato fuori tempo massimo. In un’epoca, cioè, nella quale ancora si pensava che la “globalizzazione reale” era – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui il partito guardava come al perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto.
Il Pd, dunque, si presentò ai cittadini come un partito post-ideologico, post-nazionale e post-classista, che avrebbe efficacemente guidato l’inserimento dell’Italia nel villaggio globale, assicurando al tempo stesso per le classi lavoratrici il mantenimento di livelli di welfare accettabili per resistere alla crescente precarizzazione dei loro impieghi. Lo stesso europeismo era considerato non tanto un progetto volto alla creazione di un’entità politica continentale con una forte identità sociale (e autonoma dagli interessi geopolitici statunitensi), ma come una via privilegiata per inserire il paese nella rete delle interdipendenze globali, rompendo le rigidità che rendevano difficile questa operazione.
Finché ha avuto senso l’antiberlusconismo militante, che assicurava un’identità progressista, e, d’altra parte, si manteneva un clima sociale accettabile, il progetto pareva andare incontro ad un futuro promettente. E’ stata la crisi del 2011 a far saltare il banco. La segreteria di Bersani non seppe (o non volle) vedere che la crisi degli spread, che lo Stato non poteva arginare – privo com’era di una Banca Centrale che sostenesse il debito pubblico -, rappresentava una grave torsione nel funzionamento della nostra democrazia; e che, a causa delle condizioni imposte dalla Bce e dal governo tedesco (Fiscal Compact, pareggio di bilancio), i poteri pubblici non potevano realizzare le politiche anticicliche necessarie a tenere a galla il paese. Mentre un’esigua élite nazionale si avvantaggiava dello stato d’emergenza per imporre drastiche misure di svalorizzazione del lavoro come via più rapida e più comoda alla ripresa dei profitti.
Insomma, la tanto decantata «Europa» si era trasformata in una gabbia le cui imposizioni peggioravano i conti pubblici, i livelli occupazionali e la vita dei cittadini in generale. Ormai abbandonata, con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, la retorica sugli Stati Uniti d’Europa e l’unione fiscale continentale che avrebbero reso sostenibile l’adozione della moneta unica, il Pd si è limitato a rafforzare la sua immagine di “partito della responsabilità” di fronte ad uno stato permanente di emergenza economica e di avanzata dei “populisti”. Un partito che, senza mai precisare in che maniera e con quali strumenti, avrebbe lottato per riorientare la politica economica della zona euro verso l’agognata “crescita”.
Naturalmente, dato il rigido controllo imposto dall’ex area del marco sulla costituzione gerarchica europea, Renzi non ha potuto ottenere niente più di un lieve margine negli obiettivi di rientro dal deficit, largamente insufficienti per far uscire l’Italia dalla deflazione e la stagnazione, ma pagati utilizzando la svalutazione del lavoro come merce di scambio. Il Pd non è così in condizione di tornare ad assicurarsi un consenso maggioritario nel perimetro del suo vecchio elettorato, che poco a poco prende coscienza che gli appelli all’Europa della crescita e del lavoro si stanno convertendo in un programma buono per le calende greche, i giorni cioè destinati a non arrivare mai.
La crisi generalizzata della governance neoliberale, e di quelle sinistre moderate che ne erano state i più coerenti alfieri, non apre tuttavia automaticamente le porte ai progetti di emancipazione popolare. Una nuova destra aggressiva ed esclusiva affila le armi e pesca nel consenso e nelle paure dei subalterni, un tempo rappresentati dal movimento operaio organizzato.
Il fallimento del Pd sta lì a dimostrare che non serve abbarbicarsi attorno alle certezze di ieri, se non a farsi travolgere dal loro tramonto. Nell’interstizio che si apre tra il vecchio che muore ed il nuovo che non sa nascere tocca inventare la democrazia di domani, prima che appaiano i mostri.
». Sbilanciamoci info, 2 marzo 2017 (c.m.c.)
La crisi del processo di integrazione europeo ha molte sfaccettature e si è aggravata negli ultimi anni. Il sintomo più visibile è stato il referendum britannico sull’uscita dalla Ue, ma questo non è certo l’unico indicatore del diffondersi delle tendenze disgregatrici e delle crescenti contestazioni alle politiche europee.
Brexit
La disintegrazione dell’Unione è stata introdotta esplicitamente nell’agenda politica dal referendum britannico. Si può inquadrare il risultato del referendum nel contesto globale delle rivolte contro le élite politiche. La crescita delle diseguaglianze, l’insicurezza economica, la stagnazione o diminuzione del reddito subita da larghi strati di popolazione, insieme alla riduzione dei servizi pubblici, sono i fattori alla base di questo malcontento, le cui espressioni politiche variano enormemente.
In Gran Bretagna, come in molte altre nazioni, gli immigrati sono diventati i capri espiatori, accusati di aver causato problemi economici, quando in realtà la mobilità dei capitali, non del lavoro, è stata una delle principali cause della riduzione degli standard di vita medi e dell’erosione dei diritti dei lavoratori e della protezione sociale. In Gran Bretagna un altro capro espiatorio è stato trovato nei più bisognosi e sia i conservatori che i laburisti, prima del cambio nella leadership del partito, hanno invocato un’ulteriore riduzione dei già inadeguati livelli di protezione sociale.
Durante la coalizione tra conservatori e liberal-democratici, nel 2010-2015, i demagoghi dell’Independence Party britannico (Ukip), sono riusciti a indirizzare il malcontento popolare contro la Ue e a fomentare un nazionalismo xenofobo, che individua i nemici nei lavoratori provenienti dagli altri Paesi dell’Unione. La crescente forza dell’Ukip ha allarmato i partiti tradizionali. Ciò che ne è seguito è stato, almeno in parte, guidato dal caso.
Per cercare di fermare l’avanzata politica dell’Ukip, il primo ministro britannico David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione, in un momento nel quale la coalizione al governo sembrava destinata a continuare a governare il Paese; poiché i liberal-democratici non avrebbero mai potuto condividere la decisione di tenere il referendum, i conservatori erano sicuri che tale promessa non avrebbe potuto realizzarsi nella pratica. Tuttavia, l’inaspettata vittoria di una maggioranza conservatrice alle elezioni ha costretto Cameron a rispettare l’impegno preso.
Il trionfo della campagna del leave (uscire dalla Ue) ha coinvolto due grandi correnti politiche: da una parte il nazionalismo xenofobo promosso dall’Ukip; dall’altra la corrente ultra-liberale interna ai conservatori. Michael Gove e John Redwood, due conservatori membri del parlamento britannico, hanno visto l’Europa come un ostacolo al capitalismo globale deregolamentato di cui sono promotori. Nigel Lawson, ministro dell’economia britannico negli anni ottanta, sostenitore di questa corrente scrisse “la Brexit completerà la rivoluzione economica iniziata da Margaret Thatcher”.
Queste due correnti sono potenzialmente in conflitto, poiché la radicale deregolamentazione proposta dai conservatori porterebbe, con molta probabilità, ad accrescere la precarietà economica della maggior parte della popolazione. Sino a oggi tale conflitto è, tuttavia, rimasto sopito. D’altra parte, però, è già scoppiato un aperto conflitto all’interno del governo post-Brexit di Theresa May. Alcuni ministri, influenzati da potenti gruppi di interesse – quelli finanziari innanzitutto – sono preoccupati per le possibili conseguenze dell’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico e dai rischi di instabilità economica, che hanno portato a un forte deprezzamento della sterlina. Essi stanno adoperandosi per una ligth-Brexit, una interpretazione minimalista dell’uscita dall’Unione, che preservi il più possibile lo status quo. Altri, invece, sono determinati nel dare seguito alle richieste populiste di controlli sull’immigrazione, anche a costo di distruggere i rapporti con la Ue. Non è ancora chiaro quale delle due strade verrà seguita.
Le posizioni e le argomentazioni del movimento laburista sono state quasi ininfluenti nel dibattito referendario. La posizione accettata quasi unanimemente dal partito è stata che l’Europa, per come è adesso, non fa gli interessi dei lavoratori, ma un’uscita dall’Unione associata a un programma politico xenofobo e a un’agenda che punta alla deregolamentazione non può certo migliorare la situazione. Nonostante questa posizione fosse più che ragionevole, la debolezza del partito laburista, unita alla posizione pro-Brexit della stampa di destra, ha fatto sì che essa risultasse marginale nel dibattito.
La Brexit ha reso concreta la minaccia che forze centrifughe possano erodere, o forse addirittura distruggere, il progetto europeo. In particolare, il trionfo, con la Brexit, di due portati della destra radicale – liberismo economico estremo e nazionalismo xenofobo – rafforzano le tendenze disgregatrici in tutta Europa. Il fallimento dei leader europei nel rispondere al malessere sociale, che trova invece una distorta espressione in queste forze distruttrici, aumenta certamente le minacce per l’Unione. La passività con cui essa sta affrontando l’avanzata delle forze nazionaliste in tutta Europa è in evidentemente contrasto con la durezza e determinazione con le quali è stata schiacciata la proposta, razionale e pro-europea, di superamento dell’austerità in Grecia.
La divisione Nord e Sud nell’area euro
Non è stato solo il primo ministro britannico Cameron a spargere il seme della discordia in Europa. A suo modo, il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto lo stesso quando, a luglio dello scorso anno, confrontandosi con il governo greco, non ha dato alternative se non accettare l’austerità e le riforme strutturali richieste o lasciare l’area euro. Schäuble, che già nel 1994 aveva proposto un’Europa caratterizzata da un nucleo centrale, ha chiarito che l’appartenenza all’Unione dei Paesi (quelli periferici!) è reversibile, se questi non si adeguano ai cambiamenti strutturali e all’austerità fiscale e salariale.
Il governo guidato da Syriza non era pronto ad affrontare l’uscita dall’euro e, sotto fortissima pressione, ha accettato le condizioni imposte dagli altri Stati membri dell’area euro, guidati dalla Germania. A causa della continua contrazione della domanda interna, nel 2015 il Pil greco è diminuito ancora dello 0.2%, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto attorno al 25%. Se le politiche restrittive hanno abbassato il deficit della bilancia commerciale, senza peraltro affrontarne le cause, hanno però peggiorato i problemi legati al debito greco. Negli ultimi mesi, il conflitto tra Europa e Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità del debito pubblico greco e la necessità di un suo taglio si è intensificato. I Paesi dell’Europa centrale, tra cui la Germania, sono particolarmente riluttanti all’idea di tagliare il debito greco, nonostante i loro governi siano pienamente coscienti del fatto che ciò sarà inevitabile.
I programmi di adeguamento strutturale sostenuti dalla Commissione Europea e dai governi del nucleo centrale europeo, non hanno affrontato la profonda divisione che corre tra Nord e Sud, né il problema della debolezza delle strutture produttive e della deindustrializzazione nella periferia Ue. Il deprezzamento dell’euro, unito al trasferimento del turismo di massa da Egitto, Turchia e Tunisia ai Paesi dell’ovest del Mediterraneo, ha alleviato la situazione di Spagna e Portogallo.
Analogamente, la riduzione del grado di restrittività delle politiche macro deciso sia dal governo provvisorio della destra in Spagna, sia dal neo eletto governo progressista portoghese, con la sua aperta politica anti austerità, hanno contribuito a una qualche, lieve ripresa economica. Nonostante i due governi non abbiano rispettato le regole di bilancio imposte dalla Commissione Europea, in autunno 2016 non sono stati sanzionati. Anche il governo tedesco ha sostenuto questa decisione, il che ha lasciato margine di manovra al partito popolare spagnolo, importante alleato del tedesco Cdu/Csu, in uno scenario politico particolarmente incerto. Tuttavia la flessibilità concessa non deve essere interpretata come un cambio di direzione generale.
Sebbene i Paesi del nord Europa godano di un tasso di disoccupazione più basso rispetto a quelli del sud, sono anche loro esposti ai pericoli causati dagli squilibri presenti nell’economia europea. Ad esempio, essi sono, data la loro apertura economica e commerciale, particolarmente vulnerabili all’eventualità di una recessione indotta dalla Brexit in Gran Bretagna e nei maggiori Paesi europei. La crescita delle esportazioni (misurate in valore per includere il petrolio norvegese), dopo una lieve ripresa successiva alla crisi, è stata bassa in tutti i Paesi del nord (con l’eccezione dell’Islanda).
La situazione in Svezia e Norvegia è stata in qualche modo alleggerita grazie alla variabilità del tasso di cambio delle rispettive monete, mentre la Finlandia, facendo parte anche dell’Unione Monetaria, non ha potuto far fronte con il deprezzamento della moneta agli specifici shock che l’hanno colpita – i problemi della Nokia e le sanzioni alla Russia in particolare –, la qual cosa sarebbe stata particolarmente necessaria per sostenere l’industria del legno e dell’acciaio.
Analogamente, in Danimarca l’ancoraggio della moneta all’euro ha contribuito alla stagnazione delle esportazioni, sin dal 2010. Sebbene il flusso dei migranti abbia causato una crescita della spesa pubblica in Svezia, tale politica attiva discrezionale non è stata usata per aumentare l’occupazione; in Finlandia, invece, la crisi è stata ulteriormente aggravata dalle politiche di correzione fiscale mirate a soddisfare le richieste europee. In generale, l’ortodossia economica non ha permesso politiche di bilancio attive e solo la politica monetaria fortemente espansiva della Bce e delle banche centrali svedesi e norvegesi, con il loro pericoloso impatto sui prezzi delle case, ha permesso alla spesa interna di compensare, almeno parzialmente, la bassa domanda di esportazioni.
I rifugiati e la rottura dell’area Shengen
L’arrivo di un gran numero di rifugiati dal Medio Oriente e dai Paesi africani nel 2015 e a inizio 2016 ha evidenziato le spaccature interne alla Ue. Mentre le procedure non formalizzate utilizzate per gestire la crisi hanno portato a scaricare il peso sui Paesi periferici, la regolamentazione Ue sui rifugiati – derivante dalla Convenzione di Dublino – indica esplicitamente che a farsi carico dei migranti devono essere i Paesi di primo ingresso nell’Unione, tipicamente i più poveri. Nel 2015 questa scelta ha messo particolarmente in difficoltà la Grecia. Nell’estate del 2015 è apparso evidente che il governo greco – già affamato dalle politiche di austerità – era ormai sopraffatto dall’emergenza.
La decisione del governo tedesco di accogliere i rifugiati di guerra, particolarmente siriani, ha aiutato la Grecia, ma ha comportato problemi con altri governi, dall’Ungheria alla Svezia. Essa, assunta senza previa consultazione degli altri Paesi, ha riconosciuto implicitamente il fallimento degli accordi di Dublino. Da settembre 2015 a marzo 2016 sono state adottate soluzioni temporanee, non previste dalla normativa in vigore, come quella dei corridoi umanitari tra Germania e Croazia, attraverso i quali ai rifugiati è stato consentito di raggiungere l’Europa centrale.
Queste misure sono state, però, fortemente avversate da forze nazionaliste conservatrici come il governo di Fidesz in Ungheria. Esse si sono fortemente mobilitate per chiudere le frontiere agli immigrati e costruire muri. Queste istanze hanno trovato risonanza nei partiti cristiano-democratici e, addirittura, in alcuni partiti social-democratici. Rappresentanti di alto rango di governi come quello ungherese e austriaco sono andati in visita in Macedonia – Paese candidato a entrare nell’Unione – elogiando come questa stesse difendendo i confini “europei”. Implicitamente, hanno così mostrato come ci sia un Paese considerato “ridondante” nell’area Shengen – ancora una volta la Grecia.
I Paesi Ue si sono dimostrati incapaci di trovare una nuova formula per distribuire gli oneri associati alla crisi dei migranti. Invece di un più che giustificato approccio umanitario associato a circostanze eccezionali, hanno optato per esternalizzare la gestione del problema. A tal fine, il 10 marzo 2016 è stato siglato un accordo con la Turchia, che prevede che essa accetti i rifugiati in cambio di soldi, mentre la Ue si impegna a ricevere un numero limitato di rifugiati siriani provenienti dalla Turchia; inoltre, è prevista l’accelerazione dei negoziati di accesso della Turchia all’Unione e l’abolizione del visto per l’ingresso nella Ue dei cittadini turchi. In pratica, il governo turco ha bloccato i rifugiati in Turchia, impedendogli di raggiungere la Ue, in cambio dell’acquiescenza europea rispetto al carattere sempre più repressivo del regime che governa quel Paese.
L’imposizione del Comprehensive Trade and Economic Agreement col Canada (Ceta)
Alla fine di ottobre 2016 la Commissione e, più in generale, tutte le forze liberiste hanno utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per far sottoscrivere a tutti gli Stati membri il trattato Ceta con il Canada. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha elogiato questo accordo di libero scambio come “il più progressivo” mai siglato dall’Unione. Forti correnti interne ai partiti di sinistra, ai sindacati e ai movimenti sociali hanno, però, visto in questo accordo molti elementi regressivi dal punto di vista della democrazia e dello stato di diritto.
Una delle clausole più controverse riguarda la creazione di un tribunale che permetterebbe agli “investitori” (le grandi multinazionali) di citare in giudizio i governi per ottenere compensazioni economiche nei casi in cui ritengano che la regolamentazione nazionale leda i loro diritti, così precostituendo un privilegio legale per le imprese multinazionali. Altri elementi di preoccupazione riguardano, fra gli altri, i servizi pubblici e gli standard sanitari. Accordi commerciali come il Ceta scolpiscono nella roccia le regole liberiste, riducendo grandemente lo spazio per una ri-regolamentazione democratica. Le negoziazioni per il Ceta sono rimaste riservate a lungo, nascoste all’ombra delle trattative per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (il Ttip), basata sulla stessa filosofia.
Quando le negoziazioni per il Ttip sono saltate, viste le forti resistenze, le forze del libero mercato hanno messo l’approvazione del Ceta fra le loro priorità. Di fatto, molte società americane hanno sedi in Canada e possono, perciò, comunque avvalersi del Ceta. In un certo senso, il Ceta è un sotterfugio per imporre comunque le regole del Ttip. Sebbene in Germania le proteste contro il Ttip e il Ceta siano state particolarmente accese, i social-democratici hanno ceduto alle pressioni dei conservatori loro alleati, del mondo degli affari e di Bruxelles.
Il partito social-democratico austriaco ha negoziato una dichiarazione interpretativa di alcuni punti critici, che verrà allegata al trattato. L’ultimo ostacolo alla firma è venuto dalle regioni belghe della Vallonia e di Bruxelles. La Vallonia, in particolare, aveva evidenziato già un anno prima le sue obiezioni alla Commissione ma, ciononostante, quest’ultima ha scelto di fissare comunque la data della cerimonia per la firma. Ciò si è rivelato in parte un errore di calcolo, in quanto il governo regionale ha fatto slittare la data prevista, cedendo, infine, solo dopo aver negoziato una dichiarazione speciale.
Il commissario europeo Günther Oettinger ha reagito alle controversie sul Ceta chiedendo che i governi nazionali non interferiscano con le politiche commerciali europee. L’intento di questa dichiarazione è, evidentemente, quello di contrastare l’opposizione al trattato tramite la centralizzazione. Il percorso di ratifica del Ceta da parte dei parlamenti nazionali si preannuncia, tuttavia, accidentato. Di fatto, il modo in cui l’Europa ha insistito per l’approvazione del Ceta aggrava la crisi di legittimità europea e fomenta le tendenze disgregatrici.
Le relazioni Ue-Usa dopo l’elezione di Trump
L’ascesa dei partiti nazionalisti di estrema destra non è rimasta confinata all’Europa. Negli Usa, l’oligarca Donald Trump ha vinto con un margine ristrettissimo le elezioni presidenziali, grazie al supporto di varie forze di destra. Gli elementi chiave della sua campagna sono stati un’aggressiva retorica anti-immigrati, la promessa di abbassare le tasse e la fine di trattati commerciali come il Ttip. Se realizzate, le promesse di interrompere le negoziazioni per il Ttip e di ridurre le spese americane a sostegno della Nato cambieranno significativamente le relazioni tra Usa e Ue.
Dopo l’elezione di Trump, si è riacceso il dibattito sulla formazione di una “difesa comune”. In un contesto di “cooperazione strutturale permanente”, la cooperazione militare tra gli Stati membri non può che aumentare. In effetti, sia i deputati europei cristiano-democratici che quelli social-democratici hanno chiesto un aumento della spesa militare da parte dei singoli Paesi: in un contesto dove molteplici sono gli elementi di crisi, emerge dunque un ampio consenso, che va dai social-democratici alle destre nazionaliste, per una maggiore militarizzazione dell’Unione e una politica estera più aggressiva. Questa spinta militarista deve essere contrastata con decisione dalle forze di sinistra e dai movimenti per la pace.
Idee e strategie per leggere le tendenze disgregative
L’ampio consenso tra i cristiano-democratici, i social-democratici e i nazionalisti di destra non va oltre la militarizzazione della politica estera. Le élite europee hanno intrapreso percorsi differenziati per fronteggiare le molteplici crisi e le tendenze disgregative. Queste strategie sono strettamente legate ai differenti scenari futuri considerati e ai diversi modi di guardare all’Europa. Come nel caso della Brexit in Gran Bretagna , anche in Europa sono le forze di destra che dominano il dibattito sul futuro dell’Unione.
Cercare di sopravvivere in qualche modo: questo è il modo prevalente di gestione delle molte crisi che affliggono l’Europa. È l’approccio privilegiato dalla maggior parte dei cristiano-democratici, come dei social-democratici e dei liberali. Si tratta di una strategia che punta a proseguire nell’attuazione del modello neoliberista di integrazione e a preservare l’attuale configurazione geografica dell’Unione Monetaria e dell’area Shengen. È un approccio che ottiene il supporto delle maggiori multinazionali, ma che non fa in alcun modo i conti né con le divisioni tra centro e periferia dell’Unione, né con la sua perdita di legittimazione agli occhi delle classi popolari. Nonostante questa strategia abbia la pretesa di preservare il processo di integrazione europeo e i suoi confini geografici, la mancanza di elementi di promozione della coesione non potrà che accelerare il processo di disgregazione europeo.
Vanno anche evidenziate due sotto-varianti di questa strategia.
Cercare di sopravvivere con un po’ più di flessibilità fiscale e maggiori investimenti pubblici. È la strategia perseguita principalmente dai social-democratici e, in parte, dalle forze di sinistra in Francia e nei Paesi mediterranei. Essa punta a integrare l’approccio sopra descritto con una combinazione di flessibilità fiscale e investimenti pubblici. Si cerca di ampliare lo spazio per gli interventi di politica economica alleggerendo le regole fiscali. Questa strategia è caratterizzata da una qualche maggiore attenzione ai problemi di coesione dell’Unione rispetto alla variante principale.
Cercare di sopravvivere restringendo e rendendo più rigida l’area Schengen. Questa variante invoca il ritorno temporaneo dei controlli alle frontiere nell’area Schengen e vuole escludere dall’area i Paesi che non sono disposti a tenere rifugiati e migranti “indesiderati” fuori dai confini nazionali. Quest’approccio è perseguito soprattutto dalle correnti nazionaliste interne ai partiti cristiano-democratici dei Paesi del nucleo centrale europeo e dei Paesi più orientali dell’Europa centrale, ma esso gode del sostegno anche di alcuni partiti social-democratici. De facto questa strategia sta già prendendo piede, come dimostrato, ad esempio, dalla reintroduzione di controlli temporanei alle frontiere e dalla costruzione di barriere fisiche di confine all’interno della stessa area Schengen.
Core Europe: la costruzione di un nucleo centrale europeo. L’Europa è già caratterizzata da differenti gradi di integrazione. Tradizionalmente, il concetto di Europa core è stato finalizzato a intensificare l’integrazione neoliberista tra i Paesi che ne dovrebbero farne parte. Per questo come area di riferimento si guarda a un insieme di Paesi più ristretto e omogeneo all’interno dell’area euro. Questa visione è stata ampiamente dibattuta all’interno dei circoli cristiano-democratici dei Paesi interessati. I partiti della destra nazionalista che propongono questa visione, come Freiheitliche Partei Osterreichs (Fpö) o Alternative fur Deutschland (AfD), puntano soprattutto a rendere l’Unione più piccola e omogenea, vogliono liberarsi dei Paesi periferici che ritengono un peso. Le proposte delle forze di destra dei Paesi periferici, come in Italia la Lega Nord o, in modo più lieve, il Movimento 5 Stelle, puntano ad abbandonare l’eurozona e sono dunque complementari a quelle che mirano alla costruzione del nucleo centrale.
L’Europa delle nazioni. Alcuni partiti della destra nazionalista sostengono che il processo di integrazione europeo debba focalizzarsi sul Mercato Unico e la relativa regolazione economica. I partiti della destra nazionalista nell’Europa dell’est, come Fidesz in Ungheria o Prawo i Sprawiedliwość (PiS), in Polonia ritengono, invece, fondamentali anche gli apporti dei fondi europei per lo sviluppo regionale. Tuttavia, essi invocano negli altri campi più libertà per gli Stati nazionali, in parte per realizzare strategie competitive, in parte per promuovere un’agenda politica nazionalista e conservatrice (ad esempio, in ambiti quali l’identità sessuale o le politiche sociali). Alcune forze della destra nazionalista, come il Front National in Francia, hanno formulato vaghe idee di “un’altra Europa”, tanto poco definite da non apparire sostanzialmente distinte da quelle che mirano alla completa dissoluzione dell’Unione.
Idee e strategie per la sinistra
Un’altra Europa: un federalismo europeo di sinistra: il concetto di un’altra Europa è stato usato anche da alcune forze di sinistra, ma con un significato completamente diverso. Il fine è quello di rifondare democraticamente la Ue, gettando le basi per un federalismo democratico europeo e per un’integrazione più equilibrata. Il punto è che i presupposti politici per l’attuazione di questa agenda sono particolarmente difficili da realizzare, sarebbe necessario un largo consenso generale e tra gli Stati membri, un contesto, insomma, opposto a quello che sembra prevalere attualmente.
A fronte del manifestarsi di forti disequilibri di potere fra i Paesi Ue e dopo l’esperienza greca, un crescente numero di forze di sinistra chiede ora l’attuazione di esplicite politiche di promozione sociale, che contemplino il non rispetto delle regole europee e, laddove necessario per intraprendere politiche progressiste, anche l’abbandono della moneta unica.
I due differenti approcci della sinistra differiscono principalmente nel giudizio su cosa sia politicamente realizzabile all’interno dell’Unione e su cosa potrebbe essere realizzato attraverso le singole politiche economiche nazionali.
Entrambe le prospettive appaiono di difficile realizzazione senza una maggiore unità politica e un maggiore incidenza elettorale della sinistra rispetto all’attuale. Malgrado contestazioni radicate negli specifici contesti nazionali costituiscano la più immediata forma di sfida alle politiche attuali, EuroMemo continua a ritenere indispensabile una prospettiva internazionale e a sostenere la necessità di un approccio coordinato a livello europeo per promuovere la ripresa economica e la giustizia sociale.
I mille modi nei quali, con inventiva tutta italiana ma volta al male, stiamo realizzando pezzo per pezzo la più micidiale e disumana barriera per respingere le moltitudini che fuggono dagli inferni che il nostro Primo mondo ha creato per loro.
Il manifesto, 4 marzo 2017
Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza base giuridica, violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie, eserciti mobilitati ai confini, filo spinato e muri.
E tra i muri quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani. Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.
Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’Onu come Unhcr, Oim, Unice e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per «disincentivare l’afflusso di nuovi profughi»: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.
Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico.
Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.
Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.
Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.
Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.
Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.
Corriere della sera, la Repubblica, il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2017
Il Fatto Quotidiano
COMPAGNI DI MERENDE
di Marco Travaglio
L’altroieri, mentre i carabinieri arrestavano Alfredo Romeo a Napoli e perquisivano Carlo Russo a Scandicci, si spegneva a 86 anni, in un ospizio vicino a Firenze, Fernando Pucci, l’ultimo dei “compagni di merende” balzati agli onori delle cronache giudiziarie negli infiniti processi per i delitti del mostro di Firenze. Per anni il suo nome fu associato a quelli degli altri compari: Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Nessuna parentela con lo scandalo Consip, per carità: sia perché in quei processi si parlava di omicidi, in questa inchiesta invece al massimo di corruzioni, traffici di influenze, soffiate e favoreggiamenti; sia perché allora il Pucci e il Lotti erano testimoni d’accusa che collaboravano con la giustizia, mentre ora il Renzi e il Lotti (il ministro Luca, solo omonimo) sono indagati e negano pure l’evidenza. Ma la suggestione dei compagni di merende, cioè di quel mondo di furbi provincialotti di paese che si vedono al bar tabacchi e custodiscono segreti inconfessabili, viene naturale alla lettura delle carte dell’inchiesta Consip. Torna alla mente quel che disse della sua Firenze un cittadino doc come Dante Alighieri a Jacopo Rusticucci nel girone dei sodomiti, al canto XVI dell’Inferno: “La gente nova e i sùbiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”. È più o meno quel che accadde quattro anni fa, quando dal contado toscano marciò e poi marcì su Roma quello che la stampa del servo encomio nobilitò come Giglio Magico e che oggi la stessa stampa convertita al codardo oltraggio sbeffeggia come Giglio Tragico o Giglio Marcio.
Stiamo parlando del Renzi da Rignano e poi da Pontassieve, del Lotti da Empoli, della Boschi da Laterina (Arezzo), del Bonifazi della Gavinana e di tutta l’allegra brigata, ben presto seguita alla luce del sole dal Verdini da Fivizzano (Lunigiana) e nell’ombra da babbo Renzi (sempre da Rignano), da babbo Boschi (sempre da Laterina), da Carlo Russo da Scandicci e da tutto il cucuzzaro. Un mondo chiuso, a parte, di gente nova irresistibilmente attratta da sùbiti guadagni. O, per dirla con Rino Formica, impareggiabile coniatore di definizioni immortali (“la politica è sangue e merda”, “intorno a Craxi vedo solo nani e ballerine”): “Renzi non ha cultura politica. È il provinciale che va in città, quello che entra nel negozio di lusso e tocca la merce, l’annusa”. Chissà se il babbo trafficava per sé o per altri (“il sangue – spiega Formica a Repubblica – oggi è sofferenza altrui, mentre la merda, il lavoro sporco, lo devono fare gli altri”).
E chissà se il figlio era come i cornuti, l’ultimo a sapere ciò che parenti e amici sapevano benissimo. In attesa di scoprirlo, non c’è miglior definizione di quella di Formica per una combriccola di parvenu troppo rapidamente assurti a statisti, riformatori, financo padri costituenti. Tutti accomunati da un’attrazione fatale per i furbastri, gli spregiudicati, talvolta anche i pregiudicati. Come dimenticare la prima comparsata del giovin Matteo a Canale5, alla Ruota della Fortuna? E poi la visita clandestina alla villa di Arcore da sindaco di Firenze, subito svelata dal padrone di casa per far capire chi dei due era quello furbo? E la missione romana di babbo Boschi che, volendo salvare Banca Etruria, si affida al re dei faccendieri d’antan Flavio Carboni, condannato definitivamente per bancarotta fraudolenta?
Uno legge le carte dell’inchiesta Consip, tra presunti pranzi “in bettola”, presuntissime tangenti cash col “metodo della mattonella” (come Totò e Peppino alle prese con la malafemmina), probabili “bistecchine” mangiate chissà dove con Romeo, i pizzini di quest’ultimo stracciati e ricomposti in discarica, le incursioni nel bosco di Rignano per confidarsi con gli amici del bar che ormai aveva troppi orecchi, le Srl di mamma Lalla, e tutto torna. Non sul piano giudiziario, per cui occorrerà attendere i classici 10-15 anni di processi. Né su quello della responsabilità etico-politica, concetto ormai caduto in desuetudine almeno quanto il conflitto d’interessi (infatti si continua a ripetere che le colpe dei padri non ricadono sui figli, come se fosse normale che il padre del capo del governo faccia affari con imprenditori che fanno affari con il governo). Ma sul piano antropologico ed estetico, che spiega la politica degli ultimi anni meglio di qualunque saggio o editoriale.
Per chi voleva vedere e capire, non c’era mica bisogno dell’ultima indagine. Di avvisaglie erano piene le cronache, soprattutto del Fatto, e qualche libro (chi ha letto i due dedicati al clan Renzi dal nostro Davide Vecchi lo sa bene) degli ultimi tre anni, anche se le meglio penne del bigoncio giravano alla larga, almeno finché il referendum del 4 dicembre non consegnò al Paese il certificato di morte almeno provvisoria del padrone pro tempore dItalia. Bastava unire i puntini, e già il disegno veniva fuori chiaro e lampante. Ricordate le decine di Rolex anche d’oro massiccio donati da sovrano dell’Arabia Saudita al premier Matteo e alla sua corte venuta a Riyadh a omaggiarlo? La legge, trattandosi di regali superiori ai 300 euro, imponeva di depositarli in un magazzino di Palazzo Chigi a disposizione dello Stato, invece sono spariti tutti, tranne uno: quello dell’irreprensibile interprete arabo. Chissà mai chi se li è fregati.
Ricordate gli scontrini nascosti dall’ex sindaco di Firenze passato nel frattempo a miglior carriera e dal suo successore, il sindaco al Plasmon Dario Nardella, sulle sue spese non proprio tutte “istituzionali” rimborsate dal Comune ai tempi di Palazzo Vecchio, proprio mentre il suo partito scacciava per molto meno il sindaco di Roma Ignazio Marino davanti a un notaio? Tra le poche ricevute emerse dalle indagini della Corte dei conti, il Fatto scoprì quelle di un viaggio Firenze-Roma del Renzi e del Lotti di nove anni fa: i due figli papà democristiani, l’uno sindaco di Firenze l’altro capo di gabinetto, ogni volta che erano chiamati nella Capitale da imprescindibili impegni politici nazionali, sceglievano di soggiornare all’Hotel Raphael di largo Febo, che Craxi aveva eletto a sua residenza capitolina, che ospitava i vertici con politici, faccendieri e portamazzette, che nel ’93 fece da sfondo al celebre lancio di sputi e monetine, e da cui un anno dopo – perduta l’immunità parlamentare – Bettino partì per l’ultimo viaggio dall’Italia ad Hammamet.
Una scelta curiosa, per una giovane marmotta democristiana che si era laureata in Legge con tesi su Giorgio La Pira e, divenuta sindaco, aveva respinto come “diseducativa” la proposta dei nostalgici del craxismo di dedicare una piazza di Firenze all’”esule” Bettino e infine da premier aveva rivendicato l’eredità di Berlinguer dall’appropriazione di Casaleggio. Ma forse il Raphael era semplicemente una scelta simbolica dello spirito-guida che segretamente si era scelto come modello politico. Tant’è che quasi tutti i reduci del craxismo arrembante, da Ferrara a Minoli, da Sacconi a La Ganga, senza dimenticare le truppe di complemento come Napolitano e Amato, avevano eletto “Renxi” a loro nuovo beniamino. E lui era ripartito proprio da Craxi, senza peraltro averne la stoffa: la “grande riforma” della Costituzione con Verdini, il decisionismo, il rampantismo, l’antiparlamentarismo, l’harem di imprenditori-prenditori e manager-magnager di fiducia, lo stuolo di leccapiedi, il culto della personalità, la Leopolda al posto della piramide di Panseca, le leggi pro-Mediaset e anti-giudici, il garantismo peloso (ma solo per gli amici) e la scomunica a Mani Pulite “barbarie giustizialista”.
E ora, inevitabile nemesi storica, a dannarlo arriva il Fattore S, come soldi. O A, come affari, sia pure non per linea diretta, ma ereditaria. Qualche webete già profetizza un imminente trasloco nella villa di Hammamet o nell’ospizio di Cesano Boscone, ma sarebbe troppo. Siccome, diceva Marx, le tragedie della storia tendono a ripetersi in forma di farsa, per questi compagni di merende pare eccessivo anche il bar sport di Rignano.
La Repubblica
IL GROVIGLIO
DEI FEDELISSIMI
di Ezio Mauro
TUTTI i nodi non sciolti negli anni del comando stanno soffocando Matteo Renzi oggi, nei mesi della sconfitta, e ciò che più conta rischiano di trascinare a fondo con lui l’intera parabola del Pd, tra scissioni, tesseramenti gonfiati, avvisi di garanzia. Sono nodi politici e giudiziari, riassumibili in un unico concetto: il groviglio del potere cresciuto intorno all’ex presidente del Consiglio, che lo ha coltivato o tollerato nell’illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato.
È infatti la concezione del potere del leader che merita fin d’ora un giudizio, mentre giustamente si attende che le ipotesi d’accusa dei magistrati inquirenti vengano accertate, e intanto gli indagati hanno il diritto di essere considerati giudiziariamente innocenti fino a prova contraria. Dunque l’inchiesta dirà se Tiziano Renzi approfittava del ruolo pubblico del figlio per influenzare nomine e appalti, se il ministro Lotti ha avvisato i vertici Consip dell’indagine in corso e addirittura delle “cimici” negli uffici, in modo che venissero rimosse.
Se Romeo teneva a libro paga il padre del premier, come credono i carabinieri che hanno materialmente ricostruito dalla spazzatura dell’imprenditore un appunto stracciato dove una “T.” figura accanto all’indicazione: 30 mila per mese.
Ma nell’attesa è inevitabile chiedere conto a Renzi di ciò che è già evidente, e soprattutto è sufficiente: il meccanismo di controllo e influenza che ha creato intorno a sé, nominando uomini di provata fedeltà personale nei centri più sensibili del potere pubblico, lasciando germogliare filoni di interesse privato che intersecano quei punti decisionali, mescolando come nei peggiori anni della nostra vita lobby, Stato e famiglia, perché da noi la degenerazione del potere pubblico passa spesso per scorciatoie affettive e tentazioni domestiche.
Ogni leader ha naturalmente il diritto di scegliersi gli uomini di fiducia, e può certo farlo rivolgendosi ai più vicini. Ma quando ha una responsabilità generale, perché non risponde soltanto di sé ma del governo del Paese e del destino di un partito, ha anche il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in Renzi una confusione tra Paese e paese. Ma c’è qualcosa di più, che si spiega in termini politici, non geografici o sociologici.
È l’eterna sindrome minoritaria di leader che non riescono a liberarsene nemmeno quando conquistano la maggioranza, senza capire che la vera supremazia sta nell’egemonia e non nelle tessere, nella nuova cultura che si installa e non nelle correnti che si contano, alleandosi oggi per separarsi domani. Potremmo dunque dire, paradossalmente per un leader egocentrico, che il vero limite di Renzi è di ambizione: pensare eternamente a proteggersi dai colpi e a colpire invece che a convincere e conquistare. Con un progetto capace di presentare una nuova sinistra come leva del cambiamento di un Paese in crisi, in un discorso di verità, tenendo insieme le eccellenze e le sofferenze italiane, in un nuovo disegno di società. Un disegno in cui si riconoscano tutte le anime della sinistra italiana, nella legittima e libera interpretazione che il leader del momento è chiamato a dare, facendosi però carico di una vicenda comune, di storie personali, di una tradizione che parla a un terzo del Paese.
Tutto questo non c’è stato. Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti. L’ex premier deve dire al Paese — e al suo partito che sta per scegliersi il segretario con le primarie — se sapeva, se sospettava, se immaginava: e se no, deve dire cos’ha pensato quando ha scoperto che l’uomo da lui messo alla guida della centrale degli appalti pubblici toglie le “cimici” perché un ministro e il vertice dei carabinieri lo avvertono, quando lo stesso capo della Consip rivela che proprio da Tiziano Renzi dipendeva il suo destino professionale, fino alla revoca della nomina.
L’unica cosa che Renzi non può fare è stare zitto o rovesciare il tavolo attaccando la magistratura come lo incitano i berlusconiani, memori di una pratica abituale a destra. Ma la comunità politica a cui Renzi si rivolge e dalla quale deriva la sua legittimità ha sensibilità differenti, e pretese diverse. E infatti ieri Renzi ha incominciato a sciogliere il nodo famigliare dicendo che se suo padre è colpevole deve pagare due volte.
Resta il nodo politico, intatto. E qui, infine, c’è una risposta che Renzi deve dare a se stesso. Dove lo ha portato quel sistema fondato sugli amici degli amici, asfittico e famelico? La presidenza del Consiglio non meritava qualche ambizione in più di una gestione toscana degli appalti? Domande inevitabili, perché non si può predicare l’innovazione e poi rinchiudersi nella cerchia ristretta di un Consiglio comunale in gita premio a Roma, con visita fugace alle istituzioni. Mentre bisognerebbe sapersi accontentare della sovranità legittima appena conquistata, senza cercare una quota ulteriore e ambigua di sovranità impropria.
Tutto questo Repubblica lo ha chiesto pubblicamente all’ex presidente del Consiglio in un’intervista all’inizio dell’anno: perché scegliere i fedelissimi fiorentini per guidare la macchina governativa, dalla Manzione a Lotti, fino a Carrai incredibilmente proposto per la guida delle cyber security invece di qualche ufficiale dei carabinieri laureato al Mit dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e non al premier? Perché un capo della Rai scelto nel bouquet della Leopolda? Perché governare con Verdini, e usare il Pd come un taxi per arrivare a Palazzo Chigi? Perché questa attrazione fatale per gli imprenditori e per le banche? Perché non pretendere che quando si ha l’onore di guidare la sinistra e la responsabilità di presiedere il governo i propri familiari si astengano da affari che riguardano il potere pubblico?
Le questioni erano tutte sul tavolo, tre mesi fa. Renzi ha perso tempo, e il tempo non è neutrale. Non ci sarà nessun nuovo inizio se non si parte da qui, dalla denuncia di un sistema di potere malato, e da un sovvertimento radicale di uomini, di metodi, di mentalità. Dopo gli amici, è arrivato il tempo di parlare ai cittadini.
Corriere della sera
I TIMORI
DEL TUTTI CONTRO TUTTI
di Massimo Franco
Non più un Pd che considera quello di Paolo Gentiloni un «governo amico». Semmai, il premier costretto in qualche modo a tenersi a distanza dal suo partito, per i lampi di instabilità che sprigiona.
L a ricaduta immediata di quanto sta succedendo con le inchieste giudiziarie sulla Consip sembra questa. E il presidente del Consiglio l’ha capito così bene che ieri l’ha raccomandato a tutti i membri dell’esecutivo. Non è scontato che lo smarcamento riesca: dipenderà molto da come e a chi si allargheranno le indagini della magistratura, che coinvolgono il padre dell’ex premier, Tiziano Renzi, interrogato ieri, e il ministro dello Sport, Luca Lotti.
Ma Gentiloni è costretto a ritagliarsi margini di autonomia dal Pd, per non essere risucchiato nella sua crisi. Solo rispondendo al Paese, e non ai dem, può evitare di diventare il capro espiatorio delle tensioni interne. Perché già si intravede la seconda conseguenza di questa vicenda imbarazzante e opaca: trasformare il prossimo congresso del Pd in una sorta di ring dove si celebrerà il rito del «tutti contro tutti». Con la politica tenuta in un angolo, e le accuse di affarismo, disonestà, giustizialismo bene in vista; e destinate a dominare un dibattito avvelenato dall’eco delle inchieste.
La tentazione di rinviare tutto, primarie e congresso, si è affacciata nelle ultime ore ma per adesso è stata ricacciata indietro. Da Renzi, perché significherebbe ammettere difficoltà vistose, che tra qualche mese potrebbero aumentare e gli precluderebbero la strada verso la conferma alla leadership. E dai suoi concorrenti, perché i colpi che arrivano alla nomenklatura renziana dal tesseramento gonfiato e dal caso Consip si aggiungono alle convulsioni della scissione; e danno a Michele Emiliano e Andrea Orlando, governatore della Puglia e ministro della Giustizia, la speranza di contrastare una rielezione finora quasi scontata.
Forse, però, è la terza ricaduta che dovrebbe preoccupare di più i vertici del Pd. Riguarda la sconnessione evidente tra la realtà autoreferenziale raccontata da loro, e il fastidio che si capta nell’opinione pubblica. Renzi vede una situazione surreale e attacca «i processi fatti dai giornali». Ma surreale è un po’ tutto. Lo è il modo impietoso col quale alcuni avversari interni adesso lo attaccano: una virulenza assente prima della sua sconfitta referendaria. Lo è la iattanza dell’ex premier, che si difende con le unghie ma come se si trattasse di una manovra nata dal nulla. Lo è il silenzio dei suoi alleati, che si limitano a stare a guardare.
Rischiano di essere le premesse di un cannibalismo tra le tribù congressuali del Pd che, se non viene fermato in tempo, farà stappare ettolitri di champagne a Beppe Grillo. Un sistema in affanno ripropone la solita domanda di fondo: e cioè come mai, per l’ennesima volta, la politica si sia dovuta affidare alla supplenza della magistratura per capire che stava succedendo. E perché un partito che guida l’Italia da oltre tre anni in nome di un rinnovamento catartico, e inneggia al primato della politica, ha finito per umiliarla: se non altro perché non ha prodotto anticorpi in grado di arginare la commistione con l’affarismo.
La fauna umana e gli intrecci economici che emergono parlano di un ambiente intossicato da lobby di provincia fameliche e maldestre. Colpisce soprattutto questo, nello scandalo Consip: la caratura mediocre dei personaggi, il livello basso dei loro intrecci. Non c’è nessuna grandezza, nel declino della nomenklatura. Il ridimensionamento non avviene per un passaggio epocale della politica. Sfilano personaggi di un’Italietta che si crede furba e risponde a cliché al limite della caricatura. Solo che in una fase come questa può fare danni seri. E consegnare l’Italia a un populismo che ingrassa proprio grazie a una politica presuntuosa quanto permeabile all’infiltrazione di poteri esterni.
il manifesto, 4 marzo 2017
Alla fine è successo. Il Ghetto di Rignano è stato sgomberato dalle ruspe ma due ragazzi originari del Mali sono morti dopo che un incendio, scoppiato nella notte, ha raso al suolo gran parte del campo. Ieri mattina colonne di fumo nero facevano da sfondo a dozzine di migranti che si allontanavano con le poche cose messe assieme negli anni: un materasso, una bombola del gas o un bidone per fitofarmaci pieno di acqua potabile. Sembra Calais ma siamo Foggia, nel granaio di Italia.
Il 1 marzo inizia lo sgombero della baraccopoli, disposto dalla Dda di Bari nell’ambito di indagini avviate nel marzo del 2016 e culminate con il sequestro con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. Nonostante le ruspe siano sul posto e la zona sia stata sottoposta a sequestro, il giorno seguente una delegazione di abitanti del ghetto si dirige verso Foggia per incontrare il prefetto. La manifestazione sfila per la città con cartelli che recitano «Vivere Ghetto». Chiedono di poter restare nelle proprie baracche, così da non perdere quei contatti lavorativi maturati negli anni: un privilegio che vale meno di 3 euro l’ora.
La notte tra il 2 e il 3 marzo un incendio distrugge parte del campo, quasi 5.000 mq di case di cartone carbonizzate. Al loro interno dormono alcuni migranti che, miracolosamente, riescono a fuggire, tranne due ragazzi. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, avevano 33 e 36 anni e venivano entrambi dal Mali. Una delle due vittime, Konate, è stato trovato disteso su una brandina, carbonizzato. L’altro è stato trovato vicino l’uscita della baracca.
Non è la prima volta che le case di cartone del Ghetto vanno a fuoco. Questo, ad esempio, è il terzo incendio di grosse dimensioni che avviene solo nell’ultimo anno. Mai nessuno però era ancora morto durante questi episodi.
La procura di Foggia ha escluso la matrice dolosa, anche se per alcuni le cose non sono andate esattamente così: «L’incendio del ghetto di Rignano è doloso perché molti lavoratori non hanno gradito lo sgombero. E’ un gesto di protesta paradossale, da condannare perché nessuno ha il diritto di uccidere; ma resta un tragico gesto di protesta», dice Yvan Sagnet.
Secondo un vigile del fuoco che si trovava sul posto al momento dell’incendio «l’incendio è stato troppo violento e improvviso, e quindi non si esclude che possa essere stato appiccato da qualcuno».
Dopo aver riconosciuto i corpi dei propri compagni, gli ultimi abitanti del Ghetto hanno improvvisato un corteo funebre per scortare i feretri dei due ragazzi. «Non si può morire così, come i cani in gabbia» urla Mamadou alla stampa «noi chiediamo solo di lavorare in pace. Dove andremo ora?».
I carri funebri sfilano affianco a cumuli di immondizia bruciata che delimitano le porte del Ghetto. I migranti li lasciano andare soli nel loro viaggio verso l’obitorio e decidono di tornare indietro per potersi organizzare.
Dopo qualche ora accade l’impensabile: un altro incendio di grandi dimensioni distrugge e mortifica le ultime baracche rimaste in piedi. Si odono delle esplosioni, una macchina di un caporale va in fiamme e diverse bombole del gas esplodono pericolosamente tra le baracche. L’aria è irrespirabile. Il ghetto inizia a svuotarsi silenziosamente. Molte persone si dirigono attraversano gli uliveti, simbolo della puglia, con i materassi arrotolati sulla testa. Gli autobus sono pronti ad accoglierli per poterli portare in alcune strutture messe a disposizione della regione e dal comune di San Severo, che saranno attrezzate per accogliere temporaneamente 320 migranti.
Il presidente della Regione Michele Emiliano si dice soddisfatto della «chiusura di questo luogo dove per vent’anni si è calpestata la dignità umana», aggiungendo che «la tragica morte dei due cittadini maliani conferma la necessità di procedere senza indugio alla chiusura del campo, ma lascia un profondo sconforto perché se avessero accettato, come tanti hanno fatto, l’alternativa abitativa adesso sarebbero ancora vivi».
La giornata sta per finire, le fiamme hanno ormai lasciato spazio alla cenere ed al fumo. Il rumore delle ruspe copre ogni suono. Molti migranti non sanno dove andare, nessuno a quanto pare si è preoccupato di spiegare loro cosa stia succedendo: «non mi importa – dice un ragazzo - qualunque posto sarà meglio di questo».
«Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina».
A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno.
Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del «Gran Ghetto» di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata. Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso.
Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare. E’ questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla.
Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato?
Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico. Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione.
Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco.
E’ lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera.
«di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), considerato fra i più grandi d’Europa per estensione e potenza erogata, tra i beni per 350 milioni di euro sequestrati dai finanzieri di ». Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2017 (p.s.)
Ammonta a circa 350 milioni il sequestro effettuato dalla Guardia di finanza di Catanzaro alla ‘ndrangheta di Crotone. Nel mirino della Dda c’è la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto che si è vista applicare i sigilli al parco eolico “Wind Farm”. Su richiesta del procuratore Nicola Gratteri e dell’aggiunto Vincenzo Luberto, gli uomini del colonnello Michele Di Nunno hanno eseguito il decreto emesso dal Tribunale nei confronti di Pasquale Arena, nipote del vecchio boss Nicola Arena (fino a poco tempo fa detenuto al 41 bis) e fratello di Carmine Arena, ucciso a colpi di bazooka nell’ottobre 2004. Dietro il parco eolico più grande d’Europa “ci sono i soldi e i beni accumulati in anni e anni di comportamenti mafiosi – dice Gratteri – La cosca Arena è tra le più agguerrite, una famiglia che in modo costante ha dominato il respiro sociale ed economico del territorio”.
Funzionario del Comune di Isola Capo Rizzuto, Pasquale Arena è ritenuto il gestore occulto degli affari della cosca, l’uomo che curava gli interessi economici della famiglia e che era riuscito, attraverso una fitta rete di società tedesche, svizzere e della Repubblica di San Marino, a far entrare la famiglia mafiosa nel business delle energie rinnovabili. Le società estere, infatti, detenevano formalmente le quote sociali di altre tre società con sede a Crotone e Isola. Un sistema di scatole cinesi che ha consentito a Pasquale Arena di ottenere le autorizzazioni da parte degli enti locali e di realizzare e avviare, per conto della cosca, il parco eolico “Wind Farm” con 48 aerogeneratori e diverse opere accessorie.
Il procuratore Gratteri ha ripreso una vecchia indagine e ha inferto un duro colpo all’impero che sembrava ritornato in mano alla cosca Arena. L’inchiesta delle Fiamme gialle, infatti, aveva portato alcuni anni fa già al sequestro preventivo degli stessi beni che, però, in seguito ad alcuni ricorsi, erano stati restituiti ai formali intestatari delle società coinvolte nell’indagine. La successiva attività investigativa, coordinata dal pm Domenico Guarascio, ha consentito agli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di ricostruire i vari passaggi dell’investimento e ricondurre il parco eolico nell’impero degli Arena.
Con l’operazione di oggi, denominata “l’Isola del vento”, i finanzieri del Gico sono riusciti a svelare il sistema adottato dalla ‘ndrangheta per schermare il patrimonio. Un sistema che, secondo gli investigatori, era costituito da sofisticati e complessi reticoli societari e da strane cessioni di quote che servivano a occultare i veri padroni di uno dei parchi eolici più grandi d’Europa. In particolare il coinvolgimento della famiglia Arena nel progetto sarebbe avvenuto attraverso la partecipazione nella compagine societaria della “Purena Srl”, che deteneva partecipazione nella “Vent1 Capo Rizzuto Srl”.
Quest’ultima poi è subentrata alla società sammarinese “Seas Srl” (rappresentata da Maximiliano Gobbi) che, per prima, aveva chiesto l’autorizzazione a realizzare il parco “Wind Farm” al Comune di Isola Capo Rizzuto. Dalle indagini era emerso, inoltre, che l’agente mandatario della “Seas Srl” era Nicola Arena (nipote dell’omonimo boss) che però era “assolutamente privo – sostengono gli inquirenti – di qualsivoglia competenza tecnico-professionale, sia nello specifico settore delle energie alternative, sia, più in generale, nel campo giuridico-economico necessario alla stipula degli atti amministrativi”. Ma Nicola Arena era anche socio della “Purena Srl” a sua volta socia della “Vent1 Capo Rizzuto Srl” che ha realizzato materialmente il parco e che era amministrata dal tedesco Martin Josef Frick, personaggio chiave dell’inchiesta.
In un’intercettazione del 27 aprile 2009, infatti, i finanzieri sentono parlare al telefono Frick con un’impiegata di uno studio notarile alla quale comunicava i nominativi dei proprietari dei fondi su cui insisteva il parco. Le pale eoliche, in sostanza, erano state impiantate nei terreni riconducibili direttamente alla famiglia Arena o ai loro prestanome.
. La Repubblica, 3 marzo 2017
A promuoverlo è la rete femminista “Non una di meno”, che ha portato in piazza lo scorso novembre 250mila donne contro la violenza. I sindacati di base (Usi, Usb e Cobas) hanno proclamato l’astensione per 24 ore, la Cgil fatica a discostarsi ma si sfila dallo sciopero generale. La rete femminista aveva chiesto questo ai confederali. Cisl e Uil non hanno risposto, Camusso, alla guida della Cgil, lo ha fatto con una lettera: «Sono solidale, vi esprimo affetto e rispetto, parteciperemo alle iniziative — scrive — ma lo sciopero non è solo un atto simbolico, ma la determinazione di rapporti di forza che si realizzano in presenza di ampia partecipazione ». Perciò il sindacato è pronto a proclamarlo laddove «abbia possibile concretezza». Non a caso sciopereranno le insegnanti e le educatrici degli asili, non le operaie: la Flc-Cgil ha proclamato 8 ore di astensione, la Fiom no. «L’80% della nostra categoria è donna e siamo educatori: abbiamo due volte ragione per aderire», afferma la segretaria nazionale della scuola Francesca Ruocco. Anche nei singoli luoghi di lavoro sarà possibile l’astensione, «col consenso delle lavoratrici », precisa Camusso. Ma niente sciopero generale.
È il nodo di questa mobilitazione: è possibile uno sciopero di genere, fuori da categorie e rivendicazioni contrattuali? Per le donne del movimento sì. «La natura politica di questo sciopero è l’opposizione alla violenza contro le donne in ogni forma », spiega Paola Rudan. «I confederali non hanno saputo cogliere la sfida, è una scelta miope: questo è uno sciopero politico, sociale. La copertura c’è, tutte le donne potranno farlo», contesta Tatiana Montella, voce di “Io decido”, la rete romana che sta nel movimento con l’Udi e i centri anti-violenza. Anime diverse di un nuovo e altro femminismo che avanza, con tanti distinguo, pure sulle mimose. «Noi le offriamo dal ‘44 e lo faremo anche quest’anno — spiega Laura Piretti, responsabile Udi — Aderiamo allo sciopero, anche se avremmo preferito che passasse l’idea delle donne che si fermano, che si sottraggono per un giorno o un minuto a questa società violenta».
La mobilitazione sarà internazionale, dalle donne polacche che protestano contro un disegno di legge che vieta l’aborto alle argentine già scese in piazza lo scorso ottobre per Lucia Pérez, stuprata e uccisa, sino all’appello sul Guardian, firmato anche dall’attivista Angela Davis. C’è prudenza sui numeri. Ma c’è già chi, come l’azienda dei trasporti di Bologna, annuncia possibili disagi. Da Palermo a Milano, saranno centinaia le iniziative, con cortei in tutte le città. A Roma si partirà con un presidio in Regione sul diritto alla salute, altrove si manifesterà davanti agli ospedali per il diritto all’aborto. E c’è chi invita a sospendere «le attività riproduttive»: non solo le pulizie di casa, ma anche i rapporti sessuali. Uno dei tanti modi per dimostrare che «se le donne si fermano, si ferma anche il mondo».
la Repubblica "Economia&finanza, 3 marzo 2017 (p.s.)
Lugano - LafargeHolcim, il gruppo con sede in Svizzera numero uno nella produzione mondiale di cemento, si candida a costruire il muro di Trump ma, intanto, fa mea colpa per i suoi rapporti con l'Isis, in Siria. «Abbiamo concluso degli accordi inaccettabili con dei gruppi armati, nel 2013 e nel 2014», hanno ammesso nel quartier generale elvetico di Jona i vertici del colosso cementiero. Il cui maggiore azionista, vale la pena ricordarlo, é l'imprenditore Stephan Schmidheiny, condannato a 18 anni, in Italia, per i morti dell'amianto di Eternit.
Ma cosa ha combinato di tanto grave, in Siria, LafargeHolcim, per cospargersi pubblicamente il capo di cenere? Stando a un'inchiesta di Le Monde, sostanzialmente confermata da una iniziativa giudiziaria del Governo francese nel gennaio scorso, per salvare lo stabilimento che il gruppo svizzero possedeva a Jalabiya, nel nord del Paese, aveva negoziato dei diritti di transito con l'esercito dello Stato Islamico, che controllava quella porzione di territorio siriano. Un comportamento spregiudicato in quanto facendo funzionare lo stabilimento di Jalabiya, LafargeHolcim aveva violato un embargo internazionale.
«La nostra indagine interna - fa sapere adesso il gigante del cemento - ha stabilito che ci sono state transazioni con gruppi armati, alcuni dei quali oggetto di sanzioni». Il tutto per mantenere in esercizio un impianto che, ha ammesso lo stesso gruppo elvetico, rappresentava meno dell1% della sua cifra d'affari. Ma, come si dice, business is business. Ed é un affare, che si prospetta ben piú redditizio, la costruzione del muro ai confini con il Messico, voluto da Donald Trump.
LafargeHolcim intende mettere le mani su quell'opera, come ha annunciato il suo CEO, Eric Olsen. «Siamo il numero uno del cemento negli Stati Uniti», ha sottolineato, in una conferenza stampa. E poco importa se il muro di Trump, prima ancora della sua realizzazione, sta suscitando indignazione in mezzo mondo. In ballo ci sono 1000 miliardi di dollari e «per noi si tratta di una grande opportunitá», ha sottolineato Olsen.
il manifesto, 3 marzo 2017
Del resto l’amministratore delegato di Consip, Marroni, dipendente dal ministro del Tesoro (Padoan gli ha appena confermato la fiducia) non si vede perché dovrebbe inventare le pressioni di un imprenditore toscano. Pressioni e richieste, possiamo immaginare, all’ordine del giorno. Meno normale che avvengano per conto di Renzi padre e dell’amico Verdini, proprio ieri condannato a 9 anni per bancarotta e frode.
Naturalmente non è il caso di imbastire processi a mezzo stampa. Anche perché è appena successo che il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, accusato di intendersela con la camorra, sia stato scagionato dall’infamante accusa.
Quello che, invece, è politicamente importante, purtroppo è anche desolante e preoccupante. Si tratta di problema strutturale, la corruzione, che riguarda la destra e la sinistra. In Italia, come denunciava Berlinguer in una famosa intervista a Eugenio Scalfari nel 1976, la tangente origina «dall’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi». Un sistema di potere, di soldi e di partiti allora forti oggi morenti, che lasciano il campo a clan familiari.
In questo caso famiglie molto attive in Toscana con storiacce di banche fallite, di consulenze richieste a personaggi come Flavio Carboni, di grandi sintonie politiche con Verdini. E via elencando, compresi naturalmente i finanziatori della new-age renziana con elargizioni arrivate da chi è oggi in una cella di Regina Coeli, come l’imprenditore Alfredo Romeo. Un mondo salito alla ribalta del governo del paese.
Il Renzi padre smentisce tutto, il Renzi figlio va in tv a dire che ha fiducia nei magistrati, il ministro Lotti respinge al mittente i sospetti di coinvolgimento. Accusa e difesa si fronteggiano, ma in attesa di una sentenza, il Pd e l’ex presidente del consiglio sono travolti da una bufera politico-giudiziaria che coincide con l’avvio parecchio travagliato di un congresso e con la sfida delle primarie più “giudiziarie” della storia.
C’è un candidato, Renzi, che ha gravi problemi in famiglia. C’è il candidato Orlando che è anche ministro della giustizia. E c’è il candidato Emiliano che sarà sentito, lui magistrato, come testimone nell’inchiesta. E quando si gira lo sguardo al tesseramento del Pd campano lo spettacolo non è confortante.
Si lascia intravedere l’ipotesi di un ingorgo corruttivo che i magistrati tentano di dipanare mentre la politica annaspa. I legami potere-imprese, la ricca fauna di lobbisti e millantantori che fa da sfondo a un ristretto numero di contendenti i quali ambiscono a spartirsi tutta la torta del denaro pubblico, come raccontano alti funzionari infedeli che vuotano il sacco per sfuggire alla galera.
Ce n’è in abbondanza per dire che l’anomalia italiana fa sembrare lo scandalo Fillon che illumina le presidenziali francesi, una commediola di provincia.