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». la Repubblica, 16 marzo 2017 (c.m.c.)


Il filosofo tedesco Jürgen Habermas intervistato sul nuovo MicroMega invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini.

Dopo il 1989 si è parlato di una “fine della storia” nella democrazia e nell’economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l’emergere – da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump – di forme di leadership populiste e autoritarie.

È ormai evidente che una nuova “internazionale autoritaria” riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico. Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell’autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi?
«Quando, dopo la svolta dell’89-90, Fukuyama riprese lo slogan della “post
storia” – che originariamente era legato a un feroce conservatorismo – questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell’armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto.

Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di “democrazia capitalistica”, è stato più l’eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l’idea che il “sogno americano” si potesse consolidare su scala globale non fosse che un’illusione.

Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l’impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L’elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo “democrazie ineccepibili”. Con una politica occidentale solo un po’ più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi».

Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all’Occidente?
«Chiaramente per l’Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell’irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l’egomane Trump, un caso significativo per l’intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln.

Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un’internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l’Europa.
La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell’Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessità sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio – o non ne traggono abbastanza – dall’aumento del benessere medio delle nostre economie».

Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell’Occidente? C’è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.
«Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?».

Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?
«Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l’unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo – l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo».

Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il “pericolo di contagio” del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.

«L’errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia “Noi” contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – “liberale” in senso culturale e politico – e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo, non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra ».

Traduzione di Giorgio Fazio L’intervista è tratta da Blätter für deutsche und internationale Politik, le domande sono della redazione

LA PROPOSTA

LA POLITICA

La nuova legge elettorale porrà alle vaganti sinistre problemi nuovi: è necessaria la ricerca non solo di identità ma anche di alleanze.

il manifesto, 16 marzo 2017

Molti protagonisti della scena pubblica stentano ancora a comprendere quanto profondamente cambierà lo scenario competitivo con l’adozione di un sistema proporzionale (quali che siano le varianti che potranno essere introdotte).

Cambia innanzi tutto il modo stesso con cui ciascuna forza si rivolge agli elettori. Agli elettori si dovrà dire: «Dateci più forza per sostenere le nostre idee», ma anche – ecco il punto – «per poter meglio contrattare un programma di governo», qualora – come è fisiologico che accada in una democrazia parlamentare – fosse necessaria una trattativa per la formazione di una maggioranza.

Un approccio totalmente diverso da quello del passato, che può modificare i comportamenti degli elettori rispetto a quelli attesi.

Ma anche una logica che potrebbe avere alcuni benefici effetti sulla qualità stessa del dibattito politico, permettendo che si torni a discutere nel merito delle scelte programmatiche e sulla loro compatibilità (così come comincia ad accadere in Germania, dove le posizioni di Schulz stanno aprendo nuove possibilità di dialogo con Die Linke).

Tutto ciò emerge chiaramente se guardiamo a quanto accade nell’area del centrosinistra. Dalle giornate del Lingotto, nulla è emerso circa la strategia del Pd: diverse ipotesi sono state fatte balenare, dalla coalizione “anti-populistica” aperta alle forze moderate fino ad alcune più o meno vaghe ipotesi di rilancio del centrosinistra.

Fallita la via del partito auto-referenziale che, grazie all’Italicum, poteva sperare di concentrare tutto nelle proprie mani, rimane un vuoto strategico: il Pd è privo di una qualsivoglia strategia coalizionale.

Lo schema di gioco neocentrista immaginato mesi fa (il corpaccione del Pd con due appendici a destra e sinistra) è saltato, grazie alla meritoria separazione della sinistra del Pd e grazie anche alle precisazioni che Pisapia ha introdotto nelle sue posizioni.

Questo vuoto strategico del Pd viene alimentato dall’incertezza sulla possibile riforma elettorale: si proverà a estendere alla Camera la possibilità di coalizioni, attualmente prevista solo al Senato?

E’ possibile che prevalga questa idea, così come è probabile che il Pd si batta per conservare la soglia del 40% per l’assegnazione del premio di maggioranza. Ma questa regola assumerà più che altro il valore di un possibile incentivo al “voto utile”: nessuno pensa che sia un tetto realisticamente raggiungibile. E molte cose potranno ancora accadere, nel Pd o intorno al Pd.

Se anche si tornasse alle coalizioni, come pensa il Pd di potersi attrezzare: inventandosi forse una “copertura” di comodo a sinistra? E non potrebbe invece accadere che debba essere superata quella identificazione tra segretario e premier, che Renzi, come se nulla fosse, ha presuntuosamente rilanciato?

Questo diverso scenario pone molti problemi anche per tutta la galassia a sinistra del Pd.
Sarebbe letale, per queste forze, se si pensasse che il “proporzionale” garantisca a tutti la coltivazione tranquilla del proprio spazio e che si possa fare a meno di costruire una qualche offerta politica unitaria e credibile.

Intanto perché superare una soglia d’accesso al 3% (o più alta, come attualmente quella del Senato) non è facile. Ma soprattutto perché anche con un “proporzionale” scattano particolari meccanismi che agiscono sul voto degli elettori. Solo una piccola parte di questi si accontenta di un voto di pura testimonianza: si vota molto più volentieri per una forza che sia consistente e, soprattutto, che possa “contare” nella dinamica parlamentare.

Se l’elettore di sinistra si troverà di fronte ad una sconfortante scelta tra tre o quattro liste diverse, è molto probabile che non ne scelga nessuna…; e anche quella quota di elettori del M5S che si dichiarano di sinistra saranno ben poco incoraggiati a cambiare opzione.

E’ bene, dunque, mettersi subito al lavoro: le elezioni non sono poi lontane, e i cartelli elettorali improvvisati all’ultimo momento sono poco credibili.

Occorre impiegare i prossimi mesi per costruire una strategia unitaria, coinvolgendo tutte le forze che stentano a riconoscersi in questa o quella sigla, e valorizzando le energie emerse durante la campagna referendaria.

Lo spazio per una forza ampia e radicata, “a doppia cifra”, c’è tutto. Ma, per questo, occorre anche un discorso politico netto: occorre proporsi come una forza che ridia voce ai valori della sinistra, che non si inchiodi a qualche formula astratta di coalizione, ma che non abbia alcun timore di proporsi come forza di governo; e che si metta in gioco, con le proprie idee e la propria autonomia, forte del consenso che gli elettori potranno dargli.

Non è più tempo per le battaglie di bandiera, o per la difesa di alcune ridotte di frontiera

il manifesto, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
È tempo di ripensare le forme reali della democrazia costituzionale. C’è bisogno di ritrovare il fondamento pluralista e conflittuale che la qualifica. È necessario guardare alla realtà divisa, alle lacerazioni che colpiscono i corpi delle persone concrete.

Dobbiamo abbandonare i falsi miti per costruire il futuro. Abbiamo bisogno di quel che Stefano Rodotà ha definito un «costituzionalismo dei bisogni».

Alcuni eventi – accidenti della storia – possono assumere un valore simbolico e spingerci a guardare al di là dell’immediatamente rilevante. Così, i referendum sul lavoro potrebbero riuscire ad andare oltre alla miseria dei voucher per squarciare il velo sul degrado della democrazia sociale. Anche, la straordinaria reazione che si è espressa il 4 dicembre può diventare un inizio: non solo il rifiuto di una riforma della Costituzione peggiorativa dell’esistente, ma anche l’indicazione di una rotta verso politiche costituzionali più democratiche e partecipate. La lotta per la democrazia è oggi più aperta di ieri.

La storia passata insegna che il sistema politico tenterà di sterilizzare queste vicende riducendoli a meri “fatti”, per poter proseguire come se nulla fosse accaduto. Ma non sempre sarà facile sottrarsi al cambiamento. Il sistema politico in questo momento sta affrontando la questione della legge elettorale. Costretto dalla circostanza che un organo di garanzia costituzionale ha realizzato l’inimmaginabile: un giudice ha scritto in vece del parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale. Con qualche ottimismo possiamo sperare che si recuperi finalmente un equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui pretermesse della rappresentanza. Bene, non si può che essere soddisfatti.

Eppure, volendo spingere lo sguardo oltre il «fatto», mi chiedo: anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica? Non dubito che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria. Tuttavia, mi chiedo su quali fondamenta si vuole ricostruire la rappresentanza politica in seno al parlamento.

Una legge d’impianto proporzionale realizzerebbe, certamente e finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa? Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione collettiva. Temo si possa correre il rischio di garantire una rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione sociale. Sicché un cambiamento da tempo atteso, di segno assai positivo, rischierebbe di reggersi su gambe d’argilla. Imposto dalla forza dei giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.

Se vogliamo dare solide fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche a ciò che v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale. In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza politica e non soltanto le sue forme istituzionali.

Quel che mi sembra di poter rilevare è che non ha senso parlare del rapporto di rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al rappresentato. Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto. Da un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa stessa volontà.

Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni (dal parlamento in particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione.

Riscoprire le virtualità della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche rappresentare un rischio.

Può costituire un inizio se tramite la partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro dell’organizzazione dei poteri il parlamento come luogo del compromesso politico e sociale. Può altresì rappresentare un rischio qualora le dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare così diffuso oggi, non solo in Italia.

Ed è per questo che, oltre alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparsi delle forme di organizzazione dei poteri. Le sorti della democrazia partecipativa sono legate a quelle della democrazia rappresentativa.

Dunque, ripensare l’organo della rappresentanza, il parlamento. Anzitutto rivendicando un riequilibrio della forma di governo, la quale si è andata progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo. È questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia pluralista e conflittuale diventa anzitutto necessario liberare il parlamento dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi, aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.

Il parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente svuotato, schiacciato dal peso del governo e abbandonato al suo triste destino da un popolo distratto e indifferente. Potrà salvarsi solo se riesce a dare voce al rappresentato, ai soggetti storici reali. La forza autonoma dei parlamenti nelle società complesse si rinviene nella capacità di questi di essere effettivamente rappresentativi delle divisioni, luogo di scontro e composizione dei conflitti.

Un ruolo costituzionale che non può essere assimilato a quello del governo che deve, invece, promuovere una politica generale mantenendo un’unità di indirizzo politico, a scapito delle minoranze. Al parlamento, istituzione del pluralismo, si affiancherebbe così il governo, istituzione dell’unità maggioritaria. In un equilibrio tra poteri definito dal sistema costituzionale e dalla nostra forma di governo parlamentare.

Anche il rappresentato però dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene. Dovremmo noi tutti tenere ben presente che le sorti del parlamento si legano indissolubilmente a quelle della democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione. Una democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare. Una democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze politiche.

Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non possono fare a meno di un popolo sovrano, ma neppure di parlamenti autonomi. Riscoprire la complessità sociale e la centralità del parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli esecutivi, tuttavia non ci si può sottrarre, anche in questo caso si tratta di iniziare una lunga marcia.

esto estratto da "L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno

" che raccoglie tre lezioni tenute a Tokyo nel 1986». la Repubblica, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
Gli antropologi hanno molto da dire sulla procreazione artificiale, perché le società da loro studiate si sono poste tali problemi e hanno elaborato alcune soluzioni. Queste società, è vero, ignorano le tecniche moderne di fecondazione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrione, di trasferimento, impianto e congelamento. Ma hanno immaginato e messo in atto formule equivalenti, almeno dal punto di vista giuridico e psicologico.

Permettetemi di fare qualche esempio. L’inseminazione grazie a un donatore ha il suo equivalente in Africa, presso i Samo del Burkina Faso. In questa società, ogni ragazza si sposa molto giovane, ma prima di andare a vivere con suo marito deve, per tre anni al massimo, avere un amante scelto da lei e ufficialmente riconosciuto come tale. Poi porterà al marito il primo figlio, nato dall’unione con l’amante, che sarà considerato il primogenito dell’unione legittima. Da parte sua, un uomo può avere più mogli legittime ma, se queste lo lasciano, egli rimarrà giuridicamente il padre di tutti i bambini che esse metteranno al mondo successivamente.

In altre popolazioni africane, il marito vanta un diritto anche su tutti i figli futuri, a condizione che tale diritto venga nuovamente sancito, dopo ogni nascita, dal primo rapporto sessuale post partum. Il rapporto designa l’uomo che sarà il padre legittimo del prossimo bambino. Un uomo sposato con una donna sterile può anche, dietro pagamento, accordarsi con una donna feconda perché questa lo faccia diventare padre. In questo caso, il marito della donna sterile è il donatore di seme, e la donna “presta” il suo ventre.

Presso gli indios Tupi-Kawahib del Brasile, che ho visitato nel 1938, un uomo può sposare simultaneamente o in successione più sorelle, oppure una madre e la figlia nata da una precedente unione. Queste donne crescono in comune i loro figli senza preoccuparsi affatto, mi è sembrato, del fatto che il bambino di cui si prendono cura sia il proprio o quello di un’altra delle spose del marito. La situazione simmetrica prevale in Tibet, dove più fratelli hanno in comune la stessa sposa. Tutti i figli sono attribuiti al primogenito, che viene chiamato “padre”, mentre gli altri mariti vengono chiamati “zio”. In questi casi, la paternità o la maternità individuale sono ignorate o non se ne tiene conto.

Torniamo in Africa, dove i Nuer del Sudan assimilano la donna sterile a un uomo. In qualità di “zio paterno”, questa riceve dunque il bestiame che rappresenta il “prezzo della fidanzata” (in inglese bride price) pagato per il matrimonio delle sue nipoti, e se ne serve per comprare una sposa che le darà dei figli grazie ai servizi remunerati di un uomo spesso straniero. Presso gli Yoruba della Nigeria, le donne facoltose possono acquistare delle spose, obbligandole ad avere rapporti con un uomo. Quando nascono dei figli, la donna, “sposa” di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno procreati, se vogliono tenerli, devono pagarla profumatamente. In tutti questi casi, coppie formate da due donne che, letteralmente, chiameremmo “omosessuali”, praticano la procreazione assistita per avere dei figli di cui una delle donne sarà il padre di diritto, l’altra la madre biologica.

Le società senza scrittura conoscono anche equivalenti dell’inseminazione post mortem. Un’istituzione attestata da millenni (perché esisteva già presso gli antichi ebrei), il levirato, permetteva e talvolta imponeva che il fratello cadetto generasse in nome del fratello morto. Presso i Nuer sudanesi, di cui ho parlato, se un uomo moriva celibe o senza discendenza, un parente prossimo poteva prelevare dal bestiame quanto serviva per acquistare una sposa. Tale “matrimonio fantasma”, come dicono i Nuer, lo autorizzava a generare in nome del defunto, poiché questi aveva versato il compenso matrimoniale che permetteva la filiazione.

In tutti gli esempi che ho presentato, nonostante lo statuto famigliare e sociale del figlio si determini in funzione del padre legale (anche se quest’ultimo è una donna), il figlio conosce comunque l’identità del genitore e i legami di affetto che uniscono entrambi. Contrariamente a quanto crediamo, nel bambino la trasparenza non suscita il conflitto scaturito dal fatto che il padre biologico e quello sociale sono individui diversi.

Tutte queste formulazioni offrono altrettante immagini metaforiche anticipate delle tecniche moderne. Constatiamo in questo modo che il conflitto tra la procreazione biologica e la paternità sociale che ci imbarazza così tanto non esiste nelle società studiate dagli antropologi. Fuori da ogni esitazione, esse privilegiano il sociale, senza che i due aspetti si urtino nell’ideologia del gruppo o nello spirito degli individui. Se ho insistito a lungo su questi problemi è perché essi mostrano in maniera precisa, mi sembra, quale genere di contributo la società contemporanea può attendersi dalle ricerche antropologiche.

L’antropologo non propone ai suoi contemporanei di adottare le idee e i costumi di tale o talaltra popolazione esotica. Il nostro contributo è molto più modesto, e si esercita in due direzioni. Anzitutto, l’antropologia rivela che quanto consideriamo come “naturale”, fondato sull’ordine delle cose, si riduce a costrizioni e abitudini mentali proprie della nostra cultura. Ci aiuta dunque a sbarazzarci dei nostri paraocchi. In secondo luogo, i fatti che raccogliamo rappresentano un’esperienza umana molto ampia perché provengono da migliaia di società che si sono succedute nel corso dei secoli. Aiutiamo in questo modo a mostrare quelli che si possono considerare come degli “universali” della natura umana.

Ai giuristi e ai moralisti troppo impazienti, gli antropologi offrono consigli di liberalismo e di prudenza. Mettono in rilievo il fatto che anche le pratiche e le aspirazioni che turbano maggiormente l’opinione pubblica hanno il loro equivalente in altre società che non se la passano poi così male. Gli antropologi si augurano dunque che si lasci fare, e che ci si rimetta alla logica interna di ogni società per creare nel suo seno le strutture famigliari e sociali che si riveleranno vitali, o per eliminare quelle che faranno sorgere contraddizioni che solo l’uso potrà dichiarare insormontabili.

«Sapremo presto come Bergoglio valuta l'”idea di Milano” che politica e cultura oggi mostrano di avere e quanto essa sia sintonica con la visione di Chiesa». Arcipelago Milano online, 14marzo 2017 (m.c.g.)


Un messaggio di novità a Milano papa Francesco l’ha anticipato prima di venire. Fuori dalla comprensibile retorica della vigilia e fatta salva la semina che comunque un grande evento di natura spirituale di per sé produce in una comunità civile e culturale oltreché religiosa, la visita di papa Bergoglio si annuncia molto diversa dalle tre che dei suoi predecessori.

Giovanni Paolo II nel 1983 e nel 1984 e Benedetto XVI nel 2012 si sono presentati con la caratura del loro essere Pontefici e sono stati accolti con fastosità; si sono fermati più giorni; hanno dato spunto a incontri e interventi formali con le autorità cittadine (basti ricordare l’accoglienza di Pisapia a Ratzinger in piazza Duomo e il concerto la sera alla Scala); hanno trascorso le notti in Arcivescovado. Papa Bergoglio, invece, va e torna in giornata. Sala lo accoglierà a Linate e nient’altro è previsto per amministratori e politici.

Il Cardinale Scola lo accompagnerà (non dappertutto: a San Vittore, ad esempio, papa Francesco ha già fatto sapere di voler andare da solo), rimanendo sullo sfondo: l’Osservatore Romano del 9 marzo riferiva della visita senza nominare né l’Arcivescovo né altre cariche ecclesiastiche e parlava del programma «predisposto dalla Prefettura della Casa Pontificia». In Duomo, simbolo della Chiesa Ambrosiana e della città Francesco «parlerà ai sacerdoti e ai consacrati» recita il programma, pregherà nello Scurolo di San Carlo, risponderà ad alcune domande dei presenti, dal sagrato reciterà l’Angelus e benedirà i fedeli. Quindi al carcere, di corsa, come da agenda.

Di non amare gli appuntamenti solenni, perché forse valuta il pericolo che, di là dai buoni propositi, essi pagano un largo tributo al clamore ma poi possono non lasciare traccia nel cuore degli uomini oltreché non produrre significativi cambiamenti nella realtà delle cose una volta spenti i riflettori, Francesco lo aveva fatto capire due anni fa in occasione di Expo.

Secondo il comune modo di sentire e il politicamente corretto che cosa ci sarebbe stato di più appropriato d’una visita del Papa autore proprio in quella stessa primavera 2015 dell’Enciclica ecologista Laudato si’? All’Esposizione Universale non si celebrava il grande tema Nutrire il pianeta, energie per la vita? Bergoglio affidò allora al linguaggio dei segni il suo pensiero. Declinò l’invito e scelse un videomessaggio per l’augurio a Expo. Il successo di presenze e mediatico dell’evento ha tenuto banco per mesi, sotto gli occhi di un’opinione pubblica all’inizio incredula, poi entusiasta.

La “Carta di Milano”, la sollecitazione «ad assumersi le proprie responsabilità per garantire alle generazioni future di poter godere del diritto al cibo» raccolse un milione di firme. Ma quanto il documento abbia inciso e lasciato un segno profondo sul lungo periodo è tuttora materia di riflessione. Insomma, è acquisito che l’effetto Expo abbia prodotto risultati benefici sul “brand Milano” sotto il profilo turistico ed economico, ricevendo poi aiuto insperato anche dalla Brexit. Ricadute importanti.

Sapremo presto come Bergoglio valuta l'”idea di Milano” che politica e cultura oggi mostrano di avere e quanto essa sia sintonica con la visione di Chiesa e di società del Papa venuto dalla fine del mondo, quanto cioè corrisponda alle attese per un'”idea di città e di convivenza” di Francesco.

Bisogna partire da considerazioni del genere se si vuol cercare di capire il significato della venuta di Bergoglio, delle scelte dei luoghi, delle persone con cui intrattenersi e renderla fruttuosa nel tempo, oltre l’occasione. Dopo i discorsi della politica, il Papa delle «periferie del mondo e dell’anima» va nelle Case bianche di via Salomone; qui incontra due famiglie nei loro appartamenti, nel piazzale antistante si mischia alla gente del quartiere: musulmani, immigrati, rom; starà quasi tre ore a San Vittore (un terzo del tempo della sua intera visita), entrando in alcune celle e pranzando con un centinaio di detenuti nel 3° raggio; solo Martini prima di lui mostrò tanta cura per il carcere.

Che cosa accoglierà dentro di sé da queste persone probabilmente lo apprenderemo da lui stesso, quando racconterà le sue emozioni e i suoi pensieri, magari alla Messa al Parco di Monza e all’incontro con i cresimandi a San Siro, ultime due tappe del viaggio-lampo. È un fatto che prima ancora di essere atterrato a Linate con il programma imposto dai suoi collaboratori all’Arcivescovado e al Comune, Francesco sfida Milano e la provoca sul terreno dei valori: giustizia, solidarietà, accoglienza, integrazione, beatitudini evangeliche, interiorità; ideali che dovrebbero essere patrimonio peculiare della città e che invece i milanesi, e talvolta i loro stessi rappresentanti, magari dimenticano o pospongono rispetto ad altri obiettivi immediati, di efficacia apparente.

Di come Francesco sa accarezzare Milano in contropelo, in perfetto spirito evangelico, lo capiremo presto, quando renderà noto il nome dell’Arcivescovo che prenderà il posto del Cardinale Scola. Probabilmente la visita servirà al Papa anche per verificare di persona lo stato di salute spirituale, umano, culturale, civile della città, dopo tanti racconti che gli son stati fatti: privatamente e dai media. In quel momento conosceremo qual è il sogno di Bergoglio per Milano e se la città sa ancora sognare.

« comune-info, 13 marzo 2017 (c.m.c.)

Tra i molteplici significati che ha assunto la parola libertà, ce ne sono due in particolare che la seguono da sempre come un’ombra: la negazione, la presa di distanza, la fuga da qualcuno o qualcosa, e la parentela con la scena pubblica. Libero, nel lessico greco e latino, è il non schiavo: maschio, adulto, appartenente a una comunità di eguali a cui è affidato il governo della città, figlio di genitori nati a loro volta liberi, in grado di sostenersi in armi e perciò dotato di poteri politici. È il cittadino guerriero. Fuori, negli interni domestici che la libertà e la politica si lasciano alle spalle, ci sono gli schiavi, le donne, gli adolescenti, esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica ed espropriati della loro stessa vita. Ma, sacrificato sull’altare della pòlis, è anche l’individuo, sottoposto in tutto, fin nelle sue scelte più intime, all’autorità del corpo sociale.

Un destino comune sembra imparentare perciò all’origine la libertà e la politica: uno strappo, un atto di cancellazione, il bisogno di dislocarsi rispetto a una matrice o a vincoli più o meno dichiarati. Nel vuoto apparente che si lasciano dietro vanno a collocarsi le donne, ma anche i corpi, le persone, le relazioni primarie e le vicissitudini improrogabili di ogni esistenza. Sarà per questo che, anche quando si fanno più articolate, più estese, le libertà – politiche, individuali – restano per larga parte formali, facili a sparire o a farsi inglobare su un versante o sull’altro.

C’è voluto un lungo percorso affinché, dalla zona d’ombra della vita pubblica, condizioni, rapporti dati come “naturali” – le passioni del corpo, la proprietà, le disuguaglianze economiche, i ruoli sessuali, gli impulsi d’amore e di odio – mostrassero, riaffiorando, quanto profonde, ramificate e inafferrabili siano le radici della libertà, quanto sia più giusto toglierle quella desinenza assertiva e parlare invece di “liberazione”.

Oggi sappiamo quanto sono esili i confini tra democrazia e regimi totalitari, quanto il sostrato biologico, considerato la frontiera estrema oscura della ragione, possa diventare, come è stato per il nazismo, la “verità ultima” della storia di un popolo; sappiamo che la guerra può confondersi con la difesa della vita, e quindi con la pace; conosciamo l’ambiguo legame che tiene insieme il bisogno di sicurezza, di protezione, l’attesa verso l’esterno, e la rinuncia alla libertà. Allo stesso modo, non possiamo ignorare che la resa delle donne al dominio dell’uomo è tuttora compensata da risarcimenti secondari, da gratificazioni illusorie e tuttavia durature. Ma non sembra che tale saggezza riesca a scalfire il sedimento secolare delle coercizioni su cui continuano a crescere e proliferare libertà visibilmente fragili, diritti destinati a restare sulla carta, opportunità, eguaglianze solo verbali.

Dove l’idea di libertà ha subito il suo più radicale ripensamento è stato nelle pratiche del femminismo, nella coscienza che ha riportato fuori dalle secche della “naturalità” il più antico dei domini, quello che ha riservato al sesso maschile non solo il potere di decidere le sorti del mondo, ma il pensiero, la costruzione ideativa e immaginaria che lo sostiene. L’intelligenza dell’uomo, essendosi arrogata le prerogative di unica esperienza compiuta dell’umano, non poteva che dare al processo di individuazione – cioè all’uscita dalla comune condizione animale – il volto di un “neutro”, mutilato di quell’appartenenza corporea e di sesso che l’avrebbe rivelato nella sua parzialità. Riportate entro la narrazione della storia personale – attraverso l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio – le illibertà non potevano che subire un processo inedito di svelamento: non erano solo quelle presenti nella vita sociale, e neppure ne condividevano modi e qualità.

Rispetto alle coercizioni esterne e a tutte le forme di violenza manifesta, che si sono accompagnate al dominio maschile, “immensa” appariva l’ “alienazione dell’io” conseguente all’aver fatta propria inconsapevolmente la rappresentazione del mondo dettata da altri.

Nelle conversazioni radiofoniche, tenute su Radiotre da Rossana Rossanda con alcune amiche femministe sulle “parole della politica”, Paola Redaelli così descrivere la rivisitazione del concetto di libertà:

«Libertà è una parola bellissima. Per me anzitutto vuol dire libertà di essere. Libertà di essere diversa. Per cui, a dire il vero, non è senza contraddizioni con uguaglianza. Libertà di essere diversa malgrado le leggi, al di là delle leggi, anche al di là di quelle che chiamavi ‘leggi di natura’. Libertà è poter scegliere senza cancellare niente di se stessi: il proprio essere intellettuale, i propri bisogni materiali, il proprio io profondo. Libertà è poter non trascurare nessuna parte di sé. Trasformare davvero il proprio rapporto con il mondo, fino all’ultimo e senza possibilità di tornare indietro». (R. Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989)

Per una “libertà che parte da dentro”, lo scavo nelle vite, spinto fin dentro la memoria del corpo, sembra non avere mai fine, e il femminismo, che ha aperto questo nuovo orizzonte, appare davvero come “la rivoluzione più lunga”, quella che non disdegna le frontiere ultime del pensiero, le esperienze che hanno il corpo come interlocutore e parte in causa. Riportare lo sguardo sulla scena pubblica, come chiede oggi un movimento di donne in evidente ripresa, senza restare ancora una volta respinte o affascinate, comporta un forte ancoramento alla storia e alla cultura che il femminismo ha prodotto, la riattualizzazione di teorie e pratiche che per fretta o paura sono state troppo presto abbandonate. Richiede soprattutto che, pur continuando a parlare di “libertà femminile”, non si dimentichi che dominate e dominanti hanno parlato per millenni la stessa lingua, che l’alienazione delle une non è stata senza costi per l’umanità degli altri.

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«Libertà e Giustizia: "». la Repubblica, 13 marzo 2017 (c.m.c.)

«Libertà e Giustizia pensa che la politica sia una bella cosa e i cittadini devono partecipare, anche senza candidarsi a qualcosa. In Italia c’è bisogno intorno al Palazzo di un modo nuovo di fare politica, che lo circondi in senso buono per dialogarci». Il professore Tomaso Montanari è il nuovo presidente dell’associazione che tanto si è impegnata per il no nella battaglia referendaria. E da quella vittoria intende ripartire.

Professore Montanari si parla di un “cambio di verso” di Matteo Renzi. Lei che ne pensa?
«Credo che si debbano giudicare i fatti e purtroppo c’è un problema di inaffidabilità di Renzi. Per esempio aveva detto che in caso di sconfitta al referendum avrebbe lasciato la politica. C’è un problema di storytelling, di narrazione, di scostamento fra gli annunci e la realtà . Il nostro giudizio si misurerà sui fatti ».

In questa sinistra così frammentata c’è qualcuno a cui vi sentite più vicini?
«Noi abbiamo fatto la scelta di non affiancare nessuno, nonostante dopo il 4 dicembre siano arrivate tante richiesta di vicinanza e offerte di candidature. Noi pensiamo che tutte queste manovre in corso siano molto autoreferenziali. Guardano dentro il campo, il Parlamento, le candidature, e poco al paese reale. Un’associazione come Libertà e Giustizia invece si rivolge ai cittadini e il nostro scopo è quello di offrire a questi cittadini uno strumento nuovo per esercitare la sovranità».

Il referendum del 4 dicembre può essere considerato un pezzo di questa ritrovata sovranità popolare. Ma c’era grande attesa per una nuova legge elettorale…

«Negli ultimi anni si è pensato che il problema fosse la governabilità e anche la sinistra si è convinta della necessità della vocazione maggioritaria. Ma il problema è: andare al governo per fare che cosa? Quello che vediamo è che manca un progetto, una visione di paese. Noi speriamo che una legge elettorale proporzionale possa portare in Parlamento un progetto e ricucire questa frattura fra elettori e rappresentanza».

I sondaggi però dicono che non ci sono maggioranze. La novità è che adesso i grillini parlano di alleanze. Si legge anche che i grillini la stimino molto…
«Libertà e Giustizia aveva già proposto un’alleanza su basi chiare fra Pd e grillini dopo le elezioni del 2013. Il fatto che oggi i grillini parlino di alleanze è un tratto di maturità. Del resto i Cinque stelle erano per il no e il no voleva dire difendere una Repubblica parlamentare. E quindi in una Repubblica parlamentare bisogna trovare dei compromessi. Che non sono naturalmente degli inciuci. Sulle simpatie grilline posso dire che il problema non sono le simpatie, ma una politica che sia disposta ad accettare il dissenso, il confronto. Io ho qualche dubbio che i grillini siano pronti ad accettare il dissenso, ma purtroppo devo dire che non lo è neanche il Pd».

Sbilanciamoci, 10 marzo 2017 (c.m.c.)

Festa grande alla fine del Carnevale. Razzi, scoppi e mortaretti per la clamorosa notizia: il Pil del 2016 è cresciuto non dello 0,8%, secondo le ultime previsioni del governo (dopo varie revisioni al ribasso), ma addirittura dello 0,9%. Un trionfo. E per quest’anno forse si potrebbe persino raggiungere l’1%, un altro decimale in più (ma mica è scontato). Avanti così, e forse tra un’altra decina d’anni riusciremo a tornare dove eravamo prima del 2008, sempre se non arrivano altre crisi. Insomma, un futuro luminoso.

Ma anche sul breve termine il governo non ha tanto da stare allegro. Non tanto per i 3,4 miliardi che la Commissione Ue ci ha imposto di trovare subito come condizione per approvare i conti di quest’anno: quello è solo l’antipasto, perché per il 2018 c’è da coprire un’altra di quelle clausole di salvaguardia che vengono dalle manovre passate, e lì son dolori, perché si tratta di quasi 20 miliardi. Per la precisione, secondo i calcoli di Nens, sono 19,571 miliardi, e per coprirli, se non si provvede altrimenti, aumenterà l’Iva di tre punti - dal 10 al 13 e dal 22 al 25% - diventando la più alta in Europa.

L’aumento dell’Iva è sempre stato paventato come una catastrofe quasi pari a un terremoto o un’inondazione. Certo, non è una bella cosa. Certo, sarebbe un nuovo aumento del prelievo fiscale, per giunta con un’imposta regressiva, cioè che colpisce tutti indistintamente. Certo, non farebbe bene ai consumi, che “fanno” due terzi del Pil. E però ha anche l’effetto di favorire i prodotti nazionali, perché colpisce le importazioni e non le esportazioni. Se proprio bisogna trovare quei soldi, meglio l’aumento dell’Iva o meglio altri tagli al welfare o agli investimenti, quei pochi che sono previsti? Uno potrebbe dire: meglio tassare i ricchi. Ma – a parte che la cifra è cospicua – chi lo dicesse sarebbe subito tacciato di populismo, se non di bolscevismo fuori tempo. Renzi, peraltro, aveva detto che nel 2018 le tasse le voleva ridurre: francamente non sembra aria.

Comunque una manovra da 20 miliardi, che siano tagli o nuove tasse, peserà in ogni caso sulla nostra già anemica crescita, mettendo a rischio persino quel già misero 1%, che infatti alcuni previsori – da ultimo il rapporto di Standard & Poor’s – giudicano un obiettivo difficile. E però lasciar correre il deficit non si può: la Commissione ci ha appena contestato uno sforamento dello 0,2%, figuriamoci uno di quasi l’1,2%, al di fuori di qualsiasi ipotetica “flessibilità” delle regole, che peraltro ci hanno già detto che abbiamo sfruttato al massimo possibile.

Ci avviamo dunque verso la fine del quantitative easing, che tiene a bada tassi e spread facendoci risparmiare bei soldoni di interessi sul debito, con questo peso da sopportare, e non è il solo: non possiamo certo dimenticare il problema delle sofferenze bancarie, tutt’altro che risolto. Il tutto in una situazione politica quanto mai incerta, con all’orizzonte elezioni che – anche se si arriverà alla scadenza naturale della legislatura – potrebbero provocare una situazione in cui sarà problematico formare una maggioranza di governo.

Ma chi ci ha ficcato in guai così grossi? La maggior parte delle persone, come spesso accade, si divide in due partiti. I Guelfi, quelli che sono contro l’impero, non hanno dubbi: la colpa è dell’Europa egemonizzata dalla Germania, della politica di austerità, dell’euro che ci impone una moneta sopravvalutata. I Ghibellini, quelli che stanno con la Svevia (antica regione tedesca), alzano gli occhi al cielo con aria di rancoroso compatimento: niente affatto, la colpa è dei governi italiani, che non hanno sfruttato il lungo periodo di bonaccia dall’inizio dell’euro allo scoppio della crisi per aggiustare i conti (e questo è vero: grazie Berlusconi) e poi non hanno fatto le riforme (mitiche!), o non ne hanno fatte abbastanza. Chi ha ragione? Purtroppo, entrambi i partiti.

Cominciamo dall’Europa. Se ne può dire tutto il male possibile, e ancora non basta. Tralasciamo il problema di fondo, cioè che è stata costruita male, che non è certo un dettaglio. Ma oltre a questo, fin dallo scoppio della crisi si è fatto di tutto per non risolverla, e anzi aggravarla. Ricordiamo che all’esplosione del caso greco la Germania ha impedito che fosse affrontato tempestivamente, perché il suo obiettivo – riuscito – era mettere in piedi quel meccanismo che ha trasformato i debiti greci con le banche tedesche e francesi in crediti verso la Grecia di tutti i paesi Ue, (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2015/02/23/i-furbetti-del-salvataggio/ ) che hanno così contribuito – mentre la situazione si incancreniva e si scatenava la speculazione sui debiti pubblici – a salvare quelle banche. Poi l’imposizione della politica di austerità mentre la congiuntura recessiva avrebbe richiesto il contrario, cioè stimoli fiscali all’economia, e l’uso delle aggravate difficoltà dei paesi del Sud Europa per imporre riforme (http://nuke.carloclericetti.it/AlsosprachMerkel/tabid/340/Default.aspx ) che riducessero le garanzie dei lavoratori. In piena recessione venivano varati il Six pack, il Two pack, il Fiscal compact, che imponevano un sentiero di consolidamento dei conti pubblici che avrebbe perpetuato la politica di austerità (il cosiddetto “pilota automatico”, teso a ridurre al minimo la discrezionalità delle scelte dei governi).

Non basta. Le verifiche sul rispetto del percorso di consolidamento della finanza pubblica sono fatte dai tecnocrati della Commissione con una metodologia assurda (http://nuke.carloclericetti.it/LinkClick.aspx?link=501&tabid=36 ) e ideologicamente orientata, basata su una grandezza che è frutto di stime arbitrarie, il “Pil potenziale”, che si potrebbe descrivere con la filastrocca dedicata all’Araba fenice: «Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». E in base a questa metodologia fantasiosa, che l’Italia ha contestato (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2014/10/17/finalmente-litalia-contesta-un-po-la-ue/ ) – troppo tardi – senza ottenere il minimo risultato, si chiedono ogni anno sacrifici veri, tagli di spesa o aumenti di tasse.

L’elenco potrebbe continuare con i tanti “no” che rendono la costruzione europea ancor più sbilenca che negli anni passati. “No” alle tante proposte per risolvere la questione dei debiti pubblici, anche a quelle che non prevedono trasferimenti di risorse tra paesi (http://nuke.carloclericetti.it/IlPADRE/tabid/348/Default.aspx ); “no” alla garanzia comune sui depositi, che pure era nei patti dell’unione bancaria; “no” ai limitati interventi statali per le nostre banche, dopo che gli altri (Germania in testa) hanno salvato le loro con miliardi pubblici a palate; “no” a una politica europea di investimenti, a meno di non voler considerare tale il ridicolo Piano Juncker (http://nuke.carloclericetti.it/Junckerunannodopo/tabid/410/Default.aspx ), di cui si sono ormai perse le tracce. Gli ultimi anni dell’Unione, dal 2008 in poi, sono un vero e proprio racconto dell’orrore.

Non spendiamo altre parole sulle infinite colpe dell’Europa a guida tedesca. Ma veniamo alle nostre, di colpe, che non sono poche. La più grande è stata quella di accettare tutto, la gestione della crisi, i trattati sulla finanza pubblica, i metodi di calcolo, il tipo di riforme che ci sono state chieste, le norme sul bail-in. A volte con entusiasmo, come per la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che non era obbligatoria (e infatti quasi nessun altro l’ha fatto); a volte senza fiatare; altre volte, infine, con proteste o tanto flebili da non essere prese in considerazione (la metodologia del Pil potenziale, l’entrata in vigore immediata del bail-in) o rumorose ma di facciata, come quelle dell’ultimo periodo di Renzi, e per giunta su obiettivi il più delle volte sbagliati: pietire la “flessibilità” per il bilancio significa accettare implicitamente tutto lo schema entro cui questa “concessione” si colloca, quello schema che appunto andrebbe invece contestato con tutti i mezzi politici e procedurali disponibili.

Quel poco di gestione discrezionale della politica economica che ci è rimasta, poi, non è andata meglio. Sorvoliamo sui governi Monti e Letta, fedeli esecutori della linea di Berlino-Bruxelles. Renzi, invece, con l’idea di assicurarsi un consenso plebiscitario, quella linea l’ha stirata per tutto quel che ha potuto, e dall’Europa ha ottenuto margini non indifferenti, 19 miliardi di “sforamenti” rispetto ai conteggi “ortodossi”. Fra il 2014 e il 17 – ha calcolato il Rapporto sulla finanza pubblica del Mulino – ha speso 50 miliardi (10 finanziati con nuove tasse).

Una cifra ancora non sufficiente per un vero rilancio della nostra economia, ma che avrebbe potuto dare risultati ben più apprezzabili se fosse stata impiegata bene (http://nuke.carloclericetti.it/Flessibilit%C3%A0Nograzie/tabid/478/Default.aspx ). Invece ha dato risultati miseri perché si è seguito il pensiero economico dominante: non investimenti pubblici, perché lo Stato deve tenersi alla larga da interventi diretti: ma tanti soldi alle imprese (i due terzi del totale) perché così avrebbero ricominciato ad investire, e il resto in tasca ai consumatori (gli 80 euro, la girandola dei bonus) che così si sarebbero gettati a comprare svuotando i magazzini delle aziende. Naturalmente nulla di tutto questo è accaduto: le imprese non investono quando la domanda è stagnante, i consumatori spendono poco quando i salari sono bassi, la disoccupazione alta, il futuro incerto. Ed eccoci ancora con la crescita allo zero-virgola, fanalino di coda in Europa.

Insomma, l’Europa ci è matrigna, e noi ci abbiamo messo del nostro. Il quadro è disperante, il futuro non promette niente di buono. Soprattutto, non si vede una classe dirigente capace di prendere in mano la situazione e imprimere la sterzata che sarebbe necessaria. Forse è un discorso da gufi, ma doverlo fare non è certo una soddisfazione.


«Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale

». connessioniprecarie, 14 marzo 2017 (c.m.c.)

Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per comprenderne appieno il significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza: chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di corteo non vede quello che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale. La dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti da uno sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo hanno preceduto.

Dismisura è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero. Solo partendo da questa dimensione politicamente e non solo geograficamente globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e di pratiche che si sono espresse al suo interno.

«Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando»! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.

A Plaza de Mayo più di duecentomila mujeres hanno gridato: «sí se puede», se si può fare uno sciopero contro Macri, lo facciamo noi donne!, catalizzando in questo modo una contestazione fino a questo momento frammentata e identitaria. Sono due episodi lontani ma al tempo stesso molto prossimi dell’8 marzo globale. Essi indicano chiaramente che lo sciopero voluto dalle donne ha prodotto la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo.

L’opposizione a questo o quel governo non si è ridotta alla richiesta di un cambio elettorale o a una protesta contro la classe politica. Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale. Le donne sanno che il neoliberalismo non ha inventato la violenza contro di loro, ma sanno anche che è arrivato il momento di restituire quella violenza alle condizioni politiche della sua continua riproduzione, smettendo di farne un oggetto di generica condanna.

Lo sciopero non è solo una sottrazione temporanea al lavoro, ma una pratica politica che segnala il rifiuto radicale, pieno e di massa, delle condizioni in cui oggi viene prodotta e riprodotta la vita. Proprio per la sua dismisura esso non mira a mediazioni locali o temporanee, ma esprime la sua potenza sul piano immediato della sollevazione di massa. «Non aspetteremo», hanno dichiarato le donne irlandesi di strike4repeal, riferendosi non solo all’urgenza di abrogare una legge antiabortista, patriarcale e assassina, ma al fatto che il tempo dello sciopero, il tempo della rottura è adesso. Per questo, l’8 marzo in tutto il mondo non è stato solo «il primo giorno della nuova vita delle donne», ma anche il primo giorno di una critica globale dell’esistente che da tempo sta faticosamente cercando le strade per esprimersi.

Lo sciopero ha aperto uno spazio politico senza precedenti in cui tantissime donne in tutto il mondo e moltissimi uomini precari, operai, migranti si sono mobilitati per rendere lo sciopero reale e andare oltre la sua evocazione, rompendo in questo modo l’isolamento della loro quotidiana insubordinazione. Le enormi manifestazioni che abbiamo visto sono stati scioperi. Le astensioni dal lavoro sono state dimostrazioni di forza e di coraggio. Il femminismo di migliaia di donne ha colto nello sciopero l’occasione per esprimere il rifiuto della propria condizione particolare di subordinazione, oppressione e sfruttamento, consentendo a ciascuna di diventare protagonista di un movimento globale.

Questa scelta femminista spiega e qualifica l’impressionante partecipazione in tutte le piazze dell’8 marzo: non solo la marea che ha inondato le metropoli e le grandi città, ma anche la presenza politica delle donne e di moltissimi uomini nei luoghi più disparati, dove le iniziative erano inattese. C’è chi ha paventato che questa sollevazione si limitasse, alla fine, a manifestare l’indignazione delle privilegiate, solidali con la causa di chi non può scioperare o gridare in piazza liberamente. C’è chi ancora una volta ha ripetuto che la lotta contro il capitalismo è un’altra cosa. Una cosa per soli uomini, forse. Invece precarie, operaie e migranti sono state presenti in tutte le piazze e hanno preso direttamente parola. Hanno rovesciato ogni discorso vittimizzante, hanno orgogliosamente trasformato la propria posizione di sfruttamento nel privilegio di chi diviene il soggetto della propria insubordinazione.

Lo sciopero ha sfidato molti confini ‒ quelli tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra i posti di lavoro e la società ‒ e molto praticamente ha mostrato che Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo hanno un comune campo di azione da occupare con la massima urgenza. Diffuso su tutto il pianeta e capace di rendere evidente il legame tra i diversi modi e i diversi piani in cui prende forma la violenza neoliberale, lo sciopero ha reso possibile una moltitudine di eventi e li ha connessi politicamente stravolgendo tutti i rituali di movimento: nessuna messa in scena del conflitto, ma una reale manifestazione di potere e del desiderio della sua conquista.

Questo sciopero ha dimostrato la possibilità di contrastare efficacemente la strategia della segmentazione messa in campo dal neoliberalismo patriarcale, perché ha reso possibile una sincronizzazione politica tra istanze anche molto diverse. La condizione vissuta dalle donne che reggono l’economia popolare argentina è certamente diversa da quella delle migranti vessate dal permesso di soggiorno in Europa, delle combattenti della Rojava, delle precarie spagnole, delle donne che in Turchia subiscono la violenza istituzionale di un governo autoritario e patriarcale, delle nere che negli Stati Uniti combattono contro la brutalità poliziesca, il sessismo e il razzismo istituzionale, delle francesi colpite dalla loi travail e dal suo mondo.

Le donne che hanno scioperato non sono state unite da un piano comune e omogeneo di rivendicazioni: in Brasile, si sono scagliate contro la riforma previdenziale, che aumenta l’età pensionabile delle donne estendendo e intensificando lo sfruttamento nell’indifferenza per il loro doppio carico di lavoro. Nelle Filippine le donne hanno preso parola contro le politiche agrarie neoliberali e le misure razziste del governo Duterte. In Australia, migliaia di educatrici hanno scioperato per contestare un welfare che si regge sulla sistematica riduzione dei loro salari.

In Polonia donne e uomini sono scesi in piazza contro l’alleanza tra il fondamentalismo cattolico e il neoliberalismo progressista che fanno fronte comune proprio a partire dalla violenza istituzionale e quotidiana sulle donne. La Francia, dopo le grandi mobilitazioni contro la loi travail, è tornata a riempirsi con le oltre 300 azioni che hanno travolto le strade delle principali città e che hanno visto un inedito protagonismo migrante. Donne curde, turche, cinesi, francesi, africane sono scese in piazza a hanno scioperato assieme contro la violenza, la precarizzazione e la strutturale discriminazione salariale che le colpisce.

In Svezia lo sciopero dell’8 marzo ha ripoliticizzato il lavoro di cura, portando in piazza centinaia di lavoratrici e lavoratori della sanità, degli ospedali e a domicilio, e aprendo un percorso per il diritto alla salute riproduttiva e contro la precarizzazione dei servizi alla persona. Lo sciopero dell’8 marzo non è però in nessun modo il risultato della somma occasionale di vertenze locali, della grande coalizione tra organizzazioni sindacali, politiche e di movimento, di contingenti alleanze di scopo in vista di una scadenza passeggera. Oggi possiamo dire che centrale è stato il processo che ha connesso fondamentali rivendicazioni politiche globali, fornendo forza e significato a ogni singola iniziativa locale. Questo sciopero transnazionale ha indicato la possibilità di agire sulla stessa scala su cui si dispiega quotidianamente la violenza neoliberale e patriarcale.

Nelle molte piazze in cui sono stati rivendicati salute, welfare, istruzione, libertà di muoversi e di restare non si è guardato nostalgicamente al passato, all’universalismo perduto della cittadinanza e dello Stato sociale novecenteschi – che molti paesi coinvolti nello sciopero delle donne non hanno mai neppure conosciuto – ma è stata avanzata la pretesa di ottenere qualcosa che non c’è mai stato. Mentre il neoliberalismo non ammette altra emancipazione che non sia quella garantita dal denaro, quelle rivendicazioni aggrediscono direttamente gli ingranaggi politici della sua riproduzione. Rivendicare il diritto di abortire liberamente significa pretendere di rovesciare l’ordine materiale e simbolico che vuole ridurre le donne a strumenti riproduttivi e contestare la regolazione normativa della sessualità.

Rivendicare servizi di cura per bambini e anziani significa rifiutare la divisione sessuale del lavoro che vuole condannare le donne a essere le serve domestiche e addomesticate dell’ordine neoliberale. Rivendicare l’asilo politico per sfuggire alla violenza contro donne e uomini e all’espropriazione dell’esistenza significa opporsi alla violenza quotidiana dei confini. Rivendicare salari più alti significa pretendere il potere sulla propria vita. L’irriducibile parzialità delle donne non si scioglie nel sogno di un’indistinta ricomposizione, ma attraverso la pratica sociale dello sciopero si fa valere con una forza collettiva e globale. L’8 marzo ci consegna una preziosa indicazione di metodo politico: non si tratta di reclamare generici diritti universali o un’emancipazione individuale, ma di colpire i pilastri su cui si regge un intero ordine di dominio e sfruttamento partendo dalla propria parziale posizione, facendone un punto di forza e non un limite. Questo ci hanno insegnato le donne dell’8 marzo.

Non è allora sorprendente che questo sciopero abbia preoccupato i custodi dell’ordine. Opinionisti e opinioniste di fama hanno perso l’occasione per tacere e si sono affrettati a dichiarare che lo sciopero dell’8 marzo ha danneggiato in primo luogo le donne, mentre le paladine del femminismo istituzionale hanno affermato severe che il lavoro non va mai rifiutato perché offre un’occasione di promozione sociale. Nonostante tutto, dopo anni di oscillazione tra il catastrofismo scandalistico della crisi e le tiepide ricette di risanamento dell’economia mondiale, le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo hanno dovuto registrare l’esistenza di una nuova pretesa di «giustizia».

Questo femminismo del 99%, come lo hanno battezzato le donne dell’8 marzo statunitense, non corrisponde a un generico ideale di partecipazione dal basso o di cittadinanza radicale: permette alle donne che subiscono e hanno subito violenza e sfruttamento di alzare la testa e lottare, mentre chiede a tutti di prendere posizione e di schierarsi. Esso fa dello sciopero il confine politico di questo schieramento, mina i resti di una mediazione sociale in frantumi e rimescola i piani su cui è possibile costruire percorsi di organizzazione e di lotta. Fa saltare l’alibi del solito sciopero rituale che non serve a nulla, dando alle donne e agli uomini la libertà di sottrarsi a un ordine costruito contro di loro.

La parola d’ordine Yo decido lanciata dalle donne spagnole non assume come referente il sistema politico, ma si afferma sulle macerie della mediazione istituzionale che il neoliberalismo ha già da tempo travolto con la forza brutale del suo dominio. Non è un caso che i più spaventati dallo sciopero delle donne siano stati i grandi sindacati che ‒ in Argentina come in Italia ‒ hanno cercato di arginare o addirittura contrastare l’iniziativa autonoma delle donne per tornare alle placide contrattazioni sulle quali continuano a costruire la loro identità e ragione di esistenza. Le donne, intanto, hanno reso l’arma dello sciopero disponibile per quanti ‒ da posizioni diverse e in ogni parte del mondo ‒ hanno la pretesa di opporsi realmente alla precarietà, al razzismo istituzionale, all’ingiunzione al silenzio dell’ordine neoliberale.

È impossibile dire in che misura siamo effettivamente riuscite a interrompere ogni attività produttiva e riproduttiva. Eppure, nonostante le sue dimensioni ancora sperimentali, l’8 marzo segna una frattura, stabilisce un «prima» e un «dopo». Esso indica la possibilità di un processo di organizzazione che non si riduce alla sommatoria delle istanze militanti e liquida in un colpo ogni ipotesi micropolitica che non sia capace di pensare simultaneamente il piano locale e quello globale dell’iniziativa. Lo sciopero è stato prima di tutto transnazionale e proprio per questo ha attivato in decine di paesi un processo di organizzazione capillare, di cui le donne sono state protagoniste al di là di ogni etichetta politica e certificazione militante innescando l’azione di una moltitudine di soggetti.

A questo processo di organizzazione il progetto dello sciopero ha conferito e può continuare a conferire unità, indicando la possibilità di uscire dalla quotidiana impotenza in cui si agitano i movimenti locali e di fare valere una forza collettiva. Questa forza non può essere ridotta a un semplice strumento per scendere a patti con questo o quel governo. Lo stesso piano femminista contro la violenza che «Non una di meno» sta scrivendo in Italia saprà imporsi solo se rimarrà ancorato al processo di lotta globale attivato sotto il segno dello sciopero.

Dopo l’8 marzo globale non è più pensabile imbrigliare la forza sprigionata dallo sciopero delle donne nelle maglie strette di linguaggi usurati o in forme organizzative che hanno già fatto il loro tempo e mostrato la loro insufficienza. Solo un’infrastruttura politica transnazionale potrà far crescere il movimento dello sciopero. Mentre la parola d’ordine di «una giornata senza di noi» continua a viaggiare per il mondo, significativamente rilanciata dai migranti negli Stati Uniti come in Argentina, dopo l’8 marzo la sfida collettiva è quella di consolidare e accelerare il movimento dello sciopero che si aggira per il mondo e che le donne, per prime, hanno fatto valere come una possibilità globale.

Sempre più grave il dramma delle persone che fuggono dalle guerre e dalle carestie che il Primo mondo ha provocato e che adesso respinge, con le armi proprie e con quelle dei suoi alleati libici.

la Repubblica, 13 marzo 2017

Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente “migranti” adesso sempre più spesso vengono chiamati “irregolari” o “clandestini”. Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord.

Dopo di lui però c’era stata una drastica inversione di rotta. Il dramma dei profughi in fuga dalla Siria, le tragedie dei naufragi al largo di Lampedusa avevano spinto l’intero Paese ad aprire le braccia: il 2014 è stato l’anno di Mare Nostrum, la più grande operazione umanitaria della storia recente, con 100 mila persone soccorse nel canale di Sicilia. Salvare e assistere gli esseri umani era l’unica priorità.Poi l’Europa ha cominciato a chiudere le porte. E adesso chi arriva sulle coste italiane difficilmente riesce ad andare oltre: le frontiere di Francia e Austria sono sbarrate, viene obbligato a rimanere in una nazione alle prese con una crisi economica e con una disoccupazione altissima.
Soccorsi e sbarchi continuano - 181 mila nel 2016, altri 15.760 dall’inizio del 2017 - ma l’accoglienza sta diventando insostenibile per le autorità di Roma. Un problema di natura finanziaria, con la scarsità di risorse per integrare altri immigrati, ma anche una questione politica, con la prospettiva di elezioni in tempi brevi e la crescita di partiti dichiaratamente ostili agli stranieri - la Lega Nord di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni - o comunque molto più chiusi su questo tema - il Movimento 5Stelle di Beppe Grillo. C’è pure una preoccupazione crescente dei sindaci di sinistra, su cui ricade la gestione diretta dei nuovi arrivati, quasi tutti africani. Così una delle prime decisioni di Paolo Gentiloni, premier di un esecutivo di centrosinistra, è stato il varo di un pacchetto di misure per incrementare le espulsioni di “migranti economici irregolari”. «Non è assolutamente possibile continuare a ricevere chiunque sbarchi illegalmente sulle nostre coste senza imporre alcun criterio di accoglienza», ha dichiarato giovedì il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma — ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella — «un fenomeno epocale che non si può rimuovere». Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia.

Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha — l’epicentro degli imbarchi — coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri.

Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank "Brookings" Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: «La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico». Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di «destrutturare per ristrutturare» puntando a «uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione ». È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj.

A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale.

Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale.

«La politica continua a occuparsi di gare e appalti. La corruzione nasce qui". Il presidente dell’Autorità Anticorruzione parla di Consip e di Romeo. E sui politici sotto inchiesta dice: "Si valuti, a prescindere dagli interventi giudiziari, se sono compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese"». la Repubblica, 13 marzo 2017

Lei è qui da tre anni. Sempre sulla ribalta. Troppo, dicono i suoi detrattori. Non è pessimista sulla corruzione in Italia. Ma come la mette con Romeo e l’inchiesta Consip?
«Non ho mai detto che il contrasto alla corruzione sarebbe stata una passeggiata e non ho neppure lontanamente pensato che potessero bastare tre anni di Anac per invertire il trend. Abbiamo avviato un percorso, che è ancora lungo, tortuoso, irto di ostacoli. Vicende come quelle di Consip non saranno certo le ultime che emergeranno in questo Paese. La corruzione è tutt’altro che vincibile domani o dopodomani».

Decine di politici nelle carte giudiziarie su Consip. Dopo averle lette lei vede ancora positivo?
«Resto ottimista e mi attengo ai fatti. C’è un’indagine molto seria tra Napoli e Roma che ha fatto emergere allo stato un unico, seppur grave, episodio di corruzione che potrebbe lasciar intravedere altro. Per parlare di sistema c’è bisogno di attendere gli sviluppi giudiziari».

Non sta sminuendo troppo?
«Assolutamente no, sono abituato a ragionare da magistrato e a pensare che i fatti sono quelli accertati giudiziariamente, mentre le ricostruzioni sono utili sul piano sociologico ».

Da quegli atti non emerge un sistema in cui corrono in parallelo appalti e politica?
«Il vero problema è che una parte della politica continua a occuparsi di appalti e gare pubbliche. Se questo non ci fosse tutto sommato avremmo una corruzione fisiologica».

Avremmo pure imprenditori che cercano sempre di corrompere...
«Contesto assolutamente quest’affermazione. Se fosse davvero così dovremmo rinunciare a qualsiasi possibilità di scardinare la corruzione. Il punto vero è garantire agli imprenditori onesti ed estranei alla politica la possibilità di accedere agli appalti importanti, quelli che contano».

Guardi Bocchino, un ex politico usato da Romeo che arriva a lamentarsi degli appalti troppo concentrati nella Consip perché le chance di dividere la torta si riducono.
«Questa storia evidenzia un’enorme ipocrisia. I grandi imprenditori hanno bisogno di utilizzare meccanismi lobbistici per promuovere la loro attività. Ma la parola lobby in Italia è sempre stata intesa in senso negativo perché non si è mai avuto il coraggio di affrontarla e regolarla».

Bocchino vuole arrivare a lei e ottenere la sua benevolenza.
«Sui giornali ho letto cose fantasiose, per esempio che mi avrebbe cercato Fini, falso perché per telefono non ci ho mai parlato, né l’ho mai incontrato tranne in un’occasione pubblica in cui ci siamo appena salutati».

La lettura delle intercettazioni di Bocchino però è chiara…
«Quello poteva essere il loro intendimento, ma non ci sono riusciti. Su questo sfido chiunque a dimostrare che il tentativo di avvicinamento a me sia anche solo iniziato».

Il sindaco di Napoli De Magistris dice di aver tolto a Romeo la gestione del patrimonio. Perché Consip non lo ha fatto?
«Romeo ha partecipato e vinto gli appalti, in molti casi oggetto di ricorsi al Tar che li ha confermati. Romeo è stato assolto con formula piena nel caso Global Service. Se non ci sono condanne, un soggetto non può essere escluso. Il singolo può decidere di non frequentare un imprenditore chiacchierato, e l’uomo delle istituzioni fa bene a non farlo, ma sul piano formale il soggetto assolto è definitivamente riabilitato».

Pure lei ha notato anomalie nelle gare Consip di Romeo. Perché non le ha fermate?
«Le abbiamo evidenziate anche pubblicamente, ma si trattava di rischi che di per sé non erano tali da far pensare alla corruzione ».

È giusto che l’ad di Consip Marroni resti al suo posto?
«I magistrati lo considerano fino a oggi un testimone attendibile. E chi collabora con la giustizia in modo corretto e leale fa il suo dovere; non spettano a me valutazioni diverse, di opportunità connesse anche alla serenità di svolgere un ruolo tanto difficile; è compito del ministro dell’Economia e dello stesso Marroni ».

Ha parlato con lui?
«Anac ha fatto accertamenti su molte gare di Consip. Ora Marroni ci ha chiesto alcuni pareri. Risponderemo analizzando le questioni giuridiche, ma non ci sostituiremo certo alle valutazioni che spettano a Consip».

E Lotti? Dovrebbe farsi da parte come Renzi aveva chiesto per Idem e Cancellieri?
«Su questo non ho nulla da dire perché sono in ballo valutazioni politiche da cui è necessario che mi tenga lontano. In generale, come ho detto tante volte, non basta un avviso di garanzia per imporre il passo indietro, ma la politica deve valutare se i fatti, a prescindere perfino da interventi giudiziari, siano più o meno compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese».

Renzi ha puntato molto su di lei. Ora che il padre è indagato e Lotti pure, vede ricaschi negativi?
«Renzi, da premier, non ha in nessun modo interferito nella mia attività. Personalmente credo sia giusto aver rispetto per una persona che sta vivendo un momento difficile. Le valutazioni complessive sulla vicenda potranno essere fatte quando si diraderà la cortina fumogena delle chiacchiere e i fatti saranno portati all’attenzione dei giudici».

Lei è napoletano come Romeo. Come si comportava con lei?
«Non ho avuto alcun rapporto con lui che non fosse puramente formale e l’ho conosciuto quando la sede dell’Avcp passò all’Anac e avemmo l’esigenza di rescindere il contratto ».

Possibile? Per anni a Napoli senza conoscerlo?
«Ho saputo dell’esistenza di Romeo solo quando è stato arrestato per la vicenda Global Service e ho visto la sua foto per la prima volta sui giornali».

A leggere le carte dell’inchiesta risulta evidente il suo tentativo di avvicinarla. Il convegno del Cresme, la consulenza a suo fratello Bruno, le telefonate di Bocchino con Fini. Lei cosa ha fatto?
«Da quando sono magistrato sono attentissimo alle frequentazioni, non vado a feste, pranzi o cene con nessuno. I rapporti istituzionali sono sempre pubblici o passano per l’Anac. Al convengo del Cresme sono andato e ci tornerei perché si discuteva di un tema di grande interesse per l’Anac, c’erano relatori importanti, mi sono trattenuto per il mio intervento e sono andato via. Credo sia doveroso per una persona che ha la mia carica esprimere la propria opinione non certo in conventicole private ma in convegni pubblici. Quanto alla vicenda di mio fratello, Bruno ha avuto un incarico professionale per pochi mesi per aver conosciuto Romeo per via della vicinanza dei rispettivi studi, ma non si è mai occupato di vicende che neanche lontanamente interferivano con Anac. E io ne ho avuto notizia solo quando ne hanno parlato i giornali».

Una sua “nemica”, Carla Raineri, ci vede un conflitto di interesse.
«Non considero la dottoressa Raineri una mia “nemica”. A titolo personale non ho fatto nulla contro di lei. Il consiglio dell’Anac ha espresso un parere sulle modalità della nomina a capo di gabinetto che la dottoressa avrebbe ben potuto contestare in via giudiziaria o amministrative. Quelle sul conflitto di interesse sono insinuazioni prive di ogni fondamento e sull’incarico sia io che mio fratello, come fanno le persone per bene, abbiamo riferito tutto quello che c’era da dire all’autorità giudiziaria di Napoli».

Quanti Romeo ci sono in giro che cercano di circuire Cantone?
«Credo ce ne siano tanti, ma io sono tranquillo, e sono sicuro che gli eventuali tentativi non vanno da nessuna parte».

Sarà la Procura nazionale anticorruzione il suo prossimo incarico?
«Non credo che una simile struttura sia necessaria. E al mio prossimo incarico in magistratura penserò a partire dalla fine del 2019 quando si avvicinerà l’aprile 2020, mese in cui scade il mio mandato non rinnovabile all’Anac».

Intervista a don Luigi Ciotti. «È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati».

la Repubblica, 12 marzo 2017, con postilla

«È il naufragio dell’umano e delle coscienze ». Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, presidente dell’Associazione Libera, invita a fermare le parole e a farsi domande.

Don Ciotti, la violenza contro chi non ha nulla rischia di diventare un rito macabro?
«È l’ennesimo segno di una disumanità enorme e noi dobbiamo chiederci quanto queste violenze siano frutto di un clima di egoismo, indifferenza e ostilità verso le persone più deboli o diverse. Persone fragili esposte all’indifferenza ma anche alla violenza verbale ».

Chi è fuori dalle regole fa più paura? O è il ritenere queste persone senza volto che li rende bersagli più facili?
«È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati. Serve una dieta della parole».

Quali parole sono abusate?
«Parole di odio che leggiamo ogni giorno anche sui social network. Ci vogliono parole autentiche, ma ferme e inequivocabili. Capaci di mordere le coscienze e esprimere dolore, compassione. Parola di condanna, se serve, ma anche speranza».

Come arginare questa ondata di odio verso gli ultimi?
«Parliamo di persone che vivono in strada perché non solo non hanno più la casa o hanno perso il lavoro, ma anche per conflittualità familiari. Viviamo anni di solitudine. E una delle povertà più gravi, a fianco di quella materiale e culturale, è quella relazionale, la solitudine che si dilata e diventa ansia, paura. Su questo bisogna lavorare».

Spesso i senzatetto rifiutano un ricoverano e scelgono la strada.
«C’è chi si autoesclude, ma ricordo che le direttive sociali europee insistono che il primo intervento per le persone che vivono in strada è fornire un riparo. Servono politiche di inclusione e di sostegno e non nuove discariche di essere umani. L’orizzonte è quello indicato da Papa Francesco. Parla di “periferie geografiche e esistenziali” e dice che bisogna uscire dalle incertezze e dagli egoismi facendosi viandanti di speranza per le persone escluse, emarginate e umiliate».

postilla

Difficile non mettere in relazionequeste parole di Don Ciotti con le parole che Matteo Salvini e i suoi seguaci inculcano nelle teste di troppi italiani - parole più incendiarie della benzina gettata dall'assassino di Palermo. Quando la violenza delle parole proveniva dal mondo degli sfruttati erano etichettata come incitazione alla violenza veniva condannata e repressa, ora che viene da altri mondi viene protetta dai ministri dell'interno: vedi Napoli. E vedi anche l'articolo di Alessandro Dal Lago in Orrore Umano

«». comune-info, 11 marzo 2017 (c.m.c.)

Fin da quando l’economia divorziò dalla filosofia e dalla morale, pretendendo di assumere uno statuto scientifico autonomo, si palesarono due tendenze: quella – ahimè vincente – basata sull’individualismo degli interessi di Adam Smith (di fede calvinista) e quella del suo contemporaneo meno noto Antonio Genovesi (napoletano di fede cattolica), primo cattedratico di economia in Europa all’Università di Napoli (1754), che considerava il mercato come una civilissima forma di “mutua assistenza”, capace di tenere assieme individui e comunità. A questa seconda scuola di pensiero si è ispirato il Laboratorio Nazionale di Nuova Economia, un gruppo informale che dal 2012 ha raggruppato ricercatori e attivisti di varie associazioni, fondazioni culturali, reti di economia solidale, tra cui Banca popolare Etica, Arci, Arcadia University, Attac Italia, Solidarius Italia.

Il loro scopo è stato studiare e accompagnare pratiche locali capaci di «coniugare l’economia e la finanza con la solidarietà, l’etica, la socialità, l’ecologia, le buone relazioni». Una di queste esperienze è in corso da circa tre anni a Roma, al III Municipio, tra via Salaria e via Nomentana.

Dopo molte riunioni periodiche aperte agli abitanti e incontri con gli operatori economici è stato organizzato nella piazza antistante il Municipio un incontro/evento per condividere con gli abitanti i risultati della ricerca-azione e una piccola fiera dell’artigianato di qualità del quartiere che mostrasse abilità e competenze degli artigiani. Falegnami, restauratori, corniciai, parrucchieri artistici, un bronzista, un calderaio… hanno creato un’istallazione che hanno chiamato Eco-house attorno a cui si sono svolte varie attività dimostrative. Le botteghe artigianali e il recupero di mestieri antichi possono costituire il tessuto su cui ricostruire relazioni sociali nelle aree urbane pesantemente colpite dalla crisi.

Oltre a ciò il Laboratorio è impegnato a costruire un circuito virtuoso tra il negozio locale di prodotti biologici Passo al Bio, rilevato da una cooperativa, il Gruppo di acquisto solidale, le cooperative sociali agricole del vicino Parco della Marciliana e i produttori della filiera agroalimentare che fanno parte della Rete dell’economia solidale del Lazio.

Soana Tortora, di Solidarius Italia, impresa sociale che si ricollega alle attività del filosofo brasiliano Euclides Mance, è una delle animatrici del gruppo di regia del Laboratorio: «Come ricercatori non siamo partiti dalle definizioni teoriche che connotano le varie esperienze di Nuova economia. Ci interessa piuttosto vedere dove ci porta un metodo davvero partecipativo di progettazione sociale. Come abitanti siamo impegnati a costruire relazioni comunitarie per mantenere di buona qualità le funzioni residenziali e la vocazione artigianale del quartiere attaccate dall’eccessivo costo dei fitti, dagli sfratti per cambio di destinazione e dal contemporaneo degrado e abbandono di molti edifici».

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«Libia. Incontro con la piattaforma libica della società civile che chiede al prossimo Consiglio Onu per i diritti umani di creare un team di monitoraggio. «Abusi sistematici, torture, rapimenti: diritti violati da tutti gli attori del conflitto». il manifesto, 11 marzo 2017
Due appuntamenti vanno segnati sul calendario libico di qui a 15 giorni: il 15 marzo la Corte d’Appello di Tripoli emetterà la sentenza sul memorandum d’intesa firmato da Italia e governo di unità nazionale (Gna) sui migranti; e il 22 all’Onu si riunirà nella sua 34esima sessione il Consiglio per i diritti umani.

Due date importanti. Ad attenderne i risultati ci sono anche Zahra’ Langhi, fondatrice della Libyan Women’s Platform for peace; Karim Saleh, responsabile per la Libia del Cairo Institute for Human Rights Studies; e Hisham al Windi, attivista.

Li abbiamo incontrati a Roma dove sono incontreranno istituzioni e associazioni della società civile in rappresentanza della piattaforma nata nel settembre 2016 e che mette insieme 16 organizzazioni di base libiche impegnate in campi diversi, migrazione, genere, media, libertà di espressione. L’obiettivo è dare la misura della sistematicità delle violazioni in atto nel paese e la distruttiva frammentazione in autorità diverse che impedisce l’individuazione dei responsabili di crimini.

Il quadro ce lo danno mostrandoci la lettera inviata al Consiglio per i diritti umani e sottoscritta, tra gli altri, dal Cairo Institute, Amnesty International e Human Rights Watch: 450mila sfollati interni, centinaia di migliaia di migranti africani in transito detenuti e abusati, migliaia di prigionieri nelle carceri delle diverse autorità.

«La situazione umanitaria in Libia non ha mai smesso di deteriorare dal 2011 – ci spiega Karim – È peggiorata nel 2014 con la scissione delle autorità centrali in due e poi nel 2016 con la scissione in tre diversi esecutivi in competizione, ognuno con un braccio armato. Le violazioni sono sistematiche: detenzioni arbitrarie, tortura e stupro nelle carceri, rapimenti e sparizioni forzate che hanno come target sia i difensori dei diritti umani che la comunità giudiziaria, giudici, avvocati, procuratori e le famiglie delle vittime che tentano le vie legali».

«Gli abusi sono perpetrati da tutti i diversi attori del conflitto, che si muovono in una free-zone. La comunità internazionale deve creare un meccanismo di monitoraggio degli abusi».

Che è esattamente quello che chiedono al Consiglio per i diritti umani: una missione di esperti indipendente che monitori la situazione umanitaria e faccia progressi per perseguire i responsabili.

«L’Isis non è il solo gruppo criminale in Libia – continua Karim – All’interno delle frammentate istituzioni di est e ovest la situazione è la stessa. E dietro di loro ci sono Stati che trasferiscono con regolarità armi e denaro, come l’Egitto a favore di Haftar in violazione dell’embargo Onu. Armi che non solo impediscono di spezzare il circolo della violenza, ma che aumentano il potere di gruppi estremisti in totale contraddizione con le dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane: dicono di sostenere Haftar in chiave anti-terrorismo, ma nella realtà lo creano».

«A monte sta il fallimento dell’intervento occidentale che non ha disarmato e demobilitato i gruppi nati dopo Gheddafi né aiutato alla costruzione di un sistema di sicurezza interna basato sul rispetto dei diritti umani – aggiunge Zahra’ – Il fallimento nello state-building e nel bloccare il flusso di armi ha disintegrato il paese».

Lo si vede nel fenomeno delle città-Stato libiche: ogni gruppo governa uno specifico territorio con un diverso obiettivo politico, religioso o etnico. Hisham tenta da tempo di monitorare i diversi attori che nascono e si riproducono, «le repubbliche militari» le chiama.

«Alcune milizie sono legate al premier del Gna Sarraj, al generale Haftar o all’ex primo ministro Ghwell; altri non si sono coalizzati con nessuno. Tale ramificazione di poteri in competizione è dovuta all’enorme afflusso di armi nel paese dal 2011. Non è stato immaginato alcun piano per il post-Gheddafi, per disarmare le milizie e far partecipare questi soggetti in un processo politico serio. Le dinamiche delle ‘repubbliche militari’ sono in continua evoluzione: si ampliano e si riducono con grande rapidità; alcune sono legate a poteri precedenti, clan, tribù, altre sono frutto di poteri nuovi o di scissioni, come lo stesso Haftar o i cosiddetti ‘quiet salafi’, i salafiti non jihadisti, invisibili sotto Gheddafi ma ora presenti anche tra le fila di Haftar in chiave anti-jihadista. La parte più debole, in tutta questa situazione, è lo Stato».

Uno Stato che non c’è, sebbene qualcuno finga di vederlo. Come l’Italia che con il Gna, che controlla a mala pena Tripoli, ha raggiunto un’intesa per frenare i migranti. Il giudizio della società civile è pessimo: «Un atto immorale: l’Italia ha forzato un paese troppo debole – dice Zahra’ – Non è un accordo, ma un memorandum, trucco che elimina aspetti legali come la ratifica dei due parlamenti che infatti non c’è stata. Il Gna è debole, si aggiunge ad altri due “governi”, non ha autorità né legittimazione perché non è stato votato da nessuno. In questa situazione senza potere di fatto né legittimazione popolare il Gna si è visto imporre un accordo dall’Italia che incrementerà gli abusi sui migranti che resteranno in un paese dove le milizie abusano di loro dall’arrivo alla tentata partenza. È immorale e esacerba la fragilità del Gna, un governo che tra 9 mesi scade. Qual è il piano dopo 9 mesi?».

«La vita quotidiana nella capitale libica raccontata dal regista Khalifa Abo Khraisse. In altri termini, finché tenete i migranti lontani dalle coste europee possiamo fare finta che vada tutto bene».

Internazionale online, 10 marzo 2017 (p.d.)

Il 2 febbraio il primo ministro italiano e il primo ministro del governo di unità nazionale libico Fayez al Serraj hanno firmato un memorandum d’intesa per fermare l’arrivo dei migranti in Europa. Nel memorandum si dichiara l’intenzione di rinchiudere i migranti in centri di detenzione di prossima costruzione in Libia e di offrire sostegno finanziario e addestramento alle forze di sicurezza libiche affinché sorveglino i confini della Libia. Una volta tanto i libici si trovano d’accordo su qualcosa: molti giornalisti, blogger, leader di milizie e politici hanno condannato il memorandum, tutti per motivi diversi e da diversi punti di vista. Permettetemi di condividere con voi alcune delle opinioni espresse su questa sponda del Mediterraneo.

La posizione di forza dell’Italia

In un articolo intitolato “Acqua calda e governo complice”, il giornalista Salem Barghouti ha affermato che il documento è “simile a un memorandum d’intesa imposto a paesi che sono stati sconfitti e occupati, attuato con l’aiuto del governo complice dell’occupazione”. E prosegue: “Dal 2004 l’Italia cerca di istituire un centro regionale in Libia per impedire l’immigrazione irregolare, ma non c’era riuscita perché lo stato era forte. Tuttavia, questo progetto, o per meglio dire il sogno italiano, è tornato alla ribalta politica quando l’Unione europea ha avuto la certezza che la debole e dispersiva Libia era pronta ad accettare l’avvio degli insediamenti. Prima di firmare un simile memorandum, il governo di unità nazionale avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che il documento non dovrebbe esentare l’Italia dal rispetto degli impegni presi in precedenti accordi e trattati stipulati con l’ex regime, in particolare il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008. Quel trattato comprendeva un risarcimento per le vittime libiche delle mine seminate dall’Italia per impedire l’ingresso delle truppe dell’Asse in Libia e un risarcimento per il periodo coloniale sotto forma di investimenti per un valore stimato di cinque miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro). I centri di riabilitazione a cui si fa riferimento nel memorandum d’intesa disporranno di alloggi, strutture sanitarie, medicine e attrezzature, una prova eloquente del fatto che questi centri sono concepiti per essere stabili e modulabili. E questo significa il reinsediamento di migranti in un paese che gli europei ritengono uno stato al collasso in cui non si prevede alcun significativo miglioramento nel prossimo futuro. Gli italiani si trovano in una posizione di forza. Sono stati in grado di dettare le condizioni nell’interesse dell’Italia, tenendo conto del prezzo pagato per il sostegno offerto alla rivoluzione libica. Non sono scontento del memorandum d’intesa; so che presto arriverà un altro governo nazionale e getterà a mare quell’accordo, e il mare lo risospingerà sulle coste italiane”.

Un grande gioco

Il coordinatore delle relazioni libico-egiziane con le tribù, Akram Jirari, ha messo in discussione le intenzioni e la credibilità della concomitante decisione presa dalla Banca centrale della Libia di liquidare i dollari per i cittadini libici. In base a questa decisione, ciascun libico avrà il diritto di ritirare un totale di 400 dollari statunitensi (378 euro circa) per ciascun membro della sua famiglia. Jirari ha spiegato che questa risoluzione non è altro che “un grande gioco per distrarre la gente con la questione del cambio del dollaro mentre in Libia si costruiscono gli insediamenti per profughi e migranti”. In un linguaggio aspro ha aggiunto che la decisione di costruire insediamenti ha lo scopo “di sbarazzarsi dei migranti irregolari e impedire loro di arrivare in Europa facendoli invece stabilire in Libia, con tutte le malattie e i danni che possono causare, un peso che adesso stanno sopportando in Europa”.

Un altro commentatore ha tracciato dei parallelismi con un argomento doloroso tra i più citati, la dichiarazione di Balfour, che stabiliva il sostegno del governo britannico alla fondazione di un “focolare ebraico” in Palestina. Lo stesso commentatore si chiede: “In Libia sarà la volta della dichiarazione di Al Serraj, la promessa di istituire una patria per gli africani in Libia?”.

La camera dei rappresentanti con sede a Tobruk ritiene “nullo e privo di valore” il memorandum d’intesa. Secondo i parlamentari, la questione non “è soggetta a interessi individuali né agli interessi dei paesi europei, in particolare della repubblica italiana”. E continuano: “L’Italia sta cercando di sbarazzarsi del peso e dei pericoli dell’immigrazione clandestina per la sicurezza, l’economia e la società in cambio di un po’ di sostegno materiale alla Libia, che è peraltro già obbligata a fornire”.

In molti hanno sottolineato come già nel 2008 la Libia avesse firmato un accordo dettagliato sullo stesso argomento. Si chiedono se il nuovo memorandum d’intesa sia stato un tentativo da parte dell’Italia di disattendere gli obblighi imposti dal precedente trattato o di sfruttare la situazione di vulnerabilità della Libia. In una dichiarazione, la commissione nazionale sui diritti umani in Libia ha espresso un netto rifiuto del memorandum d’intesa o di qualsiasi altro “progetto, protocollo, convenzione o memorandum politico o legale che possa suggerire il rimpatrio dei migranti africani o il loro reinsediamento in Libia”.

L’assenza del punto di vista dei migranti
Come ho detto prima, quasi tutte le fonti libiche tendono a concordare su questa vicenda. Cosa ancora più significativa, nonostante la grande varietà di punti di vista sono tutte accomunate anche da quello che non dicono. Criticando il memorandum d’intesa, nessuno ha espresso preoccupazione per le condizioni disumane che i migranti subiscono e continueranno a subire. Leggendo le notizie sui mezzi d’informazione internazionali, capita di imbattersi in titoli come questo: “I leader dell’Ue discutono di come il blocco dei 28 stati membri possa impedire ai migranti di imbarcarsi su navi di fortuna sulla costa libica per attraversare il Mediterraneo diretti in Europa”.

In altri termini, finché tenete i migranti lontani dalle coste europee possiamo fare finta che vada tutto bene: quello che succede a Tripoli resta a Tripoli. Le condizioni dei migranti sono già un incubo in Libia. Perciò firmare un documento che istituisca per loro una Guantanamo libica è servito soltanto a sancire ufficialmente le loro sofferenze e a suggellare la loro situazione disperata. L’assenza del punto di vista dei migranti limita la possibilità di una vera comprensione della situazione e di un vero dibattito.

Definiamo noi stessi e i nostri rapporti con gli altri soprattutto in base ai dettagli sul nostro conto che permettiamo agli altri di conoscere: quanto riveliamo di noi stessi, e come e quando scegliamo di rivelarlo. In una prospettiva più ampia, una catena di informazioni stabile, illimitata e senza censure è essenziale per comprendere qualsiasi condizione umana. Nella vicenda relativa alla crisi dei migranti e alle soluzioni proposte osserviamo ciò che accade quando le persone più colpite da una situazione non hanno alcuna voce in capitolo, quando il loro punto di vista viene ignorato. Nonostante l’accesso immediato a un’enorme quantità di informazioni, il resto del mondo continua a non sapere molto di quello che accade sull’altra sponda del Mediterraneo.

Venti mesi fa mi sono unito ad Andrea Segre nel suo viaggio per la realizzazione del film L’ordine delle cose. Mi ha spiegato la sua idea di aprire un varco sulle storie che accadono lontano dai riflettori quando si firma un accordo di questo tipo. Sono convinto che la sua idea diventerà un’importante testimonianza cinematografica.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

«Nel Libro Bianco del presidente della Commissione europea per la prima volta viene avanzata l’idea che in tema di costruzione europea l’Unione possa anche fare dei passi indietro».

Sbilanciamoci.info, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

Che il progetto dell’Unione Europea sia da tempo in una crisi profonda non è certo una questione controversa. I sintomi del male sono chiari: basti ricordare il crescente euroscetticismo che si va diffondendo dovunque e l’attacco quasi quotidiano, da parte dei rappresentati politici di molti paesi, verso Bruxelles.

Per parte nostra, su di un piano politico, ricordiamo come l’Europa si sia intrappolata in una deriva tecnocratica e neo-liberista, con la corsa all’austerità, le svalutazioni “interne” e le cosiddette riforme “strutturali”, i favori ai paradisi fiscali, il taglio dei bilanci comunitari, l’assenza di politiche di sviluppo.Semmai oggi le incertezze planano sul che fare di fronte a tali minacce e a tali problemi.

Alcuni progetti di riforma

Negli ultimi mesi si vanno elaborando da diverse parti dei progetti di riforma su tutta o su una qualche parte della costruzione europea. Meraviglia semmai che esse non siano poi troppo numerosi, né che il dibattito in merito si presenti come molto vivace, o di livello adeguato, sintomi forse anche questi di una crisi profonda del progetto europeo.

Intanto c’è questa proposta della Merkel mirante ad un’Europa a più velocità, idea sufficientemente vaga per dare adito a diverse possibili interpretazioni; sempre in Germania, invece, Schultz, che comunque è d’accordo su questa ipotesi della cancelliera, vuole peraltro chiudere con la politica di austerità, da lui considerata come una delle cause fondamentali della crisi e vuole invece introdurre gli eurobond per migliorare le prospettive delle economie indebitate.

Ad un summit tenutosi a Versailles il 6 marzo, anche Francia, Italia e Spagna si sono dichiarate d’accordo con l’idea della Merkel, anche se temiamo che ogni paese, utilizzando l’espressione, pensi a cose almeno in parte diverse da quelle degli altri.

D’altra parte, si va discutendo di portare avanti la costruzione europea mettendo in comune in tutto o in parte il settore della difesa; ma non ci sembra poi una grande idea quella di rilanciare il progetto cominciando proprio da lì. Eccellono nell’esercizio pan-militare i governi italiano e francese.

Va ancora segnalato che il parlamento olandese sta avviando una commissione di inchiesta per valutare i pro ed i contro del mantenimento del paese nell’eurozona (Barber, 2017). Trattandosi di uno dei sei paesi fondatori della costruzione europea questo non appare certo un bel segnale.

Per quanto riguarda l’Italia, hanno destato un certo clamore le conclusioni a cui è giunta una ricerca della società Macrogeo, una creatura di Carlo De Benedetti, che da per scontata una chiusura dell’esperimento europeo e l’emergere invece di un polo mega-tedesco, cui farebbero capo paesi quali l’Olanda, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, alcune realtà scandinave ed eventualmente il Nord dell’Italia, che così si staccherebbe dal resto del paese.Come si vede il livello di confusione appare piuttosto elevato.

Le dimissioni di Juncker

Juncker aveva già fatto parlare di se qualche settimana fa, quando sembrava che egli fosse sul punto di presentare le dimissioni dalla carica, essendo la Commissione al crocevia di una serie di contraddizioni difficilmente sanabili. Egli ha apparentemente poi cambiato idea. Ricordiamo, a proposito dei problemi che egli può avere incontrato a Bruxelles negli ultimi tempi, solo un episodio che riguarda il nostro paese. La Commissione, ponendo molte speranze nelle promesse di rinnovamento del governo Renzi, aveva allentato le briglie sui conti dell’Italia per ben 19 miliardi di euro; col risultato di ricevere in cambio degli insulti dal capo del governo della penisola, che voleva ottenere ancora di più, ma contemporaneamente anche gli attacchi della Merkel, che gli ricordava come lo stesso Renzi avesse poi utilizzato le concessioni della Commissione per il varo di misure quali l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e il versamento di denaro ai giovani per permettere loro di comprare i biglietti per il cinema.

Il libro bianco

In questo clima si colloca il cosiddetto “libro bianco” del presidente della Commissione, reso pubblico ai primi di marzo e presentato come un contributo della stessa Commissione al dibattito sull’avvenire dell’Unione. Il testo dovrebbe essere dibattuto al summit di Roma del 25 sempre di questo mese, quando sarà celebrato il 60° anniversario del trattato di fondazione dell’Unione.

Ricordiamo che il testo sarà completato da qui all’estate da cinque rapporti specifici, che esploreranno “l’avvenire dell’Europa sociale”, “le risposte alla globalizzazione”, “le vie per l’approfondimento dell’unione economica e monetaria”, “la difesa” e “la finanza”.

Le trenta pagine del fascicolo appena pubblicato presentano cinque possibili scenari.

Il primo è quello che l’Unione si limiti al solo mercato unico. Il libro bianco sottolinea i lati negativi dell’ipotesi, quali la perdita della libertà di circolazione, i pericoli per la stabilità finanziaria, la riduzione di status e di peso internazionale dei vari paesi europei e di tutto il continente.

Lo scenario più ambizioso propone invece un’Europa federale. Ma l’ipotesi non appare in sintonia con l’aria del tempo ed essa viene valutata come oggi politicamente non credibile.

Il terzo scenario è quello dello status quo, linea chiaramente aperta a grandi criticità, gran parte delle quali conosciamo bene già adesso, ma che sarebbero presumibilmente destinate ad aggravarsi nel tempo.

Restano i due ultimi scenari.

Il primo rilancia l’idea della Merkel, ormai appoggiata dagli altri grandi paesi dell’Unione, di un’Europa a più velocità. Le politiche comuni attuali e qualcuna di quelle future rimarrebbero per tutti i paesi, ma alcuni di essi potrebbero decidere di andare più avanti, caso per caso, come nella difesa, nella giustizia, nel diritto commerciale, nell’armonizzazione fiscale.

L’ultimo scenario, possibilmente complementare a quello precedente, vedrebbe l’Unione restituire ai singoli Stati alcune competenze oggi collocate a Bruxelles. Si tratterebbe di “fare meno ma meglio”, in tema ad esempio di politiche regionali, nonché di parte delle politiche sociali e dell’occupazione, delineando anche soltanto degli standard minimi su altri soggetti, come ad esempio la protezione dei consumatori e gli standard sanitari.

Va in proposito segnalato che è la prima volta che qualcuno suggerisce il principio che in tema di costruzione europea si può anche arretrare.

Parallelamente, invece, si dovrebbe andare più avanti su alcuni grandi dossier politici ed economici, quali la politica dell’innovazione, il commercio estero, i migranti e il diritto d’asilo, la protezione dei confini, la difesa. Ai maggiori poteri in alcune aree dovrebbe poi anche corrispondere il potere di implementare direttamente da parte di Bruxelles le decisioni collettive una volta prese.

Pur senza avanzare preferenze nette, comunque il documento suggerisce che sarebbero le due ultime opzioni quelle preferite.

Conclusioni

Come capo della Commissione, in presenza dei gravi problemi già prima ricordati, nonché della scadenza del 60° anniversario dell’Unione, della pendenza della Brexit e infine delle supposte minacce che pongono oggi gli Usa di Trump e la Russia di Putin, Juncker non poteva certo mancare di fare il punto sulla situazione e di aprire ufficialmente il dibattito.

Peraltro il suo approccio, pur con qualche spunto positivo, non ci appare complessivamente molto convincente e comunque esso fa intravedere una risposta molto debole di fronte ai problemi che si pongono.

Si può ricordare, tra l’altro, che negli ultimi anni molti studiosi ed operatori hanno elaborato delle idee e pubblicato delle ricerche che affrontano il problema in maniera anche molto approfondita. Di tutte queste analisi nel libro bianco ci sembra che non ci sia sostanzialmente traccia.

E’ vero che come presidente della Commissione Juncker non può imporre ai vari Stati le sue idee, ma comunque uno sforzo maggiore poteva, a nostro parere, essere fatto non solo a livello di analisi, ma anche di proposte.

Al di là di questo, entrando brevemente nel merito di quello che nel documento manca, ci sarebbe, tra l’altro, bisogno di attenzione ad una maggiore giustizia sociale ed economica, di andare inoltre verso la cancellazione delle politiche di austerità, di avviare grandi investimenti pubblici verso l’economia verde, le nuove tecnologie e la riduzione delle diseguaglianze tra paesi, in vista anche della messa a punto di un modello sociale europeo. Per non parlare della necessità di rinnovare la macchina organizzativa di Bruxelles, oggi tra l’altro facile preda di tutte le lobbies, come mostra in questi giorni il caso dei glifosfati e di cambiare alcuni principi di funzionamento, come quello dell’unanimità.

Ma di tutto questo nel documento non c’è traccia. Il progetto europeo, se si baserà sulle sole ipotesi del libro bianco, non sembra presentare motivi di entusiasmo.

Più in dettaglio, ad esempio sul piano sociale Juncker aveva dichiarato nel 2014 «…io vorrei che l’Europa avesse la “tripla A” sociale, altrettanto importante della “tripla A” economica e finanziaria…» (Ducourtieux, 2017). Ma la realtà non appare certo in linea con tali dichiarazioni. Per il vero, l’8 di marzo si è tenuto un “vertice sociale tripartito”, tra i dirigenti dell’Unione, i rappresentanti del padronato e quelli dei sindacati europei. Ma si è trattato, come al solito, di un dialogo tra sordi. La Commissione prepara inoltre per il 26 aprile la pubblicazione di una piattaforma europea dei diritti sociali, ma sono in pochi ad aspettarsi qualcosa da tali sforzi (Ducourtieux, 2017).

Testi citati nell’articolo

-Barber T., Europe starts to think the untinkable : breaking up, www.ft.com, 2 marzo 2017

-Ducourtieux C., L’Europe a bien du mal à prendre l’accent social, Le Monde, 8 marzo 2017

il manifesto, 9 marzo 2017

Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.

Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.

No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.

Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.

Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.

E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.

Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.

Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?

Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.

In tante abbiamo cercato la strada, da donne libere e sempre impreviste, come diceva Carla Lonzi. Ora possiamo. Partiamo da qui.

rovare vie diverse dalla ripetizione del passato da un lato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte della tessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle sue differenze e molteplicità costitutive". Internazionale, 8 marzo 2017

Mentre Donald Trump, e con lui i suoi fans di destra e purtroppo anche disinistra, fantasticano un’improbabile de-globalizzazione, spunta (o rispunta)un movimento femminista che ha tutte caratteristiche di un movimento globale.Mentre i media mainstream capovolgono l’elezione di Trump nella sconfitta delfemminismo perché il famoso tetto di vetro non è stato infranto neanchestavolta, spunta (o rispunta) un movimento femminista che mette il tetto divetro suddetto all’ultimo posto della sua agenda, e al primo la vita. Mentrel’egemonia del capitalismo neoliberale vacilla ovunque sotto i colpi di unacrisi ormai decennale, e ovunque ripropone per tutta risposta le sue ricettefallimentari senza trovare a sinistra ostacoli rilevanti e aprendo a destra viedi fuga razziste e fascistoidi, spunta (o rispunta) un movimento femminista chesi riappropria della centralità femminile nella produzione e nella riproduzionesociale, ne fa una leva sovversiva e chiama tutti, donne uomini e altri generidi ogni paese e di ogni colore, a unirsi a questa spinta sovversiva. Sono icolpi d’ala che solo la politica delle donne è capace periodicamente diinventarsi, gli scarti imprevisti dall’agenda politica e mediatica del presenteche solo la politica delle donne è capace periodicamente di produrre. E chefanno dell’8 marzo di quest’anno una giornata diversa dal solito, inedita,irrituale, inaugurale.

Ma non estemporanea. Lo sciopero delle donne dal lavoro e dalla curadichiarato per oggi in una quarantina di paesi del mondo – in Italia dalla rete“Non una di meno”, con l’adesione dei sindacati - arriva a coronamento di unanno che ha visto i movimenti femministi al centro, e alla guida, dimobilitazioni straordinarie, su un’agenda ben più ampia e articolata di quella“di genere”. L’inizio fu il Black Monday polacco, il 3 ottobredell’anno scorso, quando un’imponente manifestazione sotto la pioggia e gliombrelli bloccò la legge che voleva proibire l’aborto, prima azione politicacontro i governi reazionari che si sono succeduti in quel paese. Poi il MércolesNegro contro la violenza sessuale in Argentina il 17 ottobre,convocato dalla rete NiUnaMenos, sigla migrata in Italia con la manifestazionecontro la violenza del 26 novembre, tanto sorprendente per quantità e qualitàquanto ignorata da giornali e tv, all’epoca troppo impegnati nello sfornare sondaggisulla rimonta del sì al referendum costituzionale poi stravinto dal no. Infinel’immensa Women’s March del 21 gennaio a Washington e ovunquenel mondo, in risposta alla misoginia suprematista di Trump, tre milioni didonne e uomini in piazza negli Usa e due nel resto del pianeta, altro cheprotezionismo e de-globalizzazione: America first, ma intutt’altra direzione da quella neopresidenziale.
Vengono infatti da quella marcia, e sono vistosamente marcate dal lessicopolitico radicale americano, le due parole-chiave, inclusive eintersectional, che orientano la giornata di oggi.
Inclusivo, perché l’organizzazione e la regia della mobilitazione èfemminile ma apre a chiunque ne condivida le intenzioni, lasciandosi ilseparatismo alle spalle. Intersezionale, perché il dominio di genere siintreccia con altri dispositivi di dominio e di esclusione, di classe erazziali in primis, e domanda in risposta “l’alleanza dei corpi”, per dirlo conil titolo dell’ultimo libro di Judith Butler, di tutte le soggettivitàinteressate.
Perché allora l’8 marzo, e perché le donne al centro e al timone? Sipossono dare due risposte. La prima è che le donne e il femminismo sono state esono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale, e non stupisce chene diventino il soggetto antagonista di prima fila. L’egemonia neoliberale devemolto della sua presa al modo in cui ha cercato di trascrivere la libertàpolitica e la padronanza sul proprio destino guadagnate dalle donne nelfemminismo in autoimprenditorialità e libertà di consumo, nonché al modo in cuiha “valorizzato”- nel senso dell’estrazione capitalistica di valore - il lavoroproduttivo, il lavoro di cura, l’intera vita delle donne. Non a caso la praticadi lotta scelta stavolta è quella dello sciopero: per sottrarsi a questosfruttamento, e per mostrare – per sottrazione, appunto – quanto il lavorofemminile - visibile e invisibili, contato e non contato nelle statistiche,retribuito e gratuito – sia tanto cruciale per far girare la macchinaproduttiva e riproduttiva quanto sottostimato e sottovalutato, in tutti i sensidel termine.
La seconda ragione è politica, ed è tutta inscritta nella genealogia enella memoria del femminismo. In una stagione come quella di oggi, in cui lapolitica ufficiale di opposizione, orfana delle sue appartenenze e strutturestoriche, sembra non trovare vie diverse dalla ripetizione del passato da unlato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte dellatessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle suedifferenze e molteplicità costitutive. E’ l’arte della tessitura di relazionilibere ma non per questo volatili, che consente al movimento delle donne diandare e venire dalla ribalta della cronaca, ma di tornare sempre, imprevisto,quando e dove occorre. Non a caso si chiude con un richiamo a Carla Lonzi iltesto di Non Una di Meno che convoca lo sciopero di oggi: “Il SoggettoImprevisto ha fatto nuovamente irruzione nella politica e nelle nostre vite.Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo unamodificazione totale della vita”.

"La trappola dei due redditi", un testo americano pre-crisi, mostra come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito stava trascinando la middle class alla bancarotta». il manifesto, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

È almeno a partire dalla larga circolazione dei Grundrisse, negli anni ’60 del secolo scorso, che i lettori di Marx hanno cominciato a familiarizzare con il concetto di general intellect. Una stupefacente divinazione del futuro che noi vediamo all’opera sotto i nostri occhi.

Il capitalismo si appropria dei saperi prodotti dall’anonima intellettualità di massa attiva nella società e la trasforma in profitto. Una inedita forma di sfruttamento del “sapere produttivo” che rinnova la l’accumulazione illimitata del capitale. Una immensa massa di lavoro gratuito che alimenta crescenti profitti privati.

Credo che proprio tale acquisita consapevolezza ci consenta oggi di scorgere in più piena luce la parte forse più nascosta della storia umana: il particolare sapere e il lavoro delle donne. Si tratta di un occultamento millenario. Basterebbe pensare al lavoro contadino, vale a dire all’attività produttiva più antica e più lunga della nostra storia. In questa vicenda le donne hanno svolto un ruolo decisivo di cui gli storici non trovano tracce, perché nessun documento l’ha mai registrato se non indirettamente.

Esse, ad es. selezionavano ogni anno le sementi delle piante per ricominciare il ciclo agricolo ed erano le prime a verificare la riuscita della raccolta perché, per la divisione del lavoro interna alla famiglia, erano poi loro adibite alla cucina. Era il loro parere, dato ai mariti o ai figli coltivatori, che orientava il progressivo miglioramento genetico delle piante e del modo di coltivarle. E naturalmente tale specifica attività non le sottraeva al loro mestiere più antico: produrre prole, allevarla, portarla alla condizione di forza-lavoro. Anche questo un sapere molto speciale, raffinato nel corso dei secoli.

L’avvento del capitalismo fa emergere il lavoro nascosto delle donne, con lo sfruttamento pieno in fabbrica. E’ una pagina storica ben nota. Ma è anche ben noto che dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo sino ad oggi il lavoro della donna, in fabbrica o in ufficio, non ha mai sostituito – se non in parte e per le classi sociali alte – l’antico lavoro domestico, fondato sui saperi vernacolari trasmessi da madre in figlia. Un sapere non codificato, che ha radici antropologiche profonde, spesso non surrogabile e insostituibile. Ad esso, è il caso di notare, è affidata la riproduzione della forza lavoro maschile oltre che della propria. Gli uomini ( e le donne) si possono presentare ogni giorno in fabbrica o in ufficio perché questo sapere sempre all’opera prepara le retrovie del lavoro produttivo. E’, potremmo dire, il general intellect femminile senza il quale il capitale non potrebbe alimentare la sua insonne bulimia.

Allevare i figli, cucinare, pulire la casa, aggiustare i letti, fare il bucato, lavare i piatti e altre attività pulviscolari hanno continuato a gravare sulle figure femminili aggiungendosi al lavoro subordinato. Un doppio lavoro (oggi attenuato nelle giovani coppie) che costituisce un gravame specifico delle donne nelle società capitalistiche contemporanee. Un fardello aggravato dal fatto, ben noto, che il lavoro domestico è fra i più ripetitivi e frustranti della vita sociale. Mentre, a dispetto dei due lavori svolti, è stupefacente constatare come la condizione complessiva della famiglia operaia abbia di poco migliorato il suo stato laddove il welfare non viene in soccorso. Alla “commercializzazione della vita intima” è corrisposto un allungamento del tempo di lavoro familiare, ma non un incremento significativo del reddito.

Due autrici americane, cinque anni prima della recente Crisi, hanno potuto scrivere un testo rivelatore del modo con cui il capitalismo americano aveva assorbito l’intero lavoro familiare, senza ripagare con un reddito adeguato. Elizabeth Warren e Amelia Tyagi, in The Two Income Trap (New York, 2003), la trappola dei due redditi, hanno mostrato come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito, stava trascinando - per la necessità della donna di monetizzare tutti i lavori svolti prima da lei - la middle class nella bancarotta. Come nella Gran Bretagna del XIX secolo, descritta nel Capitale di Marx, il capitalismo fagocitava l’intera famiglia nella macchina produttiva e gli prendeva l’intera vita.

A fronte di queste considerazioni oggi si può tornare a riflettere sulle differenze tra il movimento femminista degli anni ’70-80 e quello delle ragazze di oggi impegnate sul territorio universale del lavoro per abbracciare quello del genere. Forse allora si trattava di un passaggio necessario, al fine di scoprire più profondamente la specificità femminile, ma esso non ha saputo legare questo versante del corpo, oltre che antropologico, a quello sociale, più facilmente traducibile in progetto e politico. Oggi il movimento Nonunadimeno, che si presenta anche con uno sciopero, cioè con la volontà di colpire il potere capitalistico, appare come l’avanguardia di un’altra possibile storia.

«New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti». il manifesto,

Scoccata la mezzanotte, nei social già era chiaro che questo #lottomarzo sarebbe stato anche in Italia una irruzione straordinaria di lotta e gioia della politica, di passione com/movente.

Il feminiStrike globale, che ha reso questo 8 marzo una giornata di lotta senza precedenti, di ridefinizione stessa della forma-sciopero, riafferma la potenza della marea partita dalle donne argentine di Ni una menos. Chissà se al New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti.

Credo che il movimento dei movimenti delle donne oggi sia la forza politica che può agire la rottura in e con questo presente, affermandosi come soggetto radicalmente altro dal dominio capitalistico e patriarcale: ha preso corpo in Brasile nella lotta delle lavoratrici domestiche, negli Usa contro il sessismo di Trump, in Polonia contro il tentativo di rendere reato penale l’aborto, fino allo sciopero globale, sociale e politico, delle donne convocato per questo 8 marzo in più di 40 paesi.

Ieri anche dentro e fuori il Parlamento europeo a Bruxelles dibattiti, flash-mob e interruzione dei lavori. Una marea ha invaso tantissime città europee e non sono elencabili le tantissime manifestazioni in Italia: più di trentamila persone solo a Roma.

In Italia la marea aveva già portato in piazza il 26 più di 200.000 persone, dato vita ai tavoli di Roma e Bologna, al piano femminista contro la violenza e agli 8 punti per l’8 marzo, con la proclamazione dello sciopero femminista e dai generi, dal lavoro produttivo e riproduttivo. Una marea che sta cambiando ciascuna di noi, che ha fatto irruzione nella quasi totale assenza di conflitto sociale, connettendo lotte, desideri, bisogni, nel vuoto di parola, di senso e consenso di una politica ancora molto patriarcale, nei contenuti e nelle forme, anche a sinistra.

Una gioia potente, che può rivoluzionare lo spazio europeo e fare la differenza.

La straordinaria forza di questo movimento è anche nella capacità di leggere criticamente il presente, mostrando l’intersezione fra diverse forme di disciplinamento e dispositivi governamentali (come quelli neoliberisti, patriarcali, eteronormativi, razzisti) nell’estrarre valore dall’intera vita. Ed è proprio la femminilizzazione come messa al lavoro dell’intera vita di donne e uomini agita dal dominio neoliberista che ha reso oggi evidente come da una posizione femminista si possano produrre pensiero e pratiche politiche per tutte/i: soggetti-non-donna, queer, trans che si riconoscono nelle differenze e nella posizione femminista.

Il reddito di autodeterminazione, che ha una lunga genealogia femminista, è una proposta in cui si riconoscono oggi donne e uomini interamente «messi a valore» dalla femminilizzazione del lavoro neoliberista. Reddito di autodeterminazione come reddito di base incondizionato, reddito che reclamiamo come riconoscimento della vita attiva produttiva e riproduttiva e del diritto all’esistenza. Una «utopia concreta» che racconta anche quanto sia indispensabile il pensiero politico femminista per rivoluzionare lo spazio europeo e ripensare l’idea stessa di cittadinanza, oltre il familismo e il lavorismo che la connotano negli Stati nazione, oltre i dispositivi di inclusione ed esclusione, nello «smascheramento» della qualità borghese e neutro-maschile del «cittadino» oggi rimossa nei tanti cittadinismi di ritorno.

Una proposta che ci rinvia intera la necessità di rompere e rivoluzionare questa Ue fondata sul neoliberismo, che stenta perfino a riconoscere il reddito come strumento di redistribuzione. Certo, se partiamo dal disastro italiano, rappresentano passi in avanti anche la risoluzione del Pe del 2010 sul reddito minimo (equivalente almeno al 60% del reddito mediano) come misura di contrasto alla povertà, o la risoluzione approvata lo scorso gennaio sul «social pillar» in cui si «invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell’Ue, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze». Ma è evidente che non solo il riconoscimento di reddito per l’autodeterminazione, ma perfino di un reddito minimo è incompatibile con l’attuale architettura Ue disegnata dai Trattati e dai patti di stabilità.

Peraltro, i lavori e gli studi prodotti dalla Commissione Femm del Pe così come dal Gendermainstraming Network (ogni Commissione del Pe ha una responsabile del gender impact dei suoi lavori) dimostrano come l’Ue sia lontana non solo da essere uno spazio di autodeterminazione per donne e uomini, ma perfino da una reale gender-equality. Come riporta Differences in men’s and women’s work (studio del 2016 per Femm), il gender pay gap medio dell’Ue si attesta intorno al 16.4%, ma il gender overall earnings gap arriva al 41,1%. Le donne sono la gran parte del part-time non volontario e il gender-pension gap è al 40,2%.

La disuguaglianza economica continua ad essere una forma di violenza diffusa nello spazio europeo. Peraltro nella Ue in cui una donna su quattro ha subito violenza fisica, 14 SM su 28 (ormai 27) non hanno ancora ratificato la Convenzione di Istanbul.

Per uno spazio europeo libero da ogni forma violenza contro le donne occorre davvero che la marea femminista si aggiri per l’Europa.

A proposito della difesa della lingua italiana e di alcuni casi recenti. Una cosa è combattere l'imperialismo linguistico (strumento d'un più sostanziale imperialismo politico), altra cosa è difendere la coesistenza di lingue e culture diverse. Con riferimenti

Ci sembra che la questione posta dal recente articolo di Ainis (la Repubblica, 8 marzo) , e da altri difensori della lingua italiana, vada inquadrata in un panorama un po' più ampio, tenendo conto che la questione linguistica è sempre collegata molto strettamente a quella del potere. I due episodi citati da Ainis (quello milanese e quello altoatesino) esprimono situazioni e suscitano riflessioni molto diverse, sebbene anche legate tra loro.

Il Politecnico di Milano e l’inglese

Il primo episodio, quello del Politecnico di Milano è sintomo e conseguenza del sistema di potere che il mondo anglosassone (ma in particolare gli Stati uniti d'America), ha costruito da molti decenni. Precisamente da quando la “Dottrina Truman” (1947), proclamata in coincidenza con la rottura dell’unità antifascista, trasformò rapidamente Washington nella capitale di un Impero mondiale.

Il consolidamento della lingua anglosassone come dominante nell’economia capitalistica fu una delle tante conseguenze del nuovo assetto dei poteri nel pianeta. Esso si sviluppò poderosamente con la nuova forma del regime economico, ideologico e sociale del capitalismo: il neoliberisno (o, nell’accezione anglosassone del termine, il “neoliberalism”). Noti sono ai nostri lettori i momenti e gli strumenti rilevanti nel percorso impresso alla globalizzazione dal potere dominante, sa sul piano della teoria che su quello delle azioni concrete nei gangli del potere reale.

Si tratta delle teorie elaborate e delle azioni condotte dalla della Mont Pèlerin Society (1947) e dalla Trilateral Commission (1973). Si tratta, sul piano gli eventi storici, dell’allineamento della Cina di Deng Xiaoping alle pratiche del capitalismo (1982), e del crollo del capitalismo di Stato dell’Unione sovietica, simbolicamente espresso dall’abbattimento, da parte del governo comunista, del Muro di Berlino (1989). Tutto ciò contribuì a realizzare un modello di società nella quale - in tutte le sfere in cui si dovevano o volevano scambiare nozioni e azioni in aree non localistiche - il trionfo della lingua anglosassone era l’inevitabile conseguenza.

È evidente che questo processo ha come suo “effetto collaterale” la tendenziale scomparsa delle altre lingue nazionali, ridotte a idiomi parlati solo localmente (quasi dialetti) o nell’ambito di particolari ristrette isole dei saperi ultraspecializzati (quasi gerghi). Ma è altrettanto evidente che non si salvano le diversità linguistiche) se non si coglie la sfida tutta politica che la questione implica: la sfida del radicale cambiamento del regime economico, sociale, culturale e politico del neoliberismo.

Bolzano e il Sudtirolo

Un’altra storia è quella raccontata dall’esperienza bolzanina. Molti hanno dimenticati come si giunse all’assetto politico-amministrativo dell’attuale regione a statuto speciale denominata Trentino - Alto Adige/Südtirol. La storia iniziò alla fine della Prima guerra mondiale quando gli accordi di pace attribuirono all’Italia una regione austriaca originariamente denominata Südtirol (Tirolo del sud). Dopo la seconda guerra mondiale gli accordi di pace si conclusero con la formazione della regione italiana denominata, appunto, Trentino-Alto Adige/Südtirol. L’accordo fu raggiunto con il cosiddetto lodo De Gasperi-Gruber, attraverso una serie di tappe e di reciproche concessioni. Una regione italiana si, ma costituita da due province: una di popolazione e storia prevalentemente italiana, quella di Trento, e una a predominanza austriaco-ladina, Bolzano. Ma a differenza delle altre ragioni italiane, quella “mista” non è la sede del potere legislativo: legiferano i due consigli provinciali. E il consiglio regionale è semplicemente la somma dei due consigli provinciali Perciò appunto quando nelle normative italiane ci si riferisce alle regioni si adopera la dizione: le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano".

In quell’area si parlano tre lingue: l’austro-tedesco, l’italiano e il ladino . Nel regime austroungarico le minoranze linguistiche erano generalmente rispettate, ai tempi della dominazione austroungarica toponimi tedeschi e ladini convivevano tranquillamente. Ainis, critica l'azione della "commissione paritetica Stato-Provincia autonoma di Bolzano la quale ha annunziato una riforma della toponomastica, per cancellare il 60% delle denominazioni geografiche in lingua italiana. Nell'articolo si ricorda, giustamente, che, mentre nel trentino la lingua ufficiale è l'italiano, in quella sudtirolese vige il bilinguismo. Ainis rimpiange, giustamente, che «la Vetta d’Italia, il punto più a nord della penisola, d’ora in poi si chiamerebbe Glockenkarkopf», cancellando la doppia dizione in vigore oggi. Ma non ricorda ai lettori che la Vetta d’Italia, era stata così ribattezzata dall’irredentista italiano Tolomei già nel 1904, mentre la popolazione locale continuava a nominarla con il tradizionale toponimo austriaco.

È tipico dei regimi totalitari, quando si impadroniscono di un territorio e di un popolo, modificare i nomi dei fiumi, monti, laghi, città, così come la lingua insegnata nelle scuole e adoperata nei documenti ufficiali. Si produce così così un effetto di spaesamento, un annullamento del passato, che consolida la presa del potere e tarpa le ali di ogni possibile resistenza al regime. Anche gli italiani si comportarono così negli anni del fascismo,

Tornando al Sudtirolo, l’avvento in Italia del regime fascista provocò un’italianizzazione forzata dell’intera area. I cognomi furono italianizzati (a partire da quelli dei dipendenti pubblici), e così la toponomastica. La popolazione di lingua germanica venne invitata a trasferirsi nelle limitrofe province austriache e popolazione di origine italiana a impiantarsi nella provincia di Bolzano. Come del reso era avvenuto in Slovenia, nel breve periodo dell'occupazione italiana. Nella Repubblica italiana succeduta alla sconfitta del nazifascismo si raggiunse un equilibrio nelle regioni di confine si era trovato: il lodo De Gasperi-Gruber e il bilinguismo della provincia/regione al confine con l’Austria lo testimonia.

Oggi la ventata nazionalistica che soffia gelida su tutto il mondo fa riemergere antiche rivendicazioni, ed è giusto segnalarlo. Ma non è giusto ignorare che gli italiani non si comportarono sempre da “brava gente” .

Ancora oggi, del resto, le reazioni di gran parte degli italiani all’arrivo di persone che vengono da altre terre e altre storie, praticano diverse religioni e parlano diverse lingue genera reazioni che, nei casi più favorevoli (dove cioè si sia superato positivamente la soglia della ”prima accoglienza”) si concretano nella pretesa di operare una italianizzazione forzata della lingua e dei costumi dei migranti, al di là dell’apprendimento necessario a chiunque viva in un paese in cui la maggioranza degli abitanti parli una lingua diversa.

Per superare gli sbarramenti e non alimentare i nazionalismi occorre praticare, nell’esperienza quotidiana, la consapevolezza che viviamo in un mondo di diversi, e che anche le diversità linguistiche e culturali (come quelle della botanica e della natura) non sono una minaccia ma una ricchezza. La condizione iniziale è che ci sia il rispetto del diverso; il percorso virtuoso è che dal rispetto di passi alla curiosità, e infine alla conoscenza. Impieghiamo tanto tempo a imparare l’uso di ogni nuovo gadget elettronico; non sarebbe meglio impiegarne un po' per conoscere lo swahili o l'arabo, lo svedese o lo slavo?

Riferimenti
Si veda in proposito, su eddyburg, l'articolo di Michele Ainis Se tocca al giudice difendere l'italiano, la lettera di Giorgio Pagano a nome di un gruppo di docenti del Polimi No all'inglesizzazione degli atenei

il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2017 (p.d.)

La verità è dappertutto in fuga, sfrattata dalla post-verità (detta anche ). Ma nella nostra martoriata penisola è in rotta perfino la voglia di conoscere la verità dei fatti. Ci vorrebbero schiere di antropologi per analizzare questa peste sociale, ma proviamo almeno ad abbozzare tre possibili ragioni: il pettegolezzo, la memoria corta, l’abitudine al servo encomio.
Per cominciare: si tende a parlare non dei problemi che ci affliggono, ma delle chiacchiere che li circondano, amicizie inconfessabili, incontri clandestini, smentite imbarazzanti, segreti traditi, accordi sotterranei. Una ragione c’è: attraverso il filtro del gossip anche il più pressante dei problemi si polverizza, diventa una nebbia lontana. Da un lato, chi ogni giorno richiama ostinatamente fatti, prove, indizi; dall’altro, chi sfacciatamente nega tutto, intrecciando versioni contrastanti, furbizie, allusioni a mezza bocca. Ma in questo muro contro muro, come evitare che i dati di fatto e le vane vociferazioni sembrino avere egual peso? La pubblica opinione, sale della democrazia, resta disarmata, spinta a discutere non dei fatti ma degli schieramenti, delle appartenenze, del “chi sta con chi”. Di qui il frequente riflesso automatico di chi, colto con le mani nel sacco, si difende non opponendo fatti a fatti, ma dicendosi vittima di inveterate inimicizie.
Secondo meccanismo, la memoria corta. E qui basti un esempio, le scommesse sulla durata del governo e sulla data delle elezioni, fondate essenzialmente sulle frane e gli abissi che si aprono in zona Renzi nonché sulle intemperanze e i lanciafiamme dell’ex-leader, a non sui temi più impellenti della politica: per non dir altro, la gigantesca evasione fiscale, la disoccupazione giovanile, l’impoverirsi di quelle che furono le classi medie. Cade sempre più nel dimenticatoio anche quel colabrodo destinato al naufragio che sono le due divergenti leggi elettorali di Camera e Senato: entrambe di impianto residuale, dopo i tagli operati dalla Consulta. Sembra impossibile che il Parlamento sappia esprimere una legge elettorale decente, che non venga poi bocciata per manifesta incostituzionalità. Eppure, se e quando votare lo discutiamo pensando in primis a Renzi e alle disavventure del suo clan, senza nemmen sognare una legge elettorale che sia fatta per eleggere non i più graditi ai capipopolo, ma i migliori e i più competenti.
Infine, la conversione dal servo encomio al codardo oltraggio, nei confronti del medesimo ex-leader, che si è vista prima strisciare e poi esplodere a partire (guarda caso) dal pomeriggio del 5 dicembre. Al qual proposito, meglio lasciare la parola a chi ci guarda da lontano,anche se non ci vuol bene. L’ormai famoso documento JPMorgan che dettava ai Paesi “della periferia meridionale” (nominando espressamente l’Italia) l’impellente necessità di riforme costituzionali menzionò anche la necessità di battere il «consenso basato sul clientelismo politico». Questa fu l’unica fra le raccomandazioni da tanto pulpito ad essere ignorata dal governo Renzi, viceversa impegnatissimo a distribuire cariche e prebende sulla base di appartenenze tribali, ubbidienze, fedeltà, mappe del Granducato.
Su questo sfondo, il conformismo degli organi d’informazione e l’inclinazione a servire che è da secoli una delle costanti della storia nazionale (inclusi gli “intellettuali”) si travestono spesso da ottimismo: dare le buone notizie e tacere su quelle cattive vien ritenuta una forma di patriottismo.
Ecco perché nella Press Freedom Map elaborata da Freedom House e permanentemente esposta nel Newseum di Washington a un passo dalla Casa Bianca (dove, sia detto per inciso, le vetrine sono dell’italiana Goppion), il nostro è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo, a indicare che i suoi organi d’informazione sono classificati come “parzialmente liberi”. Come risulta dal sito relativo (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Press_Freedom_Index), la classificazione si basa su parametri che riguardano il pluralismo dell’informazione, l’indipendenza dei media e la loro tendenza ad auto-censurarsi, le pressioni politiche a cui sono soggetti. Nella mappa, il verde (più o meno intenso) indica i Paesi (come Svezia, Canada o Australia) che godono di maggiore libertà di informazione; il rosso bolla quelli (come Russia, Cina, Messico) dove la libertà è fortemente limitata. Il giallo segnala le zone del mondo che sono “a metà”; dove la libertà d’informazione ci sarebbe, ma per una serie di ragioni, dalle pressioni politiche all’autocensura alla sottomissione volontaria al potere, non viene pienamente esercitata. Ed è in questa compagnia che si trova l’Italia. Nella classifica 2016 offerta dallo stesso sito, svettano i Paesi a massima libertà di opinione: la Finlandia e i Paesi scandinavi, ma anche Nuova Zelanda, Costa Rica e Svizzera, seguiti da Austria (11° in classifica), Germania (16°), Canada (18°), Spagna (34°), Stati Uniti (41°), Francia (45°). In fondo alla classifica, Eritrea (180°), Nord Corea (179°), Cina (176°), Turchia (151°). E l’Italia? È al 77° posto, subito prima di Benin e Guinea-Bissau ma dopo la Moldavia (76°); fra i Paesi dell’Europa occidentale solo l’Albania (82°) e la Grecia (89°)hanno una performance peggiore della nostra.
Non è un grandissimo blasone, per il Paese di Dante, di Machiavelli, di Gramsci. Ma aiuta a capire perché da noi trionfa la post-verità.
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