La forza dirompente di un'analisi lucida di un mondo disumano e delle direzioni del cambiamento necessario: parole di verità che il pensiero dominante, non riesce a pronunciare, neppure a sinistra. Huffington Post online, 16 aprile 2017, con riferimenti
Solo papa Francesco riesce a bucare la cinica coltre del pensiero unico che domina il discorso pubblico italiano. Si deve a lui se il popolo che disperatamente vorrebbe una sinistra può ancora ascoltare una lettura del mondo 'da sinistra'. E leggere un programma per rifarlo, questo mondo.
Come un vento potente, la voce di Francesco spazza via le miserie di una cronaca inchiodata alla farsa delle primarie Pd, a una guerra di potere che umilia il servizio pubblico, a una inchiesta nata intorno ad un regolamento di conti nel giglio magico.
E rimette al centro ciò che al centro deve stare: la "scandalosa realtà di un mondo ancora tanto segnato dal divario tra lo sterminato numero di indigenti, spesso privi dello stretto necessario, e la minuscola porzione di possidenti che detengono la massima parte della ricchezza e pretendono di determinare i destini dell'umanità. Purtroppo, a duemila anni dall'annuncio del Vangelo e dopo otto secoli dalla testimonianza di Francesco, siamo di fronte a un fenomeno di "inequità globale" e di "economia che uccide" (così
la lettera che papa Francesco ha inviato al vescovo di Assisi nel giorno di Pasqua).
Ecco: qua c'è tutto. Un partito che avesse la forza di presentarsi alle elezioni italiane con questa analisi della realtà, e con il programma di rovesciarla dalle fondamenta, riuscirebbe immediatamente a riportare alle urne i milioni di italiani che da anni non ci vanno, e che solo per il referendum sulla deriva plebiscitaria del Paese hanno voluto esprimersi.
Ma non c'è traccia di una simile prospettiva.
Solo pochi giorni fa un politico che si autodefinisce "socialista" e che per questo è appena uscito dal Pd, ha detto, presentando la trasformazione di un monumento storico in un resort di "iperlusso", che "abbiamo il problema di costruire un'offerta turistica adeguata per i grandi ricchi del mondo, coloro che hanno bisogno di un'accoglienza straordinaria come quella che può essere fatta qui".
È davvero impressionante aver potuto ascoltare, nella stessa settimana e a pochi chilometri di distanza, due discorsi così paradossalmente opposti. L'uomo di governo socialista che si inchina al denaro e pensa che il nostro problema sia accogliere adeguatamente i grandi ricchi. E il sovrano di una teocrazia assoluta che denuncia con lucidità e spirito profetico che l'esistenza stessa dei grandi ricchi nega in radice ogni possibilità di vera democrazia.
Perché, come ha scritto Michel Foucault commentando un passo famoso della Politica di Aristotele: «Ecco la risposta di Aristotele (una risposta estremamente interessante, fondamentale, che entro certi limiti rischia forse di provocare un ribaltamento di tutto il pensiero politico greco): è il potere dei più poveri a caratterizzare la democrazia. E quand'anche i più poveri fossero di gran lunga i meno numerosi, è sufficiente che esercitino il potere perché si possa dire che vi è democrazia".
Finché la sinistra penserà che governare significhi oliare il binario dell'ingiustizia globale e offrire al popolo le briciole che cadono dal tavolo della mostruosa diseguaglianza che sfigura il pianeta, quella 'sinistra' sarà talmente indistinguibile dalla destra da non poter essere votata nemmeno volendo.
E al papa venuto dalla fine del mondo continuerà ad appartenere l'unica voce che annuncia incessantemente la necessità di rovesciare "la scandalosa realtà" di questo mondo.
Riferimenti
Qui potete scaricare il testo integrale della lettera di papa Francesco al vescovo di Assisi. Altri scritti di o su papa Francesco nella cartella Jorge Mario Bergoglio, in eddyburg
«. Ma soprattutto intrecciata con il dogma della supremazia colonizzatrice degli USA . il manifesto,
Trump è nel suo
buen retiro di Mar-a-Lago. Trascorrerà la Pasqua sollazzandosi sui suoi adorati campi da golf o l’irrequietezza di uomo umorale lo spingerà a sparare un altro dei suoi stupidi quanto micidiali
tweet di sfida? La flotta americana è in massima allerta di fronte alla Corea del Nord, basta il suo
i-phone, bastano le 140 battute del suo lessico, povero quanto provocatorio, per incendiare l’Asia, e non solo.
È a Mar-a-Lago, il presidente statunitense, e non a Camp David, la “Casa Bianca di vacanza” ufficiale, che lui disdegna, anche quando riceve ospiti come Shinzo Abe o Xi Jinpeng. Un piccolo dettaglio, che costa però milioni ai contribuenti americani, per la sicurezza sua e dei suoi cari. E che dice molto del personaggio. Del tutto allergico a obblighi e consuetudini dell’incarico. Così come può essere un dettaglio, ma non lo è, la decisione di non rendere noti i nomi dei suoi visitatori alla Casa Bianca. Sì, anche da questi “dettagli” si vede che Trump non è un presidente come quelli che l’hanno preceduto. Anche se c’è l’assillo del mondo politico e dei media – perfino i nostri politici e media – di “normalizzarlo” a tutti i costi, finalmente diventato il presidente americano che ci voleva, e lo mettono in contrasto con l’imprevedibile vulcanico sfidante di Hillary. No, il comandante in capo The Donald non fa che reclamare, anche nella sua nuova veste di bombarolo, il diritto a continuare a essere visto esattamente con le lenti con cui era osservato nella corsa presidenziale.
Certo, ha cambiato spartito, rispetto a quanto andava affermando durante la campagna elettorale. A dimostrarlo soprattutto i 59 tomahack lanciati su Khan Sheikhoun, e poi la “madre di tutte le bombe” sganciata in Afghanistan, e poi ancora i toni ultimativi nei confronti di Pyongyang, e poi ancora le parole sulla Nato, non più obsoleta.
Ma è un cambiamento che prefigura un mutamento di strategia? Che implica l’affermazione di una “dottrina”? Da isolazionista Trump è oggi interventista? «What is the strategy?», si chiede giustamente Elizabeth Warren dopo i missili lanciati contro la Siria.
Su un tipo come The Donald ogni etichetta va stretta. Non solo per la spudorata propensione alla bugia e al flip flopping, all’ondeggiamento senza principi, ma perché il personaggio merita un altro tipo di percezione, il più possibile scevra dalla tentazione di incasellarlo nelle categorie conosciute della politica novecentesca.
Trump è un prodotto della politica nel mondo di oggi. Di una politica permanentemente intrecciata con i media, nuovi e vecchi. In Trump non c’è l’ambizione a costruire un nuovo ordine mondiale, come pretendevano di fare i suoi predecessori dopo la caduta dell’assetto bipolare del mondo. America First è e continua a essere essenzialmente questo. Non tanto un isolazionismo d’altri tempi, ma la rinuncia ad affidare all’America un ruolo di ordinatore del mondo. «Noi non cerchiamo d’imporre a nessuno il nostro stile di vita», disse il giorno dell’insediamento a presidente. E all’indomani dell’attacco alla Siria ha ribadito: «Le nostre decisioni saranno guidate dai nostri valori e dai nostri obiettivi, rifiutando il percorso di un’ideologia inflessibile che troppo spesso conduce a conseguenze indesiderate».
Trump, con le sue azioni militari, non prova a disegnare un nuovo ordine americano, come in tanti, anche in casa nostra, gli implorano di fare. Trump è piuttosto l’uomo del disordine mondiale. Il disordine l’alimenta, non lo contrasta. E il suo fiuto politico consiste, come ha dimostrato ampiamente nella campagna elettorale, di saper muoversi nella confusione, con colpi sotto la cintura, in un continuo gioco d’anticipo e di spiazzamento degli avversari, adusi invece a partite in cui vigono regole condivise, non importa se spesso violate, ma del tutto a disagio invece nel misurarsi con un avversario capace di cambiare il campo di gioco stesso.
Ed è quello che sta facendo in questo momento Trump, portando la palla fuori del campo domestico, dove ha problemi non indifferenti, per poi tornarci il prima possibile. Attento com’è innanzitutto all’elettorato che l’ha portato alla Casa Bianca, la sua base, l’unico suo vero riferimento. Nell’immediato può anche allargare la platea, includendovi anche quegli americani che l’hanno avversato e che sicuramente non l’hanno votato, ma che, secondo i sondaggi, hanno approvato la sua azione in Siria. Ma sa anche benissimo che quell’ampliamento può evaporare facilmente, mentre è sicuro che – spingendosi troppo oltre come gendarme del mondo – s’allontanerebbero da lui i suoi elettori, quei contribuenti americani arrabbiati ai quali, come ha detto Rex Tillerson, «non importa niente dell’Ucraina».
La superconservatrice Ann Coulter scrive su Breitbart News, la rivista online diretta da Steve Bannon, che il presidente, colpendo la Siria, si è infilato in una «disavventura» che «viola ogni promessa della campagna elettorale le che potrebbe affondare la sua presidenza».
Nel fiuto di Trump vi è anche la pretesa di essere visceralmente in sintonia con il suo elettorato. Lo stesso che ha visto, per ore, per giorni, le immagini dei bambini colpiti dai gas in Siria. Se un giorno verrà fuori un’altra versione di quei fatti, è secondario oggi, di fronte a un clamore che ha spinto Trump a vestire i panni del giustiziere mondiale. Anche lui aveva visto quelle immagini, e s’era immedesimato nei suoi elettori. «La dottrina Trump – scrive Max Boot su Foreign Policy – sembra essere: gli Stati Uniti si riservano il diritto di usare la forza ogniqualvolta il presidente è scosso da qualcosa che vede in tv».
Altri presidenti americani hanno portato l’America in guerra in nome di una “dottrina”, in nome di una pretesa ordinatrice del mondo. Con Trump è il suo eccentrico combinato di “viscere” e di capacità di nuotare nel caos che fa ballare il mondo. Ma se finora ha potuto contare sullo spaesamento dei suoi interlocutori mondiali, costringendoli con la novità del suo stile nella difensiva, adesso ha a che fare con un tipo che non gli è da meno, in quanto a eccentricità e ad azzardo. È il leader di un paese che, diversamente dalla Siria, è dotato di testate atomiche.
»
. il manifesto, 16 aprile 2017 (c.m.c.)
La prima impressione che si ricava davanti ai libri d’artista di Alina Kalczynska Scheiwiller, raccolti alla Biblioteca Braidense di Milano, è che l’aver studiato grafica editoriale ripercorrendo con intransigenza schemi che appartengono alla tradizione, il mettere continuamente sul tavolo da lavoro l’abecedario dell’illustrazione e i punti fermi dei settori progettuali di ogni impaginazione con relativi codici più o meno segreti (griglie, gabbie, sottili strisce di carte piegate e numerate, temi ricorrenti ma non utilizzati delle tante sfaccettature del graphic design), costituisce un pregio in più, soprattutto quando scelte e soluzioni di ogni giorno portano permanentemente a muoversi nell’ambito di una ideazione tra creatività e tecnica, che affida a un mondo di forme limpide e interiormente razionali e a un segno perentorio, equilibrato, il costante soffio della poesia.
Anche per evidenziare il percorso evolutivo di questo «segno» nelle sue più sottili relazioni, nonostante l’impossibilità di enumerare lo straordinario lavoro che c’è dietro ogni libro fatto stile icastico, e il potere selettivo esercitato per raggiungere la quota esatta tra tessitura di emblemi e struttura spaziale, proviamo a partire dall’esempio efficace dei libri Scheiwiller, dalle copertine di alcune collane («Immagini e documenti», «Piccole Strenne», «Il Sigillo. Piccola Biblioteca Cinese», «Poesia», «Prosa») dove modernità, gusto ed eleganza trovano il loro perfetto spazio, ovvero quell’empatia immediata tra carta, caratteri e immagine che l’ispirazione sollecita, la geometria ordina, le relazioni edificano, spesso con lo stupore della scoperta inattesa.
Parlare di stile, per tutto il lavoro di Alina, vuol dire ridefinire il rapporto di comunicazione esistente tra l’elaborazione delle forme, la selezione delle carte, l’organizzazione cromatica, la manifestazione dei ritmi sensibili e i contenuti, siano essi di Czesław Miłosz, Ezra Pound, Zbigniew Herbert, André Frénaud, Clemente Rebora, Carlo Invernizzi, Bao Chang, Maria Corti, Ai Qing, Wisława Szymborska, Lu Xun, Eugenio Montale, Federico II di Svevia, Alda Merini, Silvana Lattmann, Medardo Rosso, Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Gustaw Herling-Grudzinski, Julia Hartwig, Luciano Erba, Mary de Rachewiltz, Ibn Kemal, Camillo Sbarbaro, Kengiro Azuma, nomi comparsi in più occasioni nel catalogo Scheiwiller, prediletti per risolvere ogni volta il problema dell’apparente antinomia tra ordinamento del libro e espressione.
Non dimenticando mai il modo di aprirsi al testo e all’immagine in costruzione, ora con il disegno e più spesso con l’acquarello, la xilografia, uno schizzo, il linoleum, il collage, un campionario di sigilli, una composizione musicale, l’intaglio, il rilievo, una piega, un fermaglio. Infatti, tecniche e materiali, accostati e fusi in maniera fluida e immediata, si infiltrano di continuo nel testo, lo sezionano facendone un racconto umano e professionale senza limiti, frutto di prolungate meditazioni, tese a non rarefare la giocosa leggerezza della linea che edifica l’oggetto «libro» reso architettura del reale, a tal punto da portarlo, in molte occasioni, ad essere copia unica, sottratta alle regole del mercato che ne imporrebbe una tiratura e una impaginazione adatta allo scopo.
Sessanta sigilli, del 1994, è esemplare, in tal senso. Ideato per i 60 anni di Vanni, dipinto, scritto con calligrafie e con sigilli cinesi stampati a mano dall’artista, la copertina in carta giapponese Koko, la rilegatura alla cinese, il sigillo-segnalibro curato da Nino Ricci, evidenzia una sorta di radiografia astratta degli oggetti utilizzati e la concretezza del simbolo, la sua funzione, il suo categorico isolamento nella pagina per ottenerne il massimo significato.
Intanto, appare come fondamentale elemento strutturale, nella definizione dell’equilibrio della pagina e dell’armonia con la parte calligrafica. Basta osservare, l’una dopo l’altra, la collocazione delle impronte dei sigilli, ogni successiva variante, per convincersi che, in fondo, Alina racconta la sua vita, per autenticare, come si faceva una volta, tante lettere non inviate, per fissare sul foglio più segni di riconoscimento, tanti quanti sono i materiali dei sigilli: terracotta, porcellana, giada, osso, corallo, avorio, o le forme: quadrati, rettangolari, tondi, ottagonali, o cosa rappresentano: un drago, una filosofia, una religione, una storia, una poesia, un motto, un nome, un’opera d’arte.
Lo schema e le sue varianti, nella pagina, vengono messi a nudo dal sigillo che proscioglie o condiziona tutti i temi alimentati da poche linee elementari e un accordo di colori a piani sovrapposti, presenti nel libro dello stesso anno, Giardino incantato (a Massafra) e nel Trittico della Szymborska (1997), dove all’universo chiuso e misterioso del primo, carico tuttavia di una sotterranea forza trasfiguratrice propria di una natura fantasmagorica bloccata dall’atmosfera torrida, corrisponde il miracolo inventivo del secondo che trova nella poesia il candore per ricomporre l’universo alle sue stesse radici.
È che Alina, costruendo il libro, si diverte, si stupisce, si commuove, non lo sente come oggetto ma come idea da cui non farsi sopraffare, tanto la visione creativa è diretta e immediata. Così tempestiva da risolvere senza tentennamenti i contrasti sempre attuali tra luminosità – trasparenza e opacità – zona d’ombra. Quasi lo stupore che si rinnova davanti al verso ripetuto come un mantra possa riscoprire il soggetto che le sta di fronte e realizzarlo carico di meraviglia.
Tutto ciò avviene a partire dal Canzoniere di Federico II di Svevia (1995) che accelera la spoliazione all’estremo dell’immagine, per raccogliere gli elementi essenziali di un’architettura svolta tutta nello spazio, e la decomposizione in colori prismatici della luce. Le tre poesie di Alda Merini in Un poeta rimanga sempre solo (1996), con quella scrittura allusiva ed ellittica, sembra vogliano far ristagnare le forme, solide nel loro equilibrio sfumato e sottile di toni. Al contrario, trovano il perfetto accordo tra creazione plastica e sensazioni visive, peculiare della poetessa milanese la cui economia di mezzi corrisponde alla discrezione di Alina, e si dispongono secondo sintesi impreviste, la fantasia a gareggiare con la memoria.
Quanto gli orizzonti pittorici e le esperienze grafiche siano coestesi, ormai, a tutti gli aspetti dell’esistenza, appare evidente in Tesori (2010) che ha i suoi antecedenti in Acquarelli (2001), Mediterraneo (2002), La luce, il colore (2003), Lettere dalla Puglia (2005), Il suo nome è Otranto (2009). Un testo di Camillo Sbarbaro incita a conservare in un incavo della copertina quattro «tesori» avuti in regalo dai bambini otrantini Caterina, Michele e Matilde, come a dire mettere in un libro oggetti invece che parole, per ritrovare intatti cieli, vento, luci, ore, sorrisi, emozioni e rivivere ogni volta la dolce ebbrezza delle stagioni passate.
Sulla scia della Szymborska, di un rapporto coltivato con la partecipazione di una lettrice attenta ai dettagli, ai minimi particolari di ciò che ci circonda, provenienza e comportamenti umani inclusi, la propria individualità assume un’importanza tale da spingere a dar valore anche a cose effimere, a momenti irripetibili che hanno fatto crescere le capacità percettive. Da ciò l’impulso, in fase di impaginazione, alla naturalezza (Zbigniew Herbert, Elegia per l’addio della penna dell’inchiostro della lampada, 1989), la decomposizione crescente della forma, sviluppata in tutte le sue facce (Bao Chang, Pensieri amichevoli, 1989), le frasi colorate che vivificano le superfici della carta secondo misure cadenzate (Wislawa Szymborska, La fiera dei miracoli, 1993), la magia spaziale delle linee di fuga che rompono il silenzio dell’attesa (Eugenio Montale, Domande, 1994), la considerazione di ogni improvvisa accensione fantastica (Alda Merini, Lettere, 1997), i motivi geometrici predisposti dalla combinazione di piani cromatici, gamme di toni, esaltati da variazioni ritmiche (Alina Kalczynska, Otranto, 1997-’99), l’assoluta libertà nell’uso di strumenti come il taglierino o la forbice i cui movimenti, associando la linea al colore e il contorno alla superficie, portano al segno puro (Prisma, 1999), la semplice meraviglia del verso accordata al gioco tra ragione e istinto delle linee rette (Czesław Miłosz, Tak mało, 2010), una originale sapienza grafica come contrappunto a un’incessante osservazione del mondo visibile (Mary de Rachewiltz, Gocce, 2010), la descrizione della quotidianità propria di un universo poetico singolare che tre acquarelli originali, ognuno incorniciato da un intaglio di diversa forma geometrica, tre manoscritti in facsimile e un elemento quadrato in rilievo disposto per trasmettere un riflesso di colore, enucleano quali elementi concreti delle relazioni esistenti tra arte e poesia (Wisława Szymborska, Dodici poesie, 2015).
L’evoluzione di questo rapporto, evidente nella ricerca di Alina fin dalla seconda metà degli anni ottanta (Clemente Rebora, Campana di Lombardia, 1988), prende le mosse da un ininterrotto e rinnovato bagaglio tecnico, da una disciplina artigianale incompatibile con la facilità e da un viaggio all’unisono con la poesia.
Non più complesse architetture, linee avviluppate, piccoli tocchi minuziosi, toni monocromatici, cadenze recise, ma superfici distese, larghi piani, toni chiari e spezzati, tratti d’inchiostro o di matita, pennellata di tempera, luminescenze d’acquarello, e qualche improvviso procedimento d’illusionismo ottico che accentui il valore plastico dell’immagine. Il libro acquisisce il suo vocabolario, una sintassi e uno stile inimitabili. La carta diventa un autentico mezzo d’espressione, materiale docile allo sforzo di dominare uno spazio ormai senza limiti.
Non ha scritto, Alina, che il libro d’artista è l’ultimo tesoro dei nostri tempi?
Ampia analisi dell'insegnamento della Scuola di Barbiana, del ruolo che ebbe sulla vita culturale dell'epoca , sugli equivoci e i fraintendimenti di molte interpretazioni e sulla sua verità e utilità.
Internazionale online, 16 aprile 2017
"A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi." Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici
Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa. L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.
Eppure in pochi anni, grazie a questo prete, Barbiana diventa un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia. Nasce lì, nel 1958, Esperienze pastorali, visto da molti come concreto e profetico contributo al Concilio Vaticano II, immediatamente messo all’indice dalla curia romana che, pur non vietandolo ufficialmente, ne impedisce la pubblicazione. Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai parroci militari. Un testo, pubblicato dal periodico comunista Rinascita e ricordato come L’obbedienza non è più una virtù, che porterà in tribunale don Milani e gli causerà addirittura una condanna dopo la morte.
E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, autentico livre de chevet di una generazione. “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni. Visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta. Ma visto, anche, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”.
“Noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni”, ha scritto Paola Mastrocola. E in un articolo di Sebastiano Vassalli si può leggere: “La mitica scuola di Barbiana (…) era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.
Un invito a organizzarsi
Lettera a una professoressa è dunque diventato un libro manifesto, ma non nel modo auspicato dai suoi autori. Eppure il libro è cristallino: non è, né vuole essere, un testo scritto per i ragazzi che vanno all’università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai. La lettera è un invito a organizzarsi. Perché la scuola pubblica, così come l’hanno conosciuta i ragazzi di Barbiana e non solo, è una scuola per ricchi, per i “Pierini d’Italia”. La riforma delle scuole medie del 1963 non aveva modificato questa situazione. La scuola di don Milani è una denuncia nei confronti di governi cattolici che per tutto il dopoguerra hanno occupato il ministero della pubblica istruzione (6 ministri laici su 34).
Don Milani sa bene che il suo non è un progetto di riforma ma una testimonianza, scritta in prima persona plurale, con un noi che ha nomi e cognomi. “So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, scrive alla giovane Nadia Neri in una delle sue lettere più belle, “che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. E ancora:
"La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come la vorrei io non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini."
Il suo, dunque, non è neppure un modello da imitare, come in molti ancora oggi pensano. Eppure, nella sua esemplare essenzialità, questo piccolo esperimento pedagogico che si traduce in una scuoletta di montagna e nella pubblicazione di un libro, poco più di un opuscolo, diventa la scintilla di una rivoluzione. E ancora oggi mobilita il ricordo, innesca passioni, divide e fa litigare, si fissa nella memoria collettiva come un punto di passaggio epocale quando si parla di scuola ma anche di giovani, generazioni, movimenti.
Questo perché fin da pochi mesi dopo la sua pubblicazione il libro acquista una vita completamente autonoma, Lettera a una professoressa è, infatti, il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e per questo è un libro degli anni sessanta, ma si pone anche l’obiettivo di dire basta con questo ritardo nell’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti. Per questo viene subito adottato dal movimento studentesco.
Su Lettera a una professoressa si fanno seminari in tutte le università occupate; alla Biennale di Venezia del 1968 diventa uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Gli insegnanti lo usano per sperimentare nuove forme di didattica; a Roma, all’acquedotto Claudio, don Sardelli fonda una scuola popolare ispirata all’esperienza di Barbiana. Viene definito un libro maoista. Gianni Rodari e il Movimento di cooperazione educativa gli dedicano scritti e riflessioni. Tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’educazione si confrontano con Lettera a una professoressa.
Il ruolo di maestre e maestri
In molti dimenticano che il libro riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università. La questione dell’obbligo scolastico è più di ogni altra la cartina di tornasole di ogni sistema che voglia dirsi democratico. A fine anni sessanta è ampiamente disattesa, dalle famiglie ma anche dallo stato che consente un doppio binario scolastico, per chi ha tutte le parole a casa, può fare ripetizioni, e chi non può. Lettera a una professoressa diventa il vademecum dei primi, ma per fortuna ha ricadute importantissime anche sulla vita dei secondi.
Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e stati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo.
Lettera a una professoressa va oltre tutto questo perché coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale nella quale un analfabeta, come dice un vecchio contadino alla Rai degli anni sessanta, “è cieco”. “La scuola siede tra il passato e il futuro”, scrive don Lorenzo Milani, “e deve averli presenti entrambi”.
Scrive Oronzo Parlangeli, filologo, nel lontano 1969: "È colpevole e stupida l’omertà di chi fa dipendere la propria fama dalla percentuale, o dalla massa, dei promossi e non invece dal livello della preparazione dei promossi. Coloro i quali bocciano solo per il gusto di bocciare sono criminali pericolosi e sadici, ma altrettanto pericolosi sono coloro i quali (o per far carriera o per pecoronismo gerarchico o per smania di passar per novatores) promuovono tutti e pretendono che tutti siano promossi: anche per costoro dovrebbe esserci un’azione penale o il manicomio. "
Eppure i ragazzi della scuola di Barbiana hanno scritto: "Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata (…) Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere”. Il fatto, continua il filologo, è che abbiamo confuso il sacrosanto diritto allo studio con lo stupido diritto alla laurea. Persino la rivolta degli studenti che era e dovrebbe essere generosa contestazione giovanile contro le ipocrisie e i vaniloqui, rischia di adulterarsi o si è già adulterata in uguali ipocrisie e vaniloqui (anche se di segno contrario) e in una perniciosa ricerca del diciotto, quale… minimo sindacale garantito. E i riformatori politici, che già tremavano sotto l’impeto della violenta, ma sacrosanta protesta di chi non è integrato nel sistema (e perciò dice ciò che pensa), ebbene, possono tornare a baloccarsi con esiziali alchimie partitocratiche.
Amen. Bastano queste poche righe per raccontare l’impatto del libro, i suoi fraintendimenti, lo svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, la strumentale sovrapposizione delle sue tesi con quelle di una parte del movimento studentesco. Oggi la sua rilettura viene fatta in nome dell’antisessantottismo e assume una funzione antidemocratica. I primi a mettere in discussione l’utilità della lettera sono stati proprio i professori “democratici” che l’hanno letta e usata per anni: letta, usata e non capita. Nel 1978 un articolo sul manifesto pone il problema: come comportarsi con i ragazzi del 1977? Bisogna bocciarli. Quindi don Milani aveva torto…
Consapevole di queste strumentalizzazioni, nel 1982 padre Ernesto Balducci si chiede: “Ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. E ancora: “Il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello stato di diritto, la scuola di stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori”.
Ma, aggiunge, la contrapposizione fittizia creatasi tra l’umanità della scuola di Barbiana e la disumanità della scuola istituzionale è una balla, la riforma del 1974 risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica: “Ecco perché la scuola di Barbiana, se vezzeggiata come un modello ideale, può favorire inerzie utopistiche o fughe nel privato. Essa non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni”.
Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto: "Parlare o scrivere di don Milani è estremamente difficile. C’è il pericolo di appiattirne l’immagine, di semplificarne i contorni, assimilandolo frettolosamente all’una o all’altra delle grandi contrapposizioni che segnavano allora, e in parte segnano ancora oggi, la società italiana."
Appiattirne l’immagine, semplificarne i contorni per ridurlo a fenomeno comprensibile, catalogabile, replicabile. Come poi, puntualmente, è stato fatto, e continua ad essere fatto.
Viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo quando scrive Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.
Lui, invece, sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento. Al fine di sentirsi ognuno responsabile di tutto, come è scritto nella Lettera ai giudici: "Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’“.
Viene in mente, pensando a Lorenzo Milani,
quello che scrive Alex Langer di Ivan Illich: “Qualcuno ne rimane deluso e lo trova ‘poco organico’, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo”. E allora il tentativo di renderlo sistematico, comprensibile, di decifrarlo, e farlo diventare di volta in volta un marxista in nuce, un proto sessantottino, la voce profetica della rivolta, ma anche appunto l’istigatore di risentimento sociale, l’invidioso, lo sciatto. L’icona, il martire, il folle, il presuntuoso, il più grande intellettuale italiano del novecento. Che fatica.
A don Milani invece dobbiamo molto, moltissimo, in termini di categorie analitiche, negli anni della “buona scuola”, del ritorno alla bocciatura, della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti (oggi si chiama meritocrazia), in termini di contributo alla riflessione, di contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili.
Nessuna nostalgia
Tornare a don Milani, a
Lettera a una professoressa e ai ragazzi di Barbiana ha un senso niente affatto nostalgico. Ben poco di affascinante c’è nella figura di un prete, burbero e autoritario, borghese e anti intellettuale, profondamente critico nei confronti della scuola pubblica. Ma non si tratta di questo. Nessuno oggi vuole fare l’errore di chi salì a Barbiana nel 1967 con la
Lettera ai giudici in una mano e Herbert Marcuse nell’altra, sperando di trovare un guru, inventandosi di averlo trovato. Scoprendo in
Lettera a una professoressa il viatico per la rivoluzione.
Bisogna rileggere Lettera a una professoressa a partire dalle proprie domande e dalle proprie esperienze, inserendola però all’interno di un contesto troppo spesso messo in ombra, da una lettura miope della figura di don Milani, essendo la sua eredità assolutamente non mediata dalla sua voce, ma solo da quella dei suoi eredi. Don Milani è morto infatti a 44 anni nel giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia.
Si tratta, come suggerisce don Luis Corzo, di riprendere in mano Lettera a una professoressa e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.
Crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
«Al PAC di Milano
Mea culpa dello spagnolo Santiago Sierra. Dai primi lavori di scultura alle opere land fino ai video, i temi sono gravi, il tono tragico ma asciutto. Interessante è l’ambiguità del rapporto con i disvalori del neoliberismo». il manifesto, 16 aprile 2017 (c.m.c.)
Nell’ultimo mezzo secolo l’arte ha enormemente sviluppato la sua propensione a immergersi nella realtà sociale e a riflettere sulla dimensione politica che la caratterizza nei suoi aspetti paradigmatici (trauma, abiezione, precarietà, ecc.). Lo scarto tra un’operazione artistica e una prettamente cosmetica, di design, sta proprio in questa attitudine, che in buona misura deriva dalle metamorfosi della produzione nell’era del capitalismo post-industriale.
L’arte si adegua ai mutati assetti adottando nuovi parametri estetici e l’opera, diventata contingente, relazionale, effimera e immateriale, rispecchia i cambiamenti nel mercato del lavoro. Un fenomeno tutto sommato ovvio. Ma l’incontro tra arte e politica è sempre controverso perché innesca una reciproca contaminazione: l’estetizzazione del politico rischia di offuscare gli obiettivi della lotta e quindi ridurre ogni genuina azione politica a uno spettacolo, inefficace rispetto all’ipotesi di un vero cambiamento delle cose.
D’altro canto, la politicizzazione dell’artistico può spingere l’artista negli ingranaggi di un dispositivo ideologico per cui anche l’opera di denuncia più radicale finisce per essere strumento di legittimazione del potere. C’è un’ambiguità di fondo in ogni discorso artistico sulle storture del mondo contemporaneo dovuta ai presupposti del discorso stesso; artisti e critici devono confrontarsi con la sfida di legittimare la pratica artistica dentro e contro la logica capitalista che la sostiene.
E proprio «sul terreno impervio della critica alle condizioni sociopolitiche della contemporaneità» si muove Santiago Sierra (1966), anarchico e libertario, del quale il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ospita, fino al 4 giugno, Mea culpa, rassegna antologica a cura di Diego Sileo e Lutz Henke (catalogo Silvana Editoriale).
La mostra riunisce materiali dai primi anni novanta a oggi, tra cui Riga di 250 cm tatuata su sei persone retribuite (1999), Parola distrutta (2010-’12), Sepoltura di dieci operai (2010), Il graffito più grande del mondo (2012), Denti degli ultimi gitani di Ponticelli (2009), Bandiera nera (2015). In effetti si tratta perlopiù di documentazione (audiovisiva, fotografica o letteraria) di installazioni site specific e performance; ma oggi lo statuto dell’opera include la forma archivistica e consente di trasferire il valore artistico dall’azione o dall’oggetto alla loro traccia. L’allestimento è ben ritmato, elegante nella sua compiaciuta fissazione per il bianco-nero; non segue un ordine cronologico e non se ne sente l’esigenza: dalla severità dei primi lavori di scultura, alle vastità delle opere land fino ai video, i temi delle opere sono gravi, il tono è tragico seppure asciutto, minimalista.
Comunque, al di là dei connotati tecnici e concettuali, Sierra è interessante per gli interrogativi legati all’efficacia politica del suo lavoro e alla sua posizione rispetto a ciò che dichiaratamente avversa. In questo senso, è un artista emblematico dei limiti della pratica artistica odierna. Un’opera di Sierra è allo stesso tempo una violenta accusa al sistema neoliberista e una merce con un plusvalore ratificato da prestigiose istituzioni culturali e monetizzato da ricche gallerie internazionali. Soprattutto, la condanna all’alienazione e allo sfruttamento del lavoro viene spesso espressa riproducendo nel rapporto con gli occasionali performer le medesime condizioni di sfruttamento.
Non per nulla, fin dal titolo l’esposizione pone la questione della responsabilità, a cominciare da quella di chi intenda affrontare certi temi. Mettendo in scena le iniquità socio-economiche direttamente dentro lo spazio della galleria, Sierra coinvolge l’istituzione come parte attiva in un meccanismo di cui, oltre all’artista stesso, beneficiano gli spettatori, che così alimentano indirettamente il processo. La mostra è stata anche l’occasione per produrre un nuovo lavoro, organizzando una performance da documentare e quindi rielaborare in vari medium e formati in vista di future esposizioni.
La cronaca: il giorno stesso del vernissage vengono distribuiti nel centro di Milano dei coupon che promettono «alle prime 1.000 persone che parteciperanno a un progetto artistico» un compenso di 10 euro pagabili al portatore la sera stessa presso il PAC. Una lunga fila si forma davanti ai cancelli già qualche ora prima dell’apertura. Dopo un attimo di concitazione iniziale, le persone accedono al cortile del museo e si dispongono ordinatamente in riga. Nel frattempo entra anche chi è venuto soltanto per la mostra. Ha inizio la distribuzione del denaro e i detentori di coupon si avvicinano uno alla volta a un banco, dietro cui sta il conservatore del PAC che consegna loro la banconota. L’evento si svolge senza complicazioni, in sé banale e noioso come una processione di passeggeri per il check-in all’aeroporto. Ma quando le cose sono già a buon punto compare un furgone del reparto mobile della polizia, forse male informata su quanto stava accadendo.Il rapido ma inascoltato intervento di uno dei curatori (Henke) e l’intempestiva azione dei responsabili del PAC non risparmia noie gratuite a chi di problemi ne ha già tanti e i «partecipanti al progetto artistico», tra cui molti immigrati di colore, vengono trattati come molesti intrusi a una festa privata. L’incresciosa situazione si risolve solo quando gli agenti si rendono conto dell’inesistenza di reali minacce. In casi come questi, Sierra respinge le critiche affermando di limitarsi a rendere visibili le condizioni attuali. Sfruttamento dello sfruttamento
Un’intervista di Antonello Caporale a un teologo sui generis, Vito Mancuso: un discorso fuori dai cori, sulla Chiesa cattolica oggi, papa Bergoglio la guerra e l’Islam Una visione poco dialettica dello scontro tra due culture.
Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2017
«Vito Mancuso Il teologo e scrittore dopo il lancio della MOAB (Mother Of All Bombs): “Neanche Bergoglio ha il coraggio di chiedere al mondo di cambiare”»
Domani è Pasqua, è la Resurrezione. Domenica scorsa ci siamo scambiati il ramoscello d’ulivo: il segno della pace. Due giorni fa – solo per ricordare l’ultimo atto della più sanguinosa stagione bellica che interseca quella drammatica della migrazione secolare – Donald Trump ha ordinato lo sganciamento della più devastante bomba non atomica, la MOAB. E ieri Marine Le Pen ha ingiunto al Papa di non “immischiarsi”, di non aprire bocca sul tema dell’immigrazione.
C’è ancora religione? L’irrilevanza sociale della fede nei Paesi con i più alti standard di vita è anche questione civile? Così risponde Vito Mancuso, teologo.
«Questo pomeriggio alle tre (ieri per chi legge ndr) si commemora la morte di Cristo. Un tempo suonavano le campane, si spogliavano gli altari. È il giorno del digiuno. Oggi lei sente un cambio nella vita quotidiana? Tutto è come sempre”.
Non c’è più religione, questo vuol dire?
«La religio ha radice lessicale profonda. Significa legame. Religio come grande legame sociale. Romolo fonda Roma ma è Numa Pompilio, grazie alla religione, a costruire la sua identità. Perdere la fede significa far vacillare l’identità e dunque mettere in crisi la natura della propria civiltà. La religione ci permette di individuare un bene superiore, un bene comune che sopravanza quello dei singoli. Ci tiene stretti dentro quella cornice generale. Invece oggi siamo messi così.»
Il cattolicesimo diviene burocrazia, la preghiera un rito, la parola del Papa pura consolazione.
«Sì, fu un’illusione già di Giovanni Paolo II di immaginare che pesare all’interno dei movimenti potesse significare cambiare i rapporti di forza. Rischiamo di essere una religione senza popolo.
Eppure Francesco è amato, ascolta gli ultimi, continua a pronunciare messaggi rivoluzionari.
«Un grande generale ha bisogno di un grande esercito. Invece il Papa è solo, la Curia cos’è? Dov’è?
La Chiesa cattolica è irrimediabilmente sfigurata da una classe dirigente, chiamiamola così, non all’altezza?
«Senta: laddove i preti sono sull’altare riescono a muovere le comunità. A Bologna il nuovo vescovo, un bergogliano, sta rivoluzionando il rapporto della città con la sua Chiesa. Invece altrove è tutto un rito stanco. »
È responsabilità del Papa non riuscire a mutare il volto della sua Curia e la sua reputazione?
«Certo che sì. Come può chiedere al mondo di cambiare se non se la sente di affrontare la crisi di fiducia che esiste dentro il suo piccolissimo Stato? Oramai sono passati quattro anni dalla sua elezione. Il Papa ha il potere di fare ciò che ancora non fa.»
Perché non lo fa?
«Perché non se la sente, perché teme forse di andare troppo al di là. Ma in questo modo, la fede
perde quella
capacità di attrarre. Prima mi
parlava di Trump
e della sua superbomba. Quando
ho conosciuto la
notizia non ho avuto
un sussulto di stupore. Purtroppo me lo aspettavo. Ma come reggere all’urto di queste personalità così enormemente pericolose se l’Occidente si presenta smarrito? E come pensa la società di superare la crisi
che la sta scon-
volgendo se
non c’è un simbolo, un mo-dello a cui far
riferimento? I
giovani, come
dice il titolo
del bel libro di
Michele Serra, restano
sdraiati sul divano. Non
hanno niente
in cui credere, e nulla a cui somigliare. Assenti, semplicemente così.»
Papa Francesco è accusato di assumere atteggiamenti populisti. Un’esibizione di povertà, un grande teatro.
«Di populismo fu accusato anche Giovanni Paolo II. Ma indicare un’idea a una massa enorme di persone con un messaggio breve è un’opera gigantesca. Sono popolari, altro che!»
Però l’esercito, cioè la Curia...
«È quello che è.»
L’atrofia della Chiesa produrrà scompensi anche geopolitici?
«Il declino di una religione è segnato dal declino demografico di chi la professa. I segni ci sono tutti. E la forza interiore di una civiltà, la sua capacità di costruire stili di vita condivisi produce anche la forza della resistenza. Quando perdi l’identità perdi anche la tua civiltà.»
Sta dicendo che l’Islam vincerà.
«La storia insegna. Mettiamo da parte i fanatismi e le devianze che esso produce e diciamoci la verità: l’Islam sta vincendo la partita.»
Biografia
Vito Mancuso Dottore in Teologia sistematica, ha studiato tra Milano, Napoli e Roma. Nel 1986 è stato ordinato sacerdote nel Duomo
di Milano: l’anno dopo ha chiesto però di essere dispensato. Oggi è sposato
e ha due figli. A favore di contraccezione e fecondazione assistita, non accetta alcuni dogmi cattolici: l’origine dell’anima,
il peccato originale
e la dannazione dell’Inferno
«». Internazionale online, 14 aprile 2017 (c.m.c.)
La primavera non è una stagione adatta all’austerità, come cantava l’artista greca Léna Plátonos negli anni ottanta. Malgrado le decisioni della troika, il crollo delle istituzioni democratiche, il ritorno dell’estetica fascista e la progressiva trasformazione dei campi profughi in campi di concentramento, ad Atene torna la primavera, e non è certo una stagione adatta all’austerità.
Il sole non si arrende ai tagli al bilancio pubblico. Gli uccelli non capiscono niente dell’aumento dei tassi d’interesse, della chiusura delle biblioteche e dei musei pubblici, delle centinaia di opere chiuse in cantina e che non saranno più mostrate ai visitatori, dell’incapacità delle strutture sanitarie pubbliche di curare i malati cronici e i sieropositivi, dell’assenza di servizi medici e scolastici per i migranti e così via.
Di tutto questo, né il sole di aprile né gli uccelli del monte Licabetto vogliono sentir parlare. In queste condizioni, cosa significa organizzare ad Atene una mostra che fino a oggi si è sempre tenuta a Kassel, in Germania? Ostinarsi a credere che la primavera non sia una stagione adatta all’austerità e che il sole brilli per tutti. O forse, piegarsi alle nuove condizioni del cambiamento climatico e accettare, come diceva Jean-François Lyotard, che anche il sole invecchi.
Tutte le forme di esclusione
La prima mostra Documenta, organizzata a Kassel nel 1955 da Arnold Bode, aveva come obiettivo quello di mostrare le opere di artisti d’avanguardia, esclusi dal regime nazista. Bode voleva riconfigurare la cultura pubblica europea in un continente devastato dalla guerra. La quattordicesima edizione si svolge con un analogo senso d’urgenza. Siamo in un contesto di guerra economica e politica. Una guerra delle classi dirigenti contro la popolazione mondiale, del capitalismo globale contro la vita, delle nazioni contro i corpi e le innumerevoli minoranze.
La crisi dei mutui subprime del 2008 è servita a giustificare una ristrutturazione politica e morale del capitalismo globale come mai era accaduto dagli anni trenta. La Grecia si è trasformata in un significante dal denso valore politico, che sintetizza tutte le forme d’esclusione prodotte dalla nuova egemonia finanziaria: riduzione dei diritti democratici, criminalizzazione della povertà, rifiuto delle migrazioni, patologizzazione di ogni forma di dissidenza.
Per questo la ricerca che ha preceduto la mostra si è svolta soprattutto a partire da Atene. Per mesi, centinaia di artisti, scrittori e intellettuali che contribuiscono a Documenta 14 sono venuti qui. Ed è per questa ragione che la mostra è stata inaugurata l’8 aprile ad Atene e si sposterà a Kassel solo il 10 giugno. Durante la fase di preparazione nella capitale greca, è stato fondamentale vivere il fallimento democratico rappresentato dal referendum dell’oxi (no) del 5 luglio 2015. Quando il governo greco si è rifiutato di accettare la decisione della cittadinanza, il parlamento è apparso come un’istituzione in rovina, vuoto, incapace di rappresentare il popolo.
Nello stesso momento piazza Sintagma e le vie d’Atene si sono riempite per giorni di voci e di corpi. La strada è diventata il parlamento. Da lì è nata l’idea del programma pubblico di Documenta 14: il Parlamento dei corpi. Dal settembre 2016 abbiamo aperto uno spazio di discussione nel parco Eleftherias, dove artisti, critici, attivisti, ballerini, autori e altre persone si ritrovano per concepire la ricostruzione della sfera pubblica in un contesto di democrazia (e non di economia di mercato) in crisi.
Una delle difficoltà (e delle bellezze) dell’organizzare questa mostra è stata la decisione del suo direttore artistico, Adam Szymczyk, di collaborare in maniera quasi esclusiva con delle istituzioni pubbliche. In tempo di guerra, l’interlocutore non potevano essere né l’establishment, né le gallerie, né il mercato dell’arte. Al contrario, la mostra va intesa come un servizio pubblico, un antidoto all’austerità economica, politica e morale.
Persone non-documentate
Durante una mostra internazionale come Documenta, tutti vogliono conoscere la lista degli artisti con le rispettive nazionalità, la proporzione di greci e tedeschi, di uomini e di donne. Ma chi può dichiararsi oggi cittadino di un paese? Sono lo statuto del “documento” e il suo processo di legittimazione che vengono rimessi in questione. Mentre nella mappa geopolitica si moltiplicano le crepe, entriamo in un’era nella quale il nome e la cittadinanza hanno smesso di essere delle condizioni banali per diventare dei privilegi, nella quale il sesso e il genere hanno smesso di essere delle designazioni evidenti per trasformarsi in stigmate o in manifesti.
Alcuni degli artisti e curatori di questa mostra hanno perso un giorno un nome o ne hanno acquisito un altro al fine di modificare le loro condizioni di sopravvivenza. Altri hanno cambiato più volte il loro status di cittadinanza oppure aspettano che sia concesso loro, o meno, il diritto d’asilo. Come chiamarli, allora? Come considerarli? Come siriani, afgani, ugandesi, canadesi, tedeschi o come semplici numeri su una lista d’attesa? Sono greche o tedesche, le centinaia di artisti greci che emigrano alla ricerca di migliori condizioni di vita a Berlino? E lo stesso vale per le statistiche di uguaglianza tra i sessi. In quale categoria includere le persone trans e intersessuali? Non-documentate.
Documenta 14 si svolge su un terreno epistemologico che si sta sgretolando. Il sacrificio economico e politico al quale è sottoposta dal 2008 la Grecia non è altro che il prologo a un più ampio processo di distruzione della democrazia, che si estende a tutta l’Europa.
Da quando abbiamo cominciato a preparare questa edizione di Documenta, nel 2014, siamo stati testimoni di questa progressiva demolizione che impregna ormai tutte le istituzioni culturali: il rifiuto dei rifugiati, il conflitto militare in Ucraina, il ripiegamento identitario dei paesi europei, la svolta ultraconservatrice dell’Ungheria, della Polonia, della Turchia, ma anche l’elezione di Trump, la Brexit e via dicendo.
Il pianeta sta dando vita a un dispositivo di “controriforma” che cerca di ristabilire la supremazia bianca maschile e di disfare le conquiste democratiche che i movimenti operai, anticoloniali, indigeni, femministi e simili erano riusciti a ottenere nel corso degli ultimi due secoli.
Una modalità inedita di neoliberismo e neonazionalismo disegna nuove frontiere e costruisce nuovi muri. In queste condizioni la mostra, nei suoi diversi modi di costruire uno spazio pubblico di visibilità e di enunciazione, deve diventare una piattaforma d’attivismo culturale. Un processo nomade di cooperazione collettiva, senza identità e senza nazionalità. Kassel travestita da Atene. Atene che muta in Kassel.
Le condizioni di vita dei sans papiers e dei senza terra, degli spostamenti progressivi, delle migrazioni e della traduzione ci obbligano a superare la narrazione etnocentrica della storia occidentale contemporanea e ad aprire nuove forme di azione democratica. Documenta è in transito. Ispirandosi a metodi della pedagogia sperimentale, decoloniale, femminista e queer, che rimettono in discussione le condizioni nelle quali alcuni soggetti politici si rendono visibili, questa mostra si afferma come apolide, con un doppio significato: interroga il legame con la patria, ma anche con la genealogia coloniale e patriarcale che ha costruito il museo dell’occidente, e che oggi desidera distruggere l’Europa.
(Traduzione di Federico Ferrone)
». il manifesto, 14 aprile 2017 (c.m.c.)
La paga arriva puntuale ogni 5 del mese: il presidente dell’associazione di volontariato Avaca entra in biblioteca, prende posto a una delle scrivanie dei dipendenti pubblici – che gli fa spazio: siamo all’ufficio Servizi – ritira gli scontrini dei volontari e consegna a ciascuno di loro un assegno di 400 euro. Per 20 ore alla settimana, solo 15 giorni di ferie all’anno, niente malattia, maternità, contributi e copertura infortuni. Alla Biblioteca nazionale di Roma funziona così: 22 addetti alla catalogazione, ai prestiti, alle sale, ai rapporti con il pubblico non hanno un contratto, ma sono sottoposti a turni e svolgono le stesse mansioni dei 130 dipendenti effettivi. Sono gli «scontrinisti», e il modo in cui vengono sfruttati da un pezzo del nostro Stato urla vendetta.
La biblioteca nazionale dipende dal ministero dei Beni culturali, e fa acqua da tutte le parti. Il servizio agli utenti è costantemente a rischio, e carente, per una mancanza strutturale di organico, tappata alla bell’e meglio dai «volontari»: alcuni di loro lavorano retribuiti a scontrino da 13 anni, altri da sette o cinque, senza che sia mai cambiato nulla. Le recenti denunce – una conferenza stampa della Cgil, un articolo del manifesto, un servizio della trasmissione di Rai 2 Nemo – hanno aperto uno squarcio su una situazione totalmente surreale.
Federica, 32 anni, scontrinista alla Nazionale da cinque, è la lavoratrice che ha scoperchiato il vaso di Pandora della Biblioteca, raccontando la sua storia a una delle prime iniziative pubbliche della Cgil per i referendum su voucher e appalti: «Noi andiamo ben oltre i voucher – spiega – La nostra paga, di massimo 400 euro al mese per 20 ore settimanali, ci viene erogata solo se presentiamo gli scontrini delle spese alimentari degli ultimi 30 giorni. Ogni singolo buono non può superare i 30 euro, e a volte – pur di arrivare ai 400 euro – portiamo anche scontrini dei dipendenti della biblioteca o di nostri familiari. L’associazione Avaca, che ha una convenzione con il ministero dei Beni culturali e che ci retribuisce, annulla qualche scontrino: in questo caso il valore ci viene decurtato il mese successivo. Capita che ci chieda anche di raccogliere più di 400 euro di scontrini: fino a 500 o 600, se li troviamo. Non sappiamo poi cosa se ne facciano».
Federica racconta che i nomi dei volontari vengono inseriti nel piano turni, accanto a quelli dei dipendenti, e che è l’ufficio Servizi della Biblioteca a gestire gli uni e gli altri. «Prima delle recenti denunce pubbliche, capitava spesso che i volontari coprissero da soli intere sale o il magazzino, ma ora stanno sempre attenti ad accoppiarli ad almeno un dipendente. Lo stesso per i fogli firma di entrata e uscita: in passato era segnato anche il nostro turno, dopo gli articoli e i servizi tv è stato rimosso».
Foglio firme che i «volontari» della Biblioteca nazionale hanno dovuto «trafugare», come dei carbonari, per poterlo fotocopiare e avere una prova certificata della loro presenza quotidiana in Biblioteca: «Viene timbrato dalla dirigenza della Nazionale e trattenuto dall’Avaca. Abbiamo richiesto di fare delle copie ma ci è sempre stato negato».
Idem per lo statuto e gli altri documenti relativi all’associazione, che i volontari scontrinisti non riescono ad avere dal presidente: «Stiamo cercando di accedere attraverso le registrazioni pubbliche. Non abbiamo un contratto individuale, solo la tessera cartacea di iscrizione: paghiamo 25 euro l’anno. In biblioteca non entriamo con badge magnetici ma con un tesserino cartaceo, evitando i tornelli, come accade per i dipendenti».
Veri e propri «fantasmi», che si fa di tutto per rimuovere, ma tanto utili per coprire i turni dei dipendenti, specie in estate e per le festività. «Abbiamo solo 10-15 giorni di ferie l’anno – ripete Federica – Per Natale e Capodanno massimo due o tre giorni. Tappiamo i buchi, anche la vigilanza ai cancelli. Noi ci siamo sempre». Ma chi li obbliga a fare le quattro ore giornaliere, se sono soltanto dei «volontari»?
«Non ce lo chiede l’associazione, che non si occupa direttamente dei turni e compare solo al momento della paga – conclude la lavoratrice – Ma sì, la Biblioteca fa affidamento sul nostro lavoro e ci inserisce costantemente nei turni. Noi speriamo un giorno di venire regolarizzati, per questo in otto abbiamo avviato una vertenza con la Cgil».
«Pubblichiamo ampi stralci della postfazione di Giorgio Frasca Polara de “Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ‘l’Unità
’”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora edito da Tessere, Firenze». Ytali 13 aprile 2017 (c.m.c.)
Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia.
Magari molte cose, nelle note sparse nei Quaderni (ma che Togliatti nella prima e purgata edizione, volle ordinare nel volume dedicato a "Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura"), sono superate: nella concezione e nella fattura di giornali, riviste, strumenti di comunicazione in genere. Nessuna sorpresa: basti pensare a quante cose, nel giornalismo, sono mutate ab illo; o a verificare, passato un secolo breve, che cosa oggi rappresenta, solo per fare un banale esempio, il web nel bene (la velocità dell’informazione) e talora nel male: la sintesi forzata, la superficialità, lo scoop. Eppure ci sono, in quelle note, molte, moltissime intuizioni straordinarie su come sarebbe diventato il giornalismo, e sulle condizioni per promuovere e realizzare un giornalismo attrezzato, intellettualmente onesto, e soprattutto libero.
Ma attenzione: neanche per Gramsci il giornalismo è una scienza infusa. La passione per la carta stampata nasce in lui, poco più che ventenne, come necessità politica di praticare il giornalismo perché egli ne comprende il valore unico, in un certo senso assoluto, come strumento di formazione, come arma prima di educazione e poi di propaganda. C’è una traccia fondamentale di quest’idea in un paio di storiche battute apparse su l’Avanti! già nel 1916: «Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista (…) Boicottateli, boicottateli, boicottateli!».
Praticare il giornalismo ma soprattutto insegnarne le basi a chi non ha la minima idea di come si scrive un articolo, per creare così un collettivo, per far crescere appunto la stampa socialista. Prima la pratica e poi la teoria, sembra dirci Nino, stando ad un paio di sue lettere che scrive nel 1918 e nel 1924. La prima è diretta a Giuseppe Lombardo Radice, rivolta più al pedagogista che non al filosofo. Gramsci gli racconta dell’esperienza di un gruppo di giovani e giovanissimi socialisti, inseriti in un “Club di vita morale” di cui lui stesso fa da “exubitor”, che in latino fa sentinella, noi oggi diremmo che fa da tutor. Bene, da questo gruppo emerge Andrea Viglongo, un impiegato privato, 17 anni, studi tecnici inferiori, che ha scritto per Il Grido del Popolo la segnalazione di un saggio (chissà perché Gramsci lo definisce “opuscolo”) dello stesso Lombardo Radice su Il concetto dell’educazione. Che gliene pare? chiede Gramsci sollecitando qualche consiglio, «un indirizzo che integri e completi i miei propositi». Non si ha traccia della risposta, ma non è questo l’importante, come vedremo tra un momento.
Sei anni più tardi sarà Gramsci a impartire da Vienna una severa ma in fondo anche bonaria lezione a Vincenzo Bianco per un articolo destinato ad esser pubblicato ma non sappiamo su quale giornale. (Per inciso, emigrato in Francia e in Belgio con l’avvento del fascismo, Bianco fu poi un coraggioso garibaldino in Spagna; rappresentò ufficialmente il Pcd’I nella Terza Internazionale, e che come tale firmò lo scioglimento del Comintern nel 1943, a nome del Pci. Ebbe poi discutibili, e anzi assai discussi, rapporti con Tito per la questione di Trieste: lui era favorevole all’annessione della città alla Jugoslavia. Fu infine sospeso da ogni incarico di partito e finì i suoi giorni all’archivio dell’Unità come traduttore di Pravda e Izvestia.) Più giovane di Gramsci di una decina d’anni, Nino gli scrive che avrebbe preferito, agli articoli un po’ sbilenchi, “il lavoro pratico” tra gli emigrati; poi gli promette una lettera-lezione per correggere “gli errori che commetti, di stile e di grammatica”, anche se è “già gran cosa” sapere esporre con grande chiarezza “i tuoi concetti”. Ma bisogna mettere ordine in questi concetti.
E allora Nino, con pazienza, gli spiega: fare prima uno “schema”, poi «disporre in ordine (…) tutte le cose che vuoi dire» indi svilupparle. Per abituarlo a questo lavoro Gramsci gli consiglia di “fare esercizi” per iscritto (“in modo per abituarti a una forma tua, precisa e personale”), su scritti degli altri, “per esempio sul Manifesto dei Comunisti, capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica”. E gli ricorda che Antonio Labriola aveva letto più di cento volte il Manifesto, ogni volta comprendendo qualcosa che prima non aveva capito. «Se anche tu» imitassi il grande marxista napoletano «ciò non sarà inutile». E improvvisamente ritorna, in questa lettera a Bianco, il nome di Viglongo: gli aveva dato consigli analoghi, e gli aveva fatto fare lavori simili. «Prima scriveva articoli di 6, 7, 8 colonne che io cestinavo», racconta Gramsci: «Glieli facevo rifare sino a tre, quattro volte sino a quando non erano diventati di una colonne e mezzo al massimo (…) E Viglongo, che prima era un pasticcione di tre cotte, finì per scrivere abbastanza bene, tanto che poi immaginò di essere diventato un grand’uomo e si allontanò da noi». Quindi “non più” lezioni ai giovanotti del suo tipo, «lo farò solo con gli operai, che non aspirano a diventare grandi giornalisti della borghesia».
Passione per la carta stampata? Sì, ma unita ad una conoscenza e intelligenza strabilianti per le tecniche di stampa e, paradossalmente, persino per risparmiare sull’acquisto della carta. C’è una lettera illuminante, scritta da Vienna nel gennaio del 1924 e diretta a quel Ruggero Grieco che diventerà anni dopo – con la famigerata missiva che in pratica lo individua come il capo dei comunisti – la sua maggiore e distruttiva ossessione in carcere. Nella lettera Nino dà alcuni suggerimenti pratici alle viste della stampa a Roma del torinese “Ordine Nuovo”. Intanto trovare un tipografo che abbia una macchina piana capace di contenere il foglio del quindicinale: «Non mi pare difficile». Poi trovare un mercante di carta che, come accade a Torino (“e a Roma esistono una quindicina di giornali…”), acquisti dalle grandi tipografie “tutti i residui di carta”, “gli avanzi dei rotoli”, per cavarne «una carta bianca e abbastanza consistente» che possa servire per l’Ordine e, soprattutto, per conservarne il formato: «So quanto queste piccole cose abbiano una grande importanza pratica nella diffusione». Ma attenzione, e qui balza con tutta evidenza l’intelligenza critica di Nino Gramsci, perché «da una diversa soluzione del formato dipende anche una diversa impostazione redazionale». Sembra di sentire Albe Steiner, ma a quell’epoca il grande innovatore della grafica politica era appena un ragazzino…
Questo passaggio su soluzione del formato e impostazione redazionale è, credo, doppiamente importante. Intanto perché è uno dei primi e più efficaci esempi delle intuizioni che Antonio Gramsci svilupperà a lungo, saltuariamente, e anche nelle più disparate occasioni, negli anni terribili della galera quando dovrà limitarsi a studiare, del giornalismo, quelli che lui stesso definirà i «fini metodologici e didattici». E poi perché, un passo dopo l’altro delle sue riflessioni sul giornalismo, Gramsci giungerà ad alcuni punti fermi, tuttora validi, tuttora cogenti. Anzitutto un dovere dell’attività giornalistica: «Seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese». E poi ripete: «Tutti.» E subito fa un esempio illuminante: «Il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento». Seguire e controllare tutto, ma bandendo «le cattive tradizioni della media cultura italiana: l’improvvisazione, il ‘talentismo’, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale⋄.
A proposito di formati e di design. Nino si era fatto mandare in carcere il primo numero della rivista Leonardo edita da Sansoni e l’aveva paragonato ai numeri della stessa rivista èditi in precedenza da casa Treves. E nota subito la differenza a tutto favore della Sansoni, e ne scrive a lungo. Intanto a proposito della veste esteriore che ha grande importanza sia commercialmente che per fidelizzare il lettore, e ciò vale, a suo giusto avviso, non solo per le riviste ma anche per i quotidiani – e lui, in cella, ne ottiene tra al mattino e due al pomeriggio.
Qui, a proposito della veste, elenca minuziosamente, con una precisione tecnica non tanto da giornalista quanto da proto (che è, o almeno era, il “re” in tipografia) le caratteristiche di una pagina-tipo “composta dai margini, dagli intercolunni, dall’ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna cioè dal numero della lettere per linea e dall’occhio di ogni lettera, dalla carta e dall’inchiostro: bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuto al maggiore o minore logorio delle matrici o delle lettere a mano ecc.” Anche da queste minuzie si può trarre una morale. Per esempio sulla “resa” politica della stampa. Si chiede Gramsci: “Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa, un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi più ampi”. Ogni pronostico su future vicende editoriali di partito è ovviamente del tutto casuale: giusto attribuire meriti e doti grandi a Gramsci ma non quella di indovino (e comunque ci aveva azzeccato).
Il che non gl’impediva di prevedere o anticipare quali strade avrebbe preso il giornalismo in un domani, prossimo o lontano che fosse, o almeno quella parte dell’editoria più avvertita, che avrebbe sentito il polso del lettore e colto i segni di esigenze più avanzate. […]
Lettore famelico, onnivoro, persino compulsivo, Gramsci trova sulla Nuova Antologia (estate 1928, Nino è in carcere già da due anni) un articolo “interessante” di Ermanno Amicucci. Lo sa fascista, non sa che diventerà segretario del sindacato fascista dei giornalisti, e men che mai può sapere che sarà persino repubblichino, collaborazionista con i nazisti, condannato per questo a morte, pena poi commutata in trent’anni, e infine non solo amnistiato ma quasi subito libero di riprendere a fare il giornalista come se nulla fosse. Comunque Amicucci ha toccato un tasto – l’educazione al giornalismo – a cui, come si è visto, Gramsci è assai attento, nemico com’è dell’improvvisazione, del dilettantismo. E dunque egli fa suo, e lo definisce meglio, il principio che il giornalismo debba essere insegnato, che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé casualmente, attraverso la “praticaccia”.
Questo principio è vitale, e Gramsci prevede che “si andrà sempre più imponendo a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile”. Di più, Gramsci ha un’idea: che il problema della scuola professionale possa essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le periodiche riunioni redazionali in scuole organiche di giornalismo, “con l’invito ad assistervi anche di elementi estranei alla redazione in senso stretto: vere scuole politico-giornalistiche”. Le scuole (quali buone, quali mediocri, quali pessime) ora esistono, ma completamente avulse dalle tradizionali riunioni di redazione. Un solo giornale ne trasmette via Internet una sorta di sceneggiata, magari utile a fini pubblicitari ma non certo scolastici. Gramsci è lontano.
(Stradario di uno spaesato, Statale 18, La Calabria brucia,) la caviglia dolente del mondo che si chiama Calabria». doppiozero, 14 aprile 2017 (c.m.c.)
I suoi libri non sono saggi e non sono racconti. Sono l’elettrocardiogramma dei suoi viaggi. La sua è una terra anginosa, ferina. I suoi non sono luoghi per spiriti tiepidi. Il paesaggio è una furia di bellezza, ma in Calabria la bellezza ha fieri nemici più che altrove. Difficile trovare nei luoghi abitati un metro quadro che non risenta di un lieve oltraggio. Qui le betoniere arrivano ovunque. Allora è importante leggere Minervino perché ci fa vedere l’Italia nella sua parte terminale. La penisola finisce a Reggio Calabria, dopo comincia la Sicilia ed è come se cominciasse un’altra cosa.
I libri di Minervino sono scritti in macchina, il paesaggio entra direttamente nel finestrino. In questo ultimo libro si avverte come un senso di dolore più acuto, un senso di solitudine. E questo dà belle impennate a tante pagine del libro. In effetti ci sarebbe da dire: non può essere che un regione italiana sia messa in queste condizioni. E invece il lamento di Minervino non produce molta eco. Sembra inascoltato già dove avviene. Si sente che il viaggiatore ha pochi approdi, è come un animale braccato che non ha alcuna tana in cui proteggersi. E per questo io credo che il libro di Minervino sia bello.
È un libro spaesato e senza pellicola, senza quella patina a cui ci hanno abituato gli autori più celebrati. Leggi e sei nella ferita, non nella sua rappresentazione. Ed un continuo salire e scendere: il mare è subito profondo e la montagna vicina al mare è subito altissima. Minervino non ha la pazienza di sistemare, di elaborare un ragionamento sistematico. Procede a strappi. Il cuore della faccenda è nel vedere, un vedere che non è mai pacifico, gli occhi e il cuore stanno nello stesso luogo, è un vedere emozionato.
Minervino su questa strada potrà darci sicuramente altri libri belli, ma già mentre scrive ti fa sentire che le sue parole non saranno accolte. L’Italia non riesce a guardare la Calabria, tutto si risolve in una sentenza frettolosa e senza appello. Il compito dello scrittore è trovare le prove di un’innocenza non riconosciuta, di una colpa non riconosciuta. Lo scrittore è l’ultimo e più affidabile grado di giudizio. Basterebbe leggere la pagina in cui Minervino racconta l’incontro con Danilo Dolci per sentire in che miserabile bancarotta culturale siamo finiti. Ma Minervino non si arrende, continua a oltrepassare la letteratura e l’antropologia per cercare un punto di vista più alto, meno ovvio, meno sicuro. E scrive e guida, frena, accelera, la pagina è il suo abitacolo e noi sentiamo i fossi, i tornanti, sentiamo improvviso il profumo delle ginestre, la luce lontana in mezzo al mare.
«La Calabria che conosco io oggi è un groviglio di strade senza una via d’uscita. Un posto per me e contro di me.» In questo stradario di uno spaesato si coglie l’intimità e la distanza con la sua terra, la mancanza di compromessi già nello sguardo: è un continuo subbuglio di stupore e insofferenza. Manca una classe dirigente che possa fare una sintesi. Manca una classe intellettuale che ci possa offrire amicizia, che sappia costruire comunità. La bellezza di questo libro sta nel fatto che lo sguardo non è tutto sulla Calabria, c’è il corpo di chi scrive, c’è un continuo alternarsi del dentro e del fuori. È lo scrittore a muoversi, agitato in una terra agitata. Il lettore può sistemarsi tranquillamente sul sedile posteriore, come se questo libro fosse un taxi. Noi guardiamo il paesaggio e chi ci guida nel paesaggio. Il prezzo della corsa non la paga chi legge ma chi scrive.
«Le reti del valore», un libro collettivo su migrazioni e governo della crisi. Inchieste e ricerche sul campo. La divisione etnica del lavoro dentro e fuori i confini nazionali è una costante nell’economia mondiale
». il manifesto, 13 aprile 2017 (c.m.c.)
Cos’hanno in comune un dormitorio per lavoratori interinali a Pardubice, un camion usato come palco per comizi sindacali fuori da una fabbrica di Manaus, un magazzino stipato a Shenzen? Niente, se non il fatto di essere scorci nascosti di continenti lontani, tanto differenti da sembrare collocati su pianeti diversi, ma in realtà posizionati su di una stessa catena transnazionale del valore.
Foxconn, multinazionale di elettronica al centro di questa particolare catena, non è però che una delle imprese che hanno contribuito a ridisegnare le geografie globali della produzione analizzate in Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto (DeriveApprodi, pp. 259, euro 18). Questa raccolta di quattordici testi sociologici, etnografici e teorico-politici, si pone, nelle parole introduttive dei curatori, il problema politico di «pensare una connessione tra gli spazi e i tempi (produttivi e politici, individuali e collettivi) che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare e che la composizione complessiva del lavoro permette invece di unificare come nuova condizione comune». La raccolta dà allora voce alla condizione dei migranti nei luoghi più disparati, dal Sud Italia alla Russia, per mostrare la doppia natura del lavoro migrante come rapporto di dominio e dispositivo di soggettivazione, «soglia di ubbidienza» e «spazio di politicizzazione», secondo le formule di Maurizio Ricciardi.
Non si tratta dunque solamente di un’indagine volta a scandagliare il cuore nero dell’industria globale nei suoi effetti sulle classi subalterne, bensì di una ricerca collettiva tenuta insieme dal filo conduttore delle migrazioni e specificamente dei migranti come soggetto autonomo che incarna il «non più» della cittadinanza. Il lavoro migrante e i processi di soggettivazione che innesca permettono di gettare luce sulla trasformazione contemporanea delle relazioni produttive transnazionali, e, come suggerisce Gabriella Alberti nel suo saggio sul sindacalismo ibrido dei migranti, di «reinventare forme di mobilitazione e negoziazione perfino dentro i luoghi di lavoro frammentato».
All’interno di questo scenario, l’Europa rappresenta uno spazio cruciale in quanto «accomuna oggi attori istituzionali ed economici in ogni parte del globo» interessati a trarre profitto da una vera e propria «nuova logistica europea» (Giorgio Grappi) fondata tanto sull’abbattimento quanto sulla creazione ex novo di confini. In questo contesto, la mobilità del lavoro e del capitale si danno – nelle parole di Devi Sacchetto e Rutvica Andrjiasevic – come «forza costitutiva nella strutturazione del mercato del lavoro», disarticolando il rapporto tra forme istituzionali, organizzazione economica e territorio.
Fuori da ogni nostalgico lavorismo, il volume mette in luce la rilevanza dell’industria per comprendere i processi di soggettivazione attuali, un’industria, però, che non si può leggere se non attraverso categorie nuove: razionalità logistica, mobilità, Stato globale, ma anche informalizzazione, etnicizzazione, de-delocalizzazione in un contesto mondiale trasformato in profondità dal neoliberalismo e dai processi di finanziarizzazione. Queste sono le parole che risuonano in tutti i saggi, a riprova dell’insufficienza della categoria di cognitariato come ombrello onnicomprensivo capace di cogliere la complessità di reti del valore segnate da gerarchie marcate, da dislivelli di potere enormi. Piuttosto, come emerge nel saggio conclusivo di Vando Borghi, «la città del lavoro» e «la città della conoscenza» convivono creando un campo di tensione, di conflitto, che sfugge ai tentativi di appropriazione.
È un conflitto, questo, che difficilmente può esaurirsi nell’immaginario pacificato della società reticolare, orizzontale, che connette lavoro e conoscenza, ma deve scontare l’imporsi sulla scena di soggetti – precari, migranti, operai – che mettono continuamente a nudo la violenza che si cela dietro la valorizzazione della cooperazione sociale. Da un lato, la trasformazione della conoscenza in «basi informative» (algoritmi, programmi informatici, indicatori di performance, parametri di valutazione) e, dall’altro, le dinamiche di impoverimento e marginalizzazione del lavoro vivo contribuiscono a intensificare un processo di individualizzazione che, da originario progetto di emancipazione, diventa un prerequisito che costringe ciascuno e ciascuna a trovare «soluzioni biografiche» a problemi collettivi e strutturali.
Contro questo nuovo spirito del capitalismo che usa i processi di individualizzazione per esercitare un dominio assoluto sul tempo, i migranti, figura chiave dell’intero volume, si pongono come forza dirompente capace di politicizzare la differenza data dalla presenza di una massa di individui messi al lavoro. Se guardati dal punto di vista eccentrico dei migranti, perfino gli stereotipi razziali e razzisti acquistano una valenza inaspettata. Ad esempio, letta contestualmente allo sviluppo dell’industria della moda, l’auto-segregazione dei migranti cinesi risulta non già una caratteristica etnica, ma il mezzo di «compressione della diversità della forza lavoro nel contesto globale della crescente diversità del lavoro».
Come mostra Antonella Ceccagno, nella rete di laboratori terzisti cinesi della moda italiana, le dinamiche di etnicizzazione della forza lavoro e di delocalizzazione «in loco» della riproduzione sociale diventano assi di produzione di profitto, precondizione per un «fluido funzionamento» del regime mobile del fast fashion.
Allo stesso modo, il furto di materie prime e di merce finita nelle grandi fabbriche tessili in Romania che producono per le grandi firme, lungi dal confermare lo stigma del romeno ladro, simboleggia la contestazione materiale del furto che la forza lavoro subisce quotidianamente. Come spiega Veronica Redini, rubare un capo di alta moda cucito e assemblato in Romania ma comperato esclusivamente nelle boutique delle capitali dell’Europa occidentale, per rivenderlo o tenerlo per sé, non è solo un risarcimento del proprio sfruttamento, ma è espressione di una conflittualità operaia che non trova nessuna mediazione sindacale, la cifra, cioè, di una rivolta silenziosa contro un ordine in cui il lavoro materiale, strutturalmente sottopagato, deve essere reso invisibile.
Questa è l’altra metà del made in Italy, marchio di uno sfruttamento subìto soprattutto dalle donne migranti, che, mentre con i loro movimenti e la loro ricerca di libertà mettono in discussione le strutture patriarcali di potere, si ritrovano sempre più oppresse dal doppio carico di lavoro produttivo e riproduttivo. Tanto in Veneto quanto nei Paesi della Ex-Jugoslavia, nota Chiara Bonfiglioli, la crisi (ormai normalizzata) costringe infatti le migranti a tornare al lavoro domestico, andando ad alimentare «un welfare informale, tollerato e sussidiato dai poteri pubblici» (Francesca Alice Vianello).
La collezione dei saggi contenuti in Le reti del valore allude insomma non soltanto alla produzione reticolare del valore a livello mondiale, ma anche e specialmente alla cattura del valore da pare di reti intrecciate di sfruttamento, informalizzazione, segregazione funzionale, retoriche umanitarie e mobilità governata per mezzo della costante produzione di norme legislative ed amministrative. Eppure, l’immagine delle reti non evoca solamente l’«irretimento» quotidiano a cui è soggetto il lavoro vivo. Fotografa anche una situazione che si evolve con rapidità e lungo traiettorie impreviste, lasciando spazio ai movimenti reali che non si lasciano catturare da queste reti ma le sommergono con la potenza di una marea che non risparmia nessun angolo del globo.
«Intervista a Tomaso Montanari presidente di Libertà e Giustizia che si schiera coi comitati locali "In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione"
». MicroMega online 13 aprile 2017 (c.m.c)
Deluso dal M5S, acerrimo nemico del Pd. Tomaso Montanari – storico dell’arte, paesaggista e professore universitario – dopo aver avuto un ruolo centrale nella campagna per il NO alla riforma costituzionale, è diventato recentemente presidente dell’associazione Libertà e Giustizia. Volto emergente, interpellato anche sul futuro della sinistra nell’ultimo numero di MicroMega, si dice poco interessato alle primarie Pd del prossimo 30 aprile né crede in un ritorno in scena di Matteo Renzi: «È politicamente finito, il suo carburante è esaurito, bruciato, volatilizzato. Nessuno può più credergli, dopo tante balle, false promesse, fanfaronate risibili». Per ultimo, Montanari sta studiando le carte sulla costruzione del gasdotto Tap, dove ha deciso di schierarsi con i comitati locali del NO: «In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione».
Montanari, partiamo da qui. Il Tap (Trans Adriatic Pipeline) è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromila chilometri che va dall’Azerbaijan all’Italia. Chi è favorevole al tunnel parla di grandi vantaggi per il Paese perché porterebbe 9 miliardi di metri cubi di gas con un impatto ambientale minimo (le proteste sono per 200 ulivi secolari che poi verrebbero ripiantati). Intanto, però, da un’inchiesta dell’Espresso, si evince che dietro l’opera spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. E’ favorevole nel dire che il problema del Tap non è dato certamente dagli ulivi, ma da chi ci sta mangiando sopra?
Lo sbocco salentino del Tap viene realizzato lì contro il parere del Ministero per i Beni culturali, che mise nero su bianco che «la metodologia sulla base della quale si è pervenuti alla scelta localizzativa ... non appare convincente». Grazie allo Sblocca Italia Renzi-Lupi quel parere si è potuto calpestare, e con esso si è calpestato l’articolo 9 della Costituzione. Questo è il vero problema.
Non rischiamo la sindrome Nimby dove a rimetterci è la collettività nazionale? Se un’opera è di interesse nazionale, non bisogna costruirla, ovviamente rispettando i canoni di trasparenza e azzerando l’impatto ambientale?
Il punto è stabilire cosa sia interesse nazionale, e in quale modo vada realizzato. Si tratta di bilanciare interessi legittimi. Qui non c’è stato alcun bilanciamento. Se avessimo avuto più Nimby – cioè più cittadinanza attiva, più amore per il proprio territorio e più legalità – avremmo un Paese migliore, non peggiore.
È possibile, in Italia, costruire una grande opera infrastrutturale senza il solito malaffare e senza favorire gli interessi delle cricche?
No, non pare possibile. La corruzione è ormai endemica alla forma di governo. Occorre una discontinuità drammatica, occorrono misure draconiane. Come quelle che il M5S ha promesso, ma poi una volta arrivato a prendere Roma non ha per ora realizzato. Un punto essenziale è che l’opera deve servire davvero, e deve avere le carte in regola sul piano legale. Le opere inutili sono criminogene per definizione.
Dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale, Matteo Renzi sembrava in assoluto declino, invece con la vittoria alle prossime primarie potrebbe ritornare più forte di prima. Ci crede a questa nuova ondata del renzismo? E, nel caso, come la leggerebbe?
Renzi è finito perché ora tutti sanno che mente sistematicamente e che il suo scopo è il potere personale, non il cambiamento dello stato delle cose. Dopo il 4 dicembre aveva due possibilità: uscire di scena e dimostrare che sapeva fare altro nella vita, o trasformarsi in un politicante da prima repubblica in cerca di poltrona e stipendio. Ha scelto la seconda. Sta irresponsabilmente trascinando il Pd a fondo con sé, in un abbraccio mortale. Se il Pd lo segue, si trasforma definitivamente nel PdR, il Partito di Renzi, e poi finisce. Una fine ben triste.
Che idea si è fatto del caso Consip, dopo che è stato indagato un ufficiale dei Carabinieri per aver falsificato le dichiarazioni su Tiziano Renzi? Si è preso un abbaglio contro di lui?
Mi pare una vicenda allucinante. A cui questa ultima rivelazione aggiunge un carico di angoscia: quali guerre per bande dilaniano lo Stato? In ogni caso, rimane non smentito il quadro di fondo: l’occupazione del potere da parte di un ristretto cerchio di provinciali che ora si lanciano a vicenda accuse gravissime. Era questo la rottamazione, il rinnovamento, il futuro promesso dal grande statista di Rignano sull’Arno? Una domanda che resta, comunque finisca l’inchiesta.
Anche il M5S – nonostante in tutti i sondaggi si attesti come primo partito – vive le sue vicissitudini: a Genova stiamo assistendo al vero volto autoritario e centralistico del MoVimento di Beppe Grillo?
Stanno venendo i nodi al pettine. Io credo che il M5S dovrebbe andare in direzione diametralmente opposta: invece che pretendere un’ortodossia organizzando un’inquisizione, dovrebbe coltivare la forza creativa dell’eresia, del pensiero critico. Dovrebbe candidare anche una quota di cittadini di riconosciuto prestigio locale, portando in Parlamento una fetta di Paese senza rappresentanza. Come Berlinguer con gli indipendenti di Sinistra, con i cattolici del dissenso. Senza chiedere obbedienza. Non si vogliono alleare coi politici? Potrebbero cominciare ad allearsi con i cittadini. E dimostrare di non essere Grillology.
Nel frattempo Berlusconi... Renzi e Grillo stanno rimettendo in gioco il Cavaliere o è fantapolitica?
Bah, mi fa una pena, in versione vegana ad allattare gli agnelli… Non so, la destra moderata è il Pd di Renzi, la destra estrema è la Lega. Dove può stare Berlusconi?
Che ne pensa invece dei movimenti a sinistra? È vero che le è stato proposto un ruolo dirigenziale in Sinistra Italiana?
Credo che Sinistra Italiana e Possibile debbano camminare insieme. In quale direzione? Ci vuole un partito di sinistra di massa. Non riformista, ma radicale. È un cammino lungo, ma chi non parte, non arriva. Io sono un uomo di sinistra, tutto qua.
Insomma, Montanari cosa vuole fare da grande? La vedremo presto in campo (politico)?
La mia vita è la ricerca. Ricerca scientifica, ricerca morale, ricerca politica sono strettamente collegati e sfociano in una pratica intollerabile per il potere: dire la verità. Questo non significa rinunciare a ‘fare politica’. Significa solo ricordare che esistono molti modi per farla: e ricordare che cercare e dire la verità è uno di quelli. È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettuali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinanza. Dire la verità vuol dire fare politica: «una politica diversa», di cui continuiamo ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione del presente non potrà che essere costruito da una «politica diversa».
E qual è la prossima battaglia che vedrà impegnata “Libertà e Giustizia”?
Abbiamo preso una posizione molto dura sul caso Madia. Credo che dovremo insistere. L’intreccio tra conoscenza, formazione, etica e politica è decisivo. Se vogliamo dare futuro ai nostri ragazzi e alla democrazia dobbiamo affermare che l’onestà intellettuale, il duro lavoro e l’eguaglianza non sono valori disponibili. La razza padrona che trucca le carte è intollerabile e non va tollerata.
Una legge per togliere un marchio ai più fragili. Il 4 dicembre la maggioranza degli italiani ha saputo rispondere con entusiasmo bocciando una legge che voleva privarli dei loro diretti. Sapranno essere altrettanto pronti a difendere i diritti degli altri?
il manifesto, 13 aprile 2017
Sembrava finita la stagione dei crimini attribuiti su base etnica. «Ricordate? C’erano le elezioni e sembrava ci fosse uno stupro al giorno da parte di rumeni. Poi, chiuse le urne, finiti gli stupri». Emma Bonino accenna appena a una smorfia quando l’eco triste delle parole di Luigi Di Maio la raggiungono nella sala Nassirya del Senato dove sta coordinando la presentazione della campagna culturale «Ero straniero – L’umanità che fa bene», lo strumento scelto per promuovere la legge di iniziativa popolare che supera la Bossi-Fini.
La sala è gremita, perché la campagna nazionale promossa da Radicali Italiani, Acli, Arci, Asgi, Fondazione Casa della carità, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto e Cild ha già ottenuto il sostegno di almeno una sessantina di sindaci, un lungo elenco di organizzazioni che si occupano di migranti e un presidente di Regione, Enrico Rossi, il governatore della Toscana che annuncia «l’adesione e la mobilitazione di Mdp per la raccolta delle firme». Il dibattito è ricco: qui il gap tra percezione e realtà è al minimo assoluto.
«C’è una parte politica che soffia irresponsabilmente sul fuoco, e con menzogna». Bonino, che bacchetta anche i giornalisti, ricorda che «dopo la più grande sanatoria mai fatta in Italia, quella dei 700 mila del governo Berlusconi-Maroni, i crimini compiuti da stranieri calarono: più c’è integrazione, meno si delinque».
È buonismo? No, anche se qui nessuno rinnega quella parola. Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, per esempio, a Di Maio manda a dire che «accanto alle parole solidarietà e bontà sappiamo usare anche la parola indignazione». Patrizio Gonnella di Cild denuncia la «narrazione tossica» e mostra con i dati, che «mentre crescono in numero percentuale e assoluto i detenuti italiani e di altre nazionalità, i rumeni in controtendenza diminuiscono».
E Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, ricorda a Di Maio e a Minniti che «se l’accoglienza è soggetta ai limiti dell’integrazione, bisogna lavorare sull’integrazione, come facciamo con la nostra pdl, mentre nel decreto appena trasformato in legge si è scelto di rilanciare una fallimentare strategia securitaria. Ma i fatti hanno già dimostrato che securitario non è sinonimo di sicuro. Se quindi il M5S vuole contrastare il crimine, ci aiuti a raccogliere le firme per mandare in soffitta l’attuale legge sull’immigrazione, che ha prodotto solo lavoro nero, sfruttamento e quindi criminalità».
In linea con la tradizione Radicale si è scelto di affidare all’iniziativa popolare la pdl che si sviluppa soprattutto sul piano del lavoro, «unico ambito in cui l’Ue non stabilisce strette linee guida per i Paesi membri», come spiega l’avvocata dell’Asgi, Giulia Perin, e sui principi di «accoglienza, integrazione e diritti». Anche perché è grazie agli immigrati – «che sono il 13% della forza lavoro, hanno versato 7 miliardi di contributi e percepito lo 0,2% delle pensioni pagate dall’Inps», sottolinea lo scrittore di origini senegalesi Pap Khouma, anni di «sofferta clandestinità» alle spalle e orgoglioso esponente della società italiana – se l’Italia può sperare di sopravvivere al suo ineluttabile destino di popolazione in via d’estinzione.
«Abbiamo oggi 500 mila irregolari – fa presente Bonino – Continuo a chiamarli clandestini, perché esiste ancora un reato che si chiama di clandestinità. Ma non si può deportare, con i rimpatri, un esercito di irregolari, che aumenteranno ancora visto che le domande vengono respinte al 60% e non ci sono altri modi per entrare da regolari».
Perciò, oltre all’abolizione del reato di clandestinità, tra i punti salienti della Pdl ci sono: il permesso di soggiorno temporaneo di 12 mesi, per facilitare l’incontro tra lavoratori stranieri e datori di lavoro italiani, anche grazie a soggetti di intermediazione tra la domanda e l’offerta; la reintroduzione del sistema a chiamata diretta con lo sponsor, previsto dalla Turco-Napolitano («cancellato da un centrodestra molto aggressivo», ricorda in sala Livia Turco che ha aderito alla campagna); un permesso di soggiorno «per comprovata integrazione» che dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro, «sul modello della Germania e della Spagna, dove in questo modo si è abbattuto il numero dei clandestini», come spiega ancora l’avvocata Perin.
Ma senza diritti non c’è integrazione. Dunque: «piena equiparazione per il diritto alla salute», «uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale», «la garanzia di conservare tutti i diritti pensionistici in caso di rimpatrio volontario», e «effettiva partecipazione alla vita democratica».
Il testo della pdl che si propone come una nuova legge quadro sull’immigrazione sarà depositato oggi in Cassazione. Poi, tutti al lavoro, per raccogliere le firme. L’ex ministra degli Esteri Emma Bonino lancia un appello: «Siccome la politica è distratta, guarda dall’altra parte, chiediamo ora ai cittadini di farsi sentire».
la Repubblica, 13 aprile 2017
«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. Il mondo deve fermare i signori della guerra. Perché a farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi». Papa Francesco arriva oggi nella Casa di Reclusione di Paliano (Frosinone) per celebrare la Messa in Coena Domini con il rito della lavanda dei piedi ad alcuni detenuti. La visita ai carcerati è occasione per una riflessione più ampia che Francesco accetta di fare con Repubblica su una missione che la Chiesa non può eludere: «Farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati». Dice Papa Bergoglio: «Chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».
Ma come sta vivendo Francesco questa vigilia di Pasqua caratterizzata da uno scenario mondiale ad alta tensione?
« Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne »
Santo Padre, anche questo giovedì santo si recherà in carcere. Perché?
«Il brano evangelico del giudizio universale dice: “Sono stato prigioniero e siete venuti a trovarmi”. Ecco, il mandato di Gesù vale per ognuno di noi, ma soprattutto per il vescovo che è il padre di tutti».
Lei ha più volte detto che si sente peccatore come i carcerati. In che senso?
«Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».
È questo che devono fare i pastori, essere al servizio di tutti?
«Come preti e come vescovi dobbiamo sempre essere al servizio. Come dissi nella visita in un carcere che feci il primo giovedì santo dopo l’elezione: è un dovere che mi viene dal cuore».
Chi le ha insegnato questa che ormai è divenuta una tradizione?
«Molto mi ha insegnato l’esempio di Agostino Casaroli, scomparso nel 1998 dopo essere stato Segretario di Stato vaticano e cardinale. Da sacerdote ha svolto per anni apostolato nel carcere minorile di Casal del Marmo. Tutti i sabati sera spariva: “Si sta riposando”, dicevano. Arrivava in autobus, con la sua borsa da lavoro, e rimaneva a confessare i ragazzi e a giocare con loro. Lo chiamavano don Agostino, nessuno sapeva bene chi fosse. Quando Giovanni XXIII lo ricevette dopo la sua prima visita nei Paesi dell’Est, in missione diplomatica in piena Guerra Fredda, al termine dell’incontro gli chiese: “Mi dica, continua a andare da quei ragazzi?” “Sì, Santità”. “Le chiedo un favore, non li abbandoni mai”. Fu quella la consegna lasciata a Casaroli dal Papa Buono, che sarebbe morto qualche mese dopo».
Secondo lei, insomma, la Chiesa deve anzitutto andare incontro agli scartati. È questa l’azione principale che le è chiesta?
«Io credo di sì. Andare, farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati. Quando sono davanti a un carcerato, ad esempio, mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro».
Nella sua intervista a “La Civiltà Cattolica” alla domanda su chi fosse Jorge Mario Bergoglio rispose: «Un peccatore ». È così?
«Mi sento tale, certo. Il motto del mio stemma è una frase di San Beda il Venerabile a proposito di San Matteo: “Dio ha rivolto i suoi occhi”. “Miserando atque eligendo”, “Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse”. È di più di un semplice motto. È la mia stella polare. Poiché in essa è contenuto il mistero di un Dio disposto a portare su di sé il male del mondo pur di dimostrare il proprio amore all’essere umano».
Il Vangelo è pieno di episodi in cui Gesù si fa prossimo a coloro che la società scartava.
«“Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata”, dice con grande fede l’emorroissa (una donna che aveva perdite di sangue da dodici anni, ndr) che sente dentro di sé che Gesù può salvarla. Secondo i Vangeli era una donna scartata dalla società, alla quale Gesù dona la salute e la libertà dalle discriminazioni sociali e religiose. Questo caso fa riflettere sul fatto che il cuore di Gesù è sempre per loro, per gli esclusi, come fra l’altro la donna era percepita e rappresentata allora».
Anche oggi continua in parte questa discriminazione.
«Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità. In tal senso sono proprio i Vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre a un punto di vista liberatorio. Gesù ha ammirato la fede di questa donna che tutti evitavano e ha trasformato la sua speranza in salvezza».
Quella donna si sentiva esclusa anche a causa del suo peccato.
«Tutti siamo peccatori, ma Gesù ci perdona con la sua misericordia. L’emorroissa era timorosa, non voleva farsi vedere, ma quando Gesù incrocia il suo sguardo non la rimprovera: la accoglie con misericordia e tenerezza e cerca l’incontro personale con lei, dandole dignità. Questo vale per tutti noi quando ci sentiamo scartati per i nostri peccati: oggi a tutti noi il Signore dice: “Coraggio, vieni! Noi sei più scartato, non sei più scartata: io ti perdono, io ti abbraccio”. Così è la misericordia di Dio. Dobbiamo avere coraggio e andare da lui, chiedere perdono per i nostri peccati e andare avanti. Con coraggio, come ha fatto questa donna».
Spesso chi si sente escluso si vergogna.
«Chi si sente scartato come i lebbrosi o i senzatetto, si vergogna e come l’emorroissa fa le cose di nascosto. Gesù invece ci rialza in piedi, ci dà la dignità. Quella che Gesù dona è una salvezza totale, che reintegra la vita della donna nella sfera dell’amore di Dio e, al tempo stesso, la ristabilisce nella sua dignità. Gesù indica così alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro a ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figlio di Dio».
Ancora in questi giorni le armi uccidono. Cosa ne pensa?
«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. A farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi. Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne. Come ho detto anche nel recente messaggio per la giornata mondiale della pace, il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti a essa».
Qual è lo scopo secondo lei di queste continue guerre?
«Me lo chiedo anche io sempre. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? L’ho detto più volte e lo ridico: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti».
In carcere porta un messaggio di pace e anche di speranza nonostante tutto?
«A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere nei carcerati solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ma, ripeto ancora una volta, tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. Tutti in una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni».
Sempre più spietata la discriminazione verso chi è più fragile e bisognoso di aiuto, sempre più ostile e rischiosa la città per chi osa esprimere critica e dissenso. E le chiamano "sinistra" e "democrazia". Articoli di Andrea Fabozzi e Gaetano Azzariti, il manifesto, 13 aprile 2017
ASILO E SICUREZZA URBANA,
È LEGGE LA DOPPIA STRETTA
di Andrea Fabozzi
«Con il minimo dei voti e defezioni anche nel Pd la camera e il senato approvano in contemporanea i decreti Minniti-Orlando»
Il decreto Minniti-Orlando è legge. I numeri della camera all’ultimo passaggio dicono questo: l’Italia ha introdotto nel suo ordinamento un rito processuale di serie B, con meno garanzie, che sacrifica i diritti universali di una categoria particolarmente debole, i richiedenti asilo, grazie a una maggioranza molto scarsa, appena sufficiente, e garantita da un solo partito: il Pd. Neanche tutto il Pd, visto che all’appello sono mancati circa ottanta deputati del gruppo, prova tangibile dei malumori provocati dalla stretta repressiva. Alla fine i sì al decreto, dopo che martedì era passata la fiducia al governo legata al provvedimento, sono stati 240, molto al di sotto della teorica maggioranza di governo e anche della maggioranza assoluta. Se la legge non è stata fermata è stato ancora una volta per il largheggiare delle «missioni» e le assenze delle (teoriche) opposizioni, Forza Italia soprattutto con più di mezzo gruppo a spasso, ma anche Fratelli d’Italia. Conferma indiretta dell’apprezzamento di cui gode Minniti a destra.
Molti assenti (un terzo) anche nel gruppo 5 Stelle, ma i grillini ieri hanno fatto notizia più per le dichiarazioni anti rumene di Di Maio. Dei 240 sì, ben 205 appartengono al Pd, il resto è contorno centrista – e pure da quelle parti prevalevano gli assenti. Nella calda mattinata di ieri era più facile incontrare deputati in giro per la città tra bar e musei che in aula, dove è stato convertito un decreto che scardina il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ma a finire sotto accusa è stato il gruppo Mdp-Articolo 1, bersaglio degli attacchi dei renziani. I deputati bersanian-dalemiani ex Pd ed ex Sel hanno votato no alla legge, come annunciato martedì quando invece si erano divisi sulla fiducia, con gli ex democratici che non se l’erano sentita di negare l’appoggio al governo. Ieri invece sono rimasti più o meno uniti, dal no della maggioranza del gruppo si è distinta una pattuglia di otto deputati che preferito la mossa più soft di non partecipare al voto.
Un attimo dopo l’approvazione, il capogruppo del Pd Rosato ha sorvolato sulle assenze dei suoi deputati ma ha attaccato Mdp, definendo «inaccettabile» il voto contrario di un partito che fa parte della maggioranza. «Se vogliono destabilizzare la legislatura lo dicano espressamente – ha detto – sono sulla strada giusta per farlo, i decreti sono un pezzo dell’azione di governo». Insomma, la colpa delle fibrillazioni attorno a Gentiloni non è della voglia di Renzi di correre alle urne, ma dei bersaniani. Che hanno risposto tentando di spiegare il differente atteggiamento tra camera e senato, dove avevano votato sì alla fiducia e dunque al decreto: «C’era l’impegno a modificarlo alla camera, ma ci è stato impedito», ha detto il capogruppo Laforgia. Un ragionamento del genere sta dietro le assenze «politiche» dei deputati Pd, anche se pochi – Bruno Bosio, Monaco – hanno reso pubblico il dissenso.
Lo hanno fatto invece al senato Manconi e Tocci, anche loro del gruppo Pd, che non hanno partecipato al voto sulla fiducia con la quale ieri, parallelamente, si è compiuto il ciclo dell’altro decreto Minniti, quello sulla sicurezza urbana, ugualmente contestato da giuristi e associazioni. Anche in questo caso nessun dibattito vero, nessuna modifica possibile e volontà del governo blindata con la fiducia. E ancora numeri molto bassi, solo 141 sì, un altro record negativo per l’esecutivo Gentiloni. Sufficiente però per andare avanti, calpestando diritti e garanzie.
CON IL DECRETO MINNITI
PIÙ TUTELE AI REATI BAGATELLARI
CHE GARANZIE AI MIGRANTI
di Gaetano Azzariti
«Diritti e Costituzione. E il governo riduce le garanzie a chi ne ha più bisogno»
La riduzione delle garanzie processuali per i richiedenti asilo contrasta con la nostra tradizione giuridica e costituzionale. Se, come si sostiene dalle parti del Governo, il decreto Minniti-Orlando è di sinistra, esso ne riflette lo stato confusionale. E mostra la difficoltà d’affrontare le questioni dell’immigrazione nel rispetto del principio della dignità delle persone.
Quel che più colpisce è che la “sinistra al governo” si fa promotrice di una normativa che nega adeguata protezione proprio ai soggetti più vulnerabili, sbilanciando ulteriormente il già iniquo sistema giudiziario. Le nuove disposizioni eliminano un grado di giudizio nei casi in cui si sia negato al richiedente il diritto d’asilo. In tal modo si pensa di accelerare i processi, senza però tener conto che l’oggetto del giudizio riguarda un diritto fondamentale tutelato dalla nostra Costituzione dall’articolo 10. Sino ad ora questi diritti richiedevano una tutela rafforzata, adesso essa si attenua. È sintomatico che la riduzione dei tempi processuali riguardi i migranti e non magari i reati bagatellari.
Ad aggravare il quadro è la riduzione delle garanzie nell’unico giudizio di merito rimasto (v’è poi solo la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, garantita dall’articolo 111 della Costituzione). Una delle misure previste appare assai significativa in quanto lesiva del diritto di difesa, nonché del principio del giusto processo garantiti in Costituzione dagli articoli 24 e 111. Nei processi relativi alle richieste di asilo non è infatti assicurato il contraddittorio, il giudice può decidere senza aver ascoltato l’interessato. Ciò comporta che l’unico momento in cui il migrante può esporre le sue ragioni a fondamento della richiesta d’asilo è nell’incontro con la Commissione territoriale. Un “colloquio personale” che, ovviamente, non può fornire nessuna certezza processuale: esso si svolge in assenza di ogni assistenza legale ed è da dubitare che gli interessati siano in grado di valutare correttamente la situazione e prospettare adeguatamente le complesse motivazioni a sostegno del loro diritto fondamentale.
Un esame più accorto, che solo l’udienza pubblica con l’intervento delle parti davanti ad un giudice terzo e l’assistenza di un difensore può garantire, appare necessario non solo in ragione della tutela dell’interesse del migrante, ma anche per assicurare la correttezza della decisione. Dovrebbe, in effetti, essere tenuto in maggior conto l’interesse pubblico alla certezza del giudizio da salvaguardare sempre, ma tanto più in quei casi in cui, come ci viene continuamente ripetuto, può venire in gioco persino la sicurezza dello Stato. Anche da questo punto di vista la nuova normativa risulta irragionevole. In molti casi di richiesta d’asilo l’accertamento che deve essere compiuto si rileva particolarmente complesso, immaginare che tutto si possa risolvere in un’intervista videoregistrata appare assai superficiale.
Un particolare rivela lo spirito essenzialmente securitario, nonché l’inadeguatezza del decreto. Una delle questioni più delicate delle politiche di accoglienza riguarda i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La Corte costituzionale ha indicato da tempo (sent. n. 105 del 2001) come il trattenimento dello straniero in simili luoghi rappresenti una misura che incide sulla libertà personale e che dunque debba essere garantito il rispetto delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Un legislatore consapevole e rispettoso dei principi costituzionali dovrebbe affrontare la questione e definire un sistema di trattenimento con – come scrive ancora la Corte – «finalità di assistenza» e che impedisca la «mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere».
Il decreto per ora si limita a cambiare il nome dei Cei, ma non sembra preoccuparsi della natura sostanzialmente detentiva della permanenza coatta entro queste strutture. Un modo per sfuggire alla realtà di politiche migratorie le cui soluzioni sono certamente assai complesse che devono però essere costituzionalmente orientare. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra di governo e non solo al governo.
Due giornalisti sullo stesso argomento.La conclusione è la stessa: i mass media barano e gonfiano un fenomeno che non c'è. Ma l'uno (Vittorio Emiliani) parla schietto, l'altro (ci perdoni Corrado Augias) è un po' ipocrita e difende la corporazione.
la Repubblica, 12 aprile 2017
Vittorio Emiliani domanda
CARO Augias, i Tg e anche molti quotidiani sono pieni di sangue, omicidi e femminicidi, gente che vuole armarsi. Un quadro che moltiplica per mille le insicurezze. Risponde al vero? No. Gli immigrati residenti sono saliti da 3 a 5,4 milioni nell’ultimo decennio (+83,7%), mentre gli omicidi sono drasticamente diminuiti: da oltre 600 a 438 (-27%). Nel 1991 erano ancora 1.910, la metà attribuita a mafia-camorra-’ndrangheta. In Italia si assassina meno che in Finlandia, Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria e Danimarca. Per non parlare degli Stati Uniti. Siamo alla pari, o leggermente sotto, a Francia, Spagna, Olanda, Germania. Lì i Tg nazionali danno forse notizia di “un nuovo omicidio” in qualche sperduto paese? Da noi sì, e con grande evidenza.
Dal 2010 agli inizi del 2013 (fonte Polizia di Stato), anche le vittime di femminicidio risultano diminuite dell’8,5 %. E per i migranti? Le richieste di asilo da noi risultano pari a meno di 1400 per 1 milione di abitanti, mentre in Ungheria sono oltre 17.500, in Svezia oltre 16.000, in Austria quasi 10.000, in Finlandia 6.000 e in Germania 5.441. Parlare di “invasione” è improprio. Ma perché allora i media ci fanno comparire come un popolo di omicidi, con extra-comunitari pronti ad uccidere, sommersi di rapine, furti e altro?
Corrado Augias risponde
COME diceva mia nonna non si deve fare d’ogni erba un fascio. I titoli dei giornali di destra sono una cosa, quelli degli altri una diversa. Le ragioni sono note, evidente la strumentalità politica: più c’è paura più guadagnano le destre che proliferano sui sentimenti forti: paura e rabbia sociale. Al netto di questa diversità, la stampa dà comunque troppa evidenza ai fatti di sangue? È possibile. Intanto siamo noti nel mondo per essere un popolo molto emotivo, i più cattivi si riferiscono a noi come “i brasiliani d’Europa”. Non è giusto, ma i pregiudizi non vanno tanto per il sottile. Ci sono anche altre ragioni per il fenomeno denunciato nella lettera. I grandi mutamenti in corso hanno colpito nel profondo. Non si tratta soltanto del rapido impoverimento delle classi medie, ma di un insieme di cambiamenti che sta sconvolgendo abitudini consolidate e lo stesso profilo della vita associata soprattutto nelle cittadine e nei paesi.
La paura sociale è come la temperatura, conta non il termometro ma la percezione. Un immigrato pazzo che a Milano uccide i passanti a colpi di mannaia, un pregiudicato serbo che nel ferrarese spara al primo accenno di resistenza a una rapina, scuotono gli animi più di ogni più rassicurante (e veritiera) statistica. Nei giorni scorsi il questore di Milano diceva: gli omicidi sono diminuiti e le richieste di porto d’armi aumentate a dismisura. C’è una logica? Non c’è, nelle reazioni nervose ed emotive la logica non c’è mai. E la stampa che Emiliani mette sotto accusa? A parte gli eccessi strumentali cui accennavo, la stampa un po’ fa il suo mestiere, un po’ - diciamolo - ci marcia. Gli omicidi intimoriscono ma, paradossalmente, attraggono, sono un tema ghiotto. Basta pensare a quanti ne consuma ogni giorno la televisione.
«Alla camera passa con un record negativo la fiducia sul decreto che istituisce un diritto di serie B per i profughi che cercano la protezione internazionale
». il manifesto, 12 aprile 2017 (c.m.c.)
MINNITI È LEGGE DI DELLO STATO.
di Andrea Fabozzi
Il decreto Minniti-Orlando entra definitivamente nell’ordinamento giuridico italiano. In 53 giorni da quando il ministro dell’interno e quello della giustizia hanno firmato il nuovo rito processuale riservato ai richiedenti asilo, che prevede un grado di giudizio in meno e riduce le garanzie in prima istanza -, e aggiunge la riapertura e moltiplicazione dei Cie (con un altro nome) per velocizzare le espulsioni – il parlamento ha detto sì. Questa mattina l’ultimo passaggio, ormai solo formale, alla camera. Una doppia fiducia nei due rami del parlamento che ha impedito ogni dibattito su una misura che è però epocale: l’Italia accede al principio che per una categoria di persone, i migranti che chiedono la protezione internazionale, è possibile prevedere un diritto speciale. Attenuato. Se ne occuperà la Corte costituzionale.
Sono in dodici nell’aula di Montecitorio quando comincia la discussione sulla fiducia, compresi il presidente di turno dell’assemblea, una stenografa e il ministro Minniti. Il ministro se ne andrà quasi subito, sostituito da due sottosegretari a staffetta. Convintissimi solo i deputati che si pronunciano per il No. Tutti quelli a destra che avrebbero voluto misure ancora più drastiche. I 5 Stelle, secondo i quali «quando si parla di immigrazione, la verità è una sola: il nostro paese non riesce a fronteggiare questo fenomeno». E Sinistra italiana-Possibile, che giudica il decreto «uno spot che però introduce gravissimi precedenti nella nostra cultura e prassi giuridica». Assai meno convinti i sostenitori del provvedimento, almeno quelli non iscritti al Pd che parlano tutti di «fiducia sofferta», «a malincuore» e «metodo sbagliato», «confronto impossibile». Alla fine sarà la fiducia più magra alla camera del governo Gentiloni (lo stesso record negativo registrato nel passaggio al senato, due settimane fa). Appena 330 sì, quaranta voti sotto la maggioranza teorica.
Eppure non è mancato il sostegno dei bersanian-dalemiani fuoriusciti dal Pd. E per questo si è diviso il nuovo gruppo Mdp-articolo 1. Gli ex Sel (i deputati che non hanno aderito a Sinistra italiana) hanno negato la fiducia non partecipando al voto, con qualche eccezione. Gli ex Pd, con qualche eccezione anche loro, hanno deciso di non negare l’appoggio al governo, spaventati dalla propaganda renziana che li presenta come una forza di inaffidabile opposizione.
Si ritroveranno stamattina, nel giudizio sul merito del provvedimento – alla camera è previsto il doppio passaggio – dove tutti voteranno no. Salvo l’eccezione di chi non parteciperà al voto.
«C’è un oggi e c’è un domani», ha detto (ieri) il deputato di Mdp Fossati parlando a nome del gruppo. Fuori discussione l’appoggio degli ex Pd a Gentiloni, e così in una riunione convocata subito dopo Bersani ha chiesto ai nuovi compagni di sinistra di non evidenziare troppo il loro dissenso. Quindici deputati ex Sel hanno così evitato di rispondere alla chiama per la fiducia, mentre due (Duranti e Sannicandro) non hanno rinunciato al loro no. Uno invece, Kronbichler, ha votato sì, come il resto dei componenti del gruppo, gli ex Pd, salvo Epifani e Formisano che non hanno risposto. In definitiva una spaccatura a metà.
Nel frattempo Laura Boldrini, che con Pisapia anima la sinistra ponte tra Mdp e Pd, ha espresso riserve sul decreto, compatibilmente con il ruolo di presidente dell’aula. «Le associazioni temono che possa essere lesa la fruibilità del diritto di asilo – ha detto – in fase di applicazione bisognerà verificare». E poi ha aggiunto che «è giusto dire che l’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione, ma mancando le risorse la frase di Minniti resta un principio senza seguito coerente». Il decreto in effetti prevede la creazione di sezioni specializzate in 26 tribunali per le cause sul diritto di asilo, ma senza costi aggiuntivi per l’assunzione di nuovi magistrati o cancellieri né per la formazione. Prevede stanziamenti invece per i voli di riaccompagnamento degli espulsi e l’assunzione di altri carabinieri per le sedi diplomatiche in Africa.
I DECRETI MINNITI-ORLANDO
SONO INCOSTITUZIONALI . ECCO PERCHÈ.
di Eleonora Martini
«A rischio di incostituzionalità». Il giudizio è praticamente unanime, in Piazza Montecitorio dove decine di associazioni e formazioni politiche si sono date appuntamento per contestare i decreti legge Minniti-Orlando, mentre i deputati in Aula votavano la fiducia. Entrambi – quello sull’immigrazione, che oggi verrà convertito in legge con l’ultimo voto della Camera, e quello sulla sicurezza urbana che è passato all’analisi del Senato – violano i principi stessi su cui fonda lo Stato italiano, secondo molti militanti delle organizzazioni che hanno aderito al sit-in, tra le quali Antigone, Arci, Asgi, Acli, Cgil, Cisl, Cnca, Fondazione Migrantes, Legambiente, Libera, Lunaria, Medici senza frontiere, Radicali italiani, Rifondazione comunista, Sant’Egidio e Sinistra Italiana.
A cominciare dalla necessità e dall’urgenza che hanno motivato la forma dell’atto normativo. Ma di punti «deboli», costituzionalmente parlando, i provvedimenti di Minniti e Orlando ne hanno molti. Basti pensare al «Daspo urbano» applicato anche il 25 marzo scorso a Roma per fermare preventivamente alcuni manifestanti «per l’altra Europa» provenienti dalla Val Susa e dal Nord-est, «che viola l’art.21 sulla libertà di espressione del pensiero». O alla riforma dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato, resosi necessario, secondo il legislatore, a causa dell’intasamento di alcuni tribunali, quelli su cui insiste la competenza delle commissioni che vagliano le richieste di asilo. Per intenderci, nel Lazio tutti i ricorsi degli aspiranti asylanten gravano solo su quella decina di magistrati della Prima sezione del Tribunale di Roma. «Ma il ministro Orlando, invece di cambiare le competenze e distribuire sul territorio questo carico di lavoro, ha deciso di semplificare l’iter a scapito di molti diritti costituzionali», spiega l’avvocato Stefano Greco, della Casa dei diritti sociali.
Andando nei particolari del «decreto immigrazione», il primo punto è la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle Commissioni (le cui sedute saranno d’ora in poi videoregistrate e i cui verbali saranno informatizzati) che, secondo il ministro Orlando, permette di evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti a un giudice. «In questo modo, si viola l’articolo 111 secondo il quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo” – spiega ancora l’avv. Greco – che vuol dire contraddittorio tra le parti, parità, e un giudice terzo e imparziale. Davanti alle commissioni invece il richiedente asilo è solo, senza un avvocato e posto dinanzi ad un dipendente del Ministero dell’Interno. In sostanza, si fa confusione tra i poteri dello Stato, sostituendo in questo caso quello giudiziario».
Se c’è diniego, poi, si hanno solo 30 giorni per trovare un avvocato, preparare e depositare il ricorso. E, se in seconda istanza si vuole fare ricorso in Cassazione, per un giudizio di legittimità, il tutto va ripetuto, compresa la delega all’avvocato (norma particolare, si badi bene, applicata solo ai richiedenti asilo).
Ma come si forma il giudizio del tribunale di primo (e unico) grado? «Prima il giudizio si formava anche con l’ausilio di prove e testimonianze, la cosiddetta “cognizione piena” – ricorda Greco – poi con l’ultimo governo Berlusconi, nei cui piani c’era la semplificazione che sta portando in porto Orlando, si è passati alla “cognizione sommaria”, ossia un processo sostanzialmente documentale ma che poteva essere trasformato, al bisogno, in rito “pieno”, arricchendo il dibattimento con testimoni e prove.Con questo decreto invece si va oltre: si applica l’art. 737 del Codice di procedura civile, quello usato per le cause senza contenzioso, dove non c’è udienza, non c’è dibattimento, non c’è comparizione delle parti. Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo, né il suo avvocato: visiona la registrazione della commissione e decide. Ed è la prima volta che ciò avviene in Italia in materia di diritti fondamentali della persona».
«La costruzione dei muri è una tendenza mondiale consolidata, definirà sempre più le forme di relazione tra i paesi e al loro interno. La maggior parte dei muri costruiti di recente ha un segno comune: servono a proteggere i ricchi dai poveri».
comune.info, 10 aprile 2017 (c.m.c.)
La forma del discorso capitalista di Trump non dovrebbe sorprenderci. La novità è che rende palese ciò che normalmente il capitale occulta, mentre nasconde ciò che di solito viene esibito. Ma non ci sono novità di alcun genere nei fenomeni e nelle tendenze molto generali che affronta.
Il muro è un esempio calzante. Dal 1994 gli Stati Uniti hanno cominciato la costruzione di quello che si suppone li dovrebbe proteggerli dal Messico. Il progetto attuale di rinforzarlo e prolungarlo è soltanto un esempio suggestivo e folle della tendenza a costruire muri difensivi che costituisce una delle condizioni del mondo presente. Fino al 1989, quando cadde il muro di Berlino, c’erano solo 11 muri. Oggi sono 70, alcuni lunghi come quello fra gli Stati Uniti e il Messico: quelli che separano l’India dal Bangladesh e dal Pakistan sono rispettivamente di 3283 e 2900 chilometri. I muri europei sono più corti ma più efficaci. La barriera di sabbia nel Sahara Occidentale è il muro più lungo del mondo, dopo la Grande Muraglia cinese. Il muro più aggressivo e arbitrario è sicuramente quello di Israele. [ma la Grande muraglia è una strada prima di essere un muro- n.d.r]
La costruzione dei muri è una tendenza mondiale consolidata, che adotta diverse modalità fisiche e burocratiche. Definirà sempre più le modalità di relazione tra i paesi e al loro interno; la costruzione di muri all’interno delle città, che è iniziata da tempo, continuerà a estendersi. Certi muri, come quello della Corea o quelli dell’India, sono nati in circostanze particolari. La maggior parte di quelli costruiti di recente, tuttavia, ha un segno comune: si costruisce per proteggere i ricchi dai poveri. Si vorrebbe giustificare quei muri come si trattasse di barriere contro i migranti o protezioni contro il crimine, ma la loro ragion d’essere ha poco a che vedere con quei pretesti.
Negli anni Novanta, l’impoverimento continuo di settori sempre più ampi di popolazione che perdevano il lavoro o vedevano ridursi il salario, accentuò la contrazione dei mercati di prodotti e servizi. Per stimolarli di nuovo, il capitale fece ricorso a un sistema di credito impazzito, che condusse a livelli senza precedenti l’individualismo consumista e narcisistico già sviluppato in precedenza e sfociò nella crisi dell’autunno del 2008.
Anselm Jappe ha analizzato il fenomeno cinque anni fa in Credito a morte: la decomposizione del capitalismo e le voci critiche. Secondo Jappe, la tecnologia sta erodendo la base dell’esistenza stessa del capitalismo, cioè la perpetua trasformazione del lavoro in capitale e del capitale in lavoro: il consumo produttivo di forza lavoro e la valorizzazione del capitale, che definiscono la logica del modo capitalistico di produzione, si trovano in caduta libera verso il nulla come conseguenza inevitabile della trasformazione tecnologica.
Riflettendo su quel limite interno della produzione capitalista, i saggi contenuti nel libro parlano «dell’autodistruzione del capitalismo e del suo scivolamento verso la barbarie», così come delle reazioni ugualmente distruttive e barbare che tale decomposizione suscita. Secondo Jappe, l’evidenza del declino del capitalismo non conferma le critiche dei suoi avversari tradizionali. Al contrario, gli sembra che «gli antagonisti di una volta vadano a braccetto verso la stessa discarica della storia».
E’ necessario porsi per questo la questione dell’emancipazione sociale in un altro modo. Questa osservazione è forse la migliore negli scritti di Jappe, Kurz e Postone. Essi non prendono maggiormente in considerazione questo nuovo cammino verso l’emancipazione, ma dimostrano con chiarezza l’inettitudine dei modi tradizionali di analizzare, criticare e scontrarsi con il capitalismo. La maggior parte delle reazioni di fronte al discorso del capitale nella forma Trump, in Messico come in altre parti del mondo, illustra bene questa inettitudine.
L’altra faccia del muro è, paradossalmente, il “libero commercio”. La sua modalità attuale ha poco a che vedere con la tesi di David Ricardo che lo invocava in nome dei vantaggi comparativi, con il presupposto di una perfetta mobilità di tutti i fattori della produzione. Il suo obiettivo principale oggi è regolare il movimento delle merci e delle persone in funzione delle necessità del capitale. Per questa ragione il muro e il TLCAN (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) sono le due parti della tenaglia che definisce la relazione tra gli Stati Uniti e il Messico. Come si è ripetuto per decenni, il TLCAN si è rivelato atroce per la maggioranza dei messicani, particolarmente nelle campagne. Non avremmo mai dovuto sottoscriverlo e da tempo avremmo dovuto abbandonarlo. Invece di approfittare della congiuntura per uscirne, con un gesto dignitoso, le classi politiche messicane si preparano a un nuovo disastroso negoziato che manterrà aperta la via alla barbarie, il che porta a muri e distruzioni.
Messo alle strette, il capitale non può far altro che ricorrere alla spoliazione continua e alla barbara distruzione sociale e della natura. Per questa operazione, ciò che resta della democrazia, quella forma politica del capitalismo, deve essere rimosso: l’unico modo di governare dall’alto, nelle condizioni attuali, è con una combinazione di paura e autoritarismo. E così, in modo cieco e criminale, classi politiche di ogni colore ideologico continuano a condurci verso la barbarie.
Si litigano tra loro il controllo relativo che ancora hanno sui dispositivi dell’oppressione e cercano di seminare l’illusione che la sostituzione di coloro che attualmente li guidano possa dar loro un altro senso. Lungi dal condurci all’emancipazione, prendere questa direzione ci condurrebbe ancora più a fondo nella barbarie attuale. Per questo sta diventando chiaro che la nostra speranza non può arrivare dall’alto. E per questa stessa ragione, aumenta ogni giorno il numero di quanti custodiscono questa speranza, perché non si raffreddi, nutrendola dal basso.
Fonte: la Jornada, Traduzione a cura di Camminar Domandando
Incredibile. In questo paese la tolleranza e il rispetto per le religioni diverse da quella dominante non si trovano presso la Corte costituzionale né sulla “libera stampa”, ma nell’editoriale di un giornale diocesano.
La Difesa del popolo, settimanale diocesano di Padova, 11 aprile 2017
Zaia e la maggioranza brindano alla decisione della Corte Costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee". Non è discriminatoria, dicono i giudici. Ma è davvero ragionevole?
«E’ un’indiscutibile vittoria. Ancora una volta la correttezza dei principi con cui il Veneto opera e legifera è stata riconosciuta dalla Consulta. Ora mi auguro che questa nuova sentenza induca il Governo ad una minore conflittualità verso il Veneto, che non è il nemico, ma una Regione che conosce la legge e la rispetta». Zaia brinda così alla decisione della Corte costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee".
La legge è uscita praticamente indenne dal vaglio dei giudici, a parte la bocciatura di quanto stabilito riguardo l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una decisione definita "sorprendente" da Zaia, che ricorda come il ministro dell’Interno Minniti abbia da poco "sottoscritto un accordo con la comunità islamica moderata italiana che prevede proprio l’uso della nostra lingua nelle moschee”.
Il ricorso del governo puntava a mettere in luce il possibile carattere discrezionale - e dunque discriminatorio - delle scelte dei sindaci in materia di autorizzazioni, ma la Corte Costituzionale non ha ritenuto di intervenire dal momento che la legge prende in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa, senza introdurre alcuna distinzione in ragione della stipula o meno di un’intesa con lo stato.Anzi, i giudici definiscono “conforme al dettato costituzionale la possibilità che le autorità comp etenti operino ragionevoli differenziazioni” e sottolineano che “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”.
Da oggi in poi, dunque, chiunque voglia aprire un nuovo luogo di culto deve stipulare con il sindaco una convenzione che prevede tra l’altro un «impegno fideiussorio adeguato a copertura degli impegni presi».Le nuove «attrezzature religiose» dovranno avere strade di accesso adeguate, opere di urbanizzazione primaria, ampie superfici dedicate a parcheggio, oltre naturalmente a tutti gli standard sanitari minimi.
Non solo: i luoghi di culto e gli annessi potranno sorgere esclusivamente nelle cosiddette zone F dei vecchi piani regolatori, cioè le aree funzionali che i comuni inseriscono a discrezione nei piani urbanistici e che oggi contengono tipicamente ospedali, chiese, impianti sportivi o altro. Per realizzarle dunque sarà determinante la volontà dei sindaci.
Ma che cosa si intende con attrezzature religiose? È presto detto: qualsiasi tipo di struttura che abbia a che fare con una fede religiosa. Il nuovo articolo 31 bis della legge urbanistica regionale non esclude infatti nulla. Ma proprio nulla.
Anzitutto ci sono le chiese, ma anche i sagrati, e poi le abitazioni per i ministri del culto ma anche del personale di servizio (quindi le case delle perpetue e dei sacrestani, se si guarda alla chiesa cattolica). Sono soggetti alla normativa anche gli edifici destinati alla formazione religiosa o ad attività «educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro», compresi oratori e simili senza fini di lucro. E ancora tutti gli edifici sede «di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione».
Ma il passaggio che più ha fatto e sicuramente farà ancora discutere è quello che sottopone alla convenzione anche le aree scoperte «utilizzate per il culto, ancorché saltuario. Se l'obiettivo era quello di impedire per questa via la preghiera del venerdì ai fedeli di religione musulmana o il proliferare di luoghi di culto improvvisati, non sfuggono a nessuno le conseguenze che un'applicazione ferrea della legge potrebbe avere e che all'epoca erano state al centro degli emendamenti e del voto contrario dell'opposizione.Si pensi alla parrocchia che decide di realizzare un campo da gioco in un terreno di proprietà attiguo alla chiesa: il sindaco potrà vietarlo perché le aree in cui sorgono le nostre parrocchie non sono di tipo F. Stesso discorso vale per una comunità che volesse costruire in centro paese una nuova scuola per l’infanzia.
Ma si arriva ai casi assurdi per cui, siccome la legge norma anche gli spazi all’aperto usati saltuariamente per il culto, un gruppo scout dovrà sottostare alla legge urbanistica per le proprie attività.
Per non parlare dei gruppi che si ritrovano a pregare nelle case private: la legge infatti vale anche per tutte le strutture in cui una «comunità di persone in qualsiasi forma costituite» si dedichino «all’esercizio di culto o alla professione religiosa».
Tutto costituzionale - ha deciso la suprema corte - ma non per questo meno preoccupante. E per certi aspetti francamente paradossale.
Il candidato della sinistra alternativa (Jean-Luc Mèlenchon, leader di "Francia ribelle") supera il candidato socialdemocratico e contadi entrare in ballottaggio contro la fascista Le Pen. Le tre ragioni d'un fenomeno sorprendente.
Linkiesta online, 11 aprile 2017
E’ il momento di Jean-Luc Mélenchon. Il candidato della France insoumise, ex ala sinistra del Partito socialista, da cui è uscito nel 2008, sta scalando la classifica delle intenzioni di voto dei francesi. Partito come fanalino di coda dei cosiddetti “grandi” candidati qualche settimana fa, Mélenchon ha prima superato il candidato socialista Benoit Hamon e in questi giorni - stando agli ultimi sondaggi - avrebbe addirittura sopravanzato anche il leader della destra moderata François Fillon (17%), attestandosi al 18%, subito dietro al duo di testa Le Pen/Macron (24%). Un fenomeno definito “sorprendente” dalla stampa e dall’opinione pubblica, ma che si può facilmente riassumere in tre punti.
1) I vasi comunicanti. A voler osservare superficialmente l’evoluzione delle intenzioni di voto, è evidente che la scalata di Mélenchon non ha minimamente intaccato l’elettorato di Marine Le Pen, né quello di Emmanuel Macron - entrambi stabili, in testa, al 24%. Anche Fillon, nonostante le ennesime rivelazioni sull’impiego fittizio della moglie, non si è praticamente mai schiodato dal 17%. L’unico a precipitare nei sondaggi è stato il candidato socialista Hamon, sceso drammaticamente sotto la soglia del 10%. Mélenchon, quindi, avrebbe rubato voti al “collega” di sinistra e non ai suoi autentici avversari ideologici. Pensandoci bene, non è troppo sorprendente. Hamon, infatti, dopo aver vinto a sorpresa le primarie del PS, si è ritrovato isolato all’interno del suo stesso partito. Perfino Manuel Valls, che aveva dichiarato che avrebbe accettato l’esito delle primarie, qualunque esso fosse stato, lo ha abbandonato per Macron, paventando una possibile elezione del Front national. E' ovvio che una parte dell’elettorato di sinistra, quindi, non ritiene più che Hamon possa rappresentare ancora quel “voto utile” per impedire la vittoria delle destre.
2) Largo ai giovani. Nonostante i suoi 65 anni, Mélenchon sembra un ragazzino. L’idea di affidare la gestione della sua campagna elettorale a un gruppo di studenti e militanti poco più che trentenni, sta dando i suoi frutti. Su YouTube, tanto per fare un esempio, i video del candidato della France insoumise fanno regolarmente il botto - il suo canale conta quasi 280mila abbonati. Ma non solo. Anche la scelta di moltiplicare i suoi comizi utilizzando degli ologrammi è stata una scelta vincente: sia perché la stampa ha versato fiumi di inchiostro sull’argomento, sia perché la trovata piace, incuriosisce e fa l’occhiolino ad un pubblico giovane altrimenti sempre più disinteressato nei confronti della politica. E non parliamo neanche del videogioco Fiscal Kombat (CLICCA QUI per giocare), che è diventato un vero e proprio fenomeno mediatico.
3) Dédiabolisation di sinistra. Conosciuto per i suoi toni forti e il suo stile collerico e impertinente, Mélenchon ha intelligentemente cambiato strategia di comunicazione. Già a partire dal primo dibattito televisivo, quello con i cinque “favoriti” all'Eliseo, il candidato della
France insoumise ha deliberatamente deciso di abbassare i toni nel tentativo di prendere le distanze da quella connotazione “estremista” con cui i media e l’opinione pubblica hanno sempre etichettato l’uomo politico e il suo movimento. Basta ascoltarlo per rendersi conto che il suo tono è diventato molto più pacato e solenne e il suo personaggio decisamente più "presidenziabile". Insomma, un’autentica
dédiabolisation - per riprendere il termine con cui ci si riferisce all'operazione messa in atto da Marine Le Pen per rendere più "presentabile" il
Front national - di sinistra.
Secondo alcuni opinionisti, il bacino di elettori alla portata di Mélenchon si sarebbe esaurito e la sua scalata dovrebbe realisticamente fermarsi qui. Eppure, le proiezioni che lo vedrebbero affrontare Marine Le Pen al secondo turno, lo darebbero vincitore. Ecco quindi - contrariamente a ciò che si diceva - un altro elemento che potrebbe spostare ancora più elettori e fare di Mélenchon l’uomo in grado di sconvolgere gli equilibri di un'elezione mai così incerta.
«La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti». Un capitolo da
“Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé . MicroMega online 10 aprile 2017 (c.m.c)
Le utopie del diciannovesimo secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima utopia, quella della “fine della Storia” e della società liberale, è messa alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in rapporto agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità.
È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo.
Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone. Le tecnologie nel campo della comunicazione in teoria permettono ad ogni individuo molteplici possibilità di relazione; i mezzi di trasporto consentono a ciascuno, sempre in teoria, di esplorare il mondo; infine, le reti di distribuzione dilatano a dismisura qualsiasi possibilità di consumo. Sotto un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione tra scienziati e ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria per il progresso della scienza: condividono i propri risultati o lavorano direttamente insieme, come al CERN di Ginevra, che rappresenta un moderno modello di ciò che potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca di base.
Questo è il punto essenziale, a partire dal quale si possono sviluppare tutte le nostre aspettative ma anche tutti i nostri timori: lo stretto intreccio tra vita scientifica e vita sociale, tra storia della scienza e storia tout court, e tra progresso scientifico e sviluppo economico. Il ventesimo secolo ha segnato la morte delle utopie, delle «grandi narrazioni» del diciannovesimo, per riprendere l’espressione del filosofo Lyotard [1], che sono sfociate in mostruosità sociali e politiche. È stato anche il secolo delle sperimentazioni, talvolta omicide, della scienza, nel momento in cui le nuove invenzioni modificavano direttamente il corso della storia umana, come nel caso dei diversi armamenti derivati dalla ricerca sull’atomo.
Sappiamo che la scienza oggi richiede finanziamenti e che non può progredire se non in paesi ricchi, che la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è relativa, dal momento che la prima necessita degli strumenti tecnologici elaborati dalla seconda: si può dire che mai come oggi storia delle scienze e storia politica siano state così interdipendenti. La crisi che stiamo attraversando sul piano economico e finanziario – evento relativamente recente del quale bisogna imparare a misurare le conseguenze – ha forse cause ancora più profonde che dipendono dalla correlazione tra le due storie.
L’utopia liberale a cui pensava Fukuyama, e a cui aveva dato il nome di «fine della Storia»[2], ha già lasciato il posto a un’oligarchia, che domina un pianeta le cui disuguaglianze interne non smettono di aumentare. La domanda posta da Derrida a Fukuyama – la fine della Storia, intesa come l’accordo intellettuale generalizzato sulla forma ottimale di governo degli uomini, è una realtà osservabile o una proiezione di tipo utopistico?[3] – ha trovato risposta. Siamo al centro di un’utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quella dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria. Regimi che non hanno niente di democratico si adattano molto bene al libero mercato; la logica della speculazione finanziaria prevale su quella della produzione e della prosperità sociale. Nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i più fortunati e i più poveri, anche nei paesi emergenti. Ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi.
I potenti di questo mondo e di quello che verrà non formano un corpo omogeneo: fanno parte della sfera economica, di quella politica o di quella scientifica, ma insieme costituiscono, obiettivamente, l’ambito all’interno del quale si delinea il futuro del sistema in atto. I consumatori sono il motore di questo sistema: il consumo è fondamentale per il suo funzionamento. L’intero apparato di pubblicità diretta o indiretta li invita a farlo in ogni maniera possibile: l’idea di innovazione teorizzata da Schumpeter sostituisce l’avvenire. L’innovazione tecnologica, oggi, rappresenta a grandi tratti l’idea di un pianeta interconnesso in cui le reti sociali si presentano come punti di contatto, di scambio, di cultura e di informazione. Le reti stesse sono l’ambiente e l’oggetto privilegiato del consumo, poiché la tecnologia che le rende ogni giorno più performanti si materializza sul mercato sotto forma di prodotti sempre più innovativi che non smettono di diffondere e riprodurre la propria immagine.
Trova spazio l’idea che tali prodotti siano un fattore di sviluppo delle conoscenze, e la virtuosità di alcuni nel loro utilizzo può in effetti venire a conforto di questa posizione pericolosamente illusoria, dal momento che confonde il fine con i mezzi, il messaggio con i media, la trasmissione con l’acquisizione, la conoscenza con l’identificazione.
Gli esclusi, infine, sono tali in termini sia di prosperità economica sia di accesso alla conoscenza. Le realtà della globalizzazione sono dunque assai lontane dagli ideali della planetarizzazione, di una società Terra i cui liberi cittadini, uguali per legge e di fatto, condividono lo spazio nel comune interesse. Il mercato si estende al globo intero, ma i lavoratori sottopagati si trovano da una parte e i consumatori, più o meno fortunati, dall’altra.
Indipendentemente dalle disuguaglianze – rafforzate dalla priorità data alla tecnologia e dai cambiamenti che essa comporta in termini di consumo –, il sistema diffonde l’immagine di un mondo in cui tutto è ubiquo e istantaneo, occultando le reali condizioni della nostra esistenza e sovvertendo i fondamenti simbolici su cui poggia l’intera vita sociale. L’illusione di sapere e la perdita di attrazione da parte dei simboli sono conseguenza dello stesso processo tecnologico che contribuisce alle nuove conquiste della ricerca di base. Qualunque tentativo di pensare il futuro deve innanzitutto eliminare questa difficoltà. La portata del fenomeno sarà osservabile contrapponendo il locale al globale e, per esempio, le disuguaglianze sociali che prevalgono nelle grandi metropoli urbane all’immagine di armoniosa fluidità con cui le dipingono i mezzi di comunicazione, o i tempi morti della vita sociale ed economica all’istantaneità della comunicazione. La vita sociale reale ha bisogno del tempo e dello spazio, che sono la materia prima delle relazioni stabilite, pensate e rappresentate tra l’uno e l’altro, tra l’uno e gli altri e tra gli uni e gli altri.
Le seguenti tre scale di osservazione non possono essere confuse se non a costo di una illusoria metaforizzazione del reale.
Per lungo tempo gli esseri umani hanno popolato l’universo con i loro sogni, i loro miti e i loro dei, dando nomi agli astri o alle costellazioni per poterli sentire più vicini. Oggi prendiamo atto del carattere ambizioso e al contempo marginale di questa impresa. A livello di universo conosciuto (miliardi di sistemi solari nella nostra galassia e miliardi di galassie nel nostro universo), in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si confondono e ci sfuggono, la nostra immaginazione si esaurisce rapidamente, incapace di afferrare l’inconcepibile. Dobbiamo coltivare il nostro orto, diceva Voltaire[4], ossia restare nella misura della storia umana.
Su scala planetaria, ci troviamo in una posizione intermedia. Anche se cominciamo a intravedere la possibilità di annettere la “periferia” più vicina (la Luna, Marte), per il nostro modo di vedere la scienza avanza troppo lentamente verso le frontiere dell’ignoto e dell’infinito. Per questo motivo ci stiamo abituando progressivamente al passaggio alla scala planetaria, a cui corrisponde la globalizzazione tecnologica e mediatica. Il pantheon greco ha abbandonato il cielo, ma le “stelle” dei varietà o della politica invadono i nostri schermi. Non proiettiamo più gli dei nel cielo, ma i nuovi idoli internazionali si proiettano nella nostra intimità, e contribuiscono a persuaderci del fatto che, anche per ognuno di noi, le dimensioni spaziali e temporali si siano trasformate radicalmente – il che in parte è vero, e in parte illusorio.
L’illusione scompare su scala locale, anche se la moltiplicazione e la miniaturizzazione delle tecnologie tendono a farla insinuare fin nell’intimo dei nostri corpi. Viviamo ancora, ciascuno a suo modo, nella concretezza del tempo e dello spazio: lo dimostrano, per esempio, i dibattiti sull’età del pensionamento o sulla natura dei contratti di lavoro (a tempo determinato o indeterminato), così come sugli ingorghi del traffico.
Ciò che ci inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove stiamo andando. Le utopie del diciannovesimo secolo descrivevano il mondo a cui aspiravano. Le grandi religioni sono state, e in alcuni casi sono ancora, animate da un proselitismo che trova la propria origine in un mito fondatore. Da questo punto di vista, il passato fornisce di caso in caso un modello, un punto di riferimento e una modalità di azione.
Il mondo che oggi si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia, che si è sviluppato più velocemente di quanto non abbiano fatto le società. Ci affanniamo per adottare i congegni che esso ci impone, e nel complesso abbiamo la sensazione di essere assorbiti da un avvenire a cui non avevamo pensato e che ci dà le vertigini, piuttosto che di essere determinati dal nostro passato. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto, combinato alle crescenti disuguaglianze economiche e agli sconvolgimenti di massa che queste implicano, spiega perché, sotto alcuni aspetti, l’avvenire ci fa paura. Se non siamo più noi ad ambire al futuro, è perché è il futuro, piuttosto, che ambisce a noi.
Come reinserirci in quella che per certi aspetti sembra una fuga in avanti? Credo che potremmo tentare di trovare un principio di risposta solo partendo da concetti semplici e chiari. A rischio di dare sembianze dogmatiche a ciò che non pretende di essere altro che una dichiarazione di ambiziosa modestia, riassumerò tale risposta in tre punti: uno relativo al metodo, uno all’oggettoe uno al principio.
Il punto riguardante il metodo è, in realtà, qualcosa di più: si tratta di far assurgere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. Si parla talvolta di “scientismo” per condannare le forme eccessive di garanzia e certezza. Tuttavia la scienza non ha niente a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa attraverso l’ipotesi, che non può essere validata se non previa verifica: non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di far arretrare progressivamente, seppur di poco, le frontiere dell’ignoto. Il fatto che nell’effettiva routine della pratica scientifica questa possa divenire oggetto di quelle critiche intestabili a qualunque pratica sociale che implichi rapporti di potere o di proprietà è tutta un’altra faccenda. Ciò che resta è che la scienza è l’unico settore dell’attività umana in cui si può parlare di progresso cumulativo senza timore di sbagliare. È esattamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzamento della conoscenza, nella misura in cui costituisce una scommessa sull’avvenire sempre rivedibile. Se l’esperimento non le verifica, si ritorna alle ipotesi.
Nei paesi comunisti, che pretendevano di essere guidati dal materialismo “scientifico”, l’accusa di revisionismo era considerata molto grave e poteva comportare conseguenze spiacevoli per quanti ne erano oggetto. Al contrario, l’idea che il modello scientifico debba ispirare la politica umana passa attraverso la promozione dell’ipotesi, della verifica e dell’eventuale revisione.
A questo proposito è legittimo chiedersi se la conoscenza non sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana, se essa non ne sia l’oggetto stesso e, più in generale, se la questione degli obiettivi non debba essere dominante in tutti i dibattiti politici, economici e sociali. Se si è identificato il peccato originale nella conoscenza, nel desiderio di conoscere, questa convergenza con il mito pagano di Prometeo configura invece un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come fine ultimo della condizione umana si situa certamente al di là dei limiti spaziali e temporali di ogni vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza tra le persone passi attraverso l’accesso alla conoscenza, attraverso l’istruzione. Designando la conoscenza come obiettivo e fine ultimo dell’umanità, si fa riferimento semplicemente all’uguale dignità di tutti gli individui. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per cosa viviamo?, nel senso di “in vista di cosa?”.
D’altra parte, l’obiettivo della conoscenza non è in contraddizione con quello, espressamente formulato dall’Illuminismo, della felicità. Questa condizione non può essere definita per ognuno se non come la simultanea coscienza di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di tale coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nel termine fratellanza, che la Repubblica francese ha aggiunto alle due prime parole che costituiscono il suo motto: libertà e uguaglianza. Nessun individuo può pretendere di raggiungere una felicità totale, tanto meno una conoscenza totale. Tuttavia la nozione di sacro, secondo Durkheim, passa attraverso la presa di coscienza retrospettiva e in forma vivace dei momenti eccezionali in cui la coscienza degli altri si era fatta più vivida:
Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui scaturiranno nuove formule che serviranno, per un certo tempo, da guida all’umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolarmente i frutti.[5]
La definizione durkheimiana di una sorta di sacralità laica ci tornerà utile dal momento che presuppone la tripla dimensione dell’uomo: individuale, culturale e generale. Ognuna di esse può trovare il proprio compimento solo nel rispetto delle altre due. L’avventura umana si svolge singolarmente in ogni coscienza individuale. Tuttavia il necessario riferimento al prossimo, senza il quale non si può costruire alcuna identità individuale, è in larga parte determinato dall’apparato simbolico delle società e delle culture particolari; queste possono essere talmente costrittive da togliere qualunque significato alla nozione di libertà individuale (ed è ad esse che bisogna imputare la storica disuguaglianza tra uomini e donne). La piena coscienza individuale non si realizza, invece, che attraverso quella dell’appartenenza al genere umano, indipendentemente dalle origini e dal sesso.
La tripla dimensione dell’essere umano costituisce dunque il principio da cui partire per poter formulare il suo stesso fine, l’effettiva universalità, e per definire l’incerto luogo della sua messa in atto: le società nella loro diversità.
Dunque l’obbligatoria constatazione di un indebolimento, se non della scomparsa, dei progetti politici del ventesimo secolo non ci porterà a trarre solo conseguenze negative poiché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite dell’avvenire ci dà forse una reale possibilità di concepire dei cambiamenti, in forza dell’esperienza storica concreta e della pratica e della ricerca fondamentale.
Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a guardare verso l’avvenire senza proiettarvi le nostre illusioni. Elaborare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: ecco ciò che ci insegna la scienza, ciò che dovrebbe promuovere ogni programma educativo e a cui dovrebbe ispirarsi qualunque riflessione politica. Si delinea così la sola utopia valida per i secoli a venire, le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione appare l’unica possibile via per frenare, se non invertire, il corso dell’utopia nera che oggi sembra in via di realizzazione: quella di una società mondiale ineguale, per la maggior parte ignorante, illetterata o analfabeta, condannata al consumo o all’esclusione, esposta ad ogni forma di proselitismo violento, di regressione ideologica e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario.
NOTE
1. JeanFrançois Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2002 (ed. or. La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979).
2. Francis Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (ed. or. The End of History and the Last Man, 1992).
3. Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994 (ed. or. Spectres de Marx, 1993).
4. Voltaire, Candido o l’Ottimismo, Feltrinelli, Milano 1991, p. 125 (ed. or. Candide ou l’optimisme, 1759).
5. Émile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Meltemi, Roma 2005, p. 491 (ed. or. Les Formes élémentaires de la vie religieuse : le système totémique en Australie, 1912).
(10 aprile 2017)
».
il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)
Nel campo della Croce Rossa di Settimo Torinese vivono 700 persone, la metà dorme in tenda, 6 o 7 brandine in ognuna: «La tendopoli è qualcosa che non ci piace, ma negli ultimi due anni sono transitate 30mila persone e stiamo gestendo l’emergenza da un decennio», afferma il comandante della Croce Rossa Ignazio Schintu.
78 ospiti sono donne, venti incinta: «Molte sono vittime di tratta – dice Schintu – mentre gli uomini soggiornano per 1 mese, le donne rimangono anche 3 o 4 come transitanti perché i centri a loro dedicati sono pochi». In altri hub, come quelli di Udine e Brescia, la permanenza dura anche un anno.
Una ragazza col pancione di sei mesi esce dalla tenda e si avvia al container-bagno, ce n’è uno ogni 30 persone. Il comandante Schintu dirige l’hub e sa bene i rischi che corrono le donne in strutture non protette: «Arrivavano auto da tutto il nord Italia, caricavano le ragazze e le portavano via. Alcune tornavano, altre no. I carabinieri hanno identificato quindici persone».
La tratta di donne, spesso ragazze giovanissime, vede coinvolte nella maggior parte dei casi le nigeriane, vittime di un sistema collaudato che si avvia già nel Paese d’origine. Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCIEntrare, ha visitato numerosi centri d’accoglienza in tutta Italia: «La tratta si sta ampliando, abbiamo notizie del coinvolgimento di ivoriane, camerunensi e ghanesi, ma anche di minori, sia maschi che femmine. Le persone vengono intercettate già allo sbarco e prelevate appena arrivano nei centri di accoglienza».
Nel container-ambulatorio, una ragazza nigeriana, sui diciotto anni, aspetta di vedere il medico. Nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Torino e provincia risiedono 389 sue connazionali, fanno sapere dalla Prefettura, un numero destinato ad aumentare dato il raddoppio degli arrivi di nigeriane nell’ultimo anno. «Il 90% è vittima di tratta – dice una dirigente -, ma finché non si dichiarano tali non possiamo fare nulla».
Nonostante l’estensione e la gravità del problema, il programma regionale anti tratta, per la prima volta dopo 12 anni, non è stato rifinanziato per problemi burocratici. La Regione Piemonte coprirà con propri fondi, fino ad aprile, una parte del progetto. Dopo tutte le associazioni che si occupano delle ragazze dovranno interrompere la loro attività.
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la Repubblica, 9 aprile 2017 (c.m.c.)
Parlare oggi della felicità, del futuro, non è facile perché per arrivare alla definizione della felicità bisogna prima individuare quali sono gli ostacoli che impediscono di realizzarla. La prima volta che ho cominciato a pensare a quest’idea della felicità, della possibilità di essere felice, non solamente come individuo ma come parte di una collettività, di una società felice, è stato nel mio paese, il Cile, nel 1971.
Quell’anno ho avuto il grandissimo onore di far parte della scorta del compagno presidente Salvador Allende, della sua guardia personale. E mi ricordo che era un giorno del mese di marzo del ’71 quello in cui si presentò al palazzo presidenziale un giornalista, un filosofo che era stato insieme al Che nella guerriglia in Bolivia e che proprio Allende aveva salvato dal carcere, un politologo francese di nome Régis Debray. Era venuto per realizzare un’intervista con il presidente Allende per Le Nouvel Observateur. E Allende decise che alcuni compagni della sua guardia personale potessero essere presenti, il suo era un modo per dirci «questo dialogo passerà alla storia, state attenti a quello che viene detto».
E quel colloquio andò male perché Debray era un uomo di notevole arroganza intellettuale, convinto delle sue idee di teorico del marxismo. Anche Allende era un intellettuale, alla sua maniera, ma di grande umiltà, e non ostentava mai la sua intelligenza. Nel corso dell’intervista Debray avanzò una serie di critiche al modello cileno. Le sue critiche si basavano sul fatto che il processo rivoluzionario del Cile non rientrava nello schema classico di come si fa una rivoluzione, non seguiva un presunto ordine A, B, C di come si realizza un processo di cambiamento sociale. Per esempio, rispettava la pluralità politica, rispettava rigorosamente la libertà di espressione, la libertà di stampa.
Allende lasciò che Debray esponesse tutte le sue critiche e rispose a tutte le sue domande e alla fine gli disse: « Adesso ti voglio fare io una domanda ». La domanda era: « Tu sai qual è l’aspettativa di vita di un tedesco, di un francese, e qual è l’aspettativa di vita di uno scandinavo, di uno svedese, di un danese? E sai qual è invece l’aspettativa di vita di un cileno?». Debray non lo sapeva. E Allende gli disse: «In quest’epoca, i francesi e i tedeschi hanno una speranza di vita di sessantotto anni; gli scandinavi hanno una speranza di vita che arriva quasi ai settant’anni. Noi cileni abbiamo una speranza di vita di cinquantadue anni. Noi stiamo facendo questa rivoluzione per poter vivere sessantotto, settant’anni, come i francesi, come i tedeschi, come gli scandinavi. L’obiettivo è vivere a lungo, ma anche vivere in una condizione che è lo stato naturale dell’uomo, e che si chiama felicità».
Quella sera, quando Debray era andato via, Allende chiese ai compagni della scorta, e io ero presente: «Che ne pensate ragazzi? Come è andata questa intervista?». Il nostro commento fu: «Be’, le sue risposte sono state tutte giuste, forse lui non ha capito, ma non importa: il suo è stato un ottimo discorso ». E Allende disse: «Forse è stato un errore parlare di questo diritto alla felicità, nominare la felicità come lo stato naturale dell’uomo, della specie umana».
E cominciò a raccontare la sua idea della felicità. Raccontò una parte della nostra storia che credo fosse sconosciuta per una buona metà dei compagni lì presenti che facevano parte della sua scorta personale.
Raccontò che nel 1932 il Cile era stato protagonista di una piccola rivoluzione di cui non si legge sui libri di storia, come se fosse stata cancellata: una piccola rivoluzione durata solo dodici giorni che prese il nome di República socialista de Chile, organizzata da un signore che era un ufficiale dell’Aeronautica, progressista, socialista per la precisione, che si chiamava Marmaduke Grove e che in quei dodici giorni formulò una teoria secondo la quale l’unico vero obiettivo del Cile, questo paese collocato alla fine del mondo, è diventare un paese felice. E in quella rivoluzione fu fatto uno sforzo pedagogico per individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la felicità. Naturalmente dopo dodici giorni arrivarono le forze della destra, che abbatterono quel governo rivoluzionario; la Repubblica socialista del Cile finì. Oggi in qualche negozio di antiquariato è ancora possibile trovare le monete coniate allora, che riportavano la scritta «República socialista de Chile».
E Allende volle affrontare anche un altro argomento, disse che era necessario non solamente teorizzare il modello produttivo, ma impegnarsi nello sforzo di identificare tutti i fattori che si frappongono tra noi e la felicità. E fece anche un altro esempio. A quell’epoca in Cile la sinistra si era unita intorno alla figura di Allende, in un conglomerato di partiti politici che formavano la cosiddetta Unidad Popular. Allende si mise a raccontare che nel 1934 in una parte della Spagna che curiosamente è quella in cui io adesso abito, cioè nelle Asturie, per la prima volta diverse forme del pensiero di sinistra riuscirono a raggiungere un accordo per lavorare insieme: c’erano i comunisti, i socialisti, gli anarchici. E fecero la rivoluzione operaia del 1934, con protagonisti i minatori del carbone, i pescatori, gente che lavorava nei cantieri navali, contadini, insegnanti. E l’articolo 1 del documento su cui si basava l’esistenza di questa República socialista asturiana diceva: « Il fine naturale dell’uomo è la felicità ».
E contemporaneamente si mise in moto un processo per identificare gli ostacoli che si frapponevano tra l’idea della felicità e i protagonisti, cioè gli abitanti di quella regione della penisola iberica. E nell’impegno per l’identificazione di questi elementi antagonisti dell’idea di felicità arrivarono a conclusioni davvero rilevanti, tanto che il governo della Spagna — c’era un governo repubblicano — decise che quell’idea basata sulla felicità era pericolosissima. E colui che per quarant’anni sarebbe stato dittatore, Francisco Franco, fece in quell’occasione la sua prima esperienza come macellaio del proprio popolo, perché fu uno dei generali incaricati di reprimere nel sangue la rivoluzione socialista asturiana del 1934. Ma da quel momento è rimasto impresso nella gente, in forma quasi inconsapevole, clandestina, il principio che la felicità è un diritto, e che è un diritto promuoverla, e che è fondamentale individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la sua realizzazione.
Quella chiacchierata con Allende proseguì, fino ad arrivare a parlare dei fatti del 1962: quando la Spagna franchista veniva accolta nella Comunità europea, Francisco Franco confidava al cugino e segretario militare Francisco Franco Salgado-Araujo che le miniere di carbone spagnole avevano i giorni contati perché l’Europa voleva favorire lo sfruttamento del bacino della Ruhr, in Germania, e dei giacimenti della Polonia, che assicuravano una fornitura a costi inferiori.
I minatori del carbone delle Asturie proclamarono uno sciopero. Si trattò del primo grande sciopero dopo l’instaurazione del regime franchista nazional-cattolico. Chiedevano migliori condizioni lavorative, sicurezza sul lavoro, soldi, un salario giusto, diritti, e naturalmente furono contrastati dalla polizia del regime. L’idea di Franco era sconfiggerli riducendoli alla fame. E un giorno a quella gente che stava portando avanti uno sciopero in condizioni terribili giunse la notizia che dall’altra parte del mondo, nel Sud del Cile, in un paese che si chiama Lota, i minatori del carbone stavano facendo uno sciopero in condizioni ancora più terribili. Anche loro assediati dalla polizia, dall’esercito. La risposta dei minatori delle Asturie fu di condividere quel poco che avevano per la sopravvivenza e mandare ai compagni minatori dell’altra parte del mondo, in Cile, una nave carica di cibo, medicinali, tutto quello che era fondamentale per sostenere lo sciopero. Quello sciopero che si basava sullo stesso desiderio per cui lottavano loro: una vita migliore per diventare minimamente felici.
Non dimenticherò mai quella conversazione con Allende perché credo che la felicità sia il fine naturale e ultimo della specie umana. Non so se vivrò abbastanza per poter verificare che l’umanità è riuscita ad arrivare alla pratica quotidiana, normale di questo diritto alla felicità, ma sono convinto che lo sforzo di tanti per individuare tutto quel che si frappone tra noi e il diritto supremo alla felicità, sia il lavoro politico più importante che si può fare. E penso che forse, per aiutarci a identificare ciò che si frappone tra noi e la felicità, sia utile pensare all’idea delle “quattro libertà” proclamate dal presidente Franklin Delano Roosevelt come obiettivi irrinunciabili dell’umanità: la libertà di espressione; la libertà di pensiero; la libertà dalla miseria; la libertà dalla paura. Credo che la felicità sia legata indissolubilmente alla libertà.
«La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica». il manifesto,
9 aprile 2017 (c.m.c.)
Crisi della sinistra, ma anche crisi della politica, come ci ha spiegato nei suoi ultimi scritti e nel
Midollo del leone il nostro Alfredo Reichlin e come conferma il fatto che la formazione politica che raccoglie più consenso sia oggi il MoVimento 5 Stelle. Aggiungerei ancora che c’è anche crisi della cultura e della scuola.
La crisi della sinistra non è solo italiana, ma investe tutto il mondo che definiamo occidentale: pensiamo solo agli Usa di Donald Trump. Questa crisi dipende anche da cambiamenti strutturali: innovazioni tecnologiche («la nuova rivoluzione delle macchine»), globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia… Tutti mutamenti che hanno seriamente indebolito i lavoratori, quel che una volta chiamavamo classe operaia, proletariato, le innovazioni tecnologiche riducono l’impiego di lavoro vivo.
La globalizzazione tende a formare un proletariato in aree finora sottosviluppate ma crea una forte concorrenza al proletariato storico del nostro Occidente. La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano – se addirittura non dominano – il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica.
Questo mutamento storico – che io appena accenno – andrebbe studiato e approfondito: siamo in presenza di un nuovo capitalismo (assai diverso e più pesante del neocapitalismo) che va studiato seriamente per individuare anche con che tipo di lotte dobbiamo contrastarlo e se di queste lotte si debbono far carico solo i lavoratori e non anche i cittadini. E ancora: che rivendicazioni mettere in campo?
Centrale mi sembra la riduzione dell’orario di lavoro, con un allargamento del tempo libero che provocherebbe anche una crescita dei consumi. E penso anche che dovremmo prolungare la scuola dell’obbligo : per vivere in questa incombente modernità non basta più la terza media.
Altro tema da affrontare in modo nuovo è la globalizzazione: come i lavoratori super sfruttati del terzo monda debbono entrare in campo, come possiamo coinvolgerli nella, lotta comune?
Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà e cambiava non solo i modi di produzione, ma anche i modi di vivere degli esseri umani.
Quando scrivo «passaggio d’epoca» vorrei ricordare che il capitalismo fu, certamente, un passaggio d’epoca, ma conservò modi di pensare e valori e anche autori del passato greco-romano, come dire che nella discontinuità c’è sempre anche una continuità, ma questo non ci deve impedire di capire i mutamenti che condizioneranno la vita dei giovani e delle generazioni future.
Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà.