«Questi fatti, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso
». Articoli di Luigi Manconi,Livio Pepino e Marco Revelli.il manifesto, 25 aprile 2017 (c.m.c.)
QUANDO ESSERE UMANI
È UN REATO
di Luigi Manconi
Estate 2016. Ventimiglia, estremo occidente della costa ligure: centinaia di migranti sostano al confine tra Italia e Francia. Cercano di varcarlo, per continuare il loro viaggio, ma l’Europa ha chiuso loro quella porta. Il campo della Croce rossa italiana non riesce più ad accogliere tutti, prendono forma campi di fortuna, allestiti da organizzazioni umanitarie, dove volontari prestano aiuto e assistenza. Félix Croft, europeo di cittadinanza francese, è uno di questi. Di fronte a una simile mobilitazione il sindaco, per motivi di «igiene e decoro», emette un’ordinanza (di recente provvidenzialmente revocata) che vieta la distribuzione di cibo e bevande ai migranti.
Ora, mentre una nuova estate di sbarchi si avvicina, Félix Croft aspetta di sapere del suo futuro. Il 27 aprile sapremo se sarà condannato: la procura del Tribunale di Imperia ha chiesto per lui una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre a una multa di 50 mila euro.
Questo il suo racconto: «Il 22 luglio, parlando con alcuni profughi e volontari del campo, sono venuto a conoscenza della storia particolarmente dolorosa di una famiglia sudanese con due bimbi di 2 e 5 anni, proveniente dal Darfur; insieme ad un’amica psicologa sono andato a trovarli nella chiesa dove avevano trovato un alloggio provvisorio, per verificare i loro bisogni e le necessità più urgenti. Mi sono trovato di fronte a una situazione che mi ha colpito nel profondo: la donna, incinta di 6 mesi, era duramente provata, uno dei bambini aveva ancora su un fianco gli esiti di una profonda ustione, per non parlare del racconto tragico del loro viaggio e della distruzione del loro villaggio, dato alle fiamme. Si trovavano lì bloccati, senza vie d’uscita.
Impossibile per loro camminare lungo l’autostrada, rischiando la morte con i bambini, o peggio prendere un treno, viste le continue perquisizioni sui convogli che passavano la frontiera; non avevano denaro per pagarsi un passeur per tentare di raggiungere la Germania dove avevano dei parenti. Più volte la giovane madre mi ha chiesto aiuto, quasi implorandomi di portarli via con me. Pensavo di ospitarli da me, a Nizza, di farli riposare, per poi affidarli a un’associazione umanitaria che si sarebbe occupata di aiutarli concretamente, di trovargli una sistemazione.
Siamo stati fermati al casello autostradale di Ventimiglia, io sono stato arrestato – anche se i carabinieri hanno verificato che non avevo denaro addosso – la famiglia presa in carico dalla Caritas. Dopo tre giorni in prigione, mi è stata concessa la libertà provvisoria, in attesa di essere giudicato per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
Laura Martinelli, Ersilia Ferrante e Gianluca Vitale – gli avvocati che difendono Félix Croft – hanno obiettato all’impianto accusatorio chiedendo l’applicazione della clausola che consente l’eccezione alla fattispecie di reato di favoreggiamento quando esso sia stato prestato per motivi umanitari. Ne hanno chiesto pertanto l’assoluzione, essendo stato – quello dell’accusato – un gesto di solidarietà e umanità.
D’altro canto, proprio in Francia simili casi giudiziari hanno esito diverso. Cédric Herrou, agricoltore della Val Roja, è stato condannato dal Tribunale di Nizza a una multa di 3000 euro con il beneficio della condizionale (la procura nel suo caso aveva chiesto 8 mesi di carcere, sempre con la condizionale) per aver favorito l’ingresso in Francia di 200 migranti privi di documenti. E il 19 maggio conosceremo la sentenza nel caso della giovane attivista italiana Francesca Peirotti, a processo il 4 aprile sempre a Nizza. Il procuratore ha chiesto per lei una condanna a 8 mesi con la condizionale e 2 anni di interdizione dal territorio francese per «aver favorito l’ingresso irregolare di otto migranti».
Questi fatti, che sembrano rispondere a un’unica logica, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando si perseguivano le «colpe d’autore» e diventava materia di sanzione penale la condizione esistenziale. E, con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso.
PRIMA VITTORIA
CONTRO L'INTOLLERANZA
di Livio Pepino e Marco Revelli
L’ordinanza del sindaco di Ventimiglia che vietava di «somministrare cibo ai migranti» è stata revocata!È un primo risultato (anche) del nostro appello alla mobilitazione nella città del ponente ligure il 30 aprile. Ed è una buona ragione per moltiplicare l’impegno e la pressione.
Ventimiglia non è il luogo di maggior pressione migratoria né quello in cui si sono verificati i più gravi episodi di intolleranza. Ed è luogo in cui parte significativa dell’associazionismo laico e cattolico si sta impegnando al meglio per l’accoglienza. Ma è un simbolo di assoluta centralità. Per due motivi fondamentali.
Primo. Ventimiglia è un luogo di confine. Lì, come in altri confini d’Italia e d’Europa, emergono in modo più evidente gli egoismi e le contraddizioni del nostro sistema. I confini tornano ad essere muri. Elementi di divisione. Presìdi contro altre donne e altri uomini. E riemergono intolleranza, violenza, brutalità, rifiuto da parte delle istituzioni.
Eppure sui confini si sono mossi, negli ultimi anni, migliaia di cittadini – pensiamo all’Austria, alla Germania, alla Svizzera… – che hanno sfidato le autorità e accompagnato i migranti in un transito che si voleva impedire. Proprio sui confini, dunque, si gioca la credibilità di chi sostiene di volere un’altra Europa, senza precisare quale. Oggi il discrimine è proprio sul tema dell’accoglienza. Senza demagogie. Sapendo che i problemi ci sono. Ma sapendo anche – e dicendolo forte – che essi vanno affrontati con umanità e lungimiranza, non esorcizzati e rimossi.
Secondo. Ventimiglia è un simbolo anche sotto un altro profilo. Perché lì c’è stata una delle più esplicite tra le ordinanze sindacali che vietano la solidarietà e prescrivono il rifiuto. Oggi quella ordinanza è stata revocata ma la cultura che l’ha ispirata resta pericolosamente viva, come si vede, per esempio, con la vergognosa criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che cercano di salvare i naufraghi nel Mediterraneo.
Con il decreto Minniti, poi, quella cultura diventa regola. Per difendere il «decoro» urbano e tutelare la «tranquillità» dei cittadini ogni prevaricazione diventa lecita. Fino a trasformare l’antico principio che impone di dar da mangiare a chi ha fame e di dare un tetto a chi non ce l’ha nel suo contrario.
Così l’intolleranza e il rifiuto non sono più solo situazioni di fatto. Diventano regole di diritto e si scrive una nuova pagina di un crescente «diritto del nemico». Con gli sviluppi che la storia insegna e che possiamo facilmente immaginare.
C’è quanto basta per essere in molti, ancora di più, a Ventimiglia il 30 aprile e per dare alla manifestazione un ulteriore significato.
eddyburg.it. In calce il link al libro di Alcide Cervi
Il 17 gennaio 1954, in occasione delle onoranze nazionali aisette fratelli Cervi fucilati a Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943 dainazisti, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il vecchiopadre Cervi, trattenendolo affettuosamente a colloquio.
Il testo che qui pubblichiamo è apparso su
Il Mondo il 16 marzo1954, ed è raccolto nel volume Il buongoverno di Luigi Einaudi, pubblicatodalla casa editrice Laterza che ringraziamo per la gentile concessione. (eddyburg, luglio 2004)
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Alcide Cwevi e Luigi Einaudi |
Entrano nello studio del presidente della repubblica ilpadre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini,il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino,l'on. Boldrini, medaglia d'oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore epittore, il quale reca l'originale del ritratto da lui dipinto dei settefratelli.
Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria,ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidenteaveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei settefratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista La RiformaSociale, un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico edice al padre della sua commozione per poter cosí pensare con orgoglio ad unsuo rapporto spirituale coi martiri.
Il padre racconta:
- Sí, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano diimparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, sisforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto,ed erano 53 biolche di 2.922 metri quadrati l'una (circa 15 ettari e mezzo),vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terrasopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terrenosarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio.Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e sidiedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche.
I vicinipassavano, guardavano e scuotevano la testa: "I Cervi sono usciti pazzi.Dove andrà l'acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto comeun biliardo, l'acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ederbai intristiranno annegati". Ma i figli avevano dato al terreno, fattopiano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero equando d'accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti allastessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acqueed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua nonce n'è piú. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconosconoche noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.
- Anch'io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare ifossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed inveceeseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate supiede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo averresecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallostradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se neandavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videroperò che le viti venivano su piú belle di quelle dei fossati e del letame, ciripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.
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Il padre, la madre, i figli e le figlie, le nuore |
Il presidente: - Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?
Il padre: - Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, intutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamoricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochiarnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossilavori ed uno piú piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici,aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro.Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro locomprammo in Svizzera, ma viene dall'Olanda ed è originario americano. Col toroci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quandoabbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo comecarne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo dò via neppure se mi offronoun milione di lire. Questo - trattori, macchinari, fondo di vettovaglie,vacche, toro - è il "capitale" ed è nostro, di tutti noi".
- Anche del nipote?
Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e,tornato a casa, non trovai piú i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidiil nipote.
Le nuore: - È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.
- Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buonragazzo, radunai le nuore e: "Bisogna stabilire le cose per il nipote. Loteniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salarioche gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato adanno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti delsalariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spettacome parente. Che cosa ne dite voi?"
- Le nuore: - Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovetedecidere.
- Il padre: - No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei mortisono vostri figli. Voi dovete parlare.
- Le nuore: - Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.
- Il padre: - Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel chepensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare.Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero.
- E le donne ritornarono al lavoro.
Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore attonitiascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendoleper fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostrecontrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po' di tuttoquesto. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, ilpazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell'uomo saggio.
- Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donnetornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consigliorispetto al nipote è anche il nostro.
- Il padre: - Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?
- Le donne: - Sí, padre, noi lo sappiamo.
- Il padre: - Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlatoal padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia edentrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e nonsono contenti.
- Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote,che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volererimanere con noi.
- Il fratello e la cognata: - Lo sapevamo. Il figlio l'aveva detto quando erapartito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti.Noi siamo contenti.
- Se cosí è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa,radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognatasono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sonostati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo,che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso piú fare come una volta. Ilnipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci saròpiú, il "capitale" sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattronuore ed il nipote.
- Cosí fu deciso e cosí si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sueforze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende.
- Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene ditutti.
- Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c'era incasa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte chegli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed iodissi: noi non l'avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a farparte del "capitale". Diventerà proprietà comune; e come il restosarà diviso in cinque parti.
Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittoreguardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all'ombra delsicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia.Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosseancora stato scritto.
Il presidente, rivolto allo scrittore-pittore, il quale conosce i contadini deisuoi paesi - e sono uguali ai contadini di tutta Italia - interrogò: forseché isette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po' pazzicostruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatoredella legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loropaese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della"lingera" e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?
Lo scrittore-pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d'oroconsentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch'io di no e strinse la mano alpadre ed a tutti.
Qui potete scaricare e leggere il libro di Renato Nicolai eAlcide Cervi, I miei sette figli
«Io credo che noi colpevolmente continuiamo a trascurare un’arma politica ben nota che potrebbe avere un’efficacia non comune se utilizzata con sistematicità e su scala almeno europea».
officinadeisaperi, 22 aprile 2017 (c.m.c.)
«I mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro corpo». Così uno statuto di Enrico VIII del 1530.
Nel 1547 lo statuto di un altro sovrano inglese, Edoardo VI, «ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone». E più avanti stabilisce che «I giudici di pace hanno il compito di far cercare e di perseguire i bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato sul luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto e adoperato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi». Sono alcuni dei frammenti di quella che Marx, in un celebre capitolo del Capitale, definiva la «legislazione sanguinaria» messa in atto dalla corona inglese a partire dal ‘500, per punire chi si sottraeva al lavoro e dava spettacolo di povertà o creava insicurezza nelle città con i propri furti.
Siamo alle origini dell’ “accumulazione originaria” del capitale e tali feroci disposizioni contro i proletari dell’epoca vengono in mente a leggere le cronache su quanto accade alla frontiera tra Messico e USA, tra la Spagna e il Nord Africa, presso i fortilizi di Ceuta e Melilla, ai fili spinati e ai muri alla frontiera tra la Serbia e la Slovenia, alle barriere di cui si è circondata l’Ungheria, il cui parlamento ha votato l’arresto cautelare per chiunque entri nel territorio magiaro, al muro politico innalzato dal Regno Unito nei confronti di chi arriva dal Continente, alla nostra frontiera con la Francia a Ventimiglia.
Certo, non siamo ancora al marchio di fuoco della lettera C sul petto dei “clandestini”, ma quanto a crudeltà nei confronti dei disperati che scappano da guerre e miseria è solo una questione di grado. I gruppi dominanti dei paesi ricchi e il loro ceto politico sono feroci al punto giusto, quanto è consentito loro da secoli di habeas corpus e dalle conquiste dello stato di diritto dell’età contemporanea.
Ciò che tuttavia rende comparabile la situazione descritta da Marx con quella dei nostri giorni è la causa della formazione dell’esercito degli uomini e delle donne “eslege”, vagabondi e clandestini nel linguaggio dei persecutori. I questuanti che a partire dal XVI secolo vagavano per le città inglesi erano infatti contadini inurbati, cui erano state sottratte e recintate le terre da parte della nobiltà cadetta, che vi allevava pecore merinos. Avevano perso la casa, il cottage, erano rimasti privi dei “mezzi di produzione”, come dice Marx, e perciò migravano in città cercando lavoro e fonti di sostentamento. E qui trovavano il lavoro coatto o la persecuzione: la nuova forma di detenzione della fabbrica industriale arriverà più tardi.
Quanto somiglia la causa sociale dell’inurbamento proletario inglese alle guerre scatenate, o segretamente fomentate dall’Occidente nel Sud del mondo, alla miseria generata dalle sue politiche neocoloniali, ai disastri climatici provocati dal suo consumismo forsennato, da padroni del Pianeta? Gli stati ricchi saccheggiano le economie dei paesi poveri, devastano i loro territori e quando i fuggiaschi si affacciano ai loro confini sono marchiati come potenziali criminali. Nella marcia all’indietro che la storia ha intrapreso negli ultimi anni stiamo precipitando alle origini dell’accumulazione capitalistica…
Ebbene, credo che sia diventato pericoloso ormai per la nostra civiltà il grado di assuefazione con cui le nostre coscienze e il nostro stesso immaginario pubblico si sta adagiando all’orrore. Non possiamo più aspettare reazioni da Bruxelles, né iniziative dal nostro ceto politico. Fanno parte dell’apparato di potere che lavora, insieme ai media, per renderci tutto tollerabile, ordinario, normale, accettabile. Ma i semplici cittadini, ridotti ormai a puri consumatori di merci e di sogni pubblicitari, privi di voce per mancanza di rappresentanza, devono rassegnarsi, convivere impotenti con la barbarie quotidiana?
Io credo che noi colpevolmente continuiamo a trascurare un’arma politica ben nota che potrebbe avere un’efficacia non comune se utilizzata con sistematicità e su scala almeno europea.
Mi riferisco al boicottaggio delle merci. Diversi anni fa persino Umberto Eco la raccomandava come strumento legale di lotta. Ebbene, qual è il paniere delle merci dell’import-export tra l’Ungheria e l’UE? Dal momento che l’Unione che non espelle l’Ungheria, come sarebbe giusto, non potremmo condurre una campagna di boicottaggio dei prodotti ungheresi mostrando al governo di Orban che esiste un’opposizione alla sua politica criminale contro i migranti? Ma deve trattarsi di una battaglia articolata, che deve creare una rete nella rete, nutrita di buona informazione, che duri dei mesi, in grado di uscire, dove possibile, fuori dalla rete, con volantinaggi esplicativi davanti ai supermercati sui prodotti da boicottare, in grado di sostenere una campagna di massa che arrivi sui grandi media, generando allarme tra le imprese e l’opinione pubblica ungherese.
È quanto dovremmo fare anche nei confronti di singole imprese, per esempio contro Benetton, che intende sottrarre le terre dei contadini in Patagonia (A.P. Esquivel su “il manifesto” del 30 marzo) perché i latifondi che già possiede non gli sono sufficienti. Si tratta di una via potenzialmente dirompente. Il capitale ci ha ridotto a indifesi consumatori. Facciamo dell’uso mirato dei nostri consumi un’arma per colpire interessi potenti, trasformiamo la pubblicità nel suo contrario, una campagna di discredito in grado di far comprendere ai signori del capitale che possono essere danneggiati dai loro sudditi e che c’è un limite al loro dominio.
Alle ambigue accuse di "buonismo" rivolte a chi soccorre i disperati, e ne salva le vite, provenienti dai politici precocemente invecchiati che fanno l'occhiolino alla destra razzista, ecco la risposta pacata e ragionevole a chi guarda le cose per quello che sono.
la Repubblica, 24 aprile 2017 (c.m.c.)
Chi è ipocrita sulla questione dei salvataggi in mare dei migranti? Le Ong e chi le sostiene finanziariamente (ma anche la marina italiana e Frontex) perché effettuano i salvataggi pur sapendo che c’è chi lucra sui migranti sia nei luoghi di partenza che nei luoghi di arrivo, o chi fa finta di non vedere e non sapere che premono alle porte dell’Europa persone così disperate da correre rischi inenarrabili, compresa la morte, pur di sfuggire alle condizioni di vita che sono loro toccate in sorte?
Basta vedere i minori non accompagnati, le donne incinte, gli anziani che sbarcano dalle navi dopo mesi di cammino e spesso sofferenze indicibili per capire che nulla li può fermare, salvo un cambiamento radicale nelle loro condizioni di partenza. Non è che non conoscano i rischi che corrono, non solo in mare, ma lungo tutto il percorso che li ha portati su quei barconi. Li mettono in conto e considerano che il trade-off tra questi rischi e la vita che toccherebbe loro e ai loro figli se rimangono è comunque positivo, che è meglio rischiare che rimanere.
Se anche tutte le navi delle Ong sparissero dal tratto del Mediterraneo ormai diventato un cimitero, coloro che non hanno altra speranza che cercare di venire in Europa continueranno a tentare, a proprio rischio e pericolo. Ne moriranno solo un po’ di più, perché Frontex è (intenzionalmente?) sottodimensionato rispetto alla necessità.
Che si controlli pure se le Ong che effettuano i salvataggi hanno le carte in regola, se chi si occupa dell’accoglienza lo fa con coscienza e responsabilità o invece lucra sulla pelle dei migranti. Ma ci si dovrebbe anche chiedere perché è stato lasciato loro questo spazio, invece di riempirlo con una efficace iniziativa pubblica europea, come si era promesso quando fu chiusa l’operazione Mare Nostrum.
E perché è possibile che Ong di tutt’Europa possano operare in mare per portare in Italia chi salvano, mentre la redistribuzione nei diversi paesi più volte decisa rimane lettera morta. Così come, nel denunciare giustamente chi lucra sulla accoglienza, ci si dovrebbe chiedere perché si permette che si aprano strutture (o si trasformino strutture preesistenti non più lucrative) per accoglienze di massa che inevitabilmente non fanno nessuna integrazione e al contrario provocano ostilità e sospetto, invece di privilegiare esplicitamente e sistematicamente l’accoglienza diffusa.
Come mi raccontava un esponente di un consorzio di comuni piemontesi, «noi abbiamo fatto grandi sforzi per distribuire pochi migranti in ciascun comune. Poi il proprietario di un albergo chiuso da tempo lo ha riciclato in struttura di accoglienza, ha partecipato a un bando e ora ci sono più di 100 migranti tutti insieme in un comune, cui non si propone nulla e non hanno nulla da fare». Diventando, aggiungo io, facile preda di sfruttatori e malintenzionati di ogni tipo.
Un responsabile di una cooperativa del Sud mi ha detto che loro non partecipano ai bandi per accogliere persone a cento alla volta, perché con questi numeri non è possibile offrire nessuna seria attività di integrazione né avere un minimo di controllo sulle persone. Non c’è solo la malversazione esplicita, come nel caso di Mafia capitale. C’è anche l’infelice incontro tra una politica miope e una, legittima, voglia di guadagno.
Chi ci va di mezzo sono i migranti stessi, oltre le comunità in cui sono collocati. È ipocrita chi fa finta di non vedere questi rischi. Ma anche chi denuncia senza prove e senza proporre alternative, salvo forse il respingimento in mare e l’abbandono al proprio destino.
Sono rimasto sorpreso e amareggiato nel leggere su eddyburg gli articoli di Silvia Ronchey e di Federico Ruozzi su Don Lorenzo Milani tratti da la Repubblica del 21 aprile. Due articoli che vorrebbero essere simpatetici col Priore ma alla fine lasciano l’insopprimibile sensazione del fraintendimento e persino della complicità, per quanto involontaria, alla ennesima stigmatizzazione del Priore di Barbiana.
L’articolo di Ruozzi – curatore dei due volumi delle opere complete di Don Milani in uscita presso Mondadori – pur scritto nel tentativo di smorzare una polemica tipicamente da società dello spettacolo sulle pretese preferenze sessuali del Priore, finisce con l’alimentare una discussione tanto pruriginosa quanto priva di appigli. Chi sa dove stanno i punti nodali della vicenda biografica del Priore – e per la quale fa ancora largamente testo il magnifico scavo di Neera Fallaci uscito ormai quarantatre anni fa – sa anche che nelle mutande di Don Milani non c’è mai stato nulla da scavare e che il farlo implica necessariamente una scelta, appunto, spettacolare, pruriginosa e tendenzialmente stigmatizzante. Una scelta da quotidiano italiano mainstream, appunto, e dalla quale chi tiene all’insegnamento milaniano dovrebbe opportunamente tenersi a distanza.
Ma sorprende ancor più l’articolo di Silvia Ronchey, che vorrebbe a sua volta costituire un atto di apprezzamento verso l’esistenza e l’insegnamento del Priore.
Il primo elemento che lascia interdetti è la torsione cui viene sottoposta la figura di Don Milani, che diventa una sorta di eroe libertario, o per meglio dire un liberale che sarebbe stato bene nel circolo degli “Amici del Mondo”. Una semplificazione in tono con la cultura di origine di Repubblica, ma che riduce intollerabilmente la complessità, la scandalosa complessità di un uomo che fu senz’altro un grande borghese ma che si distaccò dalla sua classe sociale in più modi, decidendo anzitutto di accettare l’appartenenza a una fede e a una Chiesa e pagandone le conseguenze fino in fondo. Una scelta e una lezione allora come oggi estremamente difficili da comprendere e da accettare: ma una scelta in ogni caso radicalmente opposta a quella di coloro che vedono nell’assoluta centralità dell’individuo l’alfa e l’omega di ogni logica sociale.
Più in generale quel che sconcerta è che per trasformare Don Milani in eroe borghese e libertario Ronchey forza intollerabilmente la biografia del Priore in più punti, finendo persino per dare spago ai più recenti epigoni della sua antica catena di detrattori. L’insistenza sull’ebraicità della sua famiglia e persino sua, ad esempio, laddove entrambi i genitori erano e rimasero sempre rigorosamente agnostici e lontani da qualsiasi forma di appartenenza a comunità religiose, mostra la volontà di assimilare il Priore a una figura canonica dell’immaginario liberale novecentesco come l’intellettuale di cultura ebraica. La sottolineatura - peraltro sulla scorta della lettura di Alberto Melloni, direttore della pubblicazione del volume di Tutte le opere - della pretesa distanza di Don Milani da quello che sarebbe stato il ’68 e dell’abusiva appropriazione da parte di quest’ultimo di Lettera a una professoressa - dalla quale deriverebbe persino “la sistematica decostruzione del sistema scolastico” - cancella con un tratto di penna tutto l’enorme lavoro che nella scuola fecero, proprio sulla scorta della lettura della Lettera e del clima di rinnovamento del ‘68, migliaia di maestri e di maestre democratici, oggi dimenticati e umiliati da una “buona scuola” che ha tutti i tratti del recupero della scuola di classe contro cui il Priore si batté con tenacia, intelligenza e coraggio.
La figura del ribelle individualista viene valorizzata da errori grossolani come la pretesa che siano le reazioni ecclesiastiche a Esperienze pastorali a “rafforzarlo nel convincimento che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza” e che da ciò derivi l’esilio di Barbiana, laddove basta addirittura scorrere la voce “Lorenzo Milani” di Wikipedia per sapere che il libro esce ben quattro anni dopo il trasferimento a Barbiana. E, scegliendo fior da fiore la combinazione di errori fattuali e costruzione di un profilo di comodo, torna nell’articolo di Ronchey proprio l’oggetto della polemica pruriginosa e stigmatizzante che impazza sulla stampa mainstream.
Ronchey si spinge infatti a parlare del giovane Milani come un di “artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta”, un cammeo che farebbe del diciassettenne una sorta di fascinoso Keith Haring ante litteram ma che è sbagliato in ogni sua parte. Bisogna andare appena un po’- ma non troppo - oltre il profilo Wikipedia per sapere infatti che il ragazzo si avvicina per la prima volta alla pittura solo nell’estate del 1941 sotto la guida, si, di un maestro residente a Firenze ma mentre vive a Milano ormai da otto anni e che tutta la sua attività di artista rimane confinata in uno studio milanese affittato dai genitori e abbandonato nella primavera del 1943 al manifestarsi della vocazione religiosa. Da dove poi spunti la “non celata omosessualità” - peraltro decisamente smentita poche righe oltre da Ruozzi - non è dato sapere.
Fa ulteriormente riflettere, infine, il fatto che questo Don Milani inventato – e costruito su basi così fragili e contraddittorie – venga presentato in un articolo dal solenne titolo “Chi è stato davvero Don Lorenzo Milani”.
Quel che viene da pensare è che a quasi settantantacinque anni dalla sua scelta di vita e a cinquant’anni dalla sua morte il Priore di Barbiana resti ancora e sempre un personaggio altamente indigesto e indigeribile. Un personaggio difficile da capire e da accettare, un esempio esigente che chiama a delle vocazioni che sono sempre state e restano di estrema difficoltà: oltre i suoi tempi e - mi viene da dire - molto oltre i nostri tempi. Un modello che richiama i cattolici - e i credenti in generale - a un tipo di fede e a degli stili di vita assai ardui da abbracciare nella loro asperità, nel loro rigore e nella loro inattualità. Ma un modello, anche, che richiama chiunque voglia stare nel mondo a scelte non meno radicali e non meno inattuali: stare dalla parte degli ultimi in un’epoca dominata dal potere bruto e dall’immaginario neoliberista è oggi un’impresa veramente eroica. Altro che l’“inappartenenza come unica possibile resistenza” accarezzata dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.
VITE PARTIGIANE
di Melania Mazzucco,
«Per il 25 aprile, a settantadue anni dalla Liberazione, scrittrici e scrittori (nati molto tempo dopo il 1945) raccontano le storie di uomini e donne che resistettero all’occupazione nazifascista. Sono biografie, lettere e ricordi da conservare perché la nostra memoria non vada perduta».
Chi non ha memoria non ha futuro. Così diceva Carla Dappiani, intervistata alla presentazione del film di Daniele Segre Nome di battaglia: donna (2015), di cui, insieme ad altre partigiane piemontesi, era protagonista. Con lapidaria efficacia, riassumeva il senso di quell’opera: ma anche delle altre, realizzate negli ultimi anni da cineasti e film-maker di diversa formazione, genere e provenienza (penso a Bandite di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, 2009, e a Tutto il bene avevamo nel cuore di Giuseppe Rolli, 2016).
Ma non solo: in questo primo scorcio del ventunesimo secolo non si contano le memorie, le biografie, le microstorie, le antologie, i romanzi, gli spettacoli teatrali che hanno per tema la Resistenza. Anzi, le Resistenze. Sembra l’irresistibile ritorno di un fantasma perturbante. Dopo la fioritura del periodo postbellico, culminata col documentario di Liliana Cavani La donna nella Resistenza (1965) e col Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1968), l’argomento infatti era stato relegato a materia di studio storico, e di veemente scontro politico e ideologico. L’ultimo degli scrittori partigiani, Giulio Questi — coetaneo di Meneghello, Calvino, Revelli — intuendo la dissonanza della propria voce dalla vulgata resistenziale ormai dominante, aveva preferito lasciare nel cassetto i suoi racconti, Uomini e comandanti, apparsi solo nel 2014 (ma il singolare slittamento cronologico li ha invecchiati come un vino prezioso, permettendo ai lettori di apprezzarne il tono ironico e feroce, la durezza scabra e antiretorica).
Nonostante le nuove prospettive di ricerca, inaugurate dal volume capitale di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), le lacerazioni non si sono sanate, ma anzi, approfondite: da una parte un revisionismo sempre più aggressivo, dall’altra un revival affatto nostalgico ( penso agli Appunti partigiani, le canzoni militanti riproposte dai Modena City Ramblers nel 2005). Intanto tornavano nelle sale e sugli scaffali delle librerie film coi partigiani ( I piccoli maestri di Daniele Luchetti, 1998) e libri sui partigiani. Partigiani inediti, scomodi, dimenticati o rimossi. Partigiani di pelle nera, come Giorgio Marincola, al centro di Razza partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; partigiani assassini, come nei libri di Giampaolo Pansa, Sergio Luzzatto e Mirella Serri — i quali, pur dissimili nelle intenzioni, nel metodo e nella forma, hanno suscitato violente polemiche e settari rifiuti, dimostrando che il ciclo delle vendette non si è ancora interrotto.
Però fra le Resistenze ritrovate oggi predomina quella delle donne. Perché infine, come auspicava Ada Gobetti, anche “la resistenza taciuta” — questo il titolo del primo studio storico di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone, apparso nel 1976 (il sottotitolo esplicitava: dodici vite di partigiane) — è divenuta una resistenza raccontata. Ma come? E soprattutto: a chi?
In qualche modo, si sta componendo un’opera collettiva, una fotografia di gruppo con messa a fuoco selettiva. Si tratta di recuperare storie, con pazienza, raccontare vite colpevolmente cancellate, far ascoltare, finché ancora possibile, le voci delle protagoniste: donne qualsiasi che divennero eroine loro malgrado, perché fecero una scelta.
Prendo a esempio due libri diversissimi: Scenari di guerra, parole di donne di Patrizia Gabrielli ( 2007), che raccoglie le voci di dozzine di donne toscane tratte dalle scritture custodite presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, e Gabriella Degli Esposti mia madre di Savina Reverberi ( 2017), biografia della partigiana emiliana torturata e fucilata dalle SS nel 1944. E lo spettacolo teatrale di Susanna Gabos, Ora veglia, il silenzio e la neve (2010), sulle giovani partigiane trentine Ancilla “ Ora” Marighetto e Clorinda Menguzzato. Ritratti concreti, disadorni ed efficaci come scatti di figure non in posa.
Quanto ai destinatari, le partigiane non hanno dubbi. I ragazzi italiani, interrogati recentemente su cosa si festeggiasse il 25 aprile, per lo più non hanno saputo rispondere. Tina Anselmi e Marisa Ombra si rivolgono perciò alle giovanissime: una nipotina immaginaria di undici anni la prima, nella sua intervista pedagogica, Zia, cos’è la Resistenza? ( 2003); una quattordicenne la seconda, nel suo libro di ricordi Libere sempre: una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi ( 2012). Le decane passano idealmente alle nipoti il testimone della libertà e della memoria.
Ma anche del racconto. Perché forse solo chi racconta un tempo che non è stato il suo può decifrare la filigrana dei fatti, andare oltre la burocrazia dei torti e delle colpe. Le nipoti, e i nipoti, non sono solo il pubblico di queste storie. Ne sono ormai gli autori. L’ultima è Rossella Schillaci, ideatrice e regista di Libere, una sinfonia di immagini e voci che racconta il movimento di resistenza delle donne. Un film di repertorio, un montaggio di fotografie, manifesti, volantini, filmati e registrazioni audio tratti dagli Archivi nazionali della Resistenza.
Leitmotiv: mani femminili che estraggono bobine e nastri da scatole ingiallite, che sfogliano faldoni e schedari, per scoprire, tra migliaia di reperti muti, volti e corpi di donne. Fotografate coi loro compagni nelle malghe di montagna, sui sentieri sassosi, nella pianura con l’immancabile bicicletta accanto, nelle fabbriche e nelle code per il pane. Presenti sempre, eppure per tanto tempo invisibili. Le voci, lucide e orgogliose ( ma anonime purtroppo, perché il film non ha didascalie), rivendicano le ragioni della scelta di resistere, e l’importanza del loro ruolo.
Le partigiane sono rimaste nella memoria al più in quello subalterno e vagamente romantico di “ staffette”. Eravamo ufficiali di complemento, spiega invece una di loro: portavamo ordini, sceglievamo gli itinerari per le bande, aprivamo la strada al loro ingresso nei borghi, trasportavamo esplosivo al plastico, quando nessuno sapeva neppure cosa fosse. E alcune avevano il fucile, e sapevano combattere. Nel racconto “ postumo”, la Resistenza si rivela soprattutto come un impetuoso movimento di emancipazione, che anticipò il femminismo. Ragazze spesso giovanissime — operaie, studentesse, sorelle di soldati — ma anche mogli e madri, si ribellarono al soffocante modello femminile imposto nel Ventennio, scoprendo nella Resistenza un’occasione di riscatto e libertà.
Settantamila donne secondo l’Anpi parteciparono ai Gruppi di Difesa, trentacinquemila le combattenti. Un esercito neanche tanto piccolo — di cui però l’Italia libera ebbe poi paura. Diede loro il voto, ma poca rappresentanza, tolse loro il lavoro al ritorno degli uomini dalla guerra e dalla prigionia, le ricacciò nei ruoli prestabiliti e le dimenticò. Nessuna delle quasi tremila giustiziate o uccise in combattimento è divenuta un’icona. I nomi di Cleonice Tomassetti, Iris Versari, Irma Bandiera, solo per citarne qualcuna, evocano un sussulto solo agli specialisti.
Per questo, raccontare si deve. Per nuovi occhi, con nuovi occhi. Registi, scrittori, teatranti, storici, cantanti, lo stanno facendo. Insieme, divisi, ma mossi dalla stessa esigenza. Perché, come scriveva Massimo Zamboni in L’eco di uno sparo (2015), il teso memoir sul nonno fascista assassinato nel 1944 da un partigiano, poi a sua volta ucciso da un ex gappista, «tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare».
LUNGO I SENTIERI
DELLA RESISTENZA
di Enrico Brizzi
«Un fazzoletto donato e la promessa di farlo rivivere lungo la Linea Gotica, sul filo delle montagne. Raccogliendo la testimonianza dei luoghi dove l’Italia, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, fu lacerata da un “immenso dolore”. Storia di un viaggio nella Storia».
Nella Bologna dei primi anni Ottanta la vita di noi giovanissimi aveva come luogo principe il cortile. Era lì che, una volta assolti gli obblighi scolastici, si prendevano le misure al mondo e ci si addestrava a crescere come animali sociali; il gioco — calcio, nascondino, corse in bici, battaglie fra indiani e cowboy — era la grammatica comune grazie alla quale ognuno di noi imparava a misurarsi con i coetanei, a valorizzare il proprio carattere e a gestire le proprie debolezze.
La ricchezza del cortile era data anche dal suo essere agorà, foro, social club per uomini e donne di generazioni diverse.
Osservando di sottecchi l’agire di cugini e zii ci preparavamo a diventare adolescenti, giovanotti, ragazzi grandi; poi c’erano i vecchi, patriarchi e matriarche ormai in pensione, i nostri nonni e i loro coetanei, gente che in gioventù aveva vissuto esperienze straordinarie, e non si faceva pregare troppo per raccontarcele.
Fra quanti avevano fatto la guerra, il più ascoltato era il signor Giancarlo; era diventato partigiano ancora adolescente, e quando ci raccontava di quelle stagioni epiche e spaventose non si dava mai un tono da eroe. Sabotare le attrezzature dei Tedeschi, sfuggire ai rastrellamenti, nascondersi e imbracciare un’arma, nelle sue parole erano state cose necessarie, non motivi di vanto. Dare il suo contributo ad abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’occupante straniero era qualcosa che, semplicemente, “ gli era toccato fare” per rispondere a un senso di giustizia, e la sua modestia me lo faceva ancora più caro.
Sono trascorse molte primavere, da allora; chi era bambino oggi è padre, e molti fra gli anziani di allora non sono più fra noi. Qualche tempo fa il signor Giancarlo mi ha fatto sapere che avrebbe gradito una visita. Sapeva della mia passione per i viaggi a piedi, e consegnandomi il suo fazzoletto da partigiano mi ha detto: « Ormai sono vecchio. Fammi la cortesia di portarlo in giro tu, che hai ancora le gambe buone».
Così ho riposto il fazzoletto nello zaino, e appena la primavera ha liberato creste e versanti dalla neve sono partito per un viaggio lungo il filo d’Appennino, per ripercorrere quella Linea Gotica che ha diviso l’Italia in due nella stagione più tragica che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare. Nel lasciarmi alle spalle il mare di Rimini per risalire verso il cuore della Penisola, ancora non sapevo quante e quali storie avrei incrociato lungo il mio percorso verso il Tirreno. Nel corso di due settimane di cammino, praticamente non sarebbe trascorso giorno senza trovare traccia dell’immenso dolore che investì l’Italia fra l’autunno 1943 e la primavera del ’45.
Sulle prime alture romagnole investite dalle battaglie ingaggiate dagli Alleati per sfondare la “ Linea dei Goti” sorgono i musei di Gemmano e Montegridolfo, ma i racconti più autentici escono dalla bocca dei vegliardi che, davanti a un bicchiere di vino, ancora si commuovono a ricordare quei giorni di barbarie, suppliche inascoltate e morti insepolti; a San Marino si può entrare nelle gallerie che ospitarono gli sfollati della Riviera, terrorizzati dalle tempeste di fuoco e d’acciaio che si abbattevano sulle proprie case; lungo la riva del Senatello si trova il luogo dove furono fucilati gli “ otto martiri” bollati come banditen, e proseguendo verso l’interno si raggiunge Tavolicci, una frazione annichilita dalla furia dei Tedeschi in ritirata nell’estate del ’44.
La repressione contro i partigiani e l’inumana “guerra ai civili” s’intreccia con fatti d’armi che videro fianco a fianco gli irregolari del Cln e gli eserciti dei “liberatori” — che non sempre, come noto, si comportarono da gentiluomini — come a Monte Battaglia, la cui antica rocca fu testimone di un simultaneo assalto di partigiani e truppe americane; la lotta fratricida, le delazioni e le manovre a tenaglia non risparmiarono neppure le “Foreste sacre” tra la sorgente del Tevere, l’Eremo di Camaldoli e la fonte dell’Arno; al passo della Futa un enorme cimitero di guerra germanico ricorda che a pagare il conto dell’orrore furono anche i giovani tedeschi, mentre scendendo verso Bologna si giunge a Monte Sole, teatro dell’orrenda strage di donne, vecchi e bambini compiuta dalle SS di Reder, che nell’autunno ’44 si lasciarono alle spalle settecentosettanta cadaveri e interi villaggi ridotti a macerie fumanti.
Il culto dei comandanti partigiani caduti in zona, da “ Lupo” Musolesi a Toni Giuriolo, protagonista del romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, appare spoglio di retorica se lo si confronta con le memorie di quanti presero ancora giovanissimi la via della montagna, come Enzo Biagi, cresciuto ai piedi del Corno alle Scale; appena più in là, seguendo il sentiero 00 e la sua variante moderna, l’Alta Via dei Parchi, si raggiungono il passo dell’Abetone e i valichi ai piedi dei quali venne proclamata in territorio modenese e reggiano la Repubblica di Montefiorino, abbattuta dai nazifascisti ma abbastanza forte da risorgere e mantenersi libera sino al termine del conflitto.
Dal passo di Pradarena, sopra Ligonchio, si scende fra i boschi della Garfagnana, e da Barga si riprende quota verso le Apuane, dove camminamenti, bunker e muraglie anticarro sono ancora intatti; qui, fra le montagne del marmo, l’epos partigiano della Divisione Lunense e del Gruppo Valanga incontra quello di truppe alleate che all’epoca apparvero a dir poco esotiche — i Nisei hawaiani, i Brasiliani, i battaglioni di soli blacks statunitensi. Ci si confronta con gli episodi di collaborazione e le incomprensioni, talora fortissimamente volute, fra comandi alleati e partigiani, come il “malinteso” che causò la morte di Miro Luperi, il comandante “Reno”, abbastanza coraggioso da attaccare per primo le forze germaniche convinto di ricevere un appoggio che non sarebbe mai arrivato.
È difficile trattenere le lacrime osservando le foto delle piccole vittime ammassate nella chiesa di Sant’Anna di Stazzema; erano bimbi non diversi da noialtri quando ancora trascorrevamo i pomeriggi in cortile. Mentre si scende verso le spiagge della Versilia è fatale sentir riecheggiare in testa i versi orgogliosamente rabbiosi che Calamandrei dedicò al feroce Kesselring; ormai, avanzando nel vento salmastro, non possiamo più credere che “gli uni e gli altri si equivalevano”. No. La nostra Italia, l’Italia di cui vogliamo tenere viva la memoria, è quella dei ribelli della montagna, del presidente Pertini, del signor Giancarlo.
Qualcuno, ancora ragazzo, trovò il coraggio per fare la scelta più difficile, e siamo fieri di essergli stati amici per tutta la vita. Ormai il mare ci balugina di fronte, e dopo tanti giorni in montagna stiamo per tornare in mezzo alla gente: è tempo di tirare fuori dallo zaino il fazzoletto che ci è stato donato, e mettercelo al collo ché tutti possano vederlo.
GENERAZIONE FENOGLIO
di Paolo Di Paolo
«Margherita, figlia dell’autore del “Partigiano Johnny”, racconta in quest’intervista eredità e memoria del grande scrittore simbolo della Resistenza. “Quello che mi stupisce è l’affetto dei lettori, soprattutto giovani. Vengono in visita alla tomba e gli lasciano una sigaretta”».
Quello che mi stupisce, ogni giorno di più, è l’affetto dei suoi lettori. Credo che gli avrebbe fatto piacere, se fosse ancora qui. Soprattutto quando arriva dai più giovani. Ragazze che vogliono sapere se — alla fine di Una questione privata — Milton muore oppure no. Ragazzi che gli lasciano un biglietto con scritto “ Grazie a te ho passato la maturità!”. Ho saputo di due sposi in viaggio di nozze sul lago Maggiore che hanno fatto, all’ultimo momento, una deviazione — duecento chilometri! — per passare da Alba. E c’è spesso chi lascia, sulla sua tomba, una sigaretta».
Una sigaretta? «Sì, è un omaggio allo scrittore e al fumatore. Una volta ne ho trovate due, posate accanto alla lapide: un mozzicone e una intatta. C’era anche un biglietto: “ Io non fumo più, ma avevo voglia di fumarne una con te”».
Margherita Fenoglio vive ad Alba, in provincia di Cuneo, fa l’avvocato. Ha avuto accanto suo padre Beppe solo per un paio d’anni. Fenoglio è morto nel febbraio del 1963, quarantenne: lei aveva due anni. La sua fortuna di scrittore è quasi tutta postuma. Oggi è fra gli autori del Novecento italiano più amati, il vero classico sulla Resistenza, sempre più letto e tradotto: in più di venti lingue, dal Sudamerica alla Corea del Sud. Al Centro Studi Fenoglio di Alba arrivano migliaia di lettori e studiosi ogni anno. Sul quaderno degli ospiti, due coniugi italiani residenti a Boston hanno scritto: «Qui siamo fieri di essere italiani».
«So di essere comunque un’orfana privilegiata», dice Margherita. «Chi resta senza genitori da bambino, il più delle volte, sente di sapere troppo poco, di vivere solo un’assenza. Per me, mio padre è invece una presenza massiccia, costante, direi quotidiana. Anche molto impegnativa. Ma mi considero — per quanto riguarda la sua figura di scrittore — solo una lettrice più coinvolta».
Che effetto le ha fatto la prima lettura dei libri di suo padre?
« La malora è stato il primo suo romanzo che ho letto. Parlava di un mondo che non era per me così lontano. Ho sempre vissuto in città, ad Alba, ma sapevo cos’era la vita in collina, la durezza di quella vita. La malora è il libro a cui forse era più legato. Aveva patito il risvolto di copertina negativo scritto da Vittorini e l’accoglienza fredda della critica, ma a mia madre una volta disse: "ti rendi conto, Boba, che se non avessi scritto La malora nessuno fra cinquant’anni saprebbe più com’era la vita nella Langa?" Quanto al Partigiano Johnny, letto a sedici anni, mi sembrò difficile. Più tardi me ne sono innamorata » .
Uscito postumo nella tempesta del ’ 68, si è imposto sui romanzi usciti negli anni Quaranta (Pavese, Vittorini, Calvino).
« In termini numerici, di vendite, cresce di anno in anno. È un romanzo impegnativo, ma credo che la fascinazione nasca da più elementi. L’incompiutezza. Lo stile, così insolito. Lo sguardo, antiretorico al limite della spietatezza, sullo spaesamento morale seguito all’ 8 settembre e sulla guerra civile. La stessa espressione “guerra civile”, che lo storico Claudio Pavone avrebbe sdoganato negli anni Novanta, mio padre avrebbe voluto usarla per i suoi racconti quando suonava blasfema. Ma penso che la fortuna del Partigiano Johnny sia dovuta soprattutto al suo essere un romanzo sull’esistenza prima ancora che sulla Resistenza. Al modo in cui pone il tema della scelta: la necessità, l’irrinunciabilità della scelta. La solitudine del momento in cui scegli » .
Come in “ Una questione privata”, che presto sarà un film dei Taviani, tutto è calato in una prospettiva individuale, emotiva, perciò umanissima.
« Chi voleva la Resistenza “ cantata” non poteva amare i libri di mio padre. Se sul piano stilistico gli veniva rimproverata l’anomalia — così poco italiano, troppo cinematografico —, su un piano ideologico era ancora più difficile digerirlo. Ha precorso troppo i tempi? Non sta a me dirlo. So solo che molti mi parlano di Johnny o di Milton, e di Fenoglio stesso — chiamandolo Beppe, per nome — , come di modelli, di miti della propria formazione, non solo letteraria. Quanto a Fulvia, la protagonista di Una questione privata, so che ogni ragazza, leggendo, vorrebbe essere lei » .
Molti giovani scrittori oggi l’hanno scelto come maestro...
« Scopriamo di continuo fan insospettabili, tra i nuovi scrittori italiani, e li invitiamo ad Alba. Giacomo Verri, trentanovenne, ha evocato esplicitamente la lezione fenogliana nel suo Partigiano Inverno. Emiliano Gucci, l’anno scorso, ha letto in pubblico una lettera a Beppe: “ Raccontavi a me, di me, ti occupavi dei miei sentimenti, di mettere su pagina le mie emozioni, la mia vita” » .
Ma Milton, secondo lei, nel finale del romanzo sopravvive o muore?
« Da adolescente appassionata ai classici russi, con animo tragico avrei detto che muore. Oggi penso che viva » .
Secondo lei come sarebbe stata la vita di Fenoglio dopo i quarant’anni?
« Avrebbe voluto scrivere e basta. Come è noto, per vivere lavorava in una casa vinicola. Ma era consapevole del proprio valore. So di scontri apocalittici con mia nonna, che non considerava scrivere un mestiere. Ma per lui scrivere era tutto, e a sua moglie affidava tutti gli aspetti pratici della vita. In cucina non metteva piede, una volta si era ustionato con una caffettiera. Di mia madre scherzosamente diceva: “ Boba, o della pastasciutta”. E di sé: “ Beppe, o della malinconia”. È stata mia madre a tenermi sempre con i piedi per terra: “ Sei nata da lui, mi diceva, e devi considerarla una fortuna, ma non hai meriti”. Ogni tanto penso che qualcosa in più di lui so farla: so guidare ( lui saliva su una Vespa guidata da mia madre stringendosi a lei spaventato), so fare le percentuali e le divisioni con le virgole. Una volta che gli dissero “ buongiorno ingegnere”, fu molto orgoglioso. Aveva frequentato Lettere ma senza laurearsi. Mia madre gli disse: “ Be’, in effetti un uomo di ingegno lo sei” » .
Mai avuto la tentazione di scrivere, quindi?
«Io? Mai. C’è una grande differenza tra scrivere bene e essere scrittori » .
C’è una pagina di suo padre che le sta più a cuore?
« Non è in un romanzo, è la commemorazione funebre di un partigiano morto diciannovenne a Valdivilla, Dario Scaglione detto Tarzan. Il discorso per l’intitolazione di una strada: “ Quel rettangolo di metallo — Corso Dario Scaglione — sarà come tanti altri un monumento alla libertà il cui possesso c’è costato lui e tanti altri come lui. Sarà una pagina aperta a chi vuole e verrà dove noi e i venturi leggeremo le parole che non sono soltanto parole bellissime a scriversi e a leggersi, ma che sono la gloria della vita” » .
E una via Beppe Fenoglio esiste?
« Ce ne sono moltissime, da nord a sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Catania »
Vive in Italia, ma non è italiano, né parla come la maggior parte degli italiani. Quelli di cui parla e piange meriterebbero di sfilare anche loro per le nostre strade e piazze il 25 aprile, insieme agli altri rappresentanti della Resistenza.
Corriere della Sera, 23 aprile 2017
ROMA «Sono campi di concentramento» dice il Papa dei centri di raccolta dei profughi. Augura che la generosità del Sud possa «contagiare il Nord». Azzarda che se ogni municipio accogliesse due migranti «ci sarebbe posto per tutti». In coda a una preghiera scritta aggiunge: «A te Signore la gloria e a noi Signore la vergogna».
Con volto scuro e parole accese Francesco ha intrecciato ieri pomeriggio all’Isola Tiberina l’argomento tragico dei martiri cristiani — in particolare quelli uccisi in Paesi musulmani — all’argomento scottante dei profughi, improvvisando alcune delle affermazioni più forti che abbia formulato fino a oggi sull’accoglienza.
Il contesto era dato da una «liturgia in memoria dei nuovi martiri del XX e XXI secolo» che si teneva nella Basilica di San Bartolomeo dove la Comunità di Sant’Egidio ha realizzato un Memoriale dei cristiani d’ogni continente uccisi in odio alla fede negli ultimi decenni.
Reso omaggio ai martiri che lì sono ricordati con foto e con oggetti loro appartenuti — da Romero a Puglisi — Francesco ha così continuato a braccio: «Io vorrei, oggi, aggiungere un’icona di più, in questa chiesa. Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne con tre bambini. Mi ha detto: Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!».
Fatto questo racconto Bergoglio ha detto la sua parola più forte in tema di immigrati: «Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati — tanti — sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani».
Dopo aver incontrato un gruppo di rifugiati arrivati con i «corridoi umanitari» della Comunità di Sant’Egidio, Francesco è tornato a battere sulla «crudeltà» contro chi arriva «in barconi» e poi resta confinato «nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia».
Ed eccolo che pronuncia altre parole che saranno usate contro di lui nella polemica che Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia già hanno avviato chiamandolo in causa come uno che «invita i migranti»: «Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti. E questa generosità del Sud, di Lampedusa, della Sicilia, di Lesbo, possa contagiare un po’ il Nord. È vero: noi siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio. Preghiamo!».
.il manifesto
, 22 aprile 2017 (c.m.c.)
«Anche se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore».
Nel 1948 il sindaco di Bardonecchia Mauro Amprino aveva fatto affiggere manifesti nelle vie per invitare chi si offriva di accompagnare gli immigrati oltre confine a una maggiore umanità: c’era chi si faceva pagare e poi abbandonava i migranti a metà strada. Molti furono trovati morti, i corpi conservati dal gelo.
È un episodio, certo, ma basta a misurare la differenza tra una politica che agisce secondo coscienza e responsabilità e una politica che si nasconde invece dietro una legalità astratta e di convenienza, di cui lei stessa è ispiratrice.
L’ordinanza emanata l’11 agosto 2016 a Ventimiglia, in base alla quale sono stati incriminati alcuni volontari francesi, «colpevoli» di avere distribuito del cibo a migranti bisognosi, scaturisce da questa perdita di umanità e di intelligenza. Già perché non si tratta solo del tradimento di un principio elementare di umanità, di quell’etica del riconoscimento che ci consente di vederci negli altri, di metterci nei loro panni e che dalla notte dei tempi ispira le azioni più belle e i più fecondi percorsi di liberazione. Ma anche di una ristrettezza mentale e culturale, di una rimozione e manipolazione di due fatti evidenti.
Il primo è che il fenomeno migratorio è in massima parte effetto di un sistema economico che genera disuguaglianze e che perciò papa Francesco non esita a definire «ingiusto alla radice».
La seconda è che l’Occidente ha il dovere di governarne le conseguenze, da un lato con politiche di accoglienza e inclusione, dall’altro ripristinando condizioni di vita dignitose nei Paesi sfruttati e impoveriti, affinché le persone non siano costrette a partire o fuggire.
L’immigrazione deve essere una libera scelta e nessuno può essere condannato a vita dal proprio luogo di nascita.
Questa sarebbe davvero una politica che costruisce sicurezza. Impegnata a investire nella pace e non nella guerra. E fedele alle Carte scritte nel dopoguerra per scongiurare il ritorno della barbarie in qualunque forma: la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la nostra Costituzione.
Tra pochi giorni ricordiamo la Liberazione. Ma è una liberazione incompiuta quella che permette che ancora tante persone siano private della loro libertà e della loro dignità. Ci si libera insieme, e lo saremo davvero scacciando la corruzione, l’indifferenza, l’ignoranza, tre grandi tiranni del nostro tempo. Anche questo segnala la manifestazione di domenica 30 aprile a Ventimiglia per la solidarietà e contro l’intolleranza.
In questi giorni numerosi interventi elogiano o criticano le perverse novità introdotte con le leggi Minniti Orlando, in materia di immigrazione e “sicurezza urbana”. un testo pubblicato recentemente da
comune.info 12 aprile 2017
L’approvazione dei Decreti Legge nn. 13 e 14 dello scorso febbraio, che portano le firme del Ministro degli Interni Marco Minniti e di quello alla Giustizia Andrea Orlando, a soli tre giorni l’uno dall’altro, sancisce un ennesimo punto di non-ritorno. Ancora una volta il centro-sinistra – i “moderati”, i “progressisti” o che dir si voglia -, non solo sceglie di inseguire le destre sul terreno securitario del “sorvegliare e punire”, ma addirittura supera e inasprisce il terreno già seminato dal Decreto Sicurezza di Maroni del 2008.
Nel 2009 il sociologo francese Loïc Wacquant pubblicava un libro dal titolo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale dove evidenzia il sistematico nesso tra la distruzione dello “stato sociale” e il rafforzamento dello “stato penale”.
Studiando le trasformazioni del sistema carcerario statunitense, soffermando lo sguardo anche su quelle degli stati europei in ottica comparativa, Wacquant osserva come lo smantellamento progressivo del “welfare state” venga accompagnato, nonostante la retorica anti-statista e anti-welfare del neoliberismo, da un intervento sempre più massiccio dello stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e lacciuoli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato.
A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.
Dentro questo tracciato, lo stato neoliberista esonera sé stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri che diventa autentica “politica sociale”. Nelle prigioni si moltiplicano le “vite di scarto” escluse dal magico mondo del mercato. L’imperativo assoluto è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze.
Si esalta il “decoro” delle piazze a scapito della possibilità di attraversarle socialmente; la “bonifica” delle aree degradate e delle periferie” diventano la stella polare di una visione politica “sanitaria” dello spazio urbano. Il mantra di Matteo Salvini della “ruspa” e del “fare pulizia”, in realtà, non è affatto un rigurgito verbale proto-fascista di un’intolleranza di destra, ma sempre più la cifra qualificante delle politiche di sicurezza, ormai spacciate anche per politiche “sociali”, promosse sia dalle destre che dal così detto centro-sinistra.
I ministri Orlando e Minniti sostengono che la sicurezza è a tutti gli effetti un “bene pubblico”, per questo la sua continua garanzia, per risolversi, ha necessità di alimentare un paradosso, ovvero l’espulsione dalla società di coloro che il sistema stesso non è più in grado di includere. Il Governo si preoccupa quindi di muovere guerra nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati.
Minniti e Orlando hanno ribadito come “sicurezza” sia una parola di sinistra (sic!) e in un periodo di ripiegamenti dovuti alla morsa della crisi, di fronte alla necessità di giustizia sociale ed equità, rispondono con politiche securitarie che non trovano alcuna giustificazione se non inseguire slogan populisti e razzisti, nella costante paura di non essere più rieletti.
La parola “Sicurezza”, checché ne dicano Minniti e Orlando, nel dibattito pubblico e nella percezione individuale, richiama alla mente di tutti politiche populiste, autoritarie e di destra: dalla Turco-Napolitano, passando per la Bossi-Fini fino al pacchetto sicurezza di Roberto Maroni. Dobbiamo pertanto dire chiaramente che non ha nulla a che fare con l’inclusione, la solidarietà, l’uguaglianza e con l’estensione dei diritti, né tanto meno con la giustizia sociale.
I DECRETI MINNITI-ORLANDO
Punire i poveri
il Decreto n. 14 attacca duramente “accattoni”, “rovistatori” e i più emarginati dalla nostra società. Chi viene dai margini viene criminalizzato per la sola ragione di essere povero: pertanto chi vive fuori dal mercato del lavoro è privato di ogni diritto umano. Il neoliberismo non ammette l’appropriazione di un bene fuori dalle regole del mercato e per questo viene sanzionato l’accattonaggio, invece di immaginarsi forme di inserimento di soggetti svantaggiati in un circuito virtuoso.
Ma chi ha determinato l’aumento della povertà e quindi il moltiplicarsi di situazioni di marginalità e vulnerabilità se non appunto i governi di questi anni, di cui Minniti e Orlando hanno fatto parte? Appare qui più facile e utile eliminare dalla vista di tutti il prodotto delle loro politiche, o anche quello che potrebbe capitare ad ognuno di noi, a causa di quelle stesse politiche, perché non possa venire alla mente di voler cambiare e immaginarsi una vera e praticabile alternativa.
I sindaci sceriffi e “legibus solutus”
A far rispettare i divieti ci penserà il sindaco sceriffo, una figura che viene di fatto istituzionalizzata allargandone poteri e discrezionalità in materia di ordine pubblico e sicurezza urbana, al termine di un lungo processo iniziato oltreoceano a fine degli anni ’90 con il mantra della “Tolleranza Zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani e subito applicato da sindaci leghisti come il trevigiano Giancarlo Gentilini o gli ex-comunisti Dominici a Firenze e Zanonato a Padova. Ci troveremo di fronte alle ordinanze “capriccio” dei fantasiosi sindaci che promulgheranno ordinanze al fine di accontentare le pulsioni più varie di parti di quello che vedono ormai solo come elettorato. Un modo solo per nascondere questioni o problematiche, senza realmente affrontarle e risolverle.
Daspo Urbano, occupazione di immobili e repressione del dissenso politico
Gli stadi sono da sempre un laboratorio di repressione che si sta allargando al resto della società, infatti il così detto Daspo metropolitano applica un dispositivo, ideato e sperimentato nelle curve di tutta Italia, a chi manifesta. Una logica che abbiamo recentemente visto all’opera lo scorso 25 marzo nella capitale, in occasione delle manifestazioni per la celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, quando decine di manifestanti hanno ricevuto fogli di via preventivi, dal territorio romano, senza nemmeno poter arrivare in città e manifestare.
Un provvedimento che potrà essere applicato a chi viene denunciato o fermato per reati minori, ma anche per chi sostiene la lotta per il diritto all’abitare, dei lavoratori in sciopero o promuove le lotte collettive per il riuso e il riutilizzo degli spazi abbandonati. Un obiettivo chiaro è quello di punire, preventivamente, il dissenso o l’alternativa di chi cerca invece di estendere diritti e verificare quella giustizia sociale, di cui ormai l’Italia ha abbandonato il senso e l’importanza.
I richiedenti asilo
A loro è dedicato il primo dei due decreti che si occupa di accelerare i procedimenti giurisdizionali volti al riconoscimento dello status di rifugiato e di contrastare l’immigrazione clandestina.
Siamo di fronte all’azzeramento di una serie di diritti costituzionalmente garantiti, su tutti, la giurisdizionalizzazione delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione e l’abolizione del secondo grado di giudizio.
La prima previsione contrasta con l’art. 111, secondo comma della Carta costituzionale, secondo cui ognuno ha diritto a un giudice terzo e imparziale. Le Commissioni non possono evidentemente assurgere a tale compito, trattandosi di organismi a tutti gli effetti interni alla Pubblica Amministrazione.
Quanto, poi, all’abolizione del secondo grado, basta richiamare l’art. 113 Cost., che non ammette vengano limitati in alcun caso i mezzi di impugnazione esperibili avverso i provvedimenti amministrativi.
Infatti, per i richiedenti asilo non sarà più garantita l’audizione da parte del Giudice, il quale potrà limitarsi a visionare la videoregistrazione dell’audizione in Commissione territoriale. Ciò contrasta con uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento assicurato dall’art. 24 della Costituzione ed il diritto al Contraddittorio ex art 111 Cost.. Il processo si svolgerà quindi alla stregua di una volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 737 c.p.c., senza udienza, senza partecipazione, senza avvocati. Una riforma così non riuscì neppure al Governo Berlusconi, il quale aveva nella Lega Nord di Bossi e Maroni il suo pugno di ferro più violento.
L’aumento dei CIE
questo criminale dispositivo d’internamento amministrativo di cui conosciamo bene le aberrazioni di cui sono stati negli anni portatori, viene rivitalizzato con la nascita dei CPR (Centri di permanenza e rimpatrio). Non è chiaro quale sia la differenza con gli attuali CIE, ma ne viene disposta la nascita di uno a regione, nei pressi o addirittura all’interno degli aeroporti. Un dispositivo che vuole mirare all’efficienza e alla celerità dei rimpatri e delle espulsioni, a discapito ovviamente delle garanzie giuridiche e dei diritti dei richiedenti asilo. Viene quindi riproposto un luogo di confinamento, internamento e repressione che non poggia su alcuna base giuridica, comminando la detenzione amministrativa.
Il lavoro gratuito e l’istituzionalizzazione per legge dello sfruttamento
il lavoro gratuito per i rifugiati diventerà legge, chi scappa dalla guerra e dalla fame, solo per citare alcune delle cause dei flussi migratori, se vuole restare se lo deve meritare, nella perversa logica di barattare i diritti con un presunto “merito”. A questo punto i diritti divengono a tutti gli effetti privilegi. La pericolosità di questo dispositivo che istituzionalizza una nuova forma di schiavitù, è evidente sia in termini di diritto del lavoro che di ricaduta sulla “percezione dei fenomeni”, a cui si dà sempre molta importanza e per cui viene da pensare che sia voluto e intenzionale inasprire la “guerra tra poveri” e instillare odio e intolleranza verso la componente migrante e richiedente asilo della cittadinanza.
Il decreto appena approvato dunque, non solo non offre nessun tipo di risposta ai problemi che si prefigge di risolvere, ma riesce a far ammettere ancora una volta ad un governo (che ha la pretesa di essere) di “sinistra” una scelta securitaria, repressiva e, su molti aspetti, anche chiaramente anticostituzionale. Non una parola in termini di welfare, di possibilità di miglioramento dell’accoglienza, sulle esperienze di integrazione buone e giuste che ci sono state e continuano ad esserci in Italia; neanche una singola parola sul malsano utilizzo del concetto di “sicurezza” che colpisce senza alcun ritegno ancora i più deboli e permette ai sindaci di poter gestire la cosa pubblica come se tutto ruotasse attorno all’ordine e alla lotta al degrado. Si lascia il problema com’è e si acuisce la rabbia, l’odio e il disprezzo, che sia questo rivolto verso un immigrato o verso una famiglia sfrattata, o verso chi continua a voler fare sentire la propria voce tramite il dissenso e azioni di autodeterminazione e di informazione.
Nessuna propositività, nessun impegno a lungo termine, ma solo un altro muro costituito da norme e un altro calcio in faccia alla nostra Costituzione.
il manifesto
, 22 aprile 2017 (c.m.c.)
Non erano passate nemmeno 12 ore dall’attacco di un terrorista per fortuna isolato sugli Champs Elysées nel cuore di Parigi, subito rivendicato dall’Isis, che Marine Le Pen è volata con ferocia inusitata, come un avvoltoio, sulla bara del povero poliziotto rimasto ucciso. Anche il candidato della destra storica, il conservatore Franois Fillon, ha fatto altrettanto quasi a volere contendere la preda in palio: la paura di una popolazione che sta per eleggere il capo di una repubblica presidenziale. Ma Marine Le Pen è stata particolarmente «programmatica», parlando come fosse già il presidente
in pectore della Francia.
Modulando volta a volta richieste repressive e ideologiche, tali da delineare una trasformazione dell’assetto istituzionale francese. Stato di guerra, espulsione degli inquisiti con la sigla “S”, chiusura delle frontiere e, rinunciando «all’ingenuità, all’innocenza, al lassismo», chiusura delle «moschee islamiste» il cui finanziamento «non potrà essere in alcun caso pubblico o di provenienza straniera», niente diritto di cittadinanza all’ideologia islamista.
Sapientemente quanto irresponsabilmente mischiando terrorismo e migranti. Come se fossero la stessa cosa. Per una «guerra che non possiamo perdere», ha concluso Marine Le Pen, sguazzando naturalmente dentro i macroscopici buchi dei Servizi segreti francesi, dopo Charlie Hebdo, Bataclan e Nizza.
Che hanno dovuto, per dichiarazione del ministero degli interni, subito ammettere che l’attentatore era conosciuto, anzi su di lui era stata addirittura aperta una inchiesta.
Il giorno prima degli attacchi Marine Le Pen aveva promesso che con lei presidente sarebbe stato estirpato l’integralismo islamico dalle periferie. È così diventato immediatamente palpabile quello che da tempo si avvertiva e che solo fino a pochi giorni prima era difficile descrivere: che l’Isis vota decisamente a destra, preferibilmente Front nazional che alligna le sue dinamiche xenofobe, razziste e iper-nazionaliste proprio sulla paura e sul clima di guerra, anche interna.
Del resto il presidente statunitense Donald Trump non è stato da meno avvisando, subito dopo l’attentato, che «il popolo francese non sopporterà più a lungo cose del genere. Avrà grosse conseguenze sulle elezioni presidenziali!». Lui sì che se ne intende.
A dire il vero i primi sondaggi a poche ora dal voto del primo turno delle presidenziali, dicono una cosa diversa. Che emergerebbe il modernista di centro Emmanuel Macron, distaccando tutti gli altri candidati più accreditati. Dalla stessa Marine Le Pen, al liberal-conservatore di destra François Fillon, fino al sorprendente Jean-Luc Mélenchon che ha fin qui raccolto il difficile consenso a sinistra meglio è più del candidato socialista Benoît Hamon che pure ha portato importanti novità.
Ma se la prospettiva del risultato francese è Emmanuel Macron, quanto alimento darà questa vittoria – lungimirante per tutti gli schieramenti di centro d’Europa – ad un nuovo populismo, stavolta ancora più radicale?
Un fatto è certo. La precisione «occasionale» del terrorismo jihadista è diventata endemica. Sconquassa la società civile, contrapponendola al proprio interno. E poi ormai accade e colpisce nei momenti cruciali della verifica politica. Come dimenticare che da qui all’estate gli appuntamenti elettorali rilevanti sono almeno altri due, in Germania e ancora una volta nella Gran Bretagna appena dopo la nazional-populista Brexit?
Sullo sfondo dell’endemicità degli attacchi jihadisti qui nell’Occidente europeo e non solo, resta la scena della guerra vera e solo apparentemente lontana. Dove il jihadismo terrorista (qaedisti e Isis, volta a voltab utili per le nostre stesse operazioni belliche geostrategiche) semina stragi tra gli stessi musulmani, dentro realtà ex statuali come Iraq, Siria e Libia che le nostre guerre hanno contribuito a distruggere. In una terra desolata, disseminata dalla disperazione di milioni di esseri umani che dalla guerra fuggono e al contrario da una scia di sangue di tanti foreign fighters già usciti in libertà dall’Europa e ora di ritorno. Il Medio Oriente che non c’è più, dove il sedicente «Califfo» potrà perdere Raqqa e Mosul, ma ha ormai lanciato il seme nefasto dello «Stato islamico» per riempire il deserto storico degli Stati che abbiamo devastato.
«25 aprile. Con stupide pretese incrociate stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare la Festa della Liberazione».
il manifesto, 22 aprile 2017
Grazie a una straordinaria combinazione di stupidità, meschinità e arroganza, stiamo riuscendo a realizzare quello che non era riuscito a Berlusconi: cancellare il 25 aprile.
Io trovo stupida e settaria la pretesa di impedire la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica. La Resistenza, la guerra di liberazione, l’antifascismo sono state realtà complesse e molto diversificate. La Brigata ebraica, corpo militare inquadrato nell’esercito inglese, non è la stessa cosa della Brigata Garibaldi, ma nel ’44 nel fronte contro i nazisti c’era; non è giusto dimenticarselo, ed è sciocco settarismo farne occasione di scontro in un momento che dovrebbe invece sancire la capacità della democrazia antifascista di far convivere differenze e contrasti senza trasformarli in violenza.
Trovo arrogante la pretesa di impedire la presenza delle bandiere palestinesi, curde, e di altri popoli sotto occupazione militare. Il 25 aprile non è solo la commemorazione di eventi di tre quarti di secoli fa, ma dovrebbe essere la riaffermazione dei valori di libertà, partecipazione democratica, civile convivenza, nel mondo di oggi.
Antifascismo oggi significa lotta contro razzismi, discriminazioni, violenze, e non c’è dubbio che queste cose oggi in Palestina, in Kurdistan, e magari in South Dakota, continuano ad accadere. Pretendere di non parlarne significa ridurre il 25 aprile a una mesta e insignificante rievocazione di glorie passate.
Trovo inevitabilmente ambigua la relazione che in questo contesto viene istituita fra Brigata Ebraica e stato di Israele. La comunità ebraica e le sue espressioni sono una sacrosanta componente della democrazia italiana, non un’emanazione di Israele. Al tempo stesso, un legame se non altro emozionale con lo stato ebraico esiste ed è giusto e logico che sia così. Allora sarebbe bene che chi manifesta in nome dei palestinesi si assicurasse di non essere avvicinato da venature di antisemitismo, che dell’antifascismo è proprio il contrario (e di cui comunque non si possono certo accusare gruppi come gli «Ebrei contro l’occupazione», da sempre impegnati per una soluzione democratica del conflitto). E sarebbe utile se chi manifesta sotto le bandiere bianco azzurre della Brigata Ebraica si domandasse in che misura Israele oggi somiglia a ciò per cui lottavano i combattenti ebrei di allora.
Trovo meschino e arrogante lo slogan per cui «l’Anpi non rappresenta i veri partigiani» e la trovata del Pd di tirarsi fuori. Non c’è dubbio che per ovvi motivi generazionali l’Anpi, come le altre associazioni nate della Resistenza, stia attraversando una complicata fase di trasformazione. Ma la pretesa di delegittimarla perché i «veri» partigiani sarebbero altri è sia arrogante – chi sono i veri partigiani non lo decide nessuno – sia meschina perché non è altro che la piccola vendetta del Pd per la posizione presa dall’Anpi nel referendum del 4 dicembre (purtroppo fa eco a questo slogan anche la Comunità ebraica romana. Ma neanche quelli che innalzano le bandiere della Brigata Ebraica sono i combattenti del ’44).
Molti anni fa, su iniziativa di questo giornale, partimmo in migliaia sotto la pioggia per andare a Milano a dire a Berlusconi, Fini e Bossi che l’antifascismo era vivo. Oggi a Milano sfilano i neonazisti. Chissà dove stanno i «veri» partigiani.
«Il Consiglio dei ministri riduce i poteri di intervento dell'Anac, poi di fronte alle polemiche, soprattutto dei renziani, torna indietro. Gentiloni costretto da Washington a cercare al telefono il presidente dell'Anticorruzione: rimedieremo subito». il
manifesto, 21 aprile 2017
Un’ora di colloquio ieri tra Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, e l’ad Consip Luigi Marroni. L’Anac indaga sull’appalto da 2,7 miliardi finito nelle inchieste delle procure di Napoli e Roma, che hanno coinvolto il padre di Matteo Renzi, Luca Lotti e il cerchio magico renziano. Ma dall’ultimo Consiglio dei ministri l’Anac è uscito con le armi spuntate. Nella nuova versione del codice degli appalti, approvata in Cdm il 13 aprile, è previsto che «All’articolo 211 del decreto legislativo del 18 aprile 2016, n. 50, sono apportate le seguenti modificazioni: il comma 2 è abrogato». Il comma 2 consentiva all’Anac di intervenire in caso di gravi irregolarità con sanzioni e tempi certi, più brevi di quelli della giustizia ordinaria. L’intervento dell’esecutivo scavalca il parlamento, sollevando polemiche e dubbi sulla legittimità dell’atto.
L’iniziativa era del tutto inattesa dall’Anticorruzione. Un caso Anac è un brutto scivolone per il governo, con Renzi che sembra di nuovo aver fretta di votare così. Nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata la marcia indietro: «Nessuna volontà politica di ridimensionare i poteri dell’Anac – sottolineano fonti di palazzo Chigi. Il presidente Gentiloni, in missione a Washington, è stato in contatto con Cantone. Sarà posto rimedio già in sede di conversione». I primi a prendere le distanze erano stati i relatori Pd in commissione lavori pubblici del senato, i renziani Esposito e Mariani: «È un atto grave e i responsabili devono assumersene la responsabilità». Esposito aveva poi aggiunto: «Ho sentito Gentiloni e mi ha assicurato che verrà tutto ripristinato con la manovrina». La legge delega sul codice degli appalti approvata un anno fa era il frutto della stagione dei grandi scandali Expo e Mafia capitale. Ieri pomeriggio un lancio di agenzia sottolineava che i poteri soppressi in Cdm non sono finora mai stati attivati dall’Anticorruzione. Ma le indagini Consip, che dall’imprenditore Alfredo Romeo si stanno allargando ai competitor Cofely e la coop rossa Manutencoop, avrebbero potuto sollecitare interventi urgenti.
Partono all’attacco i 5 Stelle, che all’Anac hanno presentato un esposto sul salvataggio dell’Unità: «Un partito coinvolto in Trivellopoli e Mafia Capitale – commenta Luigi Di Maio – non potrà mai fare regole anticorruzione certe». E Roberta Lombardi: «Il Cdm o non ha capito nulla o è complice. Chi ha scritto quella riga è sconosciuto al momento, in l’Italia non si sa neanche chi scrive o riscrive le leggi». Il ministro della giustizia e candidato a segretario Pd, Andrea Orlando, aveva sollecitato un’ulteriore riflessione. «Se prima delle primarie ci fa sapere di quale governo è ministro e in quale Cdm siede possiamo capire cosa pensa», lo attacca il renziano Ernesto Carbone.
Chi ha cancellato la norma mettendo in imbarazzo il governo? Nel preconsiglio dei ministri la norma c’era, poi nell’ultima riunione è stata abrogata sulla base di un parere del Consiglio di Stato: fonti ministeriali ricostruiscono così la decisione, presa per evitare di assegnare «eccessivi poteri» all’Anac cioè il potere di sanzionare imprese o sospendere atti senza passare dal giudice. I renziani non vogliono passare per i mandanti e contrattaccano: «Il Consiglio di Stato è impegnato a smantellare le riforme del governo Renzi». In serata arriva il commento dall’Anac: «Il potere della “raccomandazione vincolante” che è stato soppresso è un elemento qualificante del nuovo Codice per il suo effetto di deterrenza nei contratti pubblici». Filtra, inoltre, perplessità per il fatto che la norma non sia stata discussa né ci sia stato un confronto in sede parlamentare, considerato che con le commissioni e i relatori c’era stata «una proficua collaborazione» durante l’iter del provvedimento.
La pubblicazione dell'opera omnia è l'occasione per ricordare la pienezza della sua vita di uomo e di sacerdote e le ragioni per cui i potenti e gli sciacalli si accaniscono contro la sua figura. articoli di S.Ronchey e F. Ruozzi. la Repubblica, 21 aprile 2017
LE VEREPAROLE DI DON MILANI
di Silvia Ronchey
«Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese»
Vissuto per metà sotto il fascismo, per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali - bisnonno senatore, Freud e Joyce, Svevo e Pasquali tra le conoscenze di famiglia, l’intelligencija russa nel Dna - che si fa traditore sia del proprio ceto, sia degli schieramenti autoritari della propria chiesa, nonché, in seguito, di quelli dei partiti, che i suoi gesti provocatoriamente radicali negli anni Cinquanta faranno più di una volta infuriare. È un ebreo non praticante che fa «indigestione di Cristo», come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto: quello di cercatore di verità.
Cosa ha fatto Lorenzo Milani? Si è fatto maestro, non metaforicamente ma alla lettera, nel modo più umile e concreto, prima a San Donato, poi a Barbiana. Nel suo insegnamento si è liberato del catechismo, alla lettera ma anche metaforicamente, per attuare un progetto di “redenzione immanente” dell’ingiustizia sociale, ma anche per rovesciare l’impianto ideologico della scuola confessionale. Dove per confessione si intende quella cattolica, ma anche l’altrettanto autoritaria catechizzazione prodotta dalle ideologie secolari. Finendo così per «smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla scolastica marxista allora imperante », come scrive Alberto Melloni nell’ardente introduzione all’edizione critica dell’opera omnia in uscita nei Meridiani Mondadori.
Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano: «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei
Sei personaggi in cerca d’autore? », scrive diciottenne all’amico Oreste del Buono. Nel ’43 entra in seminario. Quando, dopo più di un decennio di attrito con le gerarchie, il suo primo libro,
Esperienze pastorali, gliene guadagna definitivamente l’opposizione senza garantirgli alcuna effettiva protezione della sinistra comunista, Milani non fa che rafforzarsi nel convincimento, forse inevitabile per un intellettuale italiano, che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza. Ed ecco che l’autorità ecclesiastica lo esilia in quell’«angolo estremo senza acqua, senza corrente elettrica, posta o strada » che è Barbiana. Milani «farà dell’esilio un trono».
Nella sua lotta al conformismo, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo «i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli», ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel modo alto borghese contro il cui feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana «i metodi dell’educazione grande bourgeoise»: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero, addirittura la piscina.
La passione per un utopistico «riscatto del tempo penultimo», in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario. Ogni intellettuale è un prete mancato. Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti - di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri.
Lorenzo Milani muore nell’estate del ‘67 e la sua ricerca, sarà, scrive Melloni, «rapita dal Sessantotto», che farà di lui «l’icona di un mondo che gli era estraneo», postumamente affiliata da un’opposizione politica che ha avuto tra le sue responsabilità, peraltro condivise con demagogici schieramenti di governo del nostro paese, la sistematica decostruzione del suo sistema scolastico. Proprio quello che a Milani stava più a cuore, che auspicava acattolico e aconfessionale, che vedeva come unico vero strumento rivoluzionario - ma certo solo se e quando «dota i tacitati della parola», non quando li riduce a un nuovo, subculturale silenzio. Nell’anno in cui ricorre il cinquantenario della sua morte, sembra che da più parti si cerchi di infangare la memoria di Milani.
Sto con la professoressa, è il titolo di un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, con allusione al suo scritto più celebre, Lettera a una professoressa. Altrove si è cercato di “pasolinizzare” la sua figura e addirittura, nel recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.
NELLE SUE LETTERENESSUNA “CONFESSIONE”
MA SOLO IL GUSTO AMARO DEL PARADOSSO
di Federico Ruozzi
«Per tutta la vita ha dovuto difendersi da chi voleva farlo passare, come diceva lui, per “un finocchio eretico”. Però l’analisi attenta e non strumentale dei suoi testi allontana ogni sospetto di pedofilia»
La scrittura di don Milani è difficile da catalogare: ne era consapevole. In una lettera si rivolge così all’interlocutore: «Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi». E così a chi legge di sbieco resta in mano poco: piccoli slogan («l’obbedienza non è più una virtù», «I care») o luoghi comuni su di lui, spesso denigratori, che mescolavano omosessualità e pedofilia. Frutto, quando era vivo, della vigliaccheria dei suoi nemici, e - da morto - di ritagli malfatti, come quelli a cui si è riferito Walter Siti. In particolare, un libro di 15 anni fa dello storico dell’educazione Antonio Santoni Rugiu: Il buio della libertà. Storia di don Milani, (De Donato-Lerici). Rugiu cita di seconda mano passi scelti non a caso. E ignora quasi tutti quelli in cui Milani denuncia il tentativo di farlo passare per «finocchio eretico e demagogo».
Ecco le citazioni 1) Una lettera a Oreste Del Buono del 31 luglio 1941, in cui Lorenzino fantastica sul desiderio di essere visitato da un «angelo biondo» che non è un’allusione, ma il ricorso a quel registro ironico che segna i momenti tragici della vita.
2) Una poesia del 1950 in cui Milani contrappone il desiderio del prete di essere padre degli orfani e delle vedove all’accusa («finocchio!») a cui dovrà far fronte.
3) La lettera alla madre del 29 agosto 1955, in cui ricorda ancora una volta come i suoi persecutori abbiano messo in dubbio il suo sacerdozio.
4) Concetto ribadito nella lettera al vescovo Enrico Bartoletti del primo ottobre 1958, per contrapporre l’elevazione all’episcopato dell’amico e la sua “elevazione” a Barbiana in odore di «finocchio eretico e demagogo» - cose che certo Milani scriveva non per ammetterle, ma per mostrare la bassezza dei suoi denigratori.
6) Dalla lettera all’amico giornalista de L’Europeo Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959 viene presa la riga che afferma «che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!)» e poi «chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?».
Espressioni che non sono confessioni del desiderio di stuprare i bambini ma la costruzione della tesi paradossale finale: «Eccoti dunque il mio pensiero: la scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo d’una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini». Così come sarebbe strampalato imputargli una dottrina sul privilegio cattolico di insegnare, allo stesso modo non si può fare delle premesse la confessione di uno stupratore.
E infine c’è una lettera all’amico don Bruno Brandani del 9 marzo 1950 presentata con un’ omissione che ne stravolge il senso: all’amico don Lorenzo si rivolge dicendo «questa lettera è per te solo [...] se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva». L’ammissione di un’antica intimità erotica?
La straziante affermazione che nell’esilio barbianese la vita spirituale consiste «nel tener le mani a posto!» sarebbe l’ammissione di un desiderio represso di violenza sui bambini? No, la lettura dell’insieme del brano chiarisce tutti i dubbi: «Bruno questa lettera è per te solo solo solo. Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi. Ma se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva. Tu lo sai che a Dio ci credo e che credo anche a tutto il resto compreso la SS. Purità e la S.Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora che questi nomi non son più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma sofferenti cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare sia pure da d. Bensi o Bartoletti o p. Lombardi o chi si sia. Ci credo da me come so che ci credi te e tutti gli altri compagni che ci viviamo dentro tragicamente».
Il linguaggio milaniano è volto sempre a provocare, oscillare e scivolare dal registro ironico a quello paradossale. A don Bensi, il suo padre spirituale, lo dice rimproverando di averlo spinto a lavorare al suo libro: «Può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri. Una sua decisione per l’una o l’altra strada oppure una sua spiegazione del come se ne possa compiere la sintesi mi farebbe un gran comodo ».
Don Lorenzo Milani, Tutte le opere (Meridiani Mondadori, due volumi, pagg. 2976, euro 140). Un progetto realizzato sotto la direzione di Alberto Melloni e con la cura di Federico Ruozzi, con la collaborazione di Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella. Dal 25 aprile in libreria.
«I missili in Siria e la superbomba in Afghanistan sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica per questo paese sin dai tempi della Guerra Fredda».Intervista di Patricia Lombroso.
il manifesto, 20 aprile 2017
«Per la prima volta nella storia dell’umanità viviamo una situazione pericolosissima che rischia la stessa sopravvivenza della specie umana. Parlo della capacita mostruosa odierna di uccidere da parte degli Stati Uniti. Grazie al progetto iniziato anche con l’amministrazione Obama ed ora finito nelle mani di Trump, per l’ammodernamento tecnologico nucleare che ha raggiunto livelli radicalmente superiori all’arsenale nucleare russo quale deterrente. I margini si sono assottigliati al punto che non si può escludere una catastrofe nucleare».
È in questi termini drammatici che si apre l’intervista a Noam Chomsky concessa a il manifesto dopo l’attacco militare, unilaterale, in Siria con 59 missili Tomawak; il raid in Afghanistan con lo sganciamento della «madre di tutte le superbombe», la Daisy supercutter tecnologicamente perfezionata dal Pentagono che la impiegò già nel 1991 in Iraq; a seguito della minaccia di ritorsioni militari per la tensione con la Corea del Nord; e mentre Trump annuncia la «revisione per verificare se Tehran si è attenuta ai contenuti», anche se «prudente, perché consapevole dei rischi» dell’accordo sul nucleare civile con l’Iran firmato da Obama.
Qual è la strategia e la motivazione dei nuovi attacchi militari in Siria e in Afghanistan?«Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan sono state preparat a tavolino da questa nuova amministrazione incurante del crimine commesso che viola tutte le norme del diritto internazionale. Per uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa "America First".
«Con l’intento di perseguire indisturbati nel progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa, per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere. Di fatto la reazione immediata di Trump è stata quella di rassicurare l’opinione pubblica americana che un nuovo sceriffo è finalmente arrivato. Con questo messaggiio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono, nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama; siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso.
«Paradossalmente qui negli Stati uniti l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’ "America First".
«L’attacco militare americano in Siria è stato interpretato in Europa ed in tutto il mondo occidentale come un messaggio contro Assad per avere impiegato armi di distruzioni di massa. Non dando però alcuna importanza ai dubbi, francamente credibili, di esperti di armi chimiche e dei russi che hanno chiesto subito una inchiesta internazionale indipendente degli organismi sulle armi chimiche delle Nazioni unite. L’obiettivo di Trump, Bannon e dei loro portavoce è quella di accentrare l’attenzione con costanti immagini televisive e twitter dei social media, dell’opinione pubblica su di loro e non sulle reali tematiche promesse pr l’America First. Passo dopo passo, dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa. È questa l’organizzazione di potere piu pericolosa nella storia del mondo. Che , per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capacere anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità.»
Quali i rischi immediati prevede in questa situazione di strategia bellica che, per affermare la propria immagine promessa, va verso la catastrofe di una guerra nucleare?
«L’ Atomic Bulletin of Scienctists nela marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia.»
Che cosa dobbiamo aspettarci allora?
«Questi dati devono farci capire i rischi per la sicurezza mondiale, dati i margini assottigliati e “al limite massimo” per una catastrofe nucleare provocata da “mutual destruction”. Perché si è messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike” nucleare nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente.
«Ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa.Il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump. Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terroristismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare.
«I missili in Siria e la superbomba in Afghanistan sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica per questo paese sin dai tempi della Guerra Fredda.»
«Israele/Territori occupati. Il ministro israeliano per la sicurezza interna ribadisce la linea dura contro lo sciopero della fame attuato da circa 1500 prigionieri palestinesi, proclamato dal leader di Fatah Marwan Barghouti».
il manifesto, 19 aprile 2017
Sono state immediate le contromisure adottate dalle autorità carcerarie nei confronti del segretario generale di Fatah, Marwan Barghouti, e degli altri detenuti palestinesi, circa 1500, che da lunedì fanno lo sciopero della fame nelle carceri israeliane per ottenere migliori condizioni di vita. I palestinesi denunciano il trasferimento dei prigionieri in sezioni diverse, la sospensione delle visite dei familiari e altri provvedimenti punitivi. Barghouti lunedì era stato trasferito, insieme ad altri due prigionieri, Karim Junis e Mahmoud Abu Srour, dal carcere di Hadarim a quello di Jalama dove è stato messo in isolamento. Israele respinge l’apertura di una trattativa. Parlando ieri ai microfoni di Galei Tzahal, la radio delle forze armate, il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan ha detto che l’isolamento di Barghouti «si è reso necessario perché (il leader di Fatah) incitava alla rivolta e guidava lo sciopero».
Erdan definendo la protesta «uno sciopero politico ed ingiustificato», ha aggiunto che Israele ha allestito nei pressi del centro di detenzione di Ketziot, nel Neghev, un ospedale da campo dove saranno curati quanti fra gli scioperanti dovessero aver bisogno di cure mediche nei prossimi giorni. E non ha escluso che i detenuti possano essere alimentati contro la loro volontà. Dietro l’idea dell’ospedale da campo ci sarebbe proprio la possibilità dell’alimentazione forzata, vietata dal diritto internazionale. Nei nosocomi civili i medici israeliani non intendono nutrire con la forza i detenuti palestinesi malgrado il recente parere favorevole della Corte suprema. L’uso di un ospedale da campo perciò sembra offrire una scappatoia. Tuttavia Israele sa che obbligare i prigionieri ad alimentarsi finirebbe per gettare altra benzina sul fuoco della protesta delle famiglie dei detenuti e di molte migliaia di palestinesi che si stanno mobilitando in appoggio allo sciopero della fame che riceve sostegni anche in altri Paesi, arabi ed europei.
Marwan Barghouti presto affronterà una corte disciplinare per la sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York Times in cui ha spiegato i motivi dello sciopero e rivolto pesanti accuse a Israele. Le polemiche infuriano e le proteste dello Stato ebraico hanno spaccato la redazione del Nyt dove non poche voci si sono levate contro la decisione di pubblicare la lettera di Barghouti, senza precisare le ragioni per le quali è stato condannato a cinque ergastoli. Ieri è intervenuto anche il premier israeliano Netanyahu. «Indicare Barghouti come leader politico equivale a definire Bashar Assad un pediatra», ha commentato con sarcasmo il primo ministro che poi ha descritto «terroristi e assassini» i personaggi come il dirigente di Fatah.
Marwan Barghuti, promotore dello sciopero della fame che da ieri osservano circa 1500 detenuti palestinesi, è stato trasferito dal carcere di Hadarim e chiuso in isolamento in un altro penitenziario. Ufficialmente la sanzione fa seguito alla pubblicazione «non autorizzata» di un suo articolo sul New York Times che ha provocato forte irritazione nel governo israeliano. Barghouti ha scritto che gli arresti di massa condotti da Israele per decenni non sono riusciti ad indebolire i palestinesi. «Questo sciopero – ha scritto – dimostra una volta di più che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta per la libertà e la dignità…i prigionieri palestinesi stanno soffrendo torture, trattamenti degradanti e inumani e negligenza medica, alcuni sono stati uccisi in custodia». Immediata la replica del ministero degli esteri israeliano secondo il quale, i palestinesi in carcere «non sono prigionieri politici ma terroristi condannati ed assassini». Il ministro dell’intelligence Israel Katz ha scritto su twitter «Mentre i parenti degli (israeliani) uccisi ricordano e soffrono, c’è una sola soluzione: pena di morte per i terroristi». Per Israele anche Barghouti è un terrorista, condannato a cinque ergastoli per aver organizzato attentati contro civili. Accusa che al processo il dirigente di Fatah ha respinto. Per i palestinesi invece Barghouti è il nuovo Mandela.
L’inizio dello sciopero della fame, nel “Giorno del prigioniero”, al quale stanno prendendo parte detenuti di varie fazioni politiche e non solo quelli di Fatah – Hamas ha espresso sostegno al digiuno ad oltranza ma finora non ha ordinato ai suoi membri reclusi di parteciparvi – è stato segnato da manifestazioni di protesta in varie città della Cisgiordania, in particolare a Ramallah e a Betlemme. I soldati israeliani hanno arrestato cinque dimostranti palestinesi e ferito almeno 15.
Secondo dati dell’ong Addameer, sono circa 6500 i prigionieri politici in Israele. Di essi, 478 scontano l’ergastolo. Altri 300 sono sotto ai 18 anni. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha espresso solidarietà ai detenuti e invocato un intervento internazionale in loro favore. Allo stesso tempo guarda con attenzione all’evoluzione delle proteste che potrebbero estendersi mettendolo di fronte al dilemma di reprimerle o assecondarle con conseguenze politiche in entrambi i casi. Questo mentre si prepara all’incontro con il presidente americano Trump.
Riferimenti
Qui, nella traduzione italiana, il testo integrale dell'ampio articolo del New York Times la cui pubblicazione ha provocato l'ulteriore irrigidimento delle inumane sanzioni applicate dal governo Netanyahu ai patrioti palestinesi.
«LA NATO CAMBI O NON CI RESTEREMO»
POLITICA ESTERA, I PIANI DEI 5 STELLE
«Né filo Trump, néfilo Putin. Al governo ci ritireremo dall’Afghanistan»
Fuori dalla Nato«se non cambia». E «via subito» dall’Afghanistan. Ancora non è il «programma dipolitica estera» dei 5 Stelle. Sia perché «manca ancora molto tempo alleelezioni» e quindi «dobbiamo necessariamente restare fluidi». Sia perché idieci punti votati dai 23.481 iscritti sono un elenco di argomenti spessogenerici. Ma a sentirli in conferenza stampa i parlamentari dei 5 Stelle hannoidee piuttosto chiare e decisamente in controtendenza rispetto alla politicaestera italiana degli ultimi anni.
La sovranità
Qualcuno mette indubbio il realismo politico dei 5 Stelle, ma Di Battista richiama tuttiall’ordine: «Vi invito a prenderci sul serio. Non siamo una meteora e non siamopopulisti. Il nostro programma non è utopia, come ad alcuni sembra solo perchési parla di pace e di dialogo. Voi non ci prendete sul serio, ma ambasciatori eministri degli Esteri sì: da loro stanno arrivando decine di richieste diincontri».
A chi li haaccusati di essere filo Trump, all’inizio, e poi filo Putin, Di Battistarisponde così: «Non siamo né filo Trump né filo Putin, ma è fondamentale averebuoni rapporti con entrambi. Ci avete dato dei filotrumpisti solo perchéabbiamo detto che andava rispettato l’esito del voto. Non siamo filorussi soloperché sosteniamo la necessità di un dialogo con Putin, soprattutto in chiaveantiterrorismo».
I 5 Stellerivendicano la «sovranità» come concetto chiave: sovranità politica, deiconfini, dell’economia, delle risorse energetiche. Lo slogan è: «Un’Italialibera e sovrana, amica di tutti i popoli». Facile a dirsi, ma venti di guerraspirano ovunque. E le istituzioni internazionali scricchiolano. Di Stefanoaveva scritto un post di fuoco contro la Nato. Ora è più cauto, ma non troppo:«Se la Nato cambierà, resteremo, altrimenti dovremo riflettere se continuare afarne parte oppure no». Lo stesso discorso che vale per l’Europa. Non amanodefinirsi euroscettici e a chi dice che vogliono la dissoluzione dell’Europa,ribaltano il discorso: «L’Europa si sta smantellando da sola. E nessun leaderha preso posizione sulla più grande bomba sganciata dopo Hiroshima».
L’euro
Gli iscritti nonhanno votato l’uscita dall’euro (o il referendum per deciderlo), ma una «monetafiscale», proposta dall’economista Gennaro Zedda. Di Stefano rimedia così: «Iltema dell’euro sarà affrontato nel capitolo economico. Del resto le domandesono elaborate sulla base di posizioni di esperti indipendenti e quindi nonsono nostre». Che gli iscritti abbiano votato su quelle è un dettaglio:«Dobbiamo stare fluidi e poi le nostre posizioni le abbiamo espressechiaramente in Parlamento».
Altra cosa su cuinon si è votato è il ritiro dall’Afghanistan. Ma su questo si è già deciso: «Sesaremo forza di governo — dice Di Battista — ritireremo le nostre truppe da unaguerra ignobile e ingiusta e che non è stata neanche vinta». Capitolo dirittiumani: c’è «troppa ipocrisia» e le violazioni si contestano meno se sono digoverni amici dell’Occidente, «come per l’Arabia Saudita, che sta bombardandonell’indifferenza lo Yemen». Infine la questione migranti. Gli uomini in mare,certo, devono essere salvati, «ma l’immigrazione è un business per molti, comeper i centristi».
UN’ITALIANEUTRALISTA
CON UN OCCHIO AL VATICANO
di Massimo Franco
Né con gli StatiUniti né con la Russia. Neanche con una Nato associata agli equilibri delpassato. E nemmeno con l’Europa della moneta unica. Elencare i punti dellapolitica estera del Movimento Cinque Stelle, illustrati ieri in Parlamento,significa affrontare una serie di incognite. Tutt’altro che remote: di qui a unanno potrebbero diventare il programma dell’Italia, se la formazione di BeppeGrillo avrà i numeri per chiedere la guida del governo.
L’aspetto che colpisce,nell’elenco stilato da Manlio Di Stefano e da Alessandro Di Battista, è unastrategia declinata soprattutto in negativo. L’obiettivo immediato è quello diuna disdetta dei trattati e delle alleanze internazionali, oggi in affanno; ela loro sostituzione con una nebulosa strategica che di fatto, però,candiderebbe il nostro Paese al ruolo di «nuova Grecia» al cospetto delleistituzioni di Bruxelles e della Bce.
Il troncone più consistente di quelli chevengono definiti populisti si vede come «buon interlocutore degli Usa e dellaRussia». Chiede un recupero di sovranità contro i «dettami di entitàsovranazionali». E ritiene che occuparsi di «permanenza o di alternativaall’eurozona» sia da «forza politica responsabile». Idem la decisione di fareuscire unilateralmente le truppe italiane dall’Afghanistan; e di valutare sesia il caso di rimanere o no nell’Alleanza atlantica. «Non siamo populisti,crediamo nell’autodeterminazione dei popoli, nella pace e nel disarmo», spiegaDi Battista. «All’estero ci prendono sul serio e abbiamo moltissime richiestedi incontri da ambasciatori e da ministri».
L’accusa di essere «filotrumpisti»viene respinta. Idem l’altra, di essere «filorussi solo perché sosteniamo undialogo con Putin in chiave antiterrorismo». Ma è l’antieuropeismo a seminarediffidenze. Il programma dei seguaci di Grillo ignora le obiezionicostituzionali e finanziarie legate a un tentativo di uscita dalla monetaunica: inflazione galoppante, paralisi del sistema bancario, isolamento inEuropa. Prevale l’idea di un Paese ripiegato su se stesso eppure, secondo ilMovimento Cinque Stelle, in grado di riscrivere le regole della politicainternazionale.
Il metodo col quale la strategia è stata lanciata è il solito: affidareagli iscritti la decisione online sulle priorità di politica estera. Lo schemaricalca sul piano internazionale quello usato in Italia: le vecchie ricette nonvanno, bisogna rifarle. L’offensiva non va sottovalutata.
Anche perchénell’escludere alleanze precostituite, i Cinque Stelle ritengono di avere uninterlocutore: il Vaticano di Francesco, che con la Russia di Vladimir Putinnon ha interrotto il dialogo; e che ha di fronte un’America distante dallastrategia della Santa Sede. «Siamo sull’orlo della Terza guerra mondiale apezzetti di cui parla il Papa? Sì», secondo Di Battista. In parallelo ilvicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del M5S, cita la Cei per attaccarei negozi aperti durante le feste. E il quotidiano Avvenire mette le sue parolein prima pagina.
«Gladys Martínez López del collettivo
Diagonal il manifesto
«La direzione di Podemos appoggia la creazione di un mezzo d’informazione alternativo»: così El País ha informato sulla nascita di El Salto, una piattaforma mediatica di proprietà collettiva appena nata a Madrid. Tuttavia, la realtà del processo che consolida El Salto è molto distante dalla descrizione del più grande quotidiano globale in lingua spagnola.
L’idea nasce nella redazione del quotidiano (creato nel 2005) dall’esigenza di democratizzare la comunicazione dello Stato spagnolo facendo confluire in uno spazio condiviso diverse realtà di informazione critica e indipendente. L’obiettivo è consolidare un nuovo gruppo mediatico per contendere l’egemonia dell’informazione alle grandi corporazioni. Intanto, il progetto è partito con una rivista mensile (lo scorso marzo è uscita il primo numero), che approfondirà le tematiche trattate quotidianamente in un’innovativa piattaforma digitale, con contenuti scritti e audiovisivi.
Un canale per dar voce ai movimenti sociali, ma anche per stimolare la partecipazione della cittadinanza nel mondo dell’informazione, El Salto è il risultato della vivacità sociale e politica apertasi con l’apparizione del movimento degli Indignados, il 15 maggio del 2011, durante il secondo governo Zapatero. Tutt’altro che una scelta di partito calata dall’alto, quindi, ma una complessa trama di alleanze e cooperazione tra mezzi d’informazione (anche in lingue diverse) della Galizia, del Paese Basco, dell’Andalusia, che porta oltre venti realtà indipendenti a creare, dal basso, «el primer gran medio financiado por la gente».
«Ci dicono impossibile, ma già lo stiamo facendo», si legge sulla pagina in formazione di El Salto. Come? Ce lo spiega Gladys Martínez López, una giovane del collettivo che ha partecipato alla costruzione del progetto.
Qual è la differenza tra El Salto e i media indipendenti a cui ci siamo abituati in passato?
Il movimento 15M ha segnato un punto di non ritorno; quell’esplosione di dignità, di denuncia e rivendicazione mostrò una ripoliticizzazione di ampi strati della società, evidenziando l’indignazione popolare. Sono nati diversi mezzi d’informazione, alcuni dei quali hanno cominciato ad occupare quello spazio alla sinistra di El País in cui fino ad allora ci muovevamo praticamente da soli. In questo scenario interessante, il progetto è cresciuto. Tuttavia, al di là della riuscita di Diagonal, avevamo come la sensazione di sbattere contro un tetto di vetro che ci impediva di continuare a crescere, sentivamo di esserci accomodati nel nostro giornalismo di nicchia. Invece, per andare oltre e consolidare la nostra sostenibilità, dovevamo fare un “salto”, non aveva più senso continuare a competere con tutti quei mezzi d’informazione con cui già avevamo stabilito logiche di cooperazione. Allora ci siamo chiesti perché non creare un grande mezzo d’informazione con un’infrastruttura comune in cui possano confluire tutti questi progetti. Così abbiamo cominciato a confrontarci con i diversi progetti mediatici che hanno poi dato vita a El Salto. Proprio questa volontà di unire, di far confluire, di creare logiche di collaborazione pura, è uno degli elementi originali rispetto ad altre esperienze mediatiche.
Stiamo costruendo un grande mezzo d’informazione, di massa però orizzontale, basato e sostenuto da migliaia di persone associate, con norme etiche per quanto riguarda pubblicità e indipendenza da imprese, partiti, ecc. Un altro aspetto chiave è l’importanza che diamo all’informazione locale, sempre più abbandonata dal sistema mediatico dominante, ma oggi cruciale più che mai, per l’interesse che suscitano gli «ayuntamientos del cambio» (città ribelli, ndr) e per l’importanza della dimensione territoriale delle lotte. Infatti il numero zero è uscito in sei edizioni diverse: insieme all’edizione statale, quelle andalusa, galiziana, di Madrid, della Navarra, di Aragón. Infine, El Salto oltre ad essere un “mezzo di mezzi d’informazione”, vuole consolidarsi come gruppo mediatico innovativo nello sperimentare nuovi formati e nuove tecniche comunicative. Per questo tendiamo a tessere alleanze e a creare spazi di cooperazione.
Un “salto” collettivo in un mondo, quello dell’informazione, che sembra essere sempre più ostaggio delle logiche di mercato e delle grandi corporazioni. Qual è il panorama mediatico in Spagna?
Nella prima edizione abbiamo dedicato un ampio spazio ai grandi gruppi mediatici, che nello stato spagnolo si accaparrano più della metà del mercato dell’informazione e la maggior parte dell’audience: Mediaset, Prisa, Atresmedia. Tutti questi gruppi, tra le altre cose, sono accomunati dal vincolo che unisce i loro consigli d’amministrazione a grandi banche, multinazionali dell’energia, grandi imprese… Per noi è impossibile fare informazione indipendente con un consiglio d’amministrazione legato a grandi imprese.
Dall’altra parte, come ho spiegato prima, troviamo un panorama mediatico indipendente, nato dopo il 15M, con una molteplicità di nuovi media e di diverse tendenze. C’è poi il recente processo di “democratizzazione” dell’informazione, con l’assottigliamento, nello spazio digitale, delle linee che separano “giornalismo professionale” e “giornalismo cittadino”. Certamente il panorama è inedito, ma resta solida l’egemonia del discorso dominante e dei grandi apparati mediatici, appoggiati dai gruppi politici e imprenditoriali. Per questo crediamo necessario un giornalismo critico, dal basso, appoggiato e partecipato da migliaia di persone associate.
Un progetto che s’inserisce in una cornice abbastanza vivace. Che relazione c’è tra El Salto e la fase politica che vive lo Stato spagnolo?
Il bipartitismo è ancora vigente, e il Partido Popular – un partito di destra per certi versi erede del franchismo – continua a governare. Ciò nonostante, tanto il Partido Popular come il Psoe (i due “partiti del regime”) sono usciti malconci dall’esplosione del movimento del 15M, prima, e poi dall’irruzione di Podemos nelle istituzioni. In diverse comunità autonome, le candidaturas del cambio sono riuscite a sconfiggere l’egemonia pluridecennale del Partido Popular, anche se questo in diversi contesti ha significato stringere alleanze con il Psoe.
Negli ayuntamientos del cambio, governati da liste civiche di unità popolare, le lotte sociali sono entrate con forza nei consigli comunali. Molti attivisti e attiviste dei movimenti hanno oggi cariche istituzionali e politiche, con conseguenze positive ma anche negative: s’indeboliscono i movimenti per lavorare in istituzioni le cui logiche sono veramente difficili da cambiare. Senza dubbio, dalla prospettiva di un mezzo d’informazione critico come il nostro è molto più facile ottenere dichiarazioni e interviste da questi nuovi partiti, liste civiche, istituzioni che si sono nutrite dei movimenti, perché sono più accessibili. A seconda del contesto e delle situazioni, si sono ottenuti cambiamenti più o meno importanti, ma anche blocchi, disillusioni, incoerenze… Noi crediamo fermamente che è imprescindibile mantenere un’assoluta indipendenza da qualunque potere economico e politico per informare dal basso sulle ingiustizie, le promesse incompiute, gli immobilismi, di qualsiasi stampo e colore politico.
Questione di genere. Esplicita («montami a casa tua») o subdola (l’uso maschile e femminile dei tablet), lo spot made in Italy è inchiodato allo stereotipo».
il manifesto, 19 aprile 2017
Quando si pensa alla pubblicità sessista vengono in mente donne in pose provocanti e doppi sensi squallidi. «Te la do gratis/ perché pagarla di più/ tu dove glielo metteresti/ montami a casa tua» e simili, ricorrenti slogan. O si immaginano pezzi di corpi femminili associati a prodotti, per esempio le bocce da bowling di una ditta di Messina, o dei grandi hamburger di un locale di ristorazione, sovrapposti ai seni. Sono casi abbastanza chiari, la volgarità è palese.Ma il sessismo può assumere forme eleganti, raffinate.
Mentre non usa porre oggetti davanti alla faccia o in testa a un uomo, alla donna si mette di tutto, dalle scarpe ai paralumi che le coprono il volto (Arredamenti Pezzini) dalle tazzine di caffè della Lavazza ai piatti della collezione dei supermercati Simply, o all’insalata della Fiera del gusto di Gorizia. O magari le si nasconde il volto con una papera di gomma. Spesso, anziché nasconderle il viso, lo si elimina proprio, e l’immagine pubblicitaria consiste di un corpo acefalo.
Un’altra forma di sessismo è la scelta del carattere della donna.
Se non è sexy o dolce moglie e mammina, negli spot televisivi diventa emotiva, aggressiva, imprevedibile, infantile, o con un misto di queste caratteristiche, a cui viene aggiunta a volte la connotazione sessuale. Esempi. Canone Rai: uomo posato, donna infantile e isterica. Costa crociere: donna che sfrutta la sessualità per attirare l’attenzione dell’uomo e poi diventa violenta. Golia: bambina deficiente.
Diversi uomini trovano queste pubblicità offensive per loro. Sono d’accordo. Non si accorgono, tuttavia, che la donna, lungi dall’essere vincente, è rappresentata come mentalmente instabile. Non ci sono vincitori in questi spot, solo perdenti.
Poi c’è la caratterizzazione dei bambini, con stereotipi a go-go: le bambine interessate al loro aspetto, passive e sorridenti, desiderano essere ballerine e principesse. I bambini amano l’avventura, vogliono diventare esploratori o astronauti e sono mostrati con oggetti come binocoli o timoni, in movimento.
A volte, per fortuna, si reagisce: nel 2015 uscì uno spot della Kimberly-Clark per i pannolini Huggies in cui si diceva «lei penserà a farsi bella, lui a fare goal». La pagina facebook della ditta fu sommersa dalle critiche, moltissime di giovani papà e mamme, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ricevette tante segnalazioni di sessismo, e la Kimberly-Clark fu costretta a modificare il costosissimo spot.
Nella pubblicità italiana lavori domestici e cura dei figli sono puntualmente appannaggio della donna. «Emozioni che si tramandano» recita lo slogan del detersivo Scala, con una mamma e una bambina sorridenti con le ramazze in mano.
Ma ci sono anche modi più subdoli nell’attribuire attitudini femminili e maschili secondo stereotipi antiquati. Tempo fa un opuscolo della Samsung pubblicizzava un computer mostrando un uomo, vestito, con lo sguardo intento di chi sta lavorando, e una da donna semivestita e sdraiata sul letto. Il testo chiariva che “lei” può usare il portatile per chattare, fare shopping e guardare film. Dunque il messaggio è che l’uomo guadagna, lei spende, si dedica ad attività superficiali ed è sempre sexy. Un altro esempio di attribuzione di attitudini diverse è la “cassetta degli attrezzi” del 2016 della Lycia: per la donna nella cassetta ci sono i trucchi e per l’uomo gli attrezzi da lavoro. Anche in questo caso, per fortuna, c’è stata una forte reazione di critica. La ditta non ha modificato l’immagine ma si spera che non ripeta l’errore in futuro.
Uno degli aspetti più subdoli del sessismo è la ricerca dell’aderenza di forma e colore tra la donna e il prodotto. L’acqua Brio blu della Rocchetta ne è un esempio.
Quando la vincitrice di Miss Italia 2013 fece da testimonial per questa pubblicità il fotografo Ico Gasparri, da decenni impegnato nel contrasto alla pubblicità sessista, rivolgendosi alle aspiranti Miss, scrisse: «Guardate a cosa hanno portato i tanti sforzi, i probabili sacrifici personali e familiari, le tante aspettative della vostra collega vincitrice dell’edizione 2012: a fare la bottiglia di acqua minerale! Ad assumerne i colori, a interpretarne l’effervescenza e la briosità, ancheggiando, saltellando e contorcendosi in improbabili pose da pubblicità all’italiana».
Altri esempi di aderenza tra donna e prodotto sono il chicco di caffè sul volto di una ragazza per la Pellini, il logo della Abarth sul collo della modella in uno spot della Fiat, la donna-supposta di glicerina dello spot di Eva Q, e i chicchi di caffè al posto dei peli dell’inguine di una donna nuda per il caffè Godo.
L’aderenza si estende poi al carattere, che serve a rappresentare le diverse caratteristiche di un prodotto alimentare, come nella pubblicità dell’olio Bertolli dove tre gemelle rappresentano i gusti.
Nel nostro Paese, dove persiste la visione del ruolo ancillare della donna, la pubblicità la usa per attirare l’attenzione, rallegrare, stimolare l’erotismo, a far identificare il prodotto con piacere, allegria, spensieratezza. Alle donne acquirenti si chiede di immedesimarsi con le modelle seducenti o con le mammine felici. E le stesse ditte che, come la Muller, all’estero promuovono una figura di donna moderna, e nelle cui pubblicità compaiono donne di tutte le età, di fisici diversi, vestite normalmente, in Italia si ostinano a «far l’amore con il sapore».
».
il manifesto, 18 aprile 2017 (c.m.c.)
L’elezione di Donald Trump potrebbe costituire l’avvio di una profonda ristrutturazione degli schieramenti in campo: di quelli politici e di quelli dei loro supporters, che agiscono al di fuori della sfera politico-elettorale, ma che con i partiti in senso proprio hanno legami strettissimi: marciano divisi, per colpire uniti. Da un lato c’è uno schieramento che potremmo chiamare «globalista». Per esso la consegna del pianeta al mercato è giusta e inevitabile. In linea di massima questo è lo schieramento che al momento prevale alla guida delle democrazie sviluppate. Salvo aver alfine trovato un rivale assai temibile.
È ancora un’ipotesi: grazie a Trump di schieramenti se ne potrebbe costituire un altro, che potremmo denominare «sovranista», la cui struttura portante sarebbe fatta di quei partiti che ordinariamente vengono classificati come populisti. Secondo questo secondo schieramento il rimedio ai danni prodotti dai globalisti non consiste nel sottrarre spazi al mercato, ma nel restringere il mercato entro i confini nazionali, dandogli lì piena libertà di manovra. L’altra caratteristica dello schieramento sovranista sta nella sua capacità di strumentalizzare le sofferenze e le paure di una parte delle vittime dei globalisti, da esse traendo parte non secondaria del suo seguito elettorale.
Tra i due rivali, uno ben solido, l’altro in via di consolidamento, c’è più accordo che contrasto. Wall street non ha manifestato sofferenza dopo la vittoria di Trump. La Brexit non ha prodotto effetti sconvolgenti, e la borsa di Londra se la cava egregiamente. Se così fosse, sarebbe un’invenzione straordinaria: il capitalismo fa opposizione al capitalismo. Evviva il capitalismo! Divergono sui mezzi: l’uno considera lo Stato un ingombro, l’altro uno strumento. Forse è un conflitto ciclico nella storia del capitalismo. Quello che è verosimile è che i sovranisti non riusciranno a sfuggire dal labirinto di vincoli in cui i globalisti hanno cacciato le società occidentali e proveranno a mascherare il loro fallimento con un po’ di misure illiberali, antidemocratiche, razziste. Trump ha già cominciato. Anzi, ha fatto di meglio. Ha ripreso a bombardare, con tanto di motivazioni umanitarie. Non senza ottenere il plauso dei globalisti-liberali.
C’è forse qualche somiglianza con i contrasti che divisero negli anni 20-30 dello scorso secolo i fascisti da una parte dei liberali. Poi, allora, le cose evolvettero. I liberali presero le distanze, rinunciarono al liberismo, inventarono il New Deal, si appropriarono dell’interventismo statale fascista, ma lo rinnovarono radicalmente in senso democratico. Le analogie sono intriganti, ma non sono mai perfette e non vanno esagerate. Non sappiamo nemmeno come il contrasto tra globalisti e sovranisti evolverà. Potrebbe anche evolversi positivamente. I globalisti potrebbero, almeno alcuni, scoprire di aver esagerato e che l’involuzione autoritaria è troppo rischiosa. Vedremo. Come tutte le trasformazioni, anche questa è incerta.
Anche perché le resistenze non mancano. Negli anni 20-30 c’erano grandi partiti socialisti e comunisti, a volte brutalmente repressi, ma che rappresentavano un principio di resistenza. Oggi c’è resistenza, ma ha altre forme, giacché quei partiti hanno deciso di confondersi nello schieramento globalista. La resistenza attuale è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta.
Tra le forme più paradossali c’è persino il voto per i partiti populisti: che se per alcuni implica adesione, per altri è un voto di «odio». Li si vota perché non c’è di meglio, perché è il voto che reca più disturbo.
La resistenza dispersa non è una condizione inedita. Prima che nascessero i grandi partiti di massa, gli strati popolari erano classificati come classes dangereuses: erano le folle del 1789 del 1848, che i partiti socialisti promossero a classes laborieuses, dotate di un’identità e una soggettività collettiva, protagoniste di grandi cambiamenti.
È immaginabile un riorientamento analogo delle resistenze che caoticamente si manifestano di questi tempi? Non è facile. Una cosa era contrastare lo Stato e le imprese, un’altra rovesciare il mercato globale, gli evanescenti labirinti della governance sovranazionale e i bit della speculazione finanziaria. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza. Il nemico è possente, globalista o sovranista che sia. Ma è possente perché i suoi avversari sono deboli. Ma fino a un certo punto.
Le grandi mobilitazioni sociali di carattere «universalistico» apparse dal 2011 non sono un incidente. Sono manifestazioni di una rivolta collettiva che ha indossato prima le vesti degli Indignados spagnoli e greci, di Occupy, di Gezi Park, della francese Nuit Debout e che poi ha avuto qualche non secondario sbocco elettorale. La rivolta movimentista e l’esodo elettorale dai partiti tradizionali sono a volte riusciti a intrecciare protesta politica e protesta sociale. Tra le vittime del nuovo ordine (o disordine) e le oligarchie cova un conflitto che evoca le grandi retoriche rivoluzionarie: la virtù contro la corruzione, il basso contro l’alto, i produttori contro i parassiti, il «popolo» contro la «corte» (oggi la «casta»). Va da sé che è tutt’altro modo di interpretare il conflitto «basso contro alto» rispetto a quello dei populisti-sovranisti. Nessuno che abbia seguito agisce oggi al di fuori di questa frattura.
Negli Usa la campagna di Sanders è stata fatta in gran parte da attivisti di Occupy, così come la campagna pro-Corbyn nel Labour. Podemos non sarebbe nato senza gli Indignados. Syriza ha vinto le elezioni dopo un lungo ciclo di mobilitazione sociale. Il governo più progressista d’Europa, quello portoghese, è una coalizione tra il partito socialista e partiti della sinistra radicale, resa possibile da un intenso ciclo di mobilitazione anti-austerity. In Francia Mélenchon cresce nei sondaggi anche sull’onda della Nuit Debout. Altre nuove forze di sinistra avanzano in Olanda e in Belgio. La resistenza molecolare prova a coagularsi. Non ci sono quindi alibi per la sinistra italiana: non è vero che nella crisi cresce solo la destra.
Forse il problema italiano è che questo spazio è stato occupato dai grillini, o è stato loro consegnato. Oppure che l’equivoco del Pd si è dissolto solo di recente.
Ma bisogna anche imparare dagli altri. Le nuove forze di sinistra, dove conquistano consensi importanti, non sono stanchi mosaici di ceti politici di lungo corso. Spiazzano, disorientano, agiscono come outsiders, quasi come alieni. Inventano nuove forme organizzative. E soprattutto ci credono, e spiegano a coloro cui si rivolgono che le attuali ingiustizie non solo non hanno niente di naturale e di obbligato, ma sono pure superabili. Purché lo si voglia.
Piccoli centri e campagne paiono risultare più fragili e indifesi delle città di fronte al vento di Vandea che soffia in tutto il mondo.
la Repubblica, 18 aprile 2017 (c.m.c.)
Come per la Brexit. Come per l’elezione di Trump. Come potrebbe succedere tra pochi giorni in Francia se vincesse Marine Le Pen. Erdogan ha vinto grazie al voto delle “campagne”, della periferia. Era temuto, atteso, scontato. È la ricorrente vendetta dei “dimenticati”, dai tempi della Vandea francese all’ascesa di Hitler nelle piccole città prima che a Berlino.
Ma la grande novità è che questo vento di Vandea che soffia in tutto il mondo ha avuto una battuta di arresto. È stato frenato dalle città. Erdogan è stato a sorpresa tradito dalla “sua” Istanbul, da Smirne, persino da Ankara. Le tre città più popolose e dinamiche, che gli devono lavori pubblici e prosperità, gli hanno detto no. Tanto che la sua vittoria al referendum sembra quasi una sconfitta.
Una vittoria sul filo dell’uno per cento o giù di lì è già qualcosa di arrischiato e discutibile in una democrazia normale e consolidata. Che un margine così ridotto porti ad uscire o meno dall’Unione europea suscita perplessità. E ancora più il fatto che possa diventare presidente degli Stati Uniti un candidato che ha avuto 3 milioni e mezzo meno (sì in meno, non in più) della sua concorrente. Dipende dalle regole. Se le regole non vanno si possono cambiare, e comunque mai a partita in corso. A nessuno passerebbe per la mente di contestare il referendum britannico o le presidenziali Usa. Al contrario, un margine così ridotto diventa un problema in una democrazia così e così, in un Paese come la Turchia dove fino al 1945 si votava per un solo partito, e dove per decenni si sono periodicamente alternati elezioni più o meno libere e colpi di Stato militari.
E questo indipendentemente dai sospetti e dalle accuse di brogli. Le schede immediatamente e ufficialmente contestate sono un numero pari a quelle che avrebbero potuto decidere in senso esattamente opposto la consultazione. Quelle “irregolari”, perché prive del timbro di convalida, sarebbero addirittura un terzo del totale. E quanto alla segretezza lasciava a desiderare. Siamo impressionati dagli arresti, dai licenziamenti degli oppositori. Si sa molto meno di quanto siano diventati sistematici il controllo, la sorveglianza e la delazione di massa.
Già parecchio prima del fallito golpe del luglio scorso Erdogan aveva ufficialmente invitato i sindaci dei centri minori ad istituire la sorveglianza capillare dei concittadini, su quel che fanno ma anche su quel che dicono e pensano. Bastano una battuta o un “mi piace” azzardato a una vignetta o un giudizio su Facebook per essere convocati al commissariato a spiegare l’ “insulto” al Presidente, il vilipendio della nazione turca, oppure il sostegno al “terrorismo”. Figuriamoci le conseguenze che si possono temere, specie in un piccolo centro di provincia, se si viene additati come malvotanti.
Il referendum di domenica avrebbe dovuto confermare il cumulo di tutti i poteri nelle mani del presidente della Repubblica, cioè di Erdogan: fondere presidenza e governo, consentirgli di nominare i giudici, renderlo immune a qualsiasi persecuzione giudiziaria, qualsiasi forma di impeachment o rimozione, e soprattutto togliere ogni limite alla durata del mandato. Erdogan ci teneva. È stata la sua ossessione da almeno un decennio a questa parte, forse addirittura sin da quando nel 2002 da sindaco di Istanbul era stato eletto capo del governo, certo da quando, scaduti i mandati, nel 2014 aveva dovuto accontentarsi di fare il Presidente della Repubblica, carica allora alquanto simbolica.
Era stato fermato una prima volta nel 2014, quando le urne gli avevano negato la maggioranza parlamentare. Ci aveva riprovato l’anno dopo, nel 2015, recuperando, grazie al voto nelle “campagne” una maggioranza sufficiente a formare il governo, ma non quella necessaria a far passare modifiche costituzionali. Aveva bisogno di una maggioranza di 2/3 per cambiare direttamente la Costituzione, di una maggioranza di almeno 2/5 per poter fare un referendum sulla Costituzione. Non era riuscito ad ottenere alle urne né l’una né l’altra. Per riuscire ad indire almeno il referendum ha dovuto liberarsi dei deputati curdi, togliendogli l’immunità parlamentare e mandandone decine a processo come sostenitori del “terrorismo” curdo.
Pensava a questo punto che la strada fosse spianata. Prevedeva un margine di 60 per cento o oltre. Si deve accontentare di un vantaggio in pochi decimali. Dal suo punto di vista è una sconfitta. Tanto che ha dovuto affrettarsi a dichiarare, contrariamente al suo stile, che il risultato «è una vittoria per tutti, sia quelli che hanno votato sì sia quelli che hanno votato no». In teoria, con le modifiche costituzionali a cui il referendum dà ora il via libera, Erdogan potrebbe restare ininterrottamente al potere fino al 2029. Si tratta di un problema che si era posto ad altri leader di democrazie “per modo di dire”, che ad un certo punto si erano dati regole simili a quella di democrazie consolidate come gli Stati Uniti, dove vige il limite di due mandati. Putin l’aveva risolto, come è noto, inventando l’alternanza tra presidenza e capo del governo, che ha dato vita alla staffetta con Medvedev.
La cosa che impressiona è che persino in Cina ora Xi Jingping muoia dalla voglia di estendere i suoi mandati oltre quelli regolamentari al punto di voler cambiare le regole al prossimo Congresso del Pcc. I suoi due predecessori non avevano osato e si erano lasciati regolarmente sostituire alla scadenza. Mao non ne aveva bisogno. Era presidente a vita. Deng non aveva incarichi di Stato ufficiali: gli bastava e avanzava essere il presidente della Commissione militare del partito, cioè il capo delle Forze armate. In Cina peraltro non hanno mai avuto problemi di elezioni o referendum: semplicemente da quando le loro campagne avevano preso le città, «con la canna del fucile» come soleva dire il vecchio Mao, non si vota più, e se si votasse probabilmente i risultati sarebbero plebiscitari a favore di chi è già al potere.
Guardian rintraccia le origini e lo sviluppo di quella teoria neoliberale che dagli anni ’80 ha pervaso le nostre società. Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra ». vocidall'estero, 15 aprile 2017 (c.m.c.)
Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle. Anche se i vostri ascoltatori hanno già sentito questo termine, faranno fatica a definirlo. Neoliberalismo: sapete di cosa si tratta?
Il suo anonimato è sia un sintomo che la causa del suo potere. Essa ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi finanziaria del 2007-8, la delocalizzazione di ricchezza e potere, di cui i Panama Papers ci offrono solo un assaggio, il lento collasso della sanità pubblica e dell’istruzione, l’aumento dei bambini poveri, l’epidemia della solitudine, la distruzione degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi rispondiamo a queste crisi come se fossero dei casi isolati, apparentemente inconsapevoli del fatto che tutte sono state catalizzate o aggravate dalla stessa filosofia di base; una filosofia che ha – o ha avuto – un nome. Quale potere più grande dell’agire nel completo anonimato?
Il neoliberalismo è diventato così pervasivo che ormai raramente lo consideriamo come una ideologia. Sembriamo accettare la tesi che questa utopica fede millenaria rappresenti una forza neutrale; una sorta di legge biologica, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma la filosofia è nata come un tentativo consapevole di trasformare la vita umana e spostare il luogo del potere.
Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini in quanto consumatori, le cui scelte democratiche sono meglio esercitate con l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Essa sostiene che “il mercato” offre dei vantaggi che non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia.
I tentativi di limitare la concorrenza sono trattati come ostili alla libertà. Pressione fiscale e regolamentazione dovrebbero essere ridotte al minimo, i servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati. L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei sindacati sono considerate come distorsioni del mercato, che impediscono lo stabilirsi di una naturale gerarchia di vincitori e vinti. La disuguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori e un generatore di ricchezza che viene redistribuita verso il basso per arricchire tutti. Gli sforzi per creare una società più equa sono sia controproducenti che moralmente condannabili. Il mercato fa sì che ognuno ottenga ciò che merita.
Noi interiorizziamo e diffondiamo questo credo. I ricchi si autoconvincono di aver acquisito la loro ricchezza attraverso il merito, ignorando i vantaggi – come l’istruzione, l’eredità e la classe sociale d’appartenenza – che possono averli aiutati ad assicurarsela. I poveri cominciano a incolpare se stessi per i propri fallimenti, anche quando possono fare poco per cambiare la situazione.
Per non parlare della disoccupazione strutturale: se non si ha un lavoro è perché non lo si è cercato abbastanza. E nemmeno dei costi impossibili degli alloggi: se la vostra carta di credito è in rosso, siete stati irresponsabili e imprevidenti. Non importa che i vostri figli non abbiano più un cortile a scuola dove poter giocare: se ingrassano, è colpa vostra. In un mondo governato dalla competizione, chi rimane indietro viene definito e si percepisce come perdente.
Tra i risultati, come documentato da Paul Verhaeghe nel suo libro What About Me?, vi sono epidemie di autolesionismo, disturbi alimentari, depressione, solitudine, ansia da prestazione e fobia sociale. Forse non è sorprendente che la Gran Bretagna, dove l’ideologia neoliberale è stata applicata più rigorosamente, sia la capitale europea della solitudine. Ormai siamo tutti neoliberali.
Il termine neoliberalismo è stato coniato durante una riunione a Parigi nel 1938. Tra i delegati vi erano due uomini che giunsero a definire l’ideologia, Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Entrambi esuli provenienti dall’Austria, vedevano nella socialdemocrazia, esemplificata dal New Deal di Franklin Roosevelt e dal graduale sviluppo del welfare britannico, la manifestazione di un collettivismo di stampo simile al nazismo e al comunismo.
Nel suo libro La via della schiavitù, pubblicato nel 1944, Hayek sosteneva che la pianificazione del governo, schiacciando l’individualismo, avrebbe portato inesorabilmente al controllo totalitario. Come il libro di Mises Burocrazia, La via della schiavitù ebbe una grande diffusione. Riuscì ad attirare l’attenzione di persone molto ricche, che vedevano in questa filosofia la possibilità di liberarsi dalla regolamentazione e dalle tasse. Quando, nel 1947, Hayek fondò la prima organizzazione che avrebbe diffuso la dottrina del neoliberalismo – la Mont Pelerin Society – fu sostenuto finanziariamente da ricchi milionari e dalle loro fondazioni.
Con il loro aiuto, cominciò a creare quello che Daniel Stedman Jones descrive in Padroni dell’Universo come “una sorta di internazionale del liberalismo”: una rete transatlantica di accademici, uomini d’affari, giornalisti e attivisti. Ricchi banchieri appartenenti al movimento finanziarono una serie di think thank per affinare e promuovere l’ideologia. Tra di loro c’erano l’ American Enterprise Institute , la Heritage Foundation, il Cato Institute, l’Institute of Economic Affairs, il Centre of Policies Studies e l’Adam Smith Institute. Essi finanziarono inoltre posizioni accademiche e dipartimenti, in particolare presso le università di Chicago e della Virginia.
Man mano che si è evoluto, il neoliberalismo è diventato più stridente. La visione di Hayek sui governi che dovrebbero regolamentare la concorrenza per impedire la formazione di monopoli ha ceduto il posto – tra i seguaci americani come Milton Friedman – alla convinzione che il potere di monopolio potrebbe essere visto come una ricompensa per l’efficienza.
Durante questa transizione però è accaduto qualcosa: il movimento ha perso il suo nome. Nel 1951, Friedman era felice di descrivere se stesso come un neoliberale. Ma subito dopo, il termine ha cominciato a scomparire. Ancora più strano, anche se l’ideologia era diventata più netta e il movimento più coerente, il nome perduto non è stato sostituito da alcuna alternativa comunemente accettata.
In un primo momento, nonostante il suo lauto finanziamento, il neoliberalismo rimase ai margini. Il consenso del dopoguerra era quasi universale: le indicazioni economiche di John Maynard Keynes erano ampiamente applicate, la piena occupazione e la riduzione della povertà erano obiettivi condivisi negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa occidentale, le aliquote d’imposta sui redditi alti erano elevate e i governi perseguivano i loro obiettivi sociali senza ostacoli, creando nuovi servizi pubblici e reti di sicurezza sociale.
Ma negli anni Settanta, quando le politiche keynesiane cominciarono a crollare e le crisi economiche colpivano su entrambe le sponde dell’Atlantico, le idee neoliberali cominciarono a entrare nel mainstream. Come osservò Friedman, «quando venne il momento che si doveva cambiare … c’era un’alternativa già pronta lì per essere colta». Con l’aiuto di giornalisti compiacenti e consiglieri politici, elementi del neoliberalismo, in particolare le sue indicazioni circa la politica monetaria, furono adottati dall’amministrazione di Jimmy Carter negli Stati Uniti e dal governo di Jim Callaghan in Gran Bretagna.
Dopo che Margaret Thatcher e Ronald Reagan presero il potere, il resto del pacchetto fu presto applicato: massicci tagli alle tasse per i ricchi, smantellamento dei sindacati, deregolamentazione, privatizzazioni, esternalizzazioni e concorrenza nei servizi pubblici. Attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il trattato di Maastricht e l’Organizzazione mondiale del commercio, le politiche neoliberali sono state imposte – spesso senza il consenso democratico – in gran parte del mondo. La cosa più notevole è stata l’adozione del neoliberalismo tra i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra: i Laburisti e i Democratici, per esempio. Come osserva Stedman Jones, «è difficile pensare ad un’altra utopia che sia stata così pienamente realizzata».
Può sembrare paradossale che una dottrina che promette possibilità di scelta e libertà sia stata promossa con lo slogan “here is no alternative” (non c’è alternativa, ndt). Ma, come osservò Hayek durante una visita nel Cile di Pinochet – una delle prime nazioni in cui il programma venne ampiamente applicato – «la mia preferenza personale pende verso una dittatura liberale piuttosto che verso un governo democratico privo del liberalismo». La libertà che il neoliberalismo offre, che suona così seducente se espressa in termini generali, si rivela essere libertà per il luccio, non per i pesciolini.
Libertà dai sindacati e dalla contrattazione collettiva significa libertà di reprimere i salari. Libertà dalla regolamentazione significa libertà di avvelenare i fiumi, mettere in pericolo i lavoratori, applicare tassi di interesse iniqui e inventare strumenti finanziari esotici. Libertà dalle tasse significa libertà dalla redistribuzione della ricchezza che solleva le persone dalla povertà.
Come documentato da Naomi Klein in The Shock Doctrine ( uscito in italiano col titolo Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, NdR), teorici neoliberali hanno sostenuto l’uso della crisi per imporre politiche impopolari, approfittando della distrazione creata dalla situazione di crisi: cosi è successo in occasione del colpo di stato di Pinochet, della guerra in Iraq e dell’uragano Katrina, quest’ultimo descritto da Friedman come «un’opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo» di New Orleans.
Dove le politiche neoliberiste non possono essere imposte a livello nazionale, sono imposte a livello internazionale, attraverso trattati commerciali che incorporano la cosiddetta “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”: tribunali off-shore in cui le grandi società possono fare pressioni per la rimozione delle protezioni sociali e ambientali. Quando i parlamenti hanno votato a favore della limitazione della vendita di sigarette, o per proteggere le riserve idriche nei confronti delle compagnie minerarie, congelare le bollette energetiche o evitare l’eccessivo aumento dei prezzi da parte delle case farmaceutiche, le società hanno fatto causa, spesso con successo. La democrazia è ridotta a un teatro.
Un altro paradosso del neoliberalismo è che la competizione universale si basa sulla altrettanto universale comparazione e selezione. Il risultato è che i lavoratori, i disoccupati e i servizi pubblici di ogni genere sono soggetti ad un pernicioso e soffocante regime di valutazione e monitoraggio, ideato per identificare i vincitori e punire i perdenti. La dottrina proposta da Von Mises. che ci avrebbe liberato dall’incubo burocratico della pianificazione centrale, al contrario, ha realizzato proprio questo.
Il neoliberalismo non è stato concepito come un meccanismo autoreferenziale, ma lo è rapidamente diventato. La crescita economica è stata nettamente più lenta nell’era neoliberista (dal 1980 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) di quanto non fosse nei decenni precedenti; ma non per i più ricchi. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, dopo 60 anni di declino, in questo periodo è di nuovo aumentata rapidamente a causa della distruzione dei sindacati, le riduzioni fiscali, l’aumento delle rendite, le privatizzazioni e la deregolamentazione.
La privatizzazione o mercatizzazione dei servizi pubblici, quali l’energia, l’acqua, i trasporti, la sanità, l’istruzione, le strade e le carceri, ha permesso alle grandi aziende di imporre delle tariffe sui beni essenziali e pretendere il pagamento per l’accesso, sia dai cittadini che dai governi. Rendita è un altro termine per significare reddito senza lavoro. Quando si paga un prezzo gonfiato per un biglietto del treno, solo una parte della tariffa compensa gli operatori per i soldi che spendono per il carburante, i salari, il materiale rotabile e altre spese. Il resto riflette il fatto che vi hanno messo con le spalle al muro.
Coloro che possiedono e gestiscono i servizi privatizzati o semi-privatizzati del Regno Unito fanno immense fortune investendo poco e ricaricando molto. In Russia e in India, oligarchi hanno acquisito beni precedentemente dello Stato grazie a delle svendite. In Messico, a Carlos Slim è stato concesso il controllo di quasi tutti i servizi di rete fissa e telefonia mobile, così che è divenuto ben presto l’uomo più ricco del mondo.
La finanziarizzazione dell’economia, come osserva Andrew Sayer in Why We Can’t Afford the Rich , ha avuto un impatto simile. «Come le rendite», sostiene, «gli interessi sono … redditi non da lavoro, che maturano senza alcuno sforzo». Come i poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi, i ricchi acquisiscono sempre più il controllo su un’altra risorsa cruciale: la moneta. La spesa per interessi, in modo schiacciante, rappresenta un trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi. Man mano che i prezzi degli immobili e la fine dei finanziamenti pubblici caricano le persone di debiti (si pensi al passaggio dalle borse di studio ai prestiti agli studenti), le banche e i loro dirigenti sbancano.
Sayer sostiene che gli ultimi quattro decenni sono stati caratterizzati da un trasferimento di ricchezza non solo dai poveri ai ricchi, ma anche tra le fila dei ricchi: da quelli che fanno soldi con la produzione di nuovi beni o servizi a coloro che fanno soldi controllando i beni esistenti e traendone delle rendite, interessi o plusvalenze. Il reddito da lavoro è stato soppiantato dalla rendita senza lavoro.
Le politiche neoliberiste sono ovunque afflitte dai fallimenti del mercato. Non solo le banche sono troppo grandi per fallire (“too big to fail“), ma lo sono anche le società ora incaricate di fornire servizi pubblici. Come Tony Judt ha sottolineato nel suo libro “Ill Fares The Land“, Hayek ha dimenticato che i servizi pubblici vitali per un paese non possono fallire, il che significa che la concorrenza non può fare il suo corso. Gli investitori prendono i profitti, lo Stato si assume il rischio.
Maggiore è il fallimento, più estrema diventa l’ideologia. I governi usano le crisi neoliberiste come pretesto e occasione per tagliare le tasse, privatizzare i restanti servizi pubblici, creare strappi nella rete di sicurezza sociale, deregolamentare le imprese e disciplinare i cittadini. Lo Stato autolesionista ora affonda i denti in ogni organo del settore pubblico.
Forse l’impatto più pericoloso del neoliberalismo non è la crisi economica che ha causato, ma la crisi politica. Come il peso dello Stato è ridotto, così è ridotta la nostra capacità di cambiare il corso delle nostre vite attraverso il voto. Invece, la teoria neoliberale afferma che le persone possono esercitare una scelta attraverso la spesa. Ma alcuni hanno più da spendere rispetto ad altri: nella democrazia del consumatore o dell’azionista, il diritto di voto non è equamente distribuito. Il risultato è una riduzione dei diritti dei meno abbienti e della classe media. Mentre i partiti di destra e della ex sinistra adottano politiche neoliberali simili, la riduzione del potere statale si traduce in una revoca dei diritti. Un gran numero di persone sono state escluse dalla politica.
Chris Hedges osserva che «i movimenti fascisti costruiscono il loro fondamento non sulla base degli attivisti, ma di coloro che sono politicamente inattivi, i ‘perdenti’, che percepiscono, spesso in modo corretto, di non avere alcuna voce in capitolo nel mondo politico». Quando il dibattito politico non parla più a tutti, allora le persone diventano sensibili a slogan, simboli e sensazioni. Per gli ammiratori di Trump, ad esempio, i fatti e gli argomenti appaiono irrilevanti.
Judt ha spiegato che quando la fitta rete di interazioni tra il popolo e lo Stato viene ridotto a nulla se non all’autorità e all’obbedienza, l’unica forza che ci lega è il potere dello stato. Il totalitarismo che Hayek temeva ha più probabilità di emergere quando i governi, dopo aver perso l’autorità morale che nasce dalla erogazione dei servizi pubblici, si riducono a «blandire, minacciare e, infine, costringere la gente a obbedire».
Come il comunismo, il neoliberalismo è il Dio che ha fallito. Ma la dottrina zombie vacilla e uno dei motivi è il suo anonimato. O meglio, un insieme di anonimati.
La dottrina invisibile della mano invisibile è promossa da sostenitori invisibili. Lentamente, molto lentamente, abbiamo iniziato a scoprire i nomi di alcuni di loro. Vediamo che l’Institute of Economic Affairs, che ha sostenuto con forza sui media la campagna contro l’ulteriore regolamentazione del settore del tabacco, è stato segretamente finanziato dalla British American Tobacco sin dal 1963. Scopriamo che Charles e David Koch, due degli uomini più ricchi del mondo, fondarono l’istituto che ha messo in piedi il movimento Tea Party. Scopriamo che Charles Koch, nell’istituire uno dei suoi think tank, osservò che «al fine di evitare critiche indesiderate, non si dovrebbe fare molta pubblicità sul modo come l’organizzazione è controllata e diretta».
Le parole usate dal neoliberismo spesso nascondono più di quanto chiariscano. “Il mercato” suona come un sistema naturale che potrebbe essere paragonato alla gravità o alla pressione atmosferica. Ma è gravido di relazioni di potere. Ciò che “il mercato vuole” tende a significare ciò che le aziende ed i loro capi vogliono.“Investimento”, come nota Sayer, significa due cose molto diverse. Uno è il finanziamento di attività produttive e socialmente utili, l’altro è l’acquisto di beni esistenti per ottenere una rendita, interessi, dividendi e plusvalenze. Utilizzare la stessa parola per le diverse attività “mimetizza le fonti della ricchezza”, il che ci porta a confondere l’estrazione di ricchezza con la creazione di ricchezza.
Un secolo fa, i nuovi ricchi venivano denigrati da coloro che avevano ereditato il loro denaro. Gli imprenditori ricercavano l’accettazione sociale facendosi passare per rentiers. Oggi, il rapporto è stato invertito: i rentiers e gli ereditieri si definiscono imprenditori. Sostengono di essersi guadagnati le loro rendite, che in realtà non derivano dal lavoro.
Questo anonimato e questa confusione si mischiano all’opacità senza nome e senza luogo del capitalismo moderno: il modello di franchising assicura che i lavoratori non sappiano per chi lavorano esattamente; società registrate off-shore dietro ad una rete di segretezza così complessa che neanche la polizia può risalire ai proprietari reali; regimi fiscali che infinocchiano i governi; prodotti finanziari che nessuno comprende.
L’anonimato del neoliberalismo è ferocemente difeso. Coloro che sono influenzati da Hayek, Mises e Friedman tendono a rifiutare il termine, poiché esso – e non a torto – è oggi utilizzato solo in senso dispregiativo. Ma non ci offrono un’alternativa. Alcuni si definiscono liberali classici o libertari, ma queste descrizioni sono stranamente defilate e fuorvianti, in quanto suggeriscono che nei libri La via della schiavitù e Burocrazia, o nel classico di Friedman Capitalismo e Libertà, non vi sia in realtà niente di nuovo.
Per tutte queste ragioni, nel progetto neoliberale c’è qualcosa di ammirevole, almeno nelle sue fasi iniziali. Si è trattato di una peculiare, innovativa filosofia promossa da una rete di pensatori e attivisti coerenti e con un chiaro piano d’azione. Portato avanti con pazienza e tenacia. La via della schiavitù è diventata la strada per il potere.
Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra. Quando nel 1929 l’economia del laissez-faire portò alla catastrofe, Keynes ideò una teoria economica globale per sostituirla. Quando negli anni ’70 la gestione keynesiana della domanda andò fuori strada, c’era un’alternativa pronta. Ma quando nel 2008 il neoliberalismo è crollato, non c’era… niente. Ecco perché la marcia degli zombie. La sinistra e il centro non hanno prodotto alcun nuovo inquadramento generale del pensiero economico per 80 anni.
Ogni invocazione di Lord Keynes è un’ammissione di fallimento. Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21° secolo significa ignorare tre problemi evidenti. E’ difficile mobilitare le persone intorno a vecchie idee; le falle messe in luce negli anni ’70 non sono scomparse; e, sopratutto, non tengono in considerazione la nostra più grave emergenza: la crisi ambientale. Il Keynesismo agisce stimolando la domanda dei consumatori per promuovere la crescita economica. La domanda dei consumatori e la crescita economica sono i motori della distruzione ambientale.
Quel che la storia del keynesismo e del neoliberalismo ci dimostra è che nessuno dei due si è dimostrato adeguato a controbilanciare le criticità del sistema.Bisogna proporre un’alternativa coerente. Per i Laburisti, i Democratici e più in generale la sinistra, il compito centrale dovrebbe essere quello di sviluppare un programma economico che sia come l’Apollo (il programma spaziale, Ndt), un tentativo maturo di progettare un nuovo sistema progettato su misura per le esigenze del 21 ° secolo.
Traduzione di @chemicalture
Preoccupazioni, tremori, ma soprattutto rassegnazione al disastro annunciato: questi sembrano i primo commenti dei media "democratici. Articoli dalle edizioni online di
Repubblica,l'Unità, il Fattoquotidiano. 17 aprile 2017
La Repubblica online
REFERENDUM IN TURCHIA, ERDOGAN VINCE
SUL FILO DI LANA.
INSORGE L'OPPOSIZIONE
di Marco Ansaldo e Giovanni Gagliardi
«I "Sì" alle riforme costituzionali che assegnano tutti i poteri al presidente ottengono il 51,3% contro il 48,7 dei "No". Vantaggio esile ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. Che si avvia a diventare una autocrazia di stile mediorientale. Il presidente: "Decisione storica che tutti devono rispettare". E sulla reintroduzione della pena di morte possibile una nuova consultazione»
ISTANBUL - Una vittoria sul filo di lana, per Recep Tayyip Erdogan. I "Sì" alle riforme costituzionali che in Turchia gli assegneranno tutti i poteri hanno ottenuto il 51,3 per cento dei consensi, contro il 48,7 dei "No". Un vantaggio risibile, ma sufficiente a cambiare il volto del Paese. L'opposizione sostiene tuttavia che molti voti non sono validi, e anzi parla apertamente di brogli, perché un alto numero di certificati elettorali non presenterebbero il timbro ufficiale.
"La Turchia ha preso una decisione storica di cambiamento e trasformazione" che "tutti devono rispettare, compresi i Paesi che sono nostri alleati", ha detto Erdogan, nel suo primo discorso dopo la vittoria. "La Turchia ha preso la sua decisione con quasi 25 milioni di cittadini che hanno votato sì, con quasi 1,3 milioni di scarto. È facile difendere lo status quo, ma molto più difficile cambiare", ha detto Erdogan, ringraziando i leader dei partiti che hanno sostenuto il 'Sì' al referendum. "Voglio ringraziare ogni nostro cittadino che è andato a votare. È la vittoria di tutta la nazione, compresi i nostri concittadini che vivono all'estero. Questi risultati avvieranno un nuovo processo per il nostro Paese", ha concluso il presidente turco.
In ogni caso, non appena le autorità vidimeranno la correttezza dello svolgimento sul referendum, nuovi scenari si apriranno da ora in poi per la Turchia. E cioè quelli di un Paese molto più vicino a una autocrazia di stile mediorientale, che alla realtà pensata dal fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal, detto Ataturk, il padre dei turchi, di una nazione laica e candidata all'ingresso nell'Unione Europea.
Perché anche questo aspetto è destinato, fin da subito, a cambiare. Il "Sultano", come lo definiscono con sprezzo gli avversari, ha già detto di essere pronto a chiamare un nuovo referendum, e questa volta sulla permanenza di Ankara come Paese candidato alla Ue. Poi di essere pronto a un altro, scioccante voto referendario: quello sulla reintroduzione della pena di morte in Turchia, misura eliminata nel 2004 proprio in virtù di un auspicato ingresso del Paese della Mezzaluna in Europa. E arringando la folla, Erdogan ha promesso la questione sarà discussa con gli altri leader politici e che potrebbe essere oggetto di un nuovo referendum.
Con un comunicato la Commissione europea fa sapere che "in considerazione del risultato del referendum e le implicazioni di vasta portata delle modifiche costituzionali, anche noi chiediamo alle autorità turche di ricercare il più ampio consenso possibile a livello nazionale nella loro attuazione".
LEGGI Cosa prevede la riforma costituzionale di Erdogan
I primi risultati usciti alle 4 del pomeriggio, non appena le urne si sono chiuse, davano una vittoria schiacciante per i "Sì": addirittura il 65 per cento contro il 35 assegnato al fronte del "No" riconducibile all'opposizione rappresentata principalmente dal partito repubblicano, di ispirazione socialdemocratica, che si contrappone ai conservatori di origine religiosa fondati dal Capo dello Stato Erdogan.
Poi, via via, il consenso per i fautori delle modifiche costituzionali è andato assottigliandosi, arrivando a un risicato 51,3 dei voti. Tanto bastava tuttavia per far gridare Erdogan, e il suo premier Binali Yildirim, alla vittoria.
A quel punto era l'opposizione a definire il risultato come irregolare. E il vice-leader del principale partito di opposizione, Bulent Tezcan, commentava la decisione repentina del Consiglio elettorale supremo di autorizzare per la prima volta il conteggio delle schede senza timbro ufficiale nel referendum costituzionale sul presidenzialismo, a meno che non venga provato un loro impiego fraudolento, come illegittima. "Il Consiglio elettorale supremo ha cambiato le regole del voto - denunciava Tezcan - questo significa permettere brogli creando un serio problema di legittimità".
In ogni caso Erdogan avrà ora mano libera su tutto il campo. Non solo il suo partito ha la maggioranza in Parlamento, ottenuta alle elezioni del novembre 2015 con il 49,9 per cento dei voti. Ma adesso potrà assumere in sé i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo, senza più controlli da parte dell'Assemblea di Ankara, di fatto depotenziata nonostante l'aumento proposto dei deputati da 550 a 600. Il quarto potere, con più di 150 giornalisti in carcere per aver espresso le loro opinioni e tacciati di "sostegno al terrorismo", è già impaurito e silenziato.
Erdogan, dal 2019, potrà essere rieletto per due termini consecutivi di 5 anni ciascuno, con una prelazione per ulteriori cinque anni. Scatto che lo porterebbe, in teoria, a rimanere in carica fino al 2029, e poi addirittura al 2034. Un potere a vita, in pratica, visto che l'uomo forte della Turchia è alla guida del Paese dal 2002, prima come premier e poi come presidente della Repubblica. Come capo dello Stato rimarrebbe infatti la sola figura di riferimento, poiché l'incarico di premier verrebbe abolito. Ci saranno solo due vice presidenti, e i ministri verranno nominati direttamente dal presidente, ma in maniera esterna al Parlamento, a cui i titolari dei dicasteri non presterebbero responsabilità. Un potere illimitato, e a questo punto difficilmente arginabile. Se mai lo sia stato, fino ad ora.
L’Unità online
LA TURCHIA È SCIVOLATA FUORI
DALLA DEMOCRAZIA TRADIZIONALE
di Marco Di Maio
«Dare un segnale: stop al negoziato per l’adesione alla Ue»
La Pasqua ci consegna una Turchia che scivola fuori dai confini della democrazia “tradizionale”, come abbiamo avuto la fortuna di conoscerla da questa parte del mondo.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto il proprio obiettivo: la vittoria degli evet (sì in turco) al referendum sulla nuova costituzione ha confermato il voto del parlamento e consegnato al presidente poteri quasi assoluti. Il referendum si è svolto in condizioni di grande tensione, dato il perdurare dello “stato d’emergenza” dichiarato il 15 luglio 2016 (quando si verificò il fallito colpo di Stato) e da allora mai cessato, anzi.
La Turchia si trasforma così da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Il presidente sarà anche capo del governo perché la riforma, tra le altre cose, elimina la figura del primo ministro; nominerà e revocherà a suo piacimento i ministri; potrà con decreti presidenziali intervenire su molte materie senza passare dal parlamento; potrà nominare direttamente i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, i rettori delle università, i dirigenti della pubblica amministrazione, buona parte dei giudici.
Basterebbe questo per rendere allarmante la situazione, ma c’è dell’altro.
Dal giorno del fallito (finto?) colpo di stato l’attuale presidente Erdogan e il governo turco hanno arrestato 43mila persone, sequestrato 800 società, chiuso giornali ed emittenti televisive, mandato in carcere 150 giornalisti (per 16 è stato chiesto l’ergastolo), allontanato dal lavoro 140mila dipendenti pubblici (tra cui funzionari, dirigenti, giudici, poliziotti). Con una complessa rete di relazioni, poi, il presidente turco controlla anche le principiali aziende del paese. Una riforma in senso presidenziale proposta da una guida politica che ha fatto tutto questo, non può che spaventare.
Per l’Europa e “l’Occidente” si pongono molti interrogativi sull’atteggiamento da tenere con la Turchia, che non solo è membro della NATO (dal 1952), non solo è un “cuscinetto” tra noi e il caos mediorientale, ma è anche uno stato che per lungo tempo Europa e Stati Uniti hanno corteggiato illudendola addirittura di poter diventare l’avamposto dell’occidente in Medio Oriente.
Erdogan, salvo colpi di scena, rimarrà in carica fino al 2029: lo farà grazie al fatto che sì, rimane il limite dei due mandati, ma l’approvazione di una nuova costituzione azzera il “conteggio” e dalle presidenziali del 2019 il presidente in carica potrà ricandidarsi e farlo successivamente anche nel 2024.
Non si potrà rimanere indifferenti di fronte alle prevaricazioni portate avanti dal suo regime, ma purtroppo Erdogan sarà un difficile e obbligato interlocutore per tutti. A maggior ragione l’Europa non può pensare di rispondere con un ritorno ritorno agli Stati-nazione come vorrebbero i vari Grillo, Salvini, Le Pen, Orban, May.
Serve più Europa, serve un’Europa più compatta, capace di progredire nel processo di integrazione portando con sè tutti i paesi membri; ma impedendo a chi non ci vuol stare di bloccare tutti gli altri.
C’è una cosa che si potrebbe fare subito e che darebbe un “segnale” importante: l’interruzione del negoziato (per me poco sensato) avviato nel 2005 per l’adesione della Turchia all’Unione europea e da tempo arenato. Sarebbe un atto di difesa dei valori democratici e liberali che assegnerebbe autorevolezza a chi lo promuovesse.
Il Fatto Quotidiano online
REFERENDUM TURCHIA, ERDOGAN VINCE MA IL PAESE È SPACCATO: IL SUPER PRESIDENZIALISMO PASSA CON IL 51%
di FQ
«Dopo settimane di infuocata campagna elettorale Ankara vara la riforma costituzionale voluta dal presidente, ma il voto referendario non è esattamente un plebiscito: i No alla Sultanizzazione, infatti, sfiorano quota 49%, con un affluenza all'84%. Decisivo il voto nelle campagne mentre nelle grandi città vince il fronte anti Erdogan. L'opposizione accusa: "Voto illegittimo: conteggiate anche schede senza timbro ufficiale". Ora Erdogan può restare fino al 2034»
l presidente può esultare ma quella che esce dalle urne è una Turchia praticamente spaccata in due: da una parte ci sono i sostenitori fedeli a Recep Tayyip Erdogan, dall’altra quelli che invece non vogliono la Sultanizzazione del Paese. E dunque non vogliono nemmeno un Sultano. A vincere il referendum costituzionale sono i primi, ma sul successo si allungano subito le proteste da parte dell’opposizione che parla esplicitamente di “brogli” elettorali e annuncia la richiesta di riconteggio delle schede.
Dopo settimane di infuocata campagna elettorale, in ogni caso, Ankara svolta verso il super presidenzialismo voluto da Erdogan, anche se il voto referendario non è esattamente un plebiscito in favore del presidente. Secondo i dati diffusi dall’agenzia Anadolu, infatti, i Sì alla riforma costituzionale sono “appena” il 51,33% dei voti, contro i No che alla fine di una lunga rincorsa si fermano a quota 48,67 %. Da segnalare che il fronte contrario alla riforma vince sia ad Ankara che ad Instabul – cioè nella capitale e nella città in cui Erdogan è stato sindaco per anni. Decisivo, invece, per la vittoria del Sì il voto nelle province più periferice e nelle campagne.
Alla fine a dividere le due facce del Paese poco più di un milione di preferenze: 24 milioni e 819 mila turchi hanno votato per la riforma approvato dal parlamento il 21 gennaio scorso, mentre sono 23 milioni e 526 mila i voti espressi contro il super presidenzialismo, quando lo scrutinio è ormai arrivato al 99% delle schede. Numeri da non sottovalutare dato che l’affluenza è stata molto alta, quasi all’84%: su oltre 55 milioni di elettori, quasi 49 milioni sono andati a votare.
Le urne sono state chiuse alle 16, ora italiana, lo spoglio è cominciato subito dopo e aveva dato subito in largo vantaggio il fronte pro Erdogan con il Sì che era dato superiore al 60%. Una percentuale che si è abbassata via via che le scrutinio andava avanti. Alla vigilia, d’altra parte, si registrava qualche incertezza sull’esito del voto con i No che erano addirittura dati in vantaggio. Negli ultimi giorni, però, la tendenza si è rovesciata a favore del Sì, dopo una partenza in sordina. E alla fine dunque, il voto decisivo di un milione e trecentomila turchi fa vincere la grande scommessa ad Erdogan, il presidente uscito vincitore dal tentativo di colpo di Stato del luglio scorso: adesso potrebbe restare al potere fino al 2034.
Il clima post scrutinio, però, appare tutt’altro che rilassato. Subito dopo la diffusione dei primi dati sullo scrutinio, infatti, il Chp – principale partito di opposizione – ha messo in dubbio la legittimità del voto. Il motivo? La dichiarazione apparsa sul sito della Consiglio elettorale supremo turco (Ysk) qualche ora prima della chiusura delle urne segnalava che sarebbero state conteggiate anche le schede non timbrate dai funzionari, a meno che non si potesse provare che le stesse schede fossero contraffatte. La decisione, precisano dalla commissione, è giunta dopo che diversi votanti hanno segnalato che erano state consegnate loro schede senza timbro. In passato, queste venivano considerate nulle. “L’Alta commissione elettorale ha sbagliato, consentendo la frode nel referendum”, ha detto Bulent Tezcan, vice presidente Chp, ai giornalisti presenti nel quartier generale del partito ad Ankara. “Il Consiglio elettorale supremo – ha continuato Tezcan – ha cambiato le regole del voto. Questo significa permettere brogli“, creando “un serio problema di legittimità“. Il Chp ha dunque annunciato che chiederà di ricontare il 37% delle schede scrutinate. Che l’esito ufficiale sia Sì o No, contesteremo 2/3 delle schede. I nostri dati indicano una manipolazione nell’intervallo del 3-4%”, scrive invece su twitter l’account ufficiale del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), la formazione turca che unisce le forze di sinistra e filo-curde.
Parole dure quelle di Tezcan, alle quali replica in qualche modo il primo ministro della Turchia, Binali Yildirim. “La nazione ha fatto la sua scelta. Questa è una nuova pagina nella storia della nostra democrazia, il risultato verrà usato per garantire la pace e la stabilità della Turchia”, ha detto il premier nella prima dichiarazione ufficiale dopo il voto. “Non ci fermeremo – ha aggiunto – andremo avanti dal punto in cui eravamo arrivati”.
Nel frattempo piazza Taksim, uno dei luoghi più frequentati della zona europea di Istanbul e palcoscenico di duri scontri tra manifestanti e polizia nel 2013, è stata chiusa al traffico per ragioni di sicurezza. Nelle altre zone della città, invece, i sostenitori di Erdogan, festeggiano.