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«I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico». la Repubblica,19 maggio 2017 (c.m.c.)

La decisione della Corte di Cassazione sull’obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l’oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l’arte della distinzione: “valori” e “diritti”, “valori” e “diritto” sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti “valori occidentali”, un’espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista.

Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l’imputazione di portare un’arma senza avere il porto d’armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all’articolo 19 della nostra Costituzione — il kirpan non è un “oggetto” ma “uno dei simboli della religione monoteista Sikh”.

La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un’arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout.

Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell’aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d’acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi “oggetti” è un elemento essenziale per l’identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere.

La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L’Italia, viene detto, si è schierata con l’altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?.

L’Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l’articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di “valore” che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche.

Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l’Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e “valori” a cui questa recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie.

I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico.In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a “valori” intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l’appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l’affermazione del limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”) e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali.

Questi ultimi rendono purtroppo l’argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che “l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine” e, dall’altro, che “è quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”.

Quale è il “mondo occidentale” non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende.

Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai “valori” sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la “civiltà giuridica” di riferimento altrettanto “identitaria” della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto.

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Per questo motivo lo scorso febbraio Barcellona è scesa in piazza. È stata la manifestazione più grande d’Europa a favore dell’accoglienza dei migranti. Ed è nata per la volontà della società civile e con l’appoggio delle istituzioni. Siamo davvero felici di sapere dunque che anche a Milano il 20 maggio si riaffermerà questa stessa volontà e la necessità di non barricarsi dietro anacronistici muri “ideologici” e fisici.

“Vogliamo accogliere” non è solo lo slogan in cui si è riconosciuta la manifestazione che ha sfilato nella mia città a inizio anno. È molto di più. “Vogliamo accogliere” è la nostra risposta, della cittadinanza e anche di molti sindaci, di fronte alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” con cui l’Europa tutta si deve confrontare.

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché è nostro dovere. Siamo infatti noi, le città — e non gli Stati -, ad offrire un’opportunità reale di integrazione a immigrati e rifugiati. È nelle nostre strade e nelle nostre piazze che le persone smettono di essere numeri e diventano cittadini e cittadine. Ecco perché noi vogliamo e dobbiamo accogliere più persone e meglio.

Se non lo facciamo — se non ci impegniamo ad aprire la nostra comunità e la nostra società a chi lascia la sua casa e il suo Paese per cercare un’occasione di vita migliore nelle nostre città — , i nostri figli, i nostri concittadini ci chiederanno dove eravamo quando in Europa si alzavano muri e barriere contro quelli che fuggivano dalla guerra. Soprattutto ci chiederanno: che cosa avete fatto per evitarlo?

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché l’appello del “popolo dell’accoglienza” che ha manifestato a Barcellona e che sfilerà a Milano per un “20 maggio senza muri” non lascia spazio a interpretazioni. Non abbiamo scuse per ignorarlo. Anzi, il coraggio, l’entusiasmo e l’apertura che così tante persone hanno dimostrato, dimostrano e dimostreranno ci spinge con forza a intraprendere azioni concrete e politiche.

Per questo motivo, serve l’aiuto e la collaborazione di molte altre città del mondo. Da Barcellona e Milano può nascere un network internazionale, in grado di indicare ai governi la via migliore da seguire per rispondere ai bisogni dei migranti, riconoscendoli come un’opportunità per la nostra società. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché nella gestione dei migranti l’Europa si gioca il proprio futuro e la propria credibilità. Le immagini che abbiamo visto in Italia, in Grecia e in altri Paesi stanno minando il progetto europeo e le sue conquiste; stanno mettendo in dubbio gli stessi principi fondanti dell’Europa. Oggi, davanti al pericolo di una “Europa- fortezza”, come città e come cittadini abbiamo la responsabilità storica di intervenire per cambiare la situazione. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo con serietà, ma anche con allegria ed entusiasmo. Perché le manifestazioni di Barcellona e di Milano altro non sono che una festa per i cittadini di tutto il mondo, un momento di incontro e di scambio, ricco di musica, colore, gioia e solidarietà.

Ecco allora che emerge con forza la necessità di ridare valore al Mediterraneo, di offrire al mondo un altro punto di vista per raccontare ciò che sta accadendo. Quel mare, che si è trasformato per molti migranti nel “mare della morte”, è infatti ancora il ponte, è il luogo in cui le culture si incontrano, è la ricchezza dei popoli che lo abitano. Affinché questa narrazione sia possibile ed evidente a tutti, le città devono unire le forze e continuare a essere un luogo di libertà che riconosce e garantisce i diritti a tutti coloro che in esse vivono. Per difendere tutto ciò, scendiamo nelle strade a manifestare. Vogliamo accogliere. Vogliamo continuare a farlo. E lo faremo, dando il nostro sostegno a Milano e a tutte le città che vorranno unire la loro voce alla nostra.

L'appello per la grande manifestazione, largamente unitaria, del prossimo sabato 20 maggio 2017 a Milano

«Le culture non sono come i semi o gli animali che vanno conservati in nome della biodiversità, se non si incrociano perdono la loro funzione antropologica».

il manifesto, 17 maggio 2017

E così anche la Cassazione ha detto la sua su come debbono comportarsi gli immigrati. Chissà a quale fra i nostri valori si è ispirata. A quelli francesi? a quelli inglesi? Alla «superiore» civiltà?

La Francia è generosa: a chi accetta di integrarsi totalmente, e dunque di rispettare principi e leggi del paese, consente il diritto di appartenere alla sua”superiore” civiltà. Ed è in base a tale principio che ha proibito di insegnare a donne che indossano l’innocuo chador ( che non è il burka). Che lederebbe – secondo un parere della Commissione diritti umani del Consiglio d’Europa – «le sensibilità religiose degli allievi». Per di più «il velo – è scritto – è imposto da una prescrizione del Corano, che è difficile conciliare con il principio di tolleranza proprio di una democrazia». E così, un atto di intolleranza – il licenziamento di un’insegnante che indossa il velo – è stato giustificato in nome del principio di tolleranza.

Diverso l’approccio del Regno Unito: gli inglesi, infatti, non hanno mai ritenuto possibile che neri o gialli potessero diventare come i britannici, per cui – come scrisse Stuart Hall, il grande maestro dei post colonial studies – «hanno garantito la coesistenza fra la Legge indiana e quella di Sua Maestà britannica», lasciando che ciascuno, almeno nel privato, facesse come gli pareva dentro le proprie comunità. Affari di loro selvaggi.

Difficile dire quale delle due posizioni sia più razzista e occidentalocentrica.

La complessità del problema non va sottovalutata, perché fra l’altro tratta del rapporto fra diritto al rispetto della diversità e libertà di scelta culturale (delicato soprattutto per le donne), che rischiano di restare imprigionate nel ghetto della loro identità originaria. Questione non semplice e infatti ha prodotto anche – aihmé – qualche invocazione in favore di crociate per andare a liberare dal burka le donne afgane, con l’aiuto dei bombardieri Nato. Con lo straordinario effetto di aver moltiplicato bombe e burka.

Peccato che quando, nel 2005, l’Unesco, dopo anni di travaglio, varò finalmente la Convenzione sulla Diversità Culturale (con 197 voti a favore e i soliti 2 contro, quelli degli Stati uniti e di Israele) del problema si discusse invece pochissimo, e tutti si sentirono autorizzati a definirsi buoni perché plaudirono alla decisione Unesco. Senza rendersi conto che quella Convenzione toccava questioni di fondo, imponeva di ripensare la logica omogeinizzatrice propria agli stati nazionali, il concetto stesso di cittadinanza. Così come imponeva un mutamento delle politiche culturali pubbliche.

I sindaci più democratici si impegnarono, divisi in due categorie: quelli che si sono rivolti agli immigrati dicendogli con generosità che anche se “di colore”, visto che sono esseri umani, possono ambire a diventare come noi; e quelli che, al contrario, più generosi, hanno allestito spazi – per moschee o altro – affinché ciascuno possa coltivare a fini di autoconsumo la propria cultura. Per facilitare è stata creata la figura del mediatore culturale. Che ha il compito di spiegare ai nuovi arrivati cosa è l’Europa, mai agli europei cosa siano le storie e le culture dei paesi di chi arriva. A buon diritto definitivamente etichettati, anziché come “nuovi europei”,come “extracomunitari”. Così facendo crescere un sistema di ghetti incomunicanti, che non possono che stimolare il peggior integralismo identitario.

Non è possibile suonare le trombe per salutare l’avvento della globalizzazione e poi coltivare le ossessioni securitarie di chi vorrebbe blindare le proprie comunità nel terrore che possano essere dissolte; bisogna prendere atto che il transculturale – che era proprio alle società prenazionali greche ebraiche ottomane, non è più il passato ma il nostro futuro. La «figura diasporica» – per citare ancora una volta Stuart Hall – «non è più minoritaria, sta diventando l’anticipazione della modernità avanzata », un processo facilitato dalle nuove tecnologie che rendono oggi ancor più difficile l’assimilazione degli immigrati.

Perché i telefonini gli consentono di conservare il rapporto persino con la nonna lasciata nel deserto; ognuno guarda, grazie al satellitare, la tv di casa propria e non quella della nazione d’arrivo; i voli low cost gli consentono di tornare nel villaggio natio non solo al momento della morte. E per di più, non avendo più lo stesso stato d’origine il prestigio del tempo della lotta anticoloniale, il legame è oggi più che altro con reti tribali, espressione di identità frammentate che si sincronizzano su una informalità globale che produce culture disinbedded dai sistemi sociali. Bisogna procedere dunque in modo nuovo, sapendo che le culture (e i comportamenti che queste ispirano) non sono come i semi o gli animali che vanno conservati come sono in nome della biodiversità, perdono la loro funzione antropologica se non sono dinamiche, se non si incrociano e innestano reciprocamente.

Ma perché questo avvenga bisogna innanzitutto smetterla di pretendere che la civiltà occidentale rappresenti “l’universale”, il punto più alto della civilizzazione, che i “selvaggi” debbono impegnarsi a raggiungere. L’universale è un bell’obiettivo, ma solo a condizione che si inneschi un lungo processo dialogico, cui tutti contribuiscano. Altrimenti avremo solo jihad. (Se tenete conto che l’85% delle informazioni che il mondo riceve provengono dall’occidente vi rendete conto quanto scarso sia il contributo degli altri).

La nostra civiltà è certo migliore di quella saudita. Per via delle rivoluzioni che abbiamo avuto la fortuna di poter partorire. Ma sarebbe ora di smetterla di rimproverare i popoli che non hanno avuto modo di farle. È accaduto perché noi con il colonialismo glielo abbiamo reso quasi impossibile. (Prima di invocare la rivoluzione francese ricordiamoci sempre che non toccò la schiavitù).

«I casi veneziani al Campus universitario nel convegno su criticità e pratiche sostenibili nel Nordest».

La Nuova Venezia, 17 maggio 2017 (m.p.r.)

Mestre. «Dopo Germania e Giappone, l’Italia è il terzo stato al mondo con il tasso demografico più negativo da anni, un Paese di vecchi destinato alla scomparsa se non saprà integrare al meglio i migranti». Senza peli sulla lingua il professor Giorgio Conti - coordinatore degli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia - ha introdotto ieri al Campus universitario di via Torino il convegno dedicato ad un tema sempre più scottante nel mondo d’oggi, per l’Italia in particolare che è il primo approdo della fiumana di migranti che fugge da guerre, discriminazioni, miseria e disastri ambientali.

«Da immigrati a produttori: l’inclusione produttiva dei migranti: buone pratiche e criticità del e per il Nord-Est». Piaccia o no, l’Italia - come ha dimostrato la relazione di un ricercatore della Fondazione Leone Moressa piena di dati aggiornati - l’Italia è destinata al «declino demografico se non affronta la sfida delle grandi migrazioni con una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva di tutto il Paese». L’altra chiave per leggere l’epopea delle nuove migrazioni è «conoscere le cause delle migrazioni che non sono solo le guerre».
Francesco Della Puppa, del Master dell’Università Ca’ Foscari sull'Immigrazione ha parlato del lavoro autonomo immigrato, nel quadro dell’attuale crisi economica, in particolare del caso delle popolazioni immigrate dal Bangladesh in Italia e si sono stabilite in gran numero anche a Venezia dove lavorano, in gran parte nei cantieri navali. Al convegno – organizzato dagli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia – sono stati presentati una serie di casi di «integrazione riuscita» di migranti, diventati una risorsa per l’Italia.
«Non bastano i dati per capire cosa sta succedendo» ha puntualizzato Stefano Soriani, docente del dipartimento di Economia di Ca’ Foscari «ci vogliono racconti positivi di integrazione e ci sono, basta volerli vedere e magari imitare». Sono stati così mostrati i casi emblematici, il senegalese Moulaye Niang “Muranero”, artigiano del vetro a Venezia e in questi giorni ospite a Riace, in Calabria, dove sta insegnando il suo mestiere ad altri migranti che si sono stabiliti in quel comune, diventato esempio nel mondo di un’integrazione multiculturale positiva. E ancora, il caso di Hamed Mohamad Karim, un afgano che ha già messo in piedi quattro ristoranti etnici a Venezia. Oppure i giovani del Mali che ora lavorano e sui terrazzamenti in abbandono della Val Brenta e “Casa Colori” uno strumento innovativo di social housing per il turismo sociale e responsabile di Dolo

«La giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria».

il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2017 (i.b.)

Il titolo, purtroppo, non è uno scherzo, ma è quello che sta avvenendo in Regione Lombardia.
Per ora riguarda una sola Regione ma, se dovesse realizzarsi, è probabile che in pochi anni troverà estimatori anche in molte altre parti d’Italia. E’ una vicenda (volutamente) complicata ma proverò a spiegarla nel modo più semplice possibile, convinto che ognuno abbia diritto di essere pienamente informato su quello che riguarda il presente e il futuro della sua salute.

Con due delibere, la n. 6164 del 3 gennaio e la n. 6551 del 4 maggio 2017, la giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria la n. 833 del ’78.

La non costituzionalità di tali delibere è stata sollevata attraverso un ricorso al Tar dall’Unione Medici Italiani ed un altro ricorso è in arrivo da Medicina Democratica. Gli Ordini dei medici di Milano e della Lombardia sono insorti: la giunta regionale si è limitata ad inserire qualche modifica di facciata proseguendo a vele spiegate verso una terza delibera attuativa attesa in questi giorni.

La vicenda riguarda, secondo le stime della Regione, circa 3.350.000 cittadini “pazienti cronici e fragili” che sono stati suddivisi in tre livelli a seconda della gravità della loro condizione clinica. Costoro riceveranno in autunno una lettera attraverso la quale la Regione li inviterà a scegliersi un “gestore” (la delibera usa proprio questo termine) al quale affidare, attraverso un “Patto di Cura”, un atto formale con validità giuridica, la gestione della propria salute. Il gestore potrà essere loro consigliato dal medico di base o scelto autonomamente da uno specifico elenco.

Il gestore, seguendo gli indirizzi dettati dalla Regione, predisporrà il Piano di Assistenza Individuale (Pai) prevedendo le visite, gli esami e gli interventi ritenuti da lui necessari; “il medico di medicina generale (Mmg) può eventualmente integrare il Pai, provvedendo a darne informativa al Gestore, ma non modificarlo essendo il Pai in capo al Gestore”.

La Regione ha individuato 65 malattie, per le quali ha stabilito un corrispettivo economico da attribuire al gestore a secondo della patologia presentata da ogni persona da lui gestita. Se il gestore riuscirà a spendere meno della cifra attribuitagli dalla Regione potrà mantenere per sé una quota dell’avanzo, eventualmente da condividere con il Mmg che ha creato il contatto. Il gestore non deve per forza essere un medico, può essere un ente anche privato e deve avere una precisa conformazione giuridica e societaria e può gestire fino a… 200.000 persone.

E’ facile immaginare che nelle scelte dei gestori conterà maggiormente il possibile guadagno piuttosto che la piena tutela della salute del paziente, il quale potrà cambiare gestore ma solo dopo un anno. Scomparirà ogni personalizzazione del percorso terapeutico e ogni rapporto personale tipico della relazione con il medico curante. Per una società che gestirà 100/200.000 Pai (Piani di Assistenza) ogni cittadino è un numero asettico potenziale produttore di guadagno.

Il Mmg viene quindi privato di qualunque ruolo, sostituito da un manager e da una società; ed è questa una delle ragioni che ha fatto scendere sul piede di guerra i camici bianchi. Se avesse potuto la Lombardia avrebbe cancellato la figura dei Mmg, ma per ora una Regione non può modificare i pilastri di una legge nazionale come la legge 833. Ma all’orizzonte c’è il referendum sull’autonomia regionale voluto dal presidente leghista, un referendum consultivo ma che verrà fortemente enfatizzato. Ci sentiremo dire che l’autonomia da Roma permetterà di rendere pienamente operativa questa “eccellente riforma regionale”. Di bufale sulla sanità ne abbiamo già sentite molte, da Renzi alla Lorenzin e questa non sarà l’ultima.

Una “legge eccezionale”, sosterrà la Regione, perché eviterà che cittadini malati, in maggioranza anziani, debbano impazzire con le ricette, le telefonate interminabili ai centralini regionali per fissare le visite, le code agli sportelli, le liste di attesa ecc. ecc.

La Regione Lombardia non dirà che tutti questi disagi sono stati costruiti ad arte, prima da Roberto Formigoni e poi da Roberto Maroni, per spingere i cittadini verso la sanità privata che li aspetta con gioia per lucrare ulteriormente sulla loro pelle. Se il Tar non cancellerà queste delibere e se le organizzazione della società civile non si ribelleranno è forte il rischio che molti nostri concittadini accetteranno quasi con riconoscenza il piano della Regione; salvo poi accorgersi che ad essere trascurata sarà proprio la loro salute. Ma allora sarà troppo tardi.

Scritto in collaborazione con Albarosa Raimondi, medico, esperta in organizzazione sanitaria

«Il Paese africano è una tappa obbligata per chi dalla Libia vuole arrivare in Europa. Ma deve prima subire torture e minacce di trafficanti e criminali».

la Repubblica, 17 maggio 2017

Per chi vuole entrare in Libia, per provare a saltare in Europa, il Niger è tutto. È la porta d’ingresso, la rotta di avvicinamento. Ma è anche la via di fuga, il percorso da fare in retromarcia per fuggire al mattatoio. Seny Condjira e Demba Djack ci hanno provato. Sono partiti dal Senegal, sono passati qui in Niger, sono entrati in Libia, hanno provato ad arrivare in Europa. Ma hanno fallito: sono stati torturati, picchiati, hanno assistito a tutto quello che succede da quelle parti. E hanno deciso che non era possibile, che dalla Libia bisognava soltanto fuggire, rientrare in Niger per tornare a casa.

Alla stazione di Niamey dei bus della “Sahelienne”, la compagnia che collega le capitali dell’Africa occidentale, i racconti dei migranti in ritirata dalla Libia sono terrificanti. Nelle foto sui telefonini ti fanno vedere i segni delle torture, i corpi martoriati e mutilati, due decapitati, decine di corpi bruciati non si capisce bene in quale occasione. Seny era partito quasi un anno fa. «Mio cugino è già in Italia, mi ha detto che da voi è assolutamente meglio della povertà assoluta che c’è qui».

Anche Demba ha provato a passare da Sebha e Tripoli per arrivare in Europa. «Vengo dalla regione di Matan, nell’interno del Senegal. Anche io ho visto le torture e la schiavitù in Libia. E sono fuggito». Ma perché questa violenza bestiale? «Adesso ti spiego come funziona in Libia», dice Seny che ha 34 anni e viene dalla regione di St.Louis. «Avevo iniziato il mio viaggio quasi un anno fa: dal Senegal al Mali tutto bene, noi con la carta di identità possiamo viaggiare nei paesi della Comunità dell’Africa occidentale. Poi dal Mali si passava in Burkina Faso, e lì i primi problemi: i poliziotti provano a rapinarti, a prenderti tutto quello che hai, e se non paghi rimani fermo alle stazioni per ore, per giorni. Per cui tu paghi. Siamo arrivati a Niamey, poi ad Agadez, prima di partire per il deserto e la Libia.

Ad Agadez ci attendevano i trafficanti, per giorni siamo rimasti nei ghettos organizzati per noi migranti: si sono fatti pagare e ci hanno assicurato il passaggio in Libia, in 30 su un pick-up Toyota. Il viaggio a noi è andato bene, in tre giorni siamo arrivati prima a Gatrun e poi a Sebha in Libia. Ma lì è l’autista ha detto che il trafficante non aveva pagato per noi, e che quindi doveva venderci, ci doveva portare dove c’erano gli altri migranti. Era una grande piazza, con intorno dei garage, un mercato degli schiavi».

«Noi africani venivamo comprati e venduti da arabi, da libici, che lavorano con la manovalanza di “caporali” nigeriani e ghanesi. Mi hanno venduto e trasferito in una prigione, una grande casa privata con altre 200 persone. Lì è iniziato il terrore: i carcerieri ci picchiavano, ci tagliavano con i machete, alcuni li hanno uccisi davanti agli altri. Perché? Ma perché tutti dovevamo essere terrorizzati e poi telefonare a casa per chiedere soldi, 300, 400 o 500 dollari per essere rimessi in libertà. Quando chiamavamo le nostre famiglie loro ci picchiavano per farci urlare, per terrorizzare i nostri parenti». Seny spiega bene come gli schiavisti libici ordinino ai migranti di chiedere soldi alle famiglie, chiedono di mandare i soldi con money transfer a loro complici in Ghana o in Guinea, così possono incassare senza farli passare dalla Libia.

Demba racconta che durante la prigionia molti ogni mattino venivano caricati per andare a lavorare nei campi, a costruire o riparare edifici, a fare qualsiasi tipo di lavoro fosse utile ai padroni. «Io sono riuscito ad avere un po’ di soldi dalla mia famiglia», dice Seny, «e a migliorare la mia posizione. Poi ho lavorato per loro come traduttore, perché molti di noi non parlavano nessuna lingua, in Libia il francese che parliamo noi non serve. In un modo o nell’altro, sono riuscito a comprami un viaggio per ritornare in Niger, e l’Oim ( l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) mi ha aiutato a tornare in Senegal».

Demba era arrivato fino a Tripoli, dove per settimane è passato da una fattoria-prigione all’altra. È riuscito a sopravvivere, e non sa ancora bene come sia riuscito a rientrare in Niger in rotta per il Senegal. «A Tripoli eravamo in condizioni micidiali. Un libico si è impietosito per uno di noi, lo ha portato in ospedale, ma in ospedale non c’era nulla. È stato fortunato perché un infermiere ha messo un post su Facebook e gli uomini dell’Oim sono andati ad aiutarlo, lo hanno curato e lo hanno rimesso in rotta per il Sud, io l’ho seguito».

I rapitori libici lavorano su grandi numeri: «Fanno fare decine e decine di telefonate, e trovano famiglie che corrono a vendersi la casa, le vacche, un pezzetto di terra pur di trovare i dollari chiesti come riscatto. In Libia è il caos totale, non c’è legge, è la perversione assoluta ». Giuseppe Loprete, il capo dell’Oim in Niger, dice che neppure questi racconti di vero terrore bastano a fermare quelli che dal Niger sono ancora in rotta verso il Nord, verso la Libia, sognando l’Europa: «Da mesi raccontiamo che il viaggio è un incubo, che possono morire in mare, che possono essere torturati e uccisi dai trafficanti.

Da qualche settimana abbiamo iniziato a far incontrare chi sale verso il Nord con chi fugge dagli schiavisti: soltanto i racconti di chi abbandona i campi di concentramento dei trafficanti ogni tanto convincono qualcuno a tornare indietro».

Seny e Demba spiegano però qualcosa di decisivo per capire la disperazione che sale dall’Africa: «Quando un anno fa abbiamo deciso di partire abbiamo mobilitato le famiglie, abbiamo chiesto soldi, abbiamo venduto animali, abbiamo dato una speranza ai nostri cari, abbiamo detto loro che avremmo mandato indietro soldi dall’Europa. Ecco, adesso tornare indietro è ammettere il fallimento, è confessare che i soldi richiesti sono stati perduti. Bruciati! Noi non si sa come siamo riusciti a fuggire dopo quello che abbiamo visto. Tanti non ci provano neppure, perché morire in Libia o in mare è meno grave di tornare indietro. Morire in Libia per tanti è meglio che rivedere una famiglia che non ti perdonerà di avere fallito».

«La settimana scorsa, motovedette libiche (riattivate dagli accordi con Minniti) hanno tentato di speronare una nave salva-profughi».

il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)

Il battesimo del fuoco è stato inquietante, il seguito si annuncia da brivido: alla prova dei fatti la politica euro-italiana per fermare l’immigrazione dalla Libia sembra la premessa di una catastrofe umanitaria essenzialmente ‘made in Italy’. Questo racconta la sorta di battaglia navale occorsa la mattina del 10 maggio davanti alle coste della Tripolitania. Ha opposto la nave di Seawatch, una Ong umanitaria tedesca, in quel momento impegnata nel salvataggio di forse 600 migranti stipati in un barcone che faceva rotta verso l’Italia; e due motovedette libiche, primo nucleo di una Guardia costiera che Roma sta resuscitando. Una delle due motovedette ha minacciato di speronare la nave di Seawatch, come dimostra il filmato che la ong ha messo in Rete; l’altra ha abbordato il barcone e l’ha ricondotto sulla costa, dove presumibilmente i passeggeri sono stati trasferiti in un ‘campo di detenzione’.
Formalmente le motovedette obbediscono al governo libico, che però è una finzione; di fatto sono la Marina del Viminale, essendo parte della strategia ideata dal ministro degli Interni Marco Minniti per contrastare il traffico di migranti. Iniziativa lodevole, quella italiana, se non fosse che le politiche si giudicano dai risultati, e questi sembrano pessimi. Impedire la partenza dei barconi senza aver organizzato una soluzione alternativa significa chiudere l’unica via di scampo rimasta ai migranti intrappolati in Libia, dai 150 ai 180 mila secondo la stima dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). La gran parte non ha i soldi per tornare indietro al Paese d’origine. Decine di migliaia sono prigionieri di bande armate e trafficanti.
Soltanto una piccola quota, seimila, detenuti illegalmente da milizie cosiddette ‘filo-governative’ in condizioni secondo l’Oim “inaccettabili”, ha il privilegio di ricevere ogni tanto coperte e medicine. Altri migranti vivacchiano, precariamente liberi, in attesa di un imbarco. Altri ancora sono in balia di tribù che per secoli, e fino a ieri, razziavano villaggi africani e rivendevano gli abitanti catturati come schiavi ai mercanti del Golfo (l’Arabia saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1960); e oggi, tornate all’antica vocazione, in un paio di città del sud organizzano aste pubbliche in cui vanno all’incanto migranti di pelle scura.
Tutto questo è ampiamente confermato da Oim, varie ong, agenzie Onu e documenti raccolti dalla Corte penale internazionale, che potrebbe presto formalizzare le indagini (secondo la procura dell’Aja numerose testimonianze confermano quanto siano comuni “omicidi stupri e torture” e quanto diffuso “il mercato di esseri umani”). Malgrado questo, Roma e l’Unione europea fingono di non sapere quale Cuore di tenebra sia oggi la Libia.
Pretendono anzi di applicare anche in Tripolitania la strategia cui sono ricorsi in precedenza, offrendo soldi e aiuti a governi mediterranei purché fermassero i flussi di migranti. Il problema è che la Libia non è l’Egitto o la Turchia, anzi non è: non esiste più uno Stato, tantomeno uno stato di diritto. Dietro la Guardia costiera c’è soltanto un caos ribollente di 200 mila armati. Dunque che ne sarebbe di quei 150-180mila esseri umani se le motovedette libiche riuscissero a bloccare o almeno a socchiudere la via per l’Italia?
Per sottrarsi a questa domanda Minniti, ma di fatto l’Unione, hanno deciso di nascondere il problema con uno stratagemma semantico. In Libia, dice il ministro degli Interni a Repubblica, ci sono soprattutto migranti ‘economici’, categoria esclusa dalle tutele internazionali: “Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra”, dunque non può chiedere di essere accolto come rifugiato politico. Ma è così? In Nigeria, Gambia e Bangladesh chi vive in alcune regioni o appartiene a determinati gruppi etnici o politici ha discrete possibilità di finire torturato o ammazzato.
Inoltre è ovvio che i migranti finiti in Libia sono molto più poveri di quanto li pretenda Minniti, altrimenti avrebbero comprato il visto in uno tra i consolati europei specializzati in questi traffici. E anche la povertà può comportare condizioni di vita intollerabili, come il ministro dell’Interno scoprirebbe leggendo, per esempio, quanto scrive Human Rights Watch sul lavoro minorile nel Bangladesh.
Se però partiamo dall’idea che quei migranti siano quasi tutte persone avventurose che cercano fortuna in Italia, allora diventa legittimo fermarli e rimandarli da dove sono venuti: e questo è il nucleo della nuova strategia euro-italiana. La Guardia costiera fermerà i barconi e ricondurrà i migranti sulla terraferma, dove troveranno, annuncia Minniti, “campi di accoglienza sotto la responsabilità dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dell’Oim”, già finanziati dalla Commissione europea con 90 milioni. I campi di accoglienza, “oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti”, renderanno “più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito”, cioè rimanderanno a casa i migranti ‘economici’.
Quel che Minniti omette è che Alto commissariato e Oim sbarcheranno in Libia solo quando potessero operare in condizioni di sicurezza, cioè in futuro imponderabile, comunque lontano; e se anche oggi fossero lì, riconoscerebbero alla gran parte dei migranti il diritto di ottenere la protezione internazionale almeno come “appartenenti a gruppi vulnerabili”, in quanto ostaggi o vittime delle milizie libiche (status che li metterebbe in condizione di chiedere asilo all’Europa). Dunque la sostanza della politica euro-italiana è che i guardacoste di Minniti fermeranno illegalmente i migranti in mare e li deterranno illegalmente, probabilmente fin quando non potranno scaricarli illegalmente in Niger, uno dei 10 Paesi più poveri del mondo. Nel frattempo in Italia continueremo a dibattere sul tema se quelli delle Ong siano o no cinici mentitori che violano la legge.

«Se mi convocheranno parlerò alla commissione d’inchiesta: in Parlamento, non sui giornali, risponderò ovviamente a tutte le domande che mi faranno». Il muro del no comment regge, ma un forellino per guardarci attraverso si nota. Federico Ghizzoni, il banchiere più inseguito d’Italia, dribbla i tanti giornalisti venuti ad aspettarlo sotto la casa di campagna. Ma a chi insiste di più fa capire meglio il suo stato d’animo, la sua voglia di togliersi quello che è diventato un peso. Quando il campo sarà sgombro dalle strumentalizzazioni mediatiche, che a ore alterne lo vogliono ariete dell’opposizione o parafulmine del governo, darà il suo contributo di cittadino perchè si chiariscano i rapporti tra la maggioranza, la sua icona Maria Elena Boschi e la Banca dell’Etruria, saltata nel 2015 mentre il padre e il fratello dell’allora ministra operavano ai piani alti. «Adesso non parlo, perché non si può mettere in mano a un privato cittadino la responsabilità della tenuta di un governo – si è sfogato Ghizzoni dopo il pranzo domenicale, consumato prudenzialmente in casa -. E’ un caso della politica, sarebbe dovere e responsabilità della politica risolverlo ».
Il manager ha cercato di santificare le feste. È andato a messa come ogni domenica nella frazione dove abitavano i genitori sui colli del fiume Trebbia. Poi ha avuto l’idea “normale” di andare far la spesa per il pranzo: e s’è accorto, dalla schiera di cronisti che l’aspettava in paese per interrogarlo, di dover reggere suo malgrado le sorti del renzismo redivivo, ruolo cui l’ha chiamato Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti ( o quasi). Sono bastate 13 righe, dove si legge che a inizio 2015, quand’era amministratore delegato di Unicredit, avrebbe valutato su diretta richiesta di Maria Elena Boschi l’acquisizione di Banca Etruria, in dissesto e prossima al commissariamento.
La linea di Ghizzoni non è cambiata: volare basso, lontano da riflettori e polemiche. «Qualsiasi cosa dicessi ora, sarebbe strumentalizzata da una parte politica contro l’altra, e contro di me - si limita a dire ai giornalisti che saliti in collina -. Oltre poi al fatto che quando studiavo da banchiere mi hanno insegnato che la riservatezza è una virtù». L’orientamento di fondo emerso da giorni non va tuttavia scambiato per reticenza, o disinteresse verso i temi di primo piano: Ghizzoni lo ha chiaro in testa, e non lo nasconde agli intimi. «Anche se sono una persona emotiva, e in questi giorni la pressione mediatica su me e la mia famiglia è notevole, mi sento assolutamente sereno – ha confidato il banchiere che guidò Unicredit dal 2010 al 2016 -.
Se mi convocheranno sono disposto a rispondere a tutte le domande della commissione d’inchiesta parlamentare: ho letto che partirà presto, mi auguro sia vero». Non ha nessuna voglia, il figlio del grande latinista emiliano Flaminio, di strumentalizzazioni usate per secondi fini. Vorrebbe tanto, Ghizzoni, che il pallino tornasse nelle mani delle istituzioni, mentre lui aspetta defilato che la polvere si posi, studia agende e carte passate con il legale di fiducia (anche se finora delle querele annunciate da Boschi ci sono solo gli annunci), e soprattutto si tuffa con entusiasmo nei nuovi incarichi, molto operativi e pieni di viaggi e rapporti con i clienti, nel fondo Clessidra e nella banca d’affari Rothschild.
Tuttavia nella prima settimana del caso “la politica” è sembrata curarsi più degli effetti mediatici che di ricostruire ruoli e responsabilità degli attori nel crac di Banca Etruria. Finora non sembra che i politici abbiano imitato i giornalisti, nel chiamare Ghizzoni per chiedergli se abbia ricevuto richieste dirette da Maria Elena Boschi in quei giorni, quando la ministra stava in pena per il padre vicepresidente della “banca dell’oro”; o per sapere se è vero che affidò il dossier Etruria alla dirigente di Unicredit Marina Natale, e come l’ipotesi di rilevarla venne rapidamente accantonata a inizio 2015. Ai giornali Ghizzoni ribatte con una fila di “no comment”, senz’altri dettagli: anche se le mezze parole e le mancate smentite di questi giorni fanno supporre che qualche scambio di idee con la ministra Boschi sul dossier ci sia stato davvero. «E’ normale che politici e banchieri si parlino, specie nelle situazioni di crisi» è un’altra frase che Ghizzoni ripete questi giorni.
La Commissione d’inchiesta sul credito può rivelarsi dunque una macchina della verità preziosa. Anche se la cornice - tra Renzi che invoca chiarezza, Boschi che smentisce e annuncia querele, de Bortoli che conferma la versione e non le teme, Ghizzoni prudente in attesa di testimoniare in Parlamento - fa somigliare sempre più il caso Etruria a un poker dove qualcuno sta bluffando.

«»
cambiailmondo, 14 maggio 2017 (c.m.c)

L’orizzonte culturale in cui viviamo. E’ diffusa nell’immaginario collettivo l’idea che la nostra epoca è caratterizzata dalla “globalizzazione”, ma si tratta di una idea ancora confusa e imprecisa, alla quale, tuttavia, si attribuisce un senso di necessarietà e quasi di fatalismo: essa è concepita come un “dato” indiscutibile intorno al quale dovrebbe ridisegnarsi la nuova struttura dell’economia e, in ultima analisi, delle società nelle quali viviamo. Vedremo tra poco di cosa in realtà si tratta.

Ma intanto appare utile precisare che molti neoliberisti sostenitori della globalizzazione sono ora scettici sui suoi vantaggi e che lo stesso premio Nobel per l’economia, Stiglitz1 , uno dei primi sostenitori di questa nuova visione del mondo, ha riveduto e capovolto il suo pensiero, ponendo bene in chiaro che la globalizzazione è stata considerata in una prospettiva errata e che i danni sociali ed economici che questa ha prodotto, specie sotto il profilo della “disoccupazione”, sono pesanti e insostenibili per lo stesso nostro vivere civile.

Il problema è talmente grave ed importante che deve essere studiato nelle sue radici: si tratta in effetti di porre come oggetto di riflessione un vero e proprio “cambiamento epocale”, che ha travolto il nostro tradizionale modo di pensare e ci ha proiettati in una direzione tutt’altro che definita.

La facilità delle telecomunicazioni, degli spostamenti da un luogo ad un altro, dell’essere informati in tempo reale di qualsiasi cosa accada anche nei posti più remoti del mondo, hanno offuscato lo stesso concetto di “confine”, che sinora aveva costituito, per così dire, anche lo spazio di dominio dei nostri convincimenti e delle nostre aspirazioni, per cui lo stato d’animo oggi imperante è quello di un totale “smarrimento”, nel quale tutto appare possibile e nel contempo difficile da raggiungere, poiché se è vero che la tecnologia ha fatto passi da giganti e l’orizzonte del sapere umano si è profondamente allargato, è anche vero che il nostro campo di affermazione rimane limitato dalle nostre reali capacità.

A questo punto, sembra che l’uomo si sia ripiegato su se medesimo e che, preso atto della propria incapacità di governare se stesso e ciò che lo circonda, cominci a disinteressarsi anche del quotidiano, di quanto accade in politica, nell’economia e nel sociale, ritenendo che il bello e il buono coincida con il “nuovo”, anche se questo nuovo appare, ad una attenta riflessione, come un scatola vuota, che lascia, ovviamente, il vuoto in chi la percepisce.

E’ per questo che in filosofia si parla di “pensiero debole”, in diritto si parla di “diritto debole” e nelle comunicazioni prevale, per così dire, la “rappresentazione debole”, declinato poi in “teatrino”, quando si parla di politica. In sostanza, assistiamo ad una “fuga dal concreto verso l’astratto” e persino in economia, la più concreta delle realtà, si è tramutato lo “scambio reale di beni e servizi” in “scommesse” che comportano per il vincitore l’acquisto, non di un bene reale, ma di taluni diritti astratti, che altro non sono, come ricorda il Gallino, delle “promesse di beni”.

Basti pensare alla “cartolarizzazione dei diritti di credito”, alla “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, ai “derivati”, ai “project bond” e al tre simili fantasticherie, delle quali in seguito parleremo. In questo strato di cose, è ovvio che si dilegua lo stesso “concetto di Stato” e che al posto dello Stato assume sempre maggiore potere la “finanza”, e cioè le “multinazionali”, che sovente provengono dalla “fusione” di più imprese, e le “banche”, le quali si sono quasi completamente sostituite allo Stato nella “creazione del danaro dal nulla”.

La prospettiva è, così, quella di un mondo nel quale la “sovranità” spetta al “mercato”, cioè all’azione delle summenzionate multinazionali e banche, mentre principio costituzionale inderogabile diventa Il “pareggio di bilancio” e l’uomo, se non riesce ad essere “auto imprenditore”, non può altrimenti essere concepito se non come “uomo merce”, il cui lavoro, ovviamente, deve costare il minimo possibile, con buona pace di quanto dispongono i vigenti articoli 4, 36 e 38 della Costituzione. (…)

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».

il manifesto 14 maggio 2017 (c.m.c.)

«È curioso, ma i migranti stanno polarizzando il mondo», dice al manifesto il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, candidato al Nobel per la Pace per il 2017. Padre Solalinde, scampato a un attentato dei narcos per il suo impegno a favore dei migranti, è in Italia per presentare il libro I Narcos mi vogliono morto, edito da Emi.

Oggi è a Udine, al Festival Vicino Lontano e visiterà la mostra «Vivos», legata al tema dei desaparecidos messicani, di cui si occupa da anni. Il 18 maggio sarà al Salone del libro di Torino, insieme a Moni Ovadia e Alex Zanotelli. Scrive: «Pochi sanno, o vogliono sapere, che nel Messico attuale mancano almeno 150.000 esseri umani, cinque volte gli scomparsi dell’ultima dittatura argentina. Svaniti nel nulla in quella guerra dimenticata in cui narcos rivali si fronteggiano con il sostegno di interi pezzi di polizia ed esercito per il controllo dei traffici. Come per molti altri orrori commessi nel corso di questo conflitto, le “prove generali” di desaparición sono state fatte sui migranti».

A Oaxaca, Solalinde gestisce l’albergo per migranti «Hermanos en el camino». Una struttura – spiega – «che nasce per proteggere le persone migranti dalla polizia e dai cartelli del crimine organizzato. Per i criminali, sono la preda perfetta: ufficialmente non esistono, non hanno documenti. E per le mafie, tutto ha un valore economico, anche gli organi. Abbiamo iniziato ad assisterli, a rispondere alle principali necessità concrete come quelle di comunicare con le famiglie, ma anche a fornire assistenza legale, a sporgere denuncia, a mettere in comune le diverse storie, a capire che la migrazione è un fenomeno complesso.

Dopo l’arrivo di Trump, il numero di chi cerca di andare negli Usa è diminuito?
Un po’, sì, ma il flusso continua, s’inventano maniere ingegnose per passare. Su 100 che cercano di andare negli Usa, 25 si arrendono e tornano indietro, altri 25 ci provano, ma il dato nuovo è che il 50% resta in Messico e si organizza, convinto che Trump non durerà e potrà ritentare. Il ripudio contro le politiche xenofobe di Trump, negli Usa, è forte. Il 1° maggio sono stato a Los Angeles in una delle tre gigantesche marce, sempre più numerose in cui è evidente il ruolo delle donne. La mia impressione è che stiano perdendo la paura di manifestarsi e che si stiano organizzando. È curioso ma i migranti stanno polarizzando il mondo. È chiaro negli Usa, ma anche in Messico. La maggioranza è a favore dei migranti, una minoranza ne ha paura, li criminalizza e li sfrutta: il crimine organizzato, l’Istituto nazionale delle migrazioni e i politici messicani in coordinamento con gli Stati uniti.

In Messico, le manifestazioni per i migranti si sono unite a quelle contro le privatizzazioni di Peña Nieto. C’è una speranza di cambiamento alle prossime elezioni?
Sì. Contro Trump e contro le politiche di Henrique Peña Nieto, il 20 gennaio c’è stata una grande manifestazione, e marce davanti all’ambasciata Usa. Mai la popolarità di un presidente è caduta così in basso come quella di Nieto. Il partito Morena, di Amlo, potrebbe farcela se la sinistra non si divide un’altra volta. Le candidature indipendenti, come quella dell’Ezln sono buone, ma un po’ tardive e in questo momento, come in passato, se la sinistra si divide, ne guadagna il sistema. Morena è un movimento nuovo e dobbiamo vigilare affinché non finisca nell’ingranaggio. Ad Amlo ho suggerito una commissione di controllo sociale ed etica, che ha già cominciato a funzionare.

Lei ha un ruolo importante nella ricerca degli scomparsi, anche dei 43 studenti normalistas, a partire dalle confessioni di alcuni trafficanti. Che cosa le hanno detto?
Che gli studenti siano stati bruciati risulta anche dagli esami di alcuni resti, ma il rogo non è avvenuto nella discarica di Cucula. L’equipe interdisciplinare di esperti indipendenti si è avvicinata alla verità a partire dalle testimonianze di tre sopravvissutti, che hanno assistito all’ultimo incontro degli studenti con l’esercito federale e con la polizia. Su uno degli autobus c’era un grosso carico di eroina. Sono scomparsi nelle caserme militari, dove si sa che esistono forni crematori. È un crimine di lesa umanità, che non si prescrive. Un crimine di stato. L’indagine potrà avere un seguito solo se vince Amlo e cambiano le cose.

Come lei scrive nel libro, il Messico è una gigantesca fossa comune, ma la comunità internazionale, e anche i vescovi, hanno nel mirino il Venezuela che i migranti li accoglie. Perché?
Quando ci sono in ballo grandi risorse, e in questo caso il petrolio, c’è la mano della Cia e degli Usa che vogliono il controllo geopolitico. Il papa chiede la pace e loro la guerra. Molto diverso è stato il messaggio del vescovo Ruiz o di Monsignor Romero, che ho conosciuto personalmente. Nel 1972, gli ho chiesto aiuto per la mia squadra di missionari itineranti, che la chiesa locale non accettava. Lui invece ne era entusiasta: è il cammino del Vangelo – disse.

È grazie ai giornalisti che sanno fare il loro mestiere che gli italiani hanno la confrma di ciò che moltissimi sapevano da sempre: il valore morale della cricca Renzi. Ora il Re è nudo.

HuffingtonPost online, 14 maggio 2017

Dobbiamo essere davvero grati a Ferruccio De Bortoli, che ci ricorda qual è il compito principale della stampa, in una democrazia: esercitare il senso critico, controllare il potere. Per parafrasare il Foscolo dei Sepolcri: temprare lo scettro a' regnatori, sfrondarne gli allori, svelare alle genti di che lagrime grondi quel potere, e di che sangue.

In questo caso è il sangue della democrazia, quello che gronda. Perché se ciò che scrive De Bortoli è vero – ed ha tutta l'aria di esserlo – un ministro della Repubblica ha solennemente mentito al Parlamento. E ha preso in giro l'intero Paese, negando un conflitto di interessi grande come una casa. Tradendo clamorosamente il giuramento pronunciato diventando membro del governo: "Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione". L'interesse di chi? Della famiglia, della banca? Certo non quello della Nazione.

Il 12 novembre 2015 Roberto Saviano scrisse che "il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili».

Saviano fu insultato, e lasciato solo. Ma aveva sacrosanta ragione. Ed è bene ricordare che Matteo Renzi gli rispose, sprezzante: «Siamo gli unici che vogliono bene all'Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche".

Oggi, quasi due anni dopo, il copione è lo stesso: Renzi accusa De Bortoli di attaccarlo a causa di frustrazioni personali. Solo che oggi gli italiani sanno chi è Renzi. Sanno che non possono credergli: quanto valore può avere la parola di chi ha detto «se perdo mi ritiro dalla vita politica», e oggi, dopo aver perso tutto il perdibile e aver devastato il proprio partito, è ancora inchiavardato alla poltrona?

Oggi è drammaticamente evidente chi è che «vuole bene all'Italia». Chi dice la verità. E non chi trama all'ombra di logge massoniche e cerchi magici, abusando del proprio ruolo di servitore dello Stato per fare i propri interessi.

E soprattutto è ben chiaro che a 'volere bene all'Italia' sono stati i 19.420.271 cittadini italiani che hanno detto NO ad una riforma firmata da quello stesso ministro.

Già: chi comprerebbe oggi una Costituzione usata da Maria Elena Boschi?

».

il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia, quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.

Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico.

Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato - Peredrag Maktievich - «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.

E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».

I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati: gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì - nel mondo arabo - si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.

Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.

Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali: la carità è importante, ma ci vuole la politica.

«Nel 2013 una nave italiana era vicina al barcone affondato. La Marina poteva salvare i migranti ma l’ufficiale ordinò: “Andate via”.Indagine archiviata». Gli assassini colpevoli di questa strage saranno punbiti come meritano?

la Repubblica, 13 maggio 2017

LA Marina militare italiana si nascondeva. Il peschereccio crivellato di colpi con a bordo 480 profughi siriani in tutto, il dottor Mohanad Jammo, sua moglie, i loro tre figli e altri100 bambini, sta affondando a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Ma da via della Storta 701 a Roma il Comando in capo della squadra navale, il Cincnav, ordina a nave Libra di togliersi di mezzo. Proprio così: deve nascondersi per non farsi vedere dalle motovedette maltesi. Sono le 15.37 dell’11 ottobre 2013. La Libra dall’inizio dell’emergenza è l’unità più vicina, appena 17 miglia, un’ora di navigazione. Il capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, ufficiale in servizio alla centrale operativa aeronavale telefona a Luca Licciardi, 47 anni, capo sezione attività correnti della sala operativa del Cincnav. Gli chiede che cosa deve riferire alla Libra. La risposta di Licciardi è questa: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro».

Malta è lontana 118 miglia. La motovedetta maltese è ancora a più di due ore. Il capitano Giannotta obbedisce e chiama la Libra. Ordina che si tolga dalla congiungente tra Malta e il barcone, la rotta più breve. Con le seguenti parole: «Perché se vi vede a un certo punto (la motovedetta maltese)... eh, gira la capa al ciuccio e se ne va». E così l’ultima salvezza, la nave militare comandata da Catia Pellegrino, 41 anni, l’unico ufficiale davvero all’oscuro dello scaricabarile, si allontana oltre l’orizzonte, portandosi a 19 miglia nella direzione opposta al barcone. A quell’ora potrebbero ancora salvarli tutti. Il peschereccio si rovescia alle 17.07, dopo cinque ore di inutile attesa dalla prima richiesta di soccorso alla Guardia costiera. Almeno duecentosessantotto morti, sessanta bambini, quasi tutti caduti in mare e mai più ritrovati.

La motovedetta maltese, il pattugliatore P61, arriverà sul punto del disastro soltanto alle 17.51. Nave Libra addirittura più tardi, alle 18. Riescono a tirare a bordo duecentododici persone. Scende la sera. E molti bimbi che i sopravvissuti giurano di aver visto in acqua aggrappati a tavole di legno non appaiono nell’elenco dei superstiti. Nel buio sono finiti alla deriva per sempre.
«Ricordo perfettamente il dramma di quel naufragio», dice Enrico Letta, capo del governo in quei terribili giorni: «Questa nuova tragedia dell’11 ottobre, insieme con quella della settimana prima a Lampedusa, ci spinse a varare subito l’operazione Mare nostrum. Ci sono momenti in cui il salvataggio delle vite umane è questione di ore, se non di minuti. E mi resi conto che non si poteva lasciare la soluzione di queste vicende alla mercé della buona volontà o della casualità, ma bisognava costruire un quadro giuridico ben preciso perché non ci fossero morti. Io sono orgoglioso della soluzione che trovammo, perché servì a salvare migliaia di vite. Anni dopo resto convinto che quel modello vale anche oggi».

La Procura di Roma ritiene che il comportamento tenuto dagli ufficiali della Marina sia regolare. Il 3 aprile di quest’anno, con un atto firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone e i sostituti Francesco Scavo Lombardo e Santina Lionetti, viene chiesta l’archiviazione per gli unici quattro indagati. Sono il capitano Giannotta, il collega Licciardi, la comandante Pellegrino e Leopoldo Manna, capo della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, tutti sotto inchiesta per omissione di soccorso. Nelle undici pagine della richiesta, da cui abbiamo estratto le telefonate del Comando della squadra navale, i magistrati scrivono che l’azione dei quattro «può ritenersi rispettosa della complessa e dettagliata disciplina del settore». Secondo Pignatone e i due sostituti procuratori, gli ufficiali non erano consapevoli del reale pericolo a bordo del peschereccio. L’indagine affidata alla Guardia di finanza, però, sembra non aver preso in considerazione le precise informazioni riferite alla Guardia costiera da Mohanad Jammo, 44 anni, il medico di Aleppo che con un telefono satellitare dal barcone alla deriva chiamava la sala operativa di Roma e della Valletta. Scartate anche parte delle conversazioni tra il Cincnav e la Guardia costiera e tra questa e le Forze armate di Malta durante le quali, alla formale richiesta dei maltesi, gli ufficiali italiani negano l’invio di nave Libra. Sono le stesse che sentiamo nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica.

Un’altra inchiesta contro ignoti è stata aperta ad Agrigento. Qui il procuratore Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Silvia Baldi hanno chiesto l’archiviazione perché, secondo loro, la responsabilità dell’omissione di soccorso è delle autorità di Malta: «L’imbarcazione dei migranti si trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali di quel Paese», scrivono i magistrati. Forse una svista: le acque territoriali arrivano a 12 miglia, il dottor Jammo e tutti gli altri sono fermi a 118 miglia da Malta. In realtà il peschereccio, pur essendo molto più vicino a Lampedusa, è nell’area di competenza maltese per le attività soccorso. Alle richieste di archiviazione hanno presentato opposizione i genitori che hanno perso i loro bambini, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini. Il loro appello alla giustizia è ora nelle mani dei giudici.
Le informazioni che il dottor Jammo riferisce al tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, l’ufficiale di servizio alla centrale di Roma, sono inequivocabili e ben comprese. Tanto che l’allora comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Felicio Angrisano, le riporta in una lettera inviata a
L’Espresso nel 2013: «Ore 12.39... presenza a bordo di due bambini bisognevoli di cure... unità che con motore fermo, imbarca acqua», scrive l’ammiraglio. A quell’ora Jammo dice che l’acqua nello scafo ha raggiunto il mezzo metro. Difficile sostenere che non si sappia del pericolo.

Alle 14.35 l’ufficiale di servizio a Roma, parlando con le Forze armate di Malta, scopre che non hanno ricevuto la parte di fax con cui la Guardia costiera chiedeva ai maltesi di assumere il coordinamento dei soccorsi. Due ore perse. Nonostante questo, la Marina continua a nascondere nave Libra. Alle 15.12 l’operatore Butera di Cincnav chiama il tenente Torturo per avere aggiornamenti. «Malta ha risposto: assumo il coordinamento », spiega Torturo: «Gli abbiamo detto che c’è una unità della Marina in zona. Non gli abbiamo dato posizione e niente». «Ah, ok», risponde Butera. A quell’ora la Libra, molto adatta quel tipo di soccorso, è ad appena 17 miglia. Il mercantile più vicino è a 70. Malta dirotta una sua motovedetta, ma è ancora lontanissima.

E alle 15.37 i superiori di Butera, Luca Licciardi e Nicola Giannotta, ordinano a Catia Pellegrino di andare a nascondersi. Alle 16.38 Antonio Miniero, 42 anni, tenente di vascello della Guardia costiera, telefona al capitano Giannotta della Marina. Gli dice che Malta ha mandato un aereo sui profughi alla deriva e i piloti hanno scoperto che la Libra è praticamente lì, a 19 miglia. Vogliono dare istruzioni alla nave, essendo i maltesi l’autorità di soccorso competente. La richiesta di Malta è ufficiale. «Sarebbe il caso... », suggerisce Miniero. «Un attimo, io qua ne devo parlare con il capo ufficio operazioni», risponde Giannotta. Alle 16.44 Licciardi, il capo ufficio, contatta Giannotta: «E chiude la telefonata dicendo che a nave Libra non devono dire niente», annotano i magistrati romani nella richiesta di archiviazione. Solo alle 17.04, all’ennesimo sollecito di Malta, il comando della Marina ordina a Catia Pellegrino di avvicinarsi. Tre minuti dopo il barcone dei bambini si rovescia. E la Libra è ancora lontana.

».

il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.

Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi.

Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.

Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.

La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street.

Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).

Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.

Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.

Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.

E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?

Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo.

Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento.

Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.

E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».

La consueta, periodica indagine sui prevedibili futuri politici del Palazzo. Ma è difficile prevedere il futuro che si è espresso nei numerosi eventi della politica del popolo, dalla battaglia per l'acqua pubblica a quella per la difesa della Costituzione. Eppure la speranza è lì.

la Repubblica, 13 maggio 2017

ALCUNI importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l’Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d’opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5S. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%.

Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5S ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l’altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso).
Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre “poli” maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l’80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt’altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l’asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.
È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, “approssimate”, in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più “larghe”. Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l’operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un’alleanza con Fi, ancor meno con il M5S. Mentre appare maggiore (ma complicata) l’attrazione reciproca tra M5S, Lega e Fdi.
Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5S. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l’attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l’anno prossimo. Il governo Gentiloni, d’altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.
La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestanofra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D’Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.
Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.
Anzitutto, l’uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un’arma di notte “nel proprio domicilio”. Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, “sparare” all’aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5S. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a “Sinistra” si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di “sparare” in casa propria.
C’è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c’è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.
Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti ». Al fine di «destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle ”Associazioni di volontariato”, tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano “associazioni di volontari”. Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.
Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l’incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell’economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

«"Attualità del paradosso: si cancellano le differenze e crescono le disuguaglianze; il mondo è ogni giorno più uniforme e più disuguale". Un estratto del testo che l'antropologo francese ha dedicato al festival

Vicino/lontano di Udine, che verrà letto domenica 14 maggio». il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

Da dove viene il malessere che caratterizza tutti i dibattiti sulla cultura e l’identità? Un paradosso è evidente: il mondo globalizzato è anche il mondo della più grande differenza, dove crescono la circolazione, la comunicazione e il consumo. Eppure coloro che circolano non consumano e non comunicano nelle stesse proporzioni e condizioni. Di qui l’attualità del paradosso: si cancellano le differenze e crescono le disuguaglianze; il mondo è ogni giorno più uniforme e più disuguale. Le conseguenze sono almeno due.

Da un lato, su scala mondiale, l’esterno, anche quello di cui si nutre l’interno, è in via di sparizione e la distinzione interno-esterno perde la sua pertinenza. Si delineano tre tendenze che costituiscono, a diverso titolo, una minaccia o una costrizione per la vita culturale: la globalizzazione imperiale, quella «scoppiata» e la globalizzazione mediatica.

La globalizzazione imperiale è quella che tentano di immaginare gli Stati Uniti, la potenza dominante, o almeno certi suoi rappresentanti. Tutto avviene come se, in assenza di un esterno e di un’alterità radicale le diverse culture nazionali trovassero nuova linfa all’interno, riscoprendo le tradizioni che le ideologie nazionali del secolo scorso avevano cancellato: si riscoprono le regioni, le minoranze, i piccoli paesi.

Gli antropologi americani «postmoderni» hanno sviluppato da questo punto di vista una teoria sottile che chiamerei «globalizzazione scoppiata», attirando l’attenzione sulla diversità rivendicata del mondo. Ma sarebbe senza dubbio un’illusione vedere in queste rivendicazioni il principio, l’espressione e la promessa di uno scambio futuro e di un rinnovamento prossimo delle culture. È necessario infatti né sottostimare il carattere stereotipato delle rivendicazioni particolari, né la loro integrazione nel sistema di comunicazione mondiale.

La globalizzazione scoppiata corrisponde a un momento della storia del pianeta dominato dal mondialismo economico e tecnologico: quest’ultimo si adatta bene ai particolarismi culturali, specialmente se non si occupano del campo del consumo e delle regole del mercato.

Il lavoro tipico di quella mediatica è, invece, la spettacolarizzazione delle differenze e, al limite, il loro consumo. Prima di tutto il consumo turistico: il candomblé brasiliano, gli accampamenti yanomami, i guerrieri masaï fanno parte dei programmi turistici europei e del consumo televisivo, cinematografico e fotografico. Tutto rende problematico lo statuto dell’avvenimento, fino a concepirlo e a metterlo in scena solo per la televisione.

Prendere coscienza delle gravi disuguaglianze che pesano sul destino del mondo che verrà, denunciare le illusioni di una vita che si arrende alle tecnologie della comunicazione, inquietarsi per le condizioni con le quali il riferimento planetario si impone a tutte le società e a tutte le culture del mondo, non è voler ignorare il carattere ineluttabile della mondializzazione, e ancora meno rifiutare le chances offerte, in molti campi, dallo sviluppo delle tecnologie. Aprirsi al futuro oggi significa aggiungere al patrimonio culturale e alla cultura di ogni essere umano l’esperienza delle tecnologie della comunicazione e un massimo di conoscenze scientifiche: una conoscenza generale dei problemi.

Ogni riflessione sulla cultura di domani dovrà tener conto di due ostacoli fondamentali: il fossato, l’abisso, che si allargano sempre più tra i più ricchi e i più poveri, tra coloro che avranno accesso alla cultura e coloro che non l’avranno. Il secondo ostacolo potrebbe contribuire allo sviluppo del primo: l’invenzione delle immagini e il rischio che essa comporta di farci prendere lucciole per lanterne, dei simulacri per realtà.

Marx diceva che dietro i rapporti tra le cose ci sono i rapporti tra gli uomini: questo è ancora più vero per le immagini. L’individuo da un lato, il pianeta dall’altro: e dall’uno all’altro una molteplicità di relazioni non riducibili allo scambio di informazioni permesso o imposto dalle tecnologie della comunicazione. Su scala globale la diversità necessaria al dinamismo culturale si confonderà forse un giorno con quella di miliardi di individui che, ciascuno per la propria parte, sono e saranno ancora di più nel futuro un mondo e una cultura. Così, a differenza delle altre, l’utopia di oggi ha trovato il suo luogo: il pianeta.

il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)

«O ci liberiamo dall’idea occidentale di umano o non sopravviveremo a lungo». Sono piuttosto netti Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros De Castro, entrambi ricercatori presso il Conselho Nacional de Desenvolvimento Cientifico e Tecnologico, in Brasile. L’intenzione non è quella di fare dell’allarmismo o di alimentare un orizzonte squisitamente teorico postumano, già tanto frequentato. Hanno un’aria pacifica e la voce di entrambi si fonde in un’articolazione filosofico-antropologica che precisano da diversi anni.

Hanno scritto Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, pp. 320, euro 17, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Le formazioni sono diverse (Danowski insegna filosofia alla Pontificia Universidade Catolica di Rio de Janeiro, mentre Eduardo Viveiros De Castro antropologia sociale presso il Museo Nacional dell’Universidad Federale) eppure, nella strana alchimia della relazione, in questi anni si sono esercitati a pensare insieme in un confronto serrato proprio con quella domanda che dà il titolo al libro, pubblicato in Brasile tre anni fa e che, nell’edizione italiana, ha una introduzione aggiornata.

Il titolo che avete scelto per il vostro denso volume è una domanda che preferite mantenere «radicalmente aperta». A parte quello a venire, viviamo o no nel migliore dei mondi possibili?
Questo è l’unico mondo che abbiamo, non ne esistono di infiniti. Detto questo, è impossibile essere ottimisti al modo in cui lo era Leibniz, del resto lui aveva come garante Dio e non poteva certo immaginare ci saremo trovati in questo stato di cose: la crisi climatica e più in generale ecologica, per esempio. A Leibniz dedichiamo una nota del libro ma la prospettiva non può più essere orientata verso un perfezionamento storico, quel migliore dei mondi possibili ipotizzato dal filosofo è come se fosse all’apice di un’immagine piramidale, non sappiamo quale sia il peggiore ma esiste un collasso che non possiamo più ignorare.

«Ci troviamo in un momento descritto con maggiore efficacia dalla visione termodinamica, o forse – ancora più precisamente – dall’entropia, a livello sociale, politico, economico e della stessa condizione del pianeta».

Vi concentrate sull’idea di «fine». Conclusione singolare, biologica, e al contempo di tutte le cose. In che modo l’avete declinata?

«Esistono molti tipi di «fine» e una costellazione di autori che ne danno interpretazioni diverse. Per esempio c’è la fine assoluta di cui abbiamo rappresentazione visiva nel film Melancholia di Lars Von Trier. Poi c’è quella metafisica alla Nihil Unbound di Ray Brassier (che viene collocato insieme a Iain H. Grant, Graham Harman, Levy Bryan sotto l’etichetta di «realismo speculativo»); quindi dal momento che tra circa tre miliardi di anni il nostro mondo finirà, tanto vale considerarci già morti da un punto di vista metafisico. In questa tesi la morte è considerata una verità ontologica. La posizione tanatologica prevede una forma di nichilismo attivo perché la consapevolezza della ineluttabilità della morte come destino universale è una acquisizione della intellegibilità delle cose. Non c’è un Dio. Nulla di esterno ci salverà e dobbiamo accettarlo.

«Non siamo profeti dell’Apocalisse, ci sono molti modi diversi di intendere la parola «mondo» e la parola «fine». Fine della specie, fine del cosmo, della civiltà, del capitalismo. Ci sono molti mondi che possono finire e alcuni di essi sarebbe bene che finissero. A un certo punto sarà importante che anche la nostra specie scompaia, i tempi medi di sopravvivenza di ogni specie sono di 2 milioni di anni, la nostra esiste da 200mila anni ma niente ci garantisce l’ulteriore tempo che potremmo avere a disposizione».

Il problema risiede nel dispositivo escludente di una specie che vorrebbe dettare le regole anche per le altre?
«Ciò che ci preoccupa è la fine di questo mondo, forse la nostra specie continuerà ma non i nostri modi di vita. Non dimentichiamo che i nostri corpi, per il 90%, sono costituiti da altre specie. Dobbiamo imparare a stare al mondo in una modalità non essenzialista, abbandonando l’eccezionalismo. Siamo aperti al flusso della materia e della vita, in questo senso siamo integrati all’esistente restando una configurazione momentanea di questo flusso.

Anche l’arroganza antropocentrica ha un suo posto nel ragionamento che avanzate…
La domanda infatti non è se esista o meno un mondo a venire ma se esista vivibile per tutti i viventi, umani e non umani, compresa la parte migliore dell’umanità che certo non siamo noi considerato quel che abbiamo fatto al pianeta».

L’umano che arriverà verosimilmente non sarà maschio, né bianco, forse sarà una donna o chissà. Convocate anche l’impegnativa categoria di «popolo a venire». Da chi si compone?
«Per noi non è un insieme di individui e non è neppure un concetto che riguarda solo gli esseri umani, l’espressione è più complessa ed estesa. È qualcosa di collettivo che non esclude le altre specie. Come ci sono diversi tipi di popolo ci sono numerose pluralità di popolazioni. Spesso c’è un popolo indicato sommariamente come specie umana oppure come categoria politica, pensiamo alla classe operaia, intesa – nella sua universalità – come tratto caratteristico dell’immaginario di sinistra. Per noi invece il popolo non può che nominarsi al plurale, come molteplicità di umani e non umani.
Ogni popolo è connotato da orientamenti che rispondono alle parzialità di ciascuno di essi, pensiamo alle comunità lgbqt, ma anche alle battaglie come per esempio quelle delle donne, alle comunità nere, ma gli esempi sono molti».

«Il nostro presente – scrivete – è l’Antropocene; questo è il nostro tempo. Ma tale tempo presente si rivela essere un presente senza avvenire, un presente passivo». Un tempo fuori sesto che è oltre la distopia e che ha superato la fantascienza. Oltre a descrivere uno scenario di profonda angoscia, quale è il dato di esperienza quotidiana che può aiutarci a non rimanere schiacciati dalle gabbie teoriche?
«Ci sono molti popoli che ci restituiscono esperienze dirette di modi di vivere diversi; cioè non c’è qualcosa da inventare ma qualcosa da osservare, questi popoli vivono fuori della società industrializzata e portano da anni esperienze importanti. Per esempio nelle zone semi-aride nella parte nord-est del Brasile ci sono popolazioni che vivendo in un clima ostile si sono ingegnate con tecnologie. La loro esistenza è già una forma di resistenza all’invasione che prevedrebbe la cosiddetta civilizzazione. I popoli sono molti e le forme di vita escogitate sono altrettante. Non possiamo aspettarci soluzioni istituzionali anche se la grandezza dei problemi è tale che in certi casi dobbiamo di necessità fare riferimento a questo genere di mediazioni. Non è però questo il punto di leva: le forme istituzionali, i grandi organismi internazionali hanno dei limiti che non possiamo ignorare. Dobbiamo osservare meglio e volgerci verso chi ha già sperimentato quella che sarà l’esperienza universale del «mondo diminuito» in cui sopravvivere sarà un compito difficile.»

». la Repubblica, 12 maggio 2017 (c.m.c)

Tra una settimana, il 19 maggio, gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente. Hassan Rouhani ha buone probabilità di venire rieletto, ma i conservatori, e in prima linea i pasdaran, le Guardie rivoluzionarie, cercano di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano a un moderato. Hanno messo in campo due sfidanti che promettono di creare 5 milioni di posti di lavoro e triplicare i sussidi ai poveri. Il punto debole per Rouhani è infatti l’economia, perché il miracolo economico che gli iraniani si aspettavano dopo l’accordo nucleare non c’è stato. Le società straniere non investono perché temono che Trump e i tribunali americani puniranno anche in futuro chi fa affari con l’Iran.

Quanto contano le elezioni se l’Iran è una teocrazia dove la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ha l’ultima parola su tutto? Molto, perché il regime iraniano non è monolitico come spesso si crede. Religiosi, militari e burocrati si dividono in fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori e molto cambia nella politica estera come in quella culturale e sociale a seconda del gruppo che prevale. La presidenza Ahmadinejad aveva isolato l’Iran, il moderato Rouhani è riuscito a riportarlo nel consesso internazionale.

Le elezioni del 19 maggio presentano inoltre due novità che si possono definire storiche: innanzi tutto per la prima volta nella storia della Repubblica islamica alle elezioni amministrative, che si tengono parallelamente alle presidenziali, hanno presentato la loro candidatura donne che appartengono a quella borghesia che da quarant’anni si era ritirata in una specie di emigrazione interna, vivendo un po’ in Europa e un po’ nei quartieri alti di Teheran. Professioniste che non hanno mai indossato un chador e che hanno votato sì e no una volta in vita loro per il riformatore Khatami, quando tutto il Paese sperò nelle riforme. La seconda novità è che il Consiglio dei Guardiani, l’organo ultraconservatore che ha il potere di ammettere o bocciare i candidati, le abbia accettate.

Certamente l’ombra di Trump spinge tutti a non prendere rischi e a optare per la stabilità. Ma al di là di questo è significativo che il Consiglio dei Guardiani si sia arreso ai tempi, perché l’Iran è oggi un altro Paese rispetto a quello che era dieci o quindici anni fa. Le leggi possono essere rimaste le stesse perché i fondamentalisti hanno impedito ai riformatori di cambiarle, ma trasgredire le regole qui è un fenomeno di massa. I comportamenti quotidiani dei normali cittadini hanno profondamente trasformato il Paese. E in un certo senso, per quanto assurdo possa sembrare, questo ha contribuito alla stabilità della Repubblica islamica.

Sono i giovani e soprattutto le donne le protagoniste del cambiamento. Le donne iraniane hanno fatto la loro rivoluzione e si sono servite perfino del chador, che in Occidente viene visto come il simbolo dell’oppressione, per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro.
Abbiamo ascoltato le loro voci.

TEHERAN La Scuola di Musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono trasportando violoncelli, violini , strumenti a fiato. Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica, bandì ogni genere di musica, che considerava parte di quell’intossicazione da Occidente contro cui erano insorti i rivoluzionari. Trasportare un violino o un oboe fu vietato in Iran, era come trasportare un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto, come altri fissati al tempo della rivoluzione, non sia mai stato formalmente abolito. Quando un concerto viene trasmesso in tv, gli operatori televisivi fanno attenzione a non filmare gli strumenti, la faccia di chi suona sì, magari anche le mani, ma lo strumento no, non si sa mai.

Sono già le otto di sera e Kimia non smette di fare domande in questa master class speciale che la Fondazione Roudahy e il ministero della Cultura islamica offrono agli studenti di musica grazie ad un accordo con Roma, con la World Youth Orchestra del direttore Damiano Giuranna, Santa Cecilia e la Sapienza che prevede scambi, formazione, concerti congiunti. A luglio ci sarà un concerto con musicisti e cori dei due Paesi, e l’ambizioso progetto è di suonare due nuove composizioni di musica sacra, una iraniana e una italiana, ma scambiando i testi religiosi. Il compositore italiano userà il Corano, quello iraniano la Bibbia. La musica contro i pregiudizi.

Kimia suona l’oboe nella Tehran Symphony, è la migliore del gruppo che segue la master class di Francesco De Rosa, primo oboe di Santa Cecilia, ma vuole diventare ancora più brava. Vorrebbe anche avere un nuovo strumento, che non si può permettere. « Ne ho comprato uno di seconda mano, che ha almeno trent’anni e mentre i violini migliorano invecchiando - sospira -, i legni ahimé peggiorano». Vorrebbe imparare il concerto per oboe di Mozart ma per questo mese (le master class avvengono una volta al mese) il maestro le assegna una serie di esercizi da ripetere un’ora al giorno. « Quando la tecnica è sotto controllo il cuore batte da solo, senza bisogno di un pacemaker», le dice il maestro.

Kimia aveva la passione della musica fin da ragazzina. «Mio padre compone musica per matrimoni e altre cerimonie pubbliche » . Kimia aveva cominciato con il violino ma è mancina e nessun insegnante aveva ritenuto di potersi occupare di lei. Poi aveva sentito un oboe ed era rimasta affascinata, quello sarebbe stato il suo strumento. Ha venticinque anni, vive a Teheran da sola, dà lezioni di musica per mantenersi ed è felice di avere per la prima volta maestri di fama internazionale. Non smetterebbe mai di imparare. Il suo sogno è di poter suonare una volta in una delle grandi orchestre del mondo. Già suonare con la World Youth Symphony le è sembrato miracoloso.

La Scuola di Musica, il solo conservatorio statale di Teheran, è sopravvissuta a tutte le intemperie degli anni post- rivoluzione continuando a funzionare, seppure in sordina. E tre anni fa dopo decenni di chiusura ha riaperto i battenti anche la Tehran Symphony. L’arte di rompere silenziosamente le regole in Iran è un fenomeno di massa, che in nessun altro Paese raggiunge queste dimensioni, e per quanto possa sembrare assurdo contribuisce alla stabilità della Repubblica islamica. Come se ci fosse una tregua silenziosa tra governanti e governati: voi non ci date fastidio e noi non vi rendiamo la vita difficile quanto potremmo. Chi paragona l’Iran a quello degli anni dopo la rivoluzione vede un altro Paese, e i cambiamenti che in quasi quarant’anni l’hanno trasformato non sono dovuti a movimenti politici o a battaglie dell’opposizione, ma ai semplici comportamenti quotidiani dei normali cittadini, soprattutto giovani e ancora di più donne.

Le donne hanno fatto la loro rivoluzione, usando a loro vantaggio perfino i divieti che la rivoluzione, a sorpresa, teneva in serbo per loro. Per esempio il chador, che in occidente è diventato il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce da noi che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perché se ne sono servite per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro svolgendo attività che un tempo erano loro inaccessibili. Eppure ogni volta che c’è qualche gara internazionale in Iran, l’ultima è stata per esempio un torneo di scacchi, c’è qualche competitrice che rifiuta di metter piede in Iran per dare l’esempio di non sottostare “ all’oppressione”. « Ma è proprio il contrario di quello che serve a noi - dice Kimia -. Io spero che in futuro, con o senza foulard, la riapertura al mondo cominciata con Rouhani continui».

Le parabole dei Pasdaran

Alla fine, come sostiene Kimia, il regime si è adeguato ai cambiamenti. Anni fa le parabole sui tetti delle case venivano regolarmente confiscati dai basiji – e regolarmente ricomprati dagli utenti (si diceva li importassero gli stessi pasdaran che ordinavano il sequestro). Oggi non si sente più parlare di sequestri, né di portoni tenuti accuratamente chiusi, né di basiji che approfittano di una porta momentaneamente lasciata aperta per correre sul tetto a requisire gli impianti satellitari. Tre quarti della popolazione le possiede.

Lo stesso vale per il sesso fuori del matrimonio: è proibito e punito con pene molto severe, ma ormai non c’è famiglia a Teheran dove un figlio o una figlia non convivano con un compagno o una compagna, senza essere sposati. Li chiamano matrimoni bianchi, perché i conviventi non hanno stampigliato sulle loro carte d’identità l’avvenuto matrimonio. Altrettanto si può dire per l’alcol, che ognuno può farsi recapitare a casa con una telefonata, o dei codici di vestiario, che ogni ragazza interpreta a modo suo, oppure dei cani, considerati non islamici ma che tutti portano a passeggio senza conseguenze.

I comportamenti quotidiani collettivi hanno cambiato il Paese, anche se le leggi non sono cambiate. Una ragione è anche che il regime non è monolitico, tutt’altro. Ha molte voci, spesso cacofoniche. Religiosi, militari e burocrati si dividono tra fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori. E sebbene la parola definitiva spetti agli organi religiosi, e in particolare alla Guida Suprema, molto cambia della politica estera, sociale e culturale a seconda della fazione che prevale in quel momento. Alle elezioni del prossimo 19 maggio gli ultraconservatori cercheranno di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano ad un presidente moderato, Hassan Rouhani.
L’accordo tacito tra governanti e governati vale finché uno sguardo esterno non lo nota. Quando questo accade il regime, per non apparire debole, applica all’improvviso leggi dimenticate da anni. Così il giornale femminile
fu chiuso per mesi un anno fa perché parlò dei matrimoni bianchi. E può accadere che finisca in carcere a lungo un giovane utente di Facebook.
Non fa nulla se un account Facebook ce l’hanno anche le massime autorità del Paese, tra cui il presidente e la stessa Guida Suprema Khamenei. Perché
Facebook insieme con altri social media resta proibito e accessibile solo attraverso un vpn che aggira il filtro statale che lo blocca.

Quanto il regime si stia adeguando si è visto anche in questi giorni preelettorali (insieme alle presidenziali si vota per i municipi). Il Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del regime, che prima d’ora non ha mai ammesso la candidatura dei kheyr-e khodi, coloro che sono fuori dal sistema (a fronte dei khodi che ne fanno parte), ha lasciato passare attraverso le sue fitte maglie candidati finora impensabili, borghesi che pur restando in Iran sono vissuti in una specie di emigrazione interna. Come l’architetta urbanista Taraneh Yalda. O attiviste sociali come Amene Shirafkan e Leila Arshad. Oppure giovani che anni fa erano stati arrestati perché attivisti studenteschi, come Abdollah Momeni.

La borghesia senza chador

«Perché dovremmo continuare a lasciare che gente molto meno preparata di noi decida le sorti di questa città?», dice Taraneh Yalda, laureata in architettura a Parigi, urbanista, autrice per il Comune di un molto lodato master plan per il riassetto dei quartieri più poveri del sud di Teheran, che però è rimasto sulla carta. La novità delle prossime elezioni è anche che donne borghesi come Taraneh, che avranno votato sì e no due volte in vita loro, la prima per Khatami nel 1997 e la seconda per Rouhani quattro anni fa, abbiano deciso di candidarsi. Jeans e maglietta scura, Taraneh si muove svelta in quello che chiama divertita il suo quartier generale, mentre mi fa vedere una foto del figlio entomologo che ha vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, offre ai visitatori un tè con un pane speciale che fa solo una pasticceria qui vicina, e posa per le foto che dovrà postare sul suo sito elettorale. La campagna elettorale viene fatta esclusivamente su internet.

Il suo quartier generale è nel centro popolare e commerciale della capitale, sulla via Jomhuri. «Copri di più i capelli», le raccomanda il fotografo. Ma lei obietta: « No, io sono così » . Non credo che abbia mai indossato un chador. Appartiene a quella borghesia iraniana benestante che aveva fatto la rivoluzione quando nessuno si aspettava che finisse con una teocrazia e poi è sempre rimasta esterna alla Repubblica islamica, vivendo un po’ nella diaspora e un po’ nei quartier alti di Teheran Nord, attingendo ai beni di famiglia e a qualche prestazione professionale. Certamente l’arrivo di Trump e le sue minacce di rivedere l’accordo nucleare spingono tutti – regime e outsider - a non prendere rischi, a consolidare il più possibile la stabilità di cui gode l’Iran in mezzo a un Medio Oriente dilaniato.

Una rielezione di Rouhani appare per questo il risultato più auspicabile. Alla popolazione, per quanto delusa di non aver visto dopo la cancellazione delle sanzioni l’atteso miracolo economico. E probabilmente anche ai massimi vertici, il cui cuore batte per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ( un religioso nominato l’anno scorso da Khamenei alla guida della potente Fondazione Astan-eQods di Mashhad). L’unico a uscire dal coro generale della prudenza è stato l’ex presidente Ahmadinejad che si è candidato nonostante i “ consigli” di Khamenei e in una conferenza stampa ha accusato il Leader di aver voluto lui il pugno di ferro contro l’onda verde del 2009. Ha ancora un certo seguito, avendo distribuito largamente sussidi a gente che non aveva mai visto vero denaro, e si aspettava forse una protesta da parte loro. Ma nessuno ha raccolto la provocazione.

« È incredibile, non ho più trovato nessuno. Tutti miei vecchi amici sono partiti. I miei coetanei, compagni di studi, tutti emigrati » dice Arianne Nassir, trentaquattro anni, tornata a Teheran dopo un lungo periodo passato in Italia. Molti giovani iraniani, soprattutto a Teheran, dopo le manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, non ebbero scelta: o la prigione o l’esilio. «Ho solo nuovi amici, che sono molto diversi da quelli che avevo – dice Arianne -. Si occupano solo di telefoni, di computer e di vestiti. Guai a mettersi sempre lo stesso vestito! Le ragazze spendono in vestiti e creme di bellezza tutti i soldi che hanno. Io non ero abituata così. Ci stiamo allineando a modi di vivere che già mi sembravano vacui in Italia».

D’inverno i giovani si ritrovano a sciare, d’estate nelle gallerie. Qualche volta al cinema, al teatro, a un concerto. «Ma si parla poco, diversamente dagli anni quando son partita» dice Arianne. «E la novità sono i nuovi ricchi, i rich kids che sono davvero come si vedono nelle caricature. I genitori hanno fatto una barca di soldi, pensano solo alla macchina, una Porsche, una Maserati è tutto quello che vogliono dalla vita. E i più ricchi, naturalmente, anche la casa. Hanno abitazioni dorate, marmi dappertutto » . Sono però più liberi di come eravamo noi, racconta. « La maggior parte convive. Alcuni con il consenso delle famiglie, altri in aperto contrasto con loro. E tra di loro ci sono molti figli e figlie di ayatollah e esponenti di spicco del regime » .

In Italia Arianne viveva in una città ligure, dove aveva anche trovato un lavoro che le piaceva, come istitutrice in un asilo, ma si è sempre sentita straniera. Ora è ritornata a Teheran, dove abita il padre, professore universitario, perché in Italia, se non hai conoscenze sei emarginata, dice. Anche a Teheran è così, anzi molto di più, ma lei lì confida nelle conoscenze paterne. Per il momento fa diversi lavori, tutti sottopagati: assistente per la campagna elettorale di una candidata, e collaboratrice in un progetto governativo per la promozione dei giovani talenti ( il ministero della cultura islamica sotto Rouhani punta molto alla promozione di giovani artisti iraniani). Spera però, vista la sua ottima conoscenza di diverse lingue, di poter aspirare presto a un lavoro interessante e pagato bene. Ogni giorno fa domande e colloqui di lavoro. A Teheran molte società internazionali hanno già aperto uffici ma, finché avranno paura che il governo Trump o i tribunali americani puniscano chi fa affari con l’Iran, nessuno investe. Né assume dipendenti.

Il tabù della droga

L’assenza di investimenti stranieri è l’accusa principale da cui deve difendersi il presidente Rouhani nei dibattiti elettorali: l’economia non è ripartita dopo la cancellazione delle sanzioni, la disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento, per ora sono arrivati solo beni di consumo per i ricchi che a loro volta hanno paura d’investire ma non sanno come spendere i soldi se non comprando appunto macchine di lusso o costosi profumi. Così Rouhani viene accusato dagli avversari di aver ceduto all’Occidente in cambio di una bottiglia d’acqua di colonia.

Leila Arshad ha avuto tanti fastidi con le autorità per le sue attività di operatrice sociale che è riluttante a parlare di sé anche ora che si è candidata al municipio di Teheran. Deve incontrare ancora tante resistenze, se una lezione che doveva tenere al Politecnico Amir Kabir è stata cancellata, e solo con un’ora di ritardo Leila ha potuto convincere i dirigenti del Politecnico a lasciarla parlare. Arshad fin dagli anni 90 era stata la prima a sollevare il problema dei bambini abbandonati per strada e a chiedere al governo di far qualcosa per loro. Dieci anni fa ha fondato una organizzazione non governativa che opera in uno dei quartieri più poveri e desolati di Teheran Sud. In mezzo a un terreno polveroso la casa circondata da una ringhiera di metallo ospita donne con un terribile segreto. Sono donne drogate, un numero che cresce ogni giorno. Per gli uomini qualche istituzione che si prende cura di loro c’è, ma per le donne l’uso della droga è talmente tabù che né loro ne parlano né se ne può parlare in pubblico.

Quando Leila aprì l’istituto la polizia agiva solo arrestandole e le famiglie avrebbero preferito saperle morte. La svolta è avvenuta quando Teheran rischiò un’epidemia di Aids. «A quel punto - dice Leila - anche le autorità hanno cominciato ad ammettere che la dipendenza è una malattia, non un crimine » . Ma l’argomento resta così sensibile che comunque Leila mi chiede di evitare di menzionare il nome della clinica. Ancora oggi si legge sui giornali conservatori che la dipendenza delle donne dalla droga è un trucco dei nemici per attaccare «i valori islamici delle famiglie iraniane».

Le stime più contenute, quelle interne dell’ Iran’sDrug Control che sono molto inferiori a quelle internazionali, parlano di 3 milioni di drogati su 76 milioni di abitanti di cui un terzo donne. Alla clinica avevano cominciato distribuendo metadone, ma le ragazze venivano arrestate quando uscivano e dopo mesi di prigione tornavano a casa in condizioni peggiori di prima. Così Arshad ha cambiato strategia e nella clinica si occupano solo di chi ha già fatto il passo della disintossicazione: per aiutarle a restare pulite, trovare qualche lavoro, e dare assistenza ai figli. L’oppio e l’eroina afgani passano dall’Iran per raggiungere i mercati globali.

Sotto gli occhi della Nato la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è decuplicata in questi anni, raggiungendo vette mai sfiorate prima. Così in Iran trovi la droga dappertutto, costa poco, te la offrono perfino nei saloni di bellezza. Gli uomini trovano sempre qualcuno che gli propone di vendere droga in cambio di una dose. Sono loro i primi a drogarsi, di solito, poi spingono le donne a farlo, mogli e figlie, perché poi le faranno prostituire per avere la droga assicurata.

Mentre io e Leila parliamo bussa un bambino con la madre, sono venuti a salutare. Una storia terribile: lei aveva partorito nel parco e voleva vendere il bambino per procurarsi la droga. Anche nel suo caso era stato il marito a dargliela, poi erano andati ognuno per la propria strada. Loro l’hanno salvata, ha seguito il programma di riabilitazione, imparato un mestiere ed è andata a cercare il marito per convincerlo a smettere e c’è riuscita. E il marito per riconoscenza ha adottato il bambino che non era suo. Ora lavorano entrambi per Medici senza Frontiere. Una storia a lieto fine, ci sono voluti otto anni.

All'inizio non era così

Maryam Khanon ha 45 anni, tre figlie, due sposate e con gravi problemi come lei. Si alza alle cinque, va a lavorare al Centro Nord, fa servizio da diverse famiglie, non finisce mai prima delle dieci di sera. Poi riprende una serie di taxi collettivi, perché a quell’ora di autobus non ce ne sono più e torna a casa. E la mattina dopo ricomincia. Il marito è drogato, per guadagnare qualcosa è andato in Afghanistan con degli amici a procurarsi la droga e poi è rimasto inchiodato. Maryam si è rifiutata di prenderla, lui è andato via di casa, torna ogni due, tre mesi a farsi dare un po’ di soldi. Una delle figlie sposate è nella stessa sua situazione. Ma forse la figlia divorzierà. La droga è condizione sufficiente per pretendere il divorzio e tenersi i figli. Maryam invece, alla signora per cui lavora e che la spinge a divorziare anche lei invece di mantenere un marito come il suo, risponde di no. Per lei il divorzio è una cosa brutta. E una donna divorziata non vale più nulla.

La confessione di Susan è venata dalla tristezza ma anche dall’orgoglio. « Mi sento a volte come Don Chisciotte, soffro di nostalgia, la mia è la generazione che ha creduto nella rivoluzione, ma mia figlia pensa che abbiamo sprecato la nostra gioventù. Nei sui occhi leggo un velo di rimprovero o di compatimento, mentre noi eravamo orgogliosi di aver preso parte a una rivoluzione che è stata una delle grandi insurrezioni della storia del ventesimo secolo, un grande movimento popolare e non sanguinoso. Poi fu ridotto a movimento esclusivamente religioso, ma all’inizio non era così ».

Con Susan Shariati ci incontriamo sempre nello stesso caffè di fronte a casa sua, dentro il parco di una vecchia villa che ospita il museo del cinema. Susan Shariati è tornata in Iran dall’esilio parigino alla fine degli anni 90, insieme con la madre e le sorelle. Una delle strade principali di Teheran è intitolata a suo padre, Ali Shariati: un lungo viale che attraversa la città da Sud a Nord, e c’è anche un piccolo museo nella casa dove la famiglia aveva abitato mentre Shariati si nascondeva o era nelle prigioni dello scià. Si potrebbe perciò immaginare che il filosofo, considerato l’ispiratore dei rivoluzionari del 1979, sia tenuto in grande considerazione dal regime, ma l’apparenza inganna, come spesso accade per tante cose in Iran. Per il regime, Shariati è un intellettuale scomodo. I suoi libri sono stati a lungo vietati, in particolare “Religione contro la religione”. «Shariati era un intellettuale degli anni Sessanta - dice Susan -. Troppo anticlericale per piacere al regime.

Oggi i giovani hanno ricominciato a leggerlo, soprattutto gli scritti letterari, i romanzi, meno quelli di carattere saggistico». Era un umanista che mette l’uomo al centro del suo pensiero. Un religioso la cui idea di Dio è spirituale e non temporale, era contrario al velayat-e faqih, l’autorità del Giurista Supremo instaurata da Khomeini. Prima di Khomeini gli sciiti avevano sempre creduto che in assenza del Tredicesimo Imam - il Mahdi, che alla fine dei tempi riapparirà nel mondo a portare il bene - il clero doveva limitarsi alle mansioni di proteggere il popolo e salvaguardare la fede, senza partecipare direttamente agli affari dello Stato. Questa dottrina “quietista” fu rovesciata da Khomeini che dall’esilio di Najaf, dopo essere stato cacciato dallo scià per le sue attività politiche, teorizzò il governo diretto del clero.

Socialisti timorosi di Dio

È vestita come se fosse a Parigi, un impermeabile chiaro, pantaloni e un foulard in testa. Delle tre sorelle, Susan è quella che si è presa l’incarico di rivedere e pubblicare tutti gli scritti del padre. « Shariati ha parlato per primo di politicizzazione della religione, ma se si guarda che cosa è diventato oggi l’Islam politico si capisce quanto fosse diversa la sua visione del mondo. Spiritualità, uguaglianza, libertà erano i tre pilastri del suo umanismo islamico radicale, tutto il contrario di quello che oggi è l’Islam politico». Di formazione marxista, Shariati criticò anche la democrazia liberale: senza uguaglianza sociale non è che demagogia, scrisse. Già il nonno, un seguace di Mossadeq, aveva cresciuto a Mashhad una generazione di antimonarchici, «socialisti timorosi di Dio» li definiva.
Essere di sinistra è una tradizione di famiglia. Anche per Ali Shariati la religione doveva lottare contro l’oppressione e le disuguaglianze nella società e liberarsi dall’osservanza pedissequa della tradizione. Si può rompere la forma per mantenere il contenuto, diceva, tutto il contrario di chi obbliga la società a seguire alla lettera la sharia. «La ribellione era per lui il perno della libertà di scelta. Mi ribello dunque sono. Come per Camus».Susan insegna storia. «La generazione di questi ventenni – dice guardando le ragazze e i giovani che affollano il caffè – è la terza generazione dopo la rivoluzione, ha una mentalità completamente diversa dalla nostra. La mia è una generazione politica, nostalgica della politica; quella dei miei figli è antipolitica, loro non capiscono quale senso abbia avuto una lotta che ha finito per limitare la loro libertà. I ventenni sono al di fuori della politica. Vivono come vogliono e pensano che prima o poi la politica si adeguerà».

I giovani vanno a votare, quando ci vanno, ma solo per evitare il male peggiore. Votarono per Rouhani nel 2013. Il 19 maggio lo rivoteranno, anche se nei social media l’eroe del momento è il vicepresidente Jahangiri, che è stato presentato dai moderati solo per avere un’alternativa nel caso che Rouhani venisse rifiutato dal Consiglio dei Guardiani. Nei dibattiti elettorali televisivi si è guadagnato un grande seguito per il suo coraggio. «Io sono un riformatore » ha detto senza giri di parole, e se si pensa che il riferimento principale dei riformatori, l’ex presidente Khatami, non deve essere nemmeno nominato in pubblico, Jahangiri ha dimostrato una capacità di rischiare che ha suscitato ammirazione.

Il caffè della Casa del Cinema è un posto per giovani, come i tanti caffè di Teheran spuntati come funghi negli ultimi anni. Le ragazze si conoscono e si salutano con particolare calore, come se non si vedessero da tempo o fossero appena sfuggite, fuori, a una vita ostile da cui non è facile mettersi in salvo. Lo stesso sentimento che si ritrova al teatro. Anche il teatro è frequentato esclusivamente da giovani che sembrano liberarsi in quelle sale buie delle strettoie delle proprie vite, vedendole rappresentate.

A Teheran ci sono almeno una ventina di teatri privati, allestiti negli appartamenti trasformati in associazioni o club. Plateau, li chiamano, memori che il francese era stato un tempo la lingua franca dell’aristocrazia. Con un’amica vado a vedere Bipedar, orfano, un lavoro teatrale che in queste settimane ha grande successo e che si tiene al Teatro Comunale, il più importante della città, anche se in una piccola sala. È recitato da attori di primissimo ordine, tutti maschi, anche nelle parti femminili, perché ci sono troppi momenti di contatto e il codice iraniano non permette che uomini e donne si tocchino in pubblico. È tratto da un antica favola iraniana su un lupo e una capra, molto più complicata di quella di Esopo. Qui la capra sposa il lupo per vedere di fermare i suoi tentativi di divorare i suoi figli capretti, ma alla fine il lupo mangia l’erba e i capretti diventano carnivori. Metafore sempre più prossime alla vita reale. Di tutte le arti il teatro è per gli iraniani allo stesso tempo quella più vicina e quella più distante, perché mette in scena la vita in un Paese dove la vita viene messa in scena ogni giorno. Il regime tiene tutto sotto controllo, anche se negli ultimi anni è diventato molto più liberale. E in fondo che l’Iran sia ammirato nel mondo oltre che per la cultura millenaria per le sue prove di modernità fa piacere anche ai vertici della Repubblica islamica.

La mia amica è una che riesce – ce ne sono pochi - a mantenere un equilibro tra la propria libertà e gli arbitrii del regime. Si attiene alle regole e pretende che il regime si comporti con lei con altrettanta lealtà. Non sempre ci riesce ma spesso sì. Antonia Shoraka, questo il suo nome, ha fatto il liceo negli anni Ottanta ovvero subito dopo la rivoluzione islamica e nel pieno della guerra con l’Iraq. Un periodo che lei chiama «oscuro per via della guerra, delle sanzioni, della mancanza di generi alimentari e per la chiusura culturale » . « Mi ricordo – dice - che era rigorosamente proibito guardare film occidentali e le videocassette venivano piratate. Io e le mie compagne di scuola se ce ne prestavano alcune, dovevamo nasconderle addosso perché all’ingresso del liceo facevano l’ispezione corporale. Nascondere una cassetta era un grande rischio perché se fossi stata scoperta con una videocassetta tra la schiena e la cintura dei pantaloni, rischiavo di essere privata della possibilità di entrare all’università dopo la maturità. Il criterio di ammissione era l’idoneità morale ed era la preside del liceo a confermarla. E non l’avrebbe mai fatto se avesse scoperto la cassetta. Le ispezioni non venivano fatte solo per scoprire le videocassette, ma anche perché all’epoca erano ancora attivi gruppi dell’opposizione armati come il MKO e i paramilitari comunisti che facevano saltare in aria un obiettivo un giorno sì e uno no, perciò all’entrata delle scuole e degli uffici governativi i controlli erano severi per vedere se non entrassero armi o anche solo volantini anti regime. Nemico, doshman, era la parola che risuonava più spesso nell’au-
la». Antonia ricorda anche le gite scolastiche al Behesht-e Zahra, il cimitero , chiamato Paradiso di Zahra, dove seppellivano i martiri, i caduti in guerra. Le scolaresche venivano fatte scendere una ad una nelle tombe vuote, per provare che cosa significa l’estasi del martirio.

« Secondo me - dice Antonia -, una delle maggiori difficoltà’ dell’Iran di oggi è l’incapacità di una gestione sistematica. Solo così si potrebbe salvare il paese dalla dispersione delle energie e dei beni materiali. Finché non ci saranno le persone giuste nei posti cruciali, veramente esperte, e finché non ci sarà un sistema di controlli veramente efficace e capace di punire i corrotti e i trasgressori, domineranno coloro che hanno più influenza, non importa quanto incapaci, e i loro protetti, e tutti continueranno ad aggirare la legge senza risponderne». Ma Antonia ha speranza nelle donne e nei giovani. « Più si va avanti più la gente prende coscienza dei propri diritti e sopratutto impara come muoversi in un sistema dove un no non e’ mai un vero no come nemmeno un sì è mai un vero sì». Questa è la regola che la guida. È diventata di recente capo del dipartimento di italianistica dell’università Azad, ha un ufficio di traduzioni legali, e lavora come critico cinematografico, scrivendo recensioni sul cinema iraniano su giornali e riviste come
e
Shargh.
Se tenesse a pieno tempo l’ufficio di traduzioni legali guadagnerebbe meglio, ma le si ottunderebbe il cervello, dice. E per questo preferisce fare il critico, che del resto fa molto bene. «Mi piace partecipare a dialoghi alla televisione o alla radio per aver modo di scambiare idee con i nostri registi che in questo momento rispecchiano nel modo più sensibile la situazione del nostro Paese. E anche parlare nei centri culturali dove ci sono i giovani. Solo così si può capire l’Iran, vivendolo tra la gente».

La stella del cinema

Al centro culturale di Araf Baran brilla una stella. È l’attrice Fatemeh Motamed Arya, che gli amici chiamano Simin. Presenta il suo ultimo film premiato al festival Fajr, Abijan. Un nome femminile. È la storia di una donna che si dipana in una grande casa durante la guerra. Gli otto anni della terribile guerra contro Saddam Hussein continuano ad essere una fonte importante per il cinema iraniano. Abijan vive in una di quelle vecchie famiglie patriarcali iraniane fatte di fratelli, cugini, zii che litigano, si disputano, amoreggiano. Lei, che è stata lasciata dal marito per un’altra moglie più giovane, ha un grande dolore, quello del figlio al fronte di cui da tempo non si hanno notizie. Abijan rifiuta l’idea che il figlio sia morto. La scena più bella del film è quando la donna legge il suo nome sulla lista dei prigionieri di Saddam – il figlio è vivo anche se privo di una gamba -, e comincia a danzare con questo foglio in mano, arrivando fin nel cortile.

Acclamatissima, amatissima, conosciutissima, Simin ha un carisma, una luminosità ineguagliati. «Non avrei mai potuto dire di no a un film che lancia un messaggio contro la guerra, non solo la guerra contro l’Iraq di allora ma tutte le guerre. Il mondo dovrebbe vergognarsi oggi della guerra in Siria come avrebbe dovuto vergognarsi allora della guerra voluta da Saddam, invece di appoggiarlo ». Simin ha sempre detto quello che pensava, sempre impegnata, per la pace e per le riforme nella Repubblica islamica, attaccata per strada dai basiji li ha sempre affrontati con coraggio e cercando di parlare con loro, di convincerli che la verità non è una sola e la violenza non è la soluzione. Dopo il 2009, quando aveva fatto lo spot elettorale per Moussavi, Ahmadinejad le fece togliere il passaporto e le fu vietato di lavorare nel cinema. Furono anni difficili ma lei non si arrese e con un piccolo gruppo si mise a recitare Madre Coraggio in un teatrino di Teheran.

«Anche le giovani donne di oggi dimostrano coraggio», mi dice. Con noi c’è una giovane scrittrice, Nasim Marashi, nata nel 1984, il cui primo libro ( tradotto in italiano da Parisa Nazari per Ponte 33) ha avuto un successo straordinario alla Fiera del Libro che si è chiusa in questi giorni, e dove l’Italia era il primo Paese occidentale ad essere ospite d’onore. Payizfasl- e akhar- e salast, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno, è il titolo del libro, premiato con il più importante premio letterario iraniano. Racconta di tre donne, Leila, Shabane e Roja, tre ragazze che hanno grandi aspettative rispetto alla vita ma devono fare i conti con gli ostacoli che la vita presenta. Leila, che ha un matrimonio felice, viene però abbandonata dal marito quando questi decide di proseguire gli studi all’estero e lei invece non se la sente di lasciare l’Iran. Laureata in ingegneria, non vuole continuare quella professione perché ama scrivere, e comincia a lavorare per diversi giornali.

Quando tutti saranno costretti a chiudere, durante la repressione del 2009, la sua vita è distrutta. Shabanè ha un fratello handicappato di cui si prende cura, Roja mette tutto l’impegno che può per ottenere un visto e studiare in Francia, nonostante debba lasciare sola a Teheran la madre vedova. Non dorme la notte per essere alle quattro di mattina a fare la fila davanti al consolato francese. Ma arrivano i disordini del 2009 e non otterrà il visto. «Tutte e tre sono parte di me», mi spiega Nasim. Anche lei è laureata in ingegneria, anche lei ha chiesto un visto per Parigi, anche lei sognava di lasciare la vita vecchia per quella nuova. Ma il diritto alla felicità è un diritto che si paga caro. Nasim è però ottimista sul futuro: « Il futuro come lo vogliamo si sta realizzando» ha detto al pubblico che la stava ascoltando. Erano quasi tutti ragazzi.


«I Comitati promotori proseguono il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari».

il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)

Il bello (si fa per dire) arriva ora. Consegnate ai presidenti di Camera e Senato le firme della petizione “Restituire la sovranità agli elettori”, il lavoro del Comitato per il No e del Comitato contro l’Italicum è tutt’altro che finito. Anzi, si può dire che comincia adesso e non saranno rose e fiori: la strada per arrivare ad una legge elettorale democratica e coerente con i principi costituzionali – che metta gli elettori in grado di eleggere un parlamento realmente rappresentativo e restituire credibilità alle istituzioni – resta irta di ostacoli.

Dopo le primarie del Pd – che anziché portare chiarezza come molti speravano e altrettanti millantavano, stanno aggiungendo confusione a confusione – le cosiddette trattative per arrivare ad un testo base per il lavoro della Commissione competente alla Camera sembrano piuttosto mercanteggiamenti da suk: l’offerta cambia a seconda dell’interlocutore, a conferma che la proposta renziana del modello tedesco era solo una boutade.

E pazienza se si sta parlando della legge elettorale, cioè la regola fondamentale della democrazia: non è all’orizzonte una visione complessiva e di lungo periodo su che tipo di parlamento (e dunque di istituzioni) si vuole. Ma questo è anche un modo per tenersi le mani libere e prendere tempo dicendo tutto e il contrario di tutto (dicesi menare il can per l’aia) e magari dimostrare che l’accordo tra i partiti è impossibile, quindi tanto vale andare a votare a ottobre.

Ecco perché è vietato abbassare la guardia e i Comitati proseguiranno il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari. La settimana scorsa si è svolto un primo appuntamento importante: un convegno nel corso del quale i Comitati si sono confrontati con le forze politiche, quelle che hanno aderito alla campagna per il no nel referendum costituzionale. Nell’incontro, i Comitati hanno ribadito gli argomenti e le ragioni che hanno sostenuto la petizione sulla legge elettorale da ultimo presentata ai presidenti di Camera e Senato.

È stata rivolta alle forze politiche intervenute una forte sollecitazione a impegnarsi soprattutto per una legge di impianto proporzionale che favorisca la piena rappresentatività delle assemblee elettive e che riconosca la libertà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti cancellando il voto bloccato sui capilista. È stata sottolineata la inaccettabilità di ipotesi, pur emerse nel dibattito di questi giorni, come l’abbassamento della soglia del premio di maggioranza (o comunque la conferma del premio) o il rifiuto di aprire alle coalizioni. Ipotesi che andrebbero soprattutto a danno delle forze politiche minori. I direttivi hanno confermato il proprio perdurante impegno per una legge elettorale pienamente conforme alla lettera e allo spirito della Costituzione, di cui il paese ha estremo bisogno.

Per meglio portare avanti questo impegno, i Comitati hanno anche deciso di riorganizzarsi. La riunione congiunta dei direttivi di giovedì scorso ha avviato il percorso di unificazione delle due associazioni che sarà sancita solo dopo l’assemblea nazionale dei comitati territoriali (prevista a metà giugno) con le modifiche statutarie necessarie. Nella riunione, i direttivi hanno concentrato la loro attenzione proprio sulla legge elettorale, partendo dagli incontri con i presidenti di Camera e Senato, cui sono seguiti quelli con i presidenti delle Commissioni Affari costituzionali dei due rami del parlamento.

È stato inoltre deciso di formare due gruppi di lavoro per seguire passo passo l’iter della legge elettorale prima alla Camera poi al Senato, ipotizzando anche un rilancio della raccolta delle firme e la possibilità di organizzare iniziative e manifestazioni durante l’iter della legge elettorale. Perché le proposte in campo sembrano voler ripetere gli errori di Porcellum e Italicum: tre leggi elettorali incostituzionali una di seguito all’altra rappresenterebbero davvero un non invidiabile primato europeo.

«Alla paura delle rapine si risponde con una legge spot sulla legittima difesa. Sull’immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza. Caro Minniti, non c’è più un barlume di progressismo nel governo». "Progressismo"? ma il modello è Salvini.

la Repubblica, 12 maggio 2017

Il Forum con il ministro dell’Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l’esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. “Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia”.

Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l’impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole.
E così le imbarcazioni delle ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché “vite” è parola troppo generica) diventano “taxi” nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l’inchiesta della Procura di Trapani secondo cui “in qualche caso navi delle ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera” e quindi “per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana”, diventa: le ong hanno rapporti con gli scafisti.
I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell’indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l’archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l’espressione “taxi del Mediterraneo” vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l’Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto.
E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un’emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con “un vecchio compagno”, capì che “la sicurezza è un sentire”, che “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento”. E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la “scienza” che contempla solo lo stato d’animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell’opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili.
Quindi se l’opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall’Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell’Italia) che gestire problemi “in casa”. Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall’Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui – tolte poche eccezioni – assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi.
Lo stesso vale per la legittima difesa: se l’opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente “inutile e confusa”, che importa che “già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa”, serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d’armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c’è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all’introduzione dell’inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l’introduzione del reato di tortura, restano ferme.
Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all’istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall’Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall’altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza.
Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza “oclocrazia”, prendendo il termine in prestito da Polibio , ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma “masse” suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio.
Eppure l’oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché – come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell’uguaglianza, c’è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri.
Dire che i dati non servono, dire che l’analisi non serve, dire “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento” significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta.

Fabrizio Gatti intervista Mohanad Jammo è il dottore che nel 2013 lanciò l’allarme. La nave, carica di 480 profughi dalla Siria, stava affondando. Salvare vite umane era l'ultima preoccupazione delle autorità italiane e maltesi che ne avevano la responsabilità. E non intervennero.

la Repubblica, 12 maggio 2017

IL dottor Mohanad Jammo non risponde al telefonino. Subito dopo manda un selfie su WhatsApp in cui appare in camice verde, mascherina su naso e bocca, la cuffia da chirurgo in testa. E il messaggio: «Mi scusi, sto per entrare in sala operatoria». La sua voce, nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica, ha fatto il giro del mondo: dal Washington Post alla Bbc ad Al Jazeera e molti altri l’hanno rilanciata in tv, alla radio e su Internet.

«La barca sta andando giù, ti giuro, c’è circa mezzo metro d’acqua nella parte bassa. Stiamo morendo, per favore», grida al telefono satellitare il dottor Jammo dal peschereccio su cui lui, sua moglie, i loro tre bambini e altri 480 profughi siriani stanno affondando. E l’ufficiale nella sala operativa della Guardia costiera italiana, impassibile: «Vai, vai, chiama Malta. Loro sono lì, sono vicini». Ma non è vero. La nave più vicina è un pattugliatore militare italiano. Si chiama Libra, è a poche miglia, meno di un’ora e mezzo di navigazione. Malta è a 118 miglia. Lampedusa a 61. Il mare quasi calmo. È il pomeriggio dell’11 ottobre 2013. Il peschereccio si rovescia dopo cinque ore di telefonate e di inutile speranza, con la Libra all’orizzonte in attesa di ordini. Duecentosessantotto morti, sessanta bambini annegati tra i quali Mohamad, 6 anni, e il fratellino Nahel, 9 mesi, due dei tre figli di Mohanad Jammo. Un disastro che ci ricorda quanto sia pericolosa la mancanza di collaborazione tra governi europei, comandi militari e autorità di soccorso nell’affrontare la tragedia del nostro tempo.
«Penso che ci abbiano lasciati affondare e che credessero che così poi nessuno avrebbe raccontato la storia. Non mi so dare altre spiegazioni», dice al telefono Mohanad Jammo, 44 anni, non appena esce dalla sala operatoria dell’ospedale dove oggi lavora. Ad Aleppo dirigeva l’unità di terapia intensiva e il servizio di anestesia e antirigetto del team per i trapianti. Ora vive in Germania, la patria che l’ha accolto con la moglie e l’unica figlia sopravvissuta, gli ha insegnato il tedesco e gli ha dato i mezzi perché tornasse a fare bene quello che sa fare.
Ha visto il video, ha risentito la sua voce?
«Sì, ho visto il film. Ma mi lasci dire, anche se sapevo che c’era stata qualche negligenza nei soccorsi, mi ha scioccato. Non immaginavo che qualcuno potesse sostenere di voler salvare centinaia di persone con la sua sola decisione, semplicemente lasciandole morire».
Nelle sue chiamate lei ripete più volte di essere un medico. Cosa si aspettava di ottenere? «Credibilità. Continuavo a dichiarare che sono un medico, sperando di ottenere credibilità perché sentivo che il destinatario delle mie chiamate non prestava molta attenzione a quello che stavo dicendo».
Sono molti i medici a bordo di quel peschereccio. Partono alle dieci della sera prima da Zuwara in Libia. E vengono presi a mitragliate nella notte da miliziani libici che, su una motovedetta fresca di fabbrica, vogliono fermare il barcone per rapinare o rapire alcuni passeggeri. I proiettili sparati sotto la linea di galleggiamento aprono i buchi nello scafo da cui comincia a entrare l’acqua. Due bambini sono gravemente feriti. È la prima ondata di massa di profughi, le cui case sono finite in mezzo ai combattimenti tra i ribelli e l’esercito di Damasco. Se ne vanno insegnanti, professori universitari, la borghesia di Aleppo. La Svezia ha appena annunciato che ai richiedenti asilo siriani sarà dato un permesso di soggiorno permanente. Mohanad Jammo, che allora ha 40 anni e i suoi amici e colleghi Mazen Dahhan, 36, neurochirurgo, e Ayman Mustafa, 38, chirurgo, si informano. E scoprono che però per arrivare in Svezia, così come in Germania o in Italia, non esistono vie legali. C’è soltanto la rete dei trafficanti libici. Loro sono già tutti in Libia con le famiglie perché, dopo i primi due anni di guerra ad Aleppo, rispondono all’invito della comunità medica libica che vuole riaprire gli ospedali. È un periodo di pace apparente. E infatti la guerra riesplode anche in Libia. I nuovi integralisti infastidiscono le loro mogli. Un capobanda locale vede la famiglia Jammo e pretende che, per il suo primogenito, Mohanad gli prometta in sposa la figlia di cinque anni. La piccola è bionda, la guardano tutti. Non resta che partire.
Il 3 ottobre leggono su Internet che un barcone è affondato davanti a Lampedusa e ci sono centinaia di morti. La paura fa cambiare idea. Ma arrivano notizie di combattimenti sempre più vicini. Le famiglie dei medici passano le giornate barricate in casa. E l’amico Ayman Mustafa una mattina in ospedale fa capire che non c’è altra soluzione: «Qual è la percentuale di rischio della traversata?» chiede a un certo punto. La calcolano: 366 morti a Lampedusa, su trentamila persone sbarcate in Italia dall’inizio dell’anno. L’1,2 per cento. «Siamo chirurghi», concludono subito dopo: «E in chirurgia un margine di rischio dell’1,2 per cento è praticamente nullo». Vendono le loro cose.
Pagano di più per essere imbarcati su un peschereccio sicuro. Il pomeriggio prima di partire i trafficanti li rinchiudono dentro una casa in costruzione. Un solo rubinetto e forse un buco da qualche parte per centinaia di persone. Due giorni senza mangiare e senza poter nemmeno far pipì. Mohanad Jammo ha comunque pensato a tutto. Anche al biberon e al latte in polvere per il piccolo Nahel. In un saccone di cellophane ha messo i giubbotti di salvataggio che ha comprato per tutta la famiglia. Ma nella notte s’addormentano sfiniti e glieli rubano. La scatola di latte in polvere gliela sequestrano all’imbarco: «Non vi serve, tanto tra poche ore sarete in Italia», gli dice un libico.
Come ha spiegato a sua figlia quello che è successo?
«Chiedo scusa, ma non voglio parlare della mia famiglia. Hanno fin troppi ricordi e troppo dolore ».
Come vi trovate ora?
«Qui in Germania ci troviamo bene. Ho cominciato a studiare tedesco fin dal mio arrivo a fine 2013. Ho poi superato un esame e nel novembre 2014 sono tornato a fare il mio lavoro di medico. L’autorità tedesca ha riconosciuto i titoli di studio che avevo in Siria ».
Cosa le è rimasto dentro diquel viaggio?
«Senta, io sono scappato dalla guerra perché non sono un fighter, un combattente. Io non posso combattere contro nessuno. Un essere umano non è un nemico. No, io sono un medico. Lavoro nel mio campo, conosco a fondo la mia specializzazione e questo è tutto ciò che posso fare. Ma vivere nel mezzo dei combattimenti, no, non posso. Non c’è nulla che possa valere la pena tanto da lasciare le nostre famiglie per andare in guerra».
Salirebbe a bordo di un barcone se si trovasse oggi dall’altra parte del Mediterraneo?
«La mia meta era trovare una vita migliore per i miei bambini. Ora, nonostante quello che è successo, la penso allo stesso modo e prenderei le stesse decisioni. Non cambierò i miei principi e non darò mai il mio sostegno a nessuna parte in nessuna guerra. Non credo nella guerra».
Il dottor Dahhan ha perso nel naufragio la moglie e i tre bambini di 9, 4 e un anno. Il dottor Mustafa la moglie e la figlia di 3 anni. È ancora in contatto con loro?
«Mazen e Ayman sono amici che erano con me sulla barca. Siamo in contatto e so che anche loro stanno lavorando duro per riavere la vita che meritano».
In tutta Europa molti pensano che stiano arrivando troppi profughi.
«Mi spiace, ma non credo in queste definizioni, così come non credo nei confini. Chi dà a lei il diritto di vivere e lavorare qui e di respingermi? Chi pensa che i probleminelle altre parti del mondo siano isolati da quello che succede qui si sbaglia. Così come credo che i governi di molte nazioni europee abbiano un ruolo enorme, negativo o positivo, in ciò che sta succedendo là
Il dottor Jammo torna al suo lavoro. I suoi piccoli Nahel e Mohamad sono rimasti per sempre a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Come quasi tutti gli altri sessanta bambini annegati, mai più ritrovati. E come Mabruk, significa augurio. È nato pochi minuti prima delle 17.07, l’ora del ribaltamento. Il terrore di quei momenti ha provocato il parto. Quando sentono le grida della madre, la pediatra Ola Mouaffek Shihab Eddin, 32 anni, e la ginecologa Naya Raslan, più o meno la stessa età, lasciano le loro famiglie e scendono sotto coperta per far nascere Mabruk. Sanno come finirà, ma non si tirano indietro. Annegheranno anche loro. Due gesti di eroismo in un mare pieno di vigliacchi.

La grande regressione». la Repubblica, 11 maggio 2017 (c.m.c)

Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro. Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”, in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.

L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.

A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.

In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.

Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.

Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.

Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.

Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».

Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).

Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.

Traduzione di Pietro Terzi

«Senza regole: arrivo e smistamento dei migranti in mano a milizie e amministrazioni corrotte. E il mare restituisce sempre nuovi morti».

il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2017 (p.d.)

“Sono riemersi altri corpi sulla spiaggia. Sono ancora pochi. Ma immagino che molti altri ne arriveranno”, ha raccontato al Fatto sabato sera Ibrahim Mahjoob, direttore del centro di detenzione per migranti donne di Surman, piccola città sulla costa libica 60 km a ovest di Tripoli. Sarebbero 13 i corpi riemersi sul tratto di costa di Surman nelle stesse ore in cui un numero non precisato di corpi senza vita sarebbe stato rinvenuto sulla spiaggia di Zawiya, una ventina di chilometri più a est, nei pressi di Zuwara, al confine con la Tunisia. Nelle solo città di Zawiya circa 84 corpi sono stati rinvenuti dall’inizio dell’anno, come spiega il volontario della Mezzaluna Rossa di Zawiya, Mohamed Sifwa. “Tanti altri corpi sono in mare e la Guardia costiera li sta recuperando”. Corpi gonfi d’acqua, arsi dal sole e dalle acque del Mediterraneo, resi irriconoscibili. Così uomini, donne e bambini diventano numeri, quelli delle vittime registrate da istituzioni europee e libiche e organizzazioni non governative.
“Il naufragio potrebbe essere avvenuto circa10 giorni fa”, spiega Mahjoob. Secondo il direttore si tratterebbe di un gommone partito da Sabrata. Nota per le antiche vestigia romane, Sabrata negli ultimi due anni è divenuta il principale punto di imbarco delle carrette del mare. Qui trafficanti legati alla mafia nigeriana e sudanese gestiscono un giro di affari che lo scorso anno ha generato circa 150 milioni di euro, se si calcola una media di 400 euro per migrante su 180 mila arrivi nel 2016.
A Sabrata non esiste un’unità locale dei guardia coste, e quelle di Tripoli, Zawiya e Sabrata non entrano nelle acque territoriali della città vicina per non innescare tensioni e faide tribali, come nella migliore tradizione mafiosa. Mentre i guardia coste di Zawiya sono stati accusati più volte di essere in affari con i trafficanti di migranti di Sabrata, altre motovedette libiche lamentano la mancanza di mezzi economici e imbarcazioni per svolgere il loro lavoro, ed escono solo su segnalazione di mezzi in difficoltà al largo delle proprie coste.
Nel weekend le organizzazioni non governative hanno recuperato circa 6000 migranti al largo delle coste libiche. Nella stessa giornata, sul versante libico, 651 persone sono state recuperate dalla Guardia costiera di Tripoli. Nella conferenza stampa a Tripoli dopo il recupero dei migranti, il comandante della Guardia costiera della regione centrale, Rida Issa ha criticato le Ong: “Sono un segnale per i migranti che il viaggio fino in Europa è sicuro, perché sanno che non dovranno attraversare tutto il mare in piccole imbarcazioni”. “Tu arrivi ad Agadez e lì qualcuno garantisce per te fino all’Europa. E tu paghi quando arrivi salvo in Sicilia”, ha raccontato tempo fa al Fattoun giovane ghanese nel carcere per migranti di Triq Siqqa a Tripoli. L’anarchia ha lasciato spazio di manovra non solo alle milizie, ma anche e soprattutto alle organizzazioni criminali attive nella regione dell’Africa Subsahariana e nel Corno d’Africa. “A Sabrata ci sono uomini armati nigeriani a guardia dei casolari di periferia dove vengono stipate migliaia di migranti prima della partenza”, spiega una fonte di Sabrata: “Questo era impensabile fino a un paio di anni fa”.
L’internazionalizzazione del business ha portato a una sorta di industrializzazione. “Oggi il trafficante di migranti a Sabrata sa con largo anticipo quando arriverà il successivo carico di migranti. Prima arrivavano alla spicciolata”, rivela una fonte di Zuwara, dove le forze di sicurezza locali due anni fa sono riuscite a porre fine al business delle partenze.“La presenza di milizie che chiedono ciascuna una percentuale, lungo tutto il tragitto, fa aumentare esponenzialmente i costi delle varie tratte”. Prima il passaggio dei migranti da Sabha, città nel deserto, fino a Tripoli, veniva a costare ai migranti il prezzo del biglietto di un autobus o di un taxi collettivo. Oggi invece le organizzazioni criminali transnazionali si occupano anche di quella tratta e devono pagare il pedaggio ai vari gruppi armati. “Questo comporta una riduzione del guadagno dei trafficanti che operano sulla costa. Ecco perché i trafficanti riducono giorno dopo giorno gli standard per la traversata”, spiega la fonte: “Le missioni umanitarie ovviamente sono lì per aiutare. E solo quello possono fare, almeno fin quando la Libia non uscirà da questa crisi e sarà più stabile. Solo allora le istituzioni e il futuro esercito saranno in grado di mettere fine al governo delle milizie e scacciare le organizzazioni criminali che vengono da fuori”.
Israele Stato-nazione. La legge è il corollario di una graduale distruzione del tessuto democratico della società israeliana. Legalizza la «caratteristica nazionale dello Stato di Israele come diritto speciale del popolo ebraico», il che significa disattendere o negare i diritti civili di tutti quelli che ebrei non sono».

il manifesto, 10 maggio 2017
Alla proposta di legge del governo israeliano che sancirebbe una forma sottile di apartheid, l’opinione pubblica internazionale ha reagito in modo debole, senza allarmarsi troppo per il fatto che la vita in Israele è già diventata un’abitudine costante alla discriminazione e al razzismo.

La legge proposta dal deputato Avi Dichter del Likud, fatta propria domenica scorsa dal Comitato ministeriale per la legislazione e che è in via di esame alla Knesset, è chiamata «Legge della nazione». Dichter, in passato comandante dello Shin Bet (i servizi segreti), aveva già proposto la legge in precedenza, come deputato di Kadima, quando la formazione era guidata da Tsipi Livni.

La legge si riferisce a questioni ben note. Nel 1948 l’Onu sancì la creazione di uno Stato ebraico. L’olocausto era recente e ben presente negli animi, e molti dei caduti nella guerra di indipendenza erano persone sopravvissute ai campi di sterminio. La dichiarazione di indipendenza che assicurava un rifugio affidabile a tutti gli ebrei garantiva al tempo stesso eguaglianza e democrazia per tutti gli abitanti del paese, indipendentemente dall’origine e dalla religione di appartenenza.

Ma nel 1967 l’occupazione di nuovi territori significò una realtà molto diversa per milioni di palestinesi; l’occupazione militare delle loro terre li spogliò dei diritti umani e politici. L’occupazione compie mezzo secolo in questi giorni. La legge recentemente proposta è il corollario di una graduale distruzione del tessuto democratico della società israeliana. Si tratta di affermare e legalizzare la «caratteristica nazionale dello Stato di Israele come diritto speciale del popolo ebraico», il che significa in maniera pura e semplice disattendere o negare i diritti civili di tutti quelli che ebrei non sono.

Negli ultimi anni l’erosione della democrazia – ricordiamo la solfa continua dell’«unica democrazia del Medio Oriente» – ha avuto una netta accelerazione. Giorno dopo giorno, si è inasprita la guerra contro le organizzazioni israeliane impegnate sul fronte dei diritti umani e della democrazia, e contrarie all’occupazione.

Le decisioni contro questi gruppi aumentano e in alcuni casi non hanno solo l’appoggio della coalizione di fondamentalisti religiosi e fascisti; anche gli opportunisti di «centro» come Lapid e parte dei laburisti si accodano all’isteria anti-araba e anti-islamica. Ormai sono tutti terroristi che ci minacciano.

Ma la guerra contro il diritto democratico e la delegittimazione dell’opposizione di quei pochi israeliani che tuttora fanno ascoltare la propria voce si rafforzano quando si tratta di palestinesi, in Israele o nei territori occupati.

La legge approvata pochi mesi fa dal Parlamento – in attesa di convalida della Corte suprema – ha stabilito la legittimità del furto delle terre palestinesi.Per dirla in modo semplice e secondo la terminologia «legale», è ora possibile confiscare terre palestinesi, anche se sono state erroneamente occupate da coloni se l’occupante dimostra di averne in qualche modo bisogno. Il procuratore generale si è opposto al governo perché ritiene che questa legge non sia costituzionale; il governo sarà difeso da un noto e stimato avvocato…che si costruisce senza permesso una nuova casa nei territori occupati!

La nuova legge proposta dal governo è semplicemente un prologo: non si tratta solo dei cittadini palestinesi di Israele, l’obiettivo reale del governo è il sistema da imporre nei territori occupati da Israele. L’annessione dei territori, auspicata dalla destra radicale, aggiungerebbe alla popolazione dello Stato ebraico milioni di palestinesi ai quali, visto il razzismo imperante, sarebbe impossibile accordare uguali diritti.

L’apartheid di fatto diventerà, con la nuova legge, un apartheid di diritto. Non si tratta di un semplice cambiamento legale o della questione delle lingue ufficiali.

Questo è importante, ma perfino secondario rispetto alla questione essenziale: Israele, che discrimina in molti modi i propri cittadini di nazionalità palestinese e assoggetta milioni di altri palestinesi a un’occupazione violenta, ufficializzerà questa situazione.

Per riassumere: l’80% degli israeliani saranno cittadini privilegiati in uno Stato «democratico», il restante 20% saranno cittadini «accettati per necessità», milioni di altri saranno i nuovi soggetti dell’apartheid nelle sue attuali manifestazioni, pseudodemocratiche.

La «legge della nazione» non è solo l’apartheid in Israele; è il velato annuncio della costruzione legale che faciliterà l’annessione dei territori occupati nel 1967 e distruggerà le poche possibilità ancora esistenti di arrivare a un accordo di pace israelo-palestinese.

Ecco una vera e propria confessione pubblica, che sonda l’opinione della comunità internazionale. Il mondo ha accettato tante nostre violenze perché siamo «vittime del terrorismo»; vedremo ora come tratterà questa confessione di discriminazione ufficiale e «legale». Un preludio dell’annessione dei territori occupati.

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