La decisione della Corte di Cassazione sull’obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l’oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l’arte della distinzione: “valori” e “diritti”, “valori” e “diritto” sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti “valori occidentali”, un’espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista.
Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l’imputazione di portare un’arma senza avere il porto d’armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all’articolo 19 della nostra Costituzione — il kirpan non è un “oggetto” ma “uno dei simboli della religione monoteista Sikh”.
La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un’arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout.
Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell’aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d’acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi “oggetti” è un elemento essenziale per l’identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere.
La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L’Italia, viene detto, si è schierata con l’altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?.
L’Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l’articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di “valore” che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche.
Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l’Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e “valori” a cui questa recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie.
I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico.In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a “valori” intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l’appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l’affermazione del limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”) e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali.
Questi ultimi rendono purtroppo l’argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che “l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine” e, dall’altro, che “è quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”.
Quale è il “mondo occidentale” non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende.
Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai “valori” sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la “civiltà giuridica” di riferimento altrettanto “identitaria” della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto.
“Vogliamo accogliere” non è solo lo slogan in cui si è riconosciuta la manifestazione che ha sfilato nella mia città a inizio anno. È molto di più. “Vogliamo accogliere” è la nostra risposta, della cittadinanza e anche di molti sindaci, di fronte alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” con cui l’Europa tutta si deve confrontare.
Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché è nostro dovere. Siamo infatti noi, le città — e non gli Stati -, ad offrire un’opportunità reale di integrazione a immigrati e rifugiati. È nelle nostre strade e nelle nostre piazze che le persone smettono di essere numeri e diventano cittadini e cittadine. Ecco perché noi vogliamo e dobbiamo accogliere più persone e meglio.
Se non lo facciamo — se non ci impegniamo ad aprire la nostra comunità e la nostra società a chi lascia la sua casa e il suo Paese per cercare un’occasione di vita migliore nelle nostre città — , i nostri figli, i nostri concittadini ci chiederanno dove eravamo quando in Europa si alzavano muri e barriere contro quelli che fuggivano dalla guerra. Soprattutto ci chiederanno: che cosa avete fatto per evitarlo?
Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché l’appello del “popolo dell’accoglienza” che ha manifestato a Barcellona e che sfilerà a Milano per un “20 maggio senza muri” non lascia spazio a interpretazioni. Non abbiamo scuse per ignorarlo. Anzi, il coraggio, l’entusiasmo e l’apertura che così tante persone hanno dimostrato, dimostrano e dimostreranno ci spinge con forza a intraprendere azioni concrete e politiche.
Per questo motivo, serve l’aiuto e la collaborazione di molte altre città del mondo. Da Barcellona e Milano può nascere un network internazionale, in grado di indicare ai governi la via migliore da seguire per rispondere ai bisogni dei migranti, riconoscendoli come un’opportunità per la nostra società. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché nella gestione dei migranti l’Europa si gioca il proprio futuro e la propria credibilità. Le immagini che abbiamo visto in Italia, in Grecia e in altri Paesi stanno minando il progetto europeo e le sue conquiste; stanno mettendo in dubbio gli stessi principi fondanti dell’Europa. Oggi, davanti al pericolo di una “Europa- fortezza”, come città e come cittadini abbiamo la responsabilità storica di intervenire per cambiare la situazione. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo con serietà, ma anche con allegria ed entusiasmo. Perché le manifestazioni di Barcellona e di Milano altro non sono che una festa per i cittadini di tutto il mondo, un momento di incontro e di scambio, ricco di musica, colore, gioia e solidarietà.
Ecco allora che emerge con forza la necessità di ridare valore al Mediterraneo, di offrire al mondo un altro punto di vista per raccontare ciò che sta accadendo. Quel mare, che si è trasformato per molti migranti nel “mare della morte”, è infatti ancora il ponte, è il luogo in cui le culture si incontrano, è la ricchezza dei popoli che lo abitano. Affinché questa narrazione sia possibile ed evidente a tutti, le città devono unire le forze e continuare a essere un luogo di libertà che riconosce e garantisce i diritti a tutti coloro che in esse vivono. Per difendere tutto ciò, scendiamo nelle strade a manifestare. Vogliamo accogliere. Vogliamo continuare a farlo. E lo faremo, dando il nostro sostegno a Milano e a tutte le città che vorranno unire la loro voce alla nostra.
il manifesto, 17 maggio 2017
E così anche la Cassazione ha detto la sua su come debbono comportarsi gli immigrati. Chissà a quale fra i nostri valori si è ispirata. A quelli francesi? a quelli inglesi? Alla «superiore» civiltà?
Diverso l’approccio del Regno Unito: gli inglesi, infatti, non hanno mai ritenuto possibile che neri o gialli potessero diventare come i britannici, per cui – come scrisse Stuart Hall, il grande maestro dei post colonial studies – «hanno garantito la coesistenza fra la Legge indiana e quella di Sua Maestà britannica», lasciando che ciascuno, almeno nel privato, facesse come gli pareva dentro le proprie comunità. Affari di loro selvaggi.
Difficile dire quale delle due posizioni sia più razzista e occidentalocentrica.
La complessità del problema non va sottovalutata, perché fra l’altro tratta del rapporto fra diritto al rispetto della diversità e libertà di scelta culturale (delicato soprattutto per le donne), che rischiano di restare imprigionate nel ghetto della loro identità originaria. Questione non semplice e infatti ha prodotto anche – aihmé – qualche invocazione in favore di crociate per andare a liberare dal burka le donne afgane, con l’aiuto dei bombardieri Nato. Con lo straordinario effetto di aver moltiplicato bombe e burka.
Peccato che quando, nel 2005, l’Unesco, dopo anni di travaglio, varò finalmente la Convenzione sulla Diversità Culturale (con 197 voti a favore e i soliti 2 contro, quelli degli Stati uniti e di Israele) del problema si discusse invece pochissimo, e tutti si sentirono autorizzati a definirsi buoni perché plaudirono alla decisione Unesco. Senza rendersi conto che quella Convenzione toccava questioni di fondo, imponeva di ripensare la logica omogeinizzatrice propria agli stati nazionali, il concetto stesso di cittadinanza. Così come imponeva un mutamento delle politiche culturali pubbliche.
I sindaci più democratici si impegnarono, divisi in due categorie: quelli che si sono rivolti agli immigrati dicendogli con generosità che anche se “di colore”, visto che sono esseri umani, possono ambire a diventare come noi; e quelli che, al contrario, più generosi, hanno allestito spazi – per moschee o altro – affinché ciascuno possa coltivare a fini di autoconsumo la propria cultura. Per facilitare è stata creata la figura del mediatore culturale. Che ha il compito di spiegare ai nuovi arrivati cosa è l’Europa, mai agli europei cosa siano le storie e le culture dei paesi di chi arriva. A buon diritto definitivamente etichettati, anziché come “nuovi europei”,come “extracomunitari”. Così facendo crescere un sistema di ghetti incomunicanti, che non possono che stimolare il peggior integralismo identitario.
Non è possibile suonare le trombe per salutare l’avvento della globalizzazione e poi coltivare le ossessioni securitarie di chi vorrebbe blindare le proprie comunità nel terrore che possano essere dissolte; bisogna prendere atto che il transculturale – che era proprio alle società prenazionali greche ebraiche ottomane, non è più il passato ma il nostro futuro. La «figura diasporica» – per citare ancora una volta Stuart Hall – «non è più minoritaria, sta diventando l’anticipazione della modernità avanzata », un processo facilitato dalle nuove tecnologie che rendono oggi ancor più difficile l’assimilazione degli immigrati.
Perché i telefonini gli consentono di conservare il rapporto persino con la nonna lasciata nel deserto; ognuno guarda, grazie al satellitare, la tv di casa propria e non quella della nazione d’arrivo; i voli low cost gli consentono di tornare nel villaggio natio non solo al momento della morte. E per di più, non avendo più lo stesso stato d’origine il prestigio del tempo della lotta anticoloniale, il legame è oggi più che altro con reti tribali, espressione di identità frammentate che si sincronizzano su una informalità globale che produce culture disinbedded dai sistemi sociali. Bisogna procedere dunque in modo nuovo, sapendo che le culture (e i comportamenti che queste ispirano) non sono come i semi o gli animali che vanno conservati come sono in nome della biodiversità, perdono la loro funzione antropologica se non sono dinamiche, se non si incrociano e innestano reciprocamente.
Ma perché questo avvenga bisogna innanzitutto smetterla di pretendere che la civiltà occidentale rappresenti “l’universale”, il punto più alto della civilizzazione, che i “selvaggi” debbono impegnarsi a raggiungere. L’universale è un bell’obiettivo, ma solo a condizione che si inneschi un lungo processo dialogico, cui tutti contribuiscano. Altrimenti avremo solo jihad. (Se tenete conto che l’85% delle informazioni che il mondo riceve provengono dall’occidente vi rendete conto quanto scarso sia il contributo degli altri).
La nostra civiltà è certo migliore di quella saudita. Per via delle rivoluzioni che abbiamo avuto la fortuna di poter partorire. Ma sarebbe ora di smetterla di rimproverare i popoli che non hanno avuto modo di farle. È accaduto perché noi con il colonialismo glielo abbiamo reso quasi impossibile. (Prima di invocare la rivoluzione francese ricordiamoci sempre che non toccò la schiavitù).
La Nuova Venezia, 17 maggio 2017 (m.p.r.)
Mestre. «Dopo Germania e Giappone, l’Italia è il terzo stato al mondo con il tasso demografico più negativo da anni, un Paese di vecchi destinato alla scomparsa se non saprà integrare al meglio i migranti». Senza peli sulla lingua il professor Giorgio Conti - coordinatore degli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia - ha introdotto ieri al Campus universitario di via Torino il convegno dedicato ad un tema sempre più scottante nel mondo d’oggi, per l’Italia in particolare che è il primo approdo della fiumana di migranti che fugge da guerre, discriminazioni, miseria e disastri ambientali.
il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2017 (i.b.)
Il titolo, purtroppo, non è uno scherzo, ma è quello che sta avvenendo in Regione Lombardia.
Per ora riguarda una sola Regione ma, se dovesse realizzarsi, è probabile che in pochi anni troverà estimatori anche in molte altre parti d’Italia. E’ una vicenda (volutamente) complicata ma proverò a spiegarla nel modo più semplice possibile, convinto che ognuno abbia diritto di essere pienamente informato su quello che riguarda il presente e il futuro della sua salute.
Con due delibere, la n. 6164 del 3 gennaio e la n. 6551 del 4 maggio 2017, la giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria la n. 833 del ’78.
La non costituzionalità di tali delibere è stata sollevata attraverso un ricorso al Tar dall’Unione Medici Italiani ed un altro ricorso è in arrivo da Medicina Democratica. Gli Ordini dei medici di Milano e della Lombardia sono insorti: la giunta regionale si è limitata ad inserire qualche modifica di facciata proseguendo a vele spiegate verso una terza delibera attuativa attesa in questi giorni.
La vicenda riguarda, secondo le stime della Regione, circa 3.350.000 cittadini “pazienti cronici e fragili” che sono stati suddivisi in tre livelli a seconda della gravità della loro condizione clinica. Costoro riceveranno in autunno una lettera attraverso la quale la Regione li inviterà a scegliersi un “gestore” (la delibera usa proprio questo termine) al quale affidare, attraverso un “Patto di Cura”, un atto formale con validità giuridica, la gestione della propria salute. Il gestore potrà essere loro consigliato dal medico di base o scelto autonomamente da uno specifico elenco.
Il gestore, seguendo gli indirizzi dettati dalla Regione, predisporrà il Piano di Assistenza Individuale (Pai) prevedendo le visite, gli esami e gli interventi ritenuti da lui necessari; “il medico di medicina generale (Mmg) può eventualmente integrare il Pai, provvedendo a darne informativa al Gestore, ma non modificarlo essendo il Pai in capo al Gestore”.
La Regione ha individuato 65 malattie, per le quali ha stabilito un corrispettivo economico da attribuire al gestore a secondo della patologia presentata da ogni persona da lui gestita. Se il gestore riuscirà a spendere meno della cifra attribuitagli dalla Regione potrà mantenere per sé una quota dell’avanzo, eventualmente da condividere con il Mmg che ha creato il contatto. Il gestore non deve per forza essere un medico, può essere un ente anche privato e deve avere una precisa conformazione giuridica e societaria e può gestire fino a… 200.000 persone.
E’ facile immaginare che nelle scelte dei gestori conterà maggiormente il possibile guadagno piuttosto che la piena tutela della salute del paziente, il quale potrà cambiare gestore ma solo dopo un anno. Scomparirà ogni personalizzazione del percorso terapeutico e ogni rapporto personale tipico della relazione con il medico curante. Per una società che gestirà 100/200.000 Pai (Piani di Assistenza) ogni cittadino è un numero asettico potenziale produttore di guadagno.
Il Mmg viene quindi privato di qualunque ruolo, sostituito da un manager e da una società; ed è questa una delle ragioni che ha fatto scendere sul piede di guerra i camici bianchi. Se avesse potuto la Lombardia avrebbe cancellato la figura dei Mmg, ma per ora una Regione non può modificare i pilastri di una legge nazionale come la legge 833. Ma all’orizzonte c’è il referendum sull’autonomia regionale voluto dal presidente leghista, un referendum consultivo ma che verrà fortemente enfatizzato. Ci sentiremo dire che l’autonomia da Roma permetterà di rendere pienamente operativa questa “eccellente riforma regionale”. Di bufale sulla sanità ne abbiamo già sentite molte, da Renzi alla Lorenzin e questa non sarà l’ultima.
Una “legge eccezionale”, sosterrà la Regione, perché eviterà che cittadini malati, in maggioranza anziani, debbano impazzire con le ricette, le telefonate interminabili ai centralini regionali per fissare le visite, le code agli sportelli, le liste di attesa ecc. ecc.
La Regione Lombardia non dirà che tutti questi disagi sono stati costruiti ad arte, prima da Roberto Formigoni e poi da Roberto Maroni, per spingere i cittadini verso la sanità privata che li aspetta con gioia per lucrare ulteriormente sulla loro pelle. Se il Tar non cancellerà queste delibere e se le organizzazione della società civile non si ribelleranno è forte il rischio che molti nostri concittadini accetteranno quasi con riconoscenza il piano della Regione; salvo poi accorgersi che ad essere trascurata sarà proprio la loro salute. Ma allora sarà troppo tardi.
Scritto in collaborazione con Albarosa Raimondi, medico, esperta in organizzazione sanitaria
la Repubblica, 17 maggio 2017
Per chi vuole entrare in Libia, per provare a saltare in Europa, il Niger è tutto. È la porta d’ingresso, la rotta di avvicinamento. Ma è anche la via di fuga, il percorso da fare in retromarcia per fuggire al mattatoio. Seny Condjira e Demba Djack ci hanno provato. Sono partiti dal Senegal, sono passati qui in Niger, sono entrati in Libia, hanno provato ad arrivare in Europa. Ma hanno fallito: sono stati torturati, picchiati, hanno assistito a tutto quello che succede da quelle parti. E hanno deciso che non era possibile, che dalla Libia bisognava soltanto fuggire, rientrare in Niger per tornare a casa.
Alla stazione di Niamey dei bus della “Sahelienne”, la compagnia che collega le capitali dell’Africa occidentale, i racconti dei migranti in ritirata dalla Libia sono terrificanti. Nelle foto sui telefonini ti fanno vedere i segni delle torture, i corpi martoriati e mutilati, due decapitati, decine di corpi bruciati non si capisce bene in quale occasione. Seny era partito quasi un anno fa. «Mio cugino è già in Italia, mi ha detto che da voi è assolutamente meglio della povertà assoluta che c’è qui».
Anche Demba ha provato a passare da Sebha e Tripoli per arrivare in Europa. «Vengo dalla regione di Matan, nell’interno del Senegal. Anche io ho visto le torture e la schiavitù in Libia. E sono fuggito». Ma perché questa violenza bestiale? «Adesso ti spiego come funziona in Libia», dice Seny che ha 34 anni e viene dalla regione di St.Louis. «Avevo iniziato il mio viaggio quasi un anno fa: dal Senegal al Mali tutto bene, noi con la carta di identità possiamo viaggiare nei paesi della Comunità dell’Africa occidentale. Poi dal Mali si passava in Burkina Faso, e lì i primi problemi: i poliziotti provano a rapinarti, a prenderti tutto quello che hai, e se non paghi rimani fermo alle stazioni per ore, per giorni. Per cui tu paghi. Siamo arrivati a Niamey, poi ad Agadez, prima di partire per il deserto e la Libia.
Ad Agadez ci attendevano i trafficanti, per giorni siamo rimasti nei ghettos organizzati per noi migranti: si sono fatti pagare e ci hanno assicurato il passaggio in Libia, in 30 su un pick-up Toyota. Il viaggio a noi è andato bene, in tre giorni siamo arrivati prima a Gatrun e poi a Sebha in Libia. Ma lì è l’autista ha detto che il trafficante non aveva pagato per noi, e che quindi doveva venderci, ci doveva portare dove c’erano gli altri migranti. Era una grande piazza, con intorno dei garage, un mercato degli schiavi».
«Noi africani venivamo comprati e venduti da arabi, da libici, che lavorano con la manovalanza di “caporali” nigeriani e ghanesi. Mi hanno venduto e trasferito in una prigione, una grande casa privata con altre 200 persone. Lì è iniziato il terrore: i carcerieri ci picchiavano, ci tagliavano con i machete, alcuni li hanno uccisi davanti agli altri. Perché? Ma perché tutti dovevamo essere terrorizzati e poi telefonare a casa per chiedere soldi, 300, 400 o 500 dollari per essere rimessi in libertà. Quando chiamavamo le nostre famiglie loro ci picchiavano per farci urlare, per terrorizzare i nostri parenti». Seny spiega bene come gli schiavisti libici ordinino ai migranti di chiedere soldi alle famiglie, chiedono di mandare i soldi con money transfer a loro complici in Ghana o in Guinea, così possono incassare senza farli passare dalla Libia.
Demba racconta che durante la prigionia molti ogni mattino venivano caricati per andare a lavorare nei campi, a costruire o riparare edifici, a fare qualsiasi tipo di lavoro fosse utile ai padroni. «Io sono riuscito ad avere un po’ di soldi dalla mia famiglia», dice Seny, «e a migliorare la mia posizione. Poi ho lavorato per loro come traduttore, perché molti di noi non parlavano nessuna lingua, in Libia il francese che parliamo noi non serve. In un modo o nell’altro, sono riuscito a comprami un viaggio per ritornare in Niger, e l’Oim ( l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) mi ha aiutato a tornare in Senegal».
Demba era arrivato fino a Tripoli, dove per settimane è passato da una fattoria-prigione all’altra. È riuscito a sopravvivere, e non sa ancora bene come sia riuscito a rientrare in Niger in rotta per il Senegal. «A Tripoli eravamo in condizioni micidiali. Un libico si è impietosito per uno di noi, lo ha portato in ospedale, ma in ospedale non c’era nulla. È stato fortunato perché un infermiere ha messo un post su Facebook e gli uomini dell’Oim sono andati ad aiutarlo, lo hanno curato e lo hanno rimesso in rotta per il Sud, io l’ho seguito».
I rapitori libici lavorano su grandi numeri: «Fanno fare decine e decine di telefonate, e trovano famiglie che corrono a vendersi la casa, le vacche, un pezzetto di terra pur di trovare i dollari chiesti come riscatto. In Libia è il caos totale, non c’è legge, è la perversione assoluta ». Giuseppe Loprete, il capo dell’Oim in Niger, dice che neppure questi racconti di vero terrore bastano a fermare quelli che dal Niger sono ancora in rotta verso il Nord, verso la Libia, sognando l’Europa: «Da mesi raccontiamo che il viaggio è un incubo, che possono morire in mare, che possono essere torturati e uccisi dai trafficanti.
Da qualche settimana abbiamo iniziato a far incontrare chi sale verso il Nord con chi fugge dagli schiavisti: soltanto i racconti di chi abbandona i campi di concentramento dei trafficanti ogni tanto convincono qualcuno a tornare indietro».
Seny e Demba spiegano però qualcosa di decisivo per capire la disperazione che sale dall’Africa: «Quando un anno fa abbiamo deciso di partire abbiamo mobilitato le famiglie, abbiamo chiesto soldi, abbiamo venduto animali, abbiamo dato una speranza ai nostri cari, abbiamo detto loro che avremmo mandato indietro soldi dall’Europa. Ecco, adesso tornare indietro è ammettere il fallimento, è confessare che i soldi richiesti sono stati perduti. Bruciati! Noi non si sa come siamo riusciti a fuggire dopo quello che abbiamo visto. Tanti non ci provano neppure, perché morire in Libia o in mare è meno grave di tornare indietro. Morire in Libia per tanti è meglio che rivedere una famiglia che non ti perdonerà di avere fallito».
il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)
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cambiailmondo, 14 maggio 2017 (c.m.c)
L’orizzonte culturale in cui viviamo. E’ diffusa nell’immaginario collettivo l’idea che la nostra epoca è caratterizzata dalla “globalizzazione”, ma si tratta di una idea ancora confusa e imprecisa, alla quale, tuttavia, si attribuisce un senso di necessarietà e quasi di fatalismo: essa è concepita come un “dato” indiscutibile intorno al quale dovrebbe ridisegnarsi la nuova struttura dell’economia e, in ultima analisi, delle società nelle quali viviamo. Vedremo tra poco di cosa in realtà si tratta.
Ma intanto appare utile precisare che molti neoliberisti sostenitori della globalizzazione sono ora scettici sui suoi vantaggi e che lo stesso premio Nobel per l’economia, Stiglitz1 , uno dei primi sostenitori di questa nuova visione del mondo, ha riveduto e capovolto il suo pensiero, ponendo bene in chiaro che la globalizzazione è stata considerata in una prospettiva errata e che i danni sociali ed economici che questa ha prodotto, specie sotto il profilo della “disoccupazione”, sono pesanti e insostenibili per lo stesso nostro vivere civile.
Il problema è talmente grave ed importante che deve essere studiato nelle sue radici: si tratta in effetti di porre come oggetto di riflessione un vero e proprio “cambiamento epocale”, che ha travolto il nostro tradizionale modo di pensare e ci ha proiettati in una direzione tutt’altro che definita.
La facilità delle telecomunicazioni, degli spostamenti da un luogo ad un altro, dell’essere informati in tempo reale di qualsiasi cosa accada anche nei posti più remoti del mondo, hanno offuscato lo stesso concetto di “confine”, che sinora aveva costituito, per così dire, anche lo spazio di dominio dei nostri convincimenti e delle nostre aspirazioni, per cui lo stato d’animo oggi imperante è quello di un totale “smarrimento”, nel quale tutto appare possibile e nel contempo difficile da raggiungere, poiché se è vero che la tecnologia ha fatto passi da giganti e l’orizzonte del sapere umano si è profondamente allargato, è anche vero che il nostro campo di affermazione rimane limitato dalle nostre reali capacità.
A questo punto, sembra che l’uomo si sia ripiegato su se medesimo e che, preso atto della propria incapacità di governare se stesso e ciò che lo circonda, cominci a disinteressarsi anche del quotidiano, di quanto accade in politica, nell’economia e nel sociale, ritenendo che il bello e il buono coincida con il “nuovo”, anche se questo nuovo appare, ad una attenta riflessione, come un scatola vuota, che lascia, ovviamente, il vuoto in chi la percepisce.
E’ per questo che in filosofia si parla di “pensiero debole”, in diritto si parla di “diritto debole” e nelle comunicazioni prevale, per così dire, la “rappresentazione debole”, declinato poi in “teatrino”, quando si parla di politica. In sostanza, assistiamo ad una “fuga dal concreto verso l’astratto” e persino in economia, la più concreta delle realtà, si è tramutato lo “scambio reale di beni e servizi” in “scommesse” che comportano per il vincitore l’acquisto, non di un bene reale, ma di taluni diritti astratti, che altro non sono, come ricorda il Gallino, delle “promesse di beni”.
Basti pensare alla “cartolarizzazione dei diritti di credito”, alla “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, ai “derivati”, ai “project bond” e al tre simili fantasticherie, delle quali in seguito parleremo. In questo strato di cose, è ovvio che si dilegua lo stesso “concetto di Stato” e che al posto dello Stato assume sempre maggiore potere la “finanza”, e cioè le “multinazionali”, che sovente provengono dalla “fusione” di più imprese, e le “banche”, le quali si sono quasi completamente sostituite allo Stato nella “creazione del danaro dal nulla”.
La prospettiva è, così, quella di un mondo nel quale la “sovranità” spetta al “mercato”, cioè all’azione delle summenzionate multinazionali e banche, mentre principio costituzionale inderogabile diventa Il “pareggio di bilancio” e l’uomo, se non riesce ad essere “auto imprenditore”, non può altrimenti essere concepito se non come “uomo merce”, il cui lavoro, ovviamente, deve costare il minimo possibile, con buona pace di quanto dispongono i vigenti articoli 4, 36 e 38 della Costituzione. (…)
il manifesto 14 maggio 2017 (c.m.c.)
«È curioso, ma i migranti stanno polarizzando il mondo», dice al manifesto il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, candidato al Nobel per la Pace per il 2017. Padre Solalinde, scampato a un attentato dei narcos per il suo impegno a favore dei migranti, è in Italia per presentare il libro I Narcos mi vogliono morto, edito da Emi.
Oggi è a Udine, al Festival Vicino Lontano e visiterà la mostra «Vivos», legata al tema dei desaparecidos messicani, di cui si occupa da anni. Il 18 maggio sarà al Salone del libro di Torino, insieme a Moni Ovadia e Alex Zanotelli. Scrive: «Pochi sanno, o vogliono sapere, che nel Messico attuale mancano almeno 150.000 esseri umani, cinque volte gli scomparsi dell’ultima dittatura argentina. Svaniti nel nulla in quella guerra dimenticata in cui narcos rivali si fronteggiano con il sostegno di interi pezzi di polizia ed esercito per il controllo dei traffici. Come per molti altri orrori commessi nel corso di questo conflitto, le “prove generali” di desaparición sono state fatte sui migranti».
A Oaxaca, Solalinde gestisce l’albergo per migranti «Hermanos en el camino». Una struttura – spiega – «che nasce per proteggere le persone migranti dalla polizia e dai cartelli del crimine organizzato. Per i criminali, sono la preda perfetta: ufficialmente non esistono, non hanno documenti. E per le mafie, tutto ha un valore economico, anche gli organi. Abbiamo iniziato ad assisterli, a rispondere alle principali necessità concrete come quelle di comunicare con le famiglie, ma anche a fornire assistenza legale, a sporgere denuncia, a mettere in comune le diverse storie, a capire che la migrazione è un fenomeno complesso.
Dopo l’arrivo di Trump, il numero di chi cerca di andare negli Usa è diminuito?
Un po’, sì, ma il flusso continua, s’inventano maniere ingegnose per passare. Su 100 che cercano di andare negli Usa, 25 si arrendono e tornano indietro, altri 25 ci provano, ma il dato nuovo è che il 50% resta in Messico e si organizza, convinto che Trump non durerà e potrà ritentare. Il ripudio contro le politiche xenofobe di Trump, negli Usa, è forte. Il 1° maggio sono stato a Los Angeles in una delle tre gigantesche marce, sempre più numerose in cui è evidente il ruolo delle donne. La mia impressione è che stiano perdendo la paura di manifestarsi e che si stiano organizzando. È curioso ma i migranti stanno polarizzando il mondo. È chiaro negli Usa, ma anche in Messico. La maggioranza è a favore dei migranti, una minoranza ne ha paura, li criminalizza e li sfrutta: il crimine organizzato, l’Istituto nazionale delle migrazioni e i politici messicani in coordinamento con gli Stati uniti.
In Messico, le manifestazioni per i migranti si sono unite a quelle contro le privatizzazioni di Peña Nieto. C’è una speranza di cambiamento alle prossime elezioni?
Sì. Contro Trump e contro le politiche di Henrique Peña Nieto, il 20 gennaio c’è stata una grande manifestazione, e marce davanti all’ambasciata Usa. Mai la popolarità di un presidente è caduta così in basso come quella di Nieto. Il partito Morena, di Amlo, potrebbe farcela se la sinistra non si divide un’altra volta. Le candidature indipendenti, come quella dell’Ezln sono buone, ma un po’ tardive e in questo momento, come in passato, se la sinistra si divide, ne guadagna il sistema. Morena è un movimento nuovo e dobbiamo vigilare affinché non finisca nell’ingranaggio. Ad Amlo ho suggerito una commissione di controllo sociale ed etica, che ha già cominciato a funzionare.
Lei ha un ruolo importante nella ricerca degli scomparsi, anche dei 43 studenti normalistas, a partire dalle confessioni di alcuni trafficanti. Che cosa le hanno detto?
Che gli studenti siano stati bruciati risulta anche dagli esami di alcuni resti, ma il rogo non è avvenuto nella discarica di Cucula. L’equipe interdisciplinare di esperti indipendenti si è avvicinata alla verità a partire dalle testimonianze di tre sopravvissutti, che hanno assistito all’ultimo incontro degli studenti con l’esercito federale e con la polizia. Su uno degli autobus c’era un grosso carico di eroina. Sono scomparsi nelle caserme militari, dove si sa che esistono forni crematori. È un crimine di lesa umanità, che non si prescrive. Un crimine di stato. L’indagine potrà avere un seguito solo se vince Amlo e cambiano le cose.
Come lei scrive nel libro, il Messico è una gigantesca fossa comune, ma la comunità internazionale, e anche i vescovi, hanno nel mirino il Venezuela che i migranti li accoglie. Perché?
Quando ci sono in ballo grandi risorse, e in questo caso il petrolio, c’è la mano della Cia e degli Usa che vogliono il controllo geopolitico. Il papa chiede la pace e loro la guerra. Molto diverso è stato il messaggio del vescovo Ruiz o di Monsignor Romero, che ho conosciuto personalmente. Nel 1972, gli ho chiesto aiuto per la mia squadra di missionari itineranti, che la chiesa locale non accettava. Lui invece ne era entusiasta: è il cammino del Vangelo – disse.
HuffingtonPost online, 14 maggio 2017
In questo caso è il sangue della democrazia, quello che gronda. Perché se ciò che scrive De Bortoli è vero – ed ha tutta l'aria di esserlo – un ministro della Repubblica ha solennemente mentito al Parlamento. E ha preso in giro l'intero Paese, negando un conflitto di interessi grande come una casa. Tradendo clamorosamente il giuramento pronunciato diventando membro del governo: "Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione". L'interesse di chi? Della famiglia, della banca? Certo non quello della Nazione.
Il 12 novembre 2015 Roberto Saviano scrisse che "il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili».
Saviano fu insultato, e lasciato solo. Ma aveva sacrosanta ragione. Ed è bene ricordare che Matteo Renzi gli rispose, sprezzante: «Siamo gli unici che vogliono bene all'Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche".
Oggi, quasi due anni dopo, il copione è lo stesso: Renzi accusa De Bortoli di attaccarlo a causa di frustrazioni personali. Solo che oggi gli italiani sanno chi è Renzi. Sanno che non possono credergli: quanto valore può avere la parola di chi ha detto «se perdo mi ritiro dalla vita politica», e oggi, dopo aver perso tutto il perdibile e aver devastato il proprio partito, è ancora inchiavardato alla poltrona?
Oggi è drammaticamente evidente chi è che «vuole bene all'Italia». Chi dice la verità. E non chi trama all'ombra di logge massoniche e cerchi magici, abusando del proprio ruolo di servitore dello Stato per fare i propri interessi.
E soprattutto è ben chiaro che a 'volere bene all'Italia' sono stati i 19.420.271 cittadini italiani che hanno detto NO ad una riforma firmata da quello stesso ministro.
Già: chi comprerebbe oggi una Costituzione usata da Maria Elena Boschi?
il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)
Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia, quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.
Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico.
Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato - Peredrag Maktievich - «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.
E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».
I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati: gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì - nel mondo arabo - si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.
Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.
Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali: la carità è importante, ma ci vuole la politica.
la Repubblica, 13 maggio 2017
LA Marina militare italiana si nascondeva. Il peschereccio crivellato di colpi con a bordo 480 profughi siriani in tutto, il dottor Mohanad Jammo, sua moglie, i loro tre figli e altri100 bambini, sta affondando a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Ma da via della Storta 701 a Roma il Comando in capo della squadra navale, il Cincnav, ordina a nave Libra di togliersi di mezzo. Proprio così: deve nascondersi per non farsi vedere dalle motovedette maltesi. Sono le 15.37 dell’11 ottobre 2013. La Libra dall’inizio dell’emergenza è l’unità più vicina, appena 17 miglia, un’ora di navigazione. Il capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, ufficiale in servizio alla centrale operativa aeronavale telefona a Luca Licciardi, 47 anni, capo sezione attività correnti della sala operativa del Cincnav. Gli chiede che cosa deve riferire alla Libra. La risposta di Licciardi è questa: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro».
Malta è lontana 118 miglia. La motovedetta maltese è ancora a più di due ore. Il capitano Giannotta obbedisce e chiama la Libra. Ordina che si tolga dalla congiungente tra Malta e il barcone, la rotta più breve. Con le seguenti parole: «Perché se vi vede a un certo punto (la motovedetta maltese)... eh, gira la capa al ciuccio e se ne va». E così l’ultima salvezza, la nave militare comandata da Catia Pellegrino, 41 anni, l’unico ufficiale davvero all’oscuro dello scaricabarile, si allontana oltre l’orizzonte, portandosi a 19 miglia nella direzione opposta al barcone. A quell’ora potrebbero ancora salvarli tutti. Il peschereccio si rovescia alle 17.07, dopo cinque ore di inutile attesa dalla prima richiesta di soccorso alla Guardia costiera. Almeno duecentosessantotto morti, sessanta bambini, quasi tutti caduti in mare e mai più ritrovati.
La motovedetta maltese, il pattugliatore P61, arriverà sul punto del disastro soltanto alle 17.51. Nave Libra addirittura più tardi, alle 18. Riescono a tirare a bordo duecentododici persone. Scende la sera. E molti bimbi che i sopravvissuti giurano di aver visto in acqua aggrappati a tavole di legno non appaiono nell’elenco dei superstiti. Nel buio sono finiti alla deriva per sempre.
«Ricordo perfettamente il dramma di quel naufragio», dice Enrico Letta, capo del governo in quei terribili giorni: «Questa nuova tragedia dell’11 ottobre, insieme con quella della settimana prima a Lampedusa, ci spinse a varare subito l’operazione Mare nostrum. Ci sono momenti in cui il salvataggio delle vite umane è questione di ore, se non di minuti. E mi resi conto che non si poteva lasciare la soluzione di queste vicende alla mercé della buona volontà o della casualità, ma bisognava costruire un quadro giuridico ben preciso perché non ci fossero morti. Io sono orgoglioso della soluzione che trovammo, perché servì a salvare migliaia di vite. Anni dopo resto convinto che quel modello vale anche oggi».
La Procura di Roma ritiene che il comportamento tenuto dagli ufficiali della Marina sia regolare. Il 3 aprile di quest’anno, con un atto firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone e i sostituti Francesco Scavo Lombardo e Santina Lionetti, viene chiesta l’archiviazione per gli unici quattro indagati. Sono il capitano Giannotta, il collega Licciardi, la comandante Pellegrino e Leopoldo Manna, capo della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, tutti sotto inchiesta per omissione di soccorso. Nelle undici pagine della richiesta, da cui abbiamo estratto le telefonate del Comando della squadra navale, i magistrati scrivono che l’azione dei quattro «può ritenersi rispettosa della complessa e dettagliata disciplina del settore». Secondo Pignatone e i due sostituti procuratori, gli ufficiali non erano consapevoli del reale pericolo a bordo del peschereccio. L’indagine affidata alla Guardia di finanza, però, sembra non aver preso in considerazione le precise informazioni riferite alla Guardia costiera da Mohanad Jammo, 44 anni, il medico di Aleppo che con un telefono satellitare dal barcone alla deriva chiamava la sala operativa di Roma e della Valletta. Scartate anche parte delle conversazioni tra il Cincnav e la Guardia costiera e tra questa e le Forze armate di Malta durante le quali, alla formale richiesta dei maltesi, gli ufficiali italiani negano l’invio di nave Libra. Sono le stesse che sentiamo nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica.
Un’altra inchiesta contro ignoti è stata aperta ad Agrigento. Qui il procuratore Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Silvia Baldi hanno chiesto l’archiviazione perché, secondo loro, la responsabilità dell’omissione di soccorso è delle autorità di Malta: «L’imbarcazione dei migranti si trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali di quel Paese», scrivono i magistrati. Forse una svista: le acque territoriali arrivano a 12 miglia, il dottor Jammo e tutti gli altri sono fermi a 118 miglia da Malta. In realtà il peschereccio, pur essendo molto più vicino a Lampedusa, è nell’area di competenza maltese per le attività soccorso. Alle richieste di archiviazione hanno presentato opposizione i genitori che hanno perso i loro bambini, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini. Il loro appello alla giustizia è ora nelle mani dei giudici.
Le informazioni che il dottor Jammo riferisce al tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, l’ufficiale di servizio alla centrale di Roma, sono inequivocabili e ben comprese. Tanto che l’allora comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Felicio Angrisano, le riporta in una lettera inviata a
L’Espresso nel 2013: «Ore 12.39... presenza a bordo di due bambini bisognevoli di cure... unità che con motore fermo, imbarca acqua», scrive l’ammiraglio. A quell’ora Jammo dice che l’acqua nello scafo ha raggiunto il mezzo metro. Difficile sostenere che non si sappia del pericolo.
Alle 14.35 l’ufficiale di servizio a Roma, parlando con le Forze armate di Malta, scopre che non hanno ricevuto la parte di fax con cui la Guardia costiera chiedeva ai maltesi di assumere il coordinamento dei soccorsi. Due ore perse. Nonostante questo, la Marina continua a nascondere nave Libra. Alle 15.12 l’operatore Butera di Cincnav chiama il tenente Torturo per avere aggiornamenti. «Malta ha risposto: assumo il coordinamento », spiega Torturo: «Gli abbiamo detto che c’è una unità della Marina in zona. Non gli abbiamo dato posizione e niente». «Ah, ok», risponde Butera. A quell’ora la Libra, molto adatta quel tipo di soccorso, è ad appena 17 miglia. Il mercantile più vicino è a 70. Malta dirotta una sua motovedetta, ma è ancora lontanissima.
E alle 15.37 i superiori di Butera, Luca Licciardi e Nicola Giannotta, ordinano a Catia Pellegrino di andare a nascondersi. Alle 16.38 Antonio Miniero, 42 anni, tenente di vascello della Guardia costiera, telefona al capitano Giannotta della Marina. Gli dice che Malta ha mandato un aereo sui profughi alla deriva e i piloti hanno scoperto che la Libra è praticamente lì, a 19 miglia. Vogliono dare istruzioni alla nave, essendo i maltesi l’autorità di soccorso competente. La richiesta di Malta è ufficiale. «Sarebbe il caso... », suggerisce Miniero. «Un attimo, io qua ne devo parlare con il capo ufficio operazioni», risponde Giannotta. Alle 16.44 Licciardi, il capo ufficio, contatta Giannotta: «E chiude la telefonata dicendo che a nave Libra non devono dire niente», annotano i magistrati romani nella richiesta di archiviazione. Solo alle 17.04, all’ennesimo sollecito di Malta, il comando della Marina ordina a Catia Pellegrino di avvicinarsi. Tre minuti dopo il barcone dei bambini si rovescia. E la Libra è ancora lontana.
il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)
«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.
Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi.
Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.
Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.
La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street.
Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).
Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.
Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.
Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.
E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?
Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo.
Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento.
Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.
E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».
la Repubblica, 13 maggio 2017
ALCUNI importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l’Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d’opinione.
Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5S. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%.
Vicino/lontano di Udine, che verrà letto domenica 14 maggio». il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)
Da dove viene il malessere che caratterizza tutti i dibattiti sulla cultura e l’identità? Un paradosso è evidente: il mondo globalizzato è anche il mondo della più grande differenza, dove crescono la circolazione, la comunicazione e il consumo. Eppure coloro che circolano non consumano e non comunicano nelle stesse proporzioni e condizioni. Di qui l’attualità del paradosso: si cancellano le differenze e crescono le disuguaglianze; il mondo è ogni giorno più uniforme e più disuguale. Le conseguenze sono almeno due.
Da un lato, su scala mondiale, l’esterno, anche quello di cui si nutre l’interno, è in via di sparizione e la distinzione interno-esterno perde la sua pertinenza. Si delineano tre tendenze che costituiscono, a diverso titolo, una minaccia o una costrizione per la vita culturale: la globalizzazione imperiale, quella «scoppiata» e la globalizzazione mediatica.
La globalizzazione imperiale è quella che tentano di immaginare gli Stati Uniti, la potenza dominante, o almeno certi suoi rappresentanti. Tutto avviene come se, in assenza di un esterno e di un’alterità radicale le diverse culture nazionali trovassero nuova linfa all’interno, riscoprendo le tradizioni che le ideologie nazionali del secolo scorso avevano cancellato: si riscoprono le regioni, le minoranze, i piccoli paesi.
Gli antropologi americani «postmoderni» hanno sviluppato da questo punto di vista una teoria sottile che chiamerei «globalizzazione scoppiata», attirando l’attenzione sulla diversità rivendicata del mondo. Ma sarebbe senza dubbio un’illusione vedere in queste rivendicazioni il principio, l’espressione e la promessa di uno scambio futuro e di un rinnovamento prossimo delle culture. È necessario infatti né sottostimare il carattere stereotipato delle rivendicazioni particolari, né la loro integrazione nel sistema di comunicazione mondiale.
La globalizzazione scoppiata corrisponde a un momento della storia del pianeta dominato dal mondialismo economico e tecnologico: quest’ultimo si adatta bene ai particolarismi culturali, specialmente se non si occupano del campo del consumo e delle regole del mercato.
Il lavoro tipico di quella mediatica è, invece, la spettacolarizzazione delle differenze e, al limite, il loro consumo. Prima di tutto il consumo turistico: il candomblé brasiliano, gli accampamenti yanomami, i guerrieri masaï fanno parte dei programmi turistici europei e del consumo televisivo, cinematografico e fotografico. Tutto rende problematico lo statuto dell’avvenimento, fino a concepirlo e a metterlo in scena solo per la televisione.
Prendere coscienza delle gravi disuguaglianze che pesano sul destino del mondo che verrà, denunciare le illusioni di una vita che si arrende alle tecnologie della comunicazione, inquietarsi per le condizioni con le quali il riferimento planetario si impone a tutte le società e a tutte le culture del mondo, non è voler ignorare il carattere ineluttabile della mondializzazione, e ancora meno rifiutare le chances offerte, in molti campi, dallo sviluppo delle tecnologie. Aprirsi al futuro oggi significa aggiungere al patrimonio culturale e alla cultura di ogni essere umano l’esperienza delle tecnologie della comunicazione e un massimo di conoscenze scientifiche: una conoscenza generale dei problemi.
Ogni riflessione sulla cultura di domani dovrà tener conto di due ostacoli fondamentali: il fossato, l’abisso, che si allargano sempre più tra i più ricchi e i più poveri, tra coloro che avranno accesso alla cultura e coloro che non l’avranno. Il secondo ostacolo potrebbe contribuire allo sviluppo del primo: l’invenzione delle immagini e il rischio che essa comporta di farci prendere lucciole per lanterne, dei simulacri per realtà.
Marx diceva che dietro i rapporti tra le cose ci sono i rapporti tra gli uomini: questo è ancora più vero per le immagini. L’individuo da un lato, il pianeta dall’altro: e dall’uno all’altro una molteplicità di relazioni non riducibili allo scambio di informazioni permesso o imposto dalle tecnologie della comunicazione. Su scala globale la diversità necessaria al dinamismo culturale si confonderà forse un giorno con quella di miliardi di individui che, ciascuno per la propria parte, sono e saranno ancora di più nel futuro un mondo e una cultura. Così, a differenza delle altre, l’utopia di oggi ha trovato il suo luogo: il pianeta.
il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)
«O ci liberiamo dall’idea occidentale di umano o non sopravviveremo a lungo». Sono piuttosto netti Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros De Castro, entrambi ricercatori presso il Conselho Nacional de Desenvolvimento Cientifico e Tecnologico, in Brasile. L’intenzione non è quella di fare dell’allarmismo o di alimentare un orizzonte squisitamente teorico postumano, già tanto frequentato. Hanno un’aria pacifica e la voce di entrambi si fonde in un’articolazione filosofico-antropologica che precisano da diversi anni.
Hanno scritto Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, pp. 320, euro 17, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Le formazioni sono diverse (Danowski insegna filosofia alla Pontificia Universidade Catolica di Rio de Janeiro, mentre Eduardo Viveiros De Castro antropologia sociale presso il Museo Nacional dell’Universidad Federale) eppure, nella strana alchimia della relazione, in questi anni si sono esercitati a pensare insieme in un confronto serrato proprio con quella domanda che dà il titolo al libro, pubblicato in Brasile tre anni fa e che, nell’edizione italiana, ha una introduzione aggiornata.
Il titolo che avete scelto per il vostro denso volume è una domanda che preferite mantenere «radicalmente aperta». A parte quello a venire, viviamo o no nel migliore dei mondi possibili?
Questo è l’unico mondo che abbiamo, non ne esistono di infiniti. Detto questo, è impossibile essere ottimisti al modo in cui lo era Leibniz, del resto lui aveva come garante Dio e non poteva certo immaginare ci saremo trovati in questo stato di cose: la crisi climatica e più in generale ecologica, per esempio. A Leibniz dedichiamo una nota del libro ma la prospettiva non può più essere orientata verso un perfezionamento storico, quel migliore dei mondi possibili ipotizzato dal filosofo è come se fosse all’apice di un’immagine piramidale, non sappiamo quale sia il peggiore ma esiste un collasso che non possiamo più ignorare.
«Ci troviamo in un momento descritto con maggiore efficacia dalla visione termodinamica, o forse – ancora più precisamente – dall’entropia, a livello sociale, politico, economico e della stessa condizione del pianeta».
Vi concentrate sull’idea di «fine». Conclusione singolare, biologica, e al contempo di tutte le cose. In che modo l’avete declinata?
«Esistono molti tipi di «fine» e una costellazione di autori che ne danno interpretazioni diverse. Per esempio c’è la fine assoluta di cui abbiamo rappresentazione visiva nel film Melancholia di Lars Von Trier. Poi c’è quella metafisica alla Nihil Unbound di Ray Brassier (che viene collocato insieme a Iain H. Grant, Graham Harman, Levy Bryan sotto l’etichetta di «realismo speculativo»); quindi dal momento che tra circa tre miliardi di anni il nostro mondo finirà, tanto vale considerarci già morti da un punto di vista metafisico. In questa tesi la morte è considerata una verità ontologica. La posizione tanatologica prevede una forma di nichilismo attivo perché la consapevolezza della ineluttabilità della morte come destino universale è una acquisizione della intellegibilità delle cose. Non c’è un Dio. Nulla di esterno ci salverà e dobbiamo accettarlo.
«Non siamo profeti dell’Apocalisse, ci sono molti modi diversi di intendere la parola «mondo» e la parola «fine». Fine della specie, fine del cosmo, della civiltà, del capitalismo. Ci sono molti mondi che possono finire e alcuni di essi sarebbe bene che finissero. A un certo punto sarà importante che anche la nostra specie scompaia, i tempi medi di sopravvivenza di ogni specie sono di 2 milioni di anni, la nostra esiste da 200mila anni ma niente ci garantisce l’ulteriore tempo che potremmo avere a disposizione».
Il problema risiede nel dispositivo escludente di una specie che vorrebbe dettare le regole anche per le altre?
«Ciò che ci preoccupa è la fine di questo mondo, forse la nostra specie continuerà ma non i nostri modi di vita. Non dimentichiamo che i nostri corpi, per il 90%, sono costituiti da altre specie. Dobbiamo imparare a stare al mondo in una modalità non essenzialista, abbandonando l’eccezionalismo. Siamo aperti al flusso della materia e della vita, in questo senso siamo integrati all’esistente restando una configurazione momentanea di questo flusso.
Anche l’arroganza antropocentrica ha un suo posto nel ragionamento che avanzate…
La domanda infatti non è se esista o meno un mondo a venire ma se esista vivibile per tutti i viventi, umani e non umani, compresa la parte migliore dell’umanità che certo non siamo noi considerato quel che abbiamo fatto al pianeta».
L’umano che arriverà verosimilmente non sarà maschio, né bianco, forse sarà una donna o chissà. Convocate anche l’impegnativa categoria di «popolo a venire». Da chi si compone?
«Per noi non è un insieme di individui e non è neppure un concetto che riguarda solo gli esseri umani, l’espressione è più complessa ed estesa. È qualcosa di collettivo che non esclude le altre specie. Come ci sono diversi tipi di popolo ci sono numerose pluralità di popolazioni. Spesso c’è un popolo indicato sommariamente come specie umana oppure come categoria politica, pensiamo alla classe operaia, intesa – nella sua universalità – come tratto caratteristico dell’immaginario di sinistra. Per noi invece il popolo non può che nominarsi al plurale, come molteplicità di umani e non umani.
Ogni popolo è connotato da orientamenti che rispondono alle parzialità di ciascuno di essi, pensiamo alle comunità lgbqt, ma anche alle battaglie come per esempio quelle delle donne, alle comunità nere, ma gli esempi sono molti».
«Il nostro presente – scrivete – è l’Antropocene; questo è il nostro tempo. Ma tale tempo presente si rivela essere un presente senza avvenire, un presente passivo». Un tempo fuori sesto che è oltre la distopia e che ha superato la fantascienza. Oltre a descrivere uno scenario di profonda angoscia, quale è il dato di esperienza quotidiana che può aiutarci a non rimanere schiacciati dalle gabbie teoriche?
«Ci sono molti popoli che ci restituiscono esperienze dirette di modi di vivere diversi; cioè non c’è qualcosa da inventare ma qualcosa da osservare, questi popoli vivono fuori della società industrializzata e portano da anni esperienze importanti. Per esempio nelle zone semi-aride nella parte nord-est del Brasile ci sono popolazioni che vivendo in un clima ostile si sono ingegnate con tecnologie. La loro esistenza è già una forma di resistenza all’invasione che prevedrebbe la cosiddetta civilizzazione. I popoli sono molti e le forme di vita escogitate sono altrettante. Non possiamo aspettarci soluzioni istituzionali anche se la grandezza dei problemi è tale che in certi casi dobbiamo di necessità fare riferimento a questo genere di mediazioni. Non è però questo il punto di leva: le forme istituzionali, i grandi organismi internazionali hanno dei limiti che non possiamo ignorare. Dobbiamo osservare meglio e volgerci verso chi ha già sperimentato quella che sarà l’esperienza universale del «mondo diminuito» in cui sopravvivere sarà un compito difficile.»
». la Repubblica, 12 maggio 2017 (c.m.c)
Tra una settimana, il 19 maggio, gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente. Hassan Rouhani ha buone probabilità di venire rieletto, ma i conservatori, e in prima linea i pasdaran, le Guardie rivoluzionarie, cercano di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano a un moderato. Hanno messo in campo due sfidanti che promettono di creare 5 milioni di posti di lavoro e triplicare i sussidi ai poveri. Il punto debole per Rouhani è infatti l’economia, perché il miracolo economico che gli iraniani si aspettavano dopo l’accordo nucleare non c’è stato. Le società straniere non investono perché temono che Trump e i tribunali americani puniranno anche in futuro chi fa affari con l’Iran.
Quanto contano le elezioni se l’Iran è una teocrazia dove la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ha l’ultima parola su tutto? Molto, perché il regime iraniano non è monolitico come spesso si crede. Religiosi, militari e burocrati si dividono in fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori e molto cambia nella politica estera come in quella culturale e sociale a seconda del gruppo che prevale. La presidenza Ahmadinejad aveva isolato l’Iran, il moderato Rouhani è riuscito a riportarlo nel consesso internazionale.
Le elezioni del 19 maggio presentano inoltre due novità che si possono definire storiche: innanzi tutto per la prima volta nella storia della Repubblica islamica alle elezioni amministrative, che si tengono parallelamente alle presidenziali, hanno presentato la loro candidatura donne che appartengono a quella borghesia che da quarant’anni si era ritirata in una specie di emigrazione interna, vivendo un po’ in Europa e un po’ nei quartieri alti di Teheran. Professioniste che non hanno mai indossato un chador e che hanno votato sì e no una volta in vita loro per il riformatore Khatami, quando tutto il Paese sperò nelle riforme. La seconda novità è che il Consiglio dei Guardiani, l’organo ultraconservatore che ha il potere di ammettere o bocciare i candidati, le abbia accettate.
Certamente l’ombra di Trump spinge tutti a non prendere rischi e a optare per la stabilità. Ma al di là di questo è significativo che il Consiglio dei Guardiani si sia arreso ai tempi, perché l’Iran è oggi un altro Paese rispetto a quello che era dieci o quindici anni fa. Le leggi possono essere rimaste le stesse perché i fondamentalisti hanno impedito ai riformatori di cambiarle, ma trasgredire le regole qui è un fenomeno di massa. I comportamenti quotidiani dei normali cittadini hanno profondamente trasformato il Paese. E in un certo senso, per quanto assurdo possa sembrare, questo ha contribuito alla stabilità della Repubblica islamica.
Sono i giovani e soprattutto le donne le protagoniste del cambiamento. Le donne iraniane hanno fatto la loro rivoluzione e si sono servite perfino del chador, che in Occidente viene visto come il simbolo dell’oppressione, per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro.
Abbiamo ascoltato le loro voci.
TEHERAN La Scuola di Musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono trasportando violoncelli, violini , strumenti a fiato. Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica, bandì ogni genere di musica, che considerava parte di quell’intossicazione da Occidente contro cui erano insorti i rivoluzionari. Trasportare un violino o un oboe fu vietato in Iran, era come trasportare un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto, come altri fissati al tempo della rivoluzione, non sia mai stato formalmente abolito. Quando un concerto viene trasmesso in tv, gli operatori televisivi fanno attenzione a non filmare gli strumenti, la faccia di chi suona sì, magari anche le mani, ma lo strumento no, non si sa mai.
Sono già le otto di sera e Kimia non smette di fare domande in questa master class speciale che la Fondazione Roudahy e il ministero della Cultura islamica offrono agli studenti di musica grazie ad un accordo con Roma, con la World Youth Orchestra del direttore Damiano Giuranna, Santa Cecilia e la Sapienza che prevede scambi, formazione, concerti congiunti. A luglio ci sarà un concerto con musicisti e cori dei due Paesi, e l’ambizioso progetto è di suonare due nuove composizioni di musica sacra, una iraniana e una italiana, ma scambiando i testi religiosi. Il compositore italiano userà il Corano, quello iraniano la Bibbia. La musica contro i pregiudizi.
Kimia suona l’oboe nella Tehran Symphony, è la migliore del gruppo che segue la master class di Francesco De Rosa, primo oboe di Santa Cecilia, ma vuole diventare ancora più brava. Vorrebbe anche avere un nuovo strumento, che non si può permettere. « Ne ho comprato uno di seconda mano, che ha almeno trent’anni e mentre i violini migliorano invecchiando - sospira -, i legni ahimé peggiorano». Vorrebbe imparare il concerto per oboe di Mozart ma per questo mese (le master class avvengono una volta al mese) il maestro le assegna una serie di esercizi da ripetere un’ora al giorno. « Quando la tecnica è sotto controllo il cuore batte da solo, senza bisogno di un pacemaker», le dice il maestro.
Kimia aveva la passione della musica fin da ragazzina. «Mio padre compone musica per matrimoni e altre cerimonie pubbliche » . Kimia aveva cominciato con il violino ma è mancina e nessun insegnante aveva ritenuto di potersi occupare di lei. Poi aveva sentito un oboe ed era rimasta affascinata, quello sarebbe stato il suo strumento. Ha venticinque anni, vive a Teheran da sola, dà lezioni di musica per mantenersi ed è felice di avere per la prima volta maestri di fama internazionale. Non smetterebbe mai di imparare. Il suo sogno è di poter suonare una volta in una delle grandi orchestre del mondo. Già suonare con la World Youth Symphony le è sembrato miracoloso.
La Scuola di Musica, il solo conservatorio statale di Teheran, è sopravvissuta a tutte le intemperie degli anni post- rivoluzione continuando a funzionare, seppure in sordina. E tre anni fa dopo decenni di chiusura ha riaperto i battenti anche la Tehran Symphony. L’arte di rompere silenziosamente le regole in Iran è un fenomeno di massa, che in nessun altro Paese raggiunge queste dimensioni, e per quanto possa sembrare assurdo contribuisce alla stabilità della Repubblica islamica. Come se ci fosse una tregua silenziosa tra governanti e governati: voi non ci date fastidio e noi non vi rendiamo la vita difficile quanto potremmo. Chi paragona l’Iran a quello degli anni dopo la rivoluzione vede un altro Paese, e i cambiamenti che in quasi quarant’anni l’hanno trasformato non sono dovuti a movimenti politici o a battaglie dell’opposizione, ma ai semplici comportamenti quotidiani dei normali cittadini, soprattutto giovani e ancora di più donne.
Le donne hanno fatto la loro rivoluzione, usando a loro vantaggio perfino i divieti che la rivoluzione, a sorpresa, teneva in serbo per loro. Per esempio il chador, che in occidente è diventato il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce da noi che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perché se ne sono servite per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro svolgendo attività che un tempo erano loro inaccessibili. Eppure ogni volta che c’è qualche gara internazionale in Iran, l’ultima è stata per esempio un torneo di scacchi, c’è qualche competitrice che rifiuta di metter piede in Iran per dare l’esempio di non sottostare “ all’oppressione”. « Ma è proprio il contrario di quello che serve a noi - dice Kimia -. Io spero che in futuro, con o senza foulard, la riapertura al mondo cominciata con Rouhani continui».
Le parabole dei Pasdaran
Alla fine, come sostiene Kimia, il regime si è adeguato ai cambiamenti. Anni fa le parabole sui tetti delle case venivano regolarmente confiscati dai basiji – e regolarmente ricomprati dagli utenti (si diceva li importassero gli stessi pasdaran che ordinavano il sequestro). Oggi non si sente più parlare di sequestri, né di portoni tenuti accuratamente chiusi, né di basiji che approfittano di una porta momentaneamente lasciata aperta per correre sul tetto a requisire gli impianti satellitari. Tre quarti della popolazione le possiede.
Lo stesso vale per il sesso fuori del matrimonio: è proibito e punito con pene molto severe, ma ormai non c’è famiglia a Teheran dove un figlio o una figlia non convivano con un compagno o una compagna, senza essere sposati. Li chiamano matrimoni bianchi, perché i conviventi non hanno stampigliato sulle loro carte d’identità l’avvenuto matrimonio. Altrettanto si può dire per l’alcol, che ognuno può farsi recapitare a casa con una telefonata, o dei codici di vestiario, che ogni ragazza interpreta a modo suo, oppure dei cani, considerati non islamici ma che tutti portano a passeggio senza conseguenze.
I comportamenti quotidiani collettivi hanno cambiato il Paese, anche se le leggi non sono cambiate. Una ragione è anche che il regime non è monolitico, tutt’altro. Ha molte voci, spesso cacofoniche. Religiosi, militari e burocrati si dividono tra fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori. E sebbene la parola definitiva spetti agli organi religiosi, e in particolare alla Guida Suprema, molto cambia della politica estera, sociale e culturale a seconda della fazione che prevale in quel momento. Alle elezioni del prossimo 19 maggio gli ultraconservatori cercheranno di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano ad un presidente moderato, Hassan Rouhani.
L’accordo tacito tra governanti e governati vale finché uno sguardo esterno non lo nota. Quando questo accade il regime, per non apparire debole, applica all’improvviso leggi dimenticate da anni. Così il giornale femminile
fu chiuso per mesi un anno fa perché parlò dei matrimoni bianchi. E può accadere che finisca in carcere a lungo un giovane utente di Facebook.
Non fa nulla se un account Facebook ce l’hanno anche le massime autorità del Paese, tra cui il presidente e la stessa Guida Suprema Khamenei. Perché
Facebook insieme con altri social media resta proibito e accessibile solo attraverso un vpn che aggira il filtro statale che lo blocca.
Quanto il regime si stia adeguando si è visto anche in questi giorni preelettorali (insieme alle presidenziali si vota per i municipi). Il Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del regime, che prima d’ora non ha mai ammesso la candidatura dei kheyr-e khodi, coloro che sono fuori dal sistema (a fronte dei khodi che ne fanno parte), ha lasciato passare attraverso le sue fitte maglie candidati finora impensabili, borghesi che pur restando in Iran sono vissuti in una specie di emigrazione interna. Come l’architetta urbanista Taraneh Yalda. O attiviste sociali come Amene Shirafkan e Leila Arshad. Oppure giovani che anni fa erano stati arrestati perché attivisti studenteschi, come Abdollah Momeni.
La borghesia senza chador
«Perché dovremmo continuare a lasciare che gente molto meno preparata di noi decida le sorti di questa città?», dice Taraneh Yalda, laureata in architettura a Parigi, urbanista, autrice per il Comune di un molto lodato master plan per il riassetto dei quartieri più poveri del sud di Teheran, che però è rimasto sulla carta. La novità delle prossime elezioni è anche che donne borghesi come Taraneh, che avranno votato sì e no due volte in vita loro, la prima per Khatami nel 1997 e la seconda per Rouhani quattro anni fa, abbiano deciso di candidarsi. Jeans e maglietta scura, Taraneh si muove svelta in quello che chiama divertita il suo quartier generale, mentre mi fa vedere una foto del figlio entomologo che ha vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, offre ai visitatori un tè con un pane speciale che fa solo una pasticceria qui vicina, e posa per le foto che dovrà postare sul suo sito elettorale. La campagna elettorale viene fatta esclusivamente su internet.
Il suo quartier generale è nel centro popolare e commerciale della capitale, sulla via Jomhuri. «Copri di più i capelli», le raccomanda il fotografo. Ma lei obietta: « No, io sono così » . Non credo che abbia mai indossato un chador. Appartiene a quella borghesia iraniana benestante che aveva fatto la rivoluzione quando nessuno si aspettava che finisse con una teocrazia e poi è sempre rimasta esterna alla Repubblica islamica, vivendo un po’ nella diaspora e un po’ nei quartier alti di Teheran Nord, attingendo ai beni di famiglia e a qualche prestazione professionale. Certamente l’arrivo di Trump e le sue minacce di rivedere l’accordo nucleare spingono tutti – regime e outsider - a non prendere rischi, a consolidare il più possibile la stabilità di cui gode l’Iran in mezzo a un Medio Oriente dilaniato.
Una rielezione di Rouhani appare per questo il risultato più auspicabile. Alla popolazione, per quanto delusa di non aver visto dopo la cancellazione delle sanzioni l’atteso miracolo economico. E probabilmente anche ai massimi vertici, il cui cuore batte per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ( un religioso nominato l’anno scorso da Khamenei alla guida della potente Fondazione Astan-eQods di Mashhad). L’unico a uscire dal coro generale della prudenza è stato l’ex presidente Ahmadinejad che si è candidato nonostante i “ consigli” di Khamenei e in una conferenza stampa ha accusato il Leader di aver voluto lui il pugno di ferro contro l’onda verde del 2009. Ha ancora un certo seguito, avendo distribuito largamente sussidi a gente che non aveva mai visto vero denaro, e si aspettava forse una protesta da parte loro. Ma nessuno ha raccolto la provocazione.
« È incredibile, non ho più trovato nessuno. Tutti miei vecchi amici sono partiti. I miei coetanei, compagni di studi, tutti emigrati » dice Arianne Nassir, trentaquattro anni, tornata a Teheran dopo un lungo periodo passato in Italia. Molti giovani iraniani, soprattutto a Teheran, dopo le manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, non ebbero scelta: o la prigione o l’esilio. «Ho solo nuovi amici, che sono molto diversi da quelli che avevo – dice Arianne -. Si occupano solo di telefoni, di computer e di vestiti. Guai a mettersi sempre lo stesso vestito! Le ragazze spendono in vestiti e creme di bellezza tutti i soldi che hanno. Io non ero abituata così. Ci stiamo allineando a modi di vivere che già mi sembravano vacui in Italia».
D’inverno i giovani si ritrovano a sciare, d’estate nelle gallerie. Qualche volta al cinema, al teatro, a un concerto. «Ma si parla poco, diversamente dagli anni quando son partita» dice Arianne. «E la novità sono i nuovi ricchi, i rich kids che sono davvero come si vedono nelle caricature. I genitori hanno fatto una barca di soldi, pensano solo alla macchina, una Porsche, una Maserati è tutto quello che vogliono dalla vita. E i più ricchi, naturalmente, anche la casa. Hanno abitazioni dorate, marmi dappertutto » . Sono però più liberi di come eravamo noi, racconta. « La maggior parte convive. Alcuni con il consenso delle famiglie, altri in aperto contrasto con loro. E tra di loro ci sono molti figli e figlie di ayatollah e esponenti di spicco del regime » .
In Italia Arianne viveva in una città ligure, dove aveva anche trovato un lavoro che le piaceva, come istitutrice in un asilo, ma si è sempre sentita straniera. Ora è ritornata a Teheran, dove abita il padre, professore universitario, perché in Italia, se non hai conoscenze sei emarginata, dice. Anche a Teheran è così, anzi molto di più, ma lei lì confida nelle conoscenze paterne. Per il momento fa diversi lavori, tutti sottopagati: assistente per la campagna elettorale di una candidata, e collaboratrice in un progetto governativo per la promozione dei giovani talenti ( il ministero della cultura islamica sotto Rouhani punta molto alla promozione di giovani artisti iraniani). Spera però, vista la sua ottima conoscenza di diverse lingue, di poter aspirare presto a un lavoro interessante e pagato bene. Ogni giorno fa domande e colloqui di lavoro. A Teheran molte società internazionali hanno già aperto uffici ma, finché avranno paura che il governo Trump o i tribunali americani puniscano chi fa affari con l’Iran, nessuno investe. Né assume dipendenti.
Il tabù della droga
L’assenza di investimenti stranieri è l’accusa principale da cui deve difendersi il presidente Rouhani nei dibattiti elettorali: l’economia non è ripartita dopo la cancellazione delle sanzioni, la disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento, per ora sono arrivati solo beni di consumo per i ricchi che a loro volta hanno paura d’investire ma non sanno come spendere i soldi se non comprando appunto macchine di lusso o costosi profumi. Così Rouhani viene accusato dagli avversari di aver ceduto all’Occidente in cambio di una bottiglia d’acqua di colonia.
Leila Arshad ha avuto tanti fastidi con le autorità per le sue attività di operatrice sociale che è riluttante a parlare di sé anche ora che si è candidata al municipio di Teheran. Deve incontrare ancora tante resistenze, se una lezione che doveva tenere al Politecnico Amir Kabir è stata cancellata, e solo con un’ora di ritardo Leila ha potuto convincere i dirigenti del Politecnico a lasciarla parlare. Arshad fin dagli anni 90 era stata la prima a sollevare il problema dei bambini abbandonati per strada e a chiedere al governo di far qualcosa per loro. Dieci anni fa ha fondato una organizzazione non governativa che opera in uno dei quartieri più poveri e desolati di Teheran Sud. In mezzo a un terreno polveroso la casa circondata da una ringhiera di metallo ospita donne con un terribile segreto. Sono donne drogate, un numero che cresce ogni giorno. Per gli uomini qualche istituzione che si prende cura di loro c’è, ma per le donne l’uso della droga è talmente tabù che né loro ne parlano né se ne può parlare in pubblico.
Quando Leila aprì l’istituto la polizia agiva solo arrestandole e le famiglie avrebbero preferito saperle morte. La svolta è avvenuta quando Teheran rischiò un’epidemia di Aids. «A quel punto - dice Leila - anche le autorità hanno cominciato ad ammettere che la dipendenza è una malattia, non un crimine » . Ma l’argomento resta così sensibile che comunque Leila mi chiede di evitare di menzionare il nome della clinica. Ancora oggi si legge sui giornali conservatori che la dipendenza delle donne dalla droga è un trucco dei nemici per attaccare «i valori islamici delle famiglie iraniane».
Le stime più contenute, quelle interne dell’ Iran’sDrug Control che sono molto inferiori a quelle internazionali, parlano di 3 milioni di drogati su 76 milioni di abitanti di cui un terzo donne. Alla clinica avevano cominciato distribuendo metadone, ma le ragazze venivano arrestate quando uscivano e dopo mesi di prigione tornavano a casa in condizioni peggiori di prima. Così Arshad ha cambiato strategia e nella clinica si occupano solo di chi ha già fatto il passo della disintossicazione: per aiutarle a restare pulite, trovare qualche lavoro, e dare assistenza ai figli. L’oppio e l’eroina afgani passano dall’Iran per raggiungere i mercati globali.
Sotto gli occhi della Nato la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è decuplicata in questi anni, raggiungendo vette mai sfiorate prima. Così in Iran trovi la droga dappertutto, costa poco, te la offrono perfino nei saloni di bellezza. Gli uomini trovano sempre qualcuno che gli propone di vendere droga in cambio di una dose. Sono loro i primi a drogarsi, di solito, poi spingono le donne a farlo, mogli e figlie, perché poi le faranno prostituire per avere la droga assicurata.
Mentre io e Leila parliamo bussa un bambino con la madre, sono venuti a salutare. Una storia terribile: lei aveva partorito nel parco e voleva vendere il bambino per procurarsi la droga. Anche nel suo caso era stato il marito a dargliela, poi erano andati ognuno per la propria strada. Loro l’hanno salvata, ha seguito il programma di riabilitazione, imparato un mestiere ed è andata a cercare il marito per convincerlo a smettere e c’è riuscita. E il marito per riconoscenza ha adottato il bambino che non era suo. Ora lavorano entrambi per Medici senza Frontiere. Una storia a lieto fine, ci sono voluti otto anni.
All'inizio non era così
Maryam Khanon ha 45 anni, tre figlie, due sposate e con gravi problemi come lei. Si alza alle cinque, va a lavorare al Centro Nord, fa servizio da diverse famiglie, non finisce mai prima delle dieci di sera. Poi riprende una serie di taxi collettivi, perché a quell’ora di autobus non ce ne sono più e torna a casa. E la mattina dopo ricomincia. Il marito è drogato, per guadagnare qualcosa è andato in Afghanistan con degli amici a procurarsi la droga e poi è rimasto inchiodato. Maryam si è rifiutata di prenderla, lui è andato via di casa, torna ogni due, tre mesi a farsi dare un po’ di soldi. Una delle figlie sposate è nella stessa sua situazione. Ma forse la figlia divorzierà. La droga è condizione sufficiente per pretendere il divorzio e tenersi i figli. Maryam invece, alla signora per cui lavora e che la spinge a divorziare anche lei invece di mantenere un marito come il suo, risponde di no. Per lei il divorzio è una cosa brutta. E una donna divorziata non vale più nulla.
La confessione di Susan è venata dalla tristezza ma anche dall’orgoglio. « Mi sento a volte come Don Chisciotte, soffro di nostalgia, la mia è la generazione che ha creduto nella rivoluzione, ma mia figlia pensa che abbiamo sprecato la nostra gioventù. Nei sui occhi leggo un velo di rimprovero o di compatimento, mentre noi eravamo orgogliosi di aver preso parte a una rivoluzione che è stata una delle grandi insurrezioni della storia del ventesimo secolo, un grande movimento popolare e non sanguinoso. Poi fu ridotto a movimento esclusivamente religioso, ma all’inizio non era così ».
Con Susan Shariati ci incontriamo sempre nello stesso caffè di fronte a casa sua, dentro il parco di una vecchia villa che ospita il museo del cinema. Susan Shariati è tornata in Iran dall’esilio parigino alla fine degli anni 90, insieme con la madre e le sorelle. Una delle strade principali di Teheran è intitolata a suo padre, Ali Shariati: un lungo viale che attraversa la città da Sud a Nord, e c’è anche un piccolo museo nella casa dove la famiglia aveva abitato mentre Shariati si nascondeva o era nelle prigioni dello scià. Si potrebbe perciò immaginare che il filosofo, considerato l’ispiratore dei rivoluzionari del 1979, sia tenuto in grande considerazione dal regime, ma l’apparenza inganna, come spesso accade per tante cose in Iran. Per il regime, Shariati è un intellettuale scomodo. I suoi libri sono stati a lungo vietati, in particolare “Religione contro la religione”. «Shariati era un intellettuale degli anni Sessanta - dice Susan -. Troppo anticlericale per piacere al regime.
Oggi i giovani hanno ricominciato a leggerlo, soprattutto gli scritti letterari, i romanzi, meno quelli di carattere saggistico». Era un umanista che mette l’uomo al centro del suo pensiero. Un religioso la cui idea di Dio è spirituale e non temporale, era contrario al velayat-e faqih, l’autorità del Giurista Supremo instaurata da Khomeini. Prima di Khomeini gli sciiti avevano sempre creduto che in assenza del Tredicesimo Imam - il Mahdi, che alla fine dei tempi riapparirà nel mondo a portare il bene - il clero doveva limitarsi alle mansioni di proteggere il popolo e salvaguardare la fede, senza partecipare direttamente agli affari dello Stato. Questa dottrina “quietista” fu rovesciata da Khomeini che dall’esilio di Najaf, dopo essere stato cacciato dallo scià per le sue attività politiche, teorizzò il governo diretto del clero.
Socialisti timorosi di Dio
È vestita come se fosse a Parigi, un impermeabile chiaro, pantaloni e un foulard in testa. Delle tre sorelle, Susan è quella che si è presa l’incarico di rivedere e pubblicare tutti gli scritti del padre. « Shariati ha parlato per primo di politicizzazione della religione, ma se si guarda che cosa è diventato oggi l’Islam politico si capisce quanto fosse diversa la sua visione del mondo. Spiritualità, uguaglianza, libertà erano i tre pilastri del suo umanismo islamico radicale, tutto il contrario di quello che oggi è l’Islam politico». Di formazione marxista, Shariati criticò anche la democrazia liberale: senza uguaglianza sociale non è che demagogia, scrisse. Già il nonno, un seguace di Mossadeq, aveva cresciuto a Mashhad una generazione di antimonarchici, «socialisti timorosi di Dio» li definiva.
Essere di sinistra è una tradizione di famiglia. Anche per Ali Shariati la religione doveva lottare contro l’oppressione e le disuguaglianze nella società e liberarsi dall’osservanza pedissequa della tradizione. Si può rompere la forma per mantenere il contenuto, diceva, tutto il contrario di chi obbliga la società a seguire alla lettera la sharia. «La ribellione era per lui il perno della libertà di scelta. Mi ribello dunque sono. Come per Camus».Susan insegna storia. «La generazione di questi ventenni – dice guardando le ragazze e i giovani che affollano il caffè – è la terza generazione dopo la rivoluzione, ha una mentalità completamente diversa dalla nostra. La mia è una generazione politica, nostalgica della politica; quella dei miei figli è antipolitica, loro non capiscono quale senso abbia avuto una lotta che ha finito per limitare la loro libertà. I ventenni sono al di fuori della politica. Vivono come vogliono e pensano che prima o poi la politica si adeguerà».
I giovani vanno a votare, quando ci vanno, ma solo per evitare il male peggiore. Votarono per Rouhani nel 2013. Il 19 maggio lo rivoteranno, anche se nei social media l’eroe del momento è il vicepresidente Jahangiri, che è stato presentato dai moderati solo per avere un’alternativa nel caso che Rouhani venisse rifiutato dal Consiglio dei Guardiani. Nei dibattiti elettorali televisivi si è guadagnato un grande seguito per il suo coraggio. «Io sono un riformatore » ha detto senza giri di parole, e se si pensa che il riferimento principale dei riformatori, l’ex presidente Khatami, non deve essere nemmeno nominato in pubblico, Jahangiri ha dimostrato una capacità di rischiare che ha suscitato ammirazione.
Il caffè della Casa del Cinema è un posto per giovani, come i tanti caffè di Teheran spuntati come funghi negli ultimi anni. Le ragazze si conoscono e si salutano con particolare calore, come se non si vedessero da tempo o fossero appena sfuggite, fuori, a una vita ostile da cui non è facile mettersi in salvo. Lo stesso sentimento che si ritrova al teatro. Anche il teatro è frequentato esclusivamente da giovani che sembrano liberarsi in quelle sale buie delle strettoie delle proprie vite, vedendole rappresentate.
A Teheran ci sono almeno una ventina di teatri privati, allestiti negli appartamenti trasformati in associazioni o club. Plateau, li chiamano, memori che il francese era stato un tempo la lingua franca dell’aristocrazia. Con un’amica vado a vedere Bipedar, orfano, un lavoro teatrale che in queste settimane ha grande successo e che si tiene al Teatro Comunale, il più importante della città, anche se in una piccola sala. È recitato da attori di primissimo ordine, tutti maschi, anche nelle parti femminili, perché ci sono troppi momenti di contatto e il codice iraniano non permette che uomini e donne si tocchino in pubblico. È tratto da un antica favola iraniana su un lupo e una capra, molto più complicata di quella di Esopo. Qui la capra sposa il lupo per vedere di fermare i suoi tentativi di divorare i suoi figli capretti, ma alla fine il lupo mangia l’erba e i capretti diventano carnivori. Metafore sempre più prossime alla vita reale. Di tutte le arti il teatro è per gli iraniani allo stesso tempo quella più vicina e quella più distante, perché mette in scena la vita in un Paese dove la vita viene messa in scena ogni giorno. Il regime tiene tutto sotto controllo, anche se negli ultimi anni è diventato molto più liberale. E in fondo che l’Iran sia ammirato nel mondo oltre che per la cultura millenaria per le sue prove di modernità fa piacere anche ai vertici della Repubblica islamica.
La mia amica è una che riesce – ce ne sono pochi - a mantenere un equilibro tra la propria libertà e gli arbitrii del regime. Si attiene alle regole e pretende che il regime si comporti con lei con altrettanta lealtà. Non sempre ci riesce ma spesso sì. Antonia Shoraka, questo il suo nome, ha fatto il liceo negli anni Ottanta ovvero subito dopo la rivoluzione islamica e nel pieno della guerra con l’Iraq. Un periodo che lei chiama «oscuro per via della guerra, delle sanzioni, della mancanza di generi alimentari e per la chiusura culturale » . « Mi ricordo – dice - che era rigorosamente proibito guardare film occidentali e le videocassette venivano piratate. Io e le mie compagne di scuola se ce ne prestavano alcune, dovevamo nasconderle addosso perché all’ingresso del liceo facevano l’ispezione corporale. Nascondere una cassetta era un grande rischio perché se fossi stata scoperta con una videocassetta tra la schiena e la cintura dei pantaloni, rischiavo di essere privata della possibilità di entrare all’università dopo la maturità. Il criterio di ammissione era l’idoneità morale ed era la preside del liceo a confermarla. E non l’avrebbe mai fatto se avesse scoperto la cassetta. Le ispezioni non venivano fatte solo per scoprire le videocassette, ma anche perché all’epoca erano ancora attivi gruppi dell’opposizione armati come il MKO e i paramilitari comunisti che facevano saltare in aria un obiettivo un giorno sì e uno no, perciò all’entrata delle scuole e degli uffici governativi i controlli erano severi per vedere se non entrassero armi o anche solo volantini anti regime. Nemico, doshman, era la parola che risuonava più spesso nell’au-
la». Antonia ricorda anche le gite scolastiche al Behesht-e Zahra, il cimitero , chiamato Paradiso di Zahra, dove seppellivano i martiri, i caduti in guerra. Le scolaresche venivano fatte scendere una ad una nelle tombe vuote, per provare che cosa significa l’estasi del martirio.
« Secondo me - dice Antonia -, una delle maggiori difficoltà’ dell’Iran di oggi è l’incapacità di una gestione sistematica. Solo così si potrebbe salvare il paese dalla dispersione delle energie e dei beni materiali. Finché non ci saranno le persone giuste nei posti cruciali, veramente esperte, e finché non ci sarà un sistema di controlli veramente efficace e capace di punire i corrotti e i trasgressori, domineranno coloro che hanno più influenza, non importa quanto incapaci, e i loro protetti, e tutti continueranno ad aggirare la legge senza risponderne». Ma Antonia ha speranza nelle donne e nei giovani. « Più si va avanti più la gente prende coscienza dei propri diritti e sopratutto impara come muoversi in un sistema dove un no non e’ mai un vero no come nemmeno un sì è mai un vero sì». Questa è la regola che la guida. È diventata di recente capo del dipartimento di italianistica dell’università Azad, ha un ufficio di traduzioni legali, e lavora come critico cinematografico, scrivendo recensioni sul cinema iraniano su giornali e riviste come
e
Shargh.
Se tenesse a pieno tempo l’ufficio di traduzioni legali guadagnerebbe meglio, ma le si ottunderebbe il cervello, dice. E per questo preferisce fare il critico, che del resto fa molto bene. «Mi piace partecipare a dialoghi alla televisione o alla radio per aver modo di scambiare idee con i nostri registi che in questo momento rispecchiano nel modo più sensibile la situazione del nostro Paese. E anche parlare nei centri culturali dove ci sono i giovani. Solo così si può capire l’Iran, vivendolo tra la gente».
La stella del cinema
Al centro culturale di Araf Baran brilla una stella. È l’attrice Fatemeh Motamed Arya, che gli amici chiamano Simin. Presenta il suo ultimo film premiato al festival Fajr, Abijan. Un nome femminile. È la storia di una donna che si dipana in una grande casa durante la guerra. Gli otto anni della terribile guerra contro Saddam Hussein continuano ad essere una fonte importante per il cinema iraniano. Abijan vive in una di quelle vecchie famiglie patriarcali iraniane fatte di fratelli, cugini, zii che litigano, si disputano, amoreggiano. Lei, che è stata lasciata dal marito per un’altra moglie più giovane, ha un grande dolore, quello del figlio al fronte di cui da tempo non si hanno notizie. Abijan rifiuta l’idea che il figlio sia morto. La scena più bella del film è quando la donna legge il suo nome sulla lista dei prigionieri di Saddam – il figlio è vivo anche se privo di una gamba -, e comincia a danzare con questo foglio in mano, arrivando fin nel cortile.
Acclamatissima, amatissima, conosciutissima, Simin ha un carisma, una luminosità ineguagliati. «Non avrei mai potuto dire di no a un film che lancia un messaggio contro la guerra, non solo la guerra contro l’Iraq di allora ma tutte le guerre. Il mondo dovrebbe vergognarsi oggi della guerra in Siria come avrebbe dovuto vergognarsi allora della guerra voluta da Saddam, invece di appoggiarlo ». Simin ha sempre detto quello che pensava, sempre impegnata, per la pace e per le riforme nella Repubblica islamica, attaccata per strada dai basiji li ha sempre affrontati con coraggio e cercando di parlare con loro, di convincerli che la verità non è una sola e la violenza non è la soluzione. Dopo il 2009, quando aveva fatto lo spot elettorale per Moussavi, Ahmadinejad le fece togliere il passaporto e le fu vietato di lavorare nel cinema. Furono anni difficili ma lei non si arrese e con un piccolo gruppo si mise a recitare Madre Coraggio in un teatrino di Teheran.
«Anche le giovani donne di oggi dimostrano coraggio», mi dice. Con noi c’è una giovane scrittrice, Nasim Marashi, nata nel 1984, il cui primo libro ( tradotto in italiano da Parisa Nazari per Ponte 33) ha avuto un successo straordinario alla Fiera del Libro che si è chiusa in questi giorni, e dove l’Italia era il primo Paese occidentale ad essere ospite d’onore. Payizfasl- e akhar- e salast, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno, è il titolo del libro, premiato con il più importante premio letterario iraniano. Racconta di tre donne, Leila, Shabane e Roja, tre ragazze che hanno grandi aspettative rispetto alla vita ma devono fare i conti con gli ostacoli che la vita presenta. Leila, che ha un matrimonio felice, viene però abbandonata dal marito quando questi decide di proseguire gli studi all’estero e lei invece non se la sente di lasciare l’Iran. Laureata in ingegneria, non vuole continuare quella professione perché ama scrivere, e comincia a lavorare per diversi giornali.
Quando tutti saranno costretti a chiudere, durante la repressione del 2009, la sua vita è distrutta. Shabanè ha un fratello handicappato di cui si prende cura, Roja mette tutto l’impegno che può per ottenere un visto e studiare in Francia, nonostante debba lasciare sola a Teheran la madre vedova. Non dorme la notte per essere alle quattro di mattina a fare la fila davanti al consolato francese. Ma arrivano i disordini del 2009 e non otterrà il visto. «Tutte e tre sono parte di me», mi spiega Nasim. Anche lei è laureata in ingegneria, anche lei ha chiesto un visto per Parigi, anche lei sognava di lasciare la vita vecchia per quella nuova. Ma il diritto alla felicità è un diritto che si paga caro. Nasim è però ottimista sul futuro: « Il futuro come lo vogliamo si sta realizzando» ha detto al pubblico che la stava ascoltando. Erano quasi tutti ragazzi.
il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)
Il bello (si fa per dire) arriva ora. Consegnate ai presidenti di Camera e Senato le firme della petizione “Restituire la sovranità agli elettori”, il lavoro del Comitato per il No e del Comitato contro l’Italicum è tutt’altro che finito. Anzi, si può dire che comincia adesso e non saranno rose e fiori: la strada per arrivare ad una legge elettorale democratica e coerente con i principi costituzionali – che metta gli elettori in grado di eleggere un parlamento realmente rappresentativo e restituire credibilità alle istituzioni – resta irta di ostacoli.
Dopo le primarie del Pd – che anziché portare chiarezza come molti speravano e altrettanti millantavano, stanno aggiungendo confusione a confusione – le cosiddette trattative per arrivare ad un testo base per il lavoro della Commissione competente alla Camera sembrano piuttosto mercanteggiamenti da suk: l’offerta cambia a seconda dell’interlocutore, a conferma che la proposta renziana del modello tedesco era solo una boutade.
E pazienza se si sta parlando della legge elettorale, cioè la regola fondamentale della democrazia: non è all’orizzonte una visione complessiva e di lungo periodo su che tipo di parlamento (e dunque di istituzioni) si vuole. Ma questo è anche un modo per tenersi le mani libere e prendere tempo dicendo tutto e il contrario di tutto (dicesi menare il can per l’aia) e magari dimostrare che l’accordo tra i partiti è impossibile, quindi tanto vale andare a votare a ottobre.
Ecco perché è vietato abbassare la guardia e i Comitati proseguiranno il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari. La settimana scorsa si è svolto un primo appuntamento importante: un convegno nel corso del quale i Comitati si sono confrontati con le forze politiche, quelle che hanno aderito alla campagna per il no nel referendum costituzionale. Nell’incontro, i Comitati hanno ribadito gli argomenti e le ragioni che hanno sostenuto la petizione sulla legge elettorale da ultimo presentata ai presidenti di Camera e Senato.
È stata rivolta alle forze politiche intervenute una forte sollecitazione a impegnarsi soprattutto per una legge di impianto proporzionale che favorisca la piena rappresentatività delle assemblee elettive e che riconosca la libertà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti cancellando il voto bloccato sui capilista. È stata sottolineata la inaccettabilità di ipotesi, pur emerse nel dibattito di questi giorni, come l’abbassamento della soglia del premio di maggioranza (o comunque la conferma del premio) o il rifiuto di aprire alle coalizioni. Ipotesi che andrebbero soprattutto a danno delle forze politiche minori. I direttivi hanno confermato il proprio perdurante impegno per una legge elettorale pienamente conforme alla lettera e allo spirito della Costituzione, di cui il paese ha estremo bisogno.
Per meglio portare avanti questo impegno, i Comitati hanno anche deciso di riorganizzarsi. La riunione congiunta dei direttivi di giovedì scorso ha avviato il percorso di unificazione delle due associazioni che sarà sancita solo dopo l’assemblea nazionale dei comitati territoriali (prevista a metà giugno) con le modifiche statutarie necessarie. Nella riunione, i direttivi hanno concentrato la loro attenzione proprio sulla legge elettorale, partendo dagli incontri con i presidenti di Camera e Senato, cui sono seguiti quelli con i presidenti delle Commissioni Affari costituzionali dei due rami del parlamento.
È stato inoltre deciso di formare due gruppi di lavoro per seguire passo passo l’iter della legge elettorale prima alla Camera poi al Senato, ipotizzando anche un rilancio della raccolta delle firme e la possibilità di organizzare iniziative e manifestazioni durante l’iter della legge elettorale. Perché le proposte in campo sembrano voler ripetere gli errori di Porcellum e Italicum: tre leggi elettorali incostituzionali una di seguito all’altra rappresenterebbero davvero un non invidiabile primato europeo.
la Repubblica, 12 maggio 2017
Il Forum con il ministro dell’Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l’esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. “Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia”.
la Repubblica, 12 maggio 2017
IL dottor Mohanad Jammo non risponde al telefonino. Subito dopo manda un selfie su WhatsApp in cui appare in camice verde, mascherina su naso e bocca, la cuffia da chirurgo in testa. E il messaggio: «Mi scusi, sto per entrare in sala operatoria». La sua voce, nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica, ha fatto il giro del mondo: dal Washington Post alla Bbc ad Al Jazeera e molti altri l’hanno rilanciata in tv, alla radio e su Internet.
Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro. Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”, in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.
L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.
A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.
In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.
Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.
Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.
Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».
Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).
Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.
Traduzione di Pietro Terzi
il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2017 (p.d.)
il manifesto, 10 maggio 2017
Alla proposta di legge del governo israeliano che sancirebbe una forma sottile di apartheid, l’opinione pubblica internazionale ha reagito in modo debole, senza allarmarsi troppo per il fatto che la vita in Israele è già diventata un’abitudine costante alla discriminazione e al razzismo.
La legge proposta dal deputato Avi Dichter del Likud, fatta propria domenica scorsa dal Comitato ministeriale per la legislazione e che è in via di esame alla Knesset, è chiamata «Legge della nazione». Dichter, in passato comandante dello Shin Bet (i servizi segreti), aveva già proposto la legge in precedenza, come deputato di Kadima, quando la formazione era guidata da Tsipi Livni.
La legge si riferisce a questioni ben note. Nel 1948 l’Onu sancì la creazione di uno Stato ebraico. L’olocausto era recente e ben presente negli animi, e molti dei caduti nella guerra di indipendenza erano persone sopravvissute ai campi di sterminio. La dichiarazione di indipendenza che assicurava un rifugio affidabile a tutti gli ebrei garantiva al tempo stesso eguaglianza e democrazia per tutti gli abitanti del paese, indipendentemente dall’origine e dalla religione di appartenenza.
Negli ultimi anni l’erosione della democrazia – ricordiamo la solfa continua dell’«unica democrazia del Medio Oriente» – ha avuto una netta accelerazione. Giorno dopo giorno, si è inasprita la guerra contro le organizzazioni israeliane impegnate sul fronte dei diritti umani e della democrazia, e contrarie all’occupazione.
Le decisioni contro questi gruppi aumentano e in alcuni casi non hanno solo l’appoggio della coalizione di fondamentalisti religiosi e fascisti; anche gli opportunisti di «centro» come Lapid e parte dei laburisti si accodano all’isteria anti-araba e anti-islamica. Ormai sono tutti terroristi che ci minacciano.
Ma la guerra contro il diritto democratico e la delegittimazione dell’opposizione di quei pochi israeliani che tuttora fanno ascoltare la propria voce si rafforzano quando si tratta di palestinesi, in Israele o nei territori occupati.
La legge approvata pochi mesi fa dal Parlamento – in attesa di convalida della Corte suprema – ha stabilito la legittimità del furto delle terre palestinesi.Per dirla in modo semplice e secondo la terminologia «legale», è ora possibile confiscare terre palestinesi, anche se sono state erroneamente occupate da coloni se l’occupante dimostra di averne in qualche modo bisogno. Il procuratore generale si è opposto al governo perché ritiene che questa legge non sia costituzionale; il governo sarà difeso da un noto e stimato avvocato…che si costruisce senza permesso una nuova casa nei territori occupati!
La nuova legge proposta dal governo è semplicemente un prologo: non si tratta solo dei cittadini palestinesi di Israele, l’obiettivo reale del governo è il sistema da imporre nei territori occupati da Israele. L’annessione dei territori, auspicata dalla destra radicale, aggiungerebbe alla popolazione dello Stato ebraico milioni di palestinesi ai quali, visto il razzismo imperante, sarebbe impossibile accordare uguali diritti.
L’apartheid di fatto diventerà, con la nuova legge, un apartheid di diritto. Non si tratta di un semplice cambiamento legale o della questione delle lingue ufficiali.
Questo è importante, ma perfino secondario rispetto alla questione essenziale: Israele, che discrimina in molti modi i propri cittadini di nazionalità palestinese e assoggetta milioni di altri palestinesi a un’occupazione violenta, ufficializzerà questa situazione.
Per riassumere: l’80% degli israeliani saranno cittadini privilegiati in uno Stato «democratico», il restante 20% saranno cittadini «accettati per necessità», milioni di altri saranno i nuovi soggetti dell’apartheid nelle sue attuali manifestazioni, pseudodemocratiche.
La «legge della nazione» non è solo l’apartheid in Israele; è il velato annuncio della costruzione legale che faciliterà l’annessione dei territori occupati nel 1967 e distruggerà le poche possibilità ancora esistenti di arrivare a un accordo di pace israelo-palestinese.
Ecco una vera e propria confessione pubblica, che sonda l’opinione della comunità internazionale. Il mondo ha accettato tante nostre violenze perché siamo «vittime del terrorismo»; vedremo ora come tratterà questa confessione di discriminazione ufficiale e «legale». Un preludio dell’annessione dei territori occupati.