». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
L’ottava edizione dei Dialoghi sull’uomo, il festival di antropologia diretto da Giulia Cogoli (Pistoia 26-28 maggio 2017), ha un titolo lungo: La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi. Ma va bene così: a costo di sembrare noiosi, vale la pena di insistere su quanto abbiano pesato nella nostra storia gli scambi e i contatti fra popoli diversi. Siamo tutti bastardi, tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcene a furia di sentir parlare, in televisione, sui giornali e a cena con gli amici, di linee di confine fra chi è (o ci sembra), come noi e chi invece non lo è.
È una storia vecchia: abbiamo bisogno di parole per definire le cose. Ma queste parole, a prenderle troppo sul serio, tracciano linee divisorie nette: fra bianchi e neri, romani e barbari, nord e sud; oppure (ma è lo stesso) fra vegetariani e onnivori, fra credenti e altri credenti, e fra tutti i credenti e atei o agnostici. Ovviamente, le differenze ci sono, sia biologiche sia culturali: e meno male, se no sai che noia. Però ci sono tantissime sfumature, e il linguaggio corrente le trascura; se ce ne dimentichiamo, se le cancelliamo dal nostro mondo mentale, ecco che tutto si appiattisce intorno a noi.
L’operazione comporta dei rischi, e ce l’ha spiegato il premio Nobel Amartya Sen, nel suo Identità e violenza. Un manovale Hutu di Kigali può vedere se stesso solo come Hutu e arrivare a uccidere il suo collega Tutsi, scrive Sen, ma facendolo perde di vista tutto quello che li unisce: essere entrambi abitanti di Kigali, manovali, ruandesi, africani e esseri umani.
L’idea del Festival, allora, è di portare alla luce la ricchissima rete di contaminazioni che hanno fornito tanti elementi in comune sia alle nostre culture, sia (e qui si spiega cosa c’entri la genetica) alla nostra natura biologica: un compito più semplice di quanto si possa immaginare, perché la ricerca ha fatto grandi passi avanti, e oggi comprendiamo bene differenze e somiglianze su cui l’umanità si interroga da sempre. Abbiamo visto, per esempio, che la nostra tendenza a classificare i nostri simili, ad attribuire loro un’etichetta razziale, ci ha impedito per secoli di capire quanto siano piccole le nostre differenze biologiche e come si siano formate.
E così, da quando ci siamo tolti gli appannatissimi occhiali della razza, siamo riusciti a leggere nel nostro DNA un sacco di cose sulla nostra preistoria. Oggi sappiamo molto meglio chi siamo (una specie straordinariamente mescolata, in cui ognuno porta pezzi di DNA di provenienza diversissima) e da dove veniamo (dall’Africa), mentre su dove andiamo, purtroppo, siamo incerti e confusi come sempre. Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto.
Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenze ci siano i fattori che spiegano le nostre diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere al trattamento farmacologico, il che apre grandi prospettive in medicina preventiva. E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura.
C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili.
Scontro fra culture, chi non l’ha sentita questa espressione? Col corollario: Non sono razzista, ma santo cielo! questi musulmani sono proprio diversi da noi. Per generare un ampio catalogo dei nuovi razzismi, basta sostituire di volta in volta alla parola “musulmani” l’etichetta di quelli che vorremmo discriminare. Le tre parole-chiave di questa edizione del festival ci ricordano, invece, come le nostre identità siano tutt’altro che immutabili e tutt’altro che impermeabili. Noi speriamo che ragionare insieme sulle nostre migrazioni, sulle nostre differenze e scambi che sempre ci sono stati fra popoli e culture diversi ci aiuti ad affrontare a mente fredda questa difficile fase, in cui nubi di intolleranza sempre più cupe si addensano sul cielo d’Europa.
Quello che si è svolto a Taormina sarà ricordato come il G7 più inutile, ridicolo, patetico della storia di questi incontri a livello internazionale. Un disperato tentativo di portare all’indietro le lancette della storia, a prima dell’89, della caduta del muro di Berlino. Come si fa, infatti, ad escludere oggi grandi potenze come la Cina o l’India che contano il 38 per cento degli abitanti della terra ed il 30 per cento del Pil mondiale?
Come si fa a convocare un meeting che si autodefinisce dei Grandi e ad escludere la Russia, la seconda potenza militare del mondo e con un apparato di intelligence tra i più efficienti, proprio quando un tema prioritario è quello del terrorismo. Come si fa a pensare che l’Italia, con tutto l’affetto per il nostro paese e l’orgoglio di appartenenza, possa far parte dei 7 Grandi della terra ? Forse perché ha il debito pubblico, in rapporto al Pil più grande del mondo dopo il Giappone! Ed è mai possibile pensare che il paese del sol levante in stagnazione cronica, con un peso decrescente sulla scena mondiale possa rappresentare «da solo» l’Asia , il continente dove negli ultimi trent’anni si è spostato il baricentro dell’economia mondiale? Oppure, c’è da domandarsi, che peso può avere il Canada oggi, la cui popolazione è poco più di quella della capitale cinese e , malgrado il simpatico e progressista presidente Trudeau, il suo valore aggiunto all’economia mondo è inferiore a quello della California.
E’ evidente che quello di Taormina è stato un estremo tentativo di salvare l’immagine di un Occidente che attraversa una crisi irreversibile e che non riesce nemmeno a trovare al suo interno un minimo di strategia comune. Trovare l’accordo per una lotta senza quartiere al terrorismo, senza individuare cause e attori principali, è assolutamente ridicolo se non avesse conseguenze tragiche. Lo sanno bene le famiglie siriane che vedono i loro bambini morire sotto le bombe dei Grandi , e lo sanno tutti ormai che l’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale nella strategia terroristica su scala mondiale, paese con cui Trump ha stretto pochi giorni fa un accordo per un centinaio di miliardi di forniture di armi da guerra. Certo che va combattuto l’Isis, ma lo si può fare veramente solo mettendo fuori gioco chi lo finanzia, e ridefinendo la categoria di «terrorismo» che oggi viene usata a senso unico.
Nella stupenda cornice del sito siciliano, più volte richiamata e sottolineata da tutti i media, suonava patetico, non so trovare definizione migliore, il discorso del nostro presidente del Consiglio che pensava di convincere Trump , di ammorbidirlo grazie alla bellezza di Taormina ed all’energia magmatica dell’Etna. Come se il presidente Usa fosse un bambinone cattivello che bisognava rabbonire, e non l’espressione di potenti interessi delle lobby del petrolio e del carbone che gli ordinano di boicottare gli accordi di Parigi sul clima, e dell’industria degli armamenti che aveva bisogno di rilanciare il mercato mondiale delle armi pesanti.
Donald Trump si sta dimostrando un ottimo rappresentante di questi interessi forti e consolidati negli Usa, ed ha bisogno di tutto il loro appoggio per affrontare il difficile momento, il Russia-gate, che dovrà affrontare tornando in patria. Probabilmente questo incredibile quanto rozzo presidente della superpotenza Usa non avrà vita lunga , sul piano politico, ma ha rappresentato plasticamente la fine dell’egemonia nordamericana e l’inizio della sua inarrestabile caduta. Insieme all’Occidente, a partire dalla Ue che non è più in grado di trovare una sua autonomia, di difendere la sua dignità e la sua storia, di giocare il ruolo che le spetta nel bacino del Mediterraneo.
Quello di Taormina non è stato un meeting tra i Grandi della Terra, ma un triste incontro tra i rappresentanti della Alleanza Atlantica come ai tempi della guerra fredda. E’ il canto del cigno dell’Occidente, che non vuole vedere il suo tramonto e si rifugia nostalgicamente tra le braccia dell’ anfiteatro greco più famoso del mondo, con lo sguardo rivolto al passato glorioso mentre il vento della storia lo sta travolgendo, come nell’Angelus Novus di Paul Klee : « Questa tempesta lo spinge irreversibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui nel cielo» (Walter Benjamin)
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la Repubblica, 28 maggio 2017
il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)
Tanta paura per niente. La marcia dei No G7 contro i potenti della terra, protetti da misure straordinarie di sicurezza in una Taormina blindata e inaccessibile, s’è svolta in modo colorato e pacifico. Un fiume di magliette rosse, 7mila persone secondo gli organizzatori, ha sfilato per le strade dei Giardini Naxos in modo composto. Chi ha creato ad arte la psicosi dei black bloc, inducendo i commercianti a fortificare le saracinesche dei negozi con lastre di legno e in alcuni casi di ferro, è stato sbugiardato da un movimento che ha manifestato il proprio dissenso verso le politiche anti-migranti e anti-ambientali con toni duri, ma senza degenerare in violenza.
Solo verso la fine del corteo, un gruppetto di una trentina di manifestanti, tra l’altro a volto scoperto e senza brandire armi bianche, s’è avvicinato alla zona rossa. A quel punto, la polizia in tenuta antisommossa ha caricato, lanciando fumogeni per disperderli. Il contatto è durato qualche minuto, poi è tornata la calma. Soprattutto per merito degli stessi manifestanti che sono intervenuti per bloccare chi aveva dato modo alle forze dell’ordine di reagire.
Per i manifestanti i dispositivi di garanzia dell’ordine pubblico messi a punto dal Ministero degli Interni in realtà hanno svelato «la volontà politica di instaurare un clima di terrore e criminalizzare chi si fa portatore di istanze di giustizia sociale e rivendica i diritti fondamentali costantemente lesi in una società strutturalmente corrotta e iniqua».
Prima di muoversi il corteo, al quale ha preso parte anche il sindaco della città metropolitana di Messina Renato Accorinti, ha solidarizzato con i manifestanti provenienti da Cosenza che sono stati bloccati a Villa San Giovanni dalle forze dell’ordine.
Per il movimento No G7 «sono stati tanti i tentativi di ridurre la presenza in piazza e di smorzare l’entusiasmo», a cominciare dalle perquisizioni, dai fogli di via, dagli avvisi orali nei confronti dei decine di giovani dei centri sociali di varie città.
Alcune attiviste sono state fermate e condotte in questura a Messina per essere identificate mentre partecipavano a un’assemblea pubblica. E a poche ore dall’inizio del corteo pullman di manifestanti provenienti da Napoli e dalla Calabria sono stati fermati a Villa San Giovanni per l’identificazione. Bloccati anche pullman partiti da Palermo e Catania.
Per il G7 sono stati schierati a Taormina oltre 7mila uomini delle forze dell’ordine, oltre a 3mila militari a supporto dei dispositivi di sicurezza per il vertice, trasformando la città in una zona blindata, limitando anche la libertà di movimento della popolazione. Persino per poter fare la spesa è stato necessario sottoporsi a controlli e a passaggi nei metal detector piazzati ovunque.
Per Save the Children i leader del G7, pur riunendosi in un luogo simbolico come la Sicilia, cuore del flusso migratorio del Mar Mediterraneo, non sono riusciti a impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. Perché ancora una volta l’attenzione si è spostata sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere, «pregiudicando fortemente il primo dovere che è quello di proteggere i bambini dalla violenza, dagli abusi e dallo sfruttamento, incluso il traffico dei minori». L’opportunità persa del G7 significa che a pagarne il prezzo saranno 28 milioni di bambini che sono stati costretti a lasciare la propria casa, fuggendo dalla guerra e dalle violenze.
«I leader del G7 non sono stati all’altezza delle aspettative sia sulla migrazione che sull’educazione, la sicurezza alimentare e la nutrizione. Questo vertice finisce oggi lasciandosi alle spalle milioni di bambini vulnerabili. Siamo delusi perché i leader hanno semplicemente riaffermato principi esistenti senza assumere nuovi impegni», ha denunciato Egizia Petroccione, portavoce di Save the Children.
. il manifesto, le Monde diplomatique , maggio 2017
Campi per rifugiati e sfollati, accampamenti di migranti, aree di attesa, campi di transito, centri di detenzione amministrativa, centri di identificazione ed espulsione, punti di passaggio frontalieri, centri di accoglienza per richiedenti asilo, «ghetti», «giungle», hotspots... Dalla fine degli anni 1990 queste parole occupano l’attualità di tutti i paesi.I campi non sono solo luoghi di vita quotidiana per milioni di persone; diventano una delle componenti più rilevanti della «società mondiale», una delle forme di governo del mondo: un modo di gestire l’indesiderabile.
Prodotto della deregulation internazionale seguita alla fine della guerra fredda, queste strutture hanno assunto proporzioni importanti nel XXI secolo, in un contesto di sconvolgimenti politici, ecologici ed economici. Il fenomeno indica il fatto che un’autorità di qualche tipo (locale, nazionale o internazionale), la quale esercita un potere su un territorio, colloca persone in campi di vario tipo, o le costringe a collocarvisi autonomamente, per una durata di tempo variabile .
Nel 2014, sei milioni di persone, soprattutto popoli in esilio – i karen della Birmania in Tailandia, i sahrawi in Algeria, i palestinesi in Medioriente ... –, vivevano in uno dei 450 campi di rifugiati «ufficiali», gestiti da agenzie internazionali – come l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Hcr) e l’agenzia onusiana per i rifugiati palestinesi – o, più di rado, da amministrazioni nazionali. Spesso allestiti in fase di emergenza, senza che i loro iniziatori ne avessero immaginato e ancor meno pianificato la durata nel tempo, questi campi esistono talvolta da oltre vent’anni (come in Kenya), trent’anni (in Pakistan, Algeria, Zambia, Sudan) o anche sessant’anni (in Medioriente). Con il tempo, alcuni sono arrivati ad assomigliare ad ampie aree periurbane, dense e popolose.
Inoltre, nel 2014, il pianeta contava anche più di 1.000 campi per sfollati interni, che ospitavano circa 6 milioni di individui, oltre a diverse migliaia di piccoli campi auto-organizzati, i più precari e meno visibili, con circa 4 o 5 milioni di occupanti, essenzialmente migranti chiamati «clandestini». Queste strutture provvisorie, talvolta definite «selvagge», si ritrovano in tutto il mondo, nelle periferie delle città o lungo le frontiere, su terreni abbandonati o fra le rovine, in interstizi, in edifici abbandonati. Infine, almeno un milione di migranti è passato via via in uno dei 1.000 centri di detenzione amministrativa sparsi per il mondo (400 nella sola Europa).
In totale, tenendo conto degli iracheni e dei siriani fuggiti dal loro paese in questi ultimi tre anni, si può stimare che da 17 a 20 milioni di persone oggi siano «accampate».
Differenze a parte, i campi presentano tre tratti comuni: l’extra-territorialità, l’eccezione, l’esclusione. Innanzitutto, sono spazi a parte, fisicamente delimitati, non-luoghi che spesso non risultano sulle mappe. È il caso del campo per rifugiati di Dadaab, in Kenya, il quale pure conta una popolazione di due o tre volte più grande rispetto a quella del dipartimento di Garissa, nel quale si trova. I campi hanno un status di eccezionalità: sono gestiti da norme diverse da quelle dello Stato nel quale si trovano. E questo, si tratti di campi chiusi o aperti, consente di accantonare, rinviare o sospendere il riconoscimento di un’uguaglianza politica fra i loro occupanti e i normali cittadini.
Infine, questa forma di raggruppamento umano esplica una funzione di esclusione sociale: segnala, e al tempo stesso nasconde, una popolazione in eccesso, in sovrannumero. Il fatto di essere apertamente diversi dagli altri, di non essere integrabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,giuridica e territoriale.Ogni tipo di campo sembra accogliere una popolazione particola-re – i migranti senza permesso di soggiorno nei centri di detenzione amministrativa, i rifugiati e gli sfollati nelle strutture umanitarie ecc. –, ma vi si ritrova in un certo senso lo stesso tipo di persone, provenienti da Africa, Asia e Medioriente.
Le categorie istituzionali di identificazione sembrano maschere ufficiali, applicate provvisoriamente sui loro volti. Così, uno sfollato interno liberiano che nel 2002-2003 (nel periodo più acuto della guerra civile) viveva in un campo alla periferia di Monrovia, diventa un rifugiato se l’anno successivo va a registrarsi in un campo dell’Hcr al di là della frontiera settentrionale del suo paese, nella Guinea forestale; e diventa un clandestino se nel 2006 lascia il campo e va a cercare lavoro a Conakry, dove ritrova diversi compatrioti che vivono nel «quartiere dei liberiani» della capitale guineana.
A quel punto, magari tenterà di arrivare in Europa, via mare o attraverso il continente, con le rotte trans-sahariane; se arriverà in Francia, sarà portato in una delle cento zone di attesa per persone con domande in corso (zones d’attente pour personnes en instance, Zapi), che contano anche porti e aeroporti. Verrà ufficialmente considerato un assistito, prima di poter essere registrato come richiedente asilo, con forti probabilità di veder respinta la propria domanda. A quel punto, sarà trattenuto in un centro di detenzione amministrativa (in Francia Centre de rétention administrative, Cra; in Italia Centro di identificazione ed espulsione, Cie, ndt), in attesa che siano compiuti i passi necessari alla sua espulsione (si legga l’articolo a pagina 14). Se legalmente non può essere espulso, sarà «liberato» e si ritroverà, a Calais o nella periferia romana, migrante clandestino in un accampamento o in un edificio occupato da migranti africani.
I campi e gli accampamenti di rifugiati non sono più realtà confinate in lontane contrade dei paesi del Sud, né appartengono al passato. A partire dal 2015, l’arrivo di migranti del Medioriente ha fatto emergere una nuova logica dei campi in Europa. In Italia, in Grecia, alla frontiera fra la Macedonia e la Serbia e fra l’Ungheria e l’Austria, sono nati diversi centri di accoglienza, registrazione e smistamento degli stranieri. Di carattere amministrativo o di polizia, possono essere organizzati dalle autorità nazionali, dall’Unione europea o da soggetti privati.
Queste strutture, allestite in magazzini risistemati o caserme militari riconvertite, su terreni incolti dove sono stati piazzati i container, si saturano ben presto. Tutt’intorno sorgono allora piccoli campi definiti «selvaggi» o «clandestini», approntati da organizzazioni non governative (Ong), da abitanti della zona o dagli stessi migranti. È quanto si è prodotto, ad esempio, intorno al campo di Moria, a Lesbo, il primo hotspot (centro di controllo europeo) creato da Bruxelles ai confini dello spazio Schengen nell’ottobre 2015 per identificare i migranti e prelevarne le impronte digitali. Queste sistemazioni di fortuna, che in genere accolgono alcune decine di persone, possono arrivare a dimensioni considerevoli, al punto di assomigliare a vaste bidonville.
In Grecia, di fianco al porto del Pireo, un accampamento di tende ospita fra 4.000 e 5.000 persone, e fino a 12.000 persone hanno trascorso un periodo a Idomeni, alla frontiera greco-macedone, in una sorta di ampia zona di attesa (2). Negli ultimi anni, anche in Francia sono stati aperti diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cada; in Italia Cara, ndt) e centri di accoglienza d’emergenza.
Anch’essi soffrono di una cronica carenza di posti e, intorno, proliferano gli insediamenti selvaggi. Per esempio, i migranti respinti dalla struttura aperta dal comune di Parigi alla porta della Chapelle nell’autunno 2016 sono costretti a dormire in tende, sui marciapiedi o sotto i cavalcavia della metropolitana. Qual è il futuro di questo paesaggio di campi? Le strade possibili sono tre. La prima è la loro sparizione, come è avvenuto con la distruzione degli accampamenti di migranti a Patrasso in Grecia, e a Calais in Francia, nel 2009 e nel 2016, e anche con il reiterato smantellamento dei campi «rom» intorno a Parigi e Lione.
Quanto ai campi per rifugiati di antica data, la loro scomparsa pura e semplice costituisce sempre un problema. Lo testimonia il caso di Maheba, in Zambia. Il campo, aperto nel 1971, avrebbe dovuto grabili, afferma un’alterità che deriva da questa duplice esclusione,chiudere nel 2002. Ma all’epoca aveva 58.000 occupanti, in gran parte rifugiati angolani di seconda o terza generazione. Un’altra strada è la trasformazione, nel lungo periodo, che può arrivare al riconoscimento e a un certo «diritto alla città», come mostrano i campi dei palestinesi in Medioriente, o la progressiva integrazione nella periferia di Khartoum dei campi di profughi dal Sud Sudan. L’ultima possibilità, attualmente la più diffusa, è quella dell’attesa.
Eppure, altri scenari sarebbero possibili. La proliferazione dei campi in Europa e nel mondo non è una fatalità. È vero che i flussi di rifugiati, soprattutto siriani, sono molto aumentati dopo il 2014 e il 2015; ma erano prevedibili, annunciati dal continuo aggravarsi dei conflitti in Medioriente, dall’aumento delle migrazioni negli anni precedenti, da una situazione globale che rivela come la «comunità internazionale» abbia fallito nel compito di mantenere o ristabilire la pace.
Del resto questi flussi erano stati anticipati dalle agenzie delle Nazioni unite e dalle organizzazioni umanitarie che, dal 2012, invano chiedevano una mobilitazione degli Stati per accogliere i nuovi profughi in condizioni sicure e dignitose. Arrivi massicci e apparentemente improvvisi hanno provocato il panico in diversi governi impreparati, governi che hanno poi trasmesso la propria inquietudine ai cittadini.
La strumentalizzazione del disastro umanitario ha permesso di giustificare interventi duri e recitare, con l’espulsione o il confinamento dei migranti, il copione della difesa del territorio nazionale. Sotto molti punti di vista, lo smantellamento della «giungla» di Calais nell’ottobre 2016 ha avuto la stessa funzione simbolica dell’accordo del marzo 2016 fra Unione europea e Turchia (3) o dell’innalzamento di muri alle frontiere di diversi paesi (4): si tratta di mostrare che gli Stati sanno rispondere all’imperativo securitario, proteggere nazioni «fragili»tenendo a distanza gli stranieri indesiderabili. Nel 2016, l’Europa alla fin fine ha visto arrivare tre volte meno migranti che nel 2015. Gli oltre 6.000 morti nel Mediterraneo e nei Balcani (5), l’esternalizzazione della questione migratoria (verso la Turchia o verso paesi dell’Africa del Nord) e la proliferazione di campi nel continente ne sono stati il prezzo.
(1) Cfr. Gérer les indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Flammarion, coll. «Bibliothèque des savoirs», Parigi, 2008.
(2) Per una più ampia descrizione dei campi in Europa, cfr. Migreurop, Atlas des mi grants en Europe. Géographie critique des politiques migratoires, Armand Colin, Parigi, 2012, e Babels, De Lesbos à Calais. Comment l’Europe fabrique des camps, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», Neuvy-en-Champagne,in uscita nel mese di maggio 2017..
(3) Si legga Hans Kundnani e Astrid Ziebarth, «Fra Germania e Turchia, la questione dei rifugiati», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2017.
(4) Cfr. Wendy Brown, Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Les Prairies ordinaires, Parigi, 2009.
(5) Cfr. Babels, La Mort aux frontières de l’Europe. Retrouver, identifier, commémorer, Le Passager clandestin, coll. «Bibliothèque des frontières», 2017.
». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
Ora che siamo qui, a chiederci se nelle prossime elezioni politiche – tra quattro o dieci mesi, si vedrà – ci sarà una lista di sinistra sinistra, la prima domanda è: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Lo dico con un pizzico di incoscienza e un certo sprezzo del pericolo.
L’argomento di solito scatena il fuggi fuggi – nei media mainstream, tra giornaloni e tv – quasi quanto il parlare di legge elettorale. Il tutto viene seppellito da un chissenefrega irrisorio, buttato lì per impedire di vedere qual è la posta in gioco, procedere nella cancellazione dell’opposizione sociale e politica, non solo in Italia ma in Europa. Basta vedere come si commentano le elezioni francesi, o la campagna elettorale di Corbyn. Come se fosse davvero incomprensibile che programmi che si propongono semplici obiettivi di redistribuzione di ricchezza e riequilibrio del welfare possano raccogliere voti.
La cosa bizzarra è che il chissenefrega in Italia percorre anche le sparse sinistre, i movimenti, i singoli ormai privi di legami politici, come se si fosse espresso un medievale giudizio di dio: divisi siamo e divisi dovremo rimanere. Una specie di maledizione, una sorta di condanna per errori insormontabili, impossibili da espiare, tantomeno da perdonare.
Intendiamoci, responsabilità ce ne sono state. Ma sono convinta che il rancore infinito non porta a nuova vita, seppellisce per sempre sotto macerie che rimangono tali. Non mi sembra una responsabilità lieve, per costruire occorre rovesciare il punto di vista – do you remember revolution? – lasciare alle spalle passato, e puntare al futuro.
Il 4 dicembre lo ha detto con chiarezza. In una situazione in cui il voto ha permesso di esprimersi, il popolo ha votato no. Un no che si è visto di recente, sempre in Italia, anche in un altro referendum, che pure aveva quasi l’aspetto di un ricatto, quello dell’Alitalia. Un no sorprendente, tanto è vero che si è detto che era stato sbagliato chiedere il voto. Tanto stupisce che ci siano volontà, desideri, progetti, richieste che non stanno nelle compatibilità prestabilite, nei prezzi scaricati sempre e solo su chi lavora. Certo non tutto il no è di sinistra, sarebbe disonestà intellettuale sostenerlo. Eppure giovani, sud, donne, lì dove si sono espresse le percentuali più alte di no, chiedono a gran voce un cambiamento che solo una sinistra sinistra può portare.
Quindi lavoro, lavoro e ancora lavoro. I lavori frammentati, spezzati, svalorizzati dal Jobs Act – sul quale si è impedito il referendum e che ora si vuole re-introdurre per decreto – lavori che non si dividono più tra fabbrica e fuori, lavori di cura e lavori di produzione. Il neocapitalismo con la sua violenza senza maschere è entrato nella vita quotidiana. Basta vivere, per capirlo, la vita ordinaria, comune. Di chi usa i mezzi di trasporto, si cura con il servizio sanitario pubblico, frequenta le scuole pubbliche, o ci lavora. Di chi non ha vite extra-ordinarie, non può garantirsi servizi speciali e su misura, non può pagare le privatizzazioni. Di chi si vede tagliare compensi, contributi, pensioni. Basta vivere giorno dopo giorno nelle città che si vogliono impossibili, in cui vengono additati “nemici” a cui si vuole togliere umanità, per renderci tutti disumani.
E non sto divagando, parlo di elezioni, di liste e di politica. La sfida del presente richiede nettezza. Dunque niente centrosinistra. Chi continua a proporlo – per esempio Massimo D’Alema intervistato ieri dal Corriere – fa confusione, invece di diminuirla. Non giova alla chiarezza di un campo politico che ha bisogno di slancio, di certezze per cui motivarsi. E dire che ci sono segni evidenti che si può andare in una direzione comune: forze politiche, movimenti, la grande forza che spinto il risultato referendario per la difesa della Costituzione, intellettuali generosi, pronti a spendersi.
Ci vuole coraggio. L’umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione, accettare che il nuovo avrà bisogno di raccontarsi anche con facce nuove. Ma non c’è da averne paura. Ci sarà spazio per chiunque avrà filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi, la sfida è mantenere nello spazio pubblico la voce dei dimenticati e degli esclusi.
». il manifesto, 26 maggio 2017 (c.m.c.)
Negli ultimi mesi il nome di don Milani è risuonato in maniera quasi ossessiva sui principali canali d’informazione nazionale. Polemiche spesso vuote o comunque pretestuose, ma anche contributi di grande qualità e rilevanza, come l’opera omnia pubblicata in due tomi nella collana dei Meridiani di Mondadori e diretta da Alberto Melloni, a cui hanno collaborato Anna Carfora, Valentina Orlando, Federico Ruozzi, e Sergio Tanzarella. A quest’ultimo, docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dobbiamo anche la pubblicazione del libro Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 168, euro 14.90). Si tratta di due testi particolarmente importanti nella produzione di Milani, Tanzarella li inserisce nel loro contesto storico e nella biografia del prete di Barbiana.
Nel primo dei due testi sono parole scritte quasi a caldo, dopo la lettura insieme ai suoi ragazzi del «comunicato stampa» pubblicato dai cappellani militari in congedo della regione Toscana. A Milani quell’accusa di viltà rivolta ai giovani obiettori che hanno pagato con il carcere la scelta di rifiutare la divisa è risultata intollerabile, soprattutto per la sua provenienza clerico-militare, quasi un simbolo del sistema di potere. Da qui la decisione di impegnare la sua scuola nella preparazione di un documento collettivo che viene inviato a più di 800 quotidiani.
Come è noto, la lettera ruota attorno al problema del diritto alla disobbedienza alla leva, ma il ragionamento si snoda in più direzioni che toccano alcuni nervi scoperti: la legittimità di un potere ingiusto, la possibilità stessa della guerra nell’età atomica, e poi l’utilizzo strumentale che è stato fatto dell’idea di patria per mobilitare le masse in difesa delle oligarchie. Milani propone quindi un excursus storico – dalle guerre risorgimentali, passando l’«inutile strage» del ’15-‘18 e le imprese fasciste – che individua nella Resistenza l’unica «guerra giusta», cioè «non di offesa delle altrui Patrie, ma di difesa della nostra», una guerra particolarmente significativa perché combattuta da un esercito che aveva disobbedito. Quindi entra nel merito dell’attualità italiana, uno dei pochi paesi cui l’obiezione rimane ancora reato grave.
In questo clima la decisione del settimanale comunista «Rinascita» – di cui è vice-direttore responsabile Luca Pavolini – di pubblicare la lettera fa esplodere il caso. Milani e Pavolini vengono denunciati da un gruppo di ex-combattenti per apologia di reato e istigazione a delinquere. Come emerge in maniera chiara dalla ricostruzione del curatore, l’arcivescovo di Firenze Florit non si mostra certo solidale e a Barbiana arrivano anche vere e proprie lettere di ingiuria e di minaccia (spalleggiate dalla campagna denigratoria della stampa fascista).
Esprimono vicinanza invece personalità di rilievo quali Giorgio La Pira e soprattutto Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e organizzatore nel 1961 della prima marcia Perugia-Assisi, che decide di attivare una rete di solidarietà. Grazie alla ricerca di Tanzarella, fondata su una serie di fonti inedite (comprese, in particolare, le fonti processuali) sappiamo che Milani si era rivolto anche al giurista Arturo Carlo Jemolo e a Giorgio Peyrot, responsabile legale della Tavola Valdese a Roma, che lo avrebbero aiutato a organizzare la strategia difensiva. Il risultato sarà quella Lettera ai giudici che Milani, ormai gravemente ammalato, fa pervenire al Tribunale e distribuisce alla stampa nazionale.
È una testimonianza alta di moralità educativa (e sacerdotale), una lezione sulla disobbedienza civile che mette in discussione il potere di giudicare chi si batte per una legge giusta, chi si fa precursore dei tempi annunciati dalla trasformazione italiana, dal Concilio Vaticano II, ma non ancora recepiti dalla legge.
Dopo che i processi di Norimberga e Gerusalemme hanno sancito il dovere alla disobbedienza contro i crimini della guerra – scrive Milani – «condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li ha comandati». Sulla base della tradizione della Chiesa sul primato della legge di Dio, della Pacem in terris e, soprattutto, della Gaudium et spes, che ha riconosciuto le ragioni degli obbiettori e invitato il legislatore a tenerne conto, Milani difende poi la propria ortodossia e rilancia la battaglia sul duplice piano della riforma della Chiesa e della società, chiamata a tenere fede a quell’art. 11 della Costituzione che utilizza in maniera quasi profetica il verbo «ripudiare».
L’autore dichiara di non voler scendere sul piano delle disquisizioni dottrinali, ma nei fatti propone una revisione profonda in piena sintonia con quei padri conciliari che hanno dichiarato ingiustificabile la guerra nucleare.
Sul terreno politico e giuridico si muove invece la condanna di quell’accusa di viltà che, in virtù delle ricerche di Peyrot (ora ricostruite da Tanzarella), Milani può dichiarare estranea allo stesso linguaggio dei tribunali militari e dunque irricevibile. Il Tribunale gli darà ragione, ma la sentenza verrà ribaltata in Appello che condannerà Pavolini, ma non il parroco di Barbiana, deceduto il 26 giugno 1967.Il successivo ricorso in Cassazione porterà all’annullamento della sentenza di condanna perché il reato contestato era stato estinto dall’amnistia del 3 giugno 1966.
Nelle ultime battute della sua ricostruzione, Tanzarella ricorda la breve introduzione scritta da Milani, ma pubblicata in forma anonima, all’edizione delle due lettere del 1965 uscita con il titolo Il dovere di non obbedire. Questa scelta era presentata come più consona a «esprimere meglio le tesi fondamentali di queste pagine»: a più di cinquant’anni di distanza, e con alle spalle l’approvazione della legge Marcora del 1972 sull’obiezione, le lotte della Lega degli obiettori e la legge del 1998, gli interventi del magistero contro «le guerre umanitarie» e i passi avanti del diritto internazionale, possiamo pienamente dargli ragione e continuare a leggere le due lettere con lo sguardo rivolto al nostro presente di guerra e ai conflitti del futuro.
il manifesto, 26 maggio 2017, con postilla
È bene che la riflessione a sinistra salga di qualità. Non è pensabile che il dibattito sulle “fondamenta” si riduca a questioni di schieramento. Un discorso cartesiano sul metodo si impone: la coalizione con il Pd non è il problema principale sul quale acciuffarsi. Prima delle alleanze viene il progetto, cioè l’idea che si coltiva della sinistra nell’Italia e nell’Europa di oggi.
Partire dalle fondamenta dovrebbe significare questo. Interpretare con efficacia la funzione che, in una data congiuntura storico-politica, è necessario svolgere.
In Europa le formazioni del socialismo sono in gravi difficoltà. Alcune sono già scomparse, altre attraversano dilemmi esistenziali profondi. Crescono offerte politiche più radicali, spesso in netta contrapposizione con una sinistra storica ritenuta troppo omologata agli imperativi di un sistema sociale contro cui cresce la rivolta.
In Italia manca un partito del socialismo europeo, essendo la confluenza del Pd nelle sue fila solo un ritrovato tattico. E vuoto è rimasto anche uno spazio più a sinistra paragonabile a quello occupato in Germania, Francia, Spagna. Tra un Pd troppo al centro e con una cultura liberale non riconducibile al socialismo europeo, e un M5S troppo ambiguo per essere percepito come una variante italiana di Podemos, esiste un margine per la costruzione di una più grande aggregazione della sinistra.
L’imperativo è di recuperare una autonomia politica e culturale rispetto al Pd e al M5S. In un quadro politico che pare confermare la propria ossatura tripolare, la sinistra deve uscire dalla coazione ad anteporre la questione delle alleanze (e cedere così al richiamo del voto utile) allo sforzo di precisare il suo ruolo politico-culturale di medio-lungo periodo. Non perché le alleanze siano da escludere (persino Lenin reputava impolitica ogni velleità di escludere per principio le intese e i compromessi). Ma perché non sono il punto di partenza, ma una eventualità da prendere in considerazione solo dopo aver misurato i rapporti di forza.
I rapporti di forza, appunto. Ci sono le condizioni per edificare una sinistra paragonabile alla Linke o alla sinistra francese e spagnola però anche più accorta politicamente e più curiosa nella sua cultura (contano ancora le ceneri di Gramsci?). Occorre una coalizione della sinistra, plurale e non residuale, radicale e però non sterile nel suo minoritarismo. Le fondamenta su cui deve poggiare la ricomposizione della sinistra sono le due grandi fratture che hanno spaccato il Pd e rotto la sua coalizione sociale: il Jobs Act e il plebiscito costituzionale.
Una nuova soggettività politica per decollare prima politicizza le fratture, cioè dà rappresentazione ai movimenti profondi che spostano i consensi perché scaturiti da questioni non effimere, e poi in parlamento si cimenta con i rapporti delle forze emersi dal voto.
Se si giunge a ottobre (o a primavera) con sterili accapigliamenti sulle coalizioni preventive con il Pd, o con repentine intese tra vecchie sigle indotte ad accordarsi solo per lo spavento della clausola di sbarramento, per la sinistra è finita. Serve perciò un salto logico, degno di un pensiero politico egemonico: la priorità è quella di dare espressione politica alle “fondamenta” (rotture su costituzione e lavoro rimaste impresse nelle coscienze collettive).
È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico-razionale di arrendersi a una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare alla sua sinistra le alleanze elettorali. Più che la dimenticanza delle lezioni del passato (l’arcobaleno naufragò come risposta tattica alla vocazione maggioritaria di Veltroni) colpisce la mancata comprensione dell’oggi. È in corso una lunga crisi di sistema che scongela le antiche culture politiche in Europa.
A questo sommovimento epocale occorre fornire una interpretazione politica. I fuoriusciti dal Pd, Si, i comunisti, le liste civiche o rispondono con intelligenza alla emergenza dello scongelamento delle culture politiche europee o precipitano nell’irrilevanza di chi ha il timore di osare nuove cose in tempi di svolta.
postilla
Più che ragionevole domandarsi prima "chi siamo e che vogliamo", e solo dopo "con chi vogliamo lavorare". Poco ragionevole non porre, tra le questioni nodali da affrontare e su cui schierarsi/riconoscersi, quelle planetarie del disastro ambientale e della crescente forbice tra popoli ricchi, o almeno benestanti, e popoli poveri, o addirittura privi di tutto. In una parola, quelli del capitalismo giunto alla sua fase attuale. Hic Rhodus, hic salta. E' su questo punto che è avvenuta la frattura tra il renzismo e la tradizione/posizione del comunismo italiano, da Gramsci e Togliatti a Berlinguer. Dopo di che, una volta definito la "identità", si potrà ragionare sul con chi allearsi per fare qualche passo significativo nelle direzione giusta (e.s)
il manifesto, 26 maggio 2017
«Movimenti. In Italia niente piazze contro la visita del presidente del riarmo, a sinistra cade un altro tabù. Movimenti deboli o infine maturi? L’autocoscienza di quelli che manifestazioni stavolta no. "Siamo deboli e divisi, siamo ripartiti dai nostri territori, che però ora sono la nostra gabbia". Gad Lerner: "Il vero corteo antiDonald? Quello di Milano, era il futuro"»
Il raggio laser verde proiettato da Greenpeace sul Cupolone: «Planet earth first». Tre pacifisti della Rete No War fermati per aver tentato di aprire uno striscione davanti al corteo delle auto blindate (uno di loro è una collaboratrice del manifesto, Marinella Correggia, le è stato consegnato il foglio di via, Sinistra italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare sul caso). Qualche decina di statunitensi residenti in Italia riuniti in una piazza a cantare «Imagine». Il bilancio delle manifestazioni della Capitale nel giorno della visita di Trump è tutto qua.
Ieri a Bruxelles, dove il presidente Usa è volato subito dopo la tappa romana, erano in 10mila contro di lui. A casa sua, negli Usa, i democratici continuano a contestarlo per le strade. Ma allora che succede ai pacifisti, ai democratici italiani? Succede una cosa impensabile finora, che la sinistra italiana non ha più voglia di contestare un presidente che ha sganciato «la madre di tutte le bombe»?
La domanda non nasce dalla nostalgia del vecchio «yankee go home». Nessuno – tanto più dopo gli anni di Obama – è orfano dell’«antiamerikanismo». Ma orfano della sinistra, forse? No, spiega Lidia Menapace, partigiana poi storica antimilitarista, «il fatto è che Trump non è credibile. Siamo tutti preoccupati per quello che sta facendo, ma il personaggio è al di sotto di qualsiasi interlocuzione. Sarebbe inutile mettersi lungo la strada a gridargli contro». Dunque non averlo fatto non è la dimostrazione che la sinistra italiana è irrimediabilmente a terra? La risposta è lapidaria: «Questo è il solito riflesso condizionato autolesionista. Della sinistra».
E però la sinistra radicale ha vissuto male l’assenza dalla piazza. «Certo, sabato scorso abbiamo fatto la splendida manifestazione contro i muri a Milano, ora siamo concentrati in quelle contro il G7 di Taormina. Ma è inutile nascondersi dietro un alibi organizzativo: lasciare liberamente scorrazzare Trump per Roma è stato un segno di debolezza politica», riflette Giovanni Russo Spena, decenni di battaglie garantiste e pacifiste, oggi grande saggio della Rifondazione comunista. «Ne abbiamo parlato fra noi, ci siamo sforzati di capire. È successo che siamo ripartiti ’dal basso’, dai territori, e abbiamo fatto bene. Ma il rischio è che ora i territori diventino gabbie; domenica scorsa abbiamo fatto un corteo bello e difficile per il rogo delle tre ragazzine rom di Centocelle. E però contro Trump non siamo riusciti a costruire mobilitazione». Più sconfortata Luisa Morgantini, altra ’storica’ del movimento nonviolento, fondatrice delle ’Donne in nero’, negli anni 80 srotolò dal Colosseo un lunghissimo striscione contro Reagan. Mercoledì, sfortuna voleva, era immobilizzata a casa per un problema di salute. Ma non è questo il punto. «Siamo divisi, immersi nelle nostre battaglie come in scatole chiuse. Noi per i 1600 palestinesi in sciopero della fame, altri per la causa curda, altri per altre buone cause. Siamo inaciditi, spezzettati, incapaci anche solo di confrontarci con le nostre differenze. Ci vorrebbe una rivoluzione profonda, dentro di noi».
«Ma che volete dai pacifisti?» Giulio Marcon un po’ contesta la domanda. Oggi è capogruppo alla Camera di Sinistra italiana alla quale è arrivato dai movimenti disarmisti. «Ogni volta che si manca un appuntamento arriva la stessa domanda. Non è da una piazza mancata che si misura l’opposizione alla follia del riarmo. Siamo pochi e mobilitati su mille fronti. Il 2 giugno saremo a Roma, a Castel Sant’Angelo, contro la parata militare. E ogni giorno facciamo mille iniziative, più o meno grandi ma preziose. Il pacifismo è diventato un movimento più maturo, non siamo né impotenti né timidi».
E invece «è un fatto grave» per Massimiliano Smeriglio, oggi nella sinistra ’di governo’ ma un passato sulle barricate romane, manganellate prese per Bush senior. «Avere in Italia il campione del populismo reazionario e razzista e non avere avuto forme diverse di contestazione deve aprire una riflessione senza sconti per tutte le sinistre, rancorose e impegnate tutti i giorni a stigmatizzare il nemico su social di cartone dove l’autoreferenzialità la fa da padrona». L’assenza di mercoledì scorso «testimonia la fragilità dei nostri contenuti, degli insediamenti sociali. E anche della voglia di battersi e confliggere quando serve. Dobbiamo guardare in faccia questa situazione drammatica. Prima lo faremo, con più umiltà e meno slogan, e prima saremo in grado di rimetterci in marcia. Alla svelta, prima di perdere il rapporto con il paese reale. Sia chiaro: in questa situazione non si salva nessuno, né radicali né riformisti».
Perchè in effetto va detto, i primi a mancare dalla piazza sono stati i cosiddetti «riformisti» e cioè i democratici italiani, ’fratelli’ di quelli americani che negli Usa si battono contro Trump. Ma il gesto di fratellanza non è venuto in mente a nessuno: il Pd, anche la sua ’base’, è affaccendato in tutt’altro. E comunque, spiegano «avremmo dovuto mettere in difficoltà il presidente del consiglio Gentiloni che lo incontrava a Villa Taverna?». E chi avrebbe dovuto farlo, forse i grillini che di Trump pensano che tutto sommato sia un modello di populismo autarchico tutt’altro che detestabile, e contestabile?
Gad Lerner invece rovescia tutto il ragionamento. Il giornalista e conduttore televisivo ( domenica sera alle 22,50 su Raitre va in onda Operai, sua inchiesta in sei puntate) un passo alla volta smonta il discorso degli altri: «La sinistra non è andata in piazza perché è dominata dal provincialismo, dalla perdita della sua dimensione internazionalista, è immersa negli psicodrammi delle sue divisioni e non riesce a sollevare lo sguardo più in alto». «Ed è anche vero che il riferimento internazionale delle destre ormai è Putin, non il presidente americano. Il suo ruolo si è ridimensionato, nonostante tutto. Nonostante lo abbiamo visto a Riad affidarsi ai dittatori per battere il terrorismo, abbiamo pensato che non è affar nostro. La sinistra ormai fa la stessa cosa anche nel mondo degli operai: difende il proprio territorio, la propria fabbrica, oltre non sa vedere».
Eppure «non ho nostalgia del vecchio antimperialismo, anzi», continua, «la vera manifestazione antiTrump è stata quella di sabato scorso a Milano: una Milano metropoli cosmopolita. Il corteo, enorme, era composto per la metà di immigrati, con o senza permesso. Le vere protagoniste erano le comunità, filippini, cinesi, equadoregne, africane. Raccontavano una metropoli, anzi una sinistra già innervata della sua anima futura». E forse allora davvero è meglio così, meglio aver evitato il rito della piazza “antiamerikana”, con il rischio delle solite sfide muscolari fra polizia e militanti. Perché «Trump non è più il gendarme del mondo. Abbiamo molti Trump europei da combattere. E a Milano a questo abbiamo dato una prima risposta positiva».
il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2017 (p.d.)
il manifesto, 25 maggio 2017
Le prime immagini diffuse dalla Ong maltese Moas mostrano centinaia di uomini che si sostengono a vicenda attaccati ai giubbotti di salvataggio, mentre sullo sfondo si vede il barcone sul quale viaggiavano carico di altre centinaia di uomini e donne. Erano almeno in cinquecento a bordo di quella carretta che non ha retto al peso di tanta umanità disperata in mezzo alla quale si trovavano anche tantissimi bambini. Non a caso tra i 34 migranti morti nell’ennesima tragedia del Mediterraneo si contano anche molti dei minori: «Almeno una decina», fa sapere in serata la Guardia costiera che con la nave Fiorillo ha affiancato la Phoenix del Moas nei soccorsi. A provocare il rovesciamento parziale del barcone sarebbe stata un’onda anomala o la decisione di molti migranti di spostarsi tutti sullo stesso lato del mezzo alla vista della Phoenix. Fatto sta che la barca si è inclinata improvvisamente provocando la caduta in mare di almeno duecento tra uomini, donne e bambini prima che il barcone riuscisse a raddrizzarsi.
Nel Mediterraneo si continua quindi a morire. Accantonate per il momento, almeno si spera, le polemiche sulle Ong, resta solo da aggiornare la contabilità di quanti perdono la vita nella speranza di raggiungere l’Europa. Con la certezza che nessun accordo con i paesi africani riuscirà mai a fermarli. La tragedia di ieri è avvenuta intorno alle 9 del mattino 30 miglia a nord della città libica di Zuara, quindi in piene acque internazionali. Il primo ad avvistare l’imbarcazione carica fino all’inverosimile di migranti è l’equipaggio della nave Phoenix del Moas che allerta la sala operativa della Guardia costiera a Roma.
Forse proprio la vista della nave intervenuta a prestare loro soccorso crea agitazione tra i migranti che si trovano a bordo del barcone, una parte dei quali si sarebbe spostata su un di lato sbilanciando l’imbarcazione che comincia a inclinarsi. Inevitabile la caduta i mare di quanti si trovano ammassati lungo i bordi. «Non è la scena di un film dell’horror, ma una tragedia che sta avvenendo adesso, alle porta dell’Europa» twitta il fondatore del Moas, Chris Catrambone. Inviate dalla sala operativa della Guardia costiera italiana sul posto arrivano anche la Fiorillo e, in seguito, altre unità navali. Oltre alle 34 vittime accertate ci sarebbero anche dei dispersi.
Intanto due episodi fanno chiarezza su quanto accade lungo la rotta tra la Libia e l’Italia e sulle conseguenze degli accordi siglati con il paese nordafricano. Il primo sarebbe avvenuto martedì ed è stato denunciato dalla ong tedesca Jugend Retted secondo la quale la guardia costiera libica avrebbe usato le armi per convincere alcuni barconi a fermarsi. Un episodio smentito dalla Marina libica ma confermato anche da Medici senza frontiere e da Sos Mediterranee. Sempre martedì la Guardia costiera libica avrebbe inoltre raggiunto e bloccato 12 miglia al largo di Sebrata due barconi con a bordo in tutto 237 migranti provenienti dalla stessa Libia, dal Marocco, dall’Africa subsahariana e dal Bangladesh. Costretti a rientrare a Sebrata, i migranti sono stati stati arrestati con l’accusa di immigrazione clandestina e consegnati al centro di accoglienza di Al Nasr che fa capo all’autorità della lotta contro l’immigrazione clandestina di Zawiya. L’episodio conferma così il trattamento riservato ai migranti dalle autorità di Tripoli con le quali il Viminale sta trattando ormai da mesi, e questo nonostante le garanzie più volte offerte da Roma e Bruxelles sul fatto che da parte libica si sarebbero rispettati i diritti umani di quanti fuggono da guerre e miseria.
Per quanto riguarda i soccorsi quella di ieri è stata una giornata particolarmente intensa e difficile, con 14 navi impiegate dalla Guardia costiera italiana in 12 operazioni per soccorrere più di 2.000 migranti diretti verso l’Italia a bordo di gommoni e piccole imbarcazioni. Secondo stime fornite dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) su un totale di oltre 50 mila migranti arrivati quest’anno (il 39% in più rispetto allo stesso periodo del 2016) circa 1.400 hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sempre l’Oim ha denunciato un altro naufragio avvenuto venerdì scorso e nel quale risulterebbero disperse 150 persone.
il manifesto, 24 maggio 2017
Infatti, se il terrorismo colpisce qui, le sue leve sono nei campi di battaglia siriani, iracheni, yemeniti e libici. Chissà se a Taormina qualcuno dei piccoli leader europei avrà il coraggio di dirlo al nuovo e lunatico padrone del mondo. C’è da dubitarne.
La storia di Giovanni Falcone è nota. Si può sintetizzare contrapponendo una giusta gloria post mortem, agli ostacoli – seminati con iniqua strategia – che lo intralciarono in vita. Vediamone alcuni.
Sbilanciamoci.info, 23 maggio 2017 (c.m.c)
55 territori coinvolti (46 in Europa e 9 nel resto del mondo), in 32 Paesi di cui 23 membri dell’Unione europea. Circa 30 organizzazioni della società civile attivate con oltre 80 ricercatori al lavoro che hanno mappato oltre 1100 pratiche rilevanti di Economia sociale e solidale intervistando oltre 550 stakeholder rilevanti tra i quali oltre 100 rappresentanti di autorità locali, nazionali e istituzioni internazionali. Il rapporto “Verso un’economia trasformativa”, realizzato nell’ambito del progetto europeo “Social and Solidarity Economy as Development Approach for Sustainability in Eyd 2015 and beyond” (Essdas) analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo.
Ma cosa intendiamo esattamente per Economia Sociale e Solidale (Ess)? Una sua definizione è stata data nel 2015 nel documento “Visione globale dell’economia sociale solidale” della rete Ripess (Rete Intercontinentale di Promozione dell’Economia Sociale Solidale): secondo questa l’ESS è «un movimento che si propone di cambiare l’intero sistema economico e sociale, promuovendo un nuovo paradigma di sviluppo che sostiene i principi dell’economia solidale. L’economia sociale solidale riguarda una dinamica di reciprocità e solidarietà che collega gli interessi individuali a quelli collettivi».
L’Ess è una pratica che si è sviluppata in America Latina agli inizi dello scorso decennio, e che in diversi Paesi ha avuto un riconoscimento sia formale che sostanziale: nel 2003 in Brasile è stata istituita la carica di Segretario dell’Economia Solidale, mentre, tra il 2011 e il 2012 anche il Messico e l’Equador hanno riconosciuto le nuove pratiche sociali attraverso leggi apposite. Si è poi diffusa successivamente in Europa, anche in Italia, dove esistono attualmente 10 leggi regionali sull’Economia sociale, ed una normativa nazionale sul diritto del commercio equo e solidale è in cantiere da tempo: entro la fine della legislatura potrebbe avvenire la sua approvazione.
Il primo documento ad analizzare lo stato dell’arte dell’Ess è un rapporto dell’Ilo del 2011: un settore, secondo il report, che conta il 6% dell’occupazione in tutta Europa, con due milioni di organizzazioni che rappresentano il 10% di tutte le aziende. Nel mondo, invece, il suo fatturato globale è del valore di 7,5 milioni di euro, e conta di oltre 2 milioni di lavoratori e agricoltori. Esperienze simili, conclude il rapporto, esistono anche nei Paesi emergenti, come l’India, dove 30 milioni di persone sono organizzate in 2 milioni di gruppi di auto aiuto.
Grazie al rapporto Essdas è ora possibile mappare la presenza di tutte queste esperienze alternative sul suolo non solo europeo, ma di tutto il mondo. Anche il nostro Paese è denso di esperienze simili: le regioni più “sensibili” sono Marche, Puglia, Emilia Romagna e Toscana.
I settori produttivi più attivi, secondo lo studio, sono soprattutto quelli legati alla produzione e distribuzione di prodotti agricoli: ben 34 realtà su 55 operano nel campo della sicurezza alimentare e agricola. Spiccano poi altri campi, quali il commercio equo e solidale (16), il consumo critico (15), la promozione di stili di vita sostenibili (14), le pratiche di riuso e riciclo (11).
Per quanto riguarda le funzioni economiche svolte all’interno di tali attività il documento segnala una prevalenza delle attività commerciali di beni e servizi (42%), seguite da quelle di lavorazione e trasformazione (29%), consumo (17%) e distribuzione (12%).
Il report sottolinea poi anche l’alto numero di partecipazione delle persone ai progetti Ess: secondo Essdas gli individui direttamente coinvolti sono circa 13.000, mentre altri 1.500 sono direttamente o indirettamente occupati. Tra le realtà più “virtuose” spicca la cooperativa Manchester Home Care, che conta in tutto 800 persone, mentre la Central Cooperative Marketing delle Isole Andaman e Nicobar dà lavoro a circa 160 persone. Altro esempio da segnalare è l’organizzazione di microcredito solidale inglese Shared Interest, con oltre 9000 soci sostenitori.
E dal punto di vista del reddito? Secondo il rapporto l’impatto economico di tutte queste attività è complessivamente di 90 milioni di euro: al primo posto c’è la già citata Shared Interest, con un giro d’affari di oltre 42 milioni di euro, mentre la Home Care di Manchester registra un “fatturato” annuo di 14 milioni. Secondo le stime, il reddito medio generato da ciascuna realtà attiva nell’ambito Ess è di circa 300 mila euro. E un’altra buona notizia è che non solo gli impatti sociali e ambientali di queste realtà siano positivi, ma anche come queste contribuiscano a creare network e partecipazione sul territorio.
Cattive notizie sul fronte istituzionale: oltre alle scarse performance in termini di comunicazione e advocacy da parte del settore Ess, viene sottolineato che molti Paesi non hanno ancora leggi nazionali quadro sull’economia solidale, e che oltre il 50% di queste realtà non hanno né fondi né sponsor istituzionali, né intrattengono rapporto alcuno con le istituzioni. Di conseguenza, conclude il rapporto, l’impatto sulla politica e sulla vita pubblica è basso o addirittura nullo.
Il rapporto è stato anche presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 26 aprile, alla presenza delle diverse forze politiche. L’obiettivo è quello di arrivare ad una legge condivisa che promuova e inquadri a livello legislativo le attività legate all’economia sociale e solidale: nello specifico lo studio, si propone di «contribuire ad aumentare le competenze delle realtà/reti che si occupano economia locale, in particolare rispetto al ruolo che può svolgere nella lotta globale alla povertà e nella promozione di uno stile di vita equo e sostenibile».
Il tutto in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015 – 2030 approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2014, dove nello specifico si sottolinea come tutti i partecipanti «richiedono trasformazioni significative delle nostre economie. Invitano a rendere i nostri modelli di crescita più inclusivi e sostenibili. La gente vuole un lavoro dignitoso, una protezione sociale, robusti sistemi agricoli e la prosperità rurale, città sostenibili, un’industrializzazione inclusiva e compatibile, infrastrutture resilienti e energia verde per tutti», e con gli obiettivi Europa 2020, che sostengono la necessità di creare un futuro più tecnologico, sostenibile e inclusivo. Un futuro in cui ci sia posto per tutti, una necessità per non lasciare indietro più nessuno.
ia». la Repubblica, 23 maggio 2017
la Repubblica, 22 maggio 2017, con riferimenti in calce
«Vertice con i ministri dell’Interno di Libia, Niger e Ciad. Cabina di regia a Roma contro il traffico di esseri umani La strategia: centri di accoglienza nel deserto e guardie di confine addestrate per identificare gli schiavisti»
riferimenti
L'accordo promosso e firmao dal governo italiano (Minniti ha voluto che la "cabina di regìa fosse a Roma) è un'applicazione del patto scellerato (come lo ha definito Alex Zanotelli) per contrastare con la violenza l'esodo, reso inevitabile dalle efferrate politiche compiute dal capitalismo negli ultimi secoli, e particolarmente nella sua attuale fase terminale. Si veda anche, di Alex Zanotelli, No Migration compact
La grande manifestazione milanese. Una fiumana unita, ma senza ipocrisie. Articoli di Marco Revelli e Luca Fazio, Piero Colaprico, Daniele Fiori. il manifesto, la Repubblica, il Fatto quotidiano, 21 maggio 2017il manifesto
20 MAGGIO,
LA RIVINCITA DELL’UMANO
di Marco Revelli
la Repubblica
LA MARCIA DEI CENTOMILA
di Piero Colaprico
«A Milano il popolo dell’accoglienza: “Ponti, non muri. ”In piazza anche il presidente del Senato Grasso: “È italiano chi nasce e studia qui” Berlusconi: “Così si delegittimano gli agenti del blitz alla stazione”»
Ma dov’è stata tutta questa gente che è uscita, verrebbe da dire, da chissà quali catacombe? Dov’erano per esempio sino a ieri, con le loro bandiere con il leone giallo in campo rosso, che ricordano quelle dei leghisti veneti, i giovani dello Sri Lanka? Hanno i costumi tradizionali, c’è chi balla e chi sfila con le divise della scuola, a decine mostrano alcuni cartelli vagamente surreali: «Visitate il nostro paese», con le foto del mare. Dai Bastioni di Porta Venezia è talmente tanta la gente, e a occhio uno su due è straniero, che il corteo parte mezz’ora prima, alle 14. All’inizio ci sono 50mila persone, alla fine dal palco si dice che erano centomila, in effetti, siccome i telefonini funzionano come radio militari, si sentivano messaggi di questo genere: «Dove sei esattamente?». E le risposte stupiscono: «Ancora in piazza Repubblica?, ma noi siamo in piazza del Cannone, al Castello, ma com’è possibile?».
Il sindaco Giuseppe Sala ci ha visto giusto, nel voler rilanciare, in una Milano dove crescono gli investimenti immobiliari e la popolazione universitaria, la marcia pro-migranti di Barcellona. Lo descrivono a volte come un gelido manager, ma non ha detto no alla mamma, Stefania: «Sono orgogliosa, gliel’ho chiesto io di venire, ho 86 anni, ma capisco — dice — quando bisogna scendere in piazza». E così, chi sognava il flop, il «meno di diecimila persone », chi pontificava, «Milano non ha bisogno di manifestazioni, tanto si sa che Milano tradizionalmente accoglie», è stato sconfitto. C’è una Milano che non si nasconde e, almeno in parte, sa che può crescere sia con i cinesi che sfilano dietro al dragone giallo e sia con gli africani che portano a spalle un canotto. Marciano a venti metri di distanza gli scout in divisa e i «Sentinelli», il gruppo che sfila in rappresentanza delle famiglie non tradizionali. Arabe con il velo e messicani con il sombrero, borchie e crocifissi, mani di Fatima e cornetti. Ballano i peruviani e le peruviane, con costumi teatrali, rigidamente separati, comandati gli uni da un uomo e le altre da una donna con un fischietto. Si capisce immediatamente che la giornata — vale la pena di sprecare un aggettivo retorico — può essere «epocale», nel senso che questo 20 maggio contrassegna un’epoca, la nostra, ed erano anni che non si vedevano così tante persone, bambini compresi, come quelli della scuola Palmieri, i più allegri con un gigantesco telo arcobaleno, alzare la voce. E manifestare per «un’Europa che accoglie», slogan che allineano le bulgare con i fiori tra i capelli e il ragazzo con la maglietta «Non sono straniero, sono stranero».
C’è chi certamente si ostina a vedere l’immigrazione di un unico colore, quello ritenuto più utile nel voto: il colore della paura, il nero della cronaca. Da Ismail Hosni, l’accoltellatore scoppiato della Centrale, che scaricava sì i video dell’Isis, ma pure quelli delle gang latine. Ad Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ammazzato a Sesto San Giovanni, non mancherà mai materiale per il leghista Matteo Salvini: «Questa è la marcia degli invasori, siamo ostaggi degli immigrati, ci stanno portando la guerra in casa, farò una marcia degli italiani», grida. E, da destra, anche Silvio Berlusconi prova ad attaccare quella che è la sua Milano, sostenendo che il corteo «delegittima le forze dell’ordine, io non l’avrei fatto».
Sono parole molto lontane dal fiume di colori, che vanno dal giallo argento delle coperte lucide con le quali si coprono i naufraghi al bianco-rosso di Emergency. Dallo striscione della Camera del Lavoro di Brescia a Pax Christi e al bianco della comunità di Sant’Egidio, portato da tre ragazze del liceo Berchet e da un giovane nero che dormiva al «Binario 21», nello stesso luogo dal quale partivano i treni per i campi di sterminio. C’è un gruppone autodefinito «via Padova», i ragazzini di una scuola di teatro con addosso la tuta bianca usata dalla polizia scientifica e ci sono, impresse su un lenzuolo, le mani dei giovani stranieri accolti in una comunità del Giambellino. Molta musica, di ogni genere, si leva lungo le strade e si cammina come spinti da un vento nuovo, quello di chi, come dice il presidente del Senato, Piero Grasso «Non vuole muri e siamo qui a dirlo anche a chi i muri li vuole, io sono qui per difendere la costituzione e chi nasce e studia qui è italiano». Lo stesso spirito viene colto dall’ex segretario Pd Pierluigi Bersani: «Sono qui perché questo 20 maggio è una specie di 25 aprile dei tempi nuovi». Si sono visti don Colmegna, Massimo D’Alema, Giuliano Pisapia, continuamente braccato da chi gli dice di unire sinistra e centrosinistra, Carlo Petrini di Slow Food, Susanna Camusso della Cgil, e da parte del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni arriva un tweet, «Grazie Milano,sicura e accogliente».
Contro Grasso, contro Sala, contro gli assessori Carmela Rozza e Giancarlo Majorino la sola contestazione è mossa da una quarantina di persone del centro sociale Cantiere, e fa un po’ impressione che il più esagitato sia Leon Blanchard, figlio di un famoso e ricchissimo gallerista. Per loro il Pd è «la peggior destra» e «Minniti razzista», ma la contestazione dedicata anche al ministro dell’Interno non ha prodotto alcun effetto concreto: «Meglio le contestazioni, che rinunciare alla marcia. C’è tantissima gente — dice il sindaco Sala — e so di vivere in una grande città con tante contraddizioni, ma sono convinto che se avessero chiesto ai militari feriti se fosse giusta la manifestazione avrebbero detto di sì. Hanno sofferto ma sono servitori dello Stato. Come sindaco io voglio essere costruttore di ponti e non di muri».
Molto applaudita anche Emma Bonino, che ha rincarato la dose: «Dobbiamo imparare a rimanere umani. Questa è la Milano dell’integrazione e della legalità e ora fatevi un regalo. Mettete una firma per voi e per il vostro futuro», e cioè contro la legge Bossi-Fini.
Finite le parole della politica e delle persone, è cominciata la musica e la festa in piazza gestita da Radiopopolare: a qualcuno non piacerà, ma è come se, in nome dei diritti sociali, la Milano che non sta a destra avesse ritrovato un po’ se stessa, quello che era, quello che potrebbe essere.
Il Fatto Quotidiano
PER I MIGRANTI 100 MILA IN CORTEO
(CON FISCHI AL PD)
di Daniele Fiori
«Sinistra divisa - I Democratici contestati per il decreto Minniti»
Una manifestazione parallela, perché le parole sono condivise, ma i fatti vanno in un’altra direzione e i promotori dell’iniziativa “sono gli stessi del decreto Minniti-Orlando”. Così si spiegano le proteste che hanno segnato la marcia “Insieme senza muri”, organizzata dal Partito democratico milanese con l’assessore Pierfrancesco Majorino in testa, sostenuto dal sindaco Beppe Sala. Lo slogan dell’iniziativa ha funzionato e ha portato circa 100mila persone a marciare per le strade da Porta Venezia fino a Parco Sempione, tra associazioni, stranieri di tutte le etnie e cittadini. Allo stesso tempo però ha messo in luce la chiara contraddizione che il Pd ha portato con sé ponendosi alla guida di una manifestazione pro-migranti. Una buona parte di chi era in strada considera infatti lo stesso Pd il responsabile della situazione in cui versa l’accoglienza oggi in Italia. E più che contro la legge Bossi-Fini, ha protestato contro il decreto del governo a firma dei ministri Marco Minniti e Andrea Orlando. Proprio Sala e Giorgio Gori, primo cittadino di Bergamo, sono stati a lungo contestati dai giovani del centro sociale Cantiere. Gridavano: “Minniti razzista” e mostravano lo striscione “Pd peggior destra”.
D’altronde la scritta “No Minniti Orlando”, insieme alle coperte termiche, è stata uno dei simboli della manifestazione. Portata al collo con fierezza da chi, come Roberta, sostiene sia “inutile parlare di Milano senza muri se poi è la stessa sinistra a costruirli”. Effetti collaterali di uno slogan che ha riunito in strada diverse anime della politica e della società civile, ma che è considerato in contraddizione con l’operato del governo. Lo dimostrano la presenza di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Stefano Fassina, fuggiti dal Pd, come anche di Gino Strada, Carlo Petrini e Moni Ovadia, rappresentanti di anime diverse della sinistra. Ma lo dimostrano pure le parole di Emma Bonino, eretta dagli stessi organizzatori a simbolo della marcia, che ha ammesso come il decreto Minniti-Orlando stabilisca “un diritto affievolito per i richiedenti asilo”. E così quando Sala ha cominciato il suo discorso dal palco di Piazza del Cannone, punto finale della marcia, davanti a lui campeggiava lo striscione “No Minniti Orlando”.
Subito dopo ha preso la parola il presidente del Senato Piero Grasso, interrotto a metà del suo discorso ancora dal coro “No Minniti”. La scommessa del sindaco di Milano è stata vinta in termini numerici, nonostante la difficoltà di organizzare una marcia a favore dei migranti nel mezzo delle polemiche sull’operato delle Ong nel Mediterraneo. Ma allo stesso tempo la grande risposta di pubblico ha fatto sì che emergesse in modo netto la contestazione di chi condivide i valori della marcia, ma non quello che il governo Pd ha fatto fino ad oggi. “Abbiamo organizzato e aderito all’iniziativa per fare una manifestazione parallela – spiega Zoe, membro della piattaforma No one is illegal – perché le parole portate oggi in strada dal Pd non corrispondono ai fatti”. Un’iniziativa pacifica, che si è unita al corteo dei migranti, facendo indossare anche a loro i cartelli con la scritta contro il decreto Minniti-Orlando.
“Una legge che aumenta le difficoltà dei disperati che arrivano in Italia”, accusa Santino. Le fa eco Paola: “Quando si costruiscono muri non importa se siano di destra o di sinistra, sempre muri sono”. Non stupisce lo striscione mostrato dall’associazione Clash city workers: “Pd = Lega”. E non sorprende che la maggior parte dei manifestanti siano d’accordo. Questo il pensiero di un’anima della marcia, una parte di elettori che si autodefiniscono “di sinistra”, con cui il Pd dovrà tornare a fare i conti, considerato il successo che l’iniziativa ha avuto. Anche perché in molti dicono di essere contenti dell’assenza di Renzi, “altrimenti la contestazione sarebbe stata dura”.
la Repubblica, 21 maggio 2017
«La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie». Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)
«Nessuna persona è illegale», poco importa se non sarà questo lo striscione che oggi a Milano aprirà la marcia per l’accoglienza dei migranti. L’incursione di chi ha lavorato per impedire che questa giornata antirazzista si trasformasse in una festosa e inutile parata filogovernativa ha già dato i suoi frutti.
Non è ancora una novità politica ma potrebbe essere più di un semplice slogan, forse è la speranza di ritrovare la forza per rovesciare un discorso a senso unico che negli anni ha tolto voce a chi si oppone al razzismo e alle leggi discriminatorie contro gli stranieri. E’ una storia lunga che si chiama Turco-Napolitano-Bossi-Fini-Minniti-Orlando.
L’obiettivo di chi oggi prova a rivoltarsi è ambizioso, riaggregare per andare oltre il 20 maggio e non farsi più schiacciare dalle schermaglie tra chi esibisce politiche razziste da destra e chi applica le stesse ricette criminali mascherandole con la retorica dell’accoglienza (in mare e nel deserto libico, si muore).
Con questa consapevolezza, sarà anche una festa. Con i bambini in prima fila (che ci guardano) e le musiche e le comunità straniere, per questo sarebbe bene dirla tutta senza ipocrisie. Sono attese in piazza migliaia di persone e considerata l’aria che tira, in Italia e in Europa, è già un fatto inedito rilevante. Un’occasione da non sprecare, pensano molti antirazzisti che da troppo tempo sono rimasti al palo. Non tutti però.
Comunque, sulla carta, ci saranno tutte le associazioni e le organizzazioni politiche e sindacali che vorrebbero riconoscersi in una società più aperta e inclusiva. Laiche e cattoliche, più di mille.
Ci sarà anche il Pd con qualche imbarazzo, è l’unica «formazione» invitata a non presentarsi in piazza con bandiere e simboli di partito (anche la presenza del ministro Maurizio Martina è percepita come un grattacapo).
Sono tre mesi che l’assessore Pierfrancesco Majorino (Pd), il primo a credere nella necessità di questa giornata, procede a tentoni con i piedi in due scarpe: da una parte non può fare a meno delle associazioni che lavorano con i migranti, tutte critiche con la legge Minniti-Orlando, e dall’altra non può rischiare di organizzare suo malgrado un corteo contro il governo e il Pd.
Ormai ci siamo. La voglia di esserci, forse per dovere, perché non ci si può sempre fare del male per eccesso di politicismo, è cresciuta in dirittura di arrivo anche per dare un segnale in controtendenza dopo un fatto di cronaca accaduto l’altra sera a Milano. Stazione Centrale, scenario perfetto: un giovane italiano senza fissa dimora, madre milanese e padre tunisino, Ismail Tommaso Ben Youssef Hosni, ha ferito tre agenti con un coltello da cucina durante un controllo. E’ indagato per terrorismo internazionale perché avrebbe postato un filmato sull’Isis. Leghisti, post fascisti e centro destri con la bava alla bocca - in testa Salvini e Maroni - hanno chiesto la sospensione della marcia.
Esemplare la risposta di Beppe Sala: «Resto convinto che l’accoglienza sia un dovere della nostra città e di chiunque possa alleviare le sofferenze di chi è in difficoltà serie e chiede aiuto. Confermo che guiderò la marcia . Il criminale che ha accoltellato gli uomini delle forze dell’ordine è figlio di madre italiana e di padre nordafricano ed è italiano a tutti gli effetti. Ciononostante a qualcuno fa comodo buttare questo atto criminoso sul conto dei migranti». Buon senso di libero manager.
Il sindaco è anche l’unico tra gli organizzatori che non avrà problemi di identità - e di relazioni con il Pd - se gran parte delle associazioni oggi non dimenticheranno di puntare il dito contro le leggi del governo che sono in contraddizione con lo spirito di accoglienza.
Lo sostiene chi si ritrova nella piattaforma «Nessuna persona è illegale» (centri sociali non solo milanesi, partiti della sinistra che non hanno bisogno di nascondere le bandiere, studenti, Arci Milano, Asgi, Naga, Melting Pot e altre 270 sigle).
E anche associazioni socialmente meno «pericolose» come Legambiente: «Affrontare la questione migranti come se fosse un problema di ordine pubblico, come fanno le pessime leggi 46 e 48 su nuove procedure per i richiedenti asilo e sicurezza urbana, proposte dal governo e approvate dal parlamento, è un’operazione pericolosissima» (la presidente Rossella Muroni).
E il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra, un’organizzazione non filogovernativa ma non per questo tacciabile di estremismo: «Chiediamo l’abrogazione delle leggi Minniti-Orlando, provvedimenti che, in nome di sicurezza e decoro urbano, portano ad un passo indietro sul piano dei diritti civili». Inutile nascondersi dietro un dito: fare nomi e cognomi oggi non è reato.
Chi ci sta scende in piazza alle 14,30 in Porta Venezia (la “piattaforma” anticipa alle 12 pranzando con i migranti). Pigri e riottosi possono rimediare con Radio Popolare, fanno una diretta esagerata.
la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)
Come rispondere al razzismo aggressivo e manifesto senza mettersi sullo stesso piano di violenza verbale? Sono in tanti a tacere per questo timore, ma è un chiamarsi fuori che non paga. Il demoniaco sproloquio sul web dilaga anche perché sono forse troppo pochi quelli che hanno animo di rispondere pubblicamente, sul treno, per strada, al bar. La prima, vera guerra da combattere è contro il silenzio.
Brecht scrisse: «Non si dica mai che i tempi sono bui perché abbiamo taciuto». E i tempi furono bui per davvero. Non è la xenofobia il problema: ad essa va prestato attentamente ascolto. Essere inquieti di fronte all’Altro è un riflesso naturale e umano. Sbaglia chi non sa ascoltare questa paura. La classe politica ha il dovere di capire e gestire le tempeste identitarie generate dalla società globale per evitare che diventino odio, perché con quell’odio, poi, non si potrà più ragionare. È quanto accade sempre più spesso oggi.
Oggi siamo oltre il limite. Ed è diventato indilazionabile chiedersi in concreto con che parole rispondere a caldo, in modo efficace, alle provocazioni, stante che non serve porgere l’altra guancia, belare come agnelli o lanciarsi in raffinati pensieri. Bisogna avere a disposizione un’arma. Un vocabolario forte, metaforico, fulminante, capace di viaggiare su registri diversi. Qui provo a proporre un primo, un modesto arsenale di parole, una piccola officina che faccia da base per un vocabolario antagonista alle parole ostili.
La preghiera
«Prego perché tuo figlio non debba mai finire dietro un reticolato e perché tu non debba mai essere guardato come un miserabile. Prego Iddio che il tuo denaro e il tuo passaporto non siano mai rifiutati come carta straccia da un agente di polizia. Invoco il Signore perché i tuoi nipotini non debbano passare inverni nel fango, sotto una tenda, a mezzo chilometro da un cesso comune, con gli scorpioni e i serpenti che si infilano nelle loro coperte. Prego perché il tuo focolare non si riduca a un mucchietto di legna secca e il tuo unico contatto con la famiglia lontana sia il telefonino. Prego soprattutto perché tu non debba mai udire, rivolte a te, parole come quelle che hai appena pronunciato».
L’augurio
«Vorrei che tu non diventassi mai un miserabile, perché lo si diventa in un attimo. Basta molto meno di una guerra. È sufficiente un terremoto, un’alluvione. Una malattia, un tradimento, una truffa, un divorzio, un licenziamento, un bancomat che si nega allo sportello. Mio nonno emigrò per fame in Argentina, fece fortuna, poi la banca con tutti i suoi risparmi fallì e lui morì di crepacuore a quarant’anni, lasciando la famiglia in miseria. Oggi è peggio. Si diventa superflui per un nonnulla. Ti licenziano con un Sms. Anche senza emigrare».
L’accusa
«A sentire parole come le tue, se fossi un terrorista dell’Isis mi fregherei le mani. Penserei: che bisogno ho di fare altri attentati? Questi europei sono la mia quinta colonna. Si dividono invece di unirsi. Alzano reticolati fra loro. Risuscitano frontiere morte e sepolte. Picconano i loro valori: il laicismo, le garanzie, l’educazione scolastica. Invocano lo stato di polizia. Odiano le vittime del nostro stesso odio. Allontanano proprio quelli che meglio conoscono il loro nemico e potrebbero proteggerli dalla nostra aggressione. Cosa posso chiedere di più?».
L’ironia
«Bravi! Quando non ci saranno più stranieri, tutti i problemi saranno risolti. Niente più evasori fiscali, niente più debito di Stato, esportazioni di capitali, banche rapinate, assenteismo, inquinamento, disoccupazione, camorra, istruzione a pezzi... niente più ladri e imboscati, niente più congreghe di raccomandati che costringono i nostri figli a emigrare... Ma già, tu non chiami “emigrazione” quella dei tuoi figli, anche se finiscono nei call center con paghe da fame: la chiami “mobilità”, perché credi che a emigrare siano solo quelli con la pelle di un altro colore».
Lo sfottimento
«Urla, urla pure contro i migranti... Urlare è l’unica libertà che hai... Avrai tutti i megafoni che vuoi... Ti lasceranno fare perché le tue urla fanno il gioco dei potenti. Servono a coprire le loro responsabilità. A impaurire gli stranieri e abbassare il costo del lavoro. Le mafie, la grande distribuzione, l’alta finanza sentitamente ringraziano. Ma sappi che dopo gli stranieri toccherà ai tuoi, ai nostri figli. Non è mai stata inventata una forma più perfetta e perversa di dominio».
Il ghigno
«Però ti fa comodo che non tocchi a tuo figlio scannare galline in serie, sotterrare morti, pulire cessi e sottoscala, conciare pelli puzzolenti, raccogliere pomodori a cottimo, scuoiare manzi abbattuti, pulire i nostri vecchi in casa o in ospedale... Ti fa comodo, confessa, che ci siano gli stranieri. Il problema è che vorresti che, finito l’orario di lavoro, sparissero e che l’happy hour fosse solo per i tuoi figli. E io so perché: perché hai paura di conoscerli, gli stranieri. Perché se li conoscessi sapresti che sono come noi. E allora capiresti che il cerchio si chiude. Capiresti che dopo di loro toccherà a noi scannare galline in serie, pulire cessi e conciare pelli puzzolenti».
La commiserazione
«Vedi, io ho un’immensa pietà per quello che dici. Me ne dispiace. Perché se Gesù bambino tornasse, con sua madre, suo padre e l’asinello, lo chiuderesti in un centro di espulsione. Guai pensare che c’è qualcuno fuori al freddo. Sono cose pericolose. Fanno venire scellerati pensieri di frugalità... Non sia mai che la macchina del consumo rallenti prima di aver raschiato il fondo del barile. Perché solo allora capiremo che tra ghetti e agenzie di lavoro interinale, tra mafia e call center, tra il caporalato e le ottanta ora settimanali di lavoro inflitte legalmente da aziende senza patria, tra gli schiavi dei pomodori e i profitti dei signori in grigio non c’era nessunissimo confine».
L’avvertimento
«Ti piace Trump? Ti piacciono Theresa May e Marine Le Pen? Guardati dai falsi profeti, dai ladri e dagli scassinatori, guardati dai clown che recitano copioni da tragedia, dai contrabbandieri e dai seminatori di zizzania. Solo un’immensa, planetaria ingenuità può farti credere che un miliardario possa farsi paladino degli ultimi. Solo una colossale ignoranza, dopo due guerre mondiali, dopo l’autodistruzione della Jugoslavia e i massacri in Ucraina, può farti credere ancora alle parole di chi invoca la costruzione di muri nel nome delle nazioni. Additare nemici è l’ultima risorsa dei governanti incapaci».
La maledizione
«Via dall’Euro? Abbasso l’Europa? Vai, vai pure. Poi te lo paghi tu il mutuo. E dimmi, dove andrai? A diventare una colonia cinese? Ricordati la notte dell’Europa! Ricordati che ci siamo già suicidati due volte! Perfino il fascismo era meglio del berciare analfabeta! Oggi è Mein Kampf più Facebook, un’idea di stato governato da sceriffi e regolato dal porto d’armi universale. È questo che vuoi? Ricordati dei giornalisti uccisi! Ricordati che ci sono luoghi dove per il diritto all’informazione si muore!».
Le citazioni
«Non molesterai lo straniero, né l’opprimerai, perché foste anche voi stranieri in Egitto. Bibbia, Deuteronomio, 10.14 e 16-19». E ancora, anche se il rimando non è letterale: «Omero, Odissea, canto sesto. E Ulisse si accasciò sulla spiaggia dei Feaci, orrido a vedersi, ma Nausicaa, la figlia del re, non scappò da lui, gli diede di che mangiare, lavarsi e rivestirsi, e poi disse: raccontami la tua storia, straniero».
«Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del "foro" aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande».
il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)
Non tutti sanno che nel suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituta da «sampietrini», i cubetti di porfido caratteristici delle strade e delle piazze romane. Una scelta, questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia non è un luogo «separato» dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione.
Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata e autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del «foro» aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei «giudici», che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere.
Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo del diniego opposto da alcuni importanti magistrati alla richiesta di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante.
A Firenze, in particolare, la presidente della corte di appello e il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano il loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni.
Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale.
È bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo della legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del «Tribunale supremo», in un’aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale.
In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella «colleganza» fra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’ordine giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente a ignari cittadini, fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.
la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)
In origine non esistevano “professioni giuridiche”. Quella che noi chiamiamo “giurisprudenza” non esisteva come entità o funzione autonoma. Un passo determinante verso il diritto come dimensione autonoma della vita sociale è raccontato da Eschilo nella terza parte della saga di Oreste, le Eumenidi, un testo teatrale messo in scena nel 458 a.C.. Vi si racconta la conversione delle Furie o Erinni, forze che avvolgono gli esseri umani e le loro famiglie nella spirale di violenza distruttiva che non si estingue mai e, anzi, si estende di generazione in generazione: conversione in figure benevolenti che giudicano con parole definitive e mettono fine a quella che sarebbe stata, altrimenti, la catena infinita delle vendette.
La dea Atena, protettrice della città, fonda l’Areopago, istituzione perenne e luogo protetto dove si celebrano i riti della giustizia ateniese: «Insensibile al denaro, degno di venerazione, rigido d’animo, desto a vegliare i dormienti, presidio del paese: ecco il consesso che istituisco». Oreste, perseguitato per il matricidio, vi trova il giudizio definitivo che mette fine alla vendetta. Eschilo descrive, dunque, l’inizio di un processo d’individuazione della funzione della giustizia. Ma non è ancora il tempo dei giuristi e della loro scienza.
Il diritto, la giurisprudenza e i giuristi vengono dopo, da Roma. Roma li ha creati e creandoli ha cercato di farne un mondo a parte, con suoi rituali esclusivi, la sua scienza e la coscienza di ceto dei suoi adepti: insomma, ne ha fatto una professione. Come addetti a una professione che oggi definiamo “liberale”, nel senso della sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure della vita, ci identifichiamo volentieri con Themis, la dea garante dell’ordine universale che abbraccia tanto gli dei quanto gli uomini o, più spesso, con Dike, sua figlia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane.
Dike è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica della menzogna (Platone, Leggi), pensosa e bella in tutti i sensi. Che i giuristi si considerino adepti di quella divinità, cioè della giustizia ch’essa rappresenta, è forse un atto d’orgoglio ma non è una arbitraria sostituzione o identificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale. Potremmo concepire una sentenza o a una memoria difensiva che non si richiamassero a una qualche concezione della giustizia?
Il diritto, insomma, tende a identificarsi con la giustizia e la giustizia, a sua volta, vuole rappresentarsi per mezzo d’una immagine intramontabile: quella giovane donna che si presenta di solito con gli occhi bendati perché “non guarda in faccia nessuno”, con in una mano la bilancia, come segno d’imparzialità, e con l’altra che brandisce la spada, simbolo della separazione del giusto dall’ingiusto o forse anche della protezione ch’essa offre a chiunque le si rivolge per scampare ai prepotenti. Innanzitutto, colpisce che la giustizia appartenga al mondo femminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata come dominio prevalentemente maschile.
Il Leviatano, l’animale marino scelto da Thomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da una figura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sono piccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di quell’immane “uomo in grande”. In Il buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, per fare soltanto un altro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e, sulla sinistra, la figura della giustizia. Ancora una volta troviamo l’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione del diritto e della giustizia con quello femminile.
La separazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. D’altro canto, non risultano uomini bendati, con bilancia e spada, e anche in altre culture troviamo sempre figure di donne, come la dea egiziana della giustizia cosmica, Ma’at.
La troviamo perfino nella cultura atzeca, dove la giustizia è rappresentata dalla donna-serpente, collocata subito sotto il re imperatore. La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile, ma la sua “amministrazione” lungo i secoli e dappertutto è stata riservata agli uomini. Come possiamo considerare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliere un’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere (maschile) dissimulato. Perché la dissimulazione? Forse perché ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dal potere, cioè dalla legge del più forte.
Forse l’archetipo è la vergine dea armata del mito, Pallade Atena. Si deve, tuttavia, fare attenzione agli attributi di quella fanciulla. Ai loro significati immediati – la spada che divide i torti e le ragioni, una volta che la bilancia li ha pesati, e la benda che assicura l’imparzialità tanto della pesa che della divisione – se ne possono accostare altri meno scontati che inducono a pensieri meno consolanti. La spada, infatti, fa pensare anche ad Alessandro Magno che, non riuscendo a sciogliere il nodo da cui sarebbe dipesa la conquista dell’Asia minore – il nodo di Gordio – lo taglia brutalmente.
Altro che le sottigliezze del diritto e l’intrico dei suoi argomenti da dipanare: qui, la spada è un atto di forza che rappresenta l’arroganza di chi non ha tempo da perdere e vuole procedere sulla sua strada. Potrebbe però anche essere rovesciata in simbolo difensivo. Ma potrebbe interpretarsi anche nel senso della pretesa arrogante d’essere riconosciuta come una forza che svolge un compito di natura sovrumana, quasi divina, a somiglianza dell’Arcangelo Michele che impugna la spada in nome di Dio per annientare Satana. Infine, ricordando l’Atena nell’Areopago, potrebbe anche trattarsi dell’arma che protegge il reo dalla furia vendicatrice della folla che punta a entrare nel tribunale per fare giustizia sommaria.
La dea bendata tiene nell’altra mano la bilancia. Un primo elemento di riflessione è che non si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo. La giustizia non si avvale di questo strumento di pesatura che darebbe un responso, per così dire, assoluto alla domanda: quanto pesa? Il responso della bilancia, invece, è relativo: la domanda alla quale risponde è: quali ragioni pesano più o meno delle altre, non essendo escluso il caso che si equivalgano. In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibile nelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una verità astratta.
In più: dice che anche il piatto della bilancia che pesa meno dell’altro, ciò non di meno, può avere ragioni dalla sua parte: non sufficienti a vincere la causa ma, non per questo indegne d’essere considerate da una “giustizia giusta”. La differenza può stare anche solo nell’inezia d’una piuma, come nella figura della dea Ma’at.
La pesa è l’atto finale di un percorso guidato dalla virtù dell’equilibrio. Si può allora dire che il giudice è un equilibrista? Forse sì. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo il motto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fosse pure il fanatismo della giustizia.
il manifesto, 19 maggio 2017
Ci sono soglie che non possono essere superate, pena la perdita di noi stessi. Una di quelle è la soglia che separa l’umano e il disumano. L’affermazione di quella comunità di genere che ci accoglie tutti e ci fa degni di riconoscimento reciproco, o la sua negazione.
Quella soglia viene oggi superata troppo spesso. Lo è con la colpevolizzazione della solidarietà in mare da parte di agenzie europee e di procure italiane.
Con la penalizzazione del precetto evangelico di nutrire gli affamati da parte di pubblici amministratori.
Con l’emanazione di una legislazione nazionale che sostituisce alla guerra alla povertà la guerra contro i poveri. Con la trasformazione dello stesso linguaggio corrente e l’emergere di parole segreganti come “decoro urbano”.
Con la messa in atto di una politica estera volta a creare ai confini d’Europa barriere più feroci degli stessi muri alleandoci con stati canaglia o capi-tribù chiamati a respingere nel deserto chi non vogliamo più soccorrere nel “nostro mare”.
Per questo due settimane fa eravamo in molti a Ventimiglia per dire che punire la solidarietà o impedirne l’esercizio mette in pericolo i principi e i valori minimi di umanità e di civiltà.
Sabato 20 maggio saremo molti di più a Milano per dire, riprendendo il grido della piazza di Barcellona, che l’accoglienza è un dovere.
La manifestazione sarà un gesto di solidarietà, una scelta di campo, una presa di parola contro il rifiuto e il razzismo in qualunque modo si manifestino. Per essere forte e capace di cambiare le politiche del paese quella parola deve essere chiara e coerente.
E deve fissare alcuni punti fermi. Il primo punto fermo - e ci riconosciamo in questo nelle parole del manifesto con cui la manifestazione è stata indetta - è un salto di qualità nella politica che porti «a compiere passi avanti reali, come l’effettivo superamento della legge Bossi-Fini, l’approvazione della legge sulla cittadinanza, la necessità di rafforzare un sistema di accoglienza dei migranti fondato sul coinvolgimento di tutte le comunità e le istituzioni, la trasparenza, la qualità, il sostegno ai soggetti più fragili (i minori, le donne, i vulnerabili), la cultura dei diritti e della responsabilità».
Ma c’è un secondo punto altrettanto decisivo senza il quale la pratica dell’accoglienza è inevitabilmente limitata e la sua proclamazione rischia di essere in gran parte retorica.
Il salto di qualità, la svolta della politica deve intervenire anche con riferimento ai più recenti provvedimenti legislativi (in particolare i decreti Minniti sui richiedenti asilo e sulla sicurezza, recentemente convertiti in legge dal Parlamento) che contraddicono in modo clamoroso lo spirito di accoglienza limitando le garanzie e i diritti per chi è in fuga da guerre e persecuzioni, incentivando risposte alle richieste di soccorso fondate sulla contenzione, creando improprie divisioni tra migranti, trasformando i sindaci in sceriffi e le istituzioni locali in presìdi a tutela degli inclusi contro i più deboli e i marginali.
La “retata” della stazione di Milano di qualche giorno fa, con una inedita esibizione di forza muscolare fino all’uso della polizia a cavallo, è figlia di quella cultura e di quella politica.
Guai a ignorarlo.
Solo con questa consapevolezza e con un impegno conseguente la manifestazione del 20 maggio sarà davvero «contro i muri». In questa prospettiva e con questo spirito vi aderiamo con convinzione e determinazione.
René Dahon (Association Roya citoyenne)
Marco Revelli
(storico e politologo)Cédric Herrou (attivista),
don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)
Alessandra Algostino
(Università di Torino)
MILANO, C'È SPAZIO PER TUTTI NELLA MARCIA PER L'ACCOGLIENZA
«20 maggio. Domani Milano sarà attraversata da migliaia di persone che chiedono (anche al governo) politiche diverse per l'immigrazione. Dopo una lunga trattativa si è arrivati ad un accordo per la composizione del corteo che prevede la presenza, non ai margini, anche dello spezzone "Nessuna persona è illegale". Ieri, intanto, il ministro degli Interni Marco Minniti ha firmato un protocollo in Prefettura che impegna 76 sindaci dell'area milanese ad accogliere i profughi sul territorio».
Settantasei sindaci dell’area metropolitana milanese (su 134) hanno detto sì. Sono disponibili ad accogliere sul territorio gruppi di migranti per un’accoglienza “equilibrata, sostenibile e diffusa” - come dice il ministro degli Interni Marco Minniti. Il protocollo è stato sottoscritto ieri in Prefettura, alla presenza del sindaco di Milano, ed è una mossa che va nella direzione giusta a poche ore dalla manifestazione “per l’accoglienza” che domani riempirà le strade della città.
Il protocollo impegna i sindaci ad accogliere entro il 2017 un numero di richiedenti asilo secondo una ripartizione stabilita in base al numero dei cittadini residenti. Si tratta di tre profughi ogni mille abitanti per un totale di circa cinquemila persone da suddividere tra i Comuni. «E’ un protocollo – ha detto Minniti – che può rappresentare un modello per l’Italia e l’Europa e può servire a superare i centri di accoglienza».
Il sindaco Beppe Sala, che sarà un protagonista della marcia per l’accoglienza di domani, non essendo condizionato più di tanto dalle inadeguatezze del Pd locale e nazionale, non ha perso l’occasione per dispensare buon senso: «Uno che fa il sindaco non può far finta che le cose magicamente si risolvano e girarsi dall’altra parte, non è giusto che ci sia qualcuno che deve fare anche la parte degli altri, perché questo dell’immigrazione è un tema che sarà dominante anche per le prossime decadi».
Nel frattempo la complicata macchina organizzativa della giornata “Insieme senza muri” (appuntamento domani alle 14 in Porta Venezia) ha raggiunto un accordo di massima sulla composizione della piazza. Non è una questione di lana caprina, è il frutto di una lunga trattativa per dare dignità e visibilità politica anche allo spezzone che intende coniugare il generico concetto di “accoglienza” con una decisa critica della legge Minniti-Orlando (associazioni e centri sociali che aderiscono alla piattaforma “Nessuna persona è illegale”). Il loro striscione sarà nelle prime file, appena dopo quello ufficiale - “Insieme senza muri” - e quello di Radio Popolare, che di fatto si è incaricata di trainare un evento concepito con alcune ambiguità che hanno provocato le tradizionali risse a sinistra.
A seguire, sfileranno i migranti, gli amministratori locali, le bande musicali, poi sindacati, Acli, Emergency, Casa della Carità, Legambiente, Arci, lo spezzone “più radicale” con i centri sociali, le associazioni e in fondo i politici. L’ex sindaco Pisapia, esponenti di Mdp, Emma Bonino, Giusi Nicolini, Carlo Petrini, il presidente del Senato Pietro Grasso e (forse) il ministro Maurizio Martina, anche se una rappresentanza governativa potrebbe agitare gli animi. Poi, in piazza del Cannone, musica dal basso e dj set (il Comune non ha sborsato un euro). Si attendono più di diecimila persone. Anche se da una manifestazione nazionale preparata pensando a Barcellona, con più di 500 adesioni e tutta la sinistra più o meno organizzata in piazza, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più. Comunque vada, sarà un successo.
INSIEME A MILANO, PERCHè NESSUNO è ILLEGALE
di Nicola Fratoianni
È sempre più urgente proporre un punto di vista diverso rispetto al tema dell’accoglienza in Europa. Di fronte ai muri, al veleno della xenofobia e del razzismo iniettato dagli imprenditori della paura nelle vene della società, di fronte alla sordità di gran parte delle istituzioni, bisogna reagire. Per questo la manifestazione di Milano può e deve essere un punto di snodo importante, come lo è stata quella di Barcellona, per questo saremo in piazza. Marciare per l’accoglienza significa, oggi più che mai, marciare per la vita e per la dignità umana.
Non sfuggirà a nessuno, credo, che la condizione dei migranti, oggi più di ieri, è strettamente connessa a quella dei più deboli e dei più poveri che abitano le nostre città, le nostre periferie. È sulla pelle dei più deboli, di qualunque colore sia, che si sta giocando una partita terribile, e che abbiamo il dovere di contrastare se vogliamo anche solo provare a disegnare un mondo diverso.
L’Europa si presenta sempre più come una fortezza, intenta a proteggere i propri confini. Lo fa con Frontex e lo fa con il vergognoso accordo con la Turchia di Erdogan a cui cerca di appaltare controllo e repressione. Oggi l’Italia riproduce lo stesso modello di esternalizzazione firmando accordi con pezzi di governo e tribù libiche. In Italia anni di legislazione fondata sulla cultura del respingimento hanno costruito il terreno su cui sono cresciuti razzismo e intolleranza. L’attacco vergognoso alle Ong che salvano migliaia di vite in mare in uno straordinario sforzo di supplenza rispetto all’assenza di chi, Europa in testa, dovrebbe garantire canali umanitari sicuri ne è una testimonianza evidente.
La Bossi-Fini ha messo un muro sui nostri confini e ha reso il Mediterraneo un cimitero. Il sistema di accoglienza è inceppato e farraginoso, basato più sulla discrezionalità di governo e prefetture, che su una piena consapevolezza e coinvolgimento delle comunità locali. Ma soprattutto resta legato ad una logica emergenziale. Che si riproduce e produce opacità, in un circolo vizioso che non si spezza mai, con le politiche di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze ridotte a nulla.
Insieme per ribadire che nessuna persona è illegale. Bisogna chiudere con la stagione in cui scambiamo i sintomi della malattia con la sua cura: se anche per chi ha le sue radici politiche nella sinistra il tema della povertà viene affrontato con le armi del decoro, della presunta sicurezza, dei super poteri ai sindaci come previsto dai pessimi decreti Minniti-Orlando mi pare abbastanza evidente che continueranno a crescere i muri. E con loro continueranno a crescere la paura, il razzismo e la violenza.
Abbiamo bisogno dell’esatto contrario. Facciamolo.
il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2017 (p.d.)