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«». il Venerdì di Repubblica, 1 Giugno 2017 (c.m.c.)

L’Italia è una Repubblica. Democratica, fondata sul lavoro.

L’abbiamo deciso in un 2 giugno come questo, settantuno anni fa: quando gli italiani (e per la prima volta anche le italiane) chiamarono se stessi a votare, per decidere cosa doveva essere l’Italia. E decisero: non un regno, non più. Ma una Repubblica.L’Italia, naturalmente, esisteva già. Come luogo fisico: una penisola immersa per tre lati nel mare, e coronata dalle Alpi. Ma anche come comunità. Come nazione.

Appena nata, la Repubblica dichiarò solennemente che avrebbe protetto la Nazione. Lo scrisse nella Costituzione, che è il progetto, la mappa, il programma della Repubblica. Lo scrisse nell’articolo 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». È l’unica volta che, tra i principi fondamentali della nostra nuova Italia, si usa questa parola: «nazione». E la si usa per dire questo: l’Italia è la sua storia, la sua natura, la sua arte. Non il sangue, la stirpe, la lingua o la religione: ma la cultura. Come matrice, ma anche come progetto.

Anche Cimabue, il più antico padre della pittura italiana, la pensava così. Quando Dante aveva circa quindici anni, sugli altissimi ponteggi della Basilica Superiore di Assisi – la grande chiesa nata sulla tomba di Francesco, che d’Italia divenne il patrono – Cimabue dovette rappresentare in poco spazio, e in modo che fosse visibile dal pavimento, proprio l’Italia. Anzi l’«Ytalia», come si scriveva allora.

La dipinse come una città: e non una qualunque, ma Roma. La capitale naturale di Italia. La dipinse non come una veduta, ma come un’idea: un catalogo di monumenti, tutti ben riconoscibili. Ci sono Castel Sant’Angelo, la Piramide di Cestio e la Torre delle Milizie. Ne riconosciamo la cattedrale: San Giovanni in Laterano con la sua antica facciata in mosaici dorati. E poi il Pantheon, con la sua meravigliosa cupola bucata. E ancora: campanili, marmi. Le mura: con la porta aperta. E in alto il Campidoglio: il palazzo del potere civico.

Proviamo a leggerne il messaggio: l’Italia è come una città bellissima, e la sua porta è aperta a tutti coloro che vengono in pace. Una nazione aperta, una città a cui tutti possono aggiungere qualcosa di bello, una Repubblica il cui palazzo più alto appartiene a tutto il popolo. In sette secoli la visione di Cimabue è diventata il progetto della Costituzione: ma quanto lavoro ci resta da fare per costruire l’Italia!

Altreconomia. newsletter 194, 1 giugno 2017 (c.m.c.)

L’aspetto più frustrante della democrazia moderna occidentale sono le campagne elettorali. Il periodo delle promesse, dei proclami, delle minacce, dell’ipocrisia, delle fazioni che si combattono senza particolare stile, regole, rispetto reciproco. Le campagne elettorali hanno molteplici tratti distintivi. Uno di questi è la necessità di rivolgersi, con tutti i mezzi, a quella parte sempre minore di popolazione che va ancora a votare, quella che ha resistito, nonostante tutto, alla tentazione antidemocratica dell’astensione. Dentro quella parte c’è un po’ di tutto: convinzione, protesta, abitudine, senso di responsabilità, disillusione. “Con tutti i mezzi” vuol dire oggi soprattutto televisioni e social media, con il portato che questa deriva ha definitivamente assunto in termini di linguaggio, superficialità, velocità ed evanescenza.

Un altro tratto caratteristico delle stagioni pre urne è la scelta di pochi temi sui quali concentrarsi, affinché siano idonei a convincere gli elettori attraverso i mezzi a disposizione. Mascherando la scelta come “necessaria” per parlare “a tutti”, si abdica alla complessità a favore di slogan e programmi che sembrano liste della spesa. È accaduto negli Stati Uniti e in Francia, accadrà fra poco in Germania, in Gran Bretagna e, fra non molto, anche in Italia -che in realtà è entrata in una campagna elettorale perenne ormai dal periodo precedente al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

Nelle democrazie moderne occidentali, dato il contesto storico, il tutto è facilmente riconducibile a una sola parola: paura. La paura che provano le persone -e quindi gli elettori- va rispettata. Le cose sono ben cambiate nel corso degli ultimi 20 anni, e i cambiamenti, quando non li si comprende, mettono timore. Ma se rispettare la paura è giusto, alimentarla, cavalcarla, sfruttarla è indegno. Perché quando il perno della politica è la paura dei cittadini, la risposta è innanzitutto ridimensionare i problemi reali del mondo. Ovvero i cambiamenti climatici, lo strapotere delle multinazionali che eludono le tasse, l’incredibile iniquità nella distribuzione planetaria dei redditi, l’esaurimento delle risorse, l’impunità della finanza predatoria, dei corrotti e dei corruttori, la criminalità organizzata internazionale. Troppo difficili da capire, troppo difficili da spiegare. Troppo potere da mettere in discussione. Poca volontà di contrastarlo.

Il passaggio successivo consiste nella ricerca di un capro espiatorio. E il capro espiatorio delle democrazie moderne occidentali sono i miserabili: migranti, disoccupati, mendicanti. E ovviamente chi li aiuta. Facili da attaccare, praticamente indifesi. Vittoria certa, agevole, pulita. Consenso a buon prezzo. Non tutti ci cascano ovviamente. Al Salone del Libro di Torino, a maggio, nel silenzio compiacente della platea (“la cultura è l’oppio dei popoli” direbbe Goffredo Fofi) tre ragazzi hanno contestato il ministro dell’Interno Marco Minniti per i decreti di sedicente sicurezza che portano il suo nome e quello del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Dietro il paravento di tanta retorica, l’operato del Governo punta a un modello ben lontano dall’accoglienza diffusa che ci si era prefissi, fatto anche di accordi con Paesi tutt’altro che democratici per il “contenimento” dei flussi migratori. La protesta è stata facilmente repressa, ma ci sono voluti tre ragazzi coraggiosi per dire che il re è nudo.

La paura è la stessa arma del terrorismo internazionale, che non colpisce il potere, non colpisce l’ingiustizia: colpisce gli indifesi, le vittime, chi non ha alcun potere, come quei ragazzini -e le loro famiglie- a Manchester il 22 maggio. Ragazzini per i quali la società multiculturale è la normalità. La filosofa Donatella Di Cesare parlerebbe di “fobocrazia”: «Il terrore incrina l’etica, sfida la politica, muta la forma di vita. Scaturito dalla modernità, il terrore è la forza violenta che si oppone alla globalizzazione».

«È possibile e ha senso raccontare ai ragazzi di oggi Barbiana? In che misura è lecito educare alla trasgressione di leggi ritenute ingiuste? E in che modo?».

comune.info, 2 giugno 2017 (c.m.c.)



Fabrizio Silei e Simone Massi Il maestro Orecchio Acerbo editore, Roma 2017, p.48, € 15

È possibile e ha senso raccontare ai ragazzi di oggi la scuola di don Milani? Ci provano Simone Massi e Fabrizio Silei, in un libro che trovo utile e bello. Ho nominato l’illustratore per primo perché il segno che caratterizza Il maestro, edito da Orecchio Acerbo, arriva in primo luogo dalle immagini graffiate di Massi. Quelle pagine inchiostrate col nero delle vecchie serigrafie evocano un tempo lontanissimo dal nostro. Sono passati solo cinquant’anni, ma chi ricorda le case contadine senza bagno e luce elettrica, a cui si arrivava solo camminando per sentieri o strade bianche? Quali ragazzi possono immaginare quel buio e quella povertà, se non arrivano dal sud del mondo?

“La scuola sarà sempre meglio della merda”, disse Lucio che aveva trentasei vacche nella stalla. Non si può comprendere nulla della radicalità di quella proposta educativa – che prevedeva dieci ore di scuola 365 giorni l’anno – se non si considera che l’alternativa era passare lo stesso tempo a spalare nelle stalle e a faticare con gli animali.

Fabrizio Silei racconta la scuola di Barbiana dal punto di vista di un ragazzo che non ci voleva andare e che vi fu trascinato dal padre analfabeta, offeso per come lo aveva ingannato e irriso il suo padrone. Il suo è un avvicinamento lento e guardingo al “prete matto”, come lo fu certamente quello di molti contadini del Mugello, sorpresi dalla presenza in parrocchia di quella meteora incandescente. Con scrittura piana e non retorica incontriamo l’amore di Lorenzo Milani per la parola che fa uguali e la pratica del leggere il giornale insieme, con attenzione, in ogni sua parte.

Edoardo Martinelli ha di recente raccontato a un gruppo di insegnanti come si imparava la storia lassù, confrontando le posizioni del Saitta con quelle dello storico inglese Mack Smith, e i due testi con le testimonianze orali dei genitori contadini che raccontavano l’orrore delle trincee della prima guerra mondiale. È quel modo di ricostruire la storia, confrontando posizioni diverse, che fornì a quei ragazzi gli strumenti per ragionare sulla lettera dei cappellani militari contro l’obiezione di coscienza.

Viene così evocato un nodo bruciante della relazione educativa: in che misura è lecito educare alla trasgressione di leggi ritenute ingiuste? E in che modo? «Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla», sostiene il Priore.

«Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sostengono il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».

Lorenzo Milani fu condannato e per arrivare alla legge che permette l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni persuasi come lui. È figlia di un maestro capace di insegnare con l’esempio ad avere coraggio, convinto che i ragazzi «bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto».

Il Renzusconismo non è una spuma passeggera, ma il prodotto del fluire costante di correnti profonde. Per combatterlo con efficacia i tatticismi non bastano. «Per ora possiamo contare solo su una credibilità che deve venire da chiarezza di analisi e di obbiettiv

i». il manifesto, 2 giugno 2017

So benissimo quanto sia poco elegante autocitarsi, con il sottointeso, inoltre, di suggerire: «vedete che avevo la vista lunga». Per ragionare, però, su quello che abbiamo oggi sotto gli occhi dobbiamo ragionare anche su quello che ci avevamo ieri e che la politica politicante aveva ignorato e che continua ad ignorare. «Molti commentatori odierni, purtroppo anche da sinistra, scambiano una partita di poker (…) con un mutamento strategico. Scambiano cioè la spuma di superficie mossa da venti incostanti, con il fluire costante delle correnti profonde (…). È sulle culture che lo ispirano, sulle strutture di ogni tipo che lo sorreggono, che vanno misurate le ragioni del ’lungo Nazareno’, non sulle necessità contingenti della tattica» (Le radici profonde del Nazareno, il manifesto, 10 febbraio 2015). Di fronte alla nuova partita di poker dei nostri giorni i cui risultati sembrano invertire la «svolta a sinistra» renziana relativa al metodo di elezione di Mattarella (così fu considerata dai sostenitori del centrosinistra «buono»), si potrebbero usare gli stessi termini dell’articolo di due anni e mezzo fa. E del resto non si sono certo modificate le coordinate che vengono da lontano e che si concretizzano, come ci spiega autorevolmente un ex economista critico, fortemente pentito proprio della dimensione «critica» [Michele Salvai -n.d.r], nella consapevolezza che «entrambi i leader» hanno del «nesso che lega (…) indirizzi europei (…) alle riforme interne che dovranno essere attuate al fine di adeguarsi ad essi» (Il riformismo dei moderati Renzi e Berlusconi, Corriere della sera, 20 maggio 2017).

Su questo punto, quello davvero dirimente per l’analisi «critica» e le politiche che intendono ispirarvisi, fin dagli anni ’90 le logiche dell’alternanza tra governi Berlusconi e governi di centrosinistra non sono mai state conflittuali se non su questioni marginali o su tattici aggiustamenti legati alla contingenza. L’ideologia economica condivisa e vissuta come seconda natura giustifica il «pilota automatico» che guida l’attuale fase dell’accumulazione. I due leader «riformisti» devono assicurarsi che niente interferisca con tale centro di controllo dell’economia e della società, ed una volta garantito il meccanismo possono dedicarsi in tutta libertà ai più gratificanti giochi dell’esercizio del potere. Giochi tutt’altro che innocenti peraltro.

Da «quali fragilità della nostra storia» (G. Orsina) sia derivato quel fenomeno che è stato chiamato berlusconismo sono ormai noti i lineamenti generali. Attenti studiosi (A. Gibelli, P. Ginsborg, N. Tranfaglia…) hanno impostato in termini storici, e dunque nei tempi della storia, l’ascesa e la pervasività del fenomeno. Se la commistione politica-affari attiene in generale alla tendenza «regressiva» che interessa l’Occidente nel suo complesso da più di trent’anni, i modi del «berlusconismo» sono connotati dalla storia italiana, dalla particolare estensione della sua «zona grigia». In nessun altro paese analogo l’accumulazione di ricchezza e potere personale avrebbe avuto spazi fuori legge tanto vasti. In nessun altro paese analogo le condanne definitive ed infamanti ai principali esponenti (Berlusconi, Previti, Dell’Utri) di un’operazione politica di tale centralità non avrebbe lasciato segno sulla continuità dell’operazione stessa.Questo non è avvenuto perché la cornice politico-culturale seguita all’eclissi (parziale) di Berlusconi altro non è stata, e non è, che una nuova forma di berlusconismo. Uno stato della «miseria della politica» a cui Berlusconi ha dato corpo ed immaginario, ma che trascende la sua persona.

Ora questo quadro politico con un nucleo centrale sostanzialmente compatto, un nucleo centrale che è espressione di un reticolo di strutture anch’esso sostanzialmente compatto, si appresta a cercare conferma in una tornata elettorale assai vicina. Una tornata elettorale importante anche per una definizione non provvisoria, non immediatamente funzionale alla scadenza, del processo di costruzione (ahimé infinito e ed ancora inficiato da insopportabili tatticismi) di un campo di sinistra radicalmente critico e politicamente efficace. Un appuntamento importante, certo, ed è necessario lasciare un segno nei risultati, ma non è il caso di farsi eccessive illusioni su spazi elettorali facili da conquistare. Il risultato francese di Melenchon, quasi il 20%, ha alle sue spalle una durissima lotta sociale durata mesi e sostenuta dalla Cgt. Non mi pare che ci possano essere paragoni con la situazione italiana.
Per ora possiamo contare solo su una credibilità che deve venire da chiarezza di analisi e di obbiettivi. Leggo che il 29 maggio la capogruppo Mdp al Senato ha dichiarato: «… noi ragioniamo nell’ottica di un centrosinistra coalizionale». Ebbene chiarezza e credibilità significano ragionare esattamente nella maniera opposta.

la Repubblica, 2 giugno 2017 (c.m.c.)

Marco Marzano e Nadia Urbinati La società orizzontale: Liberi senza padri. Feltrinelli Collana: Campi del sapere. 2017 P. 112

Chi ha paura della “morte del padre”? Chi teme la crisi di quell’autorità che la tradizione ha visto incarnata nella figura maschile e paterna? Non certo Marco Marzano e Nadia Urbinati, che anzi nel loro saggio La società orizzontale (Feltrinelli) si scagliano apertamente contro quello che chiamano «il modello di Telemaco»: il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo né mira all’autoaffermazione di Narciso. Invece, secondo il sociologo e la teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie.

Alla «logica neo-patriarcale» andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una «società orizzontale», ovvero autenticamente democratica. E il saggio, che pone in modo polemico e sempre lucido questioni radicali, àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di “orizzontalizzazione” è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa «mutazione antiegualitaria» denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013 (Laterza).

La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta «controrivoluzione dei padri ». Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico.
Sul piano religioso, Marzano e Urbinati descrivono una sorta di passaggio al protestantesimo, compiuto da una generazione di giovani che ragiona in autonomia e stabilisce un rapporto sempre più diretto e libero con la dimensione del divino. Sul piano famigliare, si nega che il declino della famiglia tradizionale, cioè paternalistica e autoritaria, rappresenti una catastrofe.

Al contrario, la democratizzazione delle famiglie avrebbe portato con sé un clima più pacifico, fatto di dialogo e di rispetto reciproco.
Sul piano politico, infine, viene diagnosticata la crisi dei partiti identitari. La loro restaurazione è una causa persa. Ma la loro natura dev’essere per forza leaderistica o verticale? No. La sfida, secondo gli autori, è quella di costruire partiti orizzontali, con una struttura sempre meno piramidale e più reticolare, capace cioè di federare gruppi sorti nella società civile. E ciò non implica il rigetto della dicotomia destra-sinistra, come pretende l’attuale vulgata movimentista. Marzano e Urbinati sostengono che gli stessi valori democratici possono ancora essere declinati con uno spirito riformista e sociale oppure conservatore e liberista, e dunque che le categorie di destra e sinistra restano utili criteri di orientamento.

Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo.

il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2017 (p.d.)

Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?

Nulla, tranne la soglia di sbarramento del 5%, se rimane. Mentre in Germania chi vince nel collegio uninominale viene eletto in Parlamento, nel caso italiano i candidati dell’uninominale non fanno altro che mettersi in fila per essere tra gli eletti del loro partito. E non sono neppure tra i primi. La priorità spetta al capolista del listino bloccato poi, eventualmente, il candidato arrivato primo nel collegio uninominale, seguono gli altri della lista bloccata, infine, se il partito ha ancora diritto a ulteriori seggi, passano i candidati dei collegi uninominali che non sono arrivati primi.

Quindi, come con il Porcellum e con l’Italicum, abbiamo sempre dei nominati in Parlamento?Esattamente. Sono tutti nominati e le liste bloccate sono addirittura due. Una evidente, che compare sulla scheda, cioè il listino, e l’altra formata dai candidati della lista per i collegi uninominali, all’interno di una circoscrizione.
Dunque, per il meccanismo che ci ha spiegato, le segreterie scelgono anche i numeri uno dei collegi uninominali, per controllare chi sarà eletto?
I primi di cui hanno cura sono i capilista del listino bloccato: anche se vanno in vacanza senza fare campagna elettorale, saranno eletti. Seguiranno i numeri 1 della parte uninominale, anche questi indicati dalle segreterie di partito.
Ma gli elettori cosa scelgono?
Scelgono il partito. Accanto al suo simbolo c’è il candidato uninominale, che cambia di collegio in collegio, dall’altra parte del simbolo c’è il listino bloccato uguale per tutta la circoscrizione.
Il Porcellum è stato bocciato dalla Consulta, l’Italicum idem. E il Tedeschellum ha recepito o ignorato quanto indicato dalla Corte costituzionale?
La cosa positiva è l’eliminazione dei premi di maggioranza, che la Consulta non reputa di per sé incostituzionale, ma sono a forte rischio quando assicurano sempre e comunque una maggioranza. Viceversa, è stata aggirata la necessità di non avere lunghe liste bloccate e di consentire agli elettori di scegliere gli eletti. Tanto è vero che perfino il candidato nel collegio uninominale anche se vince non ha certezza di entrare in Parlamento.
Dunque, ci risiamo? Si va di nuovo davanti ai giudici costituzionali?
Sulla incostituzionalità avrei qualche dubbio in più, il sistema valorizza molto poco il voto dell’elettore ma certamente dal punto di vista formale non c’è un’unica lunga lista bloccata ma una evidente e un’altra occulta, più corta.
Lei è stato chiamato alle audizioni parlamentari. Cosa aveva suggerito?
Un compromesso per valorizzare la rappresentanza e tenere ferma l’esigenza di stabilità di governo. In sostanza un sistema misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale, che sembrava il preferito. Era venuto fuori il cosiddetto Rosatellum, non congegnato benissimo ma si poteva lavorare per perfezionarlo. Invece, si è abbandonato e si è intrapresa questa strada, sicuramente peggiore.
Qual è secondo lei la ratio di questa scelta?
La volontà di trovare una legge che passi rapidamente per assecondare una spinta al voto anticipato di cui non si comprende l’esigenza a questo punto, quasi finale, della legislatura.
E la fretta non porta a nulla di buono...
Mai. È una legge non in linea con il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani hanno ribadito che vogliono scegliere direttamente i propri rappresentanti.
Finalmente trovata la soluzione tecnica idonea a sostituire scafisti, Ong e altre più evolute forme di canali protetti per garantire condizioni umane all'esodo degli abitanti che il Primo mondo ha tramutato in inferni.

la Repubblica online, "Viaggi", 1 giugno 2017
Ieri la consegna, nei cantieri francesi STX di Saint-Nazaire, sull'estuario della Loira; domenica la cerimonia di inaugurazione. Queste sono invece le prime miglia marine percorse dalla Meraviglia, nuova ammiraglia della flotta MSC. Con 171.598 tonnellate di stazza lorda e capacità di ospitare 5.714 passeggeri, MSC Meraviglia è la nave più grande mai costruita da un armatore europeo, MSC Crociere, e la più grande entrata in servizio nel 2017.

Msc Meraviglia è una delle 6 nuove navi che entreranno in servizio trail 2017 e il 2020. Alla cerimonia della consegna, che prevede il cambio della bandiera, da quella del Paese costruttore a quella dell'armatore, ha presenziato il neopresidente francese Emmanuel Macron. Dopo il varo, la nave inizierà la sua stagione inaugurale nel Mediterraneo Occidentale. MSC Meraviglia è lunga 315 metri, larga 43 metri e alta 65 metri con una stazza lorda di 171.598 tonnellate.

La nave può viaggiare ad una velocità fino a 22.7 nodi, è stata progettata per navigare in tutte le stagioni e per essere in grado di scalare la maggior parte dei porti crocieristici internazionali, offrendo la più ampia ed emozionante gamma di funzionalità di bordo di qualsiasi altra nave da crociera di MSC.

Tra le peculiarità della nuova generazione di cruiser, la possibilità di offrire a bordo uno spettacolo dedicato del Cirque du Soleil. Lo show Cirque du Soleil at Sea verrà presentato per sei giorni la settimana due volte al giorno. Dopo il varo, la nave inizia quindi il suo primo viaggio lungo la costa atlantica, con scalo a Vigo (Spagna), Lisbona (Portogallo), fino al Mediterraneo, toccando quindi Barcellona (Spagna), Marsiglia (Francia) e, infine, Genova (Italia). L’11 giugno inizierà il primo itinerario di 7 notti, in partenza da Genova per Napoli (Italia), Messina (Italia), La Valletta (Malta), Barcellona, Marsiglia e rientrerà a Genova il 18 giugno.

eddyburg, Roberto Caristi, ci ha inviato questo puntuale resoconto del discorso di papa Francesco, tenuto a Genova il 27 maggio scorso, di cui la stampa ha dato frammenti d'informazione. Lo ringraziamo molto-

«Sono un lavoratore e sindacalista genovese: vi mando - se può essere utile - un mio resoconto dell’incontro di sabato scorso, all’ILVA, fra papa Francesco e il mondo del lavoro. Avendo avuto l’opportunità di partecipare, ho ascoltato un messaggio forte, denso e organico a favore della dignità e del valore sociale - oltreché individuale - del lavoro. Parole veraci e schiette - per alcuni aspetti "inaudite", specie a quel livello - che mettono a nudo menzogne e ipocrisie, dichiarando che è possibile una "buona economia", a servizio dell’uomo, e che stare da una parte è sempre più necessario. Un caro saluto e grazie per quanto fate con eddyburg. Roberto Caristi»

PAPA FRANCESCO E IL LAVORO
Genova, 27 maggio 2017


Circa 3.500 lavoratori genovesi e liguri hanno accolto Papa Francesco nel capannone 11 dello stabilimento genovese dell’Ilva di Cornigliano.

«E' la prima volta - ha detto il Papa - che vengo a Genova: essere così vicino al porto mi ricorda da dove è uscito il mio papà, mi fa una grande emozione. Grazie dell'accoglienza!». Poi è entrato subito nel merito della sua visita allo stabilimento, rispondendo a Ferdinando, Micaela, Sergio, Vittoria, ovvero un imprenditore, una lavoratrice interinale (in rappresentanza di CGIL, CISL e UIL), un lavoratore, una disoccupata che hanno parlato al Papa in rappresentanza del mondo del lavoro

Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore deve essere prima di tutto un lavoratore! Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, del risolvere insieme i problemi, del creare qualcosa insieme. Un buon imprenditore ha a cuore la propria azienda e i lavoratori che ne fanno parte e ne sostengono i risultati con la loro opera…

È importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro: le persone lavorano bene innanzitutto per la propria dignità e il proprio onore.

Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente! Un buon imprenditore non licenzia e se è costretto a farlo soffre, lotta, perché è la sua gente, la sua famiglia… perché privare una persona del lavoro significa privarla della dignità. Da questa sofferenza nascono spesso buone idee per limitare i licenziamenti.

Chi pensa di risolvere i problemi della sua impresa licenziando non è un buon imprenditore, è un ‘commerciante’: oggi vende la sua gente, domani la sua stessa dignità. La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una fonte di reddito per vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto di più: lavorando diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce. […] Il lavoro è partecipazione alla creazione, che continua grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori.

Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che possiamo sperimentare lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi di quando il lavoro schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro. Con il lavoro gli uomini e le donne sono unti di dignità.

Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori, sono due tipi diversi. […] Lo speculatore non ama la sua azienda e i lavoratori ma li vede come mezzi per fare profitto, licenziare, chiudere spostare l’azienda: tutto questo non gli crea problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto.

Quando l'economia passa nelle mani degli speculatori tutto si rovina, l'economia perde il suo volto… e i volti dei lavoratori… E’ una economia senza volti, astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare, tagliare...

Se l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete diventa un'economia senza volto e quindi spietata. Bisogna temere gli speculatori, non i bravi imprenditori.

Ma paradossalmente qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è, è svantaggiato, chi invece lo è, trova i mezzi per eludere i controlli. Si sa che i regolamenti e le leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti.

Bisogna guardare senza paura e con responsabilità alle trasformazioni tecnologiche e non rassegnarsi all’ideologia che immagina un mondo dove solo la metà o i due terzi dei lavoratori lavoreranno, mentre gli altri saranno disoccupati, mantenuti da un assegno sociale. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro… la scelta è tra il sopravvivere e il vivere.

Dunque, la risposta non deve essere reddito per tutti ma lavoro per tutti, perché altrimenti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, pensiamo alla rivoluzione industriale. Ci sarà una rivoluzione, ma dovrà essere lavoro, non pensione! Non pensionati, lavoro! Si va in pensione all’età giusta. E’ un atto di giustizia ma contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35-40 anni, con assegno dello Stato. Se mi metto nei panni di un prepensionato posso dire: "Ho per mangiare? Sì. Ho la dignità? No, perché non ho il lavoro”.

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente e molti dei valori della grande impresa e della grande finanza non sono in linea con la dimensione umana e pertanto con l’umanesimo cristiano.

Molte persone sono messe sotto un ‘ricatto sociale’: quello di chi - facendo leva sul dramma della disoccupazione - le vorrebbe costringere ad accettare le più infime condizioni pur di lavorare. Occorre invece promuovere, attraverso il lavoro, un ‘riscatto sociale’.

L’accento sulla competizione, oltre a essere un errore antropologico, è anche un errore economico perché dimentica che l’impresa è cooperazione mutua. Un sistema che mette in competizione i lavoratori tra loro - fin dentro l’impresa, attraverso sistemi incentivanti - magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio economico ma finisce col minare quel tessuto che è l’anima di ogni organizzazione e così quando arriva una crisi l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Questa cultura competitiva è un errore, è una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia.

Un altro valore che in realtà è un disvalore è la meritocrazia oggi tanto osannata, che affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. Al di là della buona fede di tanti che la invocano, la meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi.

Così, se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata.

Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà: il povero è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura, ma questa non è la logica del Vangelo e della vita. La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore del figliol prodigo che disprezza il fratello minore e pensa che debba restare un fallito. Il padre invece pensa che nessun figlio si ‘merita’ le ghiande dei porci.

C’è anche chi è pagato molto perché il lavoro prenda tutta la vita, senza orari: è un paradosso della nostra società la presenza di una moltitudine di persone che vorrebbero lavorare e non hanno l’opportunità, mentre altri che vorrebbero lavorare meno non possono perché sono stati comprati dalle imprese.

Il lavoro diventa fratello quando accanto a esso c’è la festa, il tempo libero. Senza questo aspetto diventa lavoro schiavistico, anche quando è superpagato. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, perché manca il lavoro del lunedì: per celebrare le feste è necessario poter celebrare il lavoro, vanno insieme, l’uno scandisce il tempo dell’altro.

Il consumo è un idolo del nostro tempo, è il centro della nostra società. Oggi ci sono i nuovi templi aperti 24 ore, che promettono la salvezza, punti di puro consumo e presunto ‘piacere’.

Il lavoro è fatica, e sudore: quando una società edonista vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore, non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro e continueremo a sognare il consumo del puro piacere.

Il lavoro è il centro di ogni patto sociale non un mezzo per potere consumare. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle: libertà onore, dignità, diritti di tutti. Se svendiamo il lavoro al consumo, svenderemo presto anche queste parole sorelle.

Attorno al lavoro, dunque, si edifica l'intero patto sociale: quando non si lavora, si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia a entrare in crisi.

Mi piace molto il primo articolo della Costituzione italiana: possiamo dire che togliere lavoro alla gente o sfruttarla con un lavoro indegno e malpagato è anticostituzionale! Se non fosse fondata sul lavoro la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.

Oggi il lavoro è a rischio e nel mondo non si considera con la dignità che ha, invece il lavoro è una priorità umana… e pertanto è una priorità cristiana, e anche una priorità del Papa.

Anche nel Veneto vistosi episodi di sfruttamento del lavoro di chi viene da lontano e non ha garanzie. Il ruolo perverso della forma cooperativa, divenuta nuova veste del padronato.

Corriere del Veneto, 31 maggio 2017 (m.p.r.)

Padova, Avrebbero accettato qualsiasi cosa. Avevano bisogno di quel lavoro da magazzinieri nei locali dell’Interporto di Padova che avrebbe permesso loro di sopravvivere e garantito il permesso di soggiorno. E così centinaia di stranieri, provenienti per lo più dal Bangladesh, non hanno mai rifiutato le condizioni, a tratti disumane, imposte loro da chi, per almeno due anni, ha gestito una vera organizzazione di caporalato, la prima accertata in Veneto in un settore diverso da quello agricolo.

Vera eminenza grigia era Floriano Pomaro, 52 anni, originario di Lendinara e da anni a Padova, un nome conosciuto nel polo della logistica padovana, e da ieri agli arresti al Due Palazzi. Ad aiutarlo, Riccardo Bellotto e Mario Zecchinato, entrambi padovani ed entrambi ai domiciliari. Per loro le accuse arrivate al termine di un’indagine condotta dalla Digos e dalle Mobile e coordinate dal procuratore capo Matteo Stuccilli, dall’aggiunto Valeria Sanzari e dal sostituto procuratore Federica Baccaglini, sono a vario titolo di caporalato e riciclaggio.

Un’inchiesta avviata nel 2013, quando agli inquirenti è arrivata la voce di malumori tra le cooperative che si occupavano dello stoccaggio merci nei locali dell’Interporto. Qualcuno, si diceva, giocava sporco. Gli agenti della questura di Padova, così, hanno concentrato l’attenzione su alcune cooperative, tra cui la Easy Società Cooperativa e la B.B. Società Cooperativa che gestiscono i magazzini della Gottardo Spa, l’azienda guidata da Tiziano Gottardo, fondatore della catena di profumerie Tigotà ed estraneo all’inchiesta. Tra i dipendenti di queste coop, centinaia di stranieri, quasi tutti del Bangladesh, con contratti a tempo determinato e part time. Qualcosa, però, non quadrava. Perché se da una parte figurava che i dipendenti lavoravano mezza giornata, con uno stipendio da mille euro, dall’altra nei magazzini trascorrevano più di 70 ore a settimana.

È così emerso il capo indiscusso del sistema, Pomaro, già implicato in passato per frode fiscale in inchieste che hanno coinvolto diverse aziende della logistica padovana. Attraverso prestanome, Pomaro avrebbe costituito cooperative ad hoc. Era lui a gestire tutta l’organizzazione. Un sistema che si occupava di ogni fase: dal reclutamento dei lavoratori all’estero, soprattutto dal Bangladesh («Sono quelli più malleabili», si sente dire nelle intercettazioni ambientali), alla loro assunzione. Gli aspiranti dipendenti, per essere assunti, versavano mille euro. Una volta arrivati in Italia, accettavano un contratto di tre mesi e firmavano le dimissioni in bianco. Scaduto il primo periodo, poi, pagavano altri 500 euro per un rinnovo. E così andavano avanti, di scadenza in scadenza, sempre in pugno di Pomaro e soci.

Figuravano come dipendenti part time, anche se le ore di lavoro erano decine nell’arco di una settimana. Parte dei loro compensi figuravano come «indennità di missione», vale a dire rimborso spese: uno stratagemma per abbassare le tasse e che permetteva un risparmio da centinaia di migliaia di euro.

A dare una parvenza di legalità era Riccardo Bellotto, classe 1981, il contabile del gruppo. Era lui a occuparsi dei contratti e che procurava agli stranieri il tanto agognato permesso di soggiorno. I dipendenti, inoltre, erano costretti ad aprire un conto corrente nel quale ricevere lo stipendio. Le credenziali dei conti, però, erano gestite da Mario Zecchinato, 62 anni e un’accusa alle spalle per favoreggiamento della prostituzione. Una volta versato lo stipendio, Zecchinato si occupava di prelevarne il 30 per cento, una cifra che tornava nelle tasche dell’organizzazione.

Impossibile, per gli stranieri, ribellarsi, o aderire a scioperi. Qualsiasi tentativo di protesta poteva essere pretesto per il mancato rinnovo, il che comportava la perdita del permesso di soggiorno. «Dobbiamo renderli ricattabili», si dicevano i tre indagati. E così hanno fatto.

Oggi Pomaro sarà interrogato dal gip Domenica Gambardella, mentre domani sarà il turno di Belotto e Zecchinato. L’inchiesta, però, non è finita qui. Se per ora nel mirino del gip sono finiti gli organizzatori del caporalato, non si escludono sviluppi che possano coinvolgere altre persone. Nell’ottobre scorso, infatti, è cambiata la legge sul caporalato, rendendo perseguibile anche il datore di lavoro. L’operazione, quindi, procede.

mediatica dei fatti dopo l'intervento perverso del dott. Zuccaro dimostrata dal rapporto “Navigare a vista - Il racconto delleoperazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale".AssociazioneCarta di Roma, 29 maggio 2017.

Di operazioni di ricerca e soccorso i media parlano, e tanto: presenti nel13% delle notizie sull’immigrazione nei principali quotidiani italiani e nel18% dei servizi sull’immigrazione de itelegiornali in prima serata e legate soprattuttoal racconto di naufragi (39%) e azioni di salvataggio (22%). Ma come se neparla?

A fotografare la rappresentazione mediatica delle operazioni Sar (Search andRescue) è il rapporto “Navigare a vista. Il racconto delle operazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale”, presentato oggi presso l’Associazione Stampa Esterada Osservatoriodi Pavia, AssociazioneCarta di Roma e Cospe.

Organizzazioni militari e civili: quale il racconto di chi è operativo?

L’analisi di 400 tweet sulle operazioni Sar postati dagli account ufficialidelle Ong più attive, di Eunavfor Med, della Marina militare e della Guardiacostiera italiana ha consentito di rilevare importanti differenze nel raccontodelle Sar da parte degli stessi attori coinvolti: se quello delle Ong è unracconto costante nel tempo e spesso emotivo, che si sofferma sulle personesoccorse, quello di Eunavfor Med e della Marina è un racconto più tecnico,focalizzato sulla gestione delle azioni di intervento. Nel mezzo si pone laGuardia costiera, che alterna entrambe le tipologie di comunicazione.

Diverso anche il linguaggio usato: gli attori civili parlano più spesso di“persone” salvate (nel 42% dei loro tweet), quelli militari di “migranti” (nel77% dei loro tweet); il racconto delle Ong è empatico nel 53% dei casi, mentrelo è solo nel 6% dei tweet delle organizzazioni militari. Ed è solo nelracconto delle organizzazioni non governative che troviamo riferimenti anche aciò che accade prima e dopo il soccorso.

«Nel caso dei soccorsi viene data voce ai protagonisti, esperti, operatoriSar o migranti che siano, nel 67% dei casi», così Paola Barretta,ricercatrice senior dell’Osservatorio di Pavia.

La rappresentazione delle Sar nei mainstream media

Con l’avvio di Mare Nostrum nell’ottobre 2013, in risposta ai tragicinaufragi avvenuti il 3 e l’11 dello stesso mese, le operazioni di ricerca esoccorso acquisiscono centralità nel racconto dell’immigrazione: dagli arrivisulle coste italiane agli incidenti, fino alla cronaca degli interventi stessi.Una narrazione che fino al 2016, se confrontata alla rappresentazione dimigrazioni e migranti nel loro complesso, rappresenta una buona pratica:nonostante il tema dell’immigrazione sia divisivo, quello delle Sar è unracconto positivo, che mette al centro i protagonisti del soccorso e le loroazioni - organizzazioni e esperti hanno voce in oltre la metà dei servizi -presentandoli come “angeli del mare” e che, soprattutto, umanizza il fenomeno,soffermandosi su solidarietà e accoglienza. Se nel totale dei servizi primetime sull’immigrazione, migranti, rifugiati e immigrati stabilmente residentiin Italia hanno voce solo nel 3% dei casi, la percentuale sale al 14% quando sitratta di notizie relative alle Sar. Questo, almeno, fino ai primi mesi del2017. Poi tutto cambia.

Dopo Carmelo Zuccaro: Da “angeli” a “taxi”

Con il video di un blogger divenuto virale prima e le dichiarazioni delprocuratore di Catania Carmelo Zuccaro poi, la cornice da positiva diventanegativa: un’ombra è gettata sull’operato delle ong. Si apre così una nuovafase del racconto delle Sar: l’operato delle organizzazioni che conduconoquesti interventi è messo in discussione, fino a dubitare dello spiritoumanitario che le anima.

A prevalere è ora il sospetto. «La narrazione delleoperazioni Sar porta con sé diversi rischi tra cui la legittimazione dipolitiche migratorie più restrittive e la criminalizzazione della solidarietà»evidenzia Valeria Brigida, giornalista freelance tra gli autori del rapporto. Non solo: i media talvolta confondono e sovrappongono i ruoli diorganizzazioni militari e Ong, mentre la diversità della loro natura e delleloro missioni è emersa anche, come osservato, nelle modalità di comunicazioneda esse adottate.

Afferma Anna Meli, Cospe: «Interrogarsi su cosa davvero succeda a livello dipolitiche globali, lo spostamento di attenzione è un po’ obbligato, ma comegiornalisti è importante domandarsi perché stia accadendo un certo fenomeno edove un certo tipo d’informazione istituzionale ci vuol portare a ragionare».E ribadisce Pietro Suber, vicepresidente dell’Associazione Carta di Roma: «Bloccarei migranti diventa la risposta più facile della politica agli umori dellapiazza. In questo contesto la ricerca che presentiamo oggi assume unparticolare interesse per comprendere come si sta trasformando uno dei temiprincipali del nostro dibattito mediatico, pubblico».

Una cornice, quella del sospetto, che appare difficile da scardinarenonostante le repliche degli attori attaccati, fino a quando non saràsostituita da un frame narrativo più accurato e aderente alla realtà.
Tra gliobiettivi comunicativi portati avanti da Medici senza frontiere, sostieneFrançois Dumont, direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere: «C’èla richiesta all’Europa di mettere in atto delle politiche concordate di Sar masoprattutto di creare dei corridoi sicuri per arrivare in Europa». Tra glistrumenti comunicativi da utilizzare, Fabio Turato, politologo, docente pressol’Università di Urbino, sottolinea come sia importante «autodefinirsi primadi essere definiti dalla retorica portata avanti dagli imprenditori della pauranella cornice del tema immigrazione e Ong».

Sbilanciamoci.info, newsletter, 30 maggio 2017

Nel 2016 l’export militare italiano ha registrato un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, documentati dalla Relazione annuale sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazioni di armi

“Nei concili di governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Queste parole non sono di un pacifista: le pronunciò nel lontano 1961 nel suo discorso di addio alla Nazione l’allora Presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, membro del Partito Repubblicano ed ex comandante delle Forze Armate statunitensi in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e Capo di Stato Maggiore dell’esercito.

Parole che suonano strane se ripetute da un ex militare: perfino Eisenhower, politicamente molto conservatore, aveva capito il pericolo che può rappresentare il complesso militare – industriale per le istituzioni democratiche. Tuttavia, le sue affermazioni suonano ancora vuote ai nostri giorni, visto che il giro d’affari intorno ad armi e armamenti realizza lauti profitti, ed aumenta il suo volume di anno in anno.

Il caso del nostro Paese è emblematico: nel 2016 l’export militare italiano ha registrato un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, documentati dalla Relazione annuale sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazioni di armi, che il Governo ha consegnato al Parlamento lo scorso aprile.

Ma analizziamo i dati in termini assoluti. Nel 2016 il valore complessivo delle licenze di esportazioni è stato di 14,6 miliardi di euro, un vero e proprio boom se guardiamo agli anni precedenti: “solo” 7,8 miliardi nel 2015, mentre nel 2013 la cifra si attestava intorno ai 2,5 miliardi. Rispetto all’exploit degli ultimi anni, i numeri delle vendite dei primi anni 2000 appaiono irrisori (1,9 miliardi) e ancor di più lo sono quelli del lustro immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, 1991 – 1995 (1 miliardo). Dati che, secondo Sergio Andreis, della campagna Sbilanciamoci! sono “sottostimati”, in quanto “il modo di calcolo non permette la trasparenza assoluta: in molti casi si tratta di contratti legati alla sicurezza nazionale coperti dal segreto di Stato, quindi non pubblicati né pubblicabili”.

Ma a chi vengono vendute queste armi? Dalla relazione emerge che il numero di Paesi destinatari delle licenze di esportazione nel 2016 è stato di 82, in diminuzione rispetto ai 90 dell’anno precedente. Inoltre, il volume dei trasferimenti militari ai membri Ue e Nato dello scorso anno ha rappresentato il 36,9% sul totale, mentre il restante 63,1% è andato a Stati extra Ue e extra Nato. Tendenza inversa rispetto al 2015, quando questi valori sono stati pari, rispettivamente, al 62,6% e 37,4%. Ad un primo sguardo, il dato potrebbe rafforzare la tesi di chi vede l’Unione e l’Alleanza Atlantica come due organismi oramai “obsoleti”. Ma se guardiamo alla lista dei principali partner a cui forniamo materiale bellico made in Italy, è interessante notare come al primo posti spunti il Kuwait – al quale abbiamo venduto armi per un valore complessivo di 7,7 miliardi – seguito da quattro Paesi europei, Regno Unito (2,4 miliardi, mentre nel 2015 era primo con 1,3 miliardi), Germania (1 miliardo), Francia (570 milioni) e Spagna (470 milioni).

Sono proprio i rapporti commerciali tra l’Italia e la monarchia mediorientale la causa principale di questo aumento vertiginoso dell’export militare: lo scorso l’anno il nostro Paese ha effettuato una commessa record al Kuwait di 28 Eurofighter Typhoon della Leonardo, per un valore di 7,3 miliardi di euro. Il progetto, sviluppato da un consorzio di 400 aziende italiane, inglesi, tedesche e spagnole, ha come capofila l’italiana Finmeccanica, impresa leader del settore della difesa partecipata dal Governo italiano (al 30,2%): proprio all’azienda di Via Monte Grappa, secondo gli analisti, andrà circa il 50% dell’intera somma. “Si tratta del traguardo commerciale più grande mai raggiunto” sosteneva un anno fa un entusiasta Mauro Moretti, amministratore delegato della società, durante la solenne firma del contratto a Kuwait City, alla quale erano presenti anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti ed il suo omologo Khaled Al Jarrah Al Sabah. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), tra il 2013 e il 2014 Finmeccanica ha occupato il nono posto nella classifica mondiale delle aziende fornitrici di materiali bellico, con un volume di vendite in armi pari, rispettivamente, a 10.540 e 10.560 milioni di dollari. Tra le altre società che occupano i primi otto posti, sette sono di origine statunitensi, mentre una, il Gruppo Airbus – al settimo posto – è un consorzio transeuropeo.

Ad oggi, il numero complessivo di Eurofighter venduti raggiunge quota 599 unità in otto Paesi diversi: secondo le stime, il giro d’affari che ruota intorno a quello che è considerato dal consorzio «il più avanzato aereo da combattimento multiruolo attualmente disponibile sul mercato mondiale» assicura in Europa oltre 100 mila posti di lavoro; tra i 20 e i 30 mila si trovano in Italia. Per il periodo 2017 – 2021 si prevede un aumento della redditività dell’azienda stimato tra il 3% e il 5% dopo la battuta d’arresto degli ultimi anni, possibilità non più remota grazie al complessivo aumento delle spese militari in tutto il mondo.

Ma non c’è solo il Kuwait. Tra gli acquirenti del nostro Paese figurano petro-monarchie come l’Arabia Saudita (427 milioni, al quinto posto), e subito dopo gli Stati Uniti il Qatar (341 milioni). La Turchia, invece, in decima posizione (133 milioni). Tutti Paesi che dei diritti umani se ne infischiano allegramente, e che ricorrono sistematicamente a pratiche illegali secondo il diritto internazionale, quali repressione della libertà di espressione, tortura e sfruttamento dei lavoratori migranti.

Il caso più grave è sicuramente quello dell’Arabia Saudita: un Paese che, oltre a reprimere duramente e sistematicamente i diritti delle donne e delle minoranze religiose, sta conducendo una guerra con il vicino Stato dello Yemen da circa due anni. Più che un conflitto si tratta di un vero e proprio massacro – che ha lasciato sul terreno, per l’Onu, oltre 10 mila morti e 40 mila feriti – per il quale Riyad è stata a più riprese condannata dalle Nazioni Unite e da altre Ong, come Amnesty. La causa principale delle stragi sistematiche, secondo l’Alto Commissario dell’Onu, sono i bombardamenti che la coalizione a guida saudita continua a perpetrare nei confronti dello Stato adiacente. Tra il 2014 e il 2015 la Relazione annuale del Governo italiano segnalava un aumento del 58% dell’export militare italiano verso il Paese degli Sceicchi, da 163 milioni a 257 milioni, prima di quadruplicare nel 2016. Un exploit riconducibile soprattutto alle bombe prodotte dallo stabilimento sardo della Rwm Italia Spa di Domusnovas, in provincia di Cagliari – ma con sede a Ghedi (Brescia). É la relazione a parlare: tra il 2014 e il 2015 abbiamo consegnato a Riyad 600 bombe Paveway (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro). Recentemente il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che prevede il divieto di vendere armi ai Paesi coinvolti nel conflitto nello Yemen, ossia Arabia Saudita, Qatar ed Emirati. Risoluzione che l’Italia continua a violare. Come continua a infischiarsene, oltre che dell’articolo 11 della nostra Costituzione, anche della legge 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” approvata dal Parlamento sotto il Governo Andreotti sulla spinta dei movimenti pacifisti. Nello specifico, il provvedimento vieta l’esportazione e il transito dei materiali d’armamento verso Paesi in stato di conflitto armato, responsabili di violazioni accertate dei diritti umani e verso quelli in cui è in vigore un embargo da parte dell’Onu. In poche parole, Stati come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia: Paesi che oltretutto “hanno avuto influenze dirette nel fomentare organizzazioni radicali legate al terrorismo internazionale” sostiene Antonio Mazzeo, giornalista impegnato nei temi della pace. “Se da un lato dichiariamo di voler combattere il terrorismo internazionale” conclude Mazzeo, “dall’altro lo fomentiamo esportando armi, aumentando le spese militari o la proiezione italiana all’estero”.

Nonostante la palese violazione, perché nel dibattito pubblico quasi nessuno contesta all’Italia di non applicare la 185 né di rispettare le leggi? “Perché non c’è nessuno che le fa rispettare”, dice Sergio Andreis, “né che porta il Governo in Tribunale su queste inadempienze. Quindi tutti gli attori dell’esportazione di armi si muovono in questo quadro.” La soluzione, secondo Andreis è che “le organizzazioni schierate per la pace e i parlamentari a cui sta a cuore il tema dovrebbero intraprendere azioni giuridiche per portare il nostro Paese e gli altri che violano le risoluzioni di fronte ai tribunali nazionali e internazionali affinché queste violazioni abbiano fine”.

Ci sono poi i dati del Sipri, che fotografa attentamente la situazione a livello mondiale. Secondo il think tank svedese, il 2016 ha visto un aumento complessivo della spesa militare dello 0,4% (+1686 miliardi di dollari); con il suo +11% la pole position dell’aumento delle spese in Europa occidentale spetta proprio all’Italia. Anche le superpotenze hanno aumentato considerevolmente il proprio budget bellico: al primo posto gli Stati Uniti registrano un aumento dell’1,6%; seguono poi Cina (+5,4%), Russia (+ 5,9%), Arabia Saudita (che passa dal terzo al quarto posto rispetto al 2015) e India +8,5%.

Oltre a questo ci sono altre questioni aperte. In primo luogo i progetti di ammodernamento delle bombe nucleari in corso, che oltre ai Paesi minori coinvolgono soprattutto le grandi potenze, in primis gli Usa, che secondo Mazzeo “prevedono di spendere da qui a 20 anni circa 300 miliardi di dollari per rinnovare il proprio arsenale atomico”. Nel dicembre del 2016, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato a larga maggioranza una risoluzione per l’inizio di negoziati che diano vita ad un Trattato che vieti le armi nucleari. Tra i Paesi, 123 hanno votato a favore, 16 si sono astenuti, mentre 38 erano contrari – e tra questi vi era anche l’Italia. La strada è in salita, ma nel 2017 sono previsti ulteriori sforzi per intensificare la cooperazione sul disarmo atomico. C’è poi il terrorismo, che secondo l’attivista diventa “la narrazione con la quale giustificare l’aumento delle spese militari e il coinvolgimento dei Paesi occidentali in nuove missioni internazionali”. Last but not least c’è il problema del dual use, le tecnologie che possono essere usate sia per scopi pacifici che per quelli militari. “L’Italia si era data una legge su questo” dice Sergio Andreis, “che fu poi abrogata dal Governo Berlusconi”. “C’è la necessità di normare queste tecnologie, e il Parlamento europeo sta finalmente discutendo una normativa Ue” continua Andreis, che poi conclude “sarebbe bene che anche il legislatore italiano adotti provvedimenti per regolare questo settore”.

C’è poi stato l’ultimo G7 di Taormina. La scelta della location del summit non è stata casuale: andando oltre l’apparente discordia tra i leader mondiali e la retorica trumpiana – e ora anche tedesca – della Nato come obsoleta, la Sicilia rimane uno dei principali hubmilitari del Mediterraneo, sia per gli Usa che per l’Alleanza atlantica. Soprattutto per la presenza della base Nato di Sigonella, che nei prossimi mesi, sostiene Antonio Mazzeo “sarà ulteriormente potenziata con un sistema di controllo di droni militari e potenziata sia rispetto agli scenari di guerra mediorientali, che a quelli dell’Est Europa, in quanto”, puntualizza il giornalista “in Ucraina e Crimea sono attivi droni che sono installati, di base a Sigonella”.

Insomma, l’Italia si muove in sintonia con le dinamiche di riarmo e ripresa delle tensioni e dei conflitti a livello internazionale, quando sarebbe invece urgente che Governo e Parlamento – nel rispetto dell’articolo 11 della Costituzione – facciano pressione sulle istituzioni europee affinché l’Unione diventi soggetto promotore in sede Onu di un dialogo globale sul tema del disarmo. Altrimenti possiamo solo sperare che si comincino a costruire nuove bombe intelligenti: come recita un famoso detto, “così intelligenti da non scoppiare più”.

«». che-fare, 31 maggio 2017 (c.m.c.)

Nausicaa Pezzoni, La città sradicata. Geografie dell'abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano, Prefazione di Patrizia Gabellini, O barra O edizioni, p. 360, 15,5x23, €28

La città contemporanea è solcata da abitanti temporanei che attraversano i luoghi in maniera transitoria e imprevedibile, attribuendo agli spazi significati ogni volta diversi, modificando e risignificando il progetto urbano. Progettare oggi il disegno delle città significa contemplare una forma in continuo divenire, plasmata da relazioni non più fondate su un senso identitario di appartenenza e riconoscimento ma esito di adattamenti ogni volta diversi.

Nausicaa Pezzoni, architetto e urbanista, sceglie di studiare la città attraverso l’esperienza dell’abitare meno codificata e tradizionale, ricercando nello sguardo di 100 migranti al primo approdo a Milano la fase dell’orientamento al suo stato iniziale, quando alcuni oggetti-spazi si fissano nella memoria diventando centro, confine da non superare o spazio dove tornare.

La città sradicata. Nuove geografie dell’abitare. I migranti mappano Milano (O Barra O Edizioni) raccoglie l’esito di questa ricerca: 100 mappe disegnate da 100 migranti che raccontano di un “abitare senza abitudine”, forme di una città non rintracciabile nella cartografia tecnica eppure rappresentative di uno stare al mondo che evidenzia nuovi interrogativi e sollecita un ascolto più attento e profondo, necessario nella progettazione urbanistica quanto in quella culturale.

Questi temi sono stati al centro della lezione aperta La città da reinventare: proposte culturali per la rigenerazione urbana organizzata dal Master Progettare Cultura dell’Università Cattolica di Milano lo scorso giovedì 25 maggio, con gli interventi di Alessandra Pioselli, Roberto Pinto, Paolo Cottino, Elena Donaggio, Nausicaa Pezzoni, Gabi Scardi e Ivana Vilardi, introdotti da Federica Olivares, direttore del Master e Elena Di Raddo, direttore scientifico del corso.

La città sradicata è un’indagine che mette in discussione il modo abituale con il quale pensiamo alla forma e agli usi dei luoghi e degli spazi delle nostre città. Come nasce questa ricerca e quali sono i suoi esiti?
«Questo lavoro nasce da una ricerca di dottorato in Governo e Progettazione del Territorio (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano) dove mi interessava indagare la transitorietà dell’abitare e il modo di vivere la città da parte delle popolazioni che sempre più numerose stanno abitando la città contemporanea in modi diversi, intercettando degli spazi che non sono noti, spesso trasformandone il significato, dando altre interpretazioni e nuove forme. Il mio lavoro di ricerca parte da una mancanza: dal punto di vista tecnico-urbanistico, sociologico, geografico mancano delle rappresentazioni di quello che sta avvenendo nelle città.L’urbanistica, l’ambito di cui mi occupo, è orientata all’abitare stanziale sul quale si fonda la programmazione dei servizi e di tutte le strutture della città.

La transitorietà non è dunque mai contemplata, la rappresentazione tradizionale della città non contiene al proprio interno la dinamica trasformativa di come le persone abitino e trasformino gli spazi.

Ho cercato dunque come primo indizio lo sguardo più estraneo, il punto di vista che includesse tutti i cambiamenti in atto nella contemporaneità e lo sguardo del migrante al primo approdo è sicuramente quello più decentrato, che mi impegna e mi sollecita maggiormente. Scelgo lo strumento delle mappe mentali perché interrogare lo sguardo più estraneo attraverso domande astratte sulla città, sui desideri e i bisogni di chi sta iniziando ad abitarla, sarebbe più difficile e meno diretto: la mappa è un elemento di mediazione tra uno spazio esterno per lo più sconosciuto e l’esperienza intima di relazione con quello spazio.

Ho incontrato e intervistato dunque 100 migranti nei luoghi del primo approdo, cercando di capire e osservare come abitano e interpretano lo spazio dell’abitare, non focalizzandomi mai sulle loro storie personali, che pure emergono inevitabilmente dalle mappe, ma sul loro impatto con il territorio di approdo, con quella che è la loro attuale vita nella città.

Con questo metodo di lavoro ho intercettato campi disciplinari molto diversi dall’urbanistica che poi sono quelli che hanno avuto i risvolti più imprevisti dopo la pubblicazione del libro. Pochi giorni fa, ad esempio, una curatrice di musei letterari ha voluto utilizzare il metodo descritto nella Città sradicata per far disegnare alcune mappe sui percorsi e sui paesaggi di Goffredo Parise ad alcune persone che avevano esplorato con lui i suoi luoghi, cercando di far emergere il paesaggio e creare intorno alla casa-museo un ambiente vissuto, non fossilizzato.

Dalla Città sradicata sono scaturite anche altre esplorazioni su città e contesti diversi. A Rovereto, ad esempio, sono andata a incontrare in un campo profughi un gruppo di 22 rifugiati arrivati con gli sbarchi di pochi mesi prima, proponendo loro un esperimento ancora diverso: al disegno della mappa mentale si aggiungeva in questo contesto la relativa restituzione al gruppo, con una presa di coscienza ulteriore del territorio e della propria esperienza personale.

A Bologna, ancora diversamente, a partire dalle mappe di una ventina di richiedenti asilo al primo approdo ho costruito un itinerario da percorrere in bicicletta che intercettasse sia gli spazi da loro rappresentati sia i luoghi topici di Bologna, quelli consolidati da far conoscere a un nuovo abitante. Il lavoro è stato poi presentato ad un pubblico più ampio durante la giornata conclusiva di “Terra di Tutti Art Festival”.

I risvolti del mio lavoro di ricerca da un punto di vista più politico e amministrativo sono meno diretti: questo studio intende sollecitare uno sguardo critico verso una realtà che in modo sempre più evidente ha un’urgenza di rappresentazione e di trattamento che sta mettendo in crisi le città europee e non solo. Quando ho scritto il libro era meno urgente parlarne e paradossalmente sta diventando più attuale adesso perché la politica e i decisori sembrano non trovare, a mio avviso, delle strade di inclusione che siano efficaci dal punto di vista di una integrazione fondata sulla reciprocità.

Questo lavoro si incentra sulla domanda di un grande impegno: chiedere di disegnare una mappa è una richiesta strana alla quale tutti rispondono in modo un po’ dubbioso, spaesati, inizialmente con un rifiuto; è un lavoro impegnativo ma che incuriosisce e può innescare quel processo di apprendimento e di presa di coscienza di un territorio nuovo ed estraneo che è già quello in cui in realtà il migrante si trova ad abitare. Il processo di individuazione dei luoghi da disegnare, di ricostruzione mentale degli spazi e la loro modalità di restituzione grafica comporta un percorso di apprendimento e riconoscimento di un’appartenenza, e l’esito di questo lavoro impegnativo, la scoperta che il migrante compie, è quella di sentirsi parte della città.

In questa ricerca chiedo un intervento preciso, non si tratta di un lavoro in cui l’altro è un soggetto passivo che accetta una proposta precostituita e mi fa scoprire una città che non conoscevo: quello che emerge dalle mappe è un’immagine sempre nuova, tante città nuove quanti sono gli abitanti che la vogliono rappresentare e quanti sono gli sguardi che la osservano. Parlando di esiti di ricerca più pratici e immediati, vi è poi uno strumento che ho costruito a latere e che ho inserito nel libro, una mappa del primo approdo, uno strumento che ho presentato all’amministrazione di Milano dove sono mappati tutti i luoghi che la città già offre ai nuovi abitanti, dai dormitori, alle mense, gli ambulatori, le scuole d’italiano, le docce pubbliche.

Tutti quei servizi di accesso alla città “del primo approdo” con una legenda pensata con icone facilmente leggibili, molto comunicative per chi non conosce la lingua e sta cercando di orientarsi. Uno strumento che è già la base di un discorso anche progettuale nel suo creare connessioni tra i servizi di primo approdo della città, che esistono e sono molti ma per la maggior parte scollegati, senza una vera e propria infrastruttura che li tenga insieme.

La mappa del primo approdo è uno strumento già pronto di per sé ma l’intento della ricerca è quello di sollecitare e provare a spostare il punto di osservazione sulla città, formare un terreno culturale comune su questi temi per poter includere lo sguardo dell’altro, lo sguardo più diverso in assoluto».

La sensazione, quando si parla di periferie urbane e rigenerazione, soprattutto in questo periodo, è che si rischi di rimanere intrappolati all’interno di una polarità che vede i quartieri periferici alternativamente come luoghi critici del disagio sociale, delle complessità e delle soluzioni architettoniche infelici o, all’opposto, come luoghi generativi, fertili, abitati da comunità da incorniciare, evidenziare, raccontare. Due letture apparentemente distanti che si rifanno però alle stesse categorie interpretative limitanti e riduttive.
«Sono assolutamente d’accordo e anzi mi offri lo spunto per parlare di un altro risvolto indiretto della mia ricerca, che coinvolge però direttamente il lavoro che sto svolgendo in Città Metropolitana di Milano.

Insieme ad oltre 30 Comuni e istituzioni del territorio siamo stati selezionati fra le città vincitrici del Bando periferie promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016.

Con il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana. Superare le emergenze costruire nuovi spazi di coesione e di accoglienza ho cercato di concettualizzare il tema della periferia come luogo di marginalità e non come periferia geografica, cercando di intersecare i due aspetti: quello della riqualificazione degli edifici abbandonati e degli spazi dismessi con quello dell’inclusione abitativa e sociale, dove l’abitare è inteso non soltanto come soluzione residenziale ma come una complessa articolazione di servizi che danno forma a un abitare più ampio.

Quando parliamo di questi temi ciò di cui abbiamo bisogno è di articolare di più il discorso perché la realtà è naturalmente più complessa e mutevole di come viene spesso ridotta a due narrazioni principali, in due direzioni diverse ma forse sullo stesso piano del discorso.

Le mappe cartografiche, il mio abituale strumento di lavoro, sono fondamentali per molti fattori ma non sono in grado di restituire la profondità di cui necessitiamo: abbiamo bisogno di sguardi non ordinari sulla città e nuove modalità di rappresentazione, non per convergere verso una visione conciliante e pacificatoria ma, al contrario, per aprire le questioni e affrontarle in modo più complesso.

Le mappe riportate nel libro sono a volte drammatiche e raccontano un disagio esistenziale profondo, narrano una provvisorietà e un approdo che non è mai finito, un continuo dover cambiare luogo dell’abitare anche una volta arrivati.

Nella ricerca non mi occupo del viaggio migratorio ma alcune mappe danno conto anche di questo, ci raccontano di una migrazione mai finita, di un abitare sospeso, transitorio perché non riesce a radicarsi e forse la condizione della contemporaneità è anche questa e ci riguarda tutti come condizione esistenziale, in particolare in questo momento storico.

Se da una parte si costruiscono muri e barriere di ogni genere per impedire quello che è un flusso storico, dall’altra bisogna trovare degli strumenti più adatti e più sensibili, senza cedere alle banalizzazioni, aprire dei canali di comunicazione e iniziare ad interrogarsi sulle differenze, dialogare con esse, con chi ci porta davvero un modo nuovo di guardare alle cose e alla città e ci fa interpretare ad esempio piazza del Duomo come confine piuttosto che come centro.

Si tratta indubbiamente di un esercizio sfidante, che forse poco rassicura rispetto ad alcuni meccanismi identitari e di costruzione di appartenenza: non c’è un’identità che viene definita una volta per tutte, non c’è la mia città e la tua, ma luoghi che appartengono a entrambi e che entrambi stiamo modificando e conoscendo con una forma via via sempre nuova».

Ha visto recentemente progetti culturali nati e sviluppati con questo tipo di sensibilità e ascolto nei confronti dei territori e delle comunità che li abitano?
«Il progetto Un nuovo paesaggio nutre il viandante, nato in occasione degli eventi culturali che accompagnavano Expo 2015 nel territorio di Gaggiano e Cisliano, e recentemente arrivato nel cuore di Milano, sulla Darsena: un percorso di opere d’arte di Paolo Ferrari, artista e fondatore del Centro Studi Assenza di Milano.

Si tratta di un’installazione di opere d’arte di grandi dimensioni inserite nei luoghi che rappresentano la vita civica della città, la piazza principale, il municipio, la biblioteca, così come nei punti più remoti del territorio, seguendo il corso del Naviglio fino alla Darsena e che inseriscono nuove prospettive attraverso le quali guardare il territorio. Si tratta in un certo senso anche di un progetto di accoglienza nella sua capacità di introdurre nuovi sguardi sulla città attraverso fotografie di scorci urbani e paesaggi, raddoppiati dal segno pittorico dell’artista e lavorati con altri elementi di tipo scientifico, come la carta millimetrata.

Sono opere che compaiono ormai in molti luoghi della città e che si inseriscono all’interno del progetto architettonico come delle finestre sul mondo, un elemento culturale a fondamento dell’abitare e quindi della vita».

Ha avuto modo di confrontare gli esiti del suo lavoro di ricerca con ricerche simili svolte all’estero? So che è stata recentemente invitata al Metropolitan Institute of Technology di Boston per portare la sua esperienza di lavoro sulle città
«Si, è stata un’occasione per aprirsi a nuovi spunti di riflessione e ricerca. Sono stata invitata al MIT Metro Lab, un laboratorio di ricerca e formazione composto da docenti e ricercatori del Dipartimento di Studi Urbani e di Pianificazione del MIT di Boston che organizza conferenze e workshop su alcuni temi della città contemporanea; il mio laboratorio in particolare si interrogava sulla creazione di una disciplina metropolitana con professionisti e docenti provenienti da università di tutto il mondo, da amministrazioni locali e istituzioni che si occupano a vario titolo dell’abitare.

Ho presentato La città sradicata e, nel panel di chiusura della settimana del workshop, insieme alle città di Parigi, Boston e New York, ho raccontato nello specifico il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana della Città Metropolitana di Milano. Tornando al contesto italiano, allo IUAV di Venezia stanno lavorando con alcuni paesi della Locride a un programma di inclusione abitativa e rigenerazione urbana attraverso la collaborazione di molti migranti.

Si tratta di un progetto che nasce sull’esempio di Riace, paese che era quasi completamente abbandonato fino a pochi anni fa, dove il sindaco ha cercato di invertire il processo di spopolamento e impoverimento anche culturale del territorio, ristrutturando le case e rimettendo in attività le botteghe artigiane grazie ai migranti arrivati nella città con gli sbarchi del 1999 e dando il via di fatto alla ricostruzione di un paese. Il modello Riace, come ora viene chiamato, ha saputo dare un indirizzo a tutta la Regione, basando il suo intervento di rigenerazione urbana su una prospettiva di accoglienza e inclusione.

Rispetto a questi temi, ritengo che questa sia la prospettiva di lavoro per il futuro più intensa e avanzata, perché ci può permettere di rinascere come Paese e come territorio. Ci stiamo muovendo, forse in ritardo rispetto ad altri, ma con alcune punte avanzate e progetti di riqualificazione e inclusione dagli esiti efficaci e intelligenti come questo».

La puntuale sacrosanta risposta del presidente del Consiglio di Stato alle arroganti critiche dei governanti incapaci e dei loro portavoce mediatici.

la Repubblica, 31 maggio 2017

«La politica deve occuparsi degli indirizzi generali del Paese e i giudici, quando sono chiamati in causa, devono vegliare che le politiche pubbliche siano attuate nel rispetto di tutti i cittadini ». Tono e linguaggio soft, ma il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, a una settimana dall’affaire dei direttori dei musei, pianta molti paletti.

Renzi ha detto di aver sbagliato a non riformare i Tar. Era una pressione?
«La questione di fondo non riguarda solo i tribunali amministrativi, ma la tutela giurisdizionale nei confronti dell’esercizio del potere pubblico. Ammettiamo per un momento che i Tar potessero essere aboliti con un tratto di penna, e non consideriamo che dovremmo cambiare la Costituzione, e forse anche le norme della Carta dei diritti dell’uomo e della Convenzione europea. Se i Tar fossero aboliti dovrebbe necessariamente esserci un altro giudice che esercita il controllo esercitato prima dai tribunali amministrativi».
E quindi?
«Questo giudice potrebbe essere quello civile, il quale provvederebbe con i suoi modi e i suoi tempi di intervento. Giusto per citare un episodio di questi giorni il giudice del lavoro di Firenze ha sospeso il concorso per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari, un concorso con 300mila domande, perché ha ritenuto discriminatoria la clausola di cittadinanza contenuta nel bando».
Repubblica, in un inchiesta su Affari e finanza, parla di «gigantesco labirinto di sospensioni e annullamenti».
«Credo che la giustizia amministrativa non si riconosca in queste parole. Non siamo “i giudici del no”. Sono tanti i casi di rigetto delle domande di sospensione di opere o investimenti pubblici. Vogliamo che le riforme trovino piena attuazione nel rispetto dei diritti dei cittadini. Questo vale anche per l’attività consultiva: i pareri del Consiglio di stato mirano ad attuare le riforme eliminando i possibili contrasti con le leggi e con i principi costituzionali. Possono esserci sentenze discutibili, come talvolta accade. Ed è per questo che esiste l’appello».
Vede un’insofferenza della politica verso i controlli?
«Osservo che talvolta si confonde il medico con la malattia. Si pensa che sia meglio intervenire sulla giustizia amministrativa, mentre la malattia sta soprattutto nella complicazione delle leggi, nella loro farraginosità, nella mancanza di qualità dell’amministrazione e talvolta nella difficoltà delle imprese ad accettare le regole di concorrenza negli appalti. Queste sono le vere patologie che andrebbero curate a monte».
Le leggi sono fatte male e la politica se la prenda coi giudici quando passano i ricorsi?
«Certamente non tutte le leggi sono ben fatte e lo ricorda anche Repubblica quando richiama i cambiamenti continui di quelle sugli appalti. C’è un problema di chiarezza, ma anche delle scelte di indirizzo generale che deve fare la politica. Il giudice amministrativo si occupa solo di atti e di provvedimenti. Che talvolta riguardano l’attuazione di scelte politiche. Il rischio è che il dibattito sulla giurisdizione sia la prosecuzione del dibattito politico, per cui ognuno richiama la propria posizione e non si esamina più la sentenza, bensì la scelta politica a monte. È successo per i musei, ma anche per gli appalti. Ci possono essere illegittimità, il che non significa che si neghi la necessità delle infrastrutture, ma solo che i diritti devono andare d’accordo con le procedure».
Sì, ma attenzione al “formalismo giuridico”e al “bizantinismo”. Per citare la battuta di Cottarelli “non si può morire di diritto amministrativo”.
«Non si muore di diritto amministrativo, si muore di bizantinismo. Bisanzio può riguardare sia la legge che le sentenze di qualsiasi giudice ordinario, amministrativo, contabile, il rischio c’è sempre. Il diritto amministrativo assicura di poter realizzare grandi servizi pubblici, interventi per sanità, istruzione e accoglienza, senza che i diritti dei cittadini restino sulla carta».
Le inchieste giudiziarie non rivelano una colpevole disinvoltura nei comportamenti di alcuni giudici?
«Il dovere di tutti è difendere le istituzioni, che si difendono anche facendo in modo che le inchieste abbiano il loro corso, vadano in fondo e lo facciano velocemente. Però bisogna evitare di mettere sotto processo le intere istituzioni accanto ai singoli casi. C’è bisogno di una riforma disciplinare, e lo dico da molto tempo. Ne vorremmo una più semplice, più efficace e norme che tipizzino gli illeciti. Comunque, non appena gli uffici inquirenti ci trasmetteranno le informazioni non coperte da segreto istruttorio eserciteremo l’azione disciplinare».

Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società». il manifesto,31 maggio 2017


Gliopposti veti incrociati stanno facendo convergere i partiti verso una leggeelettorale ispirata al modello tedesco, sia pure con negative modificazioni:sicuramente l’esclusione del voto disgiunto, che mira a concentrare i voti suipartiti maggiori; più difficilmente l’introduzione di un premio di maggioranzaalla lista che supera una certa soglia (il 40%).
Perdare un giudizio ponderato occorrerà, dunque, aspettare la definizione delladisciplina nei dettagli, ma a sinistra le prime reazioni sono già di segnodiverso. A quanto si legge sui giornali, mentre Sinistra italiana e Articolo 1guardano con interesse a quel che sta accadendo, Campo progressista manifestauna posizione nettamente critica. Coerentemente con la posizione favorevolealla revisione costituzionale renziana, Pisapia è ostile all’evoluzione inatto, perché – dice – la legge alla tedesca «condurrà molto probabilmente a ungoverno di larghe intese». Il governo di coalizione – l’inciucio! – eraesattamente lo spauracchio agitato da Renzi a sostegno della revisionecostituzionale che, unitamente all’Italicum, avrebbe finalmente dovuto dare alPaese un governo «la sera stessa delle elezioni».
Losforzo maggiore compiuto da chi, nei lunghi mesi della campagna referendaria,si è impegnato ad argomentare un voto consapevole in favore del No è statoproprio combattere la fallacia di questo argomento. Partendo dallaconstatazione oggettiva di una società divisa in tre grandi orientamentipolitici (Pd, M5S, destra), tutti oscillanti intorno al 30% delle preferenze,in ogni occasione si è ripetuto quanto risulti sterile «gonfiare», attraversomeccanismi maggioritari, un consenso elettorale minoritario facendolo diventaremaggioranza in Parlamento. L’antica ascendenza magica del diritto continua evidentementea farsi sentire, se in tanti, anche a sinistra, continuano a credere che unaformuletta (la formula elettorale) possa realmente trasformare una minoranza inmaggioranza: vale a dire, una cosa nel suo opposto.
Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società – privi dellacapacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro ilPalazzo. Se guardiamo alla storia repubblicana, emerge con evidenza che ilmomento di massima governabilità – cioè il momento in cui la politica ha saputotrasformare la società più in profondità – si è avuto quando massima è stata lacapacità di rappresentare le articolazioni dell’elettorato. Dalla riforma dellascuola media (1962), alla istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) –passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenzasociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti deilavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970),le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia(1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi(1978) – si è assistito a provvedimenti assunti sempre allargando l’area dellamaggioranza, dapprima nella prospettiva dei governi di centro-sinistra, poi inquella del compromesso storico. Per individuare il momento in cui la storiarepubblicana imbocca la parabola discendente, occorre guardare al Congresso Dcdel 1980, con il noto preambolo che, riesumando la logica dell’esclusionepolitica, chiudeva l’esperienza voluta da Moro e Berlinguer e trasformava ilcentro-sinistra nel pentapartito.
Oggila società è divisa come, se non più, che nel dopoguerra. Le diseguaglianzesono profondissime: nonostante l’Italia sia ancora una delle dieci maggioripotenze economiche del mondo, è oramai al terzo posto in Europa per numero dipoveri. In questa situazione occorre riscoprire la valenza profonda dellafunzione parlamentare, che è far dialogare i diversi, non metterne uno incondizione di prevalere sugli altri. La legge deve tornare a essere il fruttodi una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno allesoluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di decreti-legge – diuna parte sulle altre. Solo così si può sperare di riuscire a incidere davverosull’esistente.
Oggi,questa consapevolezza per molti è andata perduta. Una legge elettorale checostringa i diversi a dialogare può contribuire a farla riemergere. Per questoci siamo battuti, perché il 4 dicembre non si affermasse un sistemaistituzionale definitivamente basato sulla contrapposizione e sull’esclusione.

Ora,è il momento di iniziare a ragionare nella logica del dialogo edell’inclusione. Il cambio di paradigma culturale è sempre difficile, ancheperché difficilmente i risultati arriveranno a stretto giro. Ma chi fa politicadovrebbe sapere che seminare oggi è condizione per poter raccogliere domani.
Una speranza dietro l'apparente paradosso del filosofo sloveno: l'unica cosa buona di Trump è che la paura che genera può spingere i veri liberali a reinventare una nuova sinistra, come accadde nel secolo scorso.

il Fatto quotidiano online, 30 maggio 2017Ci sono due generalizzazioni sbagliate sulla società di oggi. La prima dice che viviamo in un’epoca di antisemitismo universalizzato: con la sconfitta militare del fascismo, il ruolo un tempo giocato dalla figura antisemita dell’ebreo è ora ricoperto da qualsiasi gruppo straniero che venga percepito come una minaccia all’identità: i latinos, gli africani e soprattutto i musulmani, che oggi nelle società occidentali vengono trattati sempre più come i nuovi “ebrei”.

L’altra generalizzazione scorretta è quella secondo cui la caduta del Muro di Berlino avrebbe portato alla proliferazione di nuovi muri allo scopo di separarci dall’Altro pericoloso (il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, il muro in programma tra gli Stati Uniti e il Messico ecc.). Tutto vero, ma esiste una distinzione fondamentale tra i due tipi di muri. Il Muro di Berlino rappresentava la divisione del mondo al tempo della Guerra fredda e, pur essendo percepito come la barriera che teneva isolate le popolazioni degli Stati comunisti “totalitari”, segnalava anche che il capitalismo non era l’unica opzione, che un’alternativa, benché fallita, esisteva. I muri che vediamo levarsi oggi, per converso, sono muri la cui costruzione è stata scatenata dalla caduta dello stesso Muro di Berlino, cioè dalla disintegrazione dell’ordine comunista; essi non rappresentano la divisione tra capitalismo e comunismo, ma quella immanente all’ordine capitalista mondiale.

Gli immigrati musulmani non sono gli ebrei di oggi: essi non sono invisibili, anzi, sono fin troppo visibili; non sono affatto integrati nelle nostre società e nessuno afferma che siano coloro che nell’ombra tirano le fila. Se proprio si vuole scorgere nella loro “invasione dell’Europa” un complotto segreto, allora si deve supporre che dietro ci siano gli ebrei, come afferma un testo apparso poco tempo fa in uno dei principali settimanali di destra sloveni, in cui si può leggere: “George Soros è una delle persone più depravate e pericolose del nostro tempo, responsabile dell’invasione delle orde negroidi e semiti – che, e dunque del crepuscolo dell’Unione europea. […] Essendo un tipico sionista talmudico, egli è un nemico mortale della civiltà occidentale, dello Stato-nazione e dell’uomo bianco europeo”. Il suo scopo sarebbe quello di costruire “una coalizione arcobaleno composta da emarginati sociali come i froci, le femministe, i musulmani e i marxisti che odiano il lavoro”, al fine di attuare “una decostruzione dello Stato-nazionale e trasformare l’Unione europea nella distopia multiculturale degli Stati Uniti d’Europa”. Quali forze dunque si opporrebbero a Soros? “Viktor Orbán e Vladimir Putin sono gli unici politici lungimiranti ad aver compreso appieno le macchinazioni di Soros e ad aver proibito di conseguenza l’attività delle sue organizzazioni”.

Se i Repubblicani radicali non facevano altro che attaccare Obama per il suo atteggiamento fin troppo morbido verso Putin, un atteggiamento che tollerava le aggressioni militari russe (in Georgia, Crimea ecc.), mettendo in questo modo in pericolo gli alleati occidentali in Est Europa, ora i sostenitori di Trump difendono un approccio sempre più accondiscendente verso la Russia. Come si possono unire le due contrapposizioni ideologiche, quella fra il tradizionalismo e il relativismo secolare e quella da cui dipende tutta la legittimità dell’Occidente e della sua “guerra al terrore”, l’opposizione tra i diritti individuali liberaldemocratici e il fondamentalismo religioso incarnato principalmente dall’“islamofascismo”?

Oggi la sinistra liberale e la destra populista sono entrambe bloccate in una politica della paura: paura degli immigrati, delle femministe ecc., o paura dei populisti fondamentalisti e via dicendo. La prima cosa da fare è compiere il passaggio dalla paura all’angoscia. La paura è paura di un oggetto esterno percepito come minaccioso rispetto alla nostra identità, mentre l’angoscia compare quando ci rendiamo conto che nell’identità che vogliamo proteggere dalla minaccia esterna tanto temuta c’è qualcosa che non va. La paura ci spinge ad annientare l’oggetto esterno, mentre l’unico modo per affrontare l’angoscia è trasformare noi stessi.

Le elezioni americane del 2016 sono state il colpo mortale al sogno di Francis Fukuyama, la sconfitta finale della democrazia liberale, e l’unico modo per battere davvero Trump e redimere ciò che vale la pena di salvare nella democrazia liberale è compiere una scissione settaria dal nucleo principale della democrazia liberale – in breve, spostare il peso da Clinton a Bernie Sanders, di modo che le prossime elezioni siano tra lui e Trump.

I punti del programma di questa nuova sinistra sono abbastanza semplici da immaginare. Ovviamente, l’unica reazione possibile al “deficit democratico” del capitalismo mondiale sarebbe dovuta passare per un’entità transnazionale. Non era stato già Kant a riconoscere, più di due secoli fa, il bisogno di un ordine giuridico transnazionale fondato sulla nascente società globale? Questo, però, ci riporta a quella che è verosimilmente la “contraddizione principale” del Nuovo ordine mondiale: l’impossibilità strutturale di trovare un ordine politico globale che corrisponda all’economia capitalista. E se, per ragioni strutturali e non solo per via di limiti empirici, non ci potesse essere una democrazia internazionale o un governo mondiale rappresentativo?

Il problema (l’antinomia) strutturale del capitalismo globale sta nell’impossibilità (e, al contempo, nella necessità) di un ordine sociopolitico che gli sia adeguato: l’economia di mercato non può essere organizzata direttamente come una democrazia liberale globale tramite elezioni universali. Mentre le merci circolano sempre più liberamente, i popoli vengono tenuti separati da nuovi muri. Trump promette la cancellazione dei grandi accordi di libero scambio difesi da Clinton. L’alternativa di sinistra a entrambi dovrebbe consistere in un progetto di nuovi e diversi accordi internazionali: accordi che impongano il controllo delle banche, accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed etniche ecc.

La grande lezione del capitalismo globale è che gli Stati-nazione non possono svolgere il lavoro da soli. Solo una nuova internazionale politica può forse contenere il capitale mondiale. Un vecchio anticomunista di sinistra una volta mi disse che l’unica cosa buona di Stalin era la paura autentica che suscitava nelle potenze occidentali. Lo stesso si può dire di Trump: la cosa buona è che spaventa davvero i liberali. Le potenze occidentali impararono la lezione e si concentrarono in modo autocritico sulle proprie mancanze, sviluppando lo Stato sociale. I liberali di sinistra saranno in grado di fare qualcosa di analogo? Per citare Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.

«Se è vero che l'Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all'opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto».

il manifesto, 30 maggio 2017 (p.d.)

Nella settimana che dovrebbe mettere il sale sulla coda della legge elettorale, un patto siglato da Renzi, Berlusconi e Grillo, la sinistra procede a piccoli passi nella costruzione di una piattaforma, di un programma, di quei famosi dieci punti che in Francia come in Inghilterra e in Germania, le sinistra europee mettono in campo nella girandola elettorale in corso nel Vecchio Continente.

Lavoro, welfare, immigrazione sono all’ordine del giorno sul fronte di un’altra Europa contro l’asse Macron-Merkel-Renzi che alza la bandiera di aver fatto argine al pericolo populista. La domanda di una sinistra che possa riprendere voce, ruolo e rappresentanza nel panorama politico italiano abbonda, anche sulla base e sulla scia dei consensi che leader con o senza codino, giovani o anziani, ricevono nel panorama europeo. Una domanda per una prospettiva di alternativa, capace di innovare nella costruzione di una forza aperta ai cittadini chiamati a partecipare in modo diretto alla sua formazione. Né con un mi piace, né con il rito della cooptazione.

In Italia la famiglia della sinistra, laburista, libertaria e ecologista, si presenta come un arcipelago sopravvissuto alle eruzioni vulcaniche del suo elettorato, con il vasto consenso dei 5Stelle, con il renzismo, con la scissione di un pezzo del Pd, con la diaspora di Sel-Sinistra italiana. Se lo sbarramento della futura legge elettorale sarà il 5%, la sinistra ha di fronte un grande ostacolo che deve trasformare in un obbiettivo. Per uscire dall’angolo, e navigare in mare aperto rispetto a quel vasto elettorato, piuttosto esigente, che non ne può più di assistere disarmato al perenne duello tra Renzi e Grillo.

Questo governo che prima cancella un referendum con un decreto-truffa e poi resuscita i voucher per le aziende, dimostra una volta di più la sua natura neocentrista. E il Pd che ne è il perno va cercare accordi e consensi altrove, lontano da un mondo del lavoro che ha abbandonato al precariato, facendosi alfiere e baluardo di una politica fiscale che si fa scavalcare a sinistra da Bruxelles sulla tassa per la prima casa. Mille vertenze assediano ogni giorno il ministero dello Sviluppo economico di Calenda; i licenziamenti sono tornati in grande stile senza giusta causa; le università pubbliche stringono il rubinetto del numero chiuso perché mancano docenti e aule in un paese con il 40% dei giovani disoccupati.

Economicamente, socialmente e culturalmente il deserto italiano è profondo e certo non lo bonificherà da sola una forza di sinistra che sente la fatica di affrontare anche uno sbarramento del 5%. Certamente la natura intrinsecamente maggioritaria dell’intesa che si va profilando per le forze minori prefigura una strada tutta in salita (pur superando la soglia di sbarramento la sinistra rischia una rappresentanza parlamentare di tribuna e comunque forte sarà il richiamo al voto utile nei collegi). Grillo, Renzi e Berlusconi sembrano correre verso elezioni anticipate, i tre poli lavorano per mettere le basi di future maggioranze. Chi in stile Nazareno, chi in modalità pentastellata con maggioranze variabili. Mentre balla nei cieli del purgatorio una legge finanziaria che non si capisce quale governo sarà destinato a firmare.

Una lista di coalizione, a sinistra, si misura oggi con la capacità, la volontà interpretare le lotte sociali insieme a una parte forte del sindacato, la Cgil, in sintonia con un papa che su economia e lavoro parla chiaro e parla a tutti. Non mancano certo le carte per dare finalmente rappresentanza, identità e futuro a quei milioni di persone, italiane e straniere, che si sentono sole di fronte all’impoverimento, che soffrono l’esclusione sociale, che subiscono il bombardamento di una sottocultura dell’odio e del rancore, oltre che di un trasformismo perenne. Buone carte per un gioco difficile, truccato e diverse trappole da evitare. Il prevalere di vecchi riflessi condizionati nella corsa ai posizionamenti ideologici, la perniciosità di una certa pigrizia intellettuale, la tentazione di sommare spezzoni di gruppi parlamentari, l’afasia nella scelta della leadership.

Se è vero che l’Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all’opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto.

«Maurizio Landini (Fiom) - Il leader dei metalmeccanici Cgil contesta il ritorno dei voucher: ieri era il giorno del referendum poi saltato».

Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)

«Il 17 giugno intendiamo riempire piazza San Giovanni a Roma di lavoratori e di cittadini che manifestano per difendere la Costituzione, lo facciamo non per dividere ma per unire questo Paese partendo dalla convinzione, sancita nella nostra Carta, che attraverso il lavoro si afferma il diritto e la possibilità di vivere con dignità: la democrazia è sotto attacco». Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ritrova i toni delle grandi occasioni e chiama i lavoratori, i pensionati e tutti i cittadini a mobilitarsi. Il casus belli che riporta la Cgil in piazza dopo aver sperimentato la via legislativa con la raccolta delle firme ai banchetti per promuovere i referendum, è l’emendamento che il governo ha presentato sabato scorso nella manovra di aggiustamento dei conti pubblici all’esame del Parlamento. Una norma che reintroduce di fatto i voucher nei sistemi di retribuzione delle prestazioni lavorative anche nelle imprese. «Siamo davanti a un attacco alla democrazia - tuona Landini - perché con un imbroglio si è impedito alle persone di esprimersi e di decidere, come dice la Costituzione».

Oggi (ieri, ndr) si sarebbero dovuti celebrare i referendum chiesti dalla Cgil dopo aver raccolto 3 milioni di firme, vi sentite presi in giro?
«Non siamo noi ma il Paese intero a essere stato preso in giro, siamo di fronte a una logica da imbroglioni: il 21 aprile hanno emanato un decreto di abolizione dei voucher per superare il voto dei referendum, il presidente del Consiglio disse che lo avevano fatto per non dividere il Paese; il ministro del Lavoro promise poi che avrebbe aperto un confronto con le parti sociali, ma nessuna convocazione è arrivata e a metà maggio si inventano un emendamento di reintroduzione dei voucher infilandolo in una manovra sui conti pubblici».

La ministra Finocchiaro dice che non sono voucher e chi li chiama ancora così è un bugiardo.

«In realtà sono ancora peggio di quelli vecchi, quando li estendi alle imprese con meno di cinque dipendenti, che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese, si sta introducendo un’altra forma di lavoro che non è un contratto; non esistono le imprese occasionali, si tenta di tornare a una logica commerciale del lavoro, senza più diritti né tutele e senza possibilità di impugnare gli atti se serve. Un altro imbroglio come le famose “tutele crescenti” con cui dicevano di aver sostituito l’articolo 18».

Il segretario del Pd, Mattero Renzi, però se ne chiama fuori, dice che è una partita totalmente giocata dal governo.
«Stiamo assistendo a un balletto: in Commissione l’emendamento è stato presentato da parlamentari del Pd e si conferma che anche il governo Gentiloni e quello Renzi - che poi sono la stessa cosa - tutte le volte che fanno norme sul lavoro non ne discutono con nessuno e producono provvedimenti dannosi che aumentano la precarietà. Il Pd dice che va votato, addirittura con Forza Italia e con la Lega. La verità è che questi sono quelli dell’Ape e del Jobs act e che avevano detto che sarebbero andati via dalla politica e sono ancora lì a distribuire a pioggia un sacco di soldi pubblici».

Anche papa Francesco fa riferimento alla Costituzione per richiamare gli imprenditori a non soggiacere solo alla logica del profitto: è il sindacato che si fa ecumenico o viceversa?

«Certo è molto significativo che il Papa mandi da Genova un messaggio forte a favore della dignità e del valore sociale del lavoro proprio mentre in Parlamento una parte del Pd, all’opposto, fa questo provvedimento. Cgil e Fiom devono mettere al centro del loro impegno la democrazia e il lavoro come ci ha ricordato papa Francesco».

Cosa proponete a quei settori dell’economia che chiedono comunque una regolamentazione?

«Abbiamo depositato da tempo in parlamento la proposta di una Carta dei diritti, per ottenere uno statuto di tutte le forme di lavoro dignitoso e tutelato: pensione, salute, equa retribuzione, partecipazione alle scelte sono diritti non contrattabili».

Pare che il provvedimento avrà la strada spianata anche al Senato.
«La partita non è chiusa, ci appelliamo al presidente della Repubblica, alla Corte di Cassazione e alla Consulta perché intervengano e chiederemo, con una raccolta di firme che partirà nei prossimi giorni nelle piazze e in tutti i posti di lavoro, il rispetto dell’articolo 75 della Costituzione. Dobbiamo denunciare l’imbroglio e difendere la democrazia».

Se ci fossero solo onesti e capaci non servirebbero né leggi né tribunali Ma questo è il paese dei franceschini.

la Repubblica, Affari e Finanza, 29 maggio 2017

L'ultimo stop in ordine di tempo è arrivato giovedì scorso: due sentenze del Tar del Lazio hanno fatto saltare cinque delle venti nomine di direttori di grandi musei statali, mettendo a repentaglio una riforma che stava funzionando bene. Non c'è giorno o settimana in cui l'elenco degli altolà disposti in Italia dai giudici amministrativi di primo e di secondo grado non si arricchisca di un nuovo caso. Sotto la loro scure cadono uno dopo l'altro lotti stradali e concorsi pubblici, riforme bancarie e lavori di messa in sicurezza di scuole e ospedali, bonifiche di terreni e assunzioni di infermieri.

Rafforzare il personale che lotta ogni giorno contro l'evasione fiscale è cosa buona e giusta: peccato che negli ultimi tredici anni il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato abbiano bloccato o sospeso tutti e tre i concorsi che l'Agenzia delle Entrate aveva disposto per assumere centinaia di dirigenti. Basta avere un po' di buon senso per capire che le mastodontiche navi da crociera non devono passare a pochi metri da Venezia, ma basta una pronuncia del Tar del Veneto all'inizio del 2015 per annullare l'ordinanza con cui la Capitaneria di Porto aveva limitato il loro passaggio nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Valorizzare o quanto meno evitare che cada a pezzi il nostro patrimonio storico-artistico è un impegno difficilmente contestabile. Eppure capita che all'inizio del 2016 il Tar della Campania sospenda i lavori nella "Regio I" di Pompei in seguito al ricorso di un'azienda esclusa dalla gara, e che li sblocchi solo quest'anno, guarda caso pochi giorni dopo il crollo del muro di una delle Domus romane.

L'Osservatorio Nimby Forum (dove Nimby è l'acronimo inglese per lo slogan "non nel mio cortile") ha calcolato che più di un terzo delle 342 opere bloccate in Italia ha ricevuto almeno uno stop da Tar e Consiglio di Stato: si tratta di 122 impianti finiti nelle sabbie mobili dei ricorsi. Al primo posto, nell'elenco dell'Osservatorio, gli impianti energetici, seguiti da termovalorizzatori e biodigestori per i rifiuti, da strade e ferrovie per le infrastrutture. Il 37% di queste opere sono ferme da più di quattro anni.

Morire di diritto
L'immagine di un'Italia bloccata dalla giustizia amministrativa, dove non solo le opere pubbliche ma quasi ogni decisione politica è condannata a restare sospesa per anni o decenni, non è certamente nuova. Già qualche anno fa era una visione così nitida da indurre un politico misurato come Romano Prodi ad affermare, neppure troppo provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato avrebbe favorito la crescita del Pil. "Non possiamo morire di diritto amministrativo", scrive nel suo libro La lista della spesa l'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sfiancato dalla gragnuola di veti e ricorsi piovuti su ogni atto politico. In realtà, non è un problema che si possa risolvere con una semplice sforbiciata. Non è possibile privare i cittadini del diritto di difendersi dai possibili abusi della pubblica amministrazione: missione affidata appunto ai giudici amministrativi. L'obiettivo è salvaguardare questo diritto senza tuttavia bloccare l'economia di una intera nazione, senza creare quello stato di incertezza che paralizza imprese e famiglie e allontana gli investimenti esteri.

Finora però non è andata così: assistiamo tutti i giorni a occasioni di sviluppo sacrificate sull'altare del più astratto formalismo giuridico, del bizantinismo più esasperato. Malgrado i progressi realizzati negli ultimi anni, i ricorsi pendenti presso Tar e Consiglio di Stato sono ancora una massa enorme, quasi 240 mila nel 2016, con forte concentrazione al Sud, e quelli nuovi si mantengono ben sopra la soglia dei 60 mila annui raggiunta nel 2012 e poi addirittura superata. Sui tempi della giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, ricorda che molto è stato fatto per ridurli: "Tra il deposito del ricorso e la prima decisione collegiale passano oggi 200 giorni, contro i 700 del 2010". Ed è di comune dominio la convinzione che la giustizia amministrativa sia comunque più veloce di quella civile. Più veloce eppure in assoluto ancora lentissima: secondo il Justice Scoreboard della Commissione europea, edizione 2017, se si tiene conto delle liti pendenti, ci vogliono mille giorni in Italia, ossia quasi tre anni, per arrivare alla fine del primo grado di giudizio amministrativo, un record in Europa. In Svezia, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Polonia bastano cento giorni. In Francia e Germania meno di 500.

A colpi di sospensive
Insomma, il fenomeno da noi presenta ancora tutti i crismi della emergenza. Ormai non c'è concorso pubblico, non c'è gara di appalto senza almeno un ricorso da parte di chi è stato escluso. E dal ricorso non di rado si passa alla sospensione temporanea da parte del Tar (che può durare anche mesi), cosicché quando arriva il giudizio (anche se è positivo) spesso è troppo tardi. Senza contare che poi si dovrà aspettare il verdetto del Consiglio di Stato che potrà sempre ribaltare la decisione del Tar. "La giustizia amministrativa è al timone della politica industriale del nostro paese - commenta Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum - E' questo il dato che emerge dalle nostre rilevazioni. Riportare in seno al governo le decisioni sui progetti di interesse nazionale è la soluzione che da tempo invochiamo, come viatico per la semplificazione degli iter autorizzativi e per la riduzione dei contenziosi tra Stato e Regioni. La riforma del Titolo V della Costituzione - continua Beulcke - avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, uno strumento potente in grado di realizzare una maggiore certezza del diritto, a beneficio di imprese, istituzioni e territori".

Ultimamente, soprattutto con il governo Renzi, si è cercato di porre un freno alla possibilità di aziende e privati di appellarsi ai Tar, e anche al potere dei tribunali stessi di sospendere i lavori più urgenti. Eppure, non si riesce ancora a porre fine ai casi di paradossale formalismo giuridico. Come quello raccontato da Giavazzi e Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso.

Dal Palladio a Pompei
Bassano del Grappa, agosto 2015: il ponte degli Alpini, progettato alla fine del Cinquecento da Andrea Palladio, rischia di sgretolarsi. Governo e Regione Veneto stanziano 3,7 milioni per i lavori. Un'azienda di Treviso vince l'appalto, ma siccome una ditta della stessa cordata non riesce a farsi dare in tempo tutti i documenti dalla prefettura, l'incarico viene affidato alla seconda arrivata. L'impresa trevigiana fa ricorso ma il Tar del Veneto non dà la sospensiva. Inizio lavori previsto per il 2 maggio 2016. Nuovo ricorso al Consiglio di Stato che a sorpresa blocca i lavori almeno fino al giudizio di merito del Tar. Il quale alla fine dà ragione alla prima azienda. E' passato più di un anno, il ponte per fortuna non è crollato ma avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Così come invece è accaduto, dopo un anno di veti e contro-veti, al muro della Domus del Pressorio di Pompei.

Il nuovo codice appalti dovrebbe d'ora in poi impedire casi come questi, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo come sempre l'interpretazione giuridica. E così, come spiega il presidente dell'Anac Raffaele Cantone, ci sono imprese che ricorrono al Tar solo perché puntano ad avere con il risarcimento danni per l'esclusione da un lavoro, più di quanto avrebbero ottenuto realizzandolo. E cita una grande impresa del Nord che, seguendo questa strategia, è stata risarcita con 21 milioni.

Le proposte di Bankitalia


Con il proliferare dei ricorsi, ogni atto politico o amministrativo viene congelato nel freezer dell'indecisione. La stessa Banca d'Italia, in una recente audizione, si domanda se la giustizia amministrativa sia un fattore di blocco dello sviluppo economico del nostro paese. "La risposta - spiega il direttore generale Salvatore Rossi - non può essere netta né generale, ma l'impressione che a volte ciò accada è fondata". E tra i rimedi, suggerisce un uso più rigoroso delle condanne alle spese di giudizio e a quelle per liti temerarie. Nel frattempo, però, la lista degli "stop and go" (in realtà più stop che go) si infittisce di mese in mese.

Infermieri e 007 del fisco


Nel regno immobile dell'Altolà entra di tutto, grandi e piccole opere: dalle fogne di Marsala ai lavori sul torrente Bisagno (quello dell'inondazione di Genova), dalla costruzione del polo oncologico San Matteo di Pavia all'espianto degli ulivi per il via libera al gasdotto in Puglia. Fino al lotto della strada Olbia-Sassari, la cui aggiudicazione è stata annullata appena un mese fa. Quando non sono le opere pubbliche ad essere sospese o cancellate, lo sono le assunzioni, come quella di 40 infermieri per il Policlinico Umberto I di Roma nel luglio 2016, o quella di 34 impiegati alla Regione Umbria nel marzo scorso. E in tema di personale non si può non ricordare la beffa subita dall'Agenzia delle Entrate, che, come si diceva all'inizio, ha visto andare in fumo tutti e tre i concorsi disposti negli ultimi 13 anni, uno addirittura il giorno prima degli orali. Nello stesso periodo l'Agenzia delle Dogane ha dovuto ingoiare l'annullamento di quattro dei cinque concorsi decisi. In tutto, sono rimasti così scoperti 1.257 posti di dirigenti di seconda fascia. Con buona pace della lotta all'evasione, dei controlli sulle accise alle dogane, di quelli sui giochi e sui tabacchi.

Alle decisioni sulle materie più o meno strategiche, si accompagnano poi migliaia di micro-verdetti talvolta bizzarri, come la sospensione del divieto di attività dei centurioni nel centro di Roma, o come lo stop all'ordinanza con cui il Comune di Cervo Ligure aveva disposto l'abbattimento dei cinghiali. E così questo gigantesco labirinto nonsense fatto di ricorsi, sospensioni e annullamenti acquista anche un carattere grottesco.

La riforma che non arriva


Difficile pensare che in tutte le loro sentenze, i 490 giudici di Tar e Consiglio di Stato abbiano sempre le mani legate dall'obbligo di un rigido rispetto delle leggi, che non dispongano di un certo grado di discrezionalità che consenta loro di evitare effetti paralizzanti sull'economia di un intero paese. Al di là delle responsabilità personali nel sospendere un'opera salva-vita o un'assunzione urgente di infermieri, il vero buco nero sembra risiedere in un sistema giuridico che ha ormai spezzato ogni legame con la realtà, con i bisogni di famiglie e imprese, con le aspirazioni di crescita del nostro paese. Da anni si annuncia una riforma della giustizia amministrativa che non riesce mai a vedere la luce, a uscire dai cassetti degli uffici legislativi dei ministeri. Uffici guidati spesso in tutti questi anni dagli stessi giudici amministrativi del Consiglio di Stato, distaccati al governo. E alla fine tutto resta fermo.
Insomma, parafrasando lo sfogo di Carlo Cottarelli, qui rischiamo di morire tutti di diritto amministrativo.
Una delle tante storie che dovrebbero farci comprendere che abbiamo costruito noi stessi - nella nostra superbia di "civilizzatori"gli incubatori dell’odio, di cui il terrorismo è l'espressione disperata.

Corriere della Sera, 29 maggio 2017

Mamma, mi dai il pallone? «No, Ashraf. Tu devi stare con me». Posso giocare almeno con le guardie? «No, ho paura che ti violentino». Mamma, ma quando andrò a scuola? «Mai». A Jamina la marocchina è rimasto solo Ashraf, 7 anni, e tutta sola se lo tiene tutto il giorno nel buio del capannone delle sudanesi, nel pozzo nero delle sue angosce.

I materassi per terra, qualche sporta di plastica, un pallone mezzo sgonfio, mezz’ora d’aria, la puzza densa dei disperati ammassati da mesi. Guai a chi l’avvicina. Jamina non vuole andare in Europa, né tornare in Marocco: dice che vivrà per sempre qui con Ashraf, nel campo-carcere di Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli. Ne ha viste troppe, la sua storia scuote perfino le guardie che ne hanno viste molte: abbandonata incinta da un francese, cacciata dalla famiglia, passata per la Libia con la speranza d’arrivare in Francia assieme ad Ashraf, prima è finita schiava nel Sahara di Sebha («un giorno mi hanno stuprato 36 camerunesi») e poi è stata venduta a un bordello dell’Isis a Sirte. Quando l’hanno arrestata, il figlio sempre con lei, stava in una casa di jihadisti e ha dovuto spiegare il perché.

Nessuno ora sa che farne: la famiglia la disconosce, il francese è sparito, il governo marocchino non vuole riavere chi ha frequentato terroristi. «Ma lei non sa nulla del mondo - dice Adel Mustafa, il direttore -, è stata solo sfortunata». In che casella mettiamo questa donna e suo figlio? Rifugiati di guerra? Migranti economici? Gente che poteva starsene a casa sua? Oggi Jamina ha 34 anni, è disturbata e spesso straparla, un giorno si vela e l’altro si spoglia, spesso picchia il bambino per niente. «Ci vorrebbe uno psicologo. L’abbiamo chiesto all’agenzia Onu per i profughi, l’Unhcr, ma non hanno mandato nessuno. Noi scoppiamo di gente, da sei mesi non paghiamo nemmeno chi ci fornisce i pasti… Chi può occuparsene?».

La catechesi e l'attualità. «La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».

Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)

È stato un discorso lungo, denso, articolato quello che papa Francesco ha tenuto sabato scorso all’Ilva di Genova, nel corso della sua visita nel capoluogo ligure. Il tema è stato il lavoro e la sciatta sintesi giornalistica ha schiacciato l’intervento del pontefice su un titolo strumentalmente anti-grillino: “Bergoglio contro il reddito di cittadinanza”. Vero. Ma in che contesto?

E qui viene il bello. Perché se i renziani possono rallegrarsi per le parole sul reddito non possono farlo per quelle sugli imprenditori “speculatori” (tra cui tanti amici del Sistema in generale) ma soprattutto per quelle, clamorose, contro la meritocrazia. Ossia il totem degli ultimi vent’anni che ha ridisegnato in peggio il perimetro della sinistra. Così, ancora una volta, il papa argentino si conferma punto di riferimento per coloro che si riconoscono nei valori dell’uguaglianza.

Bergoglio ha svolto un’autentica catechesi: «Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza».

Dopo aver spiegato i danni che provoca il talento considerato come “merito” e non come “dono”, il papa ha concluso: «Una seconda conseguenza è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Ma questa non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita: la meritocrazia nel Vangelo la troviamo invece nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».

«». il blog di Guido Viale, 28 maggio 2017 (c.m.c)

Quello di cui intendo parlare qui sono alcune soluzioni di ordine istituzionale per affrontare l’ingresso nel mondo del lavoro di profughi e migranti; non i meccanismi con cui vengono sfruttati tutti coloro che si trovano nel nostro paese in una condizione di irregolarità e che, grazie alla condanna alla clandestinità imposto da chi si oppone alla loro regolarizzazione, è ormai da tempo uno dei pilastri portanti dell’economia italiana in molti settori.

Va comunque rilevato che diverse innovazioni recenti nel campo della legislazione del lavoro rendono sempre più sfumato, sia di fatto che in linea di diritto, i confini che separano il lavoro legale da quello illegale. Basta pensare ai cosiddetti scontrinisti, lavoratori – anzi lavoratrici – pagati dal Ministero dei Beni Culturali fino a un massimo di 400 euro al mese sulla base degli scontrini che riescono a presentare (evidentemente falsi, cioè raccolti da altri) e senza alcuna tutela. Non so in quale altro paese del mondo possa esistere un istituto contrattuale del genere.“Mettere al lavoro” profughi, richiedenti asilo e migranti non ancora regolarizzati o a cui è spirato il permesso di soggiorno, cioè offrir loro la possibilità di avere un lavoro regolare e retribuito, è il problema centrale intorno a cui si gioca il futuro dell’Europa e del nostro paese. Le considerazioni alla base di questo enunciato sono elementari:

- Gli sbarchi e gli arrivi in altre forme, tutte irregolari fino a che non saranno istituiti corridoi di ingresso legali, continueranno e, anzi, aumenteranno nel tempo, a causa dei cambiamenti climatici, della devastazione economica e ambientale delle loro terre, dei conflitti che questi processi innescano e alimentano, degli accordi commerciali che devastano le economie di sussistenza dei paesi da cui si originano quei flussi;

- Nessuna politica di contrasto, per quanto spietata, cioè fondata sull’abbandono di profughi e migranti in viaggio verso l’Europa in mare, nel deserto o tra le mani dei loro aguzzini, né tantomeno i rimpatri, possono permettere un contenimento significativo di questi flussi;

- L’accoglienza, così come è organizzata, non basta. In Italia, con l’eccezione della rete SPRAR – e neanche tutta – essa è per lo più affidata all’apprestamento estemporaneo di contenitori dove le persone che richiedono asilo (praticamente tutti i nuovi arrivati, dato che non esistono altri canali di accesso a una regolarizzazione) vengono mantenuti, a spese dello Stato, in una condizione di inattività forzata che umilia loro, ma che umilia anche le comunità dei territori dove insistono gli edifici in cui sono ospitati, e che li vedono bighellonare mentre loro lavorano.

In ogni caso questo è il destino di tutti coloro che sbarcano in Europa, perché l’Italia è ormai l’unico paese di approdo e le sue frontiere con il resto dell’Unione europea sono chiuse, sia fisicamente che dalla convenzione Dublino III. Questa forma di accoglienza, ma anche quella affidata alla rete SPRAR, rispondono a una logica di emergenza che non ha più alcuna ragion d’essere, dato che il fenomeno degli arrivi è destinato a protrarsi nel tempo.

Una volta ottenuto l’asilo o il diniego definitivo – spesso dopo anni – per le persone ospitate in queste strutture non è previsto alcuna altra forma di accompagnamento e vengono abbandonate per strada, con o senza documenti che ne legittimino la permanenza in Italia, a seconda dell’esito del procedimento. Il presupposto è che chi ha ricevuto il diniego ritorni da dove è venuto come ingiunto dal foglio di via che gli viene consegnato – ma nessuno lo fa – oppure che venga rimpatriato a forza, passando eventualmente attraverso un CPR; ma questi rimpatri sono costosi, per lo più impraticabili e vengono e verranno fatti solo ogni tanto “per dare l’esempio”. Ma anche per chi ha ricevuto la protezione internazionale non è prevista alcuna forma di accompagnamento;

Il risultato è che le persone messe per strada si accumuleranno di qui a poco al ritmo di cento/duecentomila all’anno: il numero degli arrivi da cui si prevede che l’Italia sarà interessata nei prossimi anni e forse per decenni. Si tratta di una situazione insostenibile, che non farà che alimentare e moltiplicare la propaganda di coloro che chiedono misure sempre più feroci di respingimento e di confinamento, anche se sanno benissimo – ma non lo dicono al pubblico a cui si rivolgono – che si tratta di misure inattuabili e inefficaci;

Il lavoro, un lavoro regolare e retribuito, è per tutte le persone in questa condizione il mezzo fondamentale di inclusione sociale e di empowerment: per avere un reddito, per sentirsi indipendenti, per trovarsi e pagare un alloggio, per crearsi una rete di relazioni sociali, per impratichirsi nella lingua, per imparare un mestiere, per risparmiare e contribuire al mantenimento di parenti rimasti in patria.

Molte delle persone che arrivano in queste condizioni, soprattutto se profughi di guerra o di qualche conflitto, ma anche se profughi ambientali o cosiddetti migranti economici, desiderano ritornare prima o poi da dove sono venute non appena se ne presentino le condizioni. Per questo il lavoro è anche ciò che può creare le basi per un ritorno: con nuove professionalità acquisite, con un patrimonio di relazioni con il paese di arrivo che può essere messo a frutto nel paese di origine – soprattutto se, come spiegheremo, le attività in cui verrebbero impegnate sono prevalentemente legate al risanamento ambientale sia locale che globale – e in alcuni casi anche con un piccolo capitale che oggi, per mancanza di supporto a impieghi alternativi, viene spesso dilapidato in attività immobiliari senza alcun beneficio.

In queste condizioni, e per tutte queste persone, la ricerca del lavoro non può essere affidata al mercato, cioè all’iniziativa individuale, anche se avvenisse in condizioni di legalità, cioè con un regolare permesso di soggiorno che oggi non viene dato a nessuno. E questo, non solo perché il mercato del lavoro, in Italia come in quasi tutti gli altri paesi europei, non offre in questo periodo, e per molti anni a venire, grandi opportunità nemmeno ai cittadini autoctoni; e neanche solo perché le agenzie di intermediazione non funzionano; ma soprattutto perché persone arrivate in queste condizioni hanno bisogno di un forte accompagnamento personalizzato.

Alcuni amministratori locali, ben consapevoli che è innanzitutto necessario spezzare la gabbia dell’inattività forzata a cui sono condannati i richiedenti asilo, hanno cominciato ad impegnarli, a titolo volontario e gratuito, in attività “socialmente utili”, con l’obiettivo di mostrare alla cittadinanza che quei profughi non sono solo un peso, e meno che mai un pericolo, ma possono essere anche un aiuto. Altri, tra cui alcuni studiosi del fenomeno, hanno proposto di riattivare l’istituto dei “lavori socialmente utili” (LSU): un istituto attivato dalla legislazione italiana del lavoro in un periodo compreso tra il 1984 e i primi anni del 2000), con l’intento dichiarato, ma quasi mai veramente perseguito, di avviare al lavoro un bacino di disoccupati che si era progressivamente andato allargando da alcuni lavoratori in cassa integrazione ad altri in mobilità, fino ad includere giovani inoccupati e disoccupati di lunga durata.

Entrambe queste soluzioni – lavoro gratuito e LSU – sono fattispecie di un approccio alla disoccupazione generale chiamato workfare, tutt’ora in vigore, anche se in disgrazia, in molti paesi, che era nato in contrapposizione, anche da un punto di vista terminologico, al welfare e, segnatamente, alle indennità di disoccupazione, considerate un incentivo all’ozio, o alla rinuncia della ricerca attiva di un lavoro. Al workfare veniva così assegnato sia il compito di tenere il disoccupato “in esercizio”, sia quello di riavviarlo in qualche modo al lavoro. Ma entrambe le soluzioni, più altre che vi possono essere assimilate, sono invece una vera e propria trappola: sia per il lavoratore che per le istituzioni che le promuovono e la società che le adotta.

Intanto ne vanno messe in discussione le finalità: in molti casi il workfare è stato introdotto con intenti punitivi: far pagare al disoccupato, come che sia, il costo del suo mantenimento; in altri casi, con intenti compassionevoli: sottrarlo all’inattività, farlo sentire, per l’appunto, “socialmente utile”. L’approccio prevalente è comunque quello di considerare il workfare una forma di avviamento o riavviamento al lavoro. Tutti e tre questi approcci presentano però più controindicazioni che benefici.

Sul lavoro volontario e gratuito c’è poco da dire: attivato una tantum con persone costrette a un isolamento forzato nelle loro strutture può essere giustificato come modo per allacciare un loro rapporto con la cittadinanza. Trasformato in pratica continuativa è una forma di schiavismo che risponde al principio di compensare con lavoro gratuito il proprio mantenimento, senza che da esso derivi alcuna prospettiva di sbocco occupazionale vero, o di inclusione sociale, allontanando così ancora di più le persone coinvolte da un percorso di integrazione.

Il lavoro socialmente utile (LSU), così come è stato introdotto e sviluppato in Italia, prevedeva una occupazione a mezzo tempo, con una retribuzione ridotta, ma contributi sociali garantiti interamente, in progetti temporalmente definiti – ma di fatto rinnovati di anno in anno alla scadenza – presso amministrazioni pubbliche, società miste pubblico-private, o imprese già esistenti o costituite ad hoc in forma cooperativa, affidatarie di lavori o servizi pubblici esternalizzati. La formula non poteva funzionare, e non ha funzionato, innanzitutto per il fatto che la retribuzione dimezzata era, sì, insufficiente a garantire il mantenimento di una persona e ancor più di una famiglia, ma era anche una buona base per impiegare il resto della giornata in un doppio lavoro “in nero”, anche grazie al fatto che i contributi sociali erano comunque interamente coperti.

Questo metteva di fatto molti lavoratori socialmente utili addirittura in una situazione privilegiata rispetto a chi svolgeva una attività regolare a tempo pieno, rendendoli così particolarmente restii ad abbandonare la loro posizione, anche in presenza di un’offerta di lavoro regolare. Questa renitenza era ulteriormente aggravata dalla speranza, spesso alimentate da forze politiche e sindacali, di utilizzare l’ingaggio nei LSU come corridoio di ingresso nella Pubblica amministrazione, posizione che in Italia gode ancora, nonostante tutto, di una particolare protezione.

Ma, oltre a ciò, sia il lavoro socialmente utile che il lavoro volontario e gratuito non sfuggono a un dilemma radicale: o il lavoro è effettivamente “socialmente utile”, e allora dovrebbe essere svolto in via ordinaria, con contratti di lavoro regolari, perché svolgerlo in forma gratuita, o in ambiti riservati ed esclusivi, significa entrare in concorrenza sia con i lavoratori interessati a svolgerlo dietro il pagamento di un salario regolare, sia con le imprese interessate ad averlo in affidamento a condizioni di mercato. Oppure quei lavori non fanno concorrenza a nessuno perché sono lavori finti o non sono per nulla utili; vanno solo a vantaggio di chi li gestisce e contribuiscono a creare delle sacche di parassitismo tra chi li gestisce.

Che è esattamente quanto successo per molti anni, mano a mano che si dilatava il bacino dei LSU e che venivano riconfermati gli pseudoprogetti in cui quei lavoratori venivano impegnati. Basti pensare alle migliaia di lavoratori ingaggiati in raccolte differenziate dei RSU o in lavori di bonifica senza essere dotati di attrezzature, strumenti e know how per operare; e venendo spesso assegnati ad aree e interventi in cui operavano già altre imprese più o meno regolari. Questo ha fatto sì che sui LSU finissero per ricadere anche le stimmate di persone incapaci o indisposte a lavorare in condizioni ordinarie, pregiudicandone ogni eventuale successiva ricollocazione.

Per di più, quando i lavori sono utili, perché coprono funzioni rimaste scoperte – ed è stato il caso di molti lavoratori applicati a ruoli della Pubblica amministrazione – questa si mette nella condizione di non poterne più fare a meno e, quando il sedicente progetto giunge a scadenza, scopre di non aver più le risorse per coprire alcune funzioni vitali.

Insomma, sia il lavoro volontario gratuito, a prescindere dalla sua inaccettabilità, sia il lavoro socialmente utile attribuito in riserva si rivelano una trappola tanto per il lavoratore che per le amministrazioni che lo impiegano direttamente o attraverso l’affidamento a un’impresa. Lo è per il lavoratore, perché, lungi dal funzionare come strumento di avviamento a un lavoro regolare, lo rinchiude in un recinto da cui nessuno ha più interesse a farlo uscire. Tanto è vero che lo svuotamento del bacino degli LSU italiani ha richiesto un progetto ad hoc (OFF), finanziato dall’Unione europea, costato molte decine di milioni, durato quasi dieci anni e nel quale la maggior parte delle uscite sono state di fatto realizzate per prepensionamento.

Ma è una trappola anche per le amministrazioni, perché le inducono a creare delle finte attività per sostenere lavori di nessuna utilità o efficacia, oppure ad affidare funzioni per essa vitali a interventi a termine, destinati a lasciarle scoperte quando il progetto viene a scadenza.

Qual è allora la soluzione? Una soluzione soddisfacente per adesso non c’è, perché il problema è il più complesso che l’Europa, e forse tutte le economie sviluppate, si trovano ad affrontare oggi. Ma per quanto riguarda l’Italia e gli scenari di qui a due o tre anni, valgono comunque le seguenti considerazioni:
Il problema è di assoluta priorità e va riportato come tale a livello europeo: profughi e migranti sbarcano in Italia, ma per raggiungere l’Europa. Il nostro paese non può essere lasciato solo ad affrontare questo flusso, anche se tutti gli altri paesi membri dell’Unione Europea trovano molto comodo lasciare le cose come stanno.

Non si tratta di “pestare i pugni sul tavolo” come hanno promesso di fare sia Renzi che i 5stelle, ma di far capire a tutti, e innanzitutto all’opinione pubblica, che in mancanza di iniziative adeguate è l’intera costruzione europea a rovinare;

Le ricollocazioni previste dalla Commissione europea, anche se venissero effettuate – il che non è – non sono adeguate: innanzitutto riguardano solo la fase dell’accoglienza e non quella della inclusione sociale successiva; poi dovrebbero essere rinnovate ogni anno, perché ogni anno c’è un nuovo flusso di profughi da accogliere e sistemare;

Il problema è creare occasioni di lavoro per tutti in settori che abbiano veramente bisogno di molta manodopera. Questi sono soprattutto i settori legati alla manutenzione del territorio, alle riconversioni energetica, agricola ed edilizia, alla manutenzione e riparazione dell’usato, ai servizi alla persona, compreso il trasporto personalizzato. Luciano Gallino aveva stimato la necessità immediata di almeno un milione di nuovi posti di lavoro aggiuntivi per alleviare la disoccupazione in Italia; cifra che proiettata su scala europea e proporzionata alla consistenza della disoccupazione ufficiale degli altri paesi, significa almeno sei milioni di posti di lavoro su scala continentale. Perché non sembri una esagerazione, bisogna ricordare che fino alla crisi del 2008 i paesi europei di immigrazione assorbivano “normalmente” almeno un milione e mezzo di nuovi migranti all’anno, trovandogli un lavoro. Sono dunque le politiche di austerità che da allora hanno prodotto 25 milioni di disoccupati nell’UE che vanno cambiate;

Non si può aspettare un cambiamento radicale di questo genere, assimilabile a un regime change a livello europeo, per cominciare ad agire. Occorre fin da ora mettere a punto, trovare i finanziamenti e realizzare progetti di inclusione sociale e lavorativa di profughi e migranti a livello locale. Per poi riproporli come modelli di buone prassi da recepire e valorizzare in tutta Europa. E viceversa: conoscere, importare e riprodurre quanto di valido è stato sperimentato in Europa su questo piano;

Ovviamente gli esempi non bastano, ma è solo a partire dalla loro realizzazione e dalla loro valorizzazione che è possibile dare credibilità a un programma generale di riconversione produttiva dell’Europa fondata su un piano generale di lavori inclusivo di tutte le competenze e di tutte le componenti sociali che possono essere impiegate nella sua realizzazione;

Gli inserimenti lavorativi di profughi e migranti arrivati da poco in Europa hanno bisogno di un accompagnamento personalizzato gestito da organismi capaci di svolgerlo, sia che si tratti di assunzioni in imprese esistenti che di creazione di nuove imprese. Le uniche organizzazione in parte attrezzate per questa funzione sono le imprese del terzo settore, a cui spetta un ruolo fondamentale nel farsi promotrici e soggetti attuatori di un programma del genere;

In tutti gli ambiti dove sono in campo nuovi progetti o creazione di nuove imprese una condizione essenziale è che a essere coinvolti siano gruppi misti di disoccupati italiani, soprattutto giovani, e stranieri; e soprattutto che ci sia un transfer di conoscenze e di competenze manageriali da chi le ha potute maturare all’interno di imprese già operanti a chi si trova a dover iniziare quasi da zero.

In tutti i casi è importante mantenere i contatti più stretti possibili con tutti i livelli istituzionali, perché si capisca che questa è l’unica strada percorribile per non lasciar precipitare il nostro paese, e dietro di esso, tutta l’Europa, in un caos senza ritorno. Le cose da fare sono tantissime e gigantesche, ma si può e si deve cominciare a lavorare da quello che si può fare.

Gli esempi positivi di inserimento in attività già in corso o di creazione di nuove imprese non mancano e andrebbero raccolte in un repertorio. Il paradosso e che coinvolgono richiedenti asilo che attraverso questi progetti si inseriscono positivamente nel lavoro e nella società. Poi quando arriva il diniego, devono essere licenziati perché non possono essere regolarizzati, determinando spesso anche il fallimento delle attività che avevano contribuito a far vivere.

Silvia Truzzi intervista Paul Ginsborg, il professore che animò i Girotondi: «Solo le posizioni neoliberiste hanno cittadinanza». La nuova legge elettorale è la premessa di un governo renzusconiano: due facce della stessa medaglia.

il Fatto quotidiano, 29 maggio 2017

Se gli domandi di quest’ennesima ritrovata giovinezza di Berlusconi, ti risponde: “Questo ritorno al passato mi fa impressione. Anche molta rabbia. La stampa italiana non ha imparato la lezione, purtroppo. E nemmeno la borghesia, che si è omologata. L’unica posizione che ha cittadinanza ormai è quella neoliberista”. Paul Ginsborg, storico inglese ormai naturalizzato italiano (vive a Firenze da oltre 25 anni), è un uomo mite ma appassionato. Non per nulla il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con il filosofo Sergio Labate, s’intitola Le passioni e la politica (Einaudi).

Professore, ci sarà di nuovo un governo di larghe intese con Pd e Forza Italia con i Cinque stelle all’opposizione?

«Sì, credo sia più che possibile. Non dimentichiamoci che Berlusconi non ha mai fatto mistero di considerare Renzi il suo figlio politico. E ricordiamo anche la visita pastorale di Renzi ad Arcore: allora tutti lo criticarono, ma lui come sempre tirò dritto per la sua strada. Mi colpisce molto che non esistano in circolazione foto dei due insieme. E dire che il segretario del Pd è sempre pronto ad abbracciare tutti. Questa “clandestinità” mi fa pensare che stiano già trattando alleanze di governo. Il leader della sinistra non mette insieme il ceto medio, cerca di separarlo. Ed è molto grave».

Perché?
«Il ceto medio in Italia è stato trattato come carne da macello dalla politica, usato e abbandonato. Oggi rappresenta una parte di società arrabbiata, per via della disoccupazione e dell’impoverimento. A queste persone nessuno sa dare risposte, nemmeno i Cinque Stelle. Non credo che potranno farlo neanche D’Alema e Pisapia. Il ceto medio è stato indebolito, e non solo economicamente. Intendo anche da un punto di vista culturale, sociale e politico. I partiti hanno usato alcune rivendicazioni e alcuni movimenti finché ha fatto loro comodo. Ricordo che Fassino si presentò alla manifestazione dei girotondi, dove i partiti non erano invitati, e si mise a firmare autografi. Oggi quando D’Alema cita “i comitati del No al referendum di Zagrebelsky” fa la stessa cosa: un’operazione opportunista e senza contenuti. Invece di riconoscere che esiste una società civile che va incoraggiata a crescere, cerca di risucchiarla. È un grande segno di miopia».

Come potrà un elettore del Pd che per lustri ha fatto la guerra a Berlusconi votare il suo partito sapendo che probabilmente si alleerà proprio con Berlusconi?
«Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca, passati dai padri ai figli».

Perché gli intellettuali tacciono?
«Dirò una cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica può distribuire sono molto meno».

Tutti tengono famiglia?
«L’altra sera ho detto a mio figlio maggiore: “Ben, ho sbagliato tutto. Avrei dovuto essere un padre ‘clientelare’, utilizzare i miei contatti per sistemare i miei figli”. E lui mi ha detto: “E’ vero, babbo. Così se Bossi aveva il Trota, io potevo essere il tuo Merluzzo”. Scherzi a parte, credo che la situazione sia tristemente e banalmente questa: la maggioranza teme di inimicarsi chi ha – o anche potrebbe avere – il potere».

In Europa il premier che attirava sorrisini, ora diventa un fattore di stabilizzazione, benvenuto agli appuntamenti del Ppe. Come è possibile?
«In Europa la situazione è disperata: non possono rischiare altre “exit”. Anche se Renzi porta il partito di Berlusconi al governo, proveranno a digerirlo. Siamo in buona compagnia, del resto: basta pensare al premier ungherese, ben peggio di Berlusconi. Credo però che Berlusconi continuerà ad avere un peso, ma resterà defilato».

Non può neanche candidarsi!
«Dopo il fallimento del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta, bisogna essere onesti e dire che non c’è molta differenza tra le politiche neoliberiste di Berlusconi e quelle di Renzi.

Come vede le elezioni in ottobre?
«Non c’è un altro Paese come l’Italia fissato su quando e come si vota. La discussione sulla legge elettorale è stupefacente per uno straniero. Credo che Renzi voglia tornare al potere il prima possibile. Credo che non dorma la notte nel timore che il potere gli scivoli dalle mani. In politica le cose cambiano con eccezionale rapidità: Harold Wilson, un premier inglese degli Anni 60, diceva che “una settimana in politica è un tempo lunghissimo”».

la Repubblica, 29 maggio 2017

Uno è il numero del cinismo europeo. L’Italia ha bisogno di 5000 posti nell’Unione per ricollocare i minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste. Ma i paesi europei hanno accolto finora «soltanto un minore non accompagnato», scrive nero su bianco il Parlamento di Strasburgo. Così come il milite ignoto è il simbolo della ferocia della guerra, l’anonimo e unico bambino senza genitori coinvolto nel programma di accoglienza è l’emblema della mancata solidarietà della Ue, della sua disunione e della sua crisi. Uno stavolta non si riferisce al deficit, alle correzioni di bilancio ma alla stitica capacità di condivisione dei nostri partner. È il numero più significativo, un puntino scandaloso nella statistica del fenomeno migratorio e dei richiedenti asilo. L’intero piano di ricollocazione però sta fallendo. E la risoluzione approvata a larghissima maggioranza il 18 maggio dall’Europarlamento mette in chiaro le cifre di questo fallimento.

Solo l’11 per cento

Al 27 aprile erano stati ricollocati 17903 richiedenti asilo: 12490 dalla Grecia e 5920 dall’Italia. «Un dato — scrivono i promotori della mozione — che equivale ad appena l’11 per cento degli obblighi assunti». Cioè, 18410 persone su 160 mila previste.

Chi fa la propria parte
Il programma di accoglienza solidale naturalmente esclude Italia, Grecia e Germania che fanno già il possibile nella gestione del fenomeno. In quanto paesi di arrivo sono loro a dover essere aiutati nel controllo dei flussi da tutti gli altri. Ma questa solidarietà si limita a pochissimi stati. Soltanto la Finlandia e Malta rispettano gli obblighi. E la sola Finlandia lo fa «sistematicamente » per il capitolo doloroso dei “minori non accompagnati”.

Chi diserta

Praticamente tutti gli altri. Alcuni più degli altri. Ungheria e Slovacchia rifiutano la ricollocazione e hanno portato la commissione Ue davanti alla Corte europea di giustizia. Austria, Polonia e Repubblica Ceca sono fra i Paesi che fanno di meno. «Ma la maggior parte degli stati membri è ancora molto in ritardo, sebbene si siano registrati alcuni progressi».

L’Italia
Il paradosso è che nel 2016 il nostro Paese ha ricollocato più richiedenti asilo di quanti sia riuscita a dirottarne negli altri stati Ue. Lo scorso anno sono arrivati da noi 181436 persone, il 18 per cento in più rispetto al 2015. Il 14 per cento di loro erano minori. Tra i richiedenti asilo sono stati ammessi gli eritrei e 20700 sono sbarcati sulle nostre coste. In questo caso, l’Italia è indietro nella loro registrazione, necessaria a inserirli nel programma di solidarietà.

Chi fa il furbo
Alcuni stati membri utilizzano criteri restrittivi e discriminatori nel rifiutare le quote di accoglienza. Ricollocano soltanto le madri sole o escludono richiedenti di alcune nazionalità, ad esempio gli eritrei. Al 7 maggio scorso la Grecia si era vista respingere 961 persone che avevano i requisiti per essere trasferiti altrove.

L’obiettivo
Il Consiglio europeo si è impegnato a garantire il traguardo di 160 mila ricollocazioni. Siamo lontanissimi dal risultato. L’Europarlamento invita gli stati a dare la priorità ai minori non accompagnati e ad altri « richiedenti vulnerabili » . Si chiede quindi almeno di cancellare dalle statistiche lo scandaloso “ 1” che riguarda la drammatica situazione dei bambini giunti in Italia. La Grecia sta meglio di noi, almeno in questa classifica. Invece di 5000 posti, al momento ha bisogno di altri 163 “ visti” per il trasferimento di altrettanti minori.

Procedure d'infrazione
Strasburgo chiede alla commissione di partire davvero con le sanzioni. Così come scattano per i decimali di sforamento del deficit (la manovra correttiva chiesta da Bruxelles all’Italia è per l’0,2 per cento), la procedura d’infrazione adesso va avviata anche per chi non rispetta il programma sui migranti. «Se i paesi non incrementeranno rapidamente le loro ricollocazioni, i poteri della commissione vanno usati senza esitazione», si legge nella mozione. «Un largo fronte europeista chiede ora a Juncker di battere un colpo», scrive il vicepresidente dell’Europarlamento David Sassoli nel suo blog su Hufpost. Ieri a Ventotene, al festival dell’associazione “La nuova Europa”, Laura Boldrini ha detto che «l’Unione avrà un futuro solo senza muri e senza paura ». E da Malta il segretario del Pd Matteo Renzi ha invitato il Continente «a non voltarsi dall’altra parte» davanti alla spinta migratoria.

«Licenziare, ricattare e delocalizzare è indegno e incostituzionale. Il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza e rende il povero "un demeritevole", e quindi un colpevole».

il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)

L’imprenditoria buona che crea lavoro dignitoso e quella «mercenaria» preoccupata solo del profitto. Il lavoro come «riscatto sociale» ma anche come arma di «ricatto». La ferita del lavoro nero, la piaga della disoccupazione. Il falso mito della «meritocrazia» usato come «legittimazione etica della disuguaglianza». Il lavoro «cattivo» che produce armi e violenta la natura.

È stato un discorso a 360 gradi sul tema del lavoro quello che ieri – mentre a Taormina era in corso il G7 su ambiente, economia e migrazioni – papa Francesco, in visita a Genova, ha tenuto all’Ilva di Cornigliano davanti alla folla osannante di operai metalmeccanici, rispondendo alle domande di quattro persone, accuratamente selezionate sulla base del principio dell’interclassismo, pilastro della dottrina sociale della Chiesa: un imprenditore, una sindacalista, un operaio, una disoccupata.

«Non c’è buona economia senza buon imprenditore», ha detto Francesco. Ma «chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità». È uno «speculatore», un «mercenario» che «usa azienda e lavoratori per fare profitto».

«Licenziare, chiudere, spostare l’azienda (delocalizzare, ndr) non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto». E «qualche volta – ha proseguito – il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro».

Il papa ha dato ragione alla sindacalista, che ha parlato della necessità di rendere il lavoro «una forma concreta di riscatto sociale», e ha aggiunto il tema del lavoro usato come «ricatto», con un episodio che ha detto essergli stato raccontato da una ragazza a cui era stato proposto un lavoro da 10-11 ore al giorno per 800 euro al mese: «800 soltanto? 11 ore?. E lo speculatore, non era imprenditore, le ha detto: Signorina, guardi dietro di lei la coda: se non le piace, se ne vada. Questo non è riscatto ma ricatto!». Poi il «lavoro in nero», quello dei «caporali», ma anche le forme apparentemente soft: «Un’altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno: viene licenziata a giugno, e ripresa a settembre». Non c’è bisogno di andare nei campi della Puglia, basta entrare in una scuola pubblica per verificare la normalità di tale prassi.

«La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una sorgente di reddito», è assenza di «dignità». Per questo, ha detto il papa, l’obiettivo «non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti! Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». Lo afferma il primo articolo della Costituzione italiana, ha ricordato Francesco: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». E allora «togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato, è anticostituzionale».

«Competitività» e «meritocrazia», secondo il papa due «disvalori» da rimuovere. La prima perché mette i lavoratori in guerra gli uni contro gli altri («quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione»). Con la seconda, «il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza» («se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente») e rende il povero «un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa».

La visita è proseguita in cattedrale, dove ha incontrato i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose, poi i giovani al santuario della Madonna della Guardia, dove è tornato sul tema dei migranti: «È normale che il Mediterraneo sia diventato un cimitero? È normale che tanti Paesi, non l’Italia che è tanto generosa, chiudano le porte a questa gente che fugge dalla fame e dalla guerra?». Pranzo con alcuni rifugiati, senza fissa dimora e detenuti, un saluto ai degenti del Gaslini, messa a piazzale Kennedy e, in serata, rientro a Roma.

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