«Mantenere indefinitamente nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma rischia di produrre estraneità e rancore». l
a Repubblica, 18 giugno 2017 (c.m.c.)
Diritti sociali contro diritti civili: un copione che in Italia si ripete spesso, non tanto per spingere i primi quanto per bloccare i secondi. Come se i diritti civili (degli altri, naturalmente, non i propri) fossero un lusso che può essere sempre rimandato, e le difficoltà economiche o la mancanza di diritti sociali un buon alibi per non rispettare neppure quelli civili. È successo, a suo tempo, per i diritti delle donne, più recentemente per quelli delle persone omosessuali. Quando non li si negavano tout court, si diceva che dovevano aspettare, che c’erano altre priorità più urgenti.
Un po’ sorprendentemente, con una notevole dose di cinismo, hanno fatto proprio questo copione anche i Cinquestelle. Il loro aspirante futuro premier Di Maio, per spiegare perché il Movimento non voterà la legge sulla cittadinanza, ha denunciato: «È mai possibile che prima di pensare al lavoro, o a un piano per dare incentivi e sgravi alle imprese che assumono giovani, oppure a un reale sostegno per le famiglie monoreddito con figli a carico, il Pd pensi a far approvare lo ius soli?».
Non sarò certo io a negare che in questo paese manca un sostegno adeguato al costo dei figli e che politiche del lavoro che si limitano al lato dell’offerta non vanno molto lontano. Ma non vedo come questo possa essere contrapposto al diritto di chi nasce e cresce nel nostro paese, sentendosene parte e seguendo le sue leggi, di esserne riconosciuto pienamente come cittadino, se lo desidera, senza essere costretto in un limbo che di fatto lo riduce ad uno status di apolide: perché non è cittadino italiano, ma neppure di fatto del paese da cui provengono i suoi genitori e dove, se questi sono rifugiati, spesso non può neppure andare.
Negando l’importanza di questo riconoscimento, un movimento che si riempie la bocca della parola “cittadinanza” e “cittadini” non sembra davvero aver compreso in che cosa consiste l’essere cittadino: non il sangue, o il colore della pelle, e neppure la nazionalità dei propri genitori, ma l’identificazione con una collettività, incluso l’accesso ai diritti e doveri che ne derivano, così da maturare la disponibilità a partecipare alla formazione del bene comune.
Negare questo accesso, mantenendo indefinitamente sulla soglia e nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma miope, perché rischia di produrre quel senso di estraneità e di rancore che può sfociare in fenomeni estremi di disidentificazione con la nostra società. Per altro, la legge in discussione, niente affatto affrettata come suggerisce da parte sua Alfano, desideroso anch’egli di defilarsi, stante che se ne sta discutendo da anni e da due anni è già passata al vaglio della Camera, configura uno Ius soli molto temperato.
Richiede che almeno uno dei genitori abbia ottenuto il permesso di lungo soggiorno, quindi abbia risieduto regolarmente in Italia per almeno cinque anni, o, in alternativa, che il bambino o ragazzo (nato qui o arrivato entro i dodici anni) abbia completato almeno un ciclo di studi quinquennale. Non vi è nessun rischio di incentivare arrivi di massa di donne incinte, o pronte a diventarlo, che trasformeranno l’Italia in un enorme reparto di maternità, come ha evocato qualcuno. Il percorso verso la cittadinanza continua ad essere impegnativo.
Anche l’altra obiezione di Di Maio — che la questione della cittadinanza deve essere affrontata a livello europeo — appare strumentale, oltre che paradossale in bocca ad un cinquestelle che di solito condanna gli interventi della Ue come attacchi alla sovranità. Non si capisce perché l’Italia debba demandare alla Ue di regolare l’accesso alla cittadinanza italiana, visto che finora tutti gli altri paesi, anche quando hanno modificato le proprie norme negli ultimi anni, non lo hanno fatto.
Quindi coloro che sono diventati cittadini tedeschi o irlandesi o francesi con regole diverse dalle nostre, in quanto cittadini europei possono circolare liberamente, venendo anche in Italia. Cominciamo a definire le nostre regole e poi impegniamoci pure a verificare l’opportunità di una armonizzazione a livello Ue. Ma non usiamo questa scusa per rimanere fermi e negare la cittadinanza a chi cresce, gioca, studia quotidianamente fianco a fianco con i nostri figli e nipoti, condividendone abitudini, interessi, desideri, aspirazioni.
Il paese nel quale vive papa Francesco è certamente un osservatorio privilegiato per chi vuolcolpire un vizio, morale e sociale, che avvelena gran parte de mondo, soprattutto nel suo strato più alto: quello dei potenti
. il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2017
Oggi le mafie – e le chiamo al plurale – sono ovunque e ovunque la Chiesa deve cacciare i mafiosi”, sostiene monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, diocesi di Palermo che comprende Corleone. Anche Pennisi, prete siciliano e antimafia, era al seminario del Vaticano, organizzato giovedì dal dicastero per lo Sviluppo umano integrale con il compito di reperire uno strumento per scomunicare corrotti e mafiosi. Ovunque, come ripete Pennisi. E non soltanto in Sicilia o in Calabria o in Campania.
All’incontro c’erano magistrati, poliziotti, i vertici delle Conferenze episcopali italiane, messicane, sudamericane, dell’est Europa, il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone e il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. “Papa Francesco è sempre vigile su questi temi”, ricorda Pennisi. Jorge Mario Bergoglio, due anni fa in visita in Calabria, riprese l’appello di Giovanni Paolo II: “A quanti hanno scelto la via del male e sono affiliati a organizzazioni malavitose rinnovo il pressante invito alla conversione”. Non solo: “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con dio: sono scomunicati”. E ai parlamentari, accorsi in udienza in Vaticano, dopo il primo anno di pontificato, disse severo: “I peccatori saranno perdonati, i corrotti no”.
Non sarà automatico tradurre l’intenzione di scomunicare i mafiosi e i corrotti in un decreto “universale”, che possa valere in Italia e in Messico e nel mondo. Il Vaticano dovrà determinare dei criteri, le conferenze episcopali intervenire. Il cardinale Peter Turkson, prefetto del dicastero per lo Sviluppo umano integrale, ha istituto un gruppo di lavoro: “Abbiamo pensato l’evento per far fronte a un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona. Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone. Quindi spetta a noi saper proteggere e promuovere il rispetto per la dignità della persona. E per questo cerchiamo di attirare l’attenzione su questo argomento”. Con la scomunica il fedele viene allontanato dalla comunità religiosa e viene escluso dai sacramenti. Per i mafiosi è un’onta: “Professare la religione, esibirla, ha un’importanza sociale per loro. Serve al consenso. E i familiari, per esempio, non accettano che gli sia negato un funerale solenne in Chiesa”, afferma Pennisi. E poi c’è la corruzione: “Ha ragione Cantone: va trovata una definizione comune di questo tipo gravissimo di reato. Perché il corrotto è un peccatore che trae un’utilità da un gesto volontario. E spesso se ne vanta”.
Per monsignor Silvano Tomasi, per un decennio alle Nazioni Unite per il Vaticano, già parlare di lotta alla corruzione è un risultato: “Il nostro obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica, identificare passi concreti che possano aiutare ad arrivare a delle politiche e leggi eventualmente che prevengano la corruzione, perché la corruzione è come un tarlo che si infiltra nei processi di sviluppo per i Paesi poveri o nei Paesi ricchi, che rovina le relazioni tra istituzioni e tra persone”.
Vergognoso mettere in relazione la mancanza di lavoro qualificato in Italia che costringe tanti nostri giovani talenti ad emigrare con l'opposizione alle grandi opere, che hanno prodotto, questo si, un sistema diffuso di illegalità, corruzione, tangenti, con benefici immensi per pochi.
Corriere della Sera, 17 Giugno 2017 (m.p.r.)
Non occorreva la sua immagine, sarebbe bastata la drammatica conversazione tra Gloria e la madre. Ma è inevitabile osservare che i nostri nonni emigrati all’estero erano piccoli, scuri, malnutriti, spaventati; al punto che i funzionari razzisti del Bureau of Immigration si interrogarono se gli italiani andassero considerati «di razza bianca».
Seconda osservazione: sono laureati. Spinti dalla giusta ambizione più che dal bisogno. Avanguardia dei disoccupati intellettuali, che sono la grande piaga dell’Italia di oggi: un Paese che di laureati ne ha meno degli altri in Europa, ma non riesce a trovargli un lavoro; anche perché investe troppo poco in cultura, istruzione, ricerca.
Terza cosa: sono veneti. Vengono dalla regione che in questi anni è cresciuta di più. Da cui un tempo si partiva per sfuggire alla fame, in particolare verso il Sud America: odissee raccontate molte volte da Gian Antonio Stella su questo giornale. Una regione divenuta ora la più ricca d’Italia, ma che non riesce sempre a valorizzare le eccellenze che crea. Veniva dal Veneto anche Valeria Solesin, l’unica vittima italiana della strage del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015). Valeria e Gloria erano più o meno coetanee. Avevano frequentato gli stessi luoghi, fatto le stesse vacanze, visto gli stessi film, letto gli stessi libri, ascoltato le stesse canzoni. Come ha detto la signora Luciana, madre di Valeria: «Nostra figlia è stata uccisa dai terroristi; ma i genitori che perdono i figli in un incidente non soffrono meno».
Gloria e Valeria sono le rappresentanti di una generazione con cui l’Italia è stata avara di opportunità. Ma loro non hanno piagnucolato. Si sono messe in gioco. Sono andate all’estero, hanno imparato una lingua straniera. Avevano trovato un lavoro. Valeria abitava con il fidanzato Andrea in un monolocale di 14 metri quadrati in rue César Franck, vicino alla Tour Eiffel: se lei studiava, lui doveva andare a letto o sotto la doccia. Gloria e il suo fidanzato Marco avevano trovato un piccolo appartamento al ventitreesimo piano di una torre a North Kensington, affacciata su Notting Hill, costruita per i poveri e ristrutturata per farla sembrare un posto da ricchi. Era molto bella la foto su Facebook , con le due sedie da regista vuote e la finestra spalancata sullo skyline della Londra notturna: il sogno di tanti nostri ragazzi. Non è forse lo stesso quartiere dove abita l’ex premier laureato a Eton? Dove c’era la libreria del film con Hugh Grant, il commesso che si innamora ricambiato della grande attrice, Julia Roberts? Del sistema antincendio, però, nessuno si era occupato.
La morte di un figlio è sempre un evento ingiusto. Nessuno può sindacare il modo in cui reagisce un genitore. Quasi sempre i genitori italiani se la prendono con lo Stato. Così ha fatto il padre di Gloria. E in effetti è difficile riconciliarsi con uno Stato che al primo articolo della Costituzione riconosce il diritto al lavoro, e non lo rende effettivo neanche per chi si è laureato a pieni voti; a meno che non si accontenti di 300 euro al mese. Uno Stato che spreca risorse nel modo scandaloso che tutti sanno. È più difficile e impopolare, ma è intellettualmente onesto e quindi necessario, aggiungere che a forza di no — no all’alta velocità, no alla Pedemontana, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere; c’è chi diceva no pure all’Expo, e meno male che si è fatto lo stesso — è arduo che ci possa essere lavoro in Italia per gli architetti, vista la crisi in cui langue da anni l’edilizia. Londra invece è una città in cui si costruisce moltissimo: solo allo Shard di Renzo Piano hanno lavorato 1.500 tra operai e tecnici, venuti da quaranta Paesi diversi, tutti con gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero o cassintegrati che si scontrano con la polizia. Però nello Shard vivono i miliardari. Nella Torre di Notting Hill vivevano gli ultimi arrivati.
La maledizione di Londra è il fuoco. La nostra è sentirci una grande nazione, ma non un grande Paese. Un luogo dove nascono cose destinate a dare frutto altrove, dalle scoperte geografiche a quelle scientifiche, dalla medicina alla tecnologia. Quante volte ci è accaduto all’estero di trovare in ospedale o in cantiere un primario o un ingegnere italiano, e sentire un misto di orgoglio e di scoramento: perché formiamo con il denaro pubblico eccellenze o anche solo bravi professionisti, che vanno a dare il meglio di sé da altre parti. E il mondo globale è propizio alla terra delle cose buone e delle cose belle, ma le impone di saper fare sistema: uno Stato che funziona, le infrastrutture, i servizi, la capacità di fare rete, il talento di mettere l’interesse generale davanti a quello particolare. Proprio l’unico talento che a noi manca.
Per il resto, rimaniamo italiani sino in fondo, sino all’ultimo, anche in terra straniera. Così Gloria non ha chiamato i pompieri o gli amici a Londra. Non ha telefonato al consolato o all’ambasciata. Nel momento estremo, ha chiamato la mamma. Per tranquillizzarla, all’inizio. Per cercare conforto, verso la fine. Per confortarla, nel momento estremo. Perché qualcosa della nostra cultura cristiana e umanista ce lo portiamo dentro tutti, visto che con le sue ultime, meravigliose parole Gloria ha promesso alla madre che l’avrebbe aiutata dal cielo. Se davvero esistono le forze dello spirito, Gloria ci avrà già perdonati. Ma questo non ci assolve dalla responsabilità collettiva che una morte come la sua getta addosso a ognuno di noi.
«In una società diseguale come la nostra, un pensiero di sinistra, una forza di sinistra non può che lottare contro una politica che regala diseguaglianze (mai viste così profonde nel secolo scorso nei paesi europei), come fossero eventi naturali.
il manifesto, 17 giugno 2017
Oggi in piazza San Giovanni ci saranno i dimenticati in carne e ossa, italiani e immigrati, lavoratori condannati alla precarietà, disoccupati, giovani che un lavoro non lo hanno mai visto. Sono una parte del nostro mondo, le loro battaglie fanno parte delle nostre radici.
Nello sfascio generale dei partiti, la Cgil resta un’organizzazione con una storia, un seguito di massa e un programma alternativo disegnato con il nuovo statuto dei diritti dei lavori insieme alle proposte di un’altra politica economica contro la crisi. Ieri impegnata nel referendum in difesa della Costituzione, oggi la Cgil è all’attacco sull’ultima vergogna del governo Renzi-Gentiloni che prima ha gambizzato il referendum contro i voucher, poi ha inserito la nuova normativa nel pacchetto della manovrina economica imposta con la novantreesima fiducia.
Se quel referendum fosse stato celebrato, gli italiani non si sarebbero astenuti e sarebbe stato un voto sulle condizioni sociali del lavoro, un voto tutto politico.
Susanna Camusso e Maurizio Landini, i leader sindacali di piazza San Giovanni, potrebbero ben essere i volti del partito laburista italiano. I due sindacalisti hanno nulla da invidiare ai Corbyn, ai Sanders, agli Igliesias, agli Tsipras. Sarebbero le persone giuste al posto giusto per un partito con la testa a una nuova programmazione economica europea e con il cuore tra le periferie sociali che nessuno ascolta più, salvo mettersi sui giornali a interpretarle dopo i risultati elettorali.
Piazze come quella di oggi riassumono le idee, nonostante la crisi abbia coinvolto tutti, Cgil compresa, di una forza di lotta e di governo, come tutta la variopinta galassia che si muove a sinistra del Pd ripete ogni giorno di voler diventare.
E, a proposito del Pd, non sarà secondario osservare che il suo segretario, con il jobs act e i voucher, a piazza San Giovanni non sarebbe bene accolto. Lui sta su un altro pianeta, esprime una cultura del lavoro e dell’impresa che con la sinistra non si intende.
La piazza e la leadership piddina rappresentano due mondi diversi. E non è ben chiaro come potrebbero, questi due mondi, ritrovarsi domani alleati in un centrosinistra di governo. Prima di arrampicarsi sugli specchi delle future alleanze, bisognerebbe rispondere a questa semplice domanda: che partito di sinistra è quello che vedrebbe oggi espulso dalla piazza del lavoro il suo leader?
Un’altra visione del lavoro e in sostanza dell’identità politica di un partito che vive di illusioni ottiche. Andrebbe smontata, per esempio, quella che mostra in bella evidenza le battaglie per i diritti civili come il necessario e sufficiente marchio di fabbrica di una moderna sinistra doc. Necessario non c’è dubbio, ma non sufficiente.
Si può essere liberali, di destra e a favore dei diritti civili, viceversa non si può essere liberali o di destra e battersi per i diritti che i lavoratori portano oggi in piazza. A cominciare dal ripristino dell’articolo 18, sostituito con il marketing politico del contratto a tutele crescenti. Quanti sinceri liberal democratici di destra sono per l’articolo 18? E quanti sono contro la vergogna dei voucher e di tutti gli altri strumenti di flessibilità che schiacciano il lavoratore al rango di merce sul mercato?
Destra e sinistra esistono ancora, basta volerle vedere. Per questo oggi il Pd di Renzi, paladino dei diritti civili (ma sempre con moderazione: unioni civili sì ma stepchild-adoption no; ius soli sì ma temperato…) e inflessibile avversario dei diritti del lavoro, è un partito che ha cambiato la sua natura. Per questo sembra fantascienza solo immaginare la sua presenza tra i lavoratori di piazza San Giovanni.
Paradossale ma non troppo, la storica piazza romana, viceversa, accoglierebbe benvolentieri papa Francesco, specialmente dopo il suo discorso all’Ilva di Genova. Dove il papa ha espresso un pensiero avanzato sul lavoro ma non solo. Il suo giudizio sulla bandiera renziana del “merito” è una lucida analisi sulla mistificazione di chi la sventola come principio di uguaglianza quando è vero che il “merito”, al contrario, esclude i più svantaggiati, colpevolizza chi viene respinto perché emarginato da ogni competizione che non ristabilisca l’uguaglianza dei punti di partenza.
In una società diseguale come la nostra, un pensiero di sinistra, una forza di sinistra non può che lottare contro una politica che regala diseguaglianze (mai viste così profonde nel secolo scorso nei paesi europei), come fossero eventi naturali e non frutti avvelenati di un’economia capitalistica globale, brutale e arida che desertifica le nostre società come la siccità che sta desertificando il pianeta.
il manifesto, 17 giugno 2017
I paradossi scandiscono da sempre la produzione teorica di Slavoj Zizek. È in base al loro uso smodato che il filosofo sloveno occupa da anni il centro della scena pubblica. È in base ad essi che si è gettato a testa bassa contro le ipocrisie, le contraddizioni della produzione culturale mainstream. Lo ha fatto nel denunciare l’apparente ragionevolezza del politicamente corretto o la tesi sull’attuale sistema di vita come imperfetto, ma che è senza alternative. Zizek ha mostrato e dimostrato che la tolleranza, il rispetto delle minoranze, il diritto alla diversità sono spesso le sbarre che definiscono i confini di un vivere sociale dove sono stigmatizzati gli antagonismi sociali. Per far questo ha attinto a piene mani nella fantascienza, nella musica rock, nelle serie televisive, individuando nella cultura pop il contesto obbligato per decostruire il pensiero dominante. Spesso però i paradossi e le iperboli di Zizek offuscavano il lavoro teorico che vi era alla loro base. Alla fine i paradossi e le iperboli scivolavano via come sabbia. E nulla rimaneva nelle mani del lettore.
Il libro che Ponte alle Grazie, la casa editrice che ha pubblicato gran parte della torrentizia produzione di Zizek, ha mandato alle stampe Il coraggio della disperazione (pp. 412, euro 20), una raccolta di scritti a commento dell’ultimo biennio, scegliendo un registro diverso, a tratti antitetico a quello del passato. Più che fare sfoggio di brillanti paradossi e iperboli, Zizek si propone di fare i conti con i paradossi presenti nelle opere di autori conservatori (Peter Sloderdijk), liberal (Paul Krugman e Joseph Stiglitz) e della cosiddetta «sinistra radicale» che invita a declinare il populismo in senso progressista, perché solo così si riuscirebbe a parlare alla «gente» e al «popolo».
I temi dai quali prende spunto Zizek sono la crescita dei partiti xenofobi in Europa, la crisi dell’Unione europea, la Brexit, l’esperienza politica di Syriza in Grecia, quella di Podemos in Spagna, la novità politica costituita dalle figure politiche di Bernie Sanders e Jeremy Corbin, il politicamente corretto del femminismo statunitense mainstream, la politicizzazione della religione islamica e protestante, il relativismo culturale. Infine, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Temi dunque legati alla contingenza, perché solo dalla contingenza, afferma l’autore, parafrasando una tesi di Alain Badiou, è possibile fare filosofia.
Il prologo è programmatico. Viviamo in tempi disperati, afferma Zizek, perché non possiamo immaginare nessuna credibile alternativa al capitalismo globale. Risibili sono le proposte di una dolce decrescita o sulla diffusione virale di cooperative sociali e produttive non mercantili. Velleitario è anche il richiamo a fantasmatiche fuoriuscite dal capitalismo fondate su modi di produzioni locali o autoctoni. Sono tutte esperienze che rafforzano il capitalismo, sentenzia Zizek. Giudizio impietoso. E talvolta errato quando affronta il mutuo soccorso o la cooperazione sociale autorganizzata cresciuta in questa ultima decade. I loro limiti, semmai, non vanno cercati nell’incapacità di sviluppare antagonismo, bensì nella visione semplicistica del Politico e dei rapporti sociali di produzione che veicolano.
In ogni caso, vanno proprio nella direzione auspicata da Zizek. Consentono cioè di guadagnare tempo, mantenere aperta la possibilità di sovvertire lo status quo. Sono infatti istituzioni di contropotere aperte a una sperimentazione propedeutica all’accumulo di potenza politica da usare quando le condizioni la richiedono. Più o meno, come Zizek auspicava nel 2015 alla Grecia di Syriza.
Da Slavoj Zizek ci si aspetterebbe un j’accuse contro il «tradimento» di Alexis Tsipras e del suo governo rispetto il referendum vittorioso che chiedeva di non accettare il ditkat della Troika europea. Invece nessun dito puntato, Syriza non aveva alternativa, chiosa Zizek.
L’errore che ha compiuto questo governo di sinistra sta nel non aver immaginato una politica dei due tempi: accettare l’austerity e lavorare ad allargare i margini di iniziativa politica e sociale a favore di operai, impiegati, disoccupati, pensionati. L’austerity, sostiene Zizek, doveva essere usata come leva per modernizzare la struttura statale e come ariete contro l’oligarchia. Bisognava cioè salvare il capitalismo da se stesso per poi immaginare un suo superamento, evocando un celebre passo di un saggio del «marxista irregolare» Yanis Varoufakis, in queste pagine dipinto come l’unico esponente politico lucido sulla portata del braccio di ferro tra la Grecia e l’Unione europea.
In Grecia la posta in gioco era quella di pensare a come gestire il potere in una condizione sfavorevole, avversa, ricomponendo il nesso tra modernizzazione e lotta di classe. Non c’è rivoluzione se non c’è modernizzazione, sentenzia il filosofo sloveno. La matassa da sbrogliare è quindi sempre quella che solo la Rivoluzione di Ottobre e la vittoria dell’armata rossa in Cina nel 1949 erano riuscite a dipanare. Come governare un paese in una situazione di rapporti di forza sfavorevoli?
Il primo paradosso che va interrogato è dato quindi dal proposito di salvare il capitalismo da se stesso e al contempo immaginare un suo superamento. Ma i paradossi, oltre che interrogati vanno smontati, destrutturati per evidenziare le trappole e gli esiti conservativi dello status quo che contengono. La disperazione può, sì, dare la buona dose di adrenalina teorica, ma poi occorre passare a un più prosaico e niente affatto disperato momento costruttivo, aperto all’impossibile ma ancorato ai rapporti sociali. Ogni momento «destituente» è infatti effimero se non presente al tempo stesso il carattere costituente che l’antagonismo prefigura. Per Zizek l’antagonismo è un misteriosofico «uno che si divide in due», citando nuovamente la frase ad effetto che Alain Baidiou ha usato per immaginare una «politica comunista».
L’encomiabile tentativo si interrogare i paradossi del reale oscura per le sue ambivalenze. Sono queste che vanno quindi interpellate, sciolte, come nel caso del populismo di sinistra. Zizek svolge una critica pungente al concetto di gente – «la gente non esiste», scrive a ragione Zizek – e al concetto di popolo, unità indistinta ed espressione di un’astrazione tesa a legittimare un sovrano o un parlamento che dovrebbero rappresentarli. Ma quando si trova vis-à-vis con i rapporti sociali di produzione e le soggettività che agiscono in essi, si ritrae per incamminarsi su strade note.
Il populismo è dunque visto, a ragione, come un dispositivo politico che risponde alla marxiana falsa coscienza. Non esiste, infatti, il popolo come unità organica, definita da un territorio e dei confini. Il populismo si costruisce a partire da un Altro da sé, da un esterno che nel capitalismo globale non è lo «straniero», bensì la casta, l’oligarchia, che parassitariamente si appropriano della ricchezza prodotta e che si fanno forti del loro essere senza patria. È il vecchio e mai tramontato «socialismo degli imbecilli», anticamera del fascismo e del nazismo.
A sinistra, invece, i balbettii sulla possibilità di usare il frame populista sono mimetici. Il popolo è un aggregato di operai, disoccupati, precari, ceto medio impoverito, espressioni di interessi sociali e culturali parziali che una sintesi superiore ricomporrà. Da qui la nostalgia della forma politica del partito che ha il potere di ricomporre al suo interno le parzialità in base proprio a una sintesi superiore esterna al popolo. Un miraggio, per Zizek.
Qui la consultazione dei paradossi però si arresta. Zizek richiama la moltitudine in quanto categoria del Politico; ne sottolinea la forza performativa, ma poi scantona perché vi vede tracce di un vitalismo – la potenza del fare, lo «strutturalismo delle passioni» – che l’antropologia filosofia «pessimista» che scandisce il libro avversa, perché considerata, chissà perché, anticamera di una adesione allo status quo. Per Zizek è infatti la disperazione il sentimento che consente di pensare l’impossibile – la rivoluzione, forse -, non la potenza del desiderio o del comune riscoperto come ripetono alcuni teorici marxisti o alcune filosofe femministe (Zizek cita Judith Butler e Frédéric Lordon). Più che la disperazione, viene il sospetto, il coraggio giunge però da quell’esercizio di un ottimismo della ragione, che scommette sull’impossibile intravisto proprio in quelle esperienze di autorganizzazione sociali senza le quali non sarebbe immaginabile pensare l’impossibile.
«E’ ora di dichiarare in cosa crediamo, di unirsi e dimostrare che cambiare si può». il manifesto,
17 giugno 2017 (c.m.c)
Facciamo una scommessa? Attorno a un programma di rottura, ambizioso e convincente, è possibile creare unità e coinvolgere milioni di persone in un progetto di radicale rinnovamento del nostro Paese e del nostro continente. Basta alzare lo sguardo. Dinnanzi alla grandezza delle sfide che ci confrontano la piccolezza della politica che ci governa suona una triste, stridente nota di rinuncia.
Stride il rifiuto delle
élite di governo di accettare la necessità di un profondo mutamento di un sistema palesemente ingiusto. Stride lo spettacolo di una sinistra divisa. Stride un dibattito politico totalmente avulso dalla realtà, un teatrino di personalità narcise e ignoranti, una savana in cui sciacalli si avventano per una manciata di voti sui corpi di chi muore in mare.
E tutto ciò stride ancora di più perché ci troviamo nel mezzo di una grande trasformazione che nessuno pare interessato a governare. Il mondo di oggi è già quello che Stefan Zweig chiamava il mondo di ieri. Le contrazioni del futuro sono sotto gli occhi di tutti. A livello economico: stagnazione, picco delle ineguaglianze, scomparsa della classe media.
A livello produttivo: automazione, crisi ecologica, digitalizzazione. A livello politico: crisi della globalizzazione, crisi dell’Unione europea, migrazioni di massa. Abbiamo bisogno di un manifesto di rottura con un passato che non deve e non può più tornare. Ci servono parole chiare sulla ridistribuzione della ricchezza.
Perché se 8 uomini cumulano un patrimonio pari a quello della metà più povera del mondo, questo non è solamente uno scandalo morale, ma anche un incredibile ostacolo allo sviluppo, come perfino il Fondo Monetario Internazionale arriva ad ammettere. Tassazione progressiva, patrimoniale intelligente e tassa sulle grandi successioni sono politiche giuste quanto necessarie a rimettere in moto l’economia.
Parole chiare sull’evasione fiscale. Perché se le multinazionali cumulano miliardi di profitti grazie all’elusione permessa dal sistema dei paradisi fiscali questo rappresenta un’ipoteca sul futuro di milioni di persone e un’illegalità paragonabile a quella dei grandi trust criminali contro cui si scagliavano i versi di Bertolt Brecht. E’ scandaloso vedere i capi di stato europei accanirsi su un decimale di deficit di bilancio mentre sono proprio i Paesi considerati più virtuosi – quali l’Olanda, dove la finanziaria degli Agnelli ha trasferito la propria sede – a permettere l’emorragia fiscale che aumenta quel deficit.
Sul futuro del lavoro. Il reddito di cittadinanza è una misura ovvia, tra l’altro presente nella maggior parte dei Paesi a capitalismo avanzato. Ma bisogna andare oltre. Perché era il 1930 quando Keynes predisse per i suoi nipoti – che saremmo noi – una settimana lavorativa di 15 ore. E oggi si sta scoprendo che ridistribuire il lavoro farebbe crescere occupazione e produttività e diminuire inquinamento e ineguaglianze. E restituirebbe tempo libero alle persone. Perché si lavora per vivere, e si vive per essere liberi. E’ l’ora della settimana corta, incentivata da sgravi fiscali e diritto al part-time.
Sulle migrazioni. Perché non basterà il coraggio e l’umanità di chi salva donne e uomini in mare se non saremo in grado di governare un sistema di migrazione legale, circolare, che razionalizzi una richiesta di mobilità che non andrà a cessare. Servono canali sicuri che permettano l’ottenimento di un visto per la ricerca di lavoro nei Paesi di origine e un accesso semplificato alla cittadinanza.
Sulla democrazia europea. Perché non reggerà un’Unione incentrata sulla paura, sul ricatto e sullo schiacciamento dei diritti. Non reggerà un’Unione imperniata su un ottuso metodo intergovernativo in cui 27 capi di stato, i primi responsabili delle politiche nefaste di questi anni, gettano il sasso e nascondono la mano. Ma senza Europa unita e democratica saremo staterelli alla deriva in balia del potente di turno, dei muscoli di Putin e dei tweet di Trump.
Il cantiere europeo va riaperto. O non resteranno che macerie. E per farlo bisogna costruire una grande alleanza europea come non siamo stati in grado di fare durante la primavera calda di Atene. E poi sulla trasformazione del nostro sistema produttivo, perché il susseguirsi di crisi quotidiane non può farci dimenticare la grande crisi ecologica che ci attende.
Sul capitalismo monopolistico che va delineandosi nella Silicon Valley. Sull’automazione e sulla condivisione dei profitti derivanti dalla rivoluzione delle macchine. Sulla centralità dell’istruzione e della ricerca, per fermare la competizione al ribasso del lavoro. In breve: sulle grandi questioni necessarie a ridefinire un sistema in stallo fra trasformazione e implosione. Non sono questi tempi per il piccolo cabotaggio.
Il 18 giugno, in seguito all’appello di Montanari e Falcone, ci incontreremo a Roma. Con il movimento europeo DiEM25 abbiamo già dato la nostra adesione – convinti che non si possa cambiare questa Europa senza partire anche dall’Italia. Il primo luglio è stato invece Giuliano Pisapia a chiamare una piazza romana. Per avere successo partiamo dalle politiche e non dai nomi.
Partiamo da dieci punti attorno ai quali costruire uno spazio nuovo in cui confluiscano tutte le persone, le associazioni e i partiti che credono a questo obiettivo. Perché non sono le idee a dividerci. Non è più il tempo dei posizionamenti. E’ ora di dichiarare in cosa crediamo, di unirsi e dimostrare che cambiare si può. Perché ci giochiamo il futuro. E non è più consentito sbagliare.
«Storia antica e complessa, ma mai invecchiata, se è vero che ritorna puntualmente a galla quando ci si pone la questione di chi sono i nostri concittadini».
la Repubblica, 17 giugno 2017 (c.m.c.)
Vi è nell’idea dello Ius soli una ragione così umana e fondamentale della quale ci sfugge la portata se prestiamo attenzione alle cronache parlamentari: l’idea che la condizione di tutti noi su questa terra sia quella di ospiti e viaggiatori, più o meno nomadi o stanziali, più o meno accasati da qualche parte o pendolari. Chi più chi meno, tutti abbiamo radici trasportabili (e che molto spesso trasportiamo per davvero), e siamo nati per caso qui o là. E questo la dice lunga sulle roboanti s-ragioni della destra, leghista o pentastellata che sia. Pochi riflettono sul fatto che giustificare democraticamente, o addirittura con l’appello ai diritti umani, i confini degli Stati, è molto complicato, anzi impossibile — chi ci ha provato è caduto in tante aporie che ha dovuto alla fine riconoscere che di Stati c’è bisogno; che sono una fatticità impossibile da ignorare; che, insomma, i confini rispondono a ragioni di prudenza.
Insoddisfatti di queste ragioni storiche, alcuni filosofi hanno cercato a partire dall’Ottocento di dare ragioni più spesse, e perfino natuali o congenite alle culture nazionali — gli Stati sono allora diventati etici, o perché resi essi stessi un valore primario (che veniva prima dei sudditi che contenevano) o perché al servizio di un valore ritenuto ancora più alto, la nazione. E da quel momento, da quando queste idee sono state propaganda elettorale, una divisione nuova è emersa nelle dispute ideali e politiche: fra posizioni che riprendevano le radici universalistiche, religiose o secolari, e posizioni nazionalistiche. Insomma, destra e sinistra, si sono da quel momento misurate anche in ragione della posizione di fronte alla priorità della persona o invece delle appartenenze nazionali. Storia antica e complessa, ma mai invecchiata, se è vero che ritorna puntualmente a galla quando ci si pone la questione di chi sono i nostri concittadini, e che cosa fa di un residente che paga le tasse e parla la nostra lingua, un cittadino italiano a tutti gli effetti.
L’Italia ha un rapporto a dir poco difficile e strabico con il “diventare” cittadini, visto che ha una legge (che porta il nome di un ex-fascista, Mirko Tremaglia) che riconosce il diritto di voto a italiani di razza, a figli di bisnonni italiani, anche se mai vissuti in Italia. Quanti sono gli elettori italiani sparsi per il mondo che a malapena sanno pronunciare parole italiane, eppure hanno il diritto di decidere sulle questioni pubbliche di chi vive, lavora e paga le tasse qui, in Italia? Sono tanti, e sono un problema serio per chi sostiene le ragioni dello Ius soli. Il diritto del suffragio che fa perno sul diritto del sangue è un problema.
Si potrebbe almeno desiderare che con quella passione (a giudizio di chi scrive mal posta) con la quale si è difesa la causa del voto agli italiani all’estero, si difenda oggi la causa della cittadinanza riconosciuta a chi è nato nel nostro paese, da genitori non italiani (e con almeno uno dei due residente in Italia) e a chi, pur non essendo nato qui, ha frequentato la scuola in Italia per almeno 5 anni. Questa è una legge minima (moderata) e giusta.
Anche per una ragione sulla quale vale la pena riflettere un poco: che i popoli delle democrazie non sono come famiglie che gestiscono l’appartenenza secondo criteri affettivi, o semi-natuali, appellandosi magari a legami ancestrali, dei quali nessuno può con cognizione di causa parlare con certezza, dire dove finiscono, dove cominciano e in che cosa consistono.
I popoli delle democrazie, quelle moderne soprattutto, sono composti di persone che sono straniere tra loro e che, proprio per questo, si danno leggi basate sul principio del rispetto e dell’eguaglianza di considerazione. Si riconoscono in tal modo come non appartenenti a nessun “ceppo” natuale, simil-famigliare (o familistico) — è questa la base universalistica per la quale abbiamo ragione di pensare che le democrazie siano governi buoni; imperfetti per tante ragioni, hanno dalla loro il fatto che ci rendono davvero difficile giustificare le esclusioni, anche quando proviamo a scomodare ragioni etiche o sentimentali. Questa difficoltà è quel che ci salva dall’essere tentati, in casi di crisi economica o di follia nazionalistica, di pensare che escludere sia giusto e buono; che essere parte del demos sia un privilegio che passa per ragioni non decidibili, come il colore della pelle o l’essere nato in una parte specifica di mondo, per caso.
La paradossale riflessione del filosofo sloveno su un comportamento dell sinistra nei confronti delle migrazioni. «Dovremmo chiederci se essere politicamente corretti sia davvero qualcosa che appartiene alla sinistra: non si tratta invece di una strategia di difesa contro le istanze della sinistra radicale?».
il Fatto quotidiano, 16 giugno 2017
Se qui in Occidente volessimo davvero sconfiggere il razzismo, il primo passo sarebbe farla finire con questo processo politicamente corretto di auto-colpevolizzazione. Anche se le critiche di Pascal Bruckner (uno scrittore francese, tra i nouveaux philosophes, ndr) agli approcci della sinistra di oggi spesso sfiorano il ridicolo, questo non gli impedisce di fare qualche analisi utile: non si può che essere d’accordo con lui quando identifica nella auto-flagellazione politicamente corretta dell’Europa il rovescio di una rivendicazione di superiorità.
Ogni volta che l’Occidente viene attaccato, la sua prima reazione non è una difesa aggressiva ma colpevolizzarsi: cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo? In ultima analisi, la colpa di ogni male è soltanto nostra, per le catastrofi del Terzo mondo e la violenza dei terroristi è soltanto una reazione ai nostri crimini… la forma positiva del “fardello dell’uomo bianco” (la responsabilità di colonizzare i barbari) viene rimpiazzata dalla sua versione negativa (la colpa dell’uomo bianco): se non possiamo più essere i dominatori benevoli del Terzo mondo, possiamo almeno essere la fonte privilegiata dei suoi mali, privandoli con paternalismo di ogni responsabilità riguardo al loro destino (se un Paese del Terzo mondo si macchia di terribili crimini, non è mai pienamente sua responsabilità: sta soltanto imitando quello che faceva il padrone coloniale ecc.).
La logica del politicamente corretto attiva quei meccanismi che possiamo chiamare di “sensibilità delegata”, spesso secondo questa linea di argomentazione: “Io sono un duro, non mi urtano i discorsi sessisti o razzisti o di odio, o chi si prende gioco delle minoranze, ma io parlo a nome di quelli che potrebbero essere offesi da quelle parole”. Il punto di vista è quindi quello di questi “altri” che, viene dato per scontato, sono così ingenui e indifesi da aver bisogno di protezione perché non capiscono l’ironia o non sono in condizione di rispondere agli attacchi. Deleghiamo l’esperienza passiva di una sensibilità da pastore su un “altro” ingenuo, producendo così una sua infantilizzazione. Per questo dovremmo chiederci se essere politicamente corretti sia davvero qualcosa che appartiene alla sinistra: non si tratta invece di una strategia di difesa contro le istanze della sinistra radicale? Di un modo per neutralizzare l’antagonismo invece che affrontarlo in modo esplicito? Molti degli oppressi percepiscono chiaramente come la strategia del politicamente corretto aggiunga insulti alle ingiurie: mentre l’oppressione rimane, loro – gli oppressi – devono anche ringraziare per come i liberal li proteggono…
Uno dei sottoprodotti più sgradevoli della ondata di rifugiati che è arrivata in Europa nell’inverno 2015-2016 è stata l’esplosione dell’indignazione moralista tra molti progressisti di sinistra: “L’Europa sta tradendo la sua tradizione di libertà e solidarietà! Ha perso la sua bussola morale! Tratta i rifugiati come invasori, bloccando il loro ingresso con filo spinato, chiudendoli in campi di concentramento!”. Questa empatia astratta, combinata con la richiesta di aprire le frontiere senza condizioni, merita la grande lezione hegeliana dell’Anima bella: quando qualcuno dipinge il quadro della definitiva degenerazione dell’Europa, bisognerebbe chiedersi che grado di complicità ha questa posizione con ciò che critica, in che modo coloro che si sentono superiori al mondo corrotto in realtà, segretamente, vi partecipano. Nessuna sorpresa che, con l’eccezione degli appelli umanitari alla compassione e alla solidarietà, gli effetti di questa auto-flagellazione siano completamente nulli… E se gli autori di questi appelli sapessero perfettamente che non contribuiscono in alcun modo ad alleviare la piaga dei rifugiati ma che l’effetto finale dei loro interventi è soltanto quello di nutrire il sentimento anti-immigrati? E se segretamente fossero ben consapevoli del fatto che quanto chiedono non succederà mai perché scatenerebbe all’istante una rivolta populista in Europa? Perché, quindi, si comportano così?
C’è soltanto una risposta coerente: il vero scopo di questa loro attività, dei paladini del politicamente corretto, non è quello di aiutare davvero i rifugiati, ma attraverso le proprie accuse raggiungere il Lustgewinn.
Il processo dell’ “ottenimento del piacere / Lustgewinn” opera attraverso la ripetizione: chi manca l’obiettivo ripete il movimento, provando ancora e ancora, così che alla fine il vero scopo non è più l’obiettivo desiderato ma il movimento ripetitivo del tentativo di raggiungerlo in se stesso. Mentre il contenuto desiderato (oggetto) promette di offrire piacere, un piacere ancora maggiore può essere ottenuto dalla forma stessa (procedura) di inseguimento dell’obiettivo. L’esempio classico: mentre l’obiettivo di succhiare un seno è di essere nutriti dal latte, l’aumento di libido è prodotto dal movimento ripetitivo di succhiare che quindi diventa un fine in se stesso.
Dopo la chiusura serale, nei supermarket della catena Walmart si trovano molti carrelli pieni di prodotti ma abbandonati tra gli scaffali: sono stati lasciati lì dagli appartenenti alla classe media impoverita che non sono più in grado di fare davvero acquisti. Così visitano il supermercato, attraversano il rituale dello shopping (mettendo le cose di cui hanno bisogno o che desiderano nel carrello) e poi abbandonano tutto nel negozio. In questa triste accezione, ottengono il surplus di piacere dovuto allo shopping in questa forma puramente isolata, senza comprare nulla. Non ci impegniamo spesso in attività simili la cui “irrazionalità” non è però altrettanto visibile? Facciamo qualcosa – come lo shopping stesso – senza uno scopo preciso, ma in realtà siamo indifferenti a quale dovrebbe essere questo scopo perché la vera soddisfazione deriva dalla attività stessa? Con il Lustgewinn, lo scopo del processo non è il suo obiettivo ufficiale (la soddisfazione di un bisogno), ma la riproduzione stessa del processo.
Il Lustgewinn prodotto delle accuse sui rifugiati è il sentimento di superiorità morale rispetto agli altri che prova chi le lancia. Più rifugiati vengono respinti e più crescono i populismi anti-immigrati, più queste “anime belle” si sentiranno giustificate: “Vedete, gli orrori continuano, avevamo ragione noi!”.
Un caloroso invito all'incontro del 18 giugno, che può rovesciare la decadenza della politica e ridare un senso a chi vuole unirsi per costruire un mondo migliore. Ma è decisivo che cosa si sarà capaci di fare dal giorno dopo.
il manifesto, 16 giugno 2017
Si sarebbe tentati di iniziare come si faceva una volta nei congressi di partito: dall’analisi della situazione internazionale per poi arrivare al «caso italiano». Varrebbe la pena perché fuori dall’Italia succedono cose interessanti. Corbyn, Mélenchon, Sanders, Podemos, Syriza.
Esiste una sinistra, dai valori antichi e alle adesioni giovani. Che cresce essendo sinistra, non cercando i voti al centro o realizzando il programma della destra, come da noi. Perché – alla rovescia dal secolo scorso – il caso italiano è un disastro. Siamo quasi l’unico paese d’Europa in cui non c’è una sinistra decente. E non come “etichetta” ideologica buona a coprire pratiche di ogni tipo. Su questo ha ragione Podemos. Come cultura politica vissuta, non solo dichiarata, senso della giustizia e della libertà. Costruire l’uguaglianza, liberare le differenze, era scritto su un muro del sessantotto parigino.
E però il voto del 4 dicembre indica che una certa idea di democrazia nel paese esiste – come contenuti, linguaggio, stile di vita.
Sono i contenuti che Falcone e Montanari hanno indicato nella loro proposta. Quelli della disuguaglianza crescente, ormai oltre i livelli di Balzac e Austen, come ha dimostrato Piketty; quelli dei migranti, dello Stato sociale, del paesaggio, della pace, della scuola e della sanità. Insomma i temi della carta costituzionale. Che ha dato prova in due referendum di non essere solo carta ma di avere radici profonde nella testa e nell’anima di una grande parte dell’Italia.
Ma adesso che fare?
L’appello conferma ancora una volta che esiste un mondo e una cultura diffusa che non sono rappresentati dai partiti e dai raggruppamenti della sinistra esistente. Dimostra anche, forse, che viviamo una crisi della rappresentanza e della politica; che c’è l’esigenza di inventare nuove forme della comunicazione e delle relazioni politiche, legate alla vita delle donne e degli uomini che vivono e soffrono la nuova antropologia del neoliberismo: solitudine, paura, competizione. E che sono radicali. Non stanno nell’orizzonte di questa Europa dell’austerità e della finanza. Non stanno dunque nemmeno nei paradigmi di pensiero e di pratiche che hanno tristemente definito e tristemente definiscono il centrosinistra in Italia. E la socialdemocrazia in Europa.
Perché la crisi italiana della “sinistra di governo” non nasce con Renzi. È l’incapacità di leggere le trasformazioni per gestirle e non esserne gestiti. È la caduta di un pensiero critico. Renzi le ha dato solo un di più di spettacolarità, cialtroneria e arroganza.
Il 18 giugno a Roma di sicuro una parte importante di questa società civile e politica si ritroverà al teatro Brancaccio. Sarà bello. Sarà la dimostrazione che un’altra Italia esiste, come comunità di cultura, impegno, solidarietà, associazionismo, come desiderio di partecipazione e di polis. Esiste, può resistere e costruire altro.
Però sarà soprattutto fondamentale il 19 giugno. Il giorno dopo, quello più difficile.
Sarebbe importante che quell’incontro non restasse solo una bella discussione. Tutte e tutti coloro che interverranno avranno naturalmente pari dignità, semplici cittadini o dirigenti di partito. Ognuno con la sua storia.
Ma quella parte di cittadinanza politica che chiama al confronto ha una responsabilità in più, diversa e notevole. Quella di non salutarsi felici e poi lasciare il campo agli addetti ai lavori di sempre. Ognuno ha le proprie competenze e il lavoro di tutte e di tutti ha una connotazione politica, ma se si resta chiusi nel proprio mondo, allora il rischio grave è che la politica continuino a farla i politici. E questo nell’Italia di oggi non ce lo possiamo permettere.
C’è bisogno di qualcosa di radicale e di radicalmente nuovo per uscire dalla crisi – dalla «frantumaglia» di Elena Ferrante. Qualcosa di travolgente. Una proposta che non si può rifiutare, che attragga e trascini con sé i soggetti adesso confusamente sulla scena. Non è possibile delegare ancora una volta le responsabilità ai partiti esistenti, né immaginare una semplice sommatoria, neppure un coordinamento o federazione di sigle polverizzate. Anche nel pensiero. C’è bisogno di una proposta netta, decisamente centrata su alcuni contenuti di fondo. Forse oggi di natura più etica che politica.
L’atteggiamento nei confronti dei migranti, la difesa dell’umano di fronte al disumano, come ha scritto Marco Revelli per la manifestazione di Milano del 20 maggio. L’attenzione verso le povertà, per la dignità del lavoro, i diritti civili cioè la libertà di inventare la propria vita ed essere se stessi, la liberazione delle donne dalla violenza del potere maschile, proprietario e la liberazione degli uomini dalla prigione del potere.
Per dare vita a un processo del genere occorre il protagonismo di soggetti nuovi. Occorre progettare un percorso diffuso sul territorio. Assemblee incontri iniziative. Che parlino e diano voce a quella società che soffre e cerca una dimensione collettiva della propria vita. Vuole esserci. Non solo come comparsa o spettatore disincantato dello show politico dominante da televendita.
La proposta elettorale che potrebbe uscire dovrà essere naturalmente la più ampia e inclusiva possibile. Presentarsi alle elezioni con l’obiettivo massimo di superare un qualche quorum è la cosa più minoritaria, triste e perdente, che si possa fare. La maniera migliore per non raggiungere lo scopo. Potrà essere effettivamente unitaria se appunto metterà al centro temi e obiettivi, rendendo ben riconoscibile la cultura politica che li produce. Un’identità forte ma tutt’altro che di nicchia.
Ci vorrà una notevole dose di creatività e invenzione. Anche di pazienza e capacità di mediazione. Si tratta di dare vita a uno spazio pubblico di confronto che sarà naturalmente anche il luogo di una competizione per l’egemonia. Ma va bene così: la diversità delle visioni e degli orizzonti può rendere tutto più difficile e faticoso, però può anche spingere finalmente alla costruzione di una soggettività fatta di un tessuto di relazioni politiche decenti. Forti quanto miti. Umane.
Dove non domini l’aggressività e il narcisismo di chi sa appartenere solo all’identico a sé; dove si accetti la presenza di letture anche diverse della realtà che ci circonda, se ci si riconosce compagne e compagni. Capaci di spezzare il pane insieme. E donarlo al mondo.
«Intervista a Susanna Camusso. La segretaria della Cgil lancia la mobilitazione di sabato contro la reintroduzione dei
voucher». MicroMega online, 15 giugno 2017 (c.m.c.)
“Si è sottratta al Paese la possibilità di poter decidere: ne esce sconfitta la democrazia. Prima, ad aprile, si sono abrogate le leggi che erano oggetto di referendum, poi si sono riproposte dentro una manovrina”. Susanna Camusso ci accoglie nel suo ufficio, al quarto piano del palazzo Cgil di Roma. È indaffarata a preparare la piazza di sabato 17 giugno dal titolo inequivocabile Uno schiaffo alla democrazia contro la reintroduzione dei voucher. Una manifestazione che si focalizzerà soprattutto sul mancato funzionamento dell’articolo 75 della Costituzione: “Il governo ha scelto coscientemente di violare le regole della nostra Carta”. Non si fanno previsioni sui numeri dei partecipanti, anche se i sentori fanno presagire una manifestazione imponente.
Il governo ha deciso di anticipare il voto sul maxi emendamento ad oggi, prima della piazza di sabato. È sempre più scippo della democrazia?
Hanno paura di confrontarsi con l’opinione delle persone, come se il lavoro non meritasse un pronunciamento dei cittadini. E, attenzione, ponendo la fiducia, dimostrano di aver paura persino del dibattito parlamentare. Un doppio inganno se consideriamo che è stato inserito in un decreto d’urgenza in violazione del dispositivo con cui la Corte costituzionale ha autorizzato i referendum.
Si spieghi meglio...
La Corte dice che le norme sono abrogabili perché sono prive di una definizione di cosa sia il lavoro occasionale, cosa che si ripete esattamente con questo nuovo provvedimento, al di là del cambio di nome: invece di chiamarlo voucher viene chiamato contratto di prestazione occasionale, ma è un’autodefinizione.
Eppure il governo insiste che non hanno nulla a che vedere con i vecchi voucher. Rispetto a prima si alza il compenso per chi svolge attività presso le imprese. Sale anche la quota contributiva a carico del datore (al 33%). Vengono poi stabiliti dei limiti: non sono ammesse le aziende con più di 5 dipendenti, quelle del settore dell’edilizia e prestazioni inferiori alle 4 ore. Infine, la gestione delle operazioni sarebbe infatti affidata a un portale ad hoc dell’Inps. Come controbatte?
Molti, sia nel Governo che nel Parlamento, quando discutono di lavoro non sanno concretamente di cosa parlano. Sono così convinti che debba esistere un lavoro occasionale che non lo sanno neanche definire: l’unica definizione è che debba costare 5000 euro all’anno. Un po’ poco, no? La precarietà è questione più complessa...
Sì, ma rispetto ai vecchi voucher non ci sono cambiamenti?
Innanzitutto è ridicolo parlare delle poche imprese con 5 dipendenti a tempo indeterminato, in realtà stiamo parlando di più del 90% delle imprese italiane! Inoltre nei PrestO la quota previdenziale è aumentata con una beffa perché riporta la contribuzione all’equivalenza col lavoro dipendente, ma la inserisce nella gestione separata. Quindi per quei lavoratori si ha una contribuzione previdenziale inutilizzabile e in più non si hanno gli stessi diritti come la malattia. Una seconda beffa è sulla tracciabilità: viene inserito l’obbligo di comunicazione a inizio lavoro ma contestualmente vengono concessi tre giorni per smentire quanto si è dichiarato e negare la prestazione. E’ assolutamente evidente che con un’efficacia dei controlli molto discutibile, gli abusi e I raggiri saranno all’ordine del giorno.
Secondo il giuslavorista Piergiovanni Alleva i PrestO sarebbero addirittura peggiorativi rispetto ai voucher. È d’accordo?
L’elemento peggiorativo sta nel fatto che, rispetto a una scelta giusta e necessaria, cioè ridurre le forme di precarietà, siamo di fronte ad una norma che le moltiplica e le peggiora.
Proprio ieri Matteo Renzi si è rivendicato il Jobs Act. Possibile che sul lavoro abbia procurato più danni lui dei governi Berlusconi?
Beh, mi soffermo su due aspetti. Con la manomissione dell’art. 18 il governo Renzi ha legittimato il paradigma secondo cui è giustificato che un’azienda licenzi un lavoratore senza giusta causa, un vero e proprio rovesciamento dei rapporti di forza. Un provvedimento con effetti più nefasti di quelli che ebbe la legge Fornero sul mercato del lavoro. Altro aspetto da considerare: il rapporto tra spesa e risultati. Il Jobs Act ha ridotto i diritti dei lavoratori e col tempo si è svelato anche il bluff sull’aumento dell’occupazione che era dovuta alla decontribuzione delle imprese facendo così venire meno la propaganda del governo sui successi della riforma. Quelle risorse pubbliche dovevano essere utilizzate per interventi strutturali capaci di creare nuovi posti di lavoro e crescita del Paese.
Susanna Camusso, come siamo arrivati ai voucher? Veniamo da anni di smantellamento dello Stato sociale, di compressione dei diritti dei lavoratori e di aumento delle forme di precarietà, il sindacato non ha responsabilità su questo sfacelo? In passato la Cgil non poteva avere atteggiamenti meno concertativi?
Sfatiamo una leggenda: se vuole le elenco tutti gli scioperi generali della Cgil dall’approvazione della legge 30 ad oggi. E sono molti. Negli ultimi anni non ricordo una riforma sul mercato del lavoro passata con atteggiamenti dialoganti col governo. Le riforme condivise tra le parti sociali sono un antico ricordo nel Paese. Se c’è un’autocritica da fare l’abbiamo anche fatta riguardo a un’interpretazione che per lungo tempo abbiamo dato, cioè l’idea che le forme di precarietà potessero essere transitorie e non fossero un intervento che avrebbe determinato una strutturalità nell’organizzazione dell’impresa fondata in parte consistente sulla precarietà. Abbiamo invertito la rotta con la Carta dei diritti universali del lavoro, che ha l’ambizione di riordinare la giurisprudenza sul lavoro e dare con essa diritti a tutti i lavoratori siano essi dipendenti, autonomi, precari o altro. Pensiamo che i diritti del e nel lavoro debbano essere in capo alle persone. Contemporaneamente, abbiamo raccolto le firme contro i voucher, che sono l’emblema della nuova frontiera di precarietà perché sanciscono la definitiva destrutturazione del rapporto di lavoro.
Mi vorrei soffermare sull’aspetto generazionale: in Italia gli under 30 si trovano di fronte un mercato del lavoro iper-precario e senza garanzie. Una generazione che, a differenza di quella dei genitori, non conosce il contratto a tempo indeterminato. Da questo punto di vista, non andrebbe riformata l’idea del sindacato, visto che è cambiato il mondo del lavoro, oppure crede che sia sufficiente la Carta dei diritti universali che avete recentemente elaborato?
È indubbio ci sia una questione anche generazionale, ma la rottura di una costruzione dei rapporti di lavoro sta diventando un tema trasversale che riguarda tutti. La precarietà diventa una condizione riproponibile in qualunque momento e a chiunque. Se pensi a un settore come l’agricoltura, dove si hanno dalla diffusione dei voucher al caporalato, non stai parlando solo dei giovani ma di tante figure e contraddizioni: migranti, dumping salariale, competizione tra lavoratori etc...
Rimane il fatto che i giovani non sanno cosa sia un sindacato come la Cgil...
I giovani non conoscono il sindacato in molti luoghi perché spesso il sindacato non c’è, ed è una sua responsabilità, ma in tantissime altre realtà i giovani sono anche al centro delle politiche delle nostre categorie. Penso alla Filcams dove l’età media è attorno ai 30-35 anni. Ragazzi che hanno anche inventato forme nuove di sindacalizzazione e di determinazione della loro possibilità di avere lotte e risultati, rispetto ai diritti.
Il sindacato o si riforma o muore?
Riformare se stessi è sempre essenziale, il sindacato deve evolversi in ragione di come cambia il mondo del lavoro e rispetto alle sfide da affrontare. Bisogna inventarsi nuovi strumenti: ad esempio è una piattaforma lo strumento con cui interloquisci coi lavoratori della gig economy? Come costruire dei luoghi di aggregazione per lavoratori fisicamente dispersi? Sono le domande che ci stiamo ponendo come sindacato. Come ci insegna la storia delle nuove catene, quelle che abbiamo sindacalizzato, per far vivere la Cgil resta essenziale che quei lavoratori entrino intanto in una relazione fra di loro, cioè nell’idea che serva un’organizzazione collettiva, che è esattamente il messaggio opposto di quello che viene socialmente proiettato. L’interrogativo è quali sono i rapporti che tu puoi costruire, su cui stiamo ragionando noi e altri sindacati europei – non è un tema esclusivamente nostro – e su come intercetti un mondo che non ha un luogo fisico di lavoro o è composto da poche persone. Penso sia questa la vera sfida del sindacato.
State pensando ad uno sciopero generale? Abbiamo una faticosa relazione con Cisl e Uil su questo punto di vista e certo si rischia la rottura dell’unità sindacale invocando uno sciopero generale su un tema, come quello dei voucher, sollevato attraverso una raccolta firme soltanto dalla Cgil. Però... non lo escludiamo, sta nei nostri strumenti.
Passiamo ad una questione che a sta a cuore a MicroMega: l’Ilva di Taranto. Lì il sindacato ha fatto prevalere, negli anni, il diritto al lavoro sul diritto alla salute dei cittadini. Almeno di questo vi accusano a Taranto, dove la Cgil ha avuto un calo di iscritti. Fate autocritica? Siete arrivati in ritardo a capire il problema dell’inquinamento dell’Ilva? Sinceramente penso che la salute nei luoghi di lavoro e la salute intorno ai luoghi di lavoro debbano andare di pari passo. È un dato ormai acquisito in Cgil che ha complessivamente cambiato condotta. Inoltre c’è un grande tema che riguarda le norme differenziate nel nostro Paese: non esistono i controlli e questo nodo andrebbe affrontato seriamente per il bene del mondo del lavoro ma anche per l’ambiente, il clima e la salute dei cittadini. Su un punto rimango ferma: la soluzione dell’Ilva di Taranto non passa per la chiusura degli impianti, che significherebbe la sconfitta dell’innovazione verso nuove strade. Penso ai processi di riconversione o alle ricerche per rendere l’Ilva compatibile con l’esterno, salvaguardando così i posti di lavoro e la salute. Nei casi di siderurgia si può intervenire, la chiusura dell’impianto è un simbolo di resa.
Ultima domanda: il dibattito a sinistra. Sabato in piazza con voi ci saranno tutti i partiti della cosiddetta sinistra radicale. Mentre il 18 giugno, il giorno dopo, al teatro Brancaccio di Roma si discuterà dell’appello lanciato da Tomaso Montanari ed Anna Falcone. Qual è il suo giudizio sui confronti in corso?
Come sempre la Cgil è molto interessata all’evoluzione della politica ma esprime delle valutazioni di interesse quando si affrontano i temi del lavoro, per il resto non commento.
Si esponga Camusso... Cosa auspica a sinistra? Vorrei semplicemente una sinistra o un centrosinistra – non mi formalizzo sulla definizione e sui trattini – che abbia il lavoro come perno centrale. Bisogna ripartire da qui. Per troppo tempo il lavoro è stato invece il grande assente del dibattito della politica, anche e specialmente a sinistra.
il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)
"I voti? Quanti voti? La sinistra ha perso il suo popolo durante i suoi governi, che io chiamo del suicidio. Lo ha regalato all’astensione, alla disperazione, ai Cinquestelle, alla Lega e persino a Fratelli d’Italia. Quindi mi terrei prudente, conterrei le speranze".
Luciano Canfora, il principe della filologia classica e sempre schierato sul limite estremo del pensiero di sinistra, è inesorabile nello stimare le percentuali di successo dell’arcipelago progressista nel caso si ritrovasse unito.
«Forse perché sono troppo vecchio e ricordo il flop dell’unificazione socialista. O perché in mente mi viene lo sfracello di voti che doveva prendere la Margherita quando diede vita al simbolo unico. E poi: flop. Oppure, ricorda?, all’altro sfracello annunciato dal Pd, il partito a vocazione maggioritaria. Walter Veltroni e la Giovanna Melandri ogni sera in tv con questa benedetta vocazione maggioritaria. Si autoproclamavano maggioritari. Mi ricordavano quelli che alla domanda perché il papavero facesse dormire, rispondevano: perché ha la virtus dormitiva. Irresistibile come spiegazione».
Le viene in mente il fallimento delle varie fusioni fredde.
«È la storia che ce lo dice. Anche quando si promosse Rifondazione comunista, e io facevo parte del gruppo di Cossutta, la cosiddetta terza mozione, parvero spalancarsi chissà quali porte, chissà quali praterie davanti a noi. Dopo un po’di tempo le percentuali si assottigliarono fino a divenire quasi irrilevanti».
Quindi Bersani & co non si facciano troppe illusioni.
«Io mi accontenterei della cifra che teme di perdere il Pd, ormai definitivamente partito di centro insieme a Forza Italia. Quel sei per cento che l’avversario Matteo Renzi paventa sarebbe già un bottino significativo».
Il Pd di Renzi?
«Questo partito ha prodotto un aborto. Ora lo votano i nipoti degli elettori democristiani, le élites urbane, i benpensanti. È definitivamente e dichiaratamente un partito di centro.
Se il Pd copre unicamente il centro, facendo concorrenza a Forza Italia, ci sarà dunque una speranza a sinistra? Saranno paragoni inappropriati, ma altrove, dove la sinistra si è presentata nel suo vestito più classico e con i volti persino datati dell’americano Sanders e del britannico Corbyn, il proprio popolo l’ha ritrovato eccome.
Anzitutto si ricordi che in America, e non da ora, esiste un pezzo della sua società illuminato che vota a sinistra. Bernie Sanders ha perso il confronto con la Clinton perché anche lì le primarie sono una buffonata. Però c’è u n’altra verità da riferire: negli Usa la sinistra non ha mai governato. E in Gran Bretagna i laburisti invece non si sono mai suicidati».
Invece in Italia la sinistra, governando, si è suicidata.
«Non so perché si parli con una tale sfrontatezza di ventennio berlusconiano. Silvio Berlusconi ha governato dodici anni, il resto è opera di altri. L’emorragia di voti che ne è conseguita, aver regalato temo definitivamente alla Lega la classe operaia lombarda, o quel che resta di essa, aver prodotto migrazioni bibliche verso i Cinquestelle e financo dalle parti di Fratelli d’Italia è l’esito di un disastro politico».
La sinistra non ha un popolo, dunque, e nemmeno un leader.
«La sinistra ha quel che ha, non la sopravvaluterei. Si affacceranno al voto nuove generazioni, vedremo come voteranno. Sul voto resto cauto. Sul leader possibile aggiungo che non bisogna trovare immediatamente il Giulio Cesare. Il leader deve uscire dal confronto delle idee, dal corpo a corpo nell’agone politico».
Torna in campo persino il nome di Prodi. E Bersani risulta addirittura più popolare di Pisapia. Di nomi nuovi e volti giovani nemmeno l’ombra.
«A parte che Giuliano Pisapia è quasi coetaneo di Pierluigi Bersani e non vedo perché dovrebbe essere più popolare, ma che fesseria è questa dell’anagrafe? Il più giovane presidente del Consiglio che abbiamo avuto si chiamava Benito Mussolini. E ho detto tutto».
. il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)
Col voto inconsapevole del Senato, ieri il Parlamento ha avallato una vera e propria presa in giro ai danni dei cittadini italiani e, in particolare, del milione e 100mila che hanno firmato ognuno dei tre quesiti referendari proposti dalla Cgil per abolire i
voucher, garantire che la società appaltante fosse responsabile in solido anche per i subappalti e ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (quest’ultimo quesito è stato bocciato dalla Corte costituzionale, che lo ha ritenuto in sostanza “propositivo” visto che non si limitava ad abolire un pezzo del Jobs act, ma estendeva il divieto di licenziamento senza giusta causa anche alle aziende tra 5 e 15 dipendenti).
Per apprezzare appieno quella che il costituzionalista Gaetano Azzariti ha chiamato sul Fatto “una frode ai danni dell’articolo 75 della Costituzione” (quello sui referendum), basta ricordare i fatti. L’11 gennaio scorso la Consulta ha ammesso due dei tre quesiti presentati dalla Cgil. Dopo oltre due mesi di melina, a metà marzo, il governo Gentiloni ha fissato la data per il referendum: il 28 maggio 2017. Solo tre giorni dopo, però, lo stesso governo varava un decreto che aboliva i voucher ed estendeva alla ditta appaltante la responsabilità anche per i subappalti: in sostanza, venivano accolte le richieste del comitato referendario. Il decreto è stato convertito dal Parlamento in un solo mese: il 17 aprile. A quel punto la Cassazione ha stabilito che non c’era più motivo di tenere i due referendum e il voto è stato annullato.
E siamo a maggio, quando l’esecutivo Gentiloni si permette quel che nessuno s’era mai permesso: con un emendamento - ancora prima che fosse passato il 28 maggio in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum - reintroduce i voucher sotto altro nome e non solo per le famiglie (per pagare colf, badanti e piccoli lavori), come era possibile anche secondo la Cgil, ma pure per le imprese sotto i 5 dipendenti, che sono il 90% delle imprese italiane e quelle che ne fanno un uso più esteso. Ieri, questa norma è diventata legge certificando il fatto che governo e Parlamento hanno preso in giro gli italiani pur di evitare il voto referendario. Un sondaggio Tecnè per la Cgil diffuso mercoledì rivela che gli elettori si sono accorti dello sgarbo istituzionale: il 67% (percentuale che sale al 77 tra i giovani) ritiene che il sindacato guidato da Susanna Camusso faccia bene a protestare. E la segretario lo ha fatto anche ieri, dopo il voto del Senato: “Hanno sbagliato, hanno violato le regole della democrazia e non hanno rispettato il diritto di voto dei cittadini. Si è determinato un vero e proprio vulnus: governo e forze politiche non hanno avuto il coraggio di discutere apertamente dei temi del lavoro, di affrontarli e di vedere il giudizio che lavoratori e cittadini avrebbero dato”.
Ora la Cgil farà due cose: la prima, sabato, è una grande manifestazione sul tema a Roma, che sarà anche l’occasione per vedere sfilare insieme i vari soggetti alla sinistra del Pd (Articolo 1, Sinistra Italiana, Possibile, Campo progressista eccetera eccetera). La seconda strada è un ricorso alla Corte costituzionale contro “la frode”: più volte i giudici delle leggi, proprio di fronte a trucchetti dei governi per svuotare o aggirare i referendum, hanno adottato una speciale tutela rispetto al voto popolare. Accadde, ad esempio, quando Berlusconi tentò di ignorare il referendum sull’acqua. Una volta, addirittura, dopo una modifica legislativa, la Consulta consentì alla Cassazione di traslare i quesiti sulle nuove norme pur di tutelare il diritto di espressione del voto. Difficile che cambi opinione stavolta. Se succederà, però, si rischia di votare non prima di fine 2018 o persino del 2019: tra la decisione della Consulta e la nuova indizione dei referendum potrebbero arrivare le elezioni politiche, che possono far slittare la consultazione anche di un anno.
Corriere della Sera, 15 giugno 2017
La corruzione, nella sua radice etimologica, definisce una lacerazione, una rottura, una decomposizione e disintegrazione. Sia come stato interiore sia come fatto sociale, la sua azione si può capire guardando alle relazioni che ha l’uomo nella sua natura più profonda. L’essere umano ha, infatti, una relazione con Dio, una relazione con il suo prossimo, una relazione con il creato, cioè con l’ambiente nel quale vive. Questa triplice relazione — nella quale rientra anche quella dell’uomo con se stesso — dà contesto e senso al suo agire e, in generale, alla sua vita.
Corruzione
Quando l’uomo rispetta le esigenze di queste relazioni è onesto, assume responsabilità con rettitudine di cuore e lavora per il bene comune. Quando invece egli subisce una caduta, cioè si corrompe, queste relazioni si lacerano. Così, la corruzione esprime la forma generale della vita disordinata dell’uomo decaduto. Allo stesso tempo, ancora come conseguenza della caduta, la corruzione rivela una condotta anti-sociale tanto forte da sciogliere la validità dei rapporti e quindi, poi, i pilastri sui quali si fonda una società: la coesistenza fra persone e la vocazione a svilupparla. La corruzione spezza tutto questo sostituendo il bene comune con un interesse particolare che contamina ogni prospettiva generale. Essa nasce da un cuore corrotto ed è la peggiore piaga sociale, perché genera gravissimi problemi e crimini che coinvolgono tutti. La parola «corrotto» ricorda il cuore rotto, il cuore infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore.
All’origine dell’ingiustizia
Cosa c’è all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Cosa, all’origine del degrado e del mancato sviluppo? Cosa, all’origine del traffico di persone, di armi, di droga? Cosa, all’origine dell’ingiustizia sociale e della mortificazione del merito? Cosa, all’origine dell’assenza dei servizi per le persone? Cosa, alla radice della schiavitù, della disoccupazione, dell’incuria delle città, dei beni comuni e della natura? Cosa, insomma, logora il diritto fondamentale dell’essere umano e l’integrità dell’ambiente? La corruzione, che infatti è l’arma, è il linguaggio più comune anche delle mafie e delle organizzazioni criminali nel mondo. Per questo, essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali. C’è una profonda questione culturale che occorre affrontare. Oggi molti non riescono anche solo a immaginare il futuro; oggi per un giovane è difficile credere veramente nel suo futuro, in qualunque futuro, e così per la sua famiglia. Questo nostro cambiamento d’epoca, tempo di crisi molto vasta, ritrae la crisi più profonda che coinvolge la nostra cultura. In questo contesto va inquadrata e capita la corruzione nei suoi diversi aspetti. Ne va della presenza della speranza nel mondo, senza la quale la vita perde quel senso di ricerca e possibilità di miglioramento che la rende tale.
L’uomo va visto in ogni suo aspetto
In questo libro il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, oggi prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, e già presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, spiega bene la ramificazione di questi significati di corruzione, e lo fa concentrandosi in particolare sull’origine interiore di questo stato che, appunto, germoglia nel cuore dell’uomo e può germogliare nel cuore di tutti gli uomini. Siamo, infatti, tutti molto esposti alla tentazione della corruzione: anche quando pensiamo di averla sconfitta, essa si può ripresentare. L’uomo va visto in ogni suo aspetto, non va scisso a seconda delle sue attività, e così la corruzione va letta — come si legge in questo libro — tutta insieme, per tutto l’uomo, sia nelle sue espressioni di reato sia in quelle politiche, economiche, culturali, spirituali. Nel 2016 si è concluso il Giubileo straordinario della misericordia. La misericordia permette di superarsi in spirito di ricerca. Cosa avviene se ci si arrocca in se stessi e se il pensiero e il cuore non esplorano un orizzonte più ampio? Ci si corrompe, e corrompendosi si assume l’atteggiamento trionfalista di chi si sente più bravo e più scaltro degli altri. La persona corrotta, però, non si rende conto che si sta costruendo, da se stessa, la propria catena. Un peccatore può chiedere perdono, un corrotto dimentica di chiederlo. Perché? Perché non ha più necessità di andare oltre, di cercare piste al di là di se stesso: è stanco ma sazio, pieno di sé. La corruzione ha, infatti, all’origine una stanchezza della trascendenza, come l’indifferenza.
L’identità e il cammino della Chiesa
Il cardinale Turkson — come si comprende da questo dialogo che via via si snoda secondo un itinerario preciso — esplora i diversi passaggi nei quali nasce e si insinua la corruzione, dalla spiritualità dell’uomo fino alle sue costruzioni sociali, culturali, politiche e anche criminali, ponendo insieme questi aspetti anche su quel che più ci interpella: l’identità e il cammino della Chiesa. La Chiesa deve ascoltare, elevarsi e chinarsi sui dolori e le speranze delle persone secondo misericordia, e deve farlo senza avere paura di purificare se stessa, ricercando assiduamente la strada per migliorarsi. Henri de Lubac scrisse che il pericolo più grande per la Chiesa è la mondanità spirituale — quindi la corruzione — che è più disastrosa della lebbra infame. La nostra corruzione è la mondanità spirituale, la tepidezza, l’ipocrisia, il trionfalismo, il far prevalere solo lo spirito del mondo sulle nostre vite, il senso di indifferenza. Ed è con questa consapevolezza che noi, uomini e donne di Chiesa, possiamo accompagnare noi stessi e l’umanità sofferente, soprattutto quella che più è oppressa dalle conseguenze criminali e di degrado generate dalla corruzione.
Cristiani, come fiocchi di neve
Mentre scrivo mi trovo qui in Vaticano, in luoghi di una bellezza assoluta, nei quali l’ingegno umano ha cercato di elevarsi e trascendere nel tentativo di far vincere l’immortale sul caduco, sul corrotto. Questa bellezza non è un accessorio cosmetico, ma qualcosa che pone al centro la persona umana perché essa possa alzare la testa contro tutte le ingiustizie. Questa bellezza deve sposarsi con la giustizia. Così, dobbiamo parlare di corruzione, denunciarne i mali, capirla, mostrare la volontà di affermare la misericordia sulla grettezza, la curiosità e creatività sulla stanchezza rassegnata, la bellezza sul nulla. Noi, cristiani e non cristiani, siamo fiocchi di neve, ma se ci uniamo possiamo diventare una valanga: un movimento forte e costruttivo. Ecco il nuovo umanesimo, questo rinascimento, questa ri-creazione contro la corruzione che possiamo realizzare con audacia profetica. Dobbiamo lavorare tutti insieme, cristiani, non cristiani, persone di tutte le fedi e non credenti, per combattere questa forma di bestemmia, questo cancro che logora le nostre vite. È urgente prenderne consapevolezza, e per questo ci vuole educazione e cultura misericordiosa, ci vuole cooperazione da parte di tutti secondo le proprie possibilità, i propri talenti, la propria creatività.
Le apparenti contraddizioni della "sicurezza". Un bourka può nascondere un pensiero diverso, e per i barbari un pensiero diverso è più pericoloso di un'arma. Del resto l'Italia è una repubblica fondata sulle armi.
la Nuova Venezia, 15 giugno 2017, con postilla
Mettiamola così: nel Veneto prossimo venturo chiunque indossi un burqa, un niqab (il velo integrale islamico) o più semplicemente un casco da motociclista o un passamontagna che ricopre il viso, non potrà entrare in luoghi pubblici regionali quali ospedali, scuole, uffici Ater, distretti sanitari, enti e palazzi della politica. L'ingresso, viceversa, sarà consentito a chi si presenta con una pistola sotto l'ascella, purché provvisto di regolare porto d'armi per la difesa personale. È quanto prevede il nuovo regolamento di accesso in discussione al Consiglio regionale, che ne ha approvato il primo articolo dopo ore di discussione e, manco a dirlo, l'emendamento "sputafuoco"che ha acceso la polemica reca la firma di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d'Italia patrono delle doppiette.
«È la legge Beretta, il volto coperto è pericoloso, la mano armata no», insorge il dem Andrea Zanoni «dovremo invitare i cittadini a recarsi in ospedale con in giubbotto antiproiettile per evitare guai? Mi chiedo cosa ne pensino i direttori delle Ulss, non è possibile che la maggioranza a trazione leghista sia sempre succube di Berlato che, da una posizione assolutamente minoritaria, continua a fare il bello e il cattivo tempo sui temi legati all'uso delle armi». «Un'ipotesi assurda, inaccettabile», rincara Piero Ruzzante (Mdp), che in aula ha votato contro «anziché ricorrere alla prevenzione attraverso i metal detector, si vuole consentire l'accesso a gente armata, interdetto a Palazzo Ferro-Fini, sede dell'assemblea regionale, ma permesso altrove, quasi che i consiglieri abbiano diritto a maggiore sicurezza rispetto agli altri cittadini. Siamo alla follia».
«Propaganda vergognosa, pura strumentalizzazione delle paura di marca leghista», fanno eco i 5 Stelle con la poliziotta (in aspettativa) Patrizia Bartelle lesta a ricordare di non aver mai preso in considerazione l'idea di entrare a Palazzo con la pistola d'ordinanza. E Berlato? «Mi sorprende tanto baccano», replica serafico «stiamo parlando del porto d'armi per la difesa personale che la prefettura rilascia con verifica psicofisica annuale. Il Testo unico di pubblica sicurezza prescrive che l'arma non possa rimanere incustodita e il mio emendamento cita questa norma. Se l'obiettivo è tutelare l'incolumità, questa può essere minacciata ovunque, anche in ospedale, perciò va difesa sempre e dovunque».
postilla
Il consigliere Berlato sembra perfettamente in linea con la strategia e la tattica del renzismo, e con i governi da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. Chi non lo ha compreso legga su eddyburg l'attenta analisi di Giorgio Beretta Renzi è nella storia.
«Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o di denuncia. Abbiamo bisogno di creature rivoluzionarie, non di manovali del rancore».
comune.info, 14 giugno 2017 (c.m.c.)
Si potrebbe pensare che l’immiserimento della natura abbia riflessi anche sull’immiserimento della lingua. Oggi le immagini, le parole, i ritmi non sono più suggeriti dalla Natura, ma dalla Rete. E così abbiamo una lingua e una politica che sa di chiuso. Bello sfuggire alla tentazione dello sguardo apocalittico sull’Italia di oggi. Bello cercare i luoghi che non sono stati riempiti, i luoghi che non interessavano a nessuno, quelli poveri, impervi, fuori mano. In questi luoghi l’Italia si dà ancora.
E allora ti puoi stupire guardando il muso delle vacche nel bosco di Accettura, guardando un vecchio in un orto del Salento o un contadino che ara in un pomeriggio sardo. Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o di denuncia. Andare in giro, guardare come cambiano città e paesi, Torino oggi è molto diversa da come era negli anni settanta, l’Aquila è una città doppia: la città dei monumenti e quella delle rovine. E doppia è anche Taranto, città di mare circondata dalla città dell’acciaio. Nel guardare l’Italia tenere insieme l’occhio di Leopardi e quello di Pasolini, il Pasolini che teneva insieme Casarsa e Caravaggio, quello che scrisse nel 1959 La lunga strada di sabbia, un viaggio costiero da Ventimiglia a Trieste, un atto di amore verso un’Italia dalle cento province non ancora devastata dal “genocidio culturale” che ha prodotto il paesaggio italiano che attraversiamo adesso.
Non mi piace l’Italia costruita negli ultimi decenni, quella delle città, ma anche quella dei paesi. Mi irrita vedere tante case sparse nelle campagne. E non mi piacciono neppure i paesi imbellettati, quelli con le pietre finte, quelli che non sono paesi, ma trappole per turisti.
L’Italia che cerco è quella che sa di Italia e di altrove. Penso ad Aliano, ai suoi calanchi che mi fanno pensare all’oriente. Mi piace molto l’Italia ionica. Mi piacciono i paesi che hanno un residuo arcaico, un nodo che non si è fatto rovistare dalla modernità incivile.
Sto male negli areoporti, tutta quella gente che crede di andare chissà dove, non mi piacciono neppure i silenziosi viaggiatori della freccia rossa, l’Italia che fila dritta e ignora il canto, ignora che la vita prende spazio quando sbaglia, quando s’incaglia.
Mi piace incontrare i vecchi dei paesi. Sto bene quando li ascolto. Non credo di avere più strada e più di futuro di loro. Il mio secondo è sempre in bilico, nessun attimo in me ha una fiducia assoluta, è come se dovessi ogni giorno patteggiare col tempo un altro poco di tempo. Nel mio girare per l’Italia non perdo mai di vista il corpo. È il corpo che guarda, è il corpo che prende avvilimenti ed euforie, è il corpo che incontra gli altri o li sfugge.
Mi piacerebbe vivere in un’Italia in cui la maggioranza sia fatta di percettivi e non di opinionisti. Non mi piace l’Italia che si è seduta sui divani, quella che guarda la televisione, che va in pizzeria, che tiene il bicchiere in mano davanti al bar, l’Italia dei giovani che prendono la notte a branchi, i giovani che mettono in posa compagnie che non hanno, vicinanze che non ci sono.
Gli Italiani che amo sono quelli che mettono assieme poesia e impegno civile, malinconia e ardore, indugio e frenesia. Abbiamo bisogno di creature rivoluzionarie, non di manovali del rancore. Non mi piacciono gli scoraggiatori militanti, i luminari del disincanto, i piromani dell’entusiasmo. Mi fa schifo il sentire stitico, il rimanere rigidi perfino nel calarsi.Non credo al centro, non credo ai potenti, ai famosi. Credo che il successo sia una forma di sventura, che rovina la pace e la lingua. Mi interessano i paesi e le persone arrese. La resa che non sa di rassegnazione, ma qualcosa che somiglia alla disperazione senza sgomento di cui parla Giorgio Caproni.
Abbiamo bisogno di un’Italia attenta alle cose che coltiva, attenta a quello che accade nelle scuole, negli ospedali. Un’Italia che sa ammirare e sa essere devota, alta e libera, e non laida e meschina.
Credo che non dobbiamo aspettare niente, non dobbiamo aspettarci niente. Nessuno ce la regala l’Italia che vogliamo. Bisogna andare avanti in quello che c’è, sentire la terra sotto i piedi, sapere che ovunque c’è aria e ci sono gli alberi, e c’è tanto da guardare.A me più di tutto danno fiducia questi due gesti: guardare e camminare. Mi pare che possiamo accedere a una qualche forma di grazia fino a quando possiamo guardare e camminare.
Abbiamo bisogno di immettere un po’ di sacralità nella nostra immiserita compagine civile. Non si può andare avanti col gioco del consumare e del produrre. La letizia può arrivare solo dall’amore e dall’immaginazione, viene quando non esci ai caselli stabiliti, ma ti apri all’impensato, sfuggi anche ai tuoi progetti, alle tue mire. Essere umani in un tempo autistico e vorticoso è un mestiere molto difficile. Non ci sono rotte definite, te le devi costruire attimo per attimo, devi cucire e strappare nello stesso tempo, devi capire che stiamo guarendo e stiamo morendo, stanno accadendo le due cose assieme.
Abbiamo bisogno di stare in ginocchio, di pregare, abbiamo bisogno di pensare a Dio, alla morte, alla poesia. Non sono pensieri da poeti, sono pensieri utili per essere buoni cittadini, semplici essere umani che passano il tempo dentro il tempo, che filano la vita per fare un vestito che indosseranno altri.
«L». la Repubblica, 15 giugno 2017 (c.m.c.)
È davvero difficile “orientarsi nel disordine del mondo”, come recita il titolo della Repubblica delle Idee di quest’anno. Perché il disordine, agli occhi dei cittadini, regna sovrano. Complicato dall’incertezza che avvolge il futuro, ma anche il presente, delle persone. Non ci sarebbe bisogno di statistiche per dimostrarlo. Basterebbero gli indicatori del senso comune. Tracciati dalle nostre percezioni. Ricavati dai discorsi della gente. Tuttavia, in questo caso, le statistiche, per una volta, danno fondamento al senso comune.
Per questo mi limito a riproporre dati e indici ricavati da sondaggi condotti da Demos (per Unipolis e per Repubblica) negli ultimi sei mesi. E dunque in tempi recenti. Il 76% degli italiani — dunque: oltre 3 persone su 4 — si sentono gravati da un senso di “insicurezza globale”. Temono, cioè, le minacce che vengono da lontano ma risuonano forte nella loro vita quotidiana, scandite e riprodotte dai media. In primo luogo, il terrorismo che compie i suoi massacri dovunque, in Europa, con attenzione e competenza mediatica. Ma poi, l’impatto della crisi economica, finanziaria, che si riflette sui nostri risparmi e sulla nostra condizione personale e familiare. Minacce lontane e dunque vicine. Che spaventano di più proprio perché non hanno volto e nome.
Ricordo mio padre, anni fa, quando, molto anziano e malato, mi chiedeva, angustiato, preoccupato per i propri risparmi, frutto del lavoro di una vita, e, quindi, della pensione: «Ilvo, ma chi è questo Spread? Che faccia ha? E dove abita? Perché ce l’ha con me? Con i miei risparmi?». Naturalmente non era facile rispondergli. E non lo è neppure oggi. Anzi, lo è sempre di meno. Perché le fonti dell’incertezza si sono moltiplicate. Perché non abbiamo più il privilegio dell’ignoranza. Il significato della globalizzazione è questo, ben evocato da Giddens.
Tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, si ripercuote su di noi. In modo im-mediato. Perché lo vediamo e lo sappiamo subito. Perché i nuovi media, il digitale, ci permettono di re-agire in modo im-mediato. Subito. In modo “digitale”. Con il nostro smartphone. Protagonisti e al tempo stesso bersagli di ogni messaggio. Di ogni informazione, circa ogni evento che avviene ovunque. Tanto più e tanto meglio se ansiogeno. Così e per questo l’incertezza si riproduce. E il mondo ci sembra sempre più largo. Al tempo stesso, più im-mediato e più incontrollabile. Anche perché l’im-mediato ci priva del futuro. Perché, se il futuro è adesso, allora è già passato. Nel momento stesso in cui lo evochiamo e lo sperimentiamo. Il futuro.Immaginarlo, se non prevederlo, sarebbe necessario per ridurre il disordine del mondo. Perché se hai un progetto, allora è più facile saper cosa fare, dove — e verso dove — muoversi.
Ma se il futuro si riduce, fino a venire riassorbito nel “quotidiano”, nell’immediato, allora il disordine prende il sopravvento. D’altra parte il nostro futuro è affidato ai giovani. Ai nostri figli. Ma noi siamo una società vecchia. Sempre più vecchia. Dove si fanno sempre meno figli. Le stesse famiglie di nuovi italiani, gli immigrati, quando si stabilizzano in Italia, assumono i nostri modelli e stili di vita. E fanno sempre meno figli. D’altronde, 3 italiani su 4 ritengono che i giovani nel nostro Paese avranno, nel prossimo futuro, una posizione sociale e professionale peggiore rispetto ai loro genitori.
Per la stessa ragione, una percentuale simile di persone ritiene che i giovani, se ambiscono a fare carriera, debbano lasciare l’Italia. Ed è ciò che effettivamente avviene, visto che da tre anni siamo in declino demografico. Peraltro, i nostri “emigranti” sono, soprattutto, i giovani con maggiori competenze e livello di istruzione più elevato. Per questo rischiamo di divenire sempre più pessimisti. Per ragioni “realiste”. Infatti, se lasciamo partire i più giovani e i più preparati, compromettiamo il nostro futuro. E allora: perché dovremmo essere ottimisti? Peraltro, l’ottimismo declina con l’età. I (più) vecchi difficilmente sono più ottimisti dei (più) giovani.
Eppure, quando chiediamo agli italiani se si sentano “felici”, circa 8 su 10 rispondono in modo affermativo (Demos). Sì: ci sentiamo “abbastanza” felici. E ciò potrebbe sorprendere. Apparire contraddittorio. Come fanno gli italiani ad essere pessimisti e insicuri, ma, al tempo stesso, abbastanza felici? Dipende dalle nostre risorse sociali. E di socialità. Perché l’incertezza si riduce in misura coerente con il nostro “capitale sociale”.
Noi, cioè, resistiamo all’insicurezza ricorrendo alle relazioni sociali. E, in primo luogo, alla famiglia. L’incertezza e le preoccupazione verso il futuro, infatti, si riducono tanto più quanto maggiore è il livello di partecipazione sociale. Ma anche quanto più forti sono i nostri legami di vicinato. La nostra vita associativa. Allora la fiducia negli altri, che da anni tende a calare, riprende a crescere. E il futuro ritorna. Dopo essersi perduto nel passato.
Così, per “orientarsi nel disordine del mondo”, occorre (in)seguire un percorso obbligato. Coltivare la fiducia negli altri. E, dunque, rafforzare i legami con gli altri. Partecipare. Perché “con gli altri” si sta meglio che “da soli”. E la partecipazione aiuta. A stare in mezzo agli altri. A camminare insieme. Verso una meta comune.
«La natura fluida della realtà post-moderna presuppone l’accettazione di una pluralità di linguaggi meta-comunicativi che agiscono simultaneamente». Un estratto da "Riti urbani, Spazi di rappresentazione sociale".
che-fare.com, online, 14 giugno 2017 (c.m.c.)
Francesco Lenzini, Riti urbani Spazi di rappresentazione sociale (Quodlibet) 2017, pp. 144
Nella società individualizzata il bisogno insopprimibile di socialità connaturato alla natura umana si concretizza in nuove forme di aggregazione transitorie il cui scopo è quello di neutralizzare il disagio intrinseco alla condizione di isolamento. Emergono così le cosiddette comunità esplosive, che trovano nell’intensità esperienziale di un evento catalizzante il loro motivo di coesione. Questo evento catalizzante – sia esso il concerto rock, il flash mob, o l’apparizione del personaggio mediatico – diviene il fulcro di un collettivo sovra locale, che spesso si costituisce via etere prima ancora che concretamente.
Si tratta di forme di raggruppamento temporanee che raccolgono individui provenienti da diversi contesti geografici, culturali, etnici, religiosi ecc. Benché nel giudizio di alcuni sociologi queste comunità esplosive disperdano anziché condensare l’energia dei potenziali impulsi socializzanti, esse detengono un peso notevole nella costruzione di un immaginario collettivo globalizzato.
Del resto la transitorietà entro la quale queste esperienze di socialità si svolgono non corrisponde necessariamente ad una connotazione spregiativa della qualità dei rapporti interpersonali che vengono ad istituirsi. Pur trattandosi di aggregazioni provvisorie, come osserva Michel Maffesoli, queste condensazioni possono infatti innescare processi di forte compartecipazione emotiva.
«Cambiando il proprio costume di scena, secondo i suoi gusti (sessuali, culturali, amicali) ciascuno prende parte ogni giorno ai diversi giochi del theatrum mundi». Attraverso un’antropologia della performance le pratiche delle comunità esplosive riportano lo spazio pubblico ad una dimensione teatrale, in cui gli individui si muovono seguendo sequenze di gesti ritualizzati. Lo svolgimento di questi eventi si struttura secondo patterns consolidati che consentono l’interazione regolata dei partecipanti, veicolandone al contempo le reazioni emotive.
Questa formalizzazione dei comportamenti si riflette nella conformazione e nell’attrezzatura dello spazio pubblico secondo regole grammaticali comuni. Il processo di spettacolarizzazione della realtà si riflette nella crescente offerta di spazi consoni ad eventi di massa temporanei: il progetto dello spazio pubblico perde così progressivamente quelle caratteristiche di domesticità legate agli usi delle collettività locali per assecondare queste nuove forme di ritualità sempre più globalizzate.
Un numero sempre crescente di interventi si risolve nella materializzazione di grandi arene accomunabili per dimensione, geometria, orientamento, sostanziale assenza di elementi di frazionamento dello spazio e presenza di specifici complementi di arredo. In progetti quali ad esempio l’Oval Basin a Cardiff, Theatre Square a Martin, Smithfield a Dublino, Custom Square a Belfast ritroviamo tutte queste caratteristiche, che ci consentono di identificare una determinata tipologia spaziale legata ad una precisa destinazione funzionale.
In questi esempi analoghi colpisce la rilevanza dei sistemi di illuminazione, dimensionati e connotati per veicolare l’immagine di un luogo altamente spettacolare, contribuendo in modo determinante a definirne i margini. La reciprocità tra lo svolgersi di queste manifestazioni collettive e la conformazione dello spazio ci riporta così ad una tematizzazione dello spazio che possiamo a sua volta ricondurre a differenti ritualità urbane. In queste pratiche, fondate sull’estemporaneità, l’evento è vissuto come esperienza identitaria consentendo di mettere in scena una nuova rappresentazione sociale.
Gli spazi delle comunità esplosive, in costante attesa della prossima performance ci colpiscono tuttavia per l’inospitalità nel quotidiano, rientrando in definitiva nella categoria degli spazi «emici». Essi contribuiscono alla progressiva costruzione di un panorama omologato, che nondimeno costituisce un habitat naturale per l’uomo metropolitano contemporaneo. Le comunità esplosive non rappresentano certo l’unica forma di aggregazione derivata dai processi di de-strutturazione della società tradizionale. La post-modernità è costellata anche dalla presenza simultanea di micro-gruppi, il cui fine ultimo è quello di manifestare la propria socialità.
Ciò avviene attraverso il reciproco riconoscimento di canoni comportamentali in grado di identificarli come «banda a parte». Michel Maffesoli le riconduce analogamente alle tribù. Queste forme di neo-tribalismo sono basate su sistemi orizzontali che alludono alla fratellanza. Esse adottano codici comportamentali fondati su una vasta gamma di forme espressive: dal linguaggio all’abbigliamento, dalle abitudini linguistiche ai gusti musicali.
Anche in questo caso, queste convenzionalità sono riconosciute ad una scala sovralocale, muovendosi trasversalmente a sessi, etnie, geografie. Questi codici costituiscono il corrispettivo di una maschera che, coerentemente al pensiero di Georg Simmel, integra l’individuo in un quadro d’insieme rendendolo complice di un destino condiviso. Dai biker agli skater, dai punk ai clochard, questi gruppi condensano localmente tipi umani che si riconoscono globalmente. Essi sono, in altri termini espressione di una società glocale in quanto frammenti di un ideale comunitario “a parte”.
La presenza di queste comunità tribali si manifesta in forma evidente attraverso una occupazione contingente dello spazio pubblico. Raramente questa arriva a concretizzarsi materialmente in una tematizzazione. Si tratta perlopiù di prese di possesso non convenzionali di luoghi (e attrezzature) altrimenti pensati, organizzati e normati. Le pratiche neo-tribali, analogamente alle tattiche indicate da De Certeau, costituiscono spesso una forma di appropriazione o riappropriazione alternativa a quelle «istituzionalizzate».
Dai podisti che occupano le carreggiate delle strade correndo, agli artisti di strada che fanno dei marciapiedi luoghi di produzione e compravendita, fino ai clochard che vivono all’aperto utilizzando gli elementi di arredo urbano per trovare riparo. Queste “prese di possesso” rivelano ancora oggi la natura eminentemente conflittuale dello spazio pubblico. Essa si manifesta attraverso azioni diversificate in misura più o meno esplicita: dalla clandestinità all’aperto contrasto.
Tuttavia nell’indeterminatezza dei programmi politici sugli spazi pubblici e nella progressiva disgregazione dei modelli tradizionali di collettività sociale, queste pratiche alternative si vanno silenziosamente affermando quali nuovi usi convenzionali. E possiamo ancora una volta trovarne riscontro concreto nell’ambiente materiale, prendendo in esame alcuni progetti di interni urbani contemporanei.
Rileviamo così un nuovo fenomeno emergente: alcuni complementi di conformazione e arredo dello spazio legati a specifiche attività di comunità tribali stanno progressivamente divenendo elementi ricorrenti nell’organizzazione dello spazio pubblico. Esemplificativa in tal senso è la sempre più frequente presenza delle attrezzature caratteristiche della «tribù» degli skater: rampe, scivoli, piani inclinati o controcurvati. Nato in California intorno agli anni Cinquanta lo skateboarding si è progressivamente diffuso in tutto il mondo divenendo il fulcro di una cultura metropolitana.
Questa cultura comprende un complesso sistema di codici espressivo-comunicativi che spaziano dal linguaggio alla musica, dal look alla tecnica di evoluzione. La pratica dello skateboarding nello spazio pubblico è stata fin dal principio oggetto di molte controversie. Essa è ancora oggi ritenuta potenzialmente dannosa per l’incolumità di persone ed arredi urbani. In alcune nazioni lo skateboarding è addirittura oggetto di regolamentazione a norma di legge al fine di evitare situazioni di potenziale disagio.
Gli skate-park nascono con l’intenzionalità di circoscrivere questa pratica in ambiti ad esso dedicati. Qui vengono simulate comuni situazioni urbane in cui vengono poste rampe e scivoli per consentire un maggior numero di evoluzioni. Posti in periferia, spesso addirittura recintati, gli skate-park sono stati per lungo tempo oggetto della diffidenza di molti, in quanto espressione di quella che veniva considerata una «sottocultura» sovversiva.
Nella post-modernità contemporanea assistiamo viceversa ad un riscatto di questa, come di altre, comunità tribali che forniscono un appiglio nel vuoto di socialità venutosi a creare. Alla luce di questo riscatto lo skateboarding diviene una pratica di interazione con lo spazio che travalica i vincolanti confini dell’ambito dedicato (e recintato) per espandersi progressivamente nella città. In molti esempi quali Micropolis a Helsinki o A8ernA a Zaanstad questa estensione si concretizza tramutando aree degradate o sottoutilizzate in skate-park.
In altri casi le attrezzature specifiche dello skateboarding operano una presa di possesso dello spazio pubblico senza necessariamente vincolarlo a questa sola pratica. In progetti come Ursulinenplain a Bruxelles e Westblaak a Rotterdam le rampe, gli scivoli, i piani inclinati finiscono in- fatti per trascendere dalla loro specifica funzione per generare quello spazio stimolante che si alimenta di elementi ludici performativi.
Può costituire un esempio limite il caso del progetto della nuova piazza di Thermi nell’hinterland metropolitano di Salonicco dove l’intero invaso non solo si deforma divenendo esso stesso rampa e piano inclinato ma accoglie una pluralità di elementi spettacolari e dissonanti. La presenza di fontane, luci colorate, superfici matericamente molto differenti tra loro, agisce in sinergia con l’anamorfosi del piano di calpestio. In generale l’ibridazione delle forme e dei mezzi che le pratiche neo-tribali introducono nello spazio pubblico è indicativa di una progressiva affermazione di codici semantici condivisi.
Il loro rendersi convenzionali e offrirsi come elementi grammaticali per un nuovo processo di tematizzazione deve far riflettere circa il loro reale contributo nella costruzione di un mondo intelligibile. O meglio di mondi intelligibili.
La natura fluida della realtà post-moderna presuppone l’accettazione di una pluralità di linguaggi meta-comunicativi che agiscono simultaneamente.
La tensione del mondo glocalizzato produce infatti una molteplicità di discorsi, codici e pratiche. Ciò non significa necessariamente che essi non siano ugualmente riconoscibili e comprensibili.
In questo senso i processi di tematizzazione sottesi alle pratiche contemporanee costituiscono un buon esempio. Essi si pongono nella città come neologismi, prodotti di un confronto sempre più vasto e complesso.
Ampia documentazione dei primati raggiunti da Matteo Renzi e dai suoi scherani, Paolo Gentiloni incluso, nell'incrementare le spese di guerra in Italia e nel favorire i nostrani mercanti di morte e fomentatori di conflitti nel mondo.
Comune.info, 6 giugno 2017. Una denuncia da ricordare
RENZI È NELLA STORIA
Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale Passo dopo passo e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da Italia in cammino. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581 per cento che significa, in parole semplici, che l’ammontare è più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e Fincantieri. È tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.
Renzi e il motto di BP
Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell (BP è il fondatore degli scout): “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”. L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’Ue e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9 per cento), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. È in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.
Il basso profilo della sottosegretaria Boschi
Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016” inviata alle Camere il 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi.
Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che “sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia”. Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 2011-2013”.
La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.
I meriti della ministra Pinotti
Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. È alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il pregio di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo” – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.
Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: “rapporti – spiegava il comunicato della Difesa – che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali” (ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli).
Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni
Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. È lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in riposta a due Question Time. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta a un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.
Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad “avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.
Ventimila bombe da sganciare in Yemen
Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).
Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro” e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e Nord Africa).
La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione”, ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportazione di sistemi militari?
«. il manifesto,
14 giugno 2017 (c.m.c.)
Brutti, sporchi e ovviamente cattivi. Migranti, profughi, rifugiati, fuggitivi, sopravvissuti. Non ne vogliamo più. Scaricateli in qualche altra città. Da oggi Roma è città chiusa.
È partita una lettera trepidante e animosa della sindaca Virginia Raggi. Nella quale chiede alla prefetta Paola Basilone d’interrompere il flusso migratorio in città: non vogliamo più stranieri, accoglierli sarebbe «impossibile e rischioso». E ad amplificare il messaggio arriva di sponda anche Beppe Grillo con il suo sacro blog, a minacciare espulsioni e rastrellamenti: faremo a Roma quello che per vent’anni nessuno ha fatto. Eccola affiorare, la pulsione razzista a cinque stelle. È di sicuro un riflesso elettorale, tanto meccanico quanto primitivo. Conseguenza diretta del deludente risultato nelle amministrative di domenica, con tutti quei voti reazionari che sono tornati da dove erano venuti, cioè a destra.
Ma è qualcosa di più. Fa parte dell’orizzonte culturale piccolo-borghese con cui il movimento di Grillo è riuscito a raccogliere consensi indifferenziati. Interpretando e accarezzando gli egoismi gretti, le angustie benpensanti, le collere malintese, i furori xenofobi. Prendersela allora con i Rom che chiedono l’elemosina alle stazioni della Metro o con i ragazzi africani che si accampano alla Stazione Tiburtina, rassicura il perbenismo incupito e le coscienze ottuse. Finora a Roma ci si era limitati a qualche sgombero di richiedenti asilo e a qualche retata di ambulanti abusivi, con una polizia municipale sempre più manesca e sbrigativa.
E nulla era stato allestito per l’accoglienza, saturando ben presto le strutture preesistenti. Un’inerzia amministrativa inefficiente e impaurita, che non ha regolato i flussi né dislocato i nuovi arrivi, finendo così per amplificare l’impatto migratorio in città.
Non che il Campidoglio brilli per efficacia e prontezza, ma a Roma le possibilità di gestire un’emergenza sociale, accogliendo e ospitando, ci sono e non sono poche. Volumetrie pubbliche inutilizzate, ospedali dismessi, caserme acquisite dal Comune, stabilimenti industriali abbandonati, oltre a migliaia di ettari lungo i margini della città. La sindaca Raggi ha però preferito cullarsi nell’ignavia: per non sottrarre al mercato patrimonio comunale in vendita e per non insediare nuovi centri d’accoglienza invisi ai territori.
Meglio dunque fermare tutto, fermare tutti, e chissenefrega di tutta quella povera gente disperata.
«Giusi Nicolini lo aveva detto ad aprile: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”. Quando lo storytelling renziano nasconde un'altra verità» Del resto, è difficile sostenere insieme Giusi Nicolini e Marco Minniti. il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2017 (p.d.)
Il popolo democratico ventoteniano accogliente terzomondista e obamiano, come da copione leopoldo, vibrava ancora dall’emozione di Fuocoammare vincitore a Berlino quando è arrivata la doccia fredda. Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa ormai per antonomasia, “salvatrice di vite” per l’Unesco e brand della “poesia dell’accoglienza” per Matteo Renzi, non ce l’ha fatta. Ha perso in casa sua contro la lista “Susemuni” (“Alziamoci”, a significare che con lei gli isolani erano riversi o bocconi), creata non da un leghista xenofobo, ma da un ex sindaco di Lampedusa di centrosinistra dal nome da suonatore di pianobar su una nave da crociera americana: Totò Martello.
Questo Totò Martello, che nel profilo Facebook appare col sole in faccia, la sciarpa al collo e il sigaro in mano, secondo le cronache è “amico dei pescatori”, proprietario di alberghi lampedusiani e gestore di un circolo del Pd, uno dei due sull’isola, dove l’altro fa capo al marito di Nicolini. Per noi che seguiamo il Twitter di @matteorenzi, e da tre anni retwittiamo le foto che lo ritraggono insieme alla sindaca mentre osservano entrambi il tramonto da uno scoglio, è stato un trauma. Per i lampedusani, aizzati da Totò Martello, un po’ meno. Sull’isola, Nicolini, candidata al Nobel per la Pace dal pidino Ermete Realacci, era “una ladra di medaglie”, una che badava più alla sua immagine che al benessere degli isolani, e Totò Martello ha meditato la sua rivincita sguarnito di (per 5 anni ha usato Facebook solo per scrivere “Buongiorno”, “Buonanotte” e “Buona Pasqua a tutti”) ma con l’orecchio a terra. E ha capito quel che Nicolini s’è fatta sfuggire nella rapinosa voluttà antropofagica di Matteo.
Così questa storia che pare un canovaccio camilleriano mostra in controluce la filigrana della narrazione renzista. Tutto quel che Renzi tocca, e tanto più quel che costruisce sopra alle persone per suo comodo, si scioglie al sole come il gelato Grom della gag nel cortile di Palazzo Chigi. Così nel marzo dell’anno scorso Matteo “raccontava” l’isola di Giusi Nicolini, che intanto diventava l’isola di Totò Martello: “Lampedusa, cuore d’Europa. Ho scelto di passare qui questo venerdì speciale, accolto da @giusi_nicolini e da una comunità bellissima”. Un mese prima non si faceva scappare gli allori italici: “Berlino premia Gianfranco Rosi, il suo talento e la poesia dell’accoglienza #Fuocoammare #orgoglio”. E poco dopo ribadiva: “Spero che #Fuocoammare vinca l’Oscar. Grazie #Lampedusa” (per chi avesse dubbi, Fuocoammare non vinse). Seguirono i giorni dell’epica: ben “quattro donne ‘simbolo dell'eccellenza italiana’ accompagneranno il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Casa Bianca per la cena ufficiale con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama” (così Ansa l’ottobre scorso, con toni da agenzia Stefani). Come nelle corti del ‘500, quando i sovrani si facevano visita portandosi dietro musici, teatranti, ritrattisti, eruditi, cuochi e danzatori, Renzi con sé – a ornamento della sua gloria – portava due premi Oscar, uno stilista, un campione dell’Anticorruzione e, appunto, un poker di donne (come nell’Urss delle astronaute): l’atleta, la scienziata, l’architetta e la sindaca. Giusi Nicolini fu un colpaccio, spendibile negli Usa anti-Trump al pari del parmesan, simbolo degli italiani brava gente che vincono i premi ripescando la gente in mare (e chissà se Renzi se l’è rivenduta pure alla cena con Obama a Borgo Finocchietto, menù di Luca Bottura: cinque stagionature di parmigiano e dessert a base di fiori).
Erano i giorni della Speranza contro la Paura, dell’Amore che vince sull’Odio. Si favoleggiava di #Italiariparte e si copiava quel che faceva Papa Francesco, che a Lampedusa andò nel 2013 e, con gesto appena un po’retorico, bevve da un calice ricavato dal legno dei barconi. Si mandava Franceschini sull’isola a inaugurare il “Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”; così come una settimana fa si mandava il ministro dello Sport Luca Lotti a “sostenere una grande donna e una brava sindaca” con la scusa di inaugurare un campo di calcio. Ebbene, Nicolini ha perso, con 908 voti contro i quasi 1600 di Totò Martello, avendo contro mezzo Pd locale e pure Pietro Bartolo, medico eroe di Fuocoammare e quindi ovviamente star dell’ultima Leopolda, dove Matteo lo abbracciò mostrandosi commosso. Renzi – che s’è guardato bene dal promuovere le primarie sull’isola – l’ha liquidata su Fb: “Ieri Giusi ha perso a Lampedusa, succede… Ma la qualità dei rapporti umani (come si sa, il suo forte, ndr) non viene mai meno. Grazie Giusi... Lavoreremo ancora nel Pd, avanti, insieme”. Noi le diremmo di scappare, indietro e da sola, perché per quanto ci piaccia Totò Martello, con quel nome da parrucchiere del New Jersey, la nostra solidarietà va lei, che ad aprile,benché tardi,aveva capito tutto: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”.
La strategia di potere mondiale della Germania di Merkel sembra aprire una nuova fase nel colonialismo del Primo mondo. Compatibile o meno con il Migration Compact di Renzi &Co? Articoli di Alessandro Alviani, Tonia Mastrobuoni, Fabio Celestino, edizioni online de
La Stampa, la Repubblica, BlastingNews, 13 giugno 2017
La Stampa online
MERKEL, UN PIANO PER L’AFRICA
TEST PER LA LEADERSHIP GLOBALE
di Alessandro Alviani
«A Berlino vertice in vista del G20. Aiuti economici per le riforme. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha incontrato, tra gli altri, a Berlino, i leader di 7 Paesi africani, tra cui quello della Guinea e presidente dell’Unione africana, Alpha Condé
Altro che «Piano Marshall con l’Africa», come lo chiama da mesi il ministro tedesco per la Cooperazione economica, Gerd Müller. Il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, non ha dubbi: «Direi volentieri al ministro Müller che si potrebbe parlare quasi di un Piano Merkel al posto di un Piano Marshall», spiega, tra gli applausi, Ouattara alla conferenza sull’Africa, organizzata ieri a Berlino nel quadro della presidenza di turno tedesca del G20. E anche il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, non ha dubbi: «Il Piano Merkel per l’Africa richiederà più tempo» del Piano Marshall originale, «ma abbiamo bisogno di sforzi da entrambe le parti, serve una partnership che sia vantaggiosa per tutti».
E pazienza che il «Piano Merkel», in sé, non esista, ma sia la sintesi di strumenti elaborati da Müller e dal suo collega delle Finanze, Wolfgang Schäuble: da un lato 300 milioni di euro per programmi di formazione professionale e occupazione, destinati ai Paesi – si parte con Tunisia, Ghana e Costa d’Avorio, mentre Marocco, Ruanda, Senegal ed Etiopia potrebbero seguire – che si impegnano a rispettare i diritti umani, combattere la corruzione e garantire lo stato di diritto, creando così un clima economico più favorevole; dall’altro i «Compact with Africa», che puntano a incentivare le riforme sul posto, per attirare maggiori investimenti privati. Il fatto che molti politici africani, ieri, abbiano parlato di «Piano Merkel» non fa che riflettere la centralità di una leader che ha deciso di porre l’Africa in cima all’agenda del G20.
E che ha riunito a Berlino una platea impressionante: dal premier Gentiloni, che ha insistito sulla necessità di un «miglioramento del contesto per gli investimenti privati» in Africa, al ministro dell’Economia Padoan, dalla direttrice del Fmi, Christine Lagarde, al presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim, dal Commissario europeo agli Affari economici Moscovici, fino al presidente della Bundesbank Weidmann, atteso stamattina. E che si è spostata poi in cancelleria per una nuova girandola di incontri: Merkel ha visto tra gli altri il presidente egiziano al-Sisi, i capi di Stato di Costa d’Avorio, Ghana, Niger, Mali, Ruanda, Senegal e Tunisia. Interlocutori centrali, agli occhi della cancelliera: Merkel è convinta da tempo che sia necessario contrastare direttamente sul posto le cause delle migrazioni, creando chance e posti di lavoro soprattutto per i più giovani. Lavorare insieme per migliorare la situazione nei Paesi africani significa anche «creare più sicurezza per noi» e combattere i trafficanti, ha notato la cancelliera. Non risparmia critiche: «Nei Paesi industrializzati dobbiamo chiederci se abbiamo seguito sempre la strada giusta coi classici aiuti allo sviluppo. Non credo. Dobbiamo concentrarci di più sullo sviluppo economico dei singoli Stati». Merkel vuole iniziare. E spera, fino al summit di luglio ad Amburgo, di convincere quanti più Paesi del G20 ad affiancarla.
La Repubblica
INVESTIMENTI E ALLEANZE
ECCO IL PIANO DEL G20
BERLINO IN PRIMA LINEA
di Tonia Mastrobuoni
«Il continente avrà una popolazione di 2,5 miliardi nel 2050. Per prevenire l’ondata migratoria, o renderla un’opportunità, servono accordi di sviluppo»
«Chiamiamolo Piano Merkel, non Piano Marshall» sorride Alassane Ouattara, il presidente della Costa D’Avorio, e qualche timido applauso si leva dalla platea del G20 per l’Africa. L’iniziativa berlinese dimostra la serietà d’intenti del governo tedesco, che ha voluto porre lo sviluppo in Africa al centro della propria presidenza del summit dei Grandi. In piena sintonia, ha ricordato ieri Paolo Gentiloni, con il G7 italiano. Non c’è argomento su cui Berlino e Roma siano più concordi: aiutare un continente in crescita demografica esponenziale — entro il 2050 la popolazione sarà raddoppiata a 2,5 miliardi — significa anche prevenire migrazioni di massa verso l’Europa. Soprattutto perché è una popolazione giovane: «ricordiamoci — ha detto Merkel — che l’età media in Germania è 43 anni, in Niger o in Mali è 15».
Per la cancelliera «servono iniziative che parlino non tanto dell’Africa ma con l’Africa». E «se c’è troppa disperazione in Africa, è ovvio che i giovani si cercano un’alternativa». Le ha fatto eco Gentiloni — era a Berlino per la concomitante presidenza italiana del G7 — che ha messo in evidenza come «per affrontare con efficacia il problema delle migrazioni occorra sostenere uno sviluppo duraturo e stimolare gli investimenti nei Paesi d’origine». Anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha sottolineato da Berlino come lo sforzo sia di «renderla la principale destinazione delle partnership bilaterali ».
D’altra parte, come ricorda l’organizzazione umanitaria One, proprio l’invecchiamento rapido delle società europee creerà un crescente fabbisogno di forza lavoro. Entro il 2050, per scongiurare il collasso economico, l’Europa avrà bisogno di 100 milioni di migranti, circa 2,5 milioni all’anno. L’Africa va vista anche come un’opportunità.
Soprattutto, anche le organizzazioni umanitarie ammettono ormai che la chiave per il futuro dell’Africa è il coinvolgimento dei privati. Come ha riconosciuto il presidente del Ruanda Paul Kagame, «se gli aiuti tradizionali sono utili, non potranno mai essere sufficienti per uno sviluppo duraturo ». E dunque il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha spiegato come «il “Compact con l’Africa punti sulla responsabilità dei singoli Paesi africani: sono loro a decidere con quali partner collaborare e sono loro a dover creare le condizioni per attrarre investimenti privati».
Scopo dell’iniziativa è quello di favorire una collaborazione più stretta anche tra le istituzioni presenti in Africa come il Fmi o la Banca mondiale, perché aiutino a disegnare le riforme che creino un ambiente più favorevole agli investimenti — quelle fiscali, della giustizia o quelle per favorire le energie rinnovabili o sviluppare le economie digitali, solo per fare qualche esempio. E Christine Lagarde, sempre dal palco berlinese del G20 per l’Africa, ha raccontato che «in base alla mia esperienza di 25 anni nel settore privato posso dire che se un investitore sa che ci sono regole, c’è certezza del diritto, e non c’è corruzione, gli investimenti arrivano».
BlastingNews online
IL PIANO MERKEL PER L'AFRICA
TRA I PUNTI DEL PROSSIMO G20 DI AMBURGO
di Fabio Celestino
«Il 6 e 7 luglio Amburgo si prepara a ospitare il G20. Il piano di sviluppo in Africa è il tema centrale presentato dalla Cancelliera Angela Merkel»
Il 6 e 7 luglio si apre ad Amburgo il G20 e alte sono le aspettative, come dimostrano anche le azioni in fase di preparazione all'evento. Ieri, lunedì 12 giugno, si è tenuta a Berlino una pre-conferenza cui erano presenti alcuni dei massimi rappresentanti della politica internazionale: tra gli altri, per l'Italia, il presidente del Consiglio Gentiloni e il ministro dell'Economia Padoan; la direttrice del FMI (Fondo Monetario Internazionale), Christine Lagarde; il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim; il Commisssario europeo agli Affari economici, Moscovici, e il presidente della Bundesbank, Weidmann. Durante la conferenza è emerso più degli altri quello che sarà uno dei fulcri dominanti del summit di luglio, ossia lo sviluppo dell'Africa.
Si è parlato di un "#Piano Merkel", per fare riferimento a un piano di investimenti voluto dalla leader tedesca in favore della crescita del continente africano.
Il Piano per l'Africa della Cancelliera tedesca
Il nuovo Piano di investimenti in Africa prende il nome da un altro che ha segnato la storia passata - il Piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale - e corrisponde a uno stanziamento di 300 milioni di euro per l'occupazione in Africa. Una cifra considerevole che, come previsto dal ministro dello Sviluppo tedesco, servirà a: sostenere programmi di formazione professionale e occupazione locale e coinvolgerà paesi come Tunisia, Ghana, Costa d'Avorio, prima di tutto. A cui seguiranno, in un secondo momento, Marocco, Ruanda, Senegal ed Etiopia; stimolare le riforme sul territorio africano, tali da "attrarre un numero maggiore di investimenti privati" (tale misura prende il nome di "Compact with Africa".)
Il Piano per l'Africa è ambizioso e prevede un impegno ingente da ambo le parti.
Se da un lato si prevedono forti investimenti per favorire lo sviluppo dei paesi africani, dall'altro lato sono richiesti profondi cambiamenti strutturali da parte delle nazioni africane, che sono chiamate a un impegno oggettivo per il rispetto dei diritti umani, per la lotta alla corruzione e per la salvaguardia dello stato di diritto.
Ragioni per investire in Africa secondo Angela Merkel
Il Piano prende il nome dalla leader tedesca in segno d'omaggio al suo impegno di mettere l'Africa al centro del dibattito in preparazione del summit che la Germania sarà chiamata a presiedere a luglio. Nel vertice di Berlino di ieri, la Merkel ha spiegato le ragioni per un tale investimento. Non si tratta di un banale aiuto economico a paesi emergenti. Un lavoro sinergico di quanti più paesi possibili per migliorare le condizioni in Africa equivale, infatti, a "creare più sicurezza anche per noi", ha spiegato. In questo senso, la Merkel ha messo in dubbio l'efficienza degli aiuti stanziati fino adesso.
"Nei paesi emergenti dobbiamo chiederci se abbiamo seguito sempre la strada giusta. Non credo". Il suo suggerimento è, piuttosto, quello di orientarsi maggiormente "sullo sviluppo economico dei singoli Stati". Nel prossimo G20 di Amburgo il suo intento principale sarà quindi quello di coinvolgere quanti più paesi possibile in questa direzione.
«Il Rapporto annuale sulla situazione del paese, pubblicato recentemente dall’Istat, certifica la crescita delle disuguaglianze, con alcuni dati interessanti e qualche polemica sulla metodologia adottata».
Sbilanciamoci.info, 12 giugno 2017 (c.m.c.)
Da qualche edizione a questa parte l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di scegliere, per (ri)dare vita al suo annuale Rapporto sulla situazione del Paese, un tema conduttore: due anni fa furono i territori, l’anno scorso le generazioni, quest’anno i gruppi sociali.
La scelta di quest’anno ha generato un discreto dibattito, non tanto su quello che il Rapporto 2017 ci racconta dei gruppi sociali, riportato senza nemmeno troppa contezza da un gran numero di testate nazionali, ma sul metodo attraverso il quale l’Istituto ha deciso di individuare questi gruppi. L’obiettivo è quello di raggruppare le famiglie in base non solo al reddito ma anche ad altre caratteristiche proprie della famiglia o della persona di riferimento.
Per fare questo l’Istat usa una tecnica inferenziale: ovvero una tecnica che fa emergere dai dati i gruppi in cui la società italiana si divide senza bisogno di attrezzarsi con una classificazione e quindi una teoria aprioristica. Long story short: dall’indagine Eu-Silc, l’Istat ha selezionato un certo numero, a dire il vero ridotto, di variabili in grado di dare conto delle differenze di reddito tra le famiglie.
Nello specifico le variabili scelte dall’Istat sono: il numero di componenti della famiglia, la professione svolta, il tipo di contratto di lavoro, la cittadinanza, il titolo di studio. Un albero di regressione di queste variabili sul reddito ha suddiviso le famiglie in gruppi il più possibile omogenei tra di loro.
Autorevoli voci della sociologia italiana non hanno apprezzato questo approccio, dispensando critiche soprattutto dal punto di vista epistemologico: “La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato –, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo” (Barbagli, Saraceno, Schizzerotto su lavoce.info del 23 maggio).
Un argomento che può sembrare a prima vista molto convincente, ma che si rileva altrettanto debole se osservato più da vicino. La debolezza nasce dal non riconoscere che l’esercizio condotto dall’Istat è un esercizio di inferenza: il fatto di farsi “suggerire” dai dati sulle differenze di reddito e di altre variabili l’appartenenza al gruppo non equivale affatto ad assumere che le diseguaglianze generino i gruppi.
In fondo, quello che i critici non sembrano accettare è il tentativo di provare, per una volta, a non partire da una teoria predefinita che, generalmente, stabilisce l’appartenenza a un gruppo/classe dal ruolo nel mercato del lavoro della persona e che, a quanto pare, richiede il bollino di una cattedra in sociologia (!).
Il Presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha ribadito il valore di questo tentativo in un articolo su neodemos.it «Applicare ai dati classificazioni esistenti è certamente utile e necessario […] Quest’anno si è applicato un approccio diverso, rinunciando ad assumere ex ante quelle classi come date, ed esplorando invece con uno strumento statistico e a partire dai microdati d’indagine se emergesse una classificazione diversa […] L’obiettivo è quindi differente; è perseguito con un approccio metodologico di carattere inferenziale, reso possibile dalla ricchezza del patrimonio informativo di cui l’Istat dispone.»
Quello che l’Istat sembra reticente ad ammettere è che scegliere le variabili in grado di spiegare il reddito significa indirettamente avere una teoria su come si forma il flusso di risorse economiche nella famiglia. E la teoria che l’Istat mette in campo non solo non viene esplicitata, ma sembrerebbe per lo più dettata dalla disponibilità di variabili dell’indagine Eu-Silc e dalla necessità di replicare la costruzione dei gruppi con i dati di altre indagini e quindi di scegliere variabili che siano disponibili in indagini diverse.
Di fatto il numero e il tipo di variabili che l’Istat mette sul piatto per individuare i gruppi non sembra del tutto soddisfacente e non sembra in nessun modo riflettere “la ricchezza del patrimonio informativo” richiamata dal Presidente Alleva. E forse il ridotto numero di informazioni che concorrono a definire i gruppi è anche la causa di alcuni risultati bizzarri come il gruppo delle anziane sole e giovani disoccupati… Non è chiaro poi se siano state fatte delle prove con altri metodi al fine di verificare la robustezza dei risultati ottenuti. Rimane certamente di valore il tentativo di innovare in un campo di indagine estremamente attuale. Un tentativo, evidentemente, giudicato troppo sovversivo da taluni.
Una volta individuati i gruppi, l’Istat propone una descrizione di diversi aspetti che li caratterizzano: le condizioni di salute, la partecipazione sociale e culturale, la partecipazione al mercato del lavoro. I risultati, tuttavia, appaiono per lo più trainati dalle variabili che incidono nella costruzione dei gruppi stessi.
Così emerge che i gruppi costituiti da famiglie con redditi più elevati e persone più istruite sono quelli con condizioni di salute migliore, con stili di vita più salutari, più elevati livelli di partecipazione sociale e culturale, una presenza più stabile e proficua sul mercato del lavoro… Niente di sorprendente, dunque.
Ma nelle pieghe del rapporto, lì dove si abbandona il tema dei gruppi, si scovano delle informazioni interessanti. Come la questione demografica con un numero di nascite sempre più basso sintesi di un tasso di fecondità bassissimo e di un progressivo ridursi del numero di donne in età fertile. Un declino demografico che non sembra più compensato, come un tempo, dai fenomeni migratori: il tasso di fecondità delle donne straniere sta rallentando e rallenta anche la crescita del numero di stranieri residenti.
Oppure il fatto che la partecipazione culturale sia in una fase di allarmante declino: partendo dal 34% del 2008, nel 2016 ha raggiunto il e superato il 37% la quota di persone con più di 6 anni che non partecipa in nessun modo alla vita culturale (questa quota è del 50% nelle famiglie a basso reddito con stranieri). Oltre il 25% del tempo libero è dedicato a guardare la TV (anche qui con delle differenze che rispecchiano la disponibilità di risorse e il titolo di studio: non si arriva al 25 per la classe dirigente mentre si supera il 30 per le famiglie a basso reddito), mentre meno del 5% è dedicato alla lettura o ad altre attività culturali.
Un altro passaggio interessante del Rapporto annuale dell’Istat è il tentativo di sottolineare come la crescita degli ultimi anni nei livelli di diseguaglianza sia rintracciabile nella forte crescita delle diseguaglianze che si generano sul mercato del lavoro e del capitale. Un passaggio, questo, che sembra suggerire, anche se non in maniera esplicitata nel rapporto (forza! un po’ di coraggio!), la necessità di impostare politiche pubbliche orientate, come auspicato da molti analisti, alla cosiddetta pre-distribution.
Così come sembra interessante l’accenno di analisi sull’influenza delle caratteristiche di impresa sui differenziali salariali che evidenzia il ruolo positivo del capitale umano e dell’innovazione sulla compressione salariale.
Insomma, un Rapporto annuale coraggioso, a tratti un po’ ingenuo ma al quale vale la pena dare un’occhiata.
«Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile».
Libertà e Giustizia online, 11 giugno 2017 (c.m.c.)
L’età dell’indifferenza: questo il titolo che possiamo dare alle ricerche demoscopiche più recenti sullo stato della coscienza politica dei cittadini italiani. Indifferenza, soprattutto nel caso dei giovani tra i 18 e i 34 anni, per le tradizionali divisioni tra destra e sinistra. Lo conferma il Rapporto Giovani 2017 dell’Istituto Toniolo, realizzato in collaborazione con Fim Cisl. I giovani non sono indifferenti alle questioni di giustizia (e di ingiustizia) sociale – alla crescita della diseguaglianza, al declino delle eguali opportunità, al valore tradito del merito personale: insomma agli ideali che dal Settecento in poi sono stati rubricati sotto le bandiere delle varie sinistre. E dunque, in questo senso, non vi è indifferenza per quella divisione antica.
L’indifferenza (comprensibile) è verso i partiti che si sono fin qui incaricati di rappresentare quelle idee di giustizia, e che oggi sono giudicati (giustamente) come misere macchine elettorali, finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’ esercizio del potere e dai privilegi ad esso associati. Sono le élite politiche, il cosiddetto establishment, a generare la “politica politicata” e, insieme, ad affossare i valori della politica, le ragioni delle politiche di giustizia. Questo è il senso dell’analisi dell’ Istituto Toniolo e delle impressioni che ciascuno di noi si fa navigando online o praticando la quotidiana comunicazione casuale e non premeditata. Osserva Alessandro Rosina, a commento del Rapporto Giovani, come quello dei ragazzi sia «l’elettorato più difficile da intercettare » perché critico della retorica politica e, aggiungiamo, del monopolio del potere della voce che chi è dentro le istituzioni ha e difende.
L’esclusione dalla partecipazione alla formazione delle opinioni, non solo alle decisioni, ha effetti devastanti, perché dimostra come ad essere irrilevante non è solo il voto ma anche la voce dei cittadini.
Avere un blog, postare messaggi, commentare su Twitter: tutto questo partecipare è poco soddisfacente perché non produce effetti. Anche partecipare con le sole opinioni si rivela dispendioso perché senza un ritorno. Che il web serva a darci democrazia diretta è un’illusione. Senza partiti le voci del web restano inefficaci.
E i cittadini lo capiscono. Soprattutto i giovani, abituati ad avere “ritorni” immediati alle loro esternazioni sul web.
E invece la politica resta un muro di gomma, nonostante la facilità delle comunicazioni. Inarrivabile. Anzi, si potrebbe pensare che fino a quando l’arma della partecipazione erano i rapporti faccia a faccia, anche la parola aveva più forza. Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile. È questa impotenza a generare demoralizzazione, un malanno grave nella democrazia che è per antonomasia un fenomeno di fiducia nel potere della volontà politica, individuale e associata.
Eugenio Scalfari suggerisce spesso nei suoi editoriali di rileggere Alexis de Tocqueville. In effetti, sembra di un’attualità disarmante: la società come una grande audience, interpellata ad ogni soffio di vento per assicurarsi consenso, eppure senza effetti visibili, testabili. Una grande melassa nella quale la politica – che è invece distinzione di posizioni, partigianeria e schieramento, anche a costo di essere (o sembrare) perdenti – si scioglie in chiacchiericcio poco credibile. È questa l’indifferenza di cui si parla oggi, tra i giovani soprattutto: prevedibilmente, poiché se non c’ è più spazio per il bricolage dei collettivi, allora ci si scaglia contro chi sta dentro le istituzioni. I giovani (e meno giovani) scrive Rosina, «si chiudono» alle grandi idee propositive e «si avvicinano ai partiti anti-sistema come M5S e Lega, che sono quelli che urlano di più». Nella politica audience-melassa è l’urlo che fora il muro di niente. Non crea, ma si fa sentire.
L’ anti-establishment, che l’indifferenza per i partiti e i loro leader hanno partorito e alimentano nel corso degli ultimi anni, è la porta spalancata a quel che con un termine poco preciso viene chiamato populismo, e che sarebbe meglio chiamare anti-partitismo, uomoqualunquismo arrabbiato. A chi vuole arrivare in fretta al potere, questi sondaggi indicano che per cavalcare l’indifferenza occorre imitare la retorica demagogica e qualunquista. A chi vuole riannodare i fili di un desiderio della politica degli ideali, questi sondaggi possono indicare una strada, forse più impervia ma che potrebbe pagare domani: ricomporre un collettivo di persone unite da idee, partigiani coraggiosi che non solo denuncino ma propongano. La lotta per qualcosa che vada oltre la propria persona ha una bellezza alla quale né i giovani né i meno giovani sono insensibili.
«Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti, avevano profondo rispetto per gli altri I loro interlocutori erano ebrei, buddisti e cristiani, erano eretici, ma nessuno li mandò al rogo».
la Repubblica, 12 giugno 2017 (c.m.c.)
Frederick Starr, L’illuminismo perduto.L’età d’oro dell’Asia centrale dalla conquista araba a Tamerlano. tr. L. Giacone, Einaudi, pagg. 676.
Due giovani intrecciano una fitta corrispondenza a molte centinaia di chilometri di distanza. Si scambiano opinioni e scoperte scientifiche. Si pongono interrogativi profondi su come è fatto il mondo, su come tutto è incominciato e come andrà a finire. Lo fanno mille anni fa. E con una libertà che da noi non si sarebbe vista per molti secoli ancora. L’uno ha 28 anni. Sa già di tutto. È un geografo, un geologo, un fisico, un matematico, un astronomo, un filosofo. È studioso di religioni comparate, di psicologia, persino musicista. Si chiama Al-Biruni, vive e lavora in quel che oggi è il nord dall’Afghanistan. L’altro, poco più che ventenne, si chiama Ibn-Sina (conosciuto anche come Avicenna). Nato in Khorasan, che oggi sarebbe Iran, al confine con l’Afghanistan, studia a Bukhara, che oggi è in Uzbekistan, si sposta a Gurganj, e infine a Isfahan, in Persia.
La chiamavano “Terra delle Mille città”. Alcune erano allora più grandi e popolose di Parigi, Roma, Pechino o Delhi. Lui si trasferiva da una all’altra, offrendo le sue conoscenze e anche consigli politici (come capitò ad altri geni, ascoltati o inascoltati: da Confucio, a Dante, a Machiavelli). La sua opera più famosa è il ponderoso Canone di medicina, sulla cui traduzione latina è praticamente fondata tutta la nostra medicina. Nella corrispondenza col suo amico espone una teoria dell’evoluzione. Quasi dieci secoli prima di Darwin. I due avevano addirittura postulato l’esistenza in un punto imprecisato tra Atlantico e Pacifico di un continente ancora sconosciuto. Insomma erano arrivati in America 500 anni prima di Colombo, senza neanche mettersi in viaggio, in base a calcoli astronomici.
Fenomeni. Ma non isolati. Ci fu un momento in cui l’Asia Centrale profonda pullulava di menti geniali e poliedriche. Mezzo millennio prima del miracolo del Rinascimento, dei Leonardo, dei Michelangelo e dei Galileo. Una folla di geni: da al-Khwarizmi, che avrebbe dato il nome al termine “Algoritmo”, e che scoprì le orbite ellittiche dei pianeti attorno al Sole, secoli prima di Keplero, agli astronomi di Samarcanda che misurarono l’anno siderale con maggiore accuratezza di quanto poi fece Copernico, e l’inclinazione dell’asse della Terra con precisione pari a quella di oggi. Eccellevano nella scienze come in poesia. Di Omar Khayyam si conoscono le quartine in cui cantava la vita, l’amore, il vino, l’umanità.
Meno si sa che era anche un grande matematico. Fu tra i primi ad accettare i numeri irrazionali e a classificare i 14 tipi di equazioni di terzo grado. Gli viene attribuita persino una teoria delle parallele che prefigura le geometrie non euclidee di Lobacevskij e Riemann, quelle che sarebbero servite ad Einstein per inquadrare le relatività e la “curvatura dell’Universo”. Passano per arabi. È vero, scrivevano in persiano e in arabo (che per un’epoca fu la lingua per eccellenza del pensiero e dei dotti). Ma non erano arabi. Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti. Si professavano islamici come gli arabi. Ma in comune con gli arabi di El-Andalus avevano soprattutto tolleranza e rispetto per gli altri. I loro interlocutori erano ebrei, indù, buddisti e cristiani. Si trovavano più a loro agio a discutere con uomini di studio di una religione diversa, piuttosto che con i contrapposti fanatismi in seno alla propria. Erano a modo loro eretici. Anche se nessuno li mandò al rogo, come sarebbe successo invece secoli dopo ai loro colleghi europei. Le corti dei Califfi, gli Imperatori della Cina, e poi i Khan mongoli, si sarebbero contesi studiosi ed esperti appartenenti alle molte e diverse scuole dell’Asia centrale. Formavano una comunità, anzi una “rete liquida” che scambia informazioni e saperi, insomma anticipavano Internet.
Ibn Sina e Al Biruni sono solo i più famosi in mezzo ad una galleria sterminata di personaggi, scoperte, risultati scientifici, opere di ingegno, storie e aneddoti che affollano un bel libro di Frederick Starr, ora tradotto da Einaudi. Si intitola L’illuminismo perduto.
Sottotitolo: L’età d’oro dell’Asia Centrale dalla conquista araba a Tamerlano. È quasi un’enciclopedia: 700 pagine. L’autore è uno studioso serio e molto brillante, che aveva iniziato la sua carriera come archeologo in Turchia e in Persia. Insegna alla Johns Hopkins, ha presieduto l’Aspen Institute, è uno dei massimi esperti mondiali di Asia Centrale. Al pari dei suoi soggetti di studio, coltiva interessi poliedrici. È anche un musicista e ha scritto una strepitosa storia del jazz in Unione sovietica.
L’illuminismo nel titolo si riferisce a un’altra specialità in cui gli intellettuali dell’Asia Centrale eccellevano a cavallo tra il primo e il secondo millennio: la compilazione di grandi compendi dello scibile umano, anticipando Diderot e gli encyclopédistes nel secolo dei Lumi. La loro produzione rivaleggiava in quantità con i libri sacri dell’India e gli annali della Cina, superava l’analoga produzione europea nel Medioevo. Ma è andata in gran parte perduta. Delle 180 opere di Al Biruni ne restano 22, di cui gran parte ancora inedite, di Ibn Sina ne sopravvivono circa 200 su 400. Ibn Sina e Al Biruni li avevo incontrati, se così si può dire, per la prima volta in Iran, quarant’anni fa. Me ne parlava, nella lunghe serate di coprifuoco a Teheran, un estro- so collega giornalista, Pietro Buttitta, fratello del poeta, e in quanto siciliano passionalmente interessato all’eredità islamica.
Nelle librerie di Teheran si potevano ancora reperire volumi di una serie di reprint anastatici di classici sull’Iran, sponsorizzati dalla sorella dello Scià. Unico difetto: erano deturpati da pacchiani ritratti di Reza Pahlavi. Qualche anno dopo avevo percorso in lungo e in largo l’Asia centrale cinese. Fu per me la scoperta di una terra magica, in cui il tempo pareva essersi fermato a molti secoli fa. Nel Xinjiang, il Turkestan cinese, avevo ritrovato le arguzie senza temo di Nasreddin Hodja, l’amore per la vita, la danza e il vino, i tappeti di Kashgar, i meloni, le angurie e altri sapori della mia infanzia, e anche qualcosa della ferocia della Turchia in cui sono nato.
Nel frattempo gli “Stan” (il Turkestan cinese, gli ex sovietici Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, ma anche Afghanistan, Pakistan e Iran) nell’immaginario occidentale sono ridiventati il buco nero del mondo. Malgrado uno sviluppo talora impetuoso, le contrade dove una volta vivevano i grandi geni ora evocano, ben che vada, il kitsch dell’esilarante Borat di Sacha Baron Cohen. Se no, di peggio: oscurantismo, ignoranza, burqa, taliban, malavita, terrorismo. A Mosca gli immigrati dall’Asia centrale ex-sovietica sono i più malvisti. Così come sono disprezzati a Pechino, temuti come mafiosi o terroristi gli uighuri originari dal Xinjiang. Salvo poi corteggiare gli Stan (e i loro dittatori) per farci passare le future magnifiche autostrade delle Vie della Seta.