« il manifesto,
30 giugno 2017 (c.m.c.)
Da molto andiamo dicendo che è passato il tempo di linguaggi e immaginari che si richiamano a concetti come l’«unità della sinistra» o, peggio ancora, il «centrosinistra» (vecchio o nuovo che sia). Abbiamo detto in tutte le salse – in tanti, in Italia e in Europa – di non essere interessati a riesumare idee di sinistra che non ci sono più o che paiono ormai in «stato vegetativo permanente».
Non è possibile pensare che il futuro siano una sinistra identitaria chiusa nella propria «autonomia», o all’opposto una «socialdemocrazia» impraticabile e inutile, nell’attuale contesto storico. Quel che ci interessa è camminare domandando, inventare una sinistra ancora da scrivere. È questa la risposta a quell’80% di giovani che il 4 dicembre ha bocciato la riforma Renzi-Boschi. Senza girarci intorno, è bene riconoscere che quel mare di giovani No, non ha difeso la «Costituzione più bella del mondo» per il semplice fatto che queste persone non hanno mai conosciuto la Costituzione come strumento di emancipazione quotidiana. Per queste persone, il referendum è stato soprattutto occasione di rigettare l’austerità come forma di governo delle proprie vite.
La sinistra, allora, ha senso se, a partire da questo dato generazionale e sociale, è in grado di trasformare ansia e rabbia in partecipazione ri-costituente. È importante aver trovato riscontri chiari di questa urgenza nella grande giornata del teatro Brancaccio. Anna Falcone e Tomaso Montanari, con la loro iniziativa, hanno segnato paletti rispetto ai quali non si torna indietro. Il percorso politico cominciato al Brancaccio prende congedo dal centrosinistra come ipotesi politica. E finalmente! Del resto, ciò non significa essere minoritari o settari. Nessun veto può essere posto alla partecipazione di chicchessia: ma allo stesso tempo al Brancaccio è emerso chiaramente che l’assenza di veti non può essere un alibi, usato ad arte per rimuovere le responsabilità politiche di tanti dei protagonisti del passato più o meno recente.
Con le responsabilità dei vecchi ceti politici occorre fare i conti senza nuovismi o rottamazioni. Al contrario è necessario lanciare, su pratiche e forme della politica, una grande sfida fatta di impegno teorico e di strumenti concreti quali la Carovana delle Piazze dell’Alternativa. Dato, però, che la mobilitazione politica non si inventa, su questo è bene insistere. Non abbiamo tempo né interesse di continuare a evocare come un mantra l’unità della sinistra, aspettando di volta in volta Godot, Gotor o Pisapia. Il nostro destino non può essere quello di diventare «frequentatori di kermesse della sinistra», che rischiano di ripetersi autoreferenziali e inconcludenti. Non possono interessarci allusioni evocative, dunque. Abbiamo bisogno – un bisogno figlio della precarietà che condividiamo con milioni di persone! – di qualificare subito questo percorso sulla qualità delle proposte e sulla intensità della presenza nella società.
Per queste ragioni è necessario rifiutare discussioni politiciste e inconsistenti, subito ripartite dopo l’assemblea del 18. Al contrario, è urgente prendere parola solo sui contenuti e sulle pratiche: ossia su ciò che concretizziamo ogni giorno nei territori, nelle battaglie cui partecipiamo, nella Carovana delle Piazze dell’Alternativa. Sforziamoci di capire se «unità» significhi avere proposte concrete e di rottura, solo per fare qualche esempio prioritario: su «industria 4.0», precarietà e composizione del lavoro; su welfare e senso del reddito minimo garantito; su diritto all’abitare e diritto alla città da opporre alle politiche securitarie; sulla conversione ecologica dell’economia; su quel bene comune che è la conoscenza; su migrazioni e accoglienza; sulla questione meridionale; sul contrasto alle mafie; sull’Europa che vogliamo.
Lo scorso 2 dicembre Stefano Rodotà ci ricordava che «abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare». Onoriamo la sua memoria con il nostro impegno militante. Sarebbe il miglior contributo possibile non tanto alla mitologica unità della sinistra, quanto piuttosto alla costruzione di un programma che abbia l’obiettivo di liberare parti sempre più grandi delle nostre vite dal bisogno e dal ricatto di quella violenta relazione sociale che chiamiamo capitale.
il manifesto, 29 giugno 2017 (p.d.)
Jordan Belfort, protagonista del Lupo di Wall Street di Martin Scorsese, ha l’obiettivo arricchirsi attraverso la truffa e il raggiro. È un accumulatore di denaro e un eccesso vivente; consuma droghe così come fa strage di piccoli risparmiatori creduloni. All’opposto Daniel Blake, protagonista dell’omonimo film di Ken Loach, è un operaio sessantenne non digitalizzato. Ha perso il lavoro ed è costretto ad adattarsi, inutilmente, alla logica totalitaria della valutazione imposta dalle agenzie delle “politiche attive”. Belfort è il capitalista selvaggio in una società passata dal lavoro salariato al lavoro della prestazione. Blake è l’uomo vulnerabile che resiste in una società dove il welfare state non corrisponde più al compromesso tra capitale e lavoro. Il primo incarna la pulsione di morte del capitale finanziario fino all’auto-distruzione. Il secondo difende la condizione di “cittadino” e muore di infarto prima di un’udienza che avrebbe riconosciuto i suoi diritti.
Belfort e Blake sono le polarità opposte della cupa società della prestazione in cui viviamo. La formula, efficace, è il titolo di un libro, scritto a quattro mani, da Federico Chicchi e Anna Simone (, collana Fondamenti, pp. 205, 12 euro) dove si racconta la fine del soggetto produttivo – e il lutto che questo comporta a sinistra e a destra – e la nascita di un soggetto prestazionale che sviluppa il “capitale umano” sul mercato. Nella società della prestazione la vita è assoggettata all’imperativo della concorrenza. La sua regola è: diventare imprenditori di se stessi. Questo “soggetto-impresa” è l’incarnazione di un nuovo modello di umanità basata sulla responsabilità diretta dell’iniziativa privata. La sua vita consiste nell’accumulazione di un “capitale” umano, sociale e relazionale nella disperata ricerca di reputazione, di credito e di reddito. Chi resta estraneo al culto della performance è escluso sino a morirne, come Daniel Blake. Chi, come Jordan Belfort, è al centro di questo sistema, mette in scena il delirio di onnipotenza di un Io tirannico che incarna l’idea di impresa.
Il modello neoliberale della società della prestazione è strutturato a tutti i livelli. Le politiche pubbliche sono gestite attraverso la contrattualizzazione, la managerializzazione e la concorrenza. È la Governance without government, un modo di governare senza rappresentanza che riduce la politica a tecnica e lo stato di diritto costituzionale a un mercato. La vita è gestita con i manuali del management aziendale e aumenta il potenziale prestazionale dei gruppi, delle reti e dei singoli cittadini. Questo è il pane quotidiano di chi frequenta, o lavora, nelle scuole e nelle università dove le istituzioni formano soggettività flessibili conformi a un “quasi-mercato” regolato attraverso sistemi della valutazione e meccanismi premiali. Ed è la normalità per chi si affaccia nel privato dove il management del sé persegue lo stesso obiettivo: auto-motivazione, flessibilità, responsabilità e creazione di un “portafoglio delle competenze”.
In questa cornice l’essere umano è spogliato dalla sua identità sociale ed è trasformato in un imprenditore che accumula un capitale costituito dalla somma delle sue “soft skills”. Le relazioni sono trasformate in transazioni commerciali dove il capitale è trasferito da un vissuto meno redditizio a uno più redditizio anche in termini simbolici e affettivi.
Sono i caposaldi di un’antropologia neoliberale fondata sul “paradosso dell’autonomia”. Prima autonomia significava meno costrizioni e più libertà politica, oggi significa l’opposto: auto-sfruttamento nel nome dell’auto-affermazione di sé sul mercato. Nella società dell’Io – l’“Io-crazia” – l’azione coincide con la sanzione, l’evocazione di una potenza con l’interiorizzazione dell’impotenza. Si spiega così la diffusione della depressione, il lato oscuro dell’iperattivismo della società della prestazione. Il doppio vincolo tra performance e depressione blocca ogni possibile individuazione alternativa. Questo è il problema dell’“etopolitica” contemporanea dove il concetto di “riforma” coincide con “repressione”, l’evocazione di una libertà con il rafforzamento dell’isolamento.
Il libro di Chicchi e Simone formula una teoria della liberazione basata sul reddito di base, una misura che permette ai soggetti vulnerabili di allontanare il ricatto del lavoro povero e precario; sul desiderio come rigenerazione e cura del sé e degli altri; sull’arte che libera il soggetto dalla miseria prestazionale e lo spinge verso “l’invenzione sociale” di un soggetto capace di sfidare l’imprevisto divenendo esso stesso imprevisto.
Resta il problema di come si affermi un “desiderio dissidente” che non sia, di nuovo e ancora, catturato dall’inesausta affermazione del sé imprenditoriale. “Non conta la meta o l’oggetto del desiderio – ha scritto lo psicoanalista Elvio Fachinelli – ma lo stato del desiderio”. Questo stato va tenuto aperto per differenziare il già saputo (sentire) dall’ancora da sapere (da vivere), altrimenti il desiderio muore insieme al possibile. È la premessa per un nuovo agire politico dell’autonomia a cui sono state sottratte persino le parole. La società della prestazione si combatte con una “via etica dell’umano”, sostengono gli autori. Una scommessa contro l’epoca del disincanto, dell’egolatria e del risentimento.
«». Reset, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Prima Milano poi Bologna: due città che, in modi diversi ma con due importanti manifestazioni pubbliche a maggio 2017, hanno accolto la voce dei migranti. Il capoluogo lombardo ha visto la partecipazione di numerosi migranti e cittadini, assieme alle istituzioni; il capoluogo emiliano, al contrario, ha avuto come protagonista la sola voce dei migranti rivolta in primis contro la legge Minniti-Orlando.
Lo slogan della manifestazione di Bologna, NoOneIsIllegal, è sorta esclusivamente dal basso, dalle esigenze e dalla rivendicazione dei diritti da parte degli stessi migranti e non è stato accolto dalle istituzioni che sembrano comunque abbracciare una legge come quella Minniti-Orlando. Quest’ultima rappresenta un ostacolo evidente alle possibilità dei migranti di appellarsi contro le commissioni che devono valutare le richieste di asilo. I migranti stessi non ci stanno e lo dimostrano con la consapevolezza del proprio status di apolide che, come sosteneva Hanna Arendt, li porta ad essere considerati delle non persone. Due mobilitazioni piene di speranza, portate avanti da chi crede nel valore delle differenze culturali ed etniche: la voce dei migranti nelle due manifestazioni italiane vuole una società plurale che non fomenti muri e paure.
Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia solo negli ultimi decenni (in particolare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta) ha adottato una politica di accoglienza nei confronti dei migranti che si è tradotta inevitabilmente in un’urgenza presente nel tessuto sociale. Già la Bossi-Fini ha dato vita a un processo di costante indurimento della condizione dei migranti, che s’inscrive perfettamente nel quadro socio-politico europeo. E i migranti, consapevoli dei fraintendimenti che hanno dato luogo a simili leggi, in queste recenti manifestazioni hanno richiesto una risposta in prima istanza politica, e poi socio-culturale, al razzismo e alla xenofobia.
Occorre partire proprio da qui, ovvero dal contesto sociale e politico dell’Europa, per adottare un punto di vista privo di pregiudizi e miti che alimentano il dibattito sull’immigrazione, che va considerato nel quadro generale delle politiche neoliberali. Considerando anche il caso delle presidenziali francesi di maggio 2017, c’è stato uno sforzo intellettuale da parte di alcuni economisti che hanno riformulato l’urgenza del problema dell’immigrazione, analizzando i miti che ruotano attorno ad esso. Tra chi, come Le Pen, ha portato avanti una campagna politica incentrata sulla sicurezza dei cittadini francesi e di conseguenza sulla paura dell’immigrato, e chi, come Macron, ha considerato i problemi dell’immigrazione in Francia a partire da una consapevolezza storica del periodo colonialista. Emerge, inoltre, la voce di studiosi che hanno fornito alcuni spunti per una ricostruzione del problema immigrazione.
Gran parte dei fraintendimenti generati dal dibattito sull’immigrazione sono dovuti a una mitologia, cioè a un insieme di rappresentazioni collettive radicate nei cittadini. Ed è proprio la potenza di questo mito che svela la sua contraddizione. Questa è l’ipotesi proposta da Éloi Laurent, professore di scienze politiche all’università di Stanford, nel suo libro Mitologie economiche (Neri Pozza 2017). Negli ultimi anni regna incontrastato il “mito socio-xenofobo” che, secondo l’economista francese, può essere descritto brevemente in questi termini: ci sono troppi migranti e poche risorse disponibili. L’immigrazione rappresenterebbe un costo economico non sostenibile. Tuttavia, i migranti sono in maggioranza giovani, attivi, in molti casi anche formati e rinforzano le dinamiche sociali dei Paesi in cui vivono. In realtà non è l’immigrazione in sé, ma la non integrazione che costituisce un costo economico considerevole. L’adozione di un approccio neoliberale ha dato luogo alla strumentalizzazione, in Europa e anche negli Stati Uniti, dello status dei migranti e degli stranieri.
Questa è la socio-xenofobia che secondo Laurent è figlia del neoliberismo. I Paesi del Nord Europa, considerati un tempo come modelli d’integrazione e d’accoglienza, stanno assumendo un atteggiamento di chiusura nei confronti dello straniero e del migrante. L’immigrazione sarebbe, secondo i cittadini europei, esclusivamente responsabile dei nostri mali e non un coadiuvante ai problemi relativi al mercato del lavoro. Questa è la tesi che invece riporta il libro di El Mouhoub Mouloud – professore di economia all’Università di Parigi Dauphine ed esperto di relazioni internazionali – che in L’immigration en France. Mythes et Réalités (Fayard 2017 non tradotto in italiano) svela i miti sull’immigrazione fornendo dati empirici.
Primo mito da scardinare, la definizione di quello che dovrebbe essere un Paese accogliente. Si tratta spesso di un mito diffuso, soprattutto in Francia, ma smentito da dati sul numero di rifugiati. La popolazione immigrata è costituita da meno di 6 milioni di persone in Francia all’inizio del 2015, e cioè l’8.9%, una cifra che, paragonata al dato di grandi paesi d’immigrazione come il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada e la Nuova Zelanda dove si supera anche il 20%, non sembra essere poi così alta. La Francia, come l’Italia, non sembra essere propriamente una terra d’accoglienza. Lo dimostrano anche dati sui rifugiati: le richieste di asilo politico sono nettamente inferiori a Paesi come Germania, Regno Unito e Svezia. Mouloud propone alcuni spunti di riflessione per definire i contorni di una politica alternativa dell’immigrazione: il più interessante è costituito dalla creazione di un permesso di residenza permanente per sostituire la molteplicità di tutti quei decreti vigenti e favorire la mobilità dei migranti garantendo così i loro i diritti.
Una via, quella proposta dai due economisti, che accantona l’intolleranza che contraddistingue l’atteggiamento dei cittadini europei e che, attraverso una pulizia semantica con dati e numeri alla mano, pone al centro la necessità di partire dal valore della persona. Al di là della nazione d’origine e della fede professata: pretesti concettuali che hanno alimentato da sempre le discriminazioni. Quella sul valore della persona è una scelta che, almeno nel caso del territorio italiano, dovrebbe condurci all’approvazione della Legge sulla cittadinanza, un gran passo in avanti che farebbe dialogare comunità e istituzioni.
«Gentiloni cede alle destre e avverte l’Ue:"I porti italiani potrebbero essere chiusi alle Ong straniere che salvano i migranti"», Articoli di Giampiero Calapà da
il Fatto Quotidiano e Rachele Gonnelli da il manifesto. 29 giugno 2017 (p.d.)
il Fatto Quotidiano
L’ITALIA: “EUROPA BASTA,
VIETIAMO I PORTI ALLE ONG”
di Giampiero Calapà
Il governo Gentiloni minaccia l’Europa: situazione insostenibile, pronti a chiudere i porti agli sbarchi dei migranti salvati da navi di Ong battenti bandiera non italiana. Il sospetto è che la virata verso destra sia stata caldamente consigliata dal segretario del Partito democratico Matteo Renzi, dopo le disastrose elezioni amministrative che hanno rinvigorito la xenofobia della Lega nord. La certezza sono i numeri, sciorinati dal Viminale: nelle ultime 72 ore sono sbarcati sulle coste del Sud più di dodicimila migranti, salvati da 22 imbarcazioni di organizzazioni non governative, “la maggior parte delle quali – riferiscono dal ministero dell’Interno – battenti bandiera straniera”. Dall’inizio dell’anno c’è un aumento del 14 per cento rispetto al 2016: 73.380 contro 64.133 al 27 giugno (alla fine dell’anno scorso erano stati 181 mila). Il sistema di accoglienza è saturo ma saranno presto aggiunti 20 mila posti.
La reazione del governo Gentiloni è il piano, elaborato dal premier con Marco Minniti e con il ministro della Difesa Roberta Pinotti, eseguito dall’ambasciatore presso l’Unione europea Maurizio Massari; il commissario per le migrazioni, il greco Dimitris Avramopoulos (del partito conservatore Nuova democrazia) ha già ricevuto la lamentatio italiana: “È diventato ormai insostenibile che tutte le navi impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo approdino solo e soltanto in Italia. O Bruxelles fa qualcosa o i nostri porti saranno chiusi”.
Il premier Paolo Gentiloni prova a spiegare al congresso della Cisl: “Non per soffiare sul fuoco, ma per chiedere all’Europa che la smetta di girarsi dall’altra parte”. E Avramopoulos, postando la foto dell’incontro con l’ambasciatore Massari, risponde su Twitter: “Ho discusso con l’ambasciatore italiano del nostro sostegno verso il loro Paese a seguito dell’aumento degli arrivi. Gli Stati membri devono rendere concreti gli impegni presi nel Consiglio Ue sul Mediterraneo centrale”.
Per Gentiloni, poi, “l’Italia intera si sta muovendo per gestire quest’emergenza migratoria”, ma ormai la situazione è fuori controllo. Su questo la versione che il Viminale dà al Fatto è diversa: uno dei motivi della minaccia di chiusura dei porti dipende dal rifiuto della stragrande maggioranza dei Comuni italiani del piano di accoglienza stabilito con l’Anci (l’associazione nazionale delle città): solo 2.800 Comuni su ottomila hanno risposto positivamente al progetto “accoglienza diffusa, che permette di evitare concentrazioni di disagio in grossi centri come a Mineo, in Sicilia”. Inoltre, la diffidenza verso l’Ue è crescente, “perché dei quarantamila migranti – spiegano dal Viminale – che avrebbero dovuto essere ricollocati dagli altri Paesi europei dopo lo sbarco in Italia, nell’ultimo anno ne sono stati accolti solo settemila, questo è un accordo già in essere, disatteso mentre è stata sigillata la rotta balcanica riversando nel solo corridoio libico tutte le migrazioni verso l’E uropa ”
E non solo, a far maturare la decisione della minaccia all’Ue è stato anche un altro episodio, che coinvolge il più europeista dei capi di Stato attuali, almeno a parole, il francese Emmanuel Macron. “Cento migranti che avevano varcato il confine di Ventimiglia, tra Liguria e Francia, sono stati rispediti in Italia due giorni fa. Quel confine è militarizzato dai francesi che dispiegano una forza di elicotteri, polizia e sorveglianza impressionante”.
Dunque sono questi i fattori e gli episodi che hanno fatto maturare la scelta, oltre i motivi post-elettorali che hanno convinto anche il Nazareno, di questa “minaccia” all’Ue, che rischia di diventare, se messa in atto, soltanto una mannaia sulla pelle dei migranti rendendo impossibile il lavoro delle ong che li soccorrono nel cimitero Mediterraneo.
il manifesto
MSF: «SI VUOLE LASCIARLI
SULLE NAVI? GLI OBBLIGHI
INTERNAZIONALI SONO PRECISI»
di Rachele Gonnelli
«È vero che c’è un sensibile aumento delle persone che si imbarcano dalla Libia, lo vediamo ogni giorno e era previsto, ma non è possibile non salvarli, ci sono obblighi internazionali precisi». Michele Trainiti è il coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso della nave Prudence di Msf, Medici Senza Frontiere.
State vivendo un’emergenza sbarchi?
Sì, numeri importanti. Del resto le stesse Nazioni Unite hanno segnalato da tempo che ci sono 250 mila persone nei centri di detenzione libici pronte a partire verso l’Europa.
Se l’Italia chiudesse i porti all’attracco delle navi delle ong, cosa succederebbe?
Non abbiamo nessun tipo di comunicazione in questo senso, solo notizie rilanciate dai giornali, niente di concreto. Chiudere i porti sarebbe una non soluzione perché cosa potremmo fare? lasciare le persone sulle navi? e poi? Sono anni che aspettiamo una iniziativa dell’Unione europea per la ricerca e il soccorso delle persone in mare, un meccanismo ufficiale dedicato. Invece di fronte a un flusso storico, alla chiusura di altre rotte e alla mancanza di alternative di arrivo legale, ci sono sempre più partenze su questa che è la tratta più pericolosa di tutte del Mediterraneo centrale.
Perché sempre più migranti in arrivo dalle coste libiche? Sono aumentati i fattori che li spingono, come dice l’Oim?
I «push factors» sono a monte, sono ciò che li spinge ad abbandonare le proprie case, e sono sicuramente aumentati perché nessuno lo fa volentieri. Poi ci sono le condizioni in Libia, agghiaccianti, le loro testimonianze e i rapporti delle organizzazioni internazionali parlano di torture efferate nei centri di detenzione dove i migranti sono lasciati anche senza acqua potabile e senza servizi igienici, di mercati di schiavi nelle piazze dei paesi della costa, di persone rapite per chiedere un riscatto ai genitori…La situazione è sicuramente molto peggiorata rispetto all’anno scorso.
Ancora peggiore?
Sì, confrontando i racconti delle violenze subite dai migranti salvati l’anno scorso con quelli di quest’anno, la percezione è netta: le condizioni, sia per strada che nei centri di detenzione, si sono ulteriormente deteriorate.
Per questo partono in numero maggiore?
I grandi numeri di quest’anno dipendono dalla capacità organizzativa dei trafficanti in Libia, che evidentemente sono cresciute perché non è mica uno scherzo mettere in acqua ogni giorno 2mila gommoni. Si deve contare che molti di quelli che siamo riusciti a salvare sono in così cattive condizioni perché sono al secondo o al terzo tentativo, in precedenza sono stati intercettati e riportati a terra dalla Guardia costiera libica e una volta ritornati in Libia venduti come schiavi, ricattati e torturati in modo sempre più agghiacciante. Sarebbe inaccettabile per noi riportali lì.
E se venisse dirottato il flusso in altri porti più vicini rispetto all’Italia?
C’è un obbligo internazionale al soccorso dei naufraghi in base alle convenzioni Sar e Solas che non può essere disatteso. Le stesse convenzioni impongono di portarli nel porto «sicuro» più vicino. La Tunisia non garantisce il diritto alla richiesta di asilo, quindi può essere considerata un porto sicuro per i naufraghi di uno yacht ma non di una imbarcazione di profughi. L’Algeria è troppo lontana, la Francia lo è più dell’Italia, la Spagna è più vicina solo per i naufragi a largo del Marocco.
E se in Libia si verificasse davvero una riconciliazione nazionale tra i governi di Tripoli e di Baida?
Se anche fosse, e per ora l’Oim parla di violazioni incredibili di diritti umani, la Libia dovrebbe ancora ratificare le convenzioni Sar e Solas. Altra cosa è l’attività della Guardia costiera libica nelle sue acque nazionali e in quelle contigue, dove può liberamente intercettare e riportare indietro i barconi, come fa.
I libici che l’Italia aiuta regalando motovedette e addestrandoli possono fare questo?
Certo, anche nell’incidente del 10 maggio, quando la nave dell’ong SeaWatch fu quasi speronata, non c’era nessun rapporto gerarchico tra i libici e la Guardia costiera italiana che coordina i soccorsi internazionali. La Guardia costiera italiana non ci ha mai chiesto di collaborare con i libici né può chiederci di consegnare le persone a loro, è solo tenuta ad avvertirli per primi delle operazioni di soccorso. Ma la clausola del divieto di respingimento a mare è valida solo per i paesi terzi come il nostro rispetto ai migranti in fuga dalla Libia. Certo, resta il dilemma degli aiuti dati a chi non è in condizioni di assicurare il rispetto dei diritti umani. Un bel dilemma per l’Italia.
. il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2017 (p.d.)
Ogni anno, appena il sole scalda abbastanza per il primo bagno, Enrico Ioculano, il sindaco Pd di Ventimiglia, mette in campo un ’iniziativa per limitare l’afflusso di migranti nella città frontaliera. Lunedì un’ordinanza per pulire il letto del fiume Roya ha fatto ‘scappare’ circa 400 subsahariani accampati sotto il cavalcavia dell’autostrada. Per quasi 48 ore, i migranti si sono nascosti tra i boschi al confine con la Francia. Ieri sera buona parte di loro è stata trasferita forzatamente a Taranto.
Nel giugno 2015 il neo-eletto Ioculano assisteva allo sgombero dei Balzi Rossi, spiaggia vip alle spalle del valico di ponte San Ludovico. Le immagini degli agenti in assetto antisommossa che inseguivano i migranti sugli scogli divennero il biglietto da visita di Ventimiglia. L’attenzione sul confine italo-francese non durò molto: quel’estate ci furono la crisi greca e subito dopo l’apertura della rotta balcanica. Lo scorso anno, invece, il primo cittadino vietò la somministrazione di pasti e alimenti da parte dei volontari ai richiedenti asilo. E mentre Ioculano dal palco della tv pubblica parlava di accoglienza, i vigili liguri multavano chi distribuiva da mangiare ai profughi.
Nonostante i tentativi dell’amministrazione comunale di bloccare il flusso di migranti, Ventimiglia è diventata il più trafficato snodo di uscita dall’Italia. Ma questo non dovrebbe sorprendere nessuno. Dopo la promulgazione delle leggi razziali, migliaia di ebrei scapparono in Francia attraverso le mulattiere che, dalla frazione Grimaldi arrivano a Mentone.
Anche Sandro Pertini prese questa via per arrivare nel suo esilio francese. Quel cammino è chiamato ‘il sentiero della morte’. Il percorso, usato nei decenni dai contrabbandieri, sale veloce per le Alpi e sovente chi scappa non conosce la strada. Basta una svolta sbagliata per cadere in un crepaccio. Negli ultimi anni sono oltre dieci i migranti ritrovati cadavere nel tentativo di arrivare in Costa Azzurra. L’instabile situazione libica sta spingendo decine di migliaia di persone sui barconi attraverso il Mediterraneo. Con questo scenario transnazionale è facile immaginare l’accalcarsi di persone sulla frontiera ligure.
Le strutture messe in campo da Caritas e Croce Rossa non bastano a sopperire tutte le necessità. Quindi dal 2015 i NoBorders, una rete di volontari della zona, tentano di organizzare l’accoglienza per chi non rientra nell’ombrello messo a disposizione dalle organizzazioni governative. Nei mesi scorsi gli attivisti si sono scontrati prima con il Comune e poi con l’autorità giudiziaria. Molti di loro sono indagati e altri, decine, colpiti da fogli di via. Come in un copione che si ripete sulle frontiere più calde d’Europa, nel vuoto lasciato dall’assenza dello Stato e dalla repressione delle iniziative locali si inseriscono volontari provenienti da altri Paesi europei. Nella notte tra domenica e lunedì alcuni attivisti tedeschi hanno interpretato l’ordinanza del sindaco per la pulizia del fiume come la minaccia di uno sgombero, che per impulso della Questura potrebbe avvenire mentre il giornale va in stampa.
I volontari hanno quindi proposto ai 400 migranti di accompagnarli in Francia, attraverso le montagne. All’unanimità viene data fiducia ai tedeschi: marcia notturna, guado del fiume, giornata nascosti nei boschi e una nuova marcia notturna. Per poi finire tra le braccia della gendarmerie che ha riaccompagnato i migranti in Italia. Sul confine la polizia li ha fatti salire sui dei bus e li ha spediti a Taranto.
Qualche mese fa le avremmo potute chiamare deportazioni, oggi con il decreto Minniti sono invece accompagnamenti nei centri d’identificazione. In qualche settimana verranno verificate le loro generalità, a qualcuno verrà dato un foglio di espulsione, quasi tutti torneranno a Ventimiglia. I migranti avranno perso tempo e l’Italia credibilità.
«Mentre emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come». il manifesto,
28 giugno 2017 (c.m.c.)
Inutile girarci intorno. Possiamo confrontare il numero dei Comuni in cui vince il centro-sinistra o il centro-destra, mettere insieme comuni grandi e piccoli o fare altre alchimie – Renzi ci ha già provato – ma il senso di queste elezioni è netto: ha vinto il centro-destra, soprattutto ha perso il centro-sinistra, più precisamente, è stato sconfitto il Partito Democratico. Perché un inizio così netto e drastico? Perché quello che è accaduto era scritto nella storia degli ultimi anni ed è la conseguenza di due fenomeni ben noti: astensionismo e sistemi con ballottaggio nelle realtà non più bipolari.
Se nei sistemi bipartitici o bipolari l’elettore si trova a scegliere tra il partito in cui si riconosce ed il partito avversario, in un sistema tripolare o multipolare gli elettori che non si riconoscono tra i due contendenti sono spinti in gran parte ad astenersi e per il resto a votare contro il partito più nemico. Questo produce una mutazione della stessa natura dell’atto elettorale: dal voto per al voto contro, dal voto per simpatia a quello per antipatia. Il fenomeno era stato evidente già nelle elezioni comunali di Roma e Torino. E non è bastato che Renzi non si presentasse nelle piazze dove si votava. Serviva forse un passo in più.
Oltretutto si è aggiunto un altro fattore che ha influito sul voto. Dopo il 4 dicembre siamo entrati in una fase di ristrutturazione delle forze politiche italiane che sta interessando soprattutto il campo che va dal centro alla sinistra. In questa fase si sono collocati il congresso «incompiuto» del Pd, la fuoriuscita da esso di tanti iscritti e dirigenti di valore, il congresso che ha visto Sinistra Italiana subire una scissione prima di nascere, e, più di recente, i movimenti di Art.1, di Pisapia e di Falcone e Montanari. Un grande fermento, insomma, che produrrà, speriamo, effetti positivi, ma che oggi non ha aiutato perché le elezioni sono intervenute a «lavori in corso». Mentre, cioè, emergono le macerie che dobbiamo rimuovere, ma non appare chiaro cosa vogliamo costruire e come e mentre i direttori di cantiere che si presentano sono guardati con sospetto.
Le prossime tappe del processo di ristrutturazione – legge elettorale e di conseguenza schieramenti ed alleanze – saranno decisive. E per tutti. Il processo riguarda anche il centro destra, ma esso opera col vento in poppa del populismo che indica nel migrante il nemico e nel protezionismo la risposta al bisogno di sicurezza che la crisi della globalizzazione produce. A sinistra il processo è, invece, più complesso: non dobbiamo smarrire i nostri valori – accoglienza, diritti civili e sociali – ma abbiamo un bisogno urgente di «fare opinione», mobilitare, unire, conquistare, costruire convergenze, individuare resistenze ed avversari.
Allora più che parlare di schieramenti ed alleanze la «Costituente della sinistra» dovrebbe fissare le nostre parole chiave. Eguaglianza, lavoro, garanzia di reddito debbono essere declinati per farli diventare nostri obiettivi precisi, condivisi e visibili, sui quali aggregare persone, società civile, organizzazioni. Ma abbiamo bisogno anche di indicare e far emergere le resistenze che troveremo, che dovremo contrastare ed i soggetti che le rappresentano: l’economia finanziaria, le banche, i grandi patrimoni, i grandi profitti dei nuovi padroni dell’economia digitale, i poteri e le corporazioni che bloccano la mobilità sociale e perpetuano stratificazioni economiche e sociali che bloccano speranze ed ambizioni dei giovani.
Insomma di fronte al rischio che ciascuno scarichi il suo malessere su quello che gli sta a fianco o sotto, dobbiamo ricostruire una gerarchia di ruoli e responsabilità perché in una società che cresce poco non ci potranno essere più uguaglianza e più lavoro senza progressività e redistribuzione. Il voto ci chiama a fare una sinistra nuova, ma più radicale. Quello che in altri paesi dirigenti – vecchi o nuovi che siano – stanno cercando di fare.
«Amnesty international Italia. Scrivere finalmente quella parola indicibile nel codice penale può comunque scoraggiare i negazionisti».
il manifesto, 28 giugno 2017 (m.p.r.)
La nuova legge sulla tortura che la Camera si appresta ad approvare in via definitiva lascia l’amaro in bocca, ma non è inutile. E’ vero che dopo decenni di discussioni sterili, di proposte puntualmente archiviate ad ogni fine di legislatura, era lecito attendersi che il Parlamento approvasse una legge migliore. Ma il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, scrivendo finalmente quella parola indicibile nel codice penale non è un’operazione priva di una sua logica apprezzabile.
La definizione della nuova fattispecie, frutto di un faticoso compromesso, è lunga e confusa. Ha alcuni difetti specifici, problematici sia dal punto di vista giuridico (nella prospettiva dell’applicabilità della norma) sia, soprattutto, da quello politico-culturale (per l’atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’obbligo di punire severamente tutte le forme di tortura che inevitabilmente esprimono). In particolare, il requisito del “verificabile trauma psichico” ridimensiona l’applicabilità della nuova fattispecie alla tortura mentale. E lascia decisamente perplessi la formulazione da cui si desume la necessità, perché vi sia tortura, di più comportamenti (come se questa non potesse essere il risultato di una sola, gravissima, azione).
Una valutazione equilibrata richiede però che si tenga conto anche di un altro aspetto: quello della sistematica negazione della tortura e della necessità di contrastare quell’atteggiamento. L’esperienza di Amnesty International mostra come in tutto il mondo gli stati accusati di praticare la tortura reagiscano negando i fatti. E se ciò non è possibile, minimizzano, sostengono che si tratta di episodi isolati da attribuire a poche “mele marce”. E se neppure questo è possibile, argomentano che non si tratta di “tortura”, ma di qualcosa di meno grave … è disponibile un nutrito repertorio di eufemismi.
Nel nostro Paese la negazione e l’occultamento della tortura si sono tradotti soprattutto nella volontà di mantenere il silenzio del codice penale (quantomeno di quello ordinario, l’unico che interessa veramente) sulla tortura. Di non prevederla per non dovere ammettere che esiste o che può esistere anche da noi. E’ per questo che ci sembra che chiamare la tortura con il suo nome, prevederla in modo specifico nel codice penale, potere eventualmente discutere di “tortura” (senza nascondersi dietro l’“abuso d’ufficio” o le “lesioni”) in un’aula di tribunale, anche se la definizione è deludente, possa rappresentare un piccolo ma utile passo avanti.
Nessuna delle alternative, del resto, è credibile: né l’idea del tutto irrealistica che il Parlamento possa migliorare il testo della norma entro la fine di questa legislatura né quella di chi preferirebbe rinviare, per l’ennesima volta, nella speranza a dir poco incerta che un nuovo Parlamento possa avere un atteggiamento diverso dagli ultimi cinque. La chiusura dell’ennesima legislatura con un nulla di fatto servirebbe soltanto a rassicurare ancora una volta coloro che continuano a sostenere, a torto ma con determinazione, che una legge sulla tortura, qualsiasi legge sulla tortura, sia contro gli interessi delle forze di polizia.
Antonio Marchesi è presidente di Amnesty International Italia
la Repubblica, 28 giugno 2017 (m.p.r.)
New York. Cinque giganti americani stanno rivoluzionando le nostre abitudini di consumo. L’Europa vuole evitare che questo si traduca in un oligopolio incontrollato, soffocante, distruttivo per i diritti dei consumatori, per il libero mercato, la competizione, l’innovazione. Oggi tocca a Google, domani potranno essere Amazon e Facebook, Apple o Ebay. La posta in gioco è immensa: i consumatori abbandonano velocemente comportamenti consolidati, lo shopping online cresce con prepotenza, in America è già in atto il tramonto dei centri commerciali e tutta la grande distribuzione soffre una crisi profonda. Il rischio del nuovo scenario è che la libertà di scelta del consumatore sia più immaginaria che reale; i nuovi metodi di manipolazione delle nostre scelte sono più subdoli che mai. La decisione europea tenta di costringere uno dei giganti digitali a cambiare strada. Ci riuscirà? A vantaggio di chi?
Google Shopping è uno dei protagonisti più formidabili nel nuovo mondo del consumo. Figlio del motore di ricerca Google, è diventato lo spazio virtuale dove i nostri desideri e i nostri soldi cercano di tradursi in acquisti. Catalogo virtuale di tutto ciò che è in vendita, guida intelligente, promette un accesso rapido, semplificato, in pochi clic e frazioni di secondo percorriamo più “scaffali e vetrine” che in settimane di passeggiate tra grandi magazzini, boutique o ipermercati. È tutto più facile, e siamo grati a chi ha disegnato un mondo così fluido e confortevole. Ma l’inganno c’è. In realtà siamo meno sovrani che mai. Il consumatore è docile preda di un algoritmo che lo guida verso il risultato deciso da altri.
Google Shopping non fa mistero della sua regola principe: ordina i risultati delle nostre ricerche dando priorità agli annunci a pagamento. È una grande macchina di raccolta pubblicitaria e di manipolazione delle scelte di spesa. Applica alla Rete l’antica pratica dei supermercati che si fanno pagare dalle grandi marche per piazzare i loro prodotti negli scaffali più visibili e più accessibili. Ma su Google Shopping quel trucco antico raggiunge una potenza immensamente superiore, è molto più raffinato. L’algoritmo fa scomparire dall’universo online altri servizi specializzati nella spesa comparativa, che offrono cataloghi intelligenti, recensioni, paragoni su qualità-prezzo.
I rivali potenziali, tutto ciò che introduce concorrenza a vantaggio del consumatore, viene relegato “molte pagine” più in là, ben lontano dai nostri sguardi frettolosi. Peggio ancora se usiamo lo smartphone, dove lo spazio è più ridotto e quindi finiamo per accontentarci delle opzioni iniziali.
La magia dell’algoritmo spiega la storia fantastica di Google, che alla sua prima quotazione in Borsa nel 2004 collocò l’azione a un prezzo di 85 dollari e oggi ne vale quasi mille. Con un tesoro di guerra di 172 miliardi di asset, può ben permettersi di pagare la multa europea senza che questo sconquassi il suo bilancio. Più problematico invece sarà mettere le mani nell’algoritmo per aprirlo alla concorrenza. Anche perché nel frattempo i maggiori rivali sviluppano strategie alternative per occupare lo spazio online. Amazon – che da sempre si distingue perché assomiglia più a un grande magazzino virtuale, mentre Google è più “catalogo di annunci” – ha fatto notizia di recente rafforzandosi nella distribuzione di prodotti alimentari freschi con la scalata alla catena salutista Whole Foods. Apple dal canto suo sta investendo sul ruolo di banca o carta di credito con lo smartphone come sistema di pagamento.
I primi a trarre beneficio della sanzione europea su Google dovrebbero essere i siti alternativi specializzati nel “giudizio comparativo”, nel raffronto qualità-prezzo tra prodotti concorrenti. Sono piccoli ma agguerriti, tra questi alcune società inglesi come Foundem e Kelkoo che furono le prime a promuovere azioni legali contro Google Shopping. «Per più di un decennio – ha detto il chief executive di Foundem – il motore di ricerca di Google ha deciso cosa leggiamo, usiamo e compriamo online. Se nessuno interviene a controllarlo, questo guardiano dell’accesso alla Rete non conosce limiti al suo potere». Gli esperti di Bruxelles hanno dimostrato che quando Google Shopping iniziò a manipolare il suo algoritmo per “retrocedere” i concorrenti sempre più lontano dagli occhi dei consumatori, i siti rivali videro sparire dall’80% al 90% dei propri utenti.
L’Europa è ormai la vera protagonista mondiale delle politiche antitrust, dopo che l’America si è arresa allo strapotere oligopolistico dei suoi big. Ora si apre una sfida nuova, in cui le autorità di Bruxelles dovranno vigilare sulle modifiche che Google introdurrà nel suo servizio. Senza trascurare gli altri Padroni della Rete, che con strategie diverse perseguono la stessa occupazione sistematica della nostra attenzione e del nostro potere d’acquisto.
Lla Repubblica, 27 giugno 2017, con postilla
C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No.
Eppure - è difficile negarlo - la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro.
È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma. Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore - dopo molti anni -, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia.
E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella).
Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza - oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali - l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni).
Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile.
È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato.
Sostiene Crainz: "Dopo Berlusconi e Monti, Renzi avrebbe dovuto cambiare la rotta". Ma il ragazzo di Rignano non poteva non seguire la rotta che altri, lassù al piano più alto, avevano già tracciato per Berlusconi, Monti e Renzi.
Dio denaroTraduzione di Norberto Bobbio, introduzione di Luciano Canfora. I disegni di Maguma sembrano il cortometraggio di un bestiario medievale. la Repubblica, 27 giugno 2017
Karl Marx, Dio denaro, ed. Gallucci, con disegni di Maguma, trad. di Norberto Bobbio, introduzione di Luciano Canfora
Comunicazione agli asili: non lasciatevi illudere dal formato delle pagine e dalle immagini coloratissime, perché questo - sebbene travestito da libro per bambini - era e rimane un pericoloso libello dell’infantivoro Karl Marx. Altro che favole della buonanotte. Qui si dà forma scritta all’idea malsana che da oltre un secolo e mezzo turba il sonno ai piani alti del capitale, e cioè che il denaro - creato dagli uomini - ha finito per umiliare gli uomini stessi, facendone un’infinita distesa di schiavi disposti a tutto in nome del codice Iban.
Il denaro insomma sarebbe la radice del male, come d’altronde avevano già detto certi marxisti della prima ora come san Paolo nella Lettera a Timoteo. Ma siccome ogni teoria nasce da un nucleo essenziale, varrebbe la pena di leggersi il curioso libro edito da Gallucci, dov’è espresso in fondo il cuore inalterato e potente di quella proliferazione di tomi e di trattati che ha fatto da struttura dottrinaria al socialismo. Scordatevi tutto quello che è seguito, dai bolscevichi alla Bolognina: qui c’è solo un signore di nome Karl che riflette sul denaro. E lo fa in modo folgorante, inducendoci a un paio di intuizioni sul perché abbia ancora senso nel 2017 proporre all’attenzione dei lettori il barbuto orco di Treviri.
Intanto lode sia a chi si è inventato di stampare in questo spiazzante formato le più caustiche parole del vecchio Karl, tratte dai celebri Manoscritti del 1844, e qui inserite a piè di pagina sotto un tripudio di grafica neoespressionista, efficacissima, a firma dell’artista iberico Maguma. E qualcosa già si potrebbe dire sulla fruizione che la trovata ingenera: le parole di Marx (qui tradotte da Norberto Bobbio) scorrono come un commento in voice- over sui fotogrammi di una pellicola. Ed è un cortometraggio visionario, da bestiario duecentesco, in cui un osceno caravanserraglio di ominidi deformi - ora con fattezze da suini, ora trasformati in salvadanaio - sembra ritratto nel VII canto dell’Inferno a spingere macigni o fra pozzanghere d’inchiostro dorato che come metastasi si spartiscono la carta.
Trovo sia un’intuizione folgorante: il libro contiene macchie di luce, e quelle macchie - le uniche a brillare dalla carta opaca - sono per l’appunto i soldi.
E allora ti chiedi: è vero che il denaro oggi è luce? È una domanda chiave, direi, in un tempo come il nostro in cui un uomo dai capelli dorati (non a caso) si è seduto nello studio ovale grazie a slogan come «I poveri sono degli idioti: se sei ricco è la prova che vali». Mi si dirà, a parziale scusante, che il signor Trump è un presbiteriano, e che Max Weber scrisse in abbondanza su cos’è il profitto per i calvinisti. Certo. Ma vorrà pur dir qualcosa se oggi la malattia dell’oro si è fatta talmente endemica che le masse dei diseredati (quelle che un tempo il capitalismo lo avversavano) si sono piegate loro stesse, supine, all’idolatria del lusso tributando ai plutocrati non solo stima e ammirazione, ma perfino il voto.
Luciano Canfora scrive qualcosa di prezioso a questo riguardo nell’introduzione al libro. Io mi limito a registrare che ricchezza non è più solo sinonimo di potere ma di consenso, e stare ai primi posti nella classifica di Forbes costituisce un passepartout per farsi eleggere a difendere l’altrui interesse. Pensate a Paperon dei Paperoni: nasce dalla matita di Carl Barks nel 1947 ed è il paradigma dell’americano arricchito, immigrato come i Lehman (loro dalla Baviera, lui dalla Scozia).
Ebbene, Scrooge - questo il suo nome, a modello dell’avido Dickens - vive la sua ricchezza come un patrimonio solo suo, claustrofobico e precluso al mondo esterno, al punto che uno dei leit-motiv è la sua rancorosa solitudine nel mare d’odio che lo circonda (nel 1974 l’economista Richard Easterlin formulò il paradosso sull’infelicità degli abbienti, traducendo in numeri quel che Molière aveva tratteggiato nell’Avaro). Ebbene, oggi, Paperone sarebbe invece amatissimo: ostenterebbe il suo capitale sulle copertine dei rotocalchi, e dal resort di Mar-a-Lago, fra leoni laccati d’oro, chiederebbe il voto fra Paper-Melania e Paper-Ivanka.
Cos’è mai accaduto nel frattempo di così squassante? Mille le ipotesi. Ne tento una. Ho detto che le parole di Marx sono del 1844, ovvero dello stesso anno in cui il telegrafo faceva il suo debutto fra Baltimora e Washington: è un po’ come dire che, mentre il primo socialista formulava la sua critica al capitale, la culla del capitalismo intuiva nella comunicazione lo spietato strumento per diffondere il suo vangelo. Da quello stitico messaggio in codice Morse siamo approdati all’era dei social e del trading- online, ed è indubbio che la rete di interconnessione planetaria sia una portentosa macchina commerciale, fatta per «procurare a un altro uomo un nuovo bisogno» (Marx scripsit), e così alimentare l’apoteosi del denaro.
Tutto è afferrabile nel grande bazar online e quell’onnipresente tasto “Comprami subito” sembra fatto per risarcire ogni frustrato dalle sue miserie, regalandogli la scarica di dopamina che scatta a ogni nuovo possesso, e che faceva sorgere in Marx il terrore di una società basata moralmente su una dipendenza. Intanto, oltre un secolo dopo che miss Elizabeth Magie si inventò Monopoly, la casa di giocattoli Hasbro ha lanciato una versione per bambini: l’idea è farli divertire - riferisco testualmente - facendogli «guadagnare un bel gruzzolo». Chissà se accanto alle caselle «Paga le tasse» e «Finisci in prigione» è stata aggiunta «Diventa Presidente »: il buon baby-capitalista dovrebbe metterlo in conto.
«doppiozero, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Uno sciopero generale del voto. Non trovo altra espressione per descrivere queste amministrative d'inizio estate. Sciopero generale dell'elettorato nel suo complesso, col livello record dell'astensione schizzata quasi ovunque sotto la dead line del 50%. E sciopero generale dell'elettorato PD in particolare, con una vera e propria fuga di massa dal partito di Matteo Renzi pressoché ovunque, a cominciare dalle sue tradizionali roccaforti.
Il PD – e con lui il centro-sinistra – perde male Genova (più di dieci punti di distacco). Perde male – malissimo – La Spezia (venti punti di distacco). Cade Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d'Italia”, con 15 punti di distacco. E, analogamente, il “feudo” di Pistoia ritenuto sicuro (ancora 10 punti). Nemmeno L'Aquila, dove pure al primo turno si era sfiorato il successo, resiste (e il volto sconcertato di Cialente testimonia di uno shock difficile da elaborare). E poi Alessandria, Asti, Piacenza, Carrara (quest'ultima passata agli odiati 5Stelle)... Su 25 capoluoghi di provincia in cui si rinnovava il sindaco, il centro-sinistra resiste solo in cinque!
È però Genova la città simbolo di questa débacle. Genova la “Superba”. La città di Mazzini e di De André, dei Mille e di don Gallo, dei camalli e delle magliette a strisce. Genova che resistette ai Savoia e ai Tedeschi, che diede vita nel 1904 al primo sciopero generale del lavoro, quella del luglio '60 contro i fascisti e del luglio 2001 contro gli oligarchi della cattiva globalizzazione. Genova repubblicana e democratica, anticonformista libertaria e “di sinistra”. Genova se l'è presa Marco Bucci, manager in quota Salvini, ex guida boy scout e poi CEO in società internazionali, protagonista di una campagna elettorale all'insegna di Paolo Del Debbio e della “città che conta” (si ricorda la cena nella lussuosa villa Lo Zerbino – nomen omen – con un paio di centinaia di armatori, industriali, maggiorenti)... Bucci si porta in Consiglio 9 leghisti, 5 forzisti, 3 post-fascisti di Fratelli d'Italia, una composizione che mai si era data a Genova da quando si vota.
Il passaggio di mano è avvenuto in una sorta di deserto elettorale, con la maggioranza della città rimasta a bordo campo, delusa, distratta, scettica: ha votato appena il 42% degli aventi diritto, poco più di 200.000 elettori su oltre 500.000 iscritti alle liste elettorali, con punte particolarmente basse nella città di Ponente (Municipi V VI e VII), quella “rossa”, dei portuali e dei siderurgici, dove l'exit è particolarmente evidente e brucia di più a confronto con la Genova di Levante, i quartieri del Centro e del Bisagno, tradizionalmente “blu”, dove la partecipazione sta qualche punto percentuale più sopra...
Non è un fatto locale. È il dato generale nazionale, dove anche il voto di protesta sembra essersi arreso, persino quello “di vendetta”, che nell'intero Occidente ha sostenuto il vento impetuoso dei cosiddetti “populismi” (da Trump alla Brexit), sostituiti tutti, ora, da un atteggiamento di delusione e abbandono del campo, ben visibile nei numeri: in quel 54% di astenuti che una classe politica minimamente responsabile e consapevole dovrebbe guardare con terrore (è la misura di una de-legittimazione gigantesca).
E che invece occhieggia appena nei sottotitoli dei giornali, quasi una curiosità (una nuova lineetta nel Guinness dei primati) ma sta fuori dai pensieri dei politici e degli opinionisti che fanno coro, occupati solo a misurare il risultato in termini di seggi, posti, percentuali (i valori assoluti sempre più striminziti che stanno dietro quelle ripartizioni relative non interessano). Quello che interessa è solo la resa dei conti nel campo stretto dei pochi sopravvissuti in un'arena elettorale rarefatta: quanti sindaci a me a quanti a te. Quanti consiglieri, assessori, presidenti di partecipate, fedeli da accontentare, amici politici da sistemare...
È così che si isteriliscono le democrazie contemporanee, transitando senza quasi soluzione di continuità nella categoria-limbo della “post-democrazia” (messa a fuoco già una quindicina di anni or sono da Colin Crouch) e poi, a poco a poco, nella democrazia del leader (Ilvo Diamanti) e nell'oligarchia esecutoria, che sono, tutte, varianti di quella “democrazia senza popolo” di cui ha parlato, di recente, Carlo Galli: una forma ossimorica, auto-contraddittoria, che sintetizza bene la crisi di senso, oltre che di legittimazione e di autorevolezza, della funzione di governo in società che hanno fatto della “governabilità” il proprio mito e dogma.
Per questo appaiono in buona misura fuori luogo i toni di trionfo del centro-destra, sicuramente vincitore formale di questo round (se si considera appunto il numero di sindaci, maggioranze comunali, duelli vinti), ma galleggiante, anch'esso, su un vuoto di reale consenso, appeso a segmenti di società volatili e volubili, soprattutto privo di una qualche prospettiva credibile in rapporto alle incombenti elezioni politiche nazionali, dove le maggioranze che hanno conquistato i comuni non sono riproducibili, e le fratture interne alla coalizione sono sicuramente più profonde e tendenzialmente più forti dei comuni interessi.
E a maggior ragione sembrano fuori luogo – anzi fuori senno – le reazioni a caldo del Segretario del PD: di Matteo Renzi che appare a qualunque sguardo non appannato il vero perdente della partita. Quello che, celiando e twittando, ha portato il proprio esercito a una disfatta storica e che invece, a notte inoltrata, parla di risultati “a macchia di leopardo”, s'interroga garrulo sui “campanelli d'allarme” (“non si capisce per cosa e perché”: testuale), chiama i pochi sindaci “suoi” eletti per nome come fossero boy scout della propria sestiglia, e invita a “lasciar stare le chiacchiere”...
È sua, senza alcun dubbio, la firma sul disastro che ha travolto il centro-sinistra. Perché è vero che lo tsunami è passato su tutte le sue possibili varianti e combinazioni: quelle in cui il Pd si presentava solo, con candidati di stretta osservanza, e quelle dove era stata assemblata una coalizione da “campo largo”, le liste “renziane” e quelle mediate con Bersani, o anche con Pisapia, o con tutte le sinistre ulteriori (come a Genova, appunto). Ma è altrettanto vero che il denominatore comune in tutto questo variegato arcipelago è stata l'antipatia per il leader del partito maggiore.
La fuga da Renzi, appunto, sia nelle casematte del partito che nelle sue appendici periferiche, tra i “militanti provati” e i simpatizzanti occasionali, i voti d'opinione e quelli di tradizione. Matteo Renzi ha funzionato, per tutti, come un potente repellente, per la sua vocazione divisiva, il compulsivo bisogno di offendere e umiliare, i vorticosi voltafaccia e giri di valzer con troppi partner, le insistite menzogne o le verità negate, tra babbi, banche, appalti, commissioni d'inchiesta (promesse e affossate) e commissari europei (blanditi o sbertucciati), e l'insopportabile ostentazione di ottimismo in un Paese che diffusamente soffre.
Certo, sarebbe impietoso ridurre il problema alla sua persona. Si sono concentrate nella sconfitta del Pd tutte le sue “tare storiche”: gli equivoci della nascita, con Veltroni, in quella fusione fredda che mai ha funzionato, l'impotenza e la resa bersaniana agli idola fori del neo-liberismo e delle privatizzazioni, l'impotenza della parentesi montiana dei “tecnici”, sostenuti nella loro politica lacrime e sangue con un'ossequenza neppur richiesta (si ricordi l'equilibrio di bilancio scolpito in Costituzione) fino agli orrori del 2013, la frantumazione del partito divenuta evidente con i 101 fucilatori di Prodi all'elezione presidenziale, i trasformismi, le congiure di palazzo... E su tutto, la tendenza terribilmente distruttiva – “tossica” potremmo dire – a ignorare ogni segnale provenga “dal basso” e “da fuori”, ogni espressione di volontà popolare, sia l'esito referendario sull'acqua e i beni comuni (umiliato da una serie di provvedimenti legislativi in clamorosa opposta direzione) sia il risultato perentorio del referendum costituzionale: il segnala assordante del 4 dicembre a cui il Palazzo – sia Chigi che Nazareno – è rimasto ostinatamente sordo e cieco, facendo come se nulla fosse successo, e provocando appunto l'exit tumultuoso e massiccio a cui oggi assistiamo.
Come in un gioco di matriosche tutti questi strati sovrapposti si sono accumulati. E tutte queste contraddizioni si sono sintetizzate in una figura sola, che le ha assorbite, senza neutralizzarle, tutte, e che ora finisce per pagare, per tutti, lasciandoci di fronte un quadro senza soluzioni possibili. Nel quale ogni possibile alternativa appare bruciata in partenza, sia essa quella – sciagurata – dell'autosufficienza o quella, simmetrica e opposta, della coalizione larga, la costruzione forzosa di un PD sempre più strettamente renziano o quella di un “campo democratico” allargato ai figlioli prodighi da riportare al tavolo paterno, la costruzione di un centro non più di sinistra da coniugare con una scheggia di berlusconismo rimodernata e ri-moderata, o la riedizione di una sinistra pre-Lingotto (pre-Veltroni del 2007) rilanciata ma non ringiovanita.
Comunque si rimescolino i fattori il risultato non cambia: nessuna delle diverse combinazioni può sperare di aver credibili possibilità di successo alle politiche prossime, sia che per un picco di masochismo Renzi forzi per il voto anticipato, sia che si aspetti la fine naturale della legislatura. In ogni caso sembra non esserci più tempo per nulla.
Ora assisteremo – non è necessario essere profeti per saperlo – al gioco stantio e ripetitivo della ricerca del Sacro Graal: la legge elettorale che assicurerà il Paradiso a tutti. Il tormentone che ci ha accompagnato in tutti questi anni, secondo il pessimo costume di disegnare e ridisegnare ogni volta il sistema elettorale a seconda dell'ultimo sondaggio, o del più recente responso delle urne, ognuno attento al proprio possibile vantaggio effimero, all'unico lancio di dadi a cui, nella miopia generale, riesce a malapena a guardare.
Qualcuno riproporrà il maggioritario a doppio turno, altri il proporzionale alla tedesca, o il premio di lista, oppure di coalizione, la soglia al tre, al cinque, all'otto per cento... E a un certo punto la pallina si fermerà su una casella della roulette, rossa o nera chissà. E l'emorragia di elettori, di fiducia, di legittimazione e di autorevolezza delle nostre istituzioni continuerà, se un soprassalto di orgoglio, o di razionalità, non interverrà a interromperne il processo, dall'interno (per un ritorno di auto-riflessione) o dall'esterno (per la perentorietà di una qualche costrizione).
». la Repubblica, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Il passaggio elettorale di giugno annuncia una stagione politica particolarmente calda. Perché i risultati hanno delineato uno scenario instabile. Per molti versi, in-definito. Con alcuni aspetti di continuità e altri di novità rispetto agli ultimi anni. Aspetti, peraltro, che coincidono largamente. Perché la novità maggiore è il ritorno del bipolarismo fra centro-sinistra e centro-destra.
Sembrava incrinato, se non destrutturato, dopo l’affermazione del M5s, annunciata giusto alle precedenti amministrative, cinque anni fa, con la conquista di Parma ad opera di Federico Pizzarotti. Che domenica è stato rieletto, con una maggioranza chiara. Ma con una lista nuova. Personalizzata. Creata da lui. Intorno a sé. Ma l’Italia dei sindaci uscita dal voto di domenica mostra un profilo più tradizionale. È un’Italia bi-polare, dove 117 dei 159 eletti sono espressi dalle due coalizioni maggiori. Centrodestra e centrosinistra.
La maggiore novità è, però, costituita dalla forte crescita del centrodestra, che sale da 44 a 59 città (maggiori) amministrate. Mentre il centrosinistra (se si considerano anche gli “altri candidati di sinistra”) perde oltre venti sindaci. E scende da 81 a 58. Per cui ha ragione Renzi quando afferma di avere vinto. Ma ha anche perso. Molti sindaci. Il M5s, infine, allarga la sua presenza nei governi locali: da tre a otto. Ma si conferma fluido, proiettato sull’arena nazionale ma scarsamente consolidato nel territorio. Tuttavia, fluido appare l’assetto politico del Paese, nell’insieme. È, infatti, difficile individuare in Italia zone specifiche, per concentrazione e continuità del voto. Com’è avvenuto fino a quasi dieci anni fa. Oggi quelle Italie non si riconoscono più. L’intero territorio sembra aver perduto i colori e gli orientamenti tradizionali.
Il centrosinistra. Era radicato nelle regioni dell’Italia centrale. Definite, per questo, “zone rosse”. Ma oggi non sembrano più nemmeno “rosa pallido”. Il centrosinistra, prima, in quest’area amministrava 13 comuni maggiori.
Oggi ne governa otto. Ha perduto, fra l’altro, Pistoia e Piacenza. Nelle regioni del Nord-ovest, peraltro, è più che dimezzato: da 29 a 14 città. Superato dal centrodestra, che oggi ne governa 24. Fra queste, alcune città particolarmente importanti. Per prima: Genova. Ma anche La Spezia e Monza. Oltre a un luogo mitico, come Sesto San Giovanni. Perduto dopo settant’anni di governo.
Il centrosinistra, per contro, si è meridionalizzato. Nel Mezzogiorno e nelle Isole la sua presenza nei governi locali si è allargata: da 24 a 26. Mentre il peso del centrodestra è sceso da 21 a 14. Il mutamento delle zone geopolitiche in Italia ha interessato anche il Nord-est. Tradizionale zona “bianca”. Prima democristiana, in seguito forza-leghista. In questa occasione è stato teatro di una rimonta del centrosinistra. Che si è affermato, fra l’altro, a Padova. Si disegna, così, una mappa dai colori incerti. Che riflettono l’incertezza e il distacco degli elettori. L’astensione, infatti, è risultata ampia come poche altre volte, in passato.
Ai ballottaggi, infatti, ha votato circa il 46% degli elettori, 12 punti in meno rispetto al primo turno. E il calo è apparso particolarmente sensibile nel Sud: circa venti punti. Quasi 25 anni dopo la riforma della legge elettorale relativa alle amministrazioni delle città, la stagione dei sindaci è in declino. L’elezione diretta alle amministrative appariva in origine una via per superare il vecchio sistema politico, travolto da Tangentopoli. Le persone al posto dei partiti. La soluzione individuata per restituire fiducia nelle istituzioni. Ma oggi quel modello mostra i suoi limiti. Anche perché, senza partiti, il legame tra politica, amministrazione e società si indebolisce.
Così, sul territorio si riproducono i vizi e i contrasti che si osservano sul piano nazionale. I cattivi risultati del centrosinistra nelle città, infatti, riflettono le divisioni fra il Pd e i gruppi politici alla sua sinistra. In parte ispirati dai soggetti scissionisti. Ai quali, peraltro, fanno riferimento molti dei candidati nelle maggiori città. Dall’altra parte, il centrodestra “unito” appare in grado di competere e di vincere in molte zone e in molti contesti. Il problema, semmai, è quando si passa all’ambito nazionale.
Allora le divisioni riemergono, acute. Sul piano personale, oltre che politico. Perché Berlusconi (rieccolo…) non ha alcuna intenzione di cedere lo scettro della coalizione a Salvini. Il quale ambisce ad esserne la guida. Anche se non è legittimato a “governare”, senza l’appoggio e la mediazione di Berlusconi e di Forza Italia. Soprattutto per ragioni internazionali. Per il rapporto con la Ue. Il principale “avversario” della Lega e dei suoi alleati. I populisti (anti)europei. Per primo, il Front National di Marine Le Pen. La Ue. Contro la quale il M5s costruisce la propria identità. Così, passate le amministrative, l’attenzione politica si proietta altrove. Dalla dimensione locale verso l’Europa. L’orizzonte, ma anche la vera “frattura” che delimita lo spazio politico del prossimo futuro. Anzitutto: del prossimo anno.
Certo che finché li lasceremo a governare continueranno così. Ma per cambiarli devono votare tutti. non solo i loro aficionados, come alle comunali. Articoli di Riccardo Chiari, Massimo Franchi e Marco Bersani.
il manifesto, 27 giugno 2017
BANCHE VENETE:
PERDITE PUBBLICHE,
PROFITTI PRIVATI
di Riccardo Chiari
«Credit crack. Da Bloomberg a Nomura, unanimi i commenti del mondo finanziario: lo Stato paga i crediti inesigibili e anche Intesa, che guadagnerà tanto senza spendere un centesimo. Il Wall Street Journal: "Un passo indietro per la finanza europea". Sinistra italiana e Rifondazione accusano: "L'alternativa c'era, il governo poteva gestire la parte buona delle banche".
Ora che il decreto legge c’è, i 17 miliardi di soldi della collettività messi dal governo Gentiloni, a sostegno di almeno 10 miliardi di crediti inesigibili, e per altri 5 miliardi a sostegno di un’azienda privata come Banca Intesa, non sembrano scuotere troppo gli italiani. Ma provocano alcune elementari domande all’estero. Da antologia la comparsata di Pier Carlo Padoan a Bloomberg Tv, che doverosamente chiede “se l’operazione sulle banche venete pubblicizzi le perdite per privatizzare i profitti”. “Sono in totale disaccordo – replica il ministro italiano – non è un salvataggio, tutto è stato fatto secondo le regole”, sottolineando l’ok della Bce e di Bruxelles.
Dal canto suo il Wall Street Journal annota: “La soluzione europea pone due domande: perché le due banche non sono state trattate con il nuovo regime di risoluzione, e perché Intesa San Paolo si è aggiudicata un accordo così buono sugli asset delle due banche. La risposta alla prima domanda è pragmatica e gli investitori possono imparare da questa. La risposta alla seconda è più preoccupante, e sembra un passo indietro per la finanza europea”. A corredo, il Wall Street Journal precisa che secondo gli analisti l’accordo rafforzerà gli utili di Intesa del 5-7% entro il 2020, senza costare alla banca un centesimo in termini di sforzo finanziario.
I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti all’ok di Francoforte alla liquidazione delle due banche con lo smaltimento delle sofferenze grazie all’intervento statale, si è aggiunto anche il finanziamento con soldi pubblici per l’acquisizione di Intesa della parte sana delle banche, “per riorganizzarle”. Leggi costo degli esuberi. Gian Maria Gros Pietro ai comprensivi microfoni del Gr1 nega: “Chi dice che Intesa è stata avvantaggiata non ha compreso il meccanismo”. Nel decreto del governo si legge però che Intesa riceverà dallo stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”, “risorse a sostegno delle misure di ristrutturazione aziendale per un importo massimo di 1.285 milioni” con cui accompagnerà all’uscita circa 4mila bancari, e altri 400 milioni come garanzia sui crediti in bonis che Intesa si porta a casa. Poi vanno aggiunte garanzie a copertura del rischio dei crediti che non risultino in bonis, fino a 6,3 miliardi, e fino ad altri 4 per i crediti “in bonis ma ad alto rischio”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.
Risultato: a Piazza Affari salgono i bancari, spinti proprio da Intesa (+3,5%), il che equivale ad un aumento di circa 1,5 miliardi della sua capitalizzazione. Mentre fa capire un po’ più dell’Italia odierna il fatto che le osservazioni di Bloomberg siano identiche a quelle di Sinistra italiana e Rifondazione: “Si procede con un salvataggio in cui la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è spinta a livelli parossistici”, segnalano Maurizio Acerbo e Roberta Fantozzi del Prc. Con Stefano Fassina e Pippo Civati di Si che aggiungono: “Si poteva e doveva percorrere un’altra strada, anche a costo di un contenzioso con la Commissione Ue: l’ingresso pubblico nel capitale delle banche per gestire, insieme ai crediti in sofferenza, anche gli asset”. Che genereranno utili. Ma Paolo Gentiloni avverte: “Chi parla di regalo ai banchieri fa solo cattiva propaganda”. E Intesa fa sapere a sua volta che, se il decreto cambia anche solo di una virgola, (“viene convertito con modifiche o integrazioni tali da rendere più onerosa per Intesa San Paolo l’operazione”), non se ne farà di nulla. Capito come si fanno gli affari?
TANTA POLVERE MESSA
SOTTO AL TAPPETO,
MODIFICHEREMO IL DECRETO
di Massimo Franchi
«Intervista a Francesco Boccia. Il salvataggio delle banche Venete è l'ultima tappa di una strategia fallimentare. Il sistema andava messo in sicurezza nel 2014 come in Spagna e Germania. Invece si è sottovalutata colpevolmente la situazione e ora i miliardi pubblici usati sono molti di più»
Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera. Da economista prima che da politico: il salvataggio delle banche venete è la soluzione migliore come dicono Bankitalia e Padoan o uno scempio di soldi pubblici e un regalo ad Intesa come dice l’opposizone?
Una delle cose che detesto dei politici è sentir dire: «Io l’avevo detto». Ma visto che sono agli atti i miei interventi parlamentari in cui già nel 2014 chiedevo che venisse istituito un Fondo pubblico-privato da 20 miliardi per ricapitalizzare le banche in difficoltà chiedendo un chip ai tanti intermediari finanziari che hanno fatto soldi con il nostro debito pubblico (Morgan Stanley, Black Rock e gli altri fondi) e mi diedero del folle, ora posso dire che avremmo risparmiato molti miliardi di soldi pubblici.
Quindi la colpa è della politica? E i mancati controlli di Bankitalia?Che le banche Venete andassero salvate è indubbio perché diversamente sarebbe andato in crisi un pezzo fondamentale di Paese. La colpa di questa situazione non è dei correntisti o dei risparmiatori, ma di quei disgraziati che le dirigevano. Tanta polvere è stata messa sotto il tappeto e se siamo in questa situazione è anche perché il sistema di controllo di Bankitalia non ha funzionato, come Visco ha riconosciuto iniziando a fare autocritica. Io sono indignato per lo “stop and go” sugli interventi per mettere in sicurezza tutti gli istituti in difficoltà, dalle popolari a Mps, salvate con tre modelli differenti di interventi. La nazionalizzazione sarebbe stato il quarto e avrebbe aumentato la confusione.
Padoan confida di recuperare i 5 miliardi già usati rivendendo i crediti deteriorati della bad bank. Le sembra realistico?Non conosco l’ammontare effettivo dell’esborso pubblico e dei crediti deteriorati. Di sicuro di tutti i soldi messi dallo Stato direttamente e indirettamente (con le partecipazioni di Cassa depositi e prestiti) in questi anni non si recupererà tutto e il saldo sarà maggiore dei 10 miliardi da me proposti.
Intesa San Paolo ha già avvertito: se il decreto cambia, l’operazione salta. Voi lo cambierete? Non vi sentite sotto ricatto come parlamentari? Le banche sono al di sopra dei poteri costituzionali?
Messina fa bene il suo mestiere a dire quelle cose. Non conosco, come nessuno ancora, il testo del decreto ma dico che se ci sono le condizioni per migliorare la proposta del governo, il Parlamento ha il dovere di farlo e Intesa di rispettare la politica, che – senza ipocrisia – è la stessa che l’ha invitata a fare questa operazione e a mettere i soldi nel fondo Atlante già prosciugato. La priorità deve essere quella di ripristinare la fiducia dei risparmiatori senza la quale tutte queste banche sarebbero già morte. Intesa da questo punto di vista è una garanzia: è una delle più solide in Europa anche se non potrà risolvere sempre lei i problemi o rischierà di entrare in difficoltà anch’essa.
Il ministro spagnolo dell’Economia sostiene che quello che è successo la Spagna lo ha fatto nel 2012: mettere in sicurezza il sistema usando miliardi pubblici, mentre ora per il Banco Popular non ne sono stati usati. Siamo in ritardo di 5 anni?
Certo che ha ragione. E l’errore più grosso fatto dai nostri governi dell’epoca – Berlusconi con Tremonti e Monti con Grilli – è stato quello di non copiare la Spagna che come la Germania hanno anticipato l’applicazione del bail in mettendo in sicurezza le banche con soldi pubblici. Sarà interessante ascoltare i protagonisti di questa lunga storia nella commissione parlamentare che andrà imbastita in questa legislatura e darà risultati nella prossima.
PRIMA LE BANCHE,
POI I BAMBINI
di Marco Bersani
«Governo. L'operazione banche venete sarà finanziata con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento lo scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio degli istituti bancari da mettere a carico del debito pubblico»
Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una «ricapitalizzazione precauzionale», ovvero che erano banche fondamentalmente «sane», ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.
Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione – costo 1 euro – da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché «questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile».
Intanto, Carlo Messina, Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo davanti allo specchio loda se stesso per aver «messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese». Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.
Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Concorrenza, considera l’aiuto di Stato «necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto». Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?
Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.
Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi.
In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.
Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla «banda delle quattro» (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già ben sopra i 30 miliardi.
Eppure «il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza» twittava il 31 ottobre 2014 il ministro Padoan. «C’è una manovra su alcune banche, punto», ma il sistema «è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono», rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe. «Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che è solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia», si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.
Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del too big to fail (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del too interconnected to fail (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream. Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene subito una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti. Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.
«Il Paese devastato dagli incendi e reduce da una pesantissima crisi economica è da un anno e mezzo un laboratorio di ricette opposte al neoliberismo».
il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2017 (p.d.)
Ci sono voluti cinque giorni per spegnere il fuoco in Portogallo, l’incendio più vasto e letale sopportato mai dal paese lusitano. Le fiamme, originate a Pedrógão Grande, si sono propagate su oltre 40.000 ettari di bosco, ghermendo lungo il percorso la vita di 64 persone e ferendone altre 254, per poi riproporsi a Góis su una superficie di ulteriori 20.000 ettari. Incerta ancora la dinamica dell’accaduto, inizialmente attribuita a una tempesta elettrica, su cui si è poi inserita l’insinuazione di una possibile ragione dolosa. Sarà probabilmente una commissione tecnica indipendente a far luce sull’origine del fuoco e su cosa non abbia funzionato nella gestione dell’emergenza per determinare una simile catastrofe umana e la distruzione di una così estesa area boschiva. E le critiche sull’operato, com’era prevedibile, non hanno risparmiato il governo del socialista Costa.
Il primo ministro portoghese è d’altra parte molto apprezzato fuori e dentro i confini nazionali, tanto che i sondaggi gli attribuiscono un gradimento prossimo alla maggioranza assoluta. António Luís Santos da Costa (1961), politico di lungo corso, segretario del Partito Socialista, più volte ministro in precedenti governi, già eurodeputato e sindaco di Lisbona, da poco più di un anno e mezzo conduce un’esperienza di governo inedita sul piano dei contenuti e delle alleanze. Che viene guardata con interesse dagli altri partner europei, per essere riuscita – unica in Europa – a reimpostare un circolo virtuoso economico, applicando ricette opposte al neoliberismo, salvaguardando perciò coesione e giustizia sociale. Un successo che si avvale del sostegno di tutte le forze della sinistra sulla cui alleanza la destra infierì in termini dispregiativi, tacciandola di gerigonça, cosa mal fatta, e che oggi è invece motivo d’invidia e riferimento per le sinistre italiana e spagnola, mentre riceve il plauso di Bruxelles. Tutto era cominciato con le elezioni generali del 4 ottobre 2015.
La crisi economica in Portogallo, come negli altri paesi del Sud Europa, era stata brutale, con tagli nei salari e nelle prestazioni per disoccupazione, il congelamento delle retribuzioni pubbliche tra il 2012 e il 2014, il blocco dei pensionamenti anticipati, l’aumento dei contributi sociali, la disoccupazione arrivata al 15% nel 2012, il deficit al 6,8% nello stesso anno e continue cadute del Pil fino alla recessione.
Nel 2011, Lisbona aveva chiesto all’Unione Europea l’accesso alla procedura di riscatto, un prestito di 78 miliardi di euro da rimborsarsi in tre anni. Nelle elezioni del 2015 avvenne un po’ quello che era avvenuto in altri paesi europei con la crisi: la perdita della maggioranza assoluta per i partiti storicamente di governo. In questo caso, il conservatore Pedro Passos Coelho era tornato a vincere le elezioni con il 39% dei suffragi, distanziando di 6 punti il socialista Costa.
Coelho era stato costretto però a formare un governo di minoranza, quello che sarebbe diventato il governo più breve della storia della democrazia portoghese, durato in carica per una decina di giorni appena. Infatti, Costa era riuscito a promuovere una mozione di sfiducia assieme a comunisti, verdi, e Bloco de Esquerda, approvata con 123 voti contro 107 contrari. E il 24 novembre 2015, il presidente portoghese Cavaco da Silva aveva nominato António Costa primo ministro, confidando nell’alleanza tessuta da questi in parlamento. Nasceva così il nuovo governo socialista guidato da Costa, sostenuto da una maggioranza parlamentare di sinistra ritrovatasi attorno ad un programma dai contenuti di matrice schiettamente antiliberista.
Il governo Costa ha dimostrato in questi mesi che è possibile cambiare la politica economica, mettere fine all’austerità facendo leva sulla domanda interna, aumentare l’occupazione senza perciò rinunciare a un deficit basso. Ossia, senza mancare il rispetto degli obiettivi comunitari, perché, come dice il primo ministro, avere regole comuni tra 28 paesi è necessario. E i dati di bilancio del 2016 ne sono una prova. Il Pil portoghese è cresciuto lo scorso anno dell’1,4% e le previsioni per l’anno in corso sono di un incremento dell’1,8%. L’obiettivo di deficit pubblico nel 2016 è stato del 2% e si prevede che nel 2017 scenda all’1,5%, per arrivare, nel 2021, all’1,3%.
Elevato invece è ancora il debito pubblico, superiore lo scorso anno al 130%, mentre persistono gravi i problemi del settore finanziario. Le politiche del governo portoghese hanno cercato di ridare fiato alla domanda interna, correggendo alcuni dei punti più vistosi delle precedenti ricette neo-liberiste, che avevano fatto precipitare il 20% della popolazione nel rischio di povertà. Perciò l’aumento del salario minimo, le misure contro la povertà energetica, la riduzione parziale dell’IVA, la fine dei tagli salariali ai funzionari pubblici, la riduzione della giornata lavorativa, il freno alle privatizzazioni. E per la prima volta in otto anni, la disoccupazione si colloca ora sotto il 10%.
«.Articoli di Baobab experience onlus il manifesto e che-fare.com, 25, 26 giugno 2017 (c.m.c.)
il manifesto
BAOBAB CHIAMA
FERROVIE
DELLO STATO
DATE SPAZIO AI MIGRANTI
Baobab experience onlus
Gentile Ingegnere Renato Mazzoncini,
sono passati solo tre giorni dalla presentazione dell’ultimo rapporto dell’Unhcr e ancora una volta i numeri confermano che decine di milioni di persone sono in fuga, e che quasi una persona su cento è costretta ad abbandonare la propria casa. Le risposte di governi nazionali ed istituzioni europee sono scoordinate, incoerenti ed improntate ad una visione difensiva in cui l’unica scelta comune consiste nell’innalzamento delle barriere in entrata, e nella corsa al ribasso dei sistemi di accoglienza. E’ quando smettiamo di leggere i numeri, ed iniziamo a guardare i volti di chi arriva, ad ascoltarne le parole, a curarne le sofferenze, che ci rendiamo conto che dietro i proclami e gli auspici alla solidarietà internazionale si nasconde il vuoto. E allora, dietro il nulla delle parole rimangono solo le persone da difendere.
La nostra associazione, Baobab Experience, lavora da due anni con i migranti: più di 60mila persone sono passate dai nostri campi, ed hanno ricevuto cure mediche, cibo, un riparo per la notte, assistenza legale. Sono donne e uomini, alcuni di loro in transito verso altri paesi europei, altri richiedenti asilo in Italia. Questi ultimi, a Roma, sono costretti ad aspettare in media un mese e mezzo prima di poter accedere alle pratiche, e in questo tempo non viene assegnato loro un centro. L’unico riparo che trovano nella capitale è quello offerto da Baobab Experience.
In questi due anni abbiamo dovuto far fronte alla indisponibilità delle istituzioni cittadine a consentire che l’assistenza ai migranti potesse essere fornita in un luogo adatto a garantire condizioni umane per loro ed a ridurre l’impatto della loro presenza sulla comunità ospite. I venti sgomberi forzati che Baobab Experience ha subito hanno prodotto solo altri disagi e sofferenze sui migranti, e non hanno risolto alcuno dei problemi che in tanti a loro attribuiscono. Dopo venti sgomberi, non è aumentata la sicurezza della nostra città. Non ne è aumentato il livello di pulizia e decoro. Non è diminuita la marginalizzazione e l’esclusione di chi arriva, né i rischi ad esse associati. E soprattutto, gli arrivi non si sono fermati, e non si fermeranno.
Noi pensiamo che si possa fare meglio di così. Pensiamo che si possa provare, di fronte al fallimento di un sistema che non riesce a trovare soluzioni diverse da muri e sgomberi, a pensare a una diversa visione. Sappiamo che il Gruppo che Lei guida rappresenta una delle realtà più avanzate sul terreno della responsabilità sociale, e che numerose iniziative sono state già intraprese per il recupero a fini sociali di immobili non più utilizzati in attività industriali. Come ha detto Claudio Cattani, presidente di RFI, appena tre giorni fa: «L’emergenza sociale investe tutto il territorio nazionale e la capillarità del nostro sistema di stazioni ci impegna da sempre ad avere attenzione per quanti cercano riparo, aiuto e solidarietà presso i nostri spazi». Per questo,
Le proponiamo di intraprendere insieme un percorso coraggioso, di concederci l’utilizzo del parcheggio per bus totalmente inutilizzato, attualmente occupato dai migranti che la notte vi trovano riparo, e di consentirci di attrezzare un campo che assicuri condizioni minimali di assistenza, sicurezza, pulizia, decenza, ed in cui sperimentare insieme, un nuovo modello di accoglienza che possa fare da esempio.
Siamo pronti ad attrezzare quel campo in pochissime ore, grazie all’aiuto delle associazioni mediche e legali con cui condividiamo da anni il nostro percorso, insieme alle Ong internazionali e ai cittadini che ci sono solidali: abbiamo un progetto che saremmo lieti di presentarle.
Pensiamo sia venuto il tempo delle scelte. Siamo convinti che sia possibile dare, qui a Roma, una coraggiosa risposta, con i fatti, nel modo in cui noi e voi sappiamo eccellere, per la nostra stessa natura di uomini del fare, ad una delle grandi sfide di questi tempi difficili. Proviamoci insieme.
BAOBAB SGOMBERATO.
IL RACCONTO DI PICCOLI MAESTRI
di Carla Susani
Giovedì scorso siamo stati al Baobab, una manciata di Piccoli maestri per ragionare su un progetto ideato da Elena Stancanelli, un’Orazione civile, un’opera corale da scrivere a partire dall’Eneide; eravamo Maria Grazia Calandrone, Nadia Terranova, Tommaso Giartosio, Federico Cerminara, Tiziana Albanese e io.
Il Baobab è stato tanti luoghi dal 2015 in poi, centro di accoglienza sotto un tetto a via Cupa, tendopoli a ridosso del Verano, tendopoli in un parcheggio prossimo alla Stazione Tiburtina e ora in un parcheggio ancora un po’ più lontano sotto il sole a picco.
Da due anni, Baobab experience, il gruppo di volontari che ha condiviso e condivide l’esperienza, risponde al continuo afflusso di profughi e transitanti; lo fa in modo emergenziale perché le istituzioni non hanno attivato a Roma una struttura di prima accoglienza. Sul loro sito dichiara di avere assistito 35000 persone, ma probabilmente sono di più.
Chi arriva non ha acqua, cibo, informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo e sui diritti, si ritrova sulla strada; Baobab experience, con l’aiuto di MEDU Medici per i diritti umani, molte altre associazioni e una quantità di persone che continua a crescere prova a far fronte ai bisogni minimi, alle necessità sanitarie, fornisce informazioni. Ma offre qualcosa in più: si fa strumento di incontro e di conoscenza: chi arriva ha l’opportunità di fare amicizia, di conoscere Roma antica, di giocare a calcio, di suonare, di avere libri da leggere.
La presenza di noi Piccoli Maestri sul piazzale ha a che fare con questo stile di : ci sono momenti in cui persino il pane e l’acqua sono incerti, ma neanche in quei momenti essere umani si riduce a questo, in ogni circostanza abbiamo bisogno di pensare e di pensarci.
L’effetto è che la disumanizzazione di chi ha bisogno, ma persino la carità straziante e cieca verso i derelitti, è messa sotto scacco. Sia chiaro, Baobab non è una soluzione, è una supplenza che non è in grado di supplire: una tendopoli su un piazzale assolato, quando va bene, solo pensarlo è sconfortante. Ma alle istituzioni persino questo è sembrato troppo, le istituzioni non hanno affrontato la questione in modo strutturale.
La risposta si è risolta in questi anni negli sgomberi. Sgomberi in cui spesso vanno distrutte anche le tende, i viveri, le donazioni.
I Piccoli maestri sono invece scrittrici e scrittori che vanno nelle scuole pubbliche a leggere e raccontare gratuitamente i classici, nascono da un’idea Elena Stancanelli ha avuto alcuni anni fa.
Più di una volta la strada di Baobab experience e quella dei Piccoli maestri si sono incontrate. Siamo andati giovedì alla tendopoli curata da Baobab experience con l’idea di costruire un’opera nuova leggendo e raccontando l’Eneide (sul solco di Xeneide, un progetto artistico promosso da Stalker e noworking da poco concluso all’Auditorium).
Il piazzale aveva un aspetto desolato, faceva caldo anche alle sette del pomeriggio. Eravamo all’inizio imbarazzati, anche turbati. Gente giocava a palla, c’era una famiglia con quattro figli che poi abbiamo scoperto curda, c’erano volontari qua e lì, qua e lì crocchi di ragazzi che chiacchieravano.
Ci siamo avvicinati, titubanti, preoccupati di disturbare, abbiamo chiesto una sedia, poi non abbiamo potuto fare a meno di raccontare il nostro progetto, quell’embrione di progetto che avevamo in testa e che a raccontarlo sembrava fragilissimo.Si sono raccolti attorno a noi una decina di ragazzi. Tommaso traduceva, in francese e in inglese. Poi ci ha aiutato anche Momo. Insomma, sono stati contenti e a poco a poco entusiasti all’idea di mettere in relazione la loro storia con un antico poema che parla di un uomo in fuga dalla guerra, che naviga rischiando la furia dei venti attraverso il Mediterraneo.
Al crocchio si sono aggiunti altri ragazzi, uno leggeva Simenon. Tutti si sono fatti coinvolgere, vengono dall’Africa occidentale e da quella orientale. Due hanno cominciato a litigare sulla differenza fra poesia e prosa, uno ci ha raccontato che scrive poesie, uno si è dichiarato lettore di Balzac (e mi scuso perché ancora non so i nomi, non ho fatto a tempo). Ci siamo dati appuntamento il giovedì successivo per cominciare, con l’idea di vederci tutti i giovedì per lavorare al progetto.
Eravamo quasi impressionati dal vedere come fosse vero quello che credevamo, la letteratura, diceva un ragazzo, è la cosa più importante che c’è, la letteratura è la vita stessa. Nella mattina di lunedì l’ennesimo sgombero. La Rete Ferrovie Italiane ha piazzato pesantissimi dissuasori di cemento per evitare che si potesse rimettere su il campo. Volontari e cittadini seduti per terra e una lunga trattativa hanno impedito che le tende donazioni dei cittadini venissero distrutte.
Questo giovedì non siamo potuti tornare al campo perché non c’era più, ma prepariamo il lavoro per essere pronti a incontrarci di nuovo. Ora, a piazzale Maslax è rimasto un presidio, all’ora della cena e del pranzo si distribuisce il pasto, ma dormire si deve dormire da soli evitando assembramenti.
«». la Repubblica, 26 giugno 2017, con postilla
In fondo alle urne di un secondo turno desertificato dall’astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull’asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti.
Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara.
Per il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto.
A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare.
Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi. Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi.
Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel.
Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento. Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore.
Se il partito di Renzi avesse dovuto comprendere il segnale del 4 dicembre, come afferma Folli, avrebbe dovuto dissolversi. Non lo ha fatto, ci sta pensando l'elettorato a farlo. L'alto astensionismo non è certo un caso: perché mai gli elettori desiderosi di un qualche cambiamento "a sinistra" avrebbero dovuto scegliere tra Berlusconi e Renzusconi, visto che la merce offerta è la stessa?
la Repubblica, 25 giugno 2017
Fra tante analisi, accuse e difese del neoliberismo, la vera domanda è quella posta da un celebre saggio di Colin Crouch, sulla sua “strana non-morte”. Come ha fatto a sopravvivere al suo palese fallimento, uscendo rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo? Perché, dopo tanti avvisi di sfratto, continua a restare il paradigma di riferimento delle politiche globali – una specie di zombie, come lo chiamò Paul Krugman sul New York Times? Se l’interpretazione del neoliberismo si fermasse alle formule correnti che lo dipingono solo come generatore di povertà, nemico della democrazia e fomentatore di conflitti sociali, la sua lunga resistenza resterebbe inspiegata. Probabilmente c’è qualcosa di più da comprendere, prima di contrastarlo con strumenti adeguati al reale livello in cui si muove.
Già Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi), fanno un primo passo in questa direzione. Diversamente da quanti vedono nel neoliberismo un meccanismo puramente economico, essi lo considerano un vero sistema di governo della società, che modella in base alle proprie esigenze. Esso penetra nella stessa vita del lavoratore, facendone una sorta di imprenditore di se stesso. L’individuo non deve limitarsi ad avere un’impresa, ma deve esserlo, adoperando la sua medesima vita come un capitale umano su cui investire. In questo quadro la politica non si è eclissata, come spesso si dice, ma adeguata a tale orientamento. Siamo lontani dalle analisi economicistiche di Thomas Piketty, che attribuisce l’aumento delle disuguaglianze alla divaricazione tra tassi di crescita del reddito nazionale e tassi di rendimento del capitale. In realtà la strategia neoliberista è assai più capillare. Essa richiede da un lato interventi politici coerenti; dall’altro una modificazione radicale delle rappresentazioni simboliche che incidono profondamente sulla psicologia degli individui.
Un contributo ancora più sottile alla comprensione del fenomeno viene adesso dall’ultimo libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà ( Quodlibet 2017). Tutt’altro che essere una forza negativa, impegnata soltanto nello smantellamento dello Stato sociale, il neoliberismo ha colto le potenzialità innovative contenute nella crisi della civiltà moderna. Contrariamente ai filosofi che vi hanno visto soltanto nichilismo e alienazione, esso ne ha legato i passaggi traumatici a un vero e proprio progetto antropologico. Piuttosto che condannare gli animal spirits, vale a dire la potenziale concorrenza degli individui, li ha valorizzati, incanalandoli in istituzioni capaci di contenerne la carica conflittuale entro limiti accettabili. Da qui una netta svolta rispetto al liberismo classico. Se questo intendeva ridurre al minimo ogni regolamentazione, immaginando che la libera fluttuazione dei prezzi determinasse un equilibrio ottimale, il neoliberismo affida alle istituzioni il compito di governare tale processo, proteggendolo, almeno in teoria, dall’ingerenza di fattori devianti.
Intanto bisogna distinguere, all’interno della galassia neoliberista, la scuola austriaca di Friedrich von Hayek e Ludwig Mises, influente soprattutto nel mondo anglosassone, da quella tedesca rappresentata da Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, riunita, già negli anni Quaranta del secolo scorso, intorno alla rivista Ordo. Se i primi si muovono ancora nel solco classico della riduzione al minimo dei vincoli sociali, i secondi abbandonano la via tradizionale del laissez faire, sostenendo un forte interventismo da parte dello Stato, che deve garantire la stabilità monetaria, difendere l’economia dall’inflazione, imporre il pareggio di bilancio. Che tale ideologia governi ancora la società tedesca è facile vedere.
Se si leggono libri come Civitas humana di Röpke e Human Action di Mises con gli occhiali fornitici da Michel Foucault vi riconosciamo una vera e propria “politica della vita”, tesa a disciplinarla secondo le esigenze del mercato. Al suo centro l’assunzione in positivo degli istinti biologici degli individui, destinati a produrre una continua dinamizzazione dei processi sociali. Quelle stesse mutazioni profonde delle società ipermoderne, interpretate dai filosofi primonovecenteschi come sintomi regressivi dello spirito europeo, vengono valorizzate come risorse innovative dai teorici neoliberisti.
Come tale progetto sia andato incontro a una serie di fallimenti epocali è dimostrato dagli effetti distruttivi delle attuali politiche neoliberiste, sempre più gestite da grandi agglomerati economico- politici a vantaggio dei ceti più abbienti con uno spettacolare incremento delle disuguaglianze. Quella in atto è una sorta di rifeudalizzazione del mercato che tende ad atrofizzare le stesse potenze che ha liberato, in un intreccio opaco tra affari e potere. In questo modo la crisi, assunta come forma di governo, alimenta nuove crisi, spingendo fasce sempre maggiori di popolazione verso la soglia di povertà.
Ma la resistenza a questi processi involutivi deve essere condotta allo stesso livello di discorso. E cioè deve basarsi sulle medesime potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista. Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non resta che cercare di guidarli in una direzione diversa. Le nostre classi politiche appaiono largamente inadeguate. Ma, se si vuole spezzare l’avvitamento della crisi su se stessa, non c’è altra strada.
«Viaggio nel campo di Zaatari, uno dei più grandi del mondo, dove sono ospitati 80 mila profughi .Al centro di distribuzione c'è la fila: bisogna passare il riconoscimento dell'iride oculare».
L'Espresso, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
«La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere», scriveva Italo Calvino. Il paesaggio semidesertico, il caldo torrido, quel colore, un marrone chiaro e tendente al giallo, che domina l'orizzonte di rocce e deserto. E poi i diavoli di sabbia: alti mulinelli di rena e polvere che si formano improvvisamente, ricordando dei piccoli tornado, e crescono su uno sterminato numero di prefabbricati bianchi e grigi. Se i segni si ripetono, affinché una città cominci a esistere, questi sono i segni che hanno fatto nascere Zaatari, la città dei rifugiati.
Il campo rifugiati di Zaatari sorge al nord della Giordania, su un lembo di terra semidesertico al confine con la Siria, vicino alla città di Al Mafraq. Nato per ospitare le migliaia di profughi in fuga dal vicino Paese devastato dalla guerra civile, Zaatari viene aperto nell'estate 2012, come campo temporaneo di tende, sotto l'egida del governo di Amman e dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. In pochi mesi diventa uno dei campi più grandi del mondo e, per densità di popolazione, la terza città del regno hascemita. Oggi vi abitano circa 80.000 persone. Tutte siriane.
Arrivarci, partendo dalla capitale, è molto semplice: si tratta di circa settanta chilometri di strada scorrevole. Entrare nel campo, invece, è già più complicato. Circondato da un arido perimetro privo di barriere o reticolati, ma controllato giorno e notte dall'esercito giordano, Zaatari ha un'unica strada di accesso alla fine della quale, ovviamente, la polizia chiede di verificare i permessi di entrata rilasciati dallo Stato. Fuori dal posto di blocco non c'è la fila: il campo ha raggiunto la sua capienza massima ed è quindi stato chiuso a nuovi ingressi. Ottenere il permesso per entrare non è per nulla semplice e i rifugiati che escono per lavorare nelle vicinanze sono pochi, e spesso non lo fanno per la via principale.
Noi siamo riusciti a visitarlo grazie al supporto del Norwegian Refugee Council, efficiente ong norvegese che all'interno ricopre un ruolo fondamentale nella distribuzione di quelli che in termine tecnico vengono definiti "non-food items", tutti i beni di prima necessità che non sono alimentari: dai pannolini per i bambini e i vestiti fino ai sussidi finanziari.
Zaatari è diviso in 12 distretti, 12 aree diverse create per praticità e per una migliore organizzazione. Le strade, a un occidentale, possono sembrare tutte simili. Lo stesso vale per le costruzioni destinate ad abitazione. Un occhio più attento, però, può distinguere i distretti in base ai prefabbricati: da una parte quelli donati dall'Arabia Saudita, dall'altra le abitazioni regalate dal Qatar o da altri benefattori.
In ogni distretto, inoltre, ci sono aree destinate a usi specifici, circondate da barriere e filo spinato, controllate all'entrata. Grazie ad Hassan, il giovane "technical communications officer" di Nrc, e grazie soprattutto al loro Country director, l'italiano Carlo Gherardi, visitiamo le attività nel campo della ong norvegese: da un lato la formazione, i grandi laboratori professionali dove i più giovani siriani possono imparare l'arte della sartoria, il mestiere dell'elettricista, come aggiustare un moderno telefono cellulare o come costruire, e poi gestire, un pannello solare. Dall'altra le attività di educazione per i bambini in età scolare: in Giordania, come negli altri Paesi dell'area mediorientale, il tema del diritto all'educazione dei rifugiati siriani rimane una delle sfide più importanti da vincere. All'interno di Zaatari, per fortuna, sono state costruite più scuole in grado di garantire un percorso scolastico ufficiale a tutti questi figli della guerra civile.
Organizzazioni come Nrc, con l'aiuto di Unicef, realizzano programmi di recupero per chi ha perso anni di istruzione, corsi di supporto nello studio, di affiancamento per i bambini che hanno più difficoltà a concentrarsi. Colpisce il lavoro realizzato con il "Better Learning Programme", un progetto mirato ad aiutare i piccoli che non riescono a concentrarsi in classe a causa del sonno disturbato: gli incubi e la paura di quello che hanno vissuto in Siria li continuano a perseguitare.
Zaatari è enorme e la scuola, ovviamente, non è l'unico problema di una città nata all'improvviso. Per anni le case dei rifugiati sono state le tende delle Nazioni Unite. Ora, come detto, sono prefabbricati più moderni, con interni rivestiti da una lamina di legno. L'elettricità, però, c'è solo quando cala il buio. Durante il giorno bisogna farne a meno, tranne che nelle zone provviste di generatore. L'acqua potabile viene fornita dall'Unicef, con grandi contenitori di plastica che vengono ricaricati quotidianamente per servire più di una famiglia. Alimenti e cibo sono garantiti da un'altra agenzia dell'Onu, il World Food Programme. Mentre, per tutto quello che riguarda i beni di prima necessità non alimentari a pensarci è proprio il Norwegian Refugee Council. È grazie a loro che riusciamo a entrare nell'area di distribuzione: è qui che un rifugiato può chiedere quello di cui ha più bisogno. Quando vi entriamo è in corso la consegna di pannolini per i neonati. Decine di donne si muovono silenziose e velate nell'area di riconoscimento, alcune con un semplice velo sui capelli, molte con il velo totale, quello che permette di vedere solo gli occhi di chi lo porta.
All'interno dell'area, però, devono alzarlo per il riconoscimento dell'iride: il governo giordano, infatti, in collaborazione con Unhcr, ha attivato un sistema di registrazione dei rifugiati tramite il riconoscimento oculare. Con una macchina fotografica digitale l'iride viene registrata nei database all'arrivo e ogni volta che è necessario qualcosa dal Centro di distribuzione per l'assistenza umanitaria, che sia qualcosa di materiale o il sussidio monetario mensile, è necessario il suo riconoscimento. Il clima nella stanza in cui avviene è surreale: per chi vive al campo non c'è nulla di più naturale, per i visitatori vedere una fila di operatori chiedere ai siriani di guardare nella macchina fotografica a forma di binocolo crea un clima un po'fantascientifico. E ancor di più quando, dopo pochi secondi, una nitida foto dell'occhio appare sugli schermi dei computer.
Una forma di ossimoro in una "città" in cui, per motivi di sicurezza, nessuno può accedere alla rete internet. Eppure la vita va avanti, nonostante le difficoltà. A raccontarcelo è Farazat, un siriano trasferitosi qua da tre anni. «Prima di scappare dalla mia terra le ho provate tutte: per un periodo ho lavorato come falegname e carpentiere in Libano, per mandare del denaro a casa. Ma dopo pochi mesi sono voluto tornare; non potevo lasciare mia moglie e i miei figli da soli in Siria», ci rivela seduto per terra, nel suo ordinato prefabbricato. «Per qualche mese ho cercato di tirare avanti; ho sperato che la guerra finisse. Ho deciso di scappare definitivamente il giorno in cui è nata mia figlia», racconta. E ancora: «eravamo in un ospedale da campo e lei è nata prematura di qualche settimana. Subito dopo il parto è stata messa in un'incubatrice. Dopo pochi minuti una bomba ha colpito l'ospedale; la piccola ha iniziato a piangere e l'elettricità è saltata, interrompendo il funzionamento dell'apparecchiatura. In quel momento ho deciso che non avrei più potuto rischiare la vita della mia famiglia. Appena mia figlia si è stabilizzata, siamo scappati». Farazat ora ha tre figli, che gli corrono attorno sotto lo sguardo vigile della moglie, mentre ci parla. Sono salvi, sono vivi. «La vita nel campo non è facile, per mesi sono stato passivo, senza far nulla, poi ho ritrovato coraggio e mi sono messo a insegnare l'arte della falegnameria in un centro di formazione. Ora sono felice: siamo salvi, abbiamo un tetto, del cibo, una casa. Ma quando penso alla mia terra, a una vita normale, mi piange il cuore. Soprattutto quando penso ai miei figli, che credono il mondo finisca qua, perché non hanno mai visto altro. Se non il campo, se non Zaatari».
È impossibile descrivere in poche parole una vita così complessa, un luogo così difficile e complicato, una quotidianità così distante dalla nostra, ma reale. L'esempio lampante, forse, sono gli "Sham Elysees", il viale principale, che prende nome un po' da Parigi e un po' dal nome arabo di Damasco. Sham, appunto. È lì che si può sentire con gli occhi come la vita vince, comunque, sulle tragedie umane. È lì che i siriani hanno aperto una miriade di negozietti in cui vendono di tutto, dai profumi per le ragazze agli abiti da sposa. Perché a Zaatari c'è chi nasce, chi cresce e va scuola, chi lavora, chi ruba e chi si sposa. A Zaatari c'è la vita. Nonostante tutto. Nonostante il costante tentativo degli esseri umani di provare a porvi fine
Oggi tutti inneggiano a Stefano Rodotà. Ieri, invece. Ricordiamo anche questo.
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
«Renzismi - Da “non ho giurato su Rodotà e Zagrebelsky” a “il capo del partito dei parrucconi” fino alle contumelie di Eugenio Scalfari”»
«Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky». Dal livello di illogicità della frase si capisce che l’autore è Matteo Renzi. Era il 2014, e con l’aforisma consegnato al Corriere della Sera l’allora capo del governo voleva dare ad intendere che la Costituzione “chiamasse” la sua stessa riforma ad opera del gruppetto di ambiziosi toscani, e che questa chiamata fosse incompatibile con la battaglia dei professori contro lo scasso della Costituzione.
Dopo aver insultato chiunque gli si opponeva (“gufi”, “rosiconi”, “rancorosi”, “sabotatori”, “frenatori”), lo screanzato continuava: “Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello (Rodotà aveva appena firmato l’appello di Libertà e Giustizia contro la svolta autoritaria, ndr), senza diventare anticostituzionali”.
Fu il “via libera” per bastonare i due giuristi, colpevoli di disturbare il manovratore con le loro “chiacchiere” (“sanno solo criticare”, disse il mai eletto a Porta a Porta). Per la Boschi, «i professori bloccano le riforme da 30 anni». Per i furbi del Foglio, Rodotà era “il capo del partito dei parrucconi”, e il suo nome fu messo in burletta a riprodurre l’invocazione del 2013 (“Rodotà-tà-tà”). Il "costituzionalista del Pd" Stefano Ceccanti tirò fuori su Twitter una proposta di legge del 1985 firmata anche da Rodotà (allora indipendente del Pci) per «sostituire il bicameralismo paritario con il monocameralismo puro»: la trovata, retwittatissima, doveva servire a screditare il Professore prendendolo in castagna.
La Boschi fu mandata a Agorà: «Trovo legittimo che Rodotà abbia profondamente cambiato idea, perché ricordo che nell’85 fu il secondo firmatario di una proposta di legge che voleva abolire il Senato». Inutile far ragionare una legione di stupidi: se gli si faceva notare che Rodotà non era a favore del bicameralismo ma contro la loro riforma anti-democratica, passavano al nuovo pseudo-argomento.
Intanto Renzi sfornava i suoi famigerati insulti: “radical chic”, “accozzaglia”, “professionisti della tartina al salmone”, “archeologi travestiti da costituzionalisti”, e dietro i pappagalli di Twitter, questi bulli con wi-fi autoproclamatisi classe dirigente, per i quali “Professore” è un titolo di demerito.
Pensare che prima della rielezione di Giorgio Napolitano, Renzi sentenziava: «Marini è un dispetto all’Italia, meglio Rodotà». Ma il giorno dopo, nella pioggia di rose tributata al redivivo Re, si sprecarono i rimbrotti a Rodotà, colpevole di essere il candidato alle Quirinarie del M5S. Per il Corriere (Cazzullo e Macaluso), «poteva attendersi un suo gesto di cortesia – il ritiro della candidatura – che però non c’è stato». Su Repubblica, Eugenio Scalfari sibilò: «Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Pd e i vecchi amici non l’hanno contattato»; beh, «neanche lui ha contattato me». Chissà cosa avrebbe dovuto chiedergli: forse il permesso di pensarsi Presidente con Napolitano ancora vivo, considerato che se Scalfari deve scegliere «tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci» e «tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer». E tra Rodotà e Napolitano? «Scelgo Napolitano… Il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente».
Un ricordo personale. Era la fine del 2010, Wikileaks aveva appena reso noti i cablogrammi dell’ambasciatore Usa: «Berlusconi vuole censurare Internet» per “favorire le proprie imprese” e silenziare “il dissenso”. Il riferimento era alla “legge Romani” e al disegno di legge dell’onorevole Gabriella Carlucci (ogni epoca ha la sua Boschi) per “la tutela della legalità (sic) nella rete Internet”.
Per l’agenzia che produceva il sito di YouDem, la tv della corrente veltroniana del Pd, mi proposi di intervistare Rodotà. I responsabili del sito ne furono entusiasti: a quel tempo il nome di Rodotà gli faceva comodo; ma mi raccomandarono di contingentare le dichiarazioni del Professore in modo da ricavarne “pillole” di pochi minuti, per un videoclip veloce, smart (il renzismo pre-esiste a Renzi). Telefonai a Rodotà. Mi disse che non avrebbe sottoposto la sua riflessione ad alcuna pillolizzazione, e mi invitò, se volevo, a fargli un’intervista degna di questo nome.
Contro il volere del management, mi presentai a casa sua, tra via Arenula e il Ghetto, dove mi accolse con la sua amabilità asciutta e il suo sorriso gentile. Alla fine dell’intervista, durata quasi due ore, disse: «Ci sarà sempre qualcuno che tenterà di limitare i diritti fondamentali coi pretesti più vari. Bisogna saperlo riconoscere».
cagliaripad.it, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
In questi giorni è in discussione in Senato il Ceta( Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo commerciale ed economico fra il Canada e la UE. Se sarà approvato sarà un’altra vittoria del trionfante mercato globale. Infatti il Ceta è uno dei sette trattati internazionali di libero scambio che sono: Ttip, Tpp, Tisa, Nafta, Alca e Cafta. Sono le sette teste dell’Idra. Il profeta dell’Apocalisse aveva descritto il grande mercato che era l’Impero Romano come una Bestia dalle sette teste. E il profeta aggiungeva che «una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita» (Ap. 13,3).
Così oggi alcune teste della Bestia sembrano colpite a morte, perché Trump si è scagliato contro il TTIP (Accordo commerciale tra USA e UE), contro il Tpp(Accordo commerciale tra USA e nove paesi del Pacifico) e il NAFTA (Accordo commerciale fra USA, Canada e Messico). Sembravano colpite a morte, ma ora vengono riproposte sotto nuove forme, soprattutto il Ttip. La ‘Bestia’ infatti, nelle sue varie teste, sembra che stia lì lì per morire, ma riprende subito vita. Non dobbiamo quindi mai allentare l’attenzione su questi Accordi che sono il cuore pulsante del grande mercato globale. Soprattutto in questo momento dobbiamo stare molto attenti al Ceta.
Da anni è in atto una forte campagna in Europa contro il Ceta, con forti pressioni sul Parlamento europeo. Ma nonostante tutto questo, il 30 ottobre 2016 la UE ha firmato il Trattato e il 15 febbraio 2017 anche il Parlamento Europeo lo ha ratificato con 408 voti favorevoli e 254 contrari. Ma ci resta ancora una speranza:il Trattato deve essere approvato da tutti i Parlamenti dei 27 Stati. La resistenza nei parlamenti francesi e spagnoli è forte. Ora il testo del Trattato è in discussione nel nostro Senato, dove è stata incardinata l’8 giugno scorso. Dobbiamo tutti mobilitarci perché questo Accordo non venga approvato. Il 5 luglio, al mattino, ci sarà un sit-in davanti al Senato e al pomeriggio una manifestazione indetta dalla Coldiretti davanti al Parlamento.
Per noi questo trattato è «un gigantesco regalo alle multinazionali e un’ ulteriore limitazione al ruolo e alle competenze di governi ed enti locali ai danni dei diritti e delle tutele di milioni di cittadini e consumatori.» Così lo definisce la deputata europea Eleonora Forenza. Infatti il Ceta non prevede solo un’abolizione della quasi totalità dei dazi doganali (già molto bassi) , ma soprattutto l’eliminazione di gran parte delle “barriere non tariffarie”, ovvero norme tecniche standard e criteri di conformità dei diversi prodotti di cui gli Stati si dotano per proteggere la salute, l’ambiente, i consumatori e i lavoratori.
«Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità – scrive Carlo Petrini – non può che sperare che l’Accordo venga rigettato. Ancora una volta siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria a scapito dei cittadini e dei piccoli produttori». Il Ceta è un attacco al diritto al lavoro, agli standard ambientali, alla difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici. In questo trattato vi sono clausole che impediscono la ripubblicizzazione dei servizi idrici e dei trasporti.
Per queste ragioni chiediamo ai senatori di bocciare l’Accordo. Invece Pierferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, sta premendo perché si arrivi al più presto al voto. Le Commissioni Difesa e Affari Costituzionali hanno dato il loro ok. Ora tocca a noi premere sui senatori e senatrici dei nostri territori, scrivendo lettere, inviando e-mail. Ma in questo momento abbiamo bisogno della voce forte dei nostri vescovi italiani. Per questo mi appello ai nostri vescovi, alla CEI perché si esprimano sul Ceta.
Non possono continuare a rimanere in silenzio su un Trattato che rafforzerà la tirannia dei mercati e delle multinazionali a scapito dei cittadini soprattutto i più deboli. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium attacca con forza «l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» perché «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale,che impone in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole»(56).
E’ questo lo scopo dei Trattati di libero scambio, fra cui il Ceta. Se verrà approvato, il Ceta aprirà le porte al TTIP che è di nuovo riproposto dagli USA e poi al Tisa (Accordo sul commercio dei servizi) che stanno segretamente preparando. Quest’ultimo Accordo è il più pericoloso, perché porterà alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’acqua alla sanità, dalla scuola al welfare.
E poi tocca a noi , laici e credenti, unirci insieme, fare rete per dire NO all’Idra dalle sette teste e un SI’ a un mondo più equo, più solidale, più sicuro per tutti.
«Dai diritti al web una grande eredità di analisi e riflessioni».
la Repubblica, 25 giugno 2017 (m.p.r.)
15 ottobre1976
AZIENDE, NON SCHEDATE I DIPENDENTI
Da molto tempo si sapeva che industrie pubbliche e private continuavano imperterrite a schedare i loro dipendenti, violando l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori che vieta ogni indagine «sulle opinioni politiche, religiose e sindacali dei lavoratori ». Si sapeva pure che alcune aziende si erano rivolte a studiosi di diritto del lavoro per conoscere il modo migliore di aggirare quel divieto e avevano, quindi, adottato la tecnica delle indagini su “attitudini” o “propensioni” dei dipendenti: altre aziende, invece, non erano ricorse neppure a questa finzione ed erano rimaste fedeli ai vecchi metodi.
Questi clamorosi episodi non insegnano soltanto che non basta scrivere una norma per eliminare radicate abitudini alla discriminazione. Spingono pure a riflettere sulle ragioni complessive che hanno finora impedito un’effettiva garanzia della libertà di opinione dei lavoratori.
È vero che un disegno di legge su questa materia venne presentato nel 1974 dal ministro dell’Interno, Taviani; ma si trattò di una proposta fatta senza convinzione e che, soprattutto, ignorava l’ampiezza dei problemi, la necessità di una legge dettagliata e rigorosa, le esperienze degli altri paesi.
Ma, soprattutto, l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori è indebolito dal restare un’eccezione in un sistema in cui la regola è quella della libertà indiscriminata di raccogliere informazioni su tutto e su tutti.
5 gennaio 1997
SU ABORTO E BIOETICA SERVE PIÙ LAICITÀ
Aborto, famiglia, morale sessuale, questioni in largo senso riconducibili alla bioetica sono i temi di una predicazione che ha assunto sempre più toni da crociata. Così il cattolico in politica, ovunque nel mondo, deve divenire braccio secolare della Chiesa, destinato ad incontrare, in una sorta di permanente trasversalismo, i suoi simili sparsi in tutto l’arco d’un Parlamento. Nella situazione italiana, questa posizione comincia a produrre effetti che incidono anche sulla politica quotidiana. Vi è già una concorrenza tra partiti che spinge ad un integralismo che mai s’era riscontrato nella storia repubblicana. L’insistenza su valori assoluti, non negoziabili, da parte di uno schieramento che scavalca il confine tra maggioranza e opposizione, incide sull’insieme della dinamica politica.
All’interno dell’Ulivo assistiamo ad una sorta di abbandono da parte delle componenti laiche e di sinistra, con una delega ai cattolici per tutto quanto riguarda i valori. Se questo fosse stato l’ atteggiamento della sinistra negli anni ‘60 e ‘70, se fossero state accettate come oggi le interpretazioni della parte più arretrata del mondo cattolico, non avremmo avuto il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. V’erano in quel tempo una cultura forte e la capacità di farne un elemento attivo nella società, sì che furono vinte battaglie cominciate su posizioni minoritarie. La questione cattolica, dunque, merita una discussione che finora è mancata, e che coinvolge anche l’altra questione, quella della sinistra.
5 novembre 2010
ANTROPOLOGIA DEL CASO RUBY
Quando (Silvio Berlusconi) è “sceso in campo”, aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo: l’appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere “sì” a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a “carne da sondaggio”; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l’“amore per le donne”, ma le donne come suo personalissimo “logo”. Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano.
Il caso Ruby è la sintesi, l’epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo. Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d’ogni regola. Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy. Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa. E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un “riscatto”.
25 febbraio 2016
LE UNIONI CIVILI
E IL RISCHO “EXIT” CULTURALE
La discussione sulle unioni civili era cominciata sottolineando che finalmente era alle porte una legge da troppo tempo attesa, che avrebbe consentito all’Italia di recuperare un livello di civiltà dal quale si era allontanata e che, in questo modo, l’avrebbe riportata in Europa. Ma, avendo perduto troppi pezzi, la legge approvata finirà con l’essere considerata come una nuova testimonianza di una arretratezza di fondo che, anche quando si fanno sforzi significativi, non si riesce davvero a superare. Che cosa vuol dire Europa in una materia davvero fondamentale, non per una forzatura ideologica, ma perché riguarda i fondamenti stessi del vivere? Vuol dire costruzione di un sistema sempre più diffuso e condiviso di principi e regole, che è stato affidato ad un documento comune, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Proprio per il tema affrontato in questi giorni al Senato, l’innovazione della Carta è stata massima. L’articolo 21 ha vietato ogni discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. L’articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per il matrimonio e per ogni forma di organizzazione familiare, e i giudici europei seguono ormai questo criterio. Eguaglianza, parità dei diritti, libertà nelle scelte. Principi essenziali, che avrebbero dovuto guidare i dibattiti parlamentari e che lì, invece, sono comparsi in maniera sempre più pallida. Si finisce così con l’avere la sensazione che l’Italia - al riparo da un “Grexit” per ragioni economiche e da un “Brexit” per ragioni politiche - abbia scelto la strada di un “exit” dall’Europa tutto culturale.
31 marzo 2017
COME TUTELARE
LA NOSTRA DIGNITÀ DIGITALE
È vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera la tutela dei dati personali come un diritto fondamentale e che si insiste nell’affermare che «noi siamo le nostre informazioni». Ma questi riconoscimenti, in sé assai importanti, non sono sufficienti. Bisogna prendere le mosse dai mutamenti determinati dal fatto che la persona e il suo corpo sono ormai entrati a far parte della dimensione digitale. Così non si determina soltanto una diversa percezione della stessa fisicità, ma diventano possibili anche violazioni gravi della libertà e della dignità della persona, se l’utilizzazione di informazioni altrui avviene senza specifiche e adeguate regole e tutele di cui gli interessati possono direttamente servirsi.
Il saldo punto d’avvio è stato rappresentato dal riconoscimento alla persona del diritto fondamentale «di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica» (Carta dei diritti fondamentali, articolo 8.2). Si può dire che il passaggio dei dati personali nel potere/ disponibilità di altri, in forme legittime, non ha come conseguenza l’esclusione della persona interessata. E non siamo di fronte soltanto ad un diritto di conoscenza, ma pure di controllo. Si realizza così una distribuzione di poteri, alcuni dei quali consentono alla persona interessata di intervenire attivamente nella gestione del bene costituito dai suoi dati in particolare grazie allo strumento della “rettifica”. Con un ulteriore interrogativo sullo sfondo: quale rapporto tra sfera pubblica e sfera privata si determina per effetto di questi mutamenti?
«Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, "una società diversa».
Libertà e giustizia, 24 giugno 2017
Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili.
Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito Democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E ad ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – «l’irriducibilità del mondo al mercato». La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la rete. «In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni». Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, «una società diversa».
Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia
in occasione dell’uscita di un libro "
Diritti e libertà nella storia d’Italia". Left, 24 giugno 2017 (c.m.c)
Stefano Rodotà Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli)
Restituire un pezzo di memoria assume inevitabilmente un significato politico e civile, oggi in Italia. Anche se il professor Stefano Rodotà a proposito del suo Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli) si schermisce: «non voglio salire su un cavallo bianco -dice- ho solo cercato di rinfrescare il ricordo di certi fatti. Perché negli ultimi dieci anni anche in Parlamento si raccontano cose che nessuno anni fa avrebbe osato, perché si conosceva la storia di questo paese». Un attacco alla storia, (vedi i manifesti scandalo sulle Br in procura) che va di pari passo con l’attacco del Premier alle istituzioni. E non solo. Su questi temi, in occasione della presentazione del libro al Festival Parole di giustizia il 13 maggio a La Spezia abbiamo rivolto alcune domande al professore emerito di diritto dell’Università La Sapienza.
Professor Stefano Rodotà, dopo aver denunciato l’attacco alla Costituzione, ora lei parla di decostituzionalizzazione. Una deriva ulteriore?
«Sì, si usa la riforma della giustizia per eliminare in radice garanzie che la Carta prevede. Là dove, per esempio, è detto che la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria si leva “direttamente” e si dice “secondo le modalità della legge”. Così una maggioranza qualsiasi potrà far fuori le garanzie sancite dalla Costituzione e protette dalla sua rigidità. E si potrà passare una serie di poteri a maggioranze ordinarie come l’attuale: blindata, che vota qualsiasi cosa. Intanto il Parlamento è stato ridotto a luogo di registrazione passiva della volontà del presidente del Consiglio e l’ altro sistema di controllo, di contropotere, di contrappeso necessario in ogni democrazia- la magistratura- è sempre più preso di mira».
Berlusconi parla di magistrati «eversori», stigmatizza la Corte costituzionale «covo di sinistra». Calunnia, altera la verità, anche quella storica. Perché una parte di italiani continua a credere alle sue falsità?
«Questa è la domanda chiave. Di risposta non ce n’è una sola. Al primo punto c’è l’informazione in Italia. Non dobbiamo cadere nella trappola berlusconiana che addita alcuni talk show come eretici nei suoi riguardi quando tutte le ricerche dicono che l’opinione pubblica si forma soprattutto con il Tg1 e il tg5. Che non riferiscono una serie di fatti oppure ne danno la versione di Berlusconi. Perfino l’Autorità delle telecomunicazioni- che pure non brilla di attivismo in queste materie- ha dovuto dire che non si può diffondere ogni giorno un comunicato o un video di Berlusconi Secondo punto: il Premier ha costruito intorno a sé, non “un sogno” come è stato detto, ma un blocco sociale su interessi come l’evasione fiscale. Per lui "l’evasione fiscale è legittima difesa". Da qui l’abbassamento della soglia di tutte le regole. Così accanto alle leggi ad personam, ecco l’eliminazione del falso in bilancio, di cui B. si è servito. Una “semplificazione” che fa scendere la legalità nella stesura dei bilanci. Parlo di un blocco sociale, dunque, costruito sui peggiori aspetti della società italiana come il non pagare le tasse. Anche se qualcosa comincia a scricchiolare: con questa crisi le piccole e medie imprese non riescono a stare sul mercato, i problemi che devono affrontare sono assai più vasti. Poi a tutto questo va aggiunto un terzo elemento: la debolezza dell’opposizione che, a mio avviso, ha regalato forza a Berlusconi».
Berlusconi dice che la sinistra è triste ed «ha una ideologia disumana e crudele». E alla convention dei Liberal del Pd Bill Emmott risponde che non va sottovalutato: «la sinistra ha una cultura del dolore». Così Enzo Bianco rilancia: «dobbiamo sorridere di più». Perché continuare a rincorrere Berlusconi. sul suo terreno?
«Per lungo tempo è stata sopravvalutata la capacità di comunicazione di Berlusconi. E si è pensato che adeguandosi al suo modello lo si sarebbe sconfitto. Non è accaduto. Proprio per l’asimmetria di potere: se io scelgo il modello media e i media sono di un altro, lotto con una mano legata dietro la schiena. Intanto si è persa la strada storica del rapporto con la società. Qualcosa, però, sta cambiando. La manifestazione delle donne, degli studenti, del lavoro e del precariato ci dicono di una ripresa di reazione sociale. E non sono più «i ceti medi riflessivi» di cui parlava Paul Ginsborg all’epoca dei girotondi. Ora la reazione che ci si deve aspettare dall’opposizione è che trovi i giusti canali di comunicazione con questo mondo che va in piazza e che ha bisogno anche di una sponda politica. Fin qui le reazioni sono state vecchie, impaurite e sbagliate. Si è detto non possiamo arrenderci al movimentismo. Come se non fosse qualcosa che sta avvenendo nella società…»
Dal suo libro emerge l’abisso fra uno Stato ancora in formazione che paventava lo strapotere della Chiesa e gli ultimi quindici anni in cui lei scrive: «si è assistito a pratiche politiche e a leggi che quanto più si avvicinavano alle richieste della Chiesa tanto più si allontanavano dalla Costituzione». Siamo sempre più lontani dal resto d’Europa?
«Nettamente e non è una valutazione preconcetta o ideologica. Prendiamo un dato di realtà: si discute in Parlamento di testamento biologico lasciando strada aperta a una posizione della Chiesa veramente violenta che parla di "indisponibilità della vita e di limiti invalicabili". Ora se noi andiamo in Germania, Francia o in Spagna non solo lì le norme sul biotestamento ci sono e da tempo, ma sono in forme tali che in Italia l’opposizione neanche penserebbe di proporle perché verrebbe accusata di chissà quali nefandezze, Siamo prigionieri di questo meccanismo: da noi vengono presentate come questioni di fede questioni che evidentemente di fede non lo sono come il diritto a rinunciare a idratazione e nutrizione forzata. Quelli della Chiesa diventano da noi punti di vista che pesano nella discussione politica al punto da frenarne l’autonomia e l’intelligenza. Perché c’è una presenza della Chiesa più intensa che altrove, ma anche per una politica debole. Per cui il Pdl si presenta come fedele braccio secolare delle volontà del Vaticano e non per reale adesione culturale, ma per averne sostegno. La debolezza della politica italiana ha aperto varchi enormi all’iniziativa della Chiesa».
Il vice presidente del Cnr, Roberto de Mattei ha organizzato un convegno contro l’evoluzionismo e uno sul fine vita in cui si attacca il protocollo di Harvard. Cosa ne pensa?
«De Mattei è libero di dire ciò che vuole ma rivestendo una carica istituzionale – perché il vertice del Cnr è nominato dal Governo – ha il dovere di rispettare l’opinione altrui e di non usare il denaro e il ruolo pubblico per fare propaganda a tesi che, per usare un eufemismo, hanno uno statuto scientifico molto debole.
«Ormai non c’è più confronto, si rifiuta il punto di vista dell’altro quando non lo si ritiene conforme alla propria particolare situazione. E’ il dato devastante introdotto dalla logica del berlusconismo che ha come regola la negazione dell’altro. Lei lo ricordava all’inizio: “tutti comunisti”, “tutti nemici della famiglia”; con questa premessa non è possibile guardare alla società italiana tenendo aperta la discussione. Il punto drammatico è la regressione culturale, che è anche regressione del linguaggio. Uno non si scandalizza moralisticamente della barzelletta di Berlusconi ma della degradazione dell’altro che c’è nel suo linguaggio, che poi è quello leghista.
«Non a caso si attacca un luogo di formazione del pensiero critico come la scuola pubblica: si vuole azzerare la capacità dei cittadini di valutare. Ma cattiva cultura produce cattiva politica, ed è ciò che stiamo vivendo. Anche per questo quando Donzelli mi ha proposto di rimettere in circolazione quel libretto aggiornandolo ho accettato. In una altra situazione avrei detto no, ci sono molti materiali. Ma oggi si va perdendo anche la memoria dei fatti elementari. Il Premier, per esempio, lamenta di non poter fare provvedimenti.
«C’è un travisamento della realtà istituzionale tanto che si imputa alla Costituzione e al Parlamento l’impossibilità di muoversi. Ma basta pensare che in un solo anno, il 1970, sono stati approvati l’ordinamento regionale, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, le norme sulla carcerazione preventiva, in sequenza rapidissima… E negli anni successivi le norme sulle pari opportunità sul lavoro, l’aborto, la riforma dello stato di famiglia. C’era una cultura politica e in Parlamento si andava per discutere davvero. Non mi meraviglia che un periodo come quello, in cui si attuava la Costituzione per i diritti e le libertà, oggi venga demonizzato».
«Un uomo di una statura morale e culturale fuori dal comune, che sarebbe stato un grande presidente della Repubblica. Lo ricordiamo qui ripubblicando uno dei suoi ultimi articoli».
MicroMega, 23 giugno 2017 (c.m.c)
Stefano Rodotà è stato uno strenuo difensore della Costituzione, di cui era un profondo conoscitore. Ha attraversato il suo tempo con saldissimi princìpi di giustizia sociale e laicità ed è stato al tempo stesso capace di grande modernità, con un’attenzione costante ai diritti civili e alle possibilità e ai rischi delle nuove tecnologie.
Nel secondo dopoguerra il dibattito sui limiti della scienza
e della tecnologia era strettamente legato ai timori di distruzione
del genere umano legati alla bomba atomica. Oggi le nuove sfide sono quelle del postumano, in cui la ‘soglia’ dell’umano viene travalicata aprendo certamente grandi possibilità ma ponendo anche nuovi, complessi interrogativi. Ed è sul terreno del diritto
che si pongono le sfide più importanti: i princìpi di eguaglianza
e dignità devono essere il faro per rimanere umani.
1. Quando, nel 1950, Norbert Wiener pubblica le sue riflessioni su cibernetica, scienza e società, sceglie come titolo L’uso umano degli esseri umani. In queste parole troviamo qualcosa che va oltre la storica consapevolezza dello scienziato per le conseguenze della sua ricerca. Vi è l’eco di un tempo cambiato, e non solo per la percezione lucida di quel che la tecnologia avrebbe determinato e che lo induce a una pionieristica riflessione sui rapporti tra l’umano e la macchina. Siamo a ridosso della seconda guerra mondiale e Wiener è tra gli scienziati più consapevoli dei rischi di una militarizzazione della scienza, tanto che rifiuta ogni finanziamento legato a queste finalità, ogni coinvolgimento in simili ricerche. Negando l’innocenza della scienza, nel 1947, in una lettera intitolata «A Scientist Rebels», ribadisce il suo rifiuto di incoraggiare «the tragic insolence of the military mind», che può determinare appunto usi inumani degli esseri umani, con un riferimento esplicito alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. La riflessione sui rapporti tra scienza e società viene così legata alla responsabilità per gli effetti della ricerca scientifica e tecnologica, e proiettata nel futuro.
Sarà Günther Anders, mettendo al centro della sua riflessione proprio la bomba atomica, a cogliere nel 1956 la radicalità di questo passaggio, chiedendosi nel suo libro più noto se L’uomo è antiquato. E scrive: «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale».
Questo congedo dall’umano era cominciato trent’anni prima, quando Julien Huxley, al quale si attribuisce l’invenzione del termine «transumanismo», aveva concluso nel 1927 le sue riflessioni dicendo che «forse il transumanismo servirà: l’uomo rimarrà uomo, trascendendo però se stesso e realizzando così nuove possibilità per la sua propria natura umana». Il «trascendere» di Huxley ritorna in Anders, ma nelle ricerche successive l’ancoraggio sicuro nel rispetto della «natura umana» sembra svanire, comunque viene respinto sullo sfondo.
Nelle definizioni più recenti si parla di transumanismo o di postumano con riferimento alla «tecnologia che permette di superare i limiti della forma umana» o, più enfaticamente, al «movimento intellettuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana attraverso la ragione applicata, usando in particolare la tecnologia per eliminare l’invecchiamento ed esaltare al massimo le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche». Postumano è inteso come «meglio dell’umano». Ma queste incondizionate aperture, di cui si vorrebbe l’immediata traduzione istituzionale in un «diritto alla tecnologia», rischiano proprio di eludere la questione pregiudiziale dell’uso umano degli esseri umani.
2. Non siamo privi di princìpi di riferimento, non abbiamo di fronte a noi una tabula rasa, quando affrontiamo oggi un tema così impegnativo, e comunque ineludibile. L’attenzione deve di nuovo essere rivolta al cruciale passaggio dell’ultimo dopoguerra, quando la riflessione sull’arma atomica venne accompagnata da quella, altrettanto sconvolgente, imposta dalla rivelazione dell’estremo uso inumano degli esseri umani avvenuto con la Shoà e con la sperimentazione medica di massa sulle persone, trasformate in cavie umane, come risultò dai processi a carico dei medici nazisti.
Dagli atti di quei processi Marco Paolini ha tratto uno straordinario spettacolo, intitolato Ausmerzen, parola che descrive la pratica di abbattere i capi più deboli in occasione della transumanza delle greggi. Una pratica codificata in particolare dal decreto firmato da Adolf Hitler il 7 dicembre 1941, che prevedeva che ebrei, rom, omosessuali, dissidenti politici catturati nei paesi occupati dalle truppe naziste sarebbero stati trasferiti in Germania, e lì sarebbero scomparsi «nella notte e nella nebbia». Qui viene sinistramente evocato l’Oro del Reno di Richard Wagner, quando Alberich indossa l’elmo magico, si trasforma in colonna di fumo e scompare cantando «Notte e nebbia, non c’è più nessuno». Ma ciò che scompare sono gli esseri umani, non più persone ma oggetti, disponibili per il potere politico e il potere medico.
Una reazione a questo esercizio del potere venne affidata nel 1946 al codice di Norimberga, un insieme di princìpi che si apre con l’affermazione «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario». È una sorta di rinnovato habeas corpus, che sottrae al medico il potere fino ad allora tutto discrezionale sul corpo del paziente, limitato solo da quel giuramento di Ippocrate che proprio i medici nazisti avevano tradito. Si è detto giustamente che così nasceva un nuovo soggetto morale, che l’umano riceveva un suo essenziale riconoscimento.
Ma la risposta più radicale, e più profonda, si trova nelle parole conclusive dell’articolo 32 della Costituzione italiana: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Viene così posto al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.
Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a una rinnovata autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, la promessa della Magna Charta. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale «in nessun caso» si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, un’assemblea costituente, rinnova a tutti i cittadini quella promessa: «Non metteremo la mano su di voi», neppure con lo strumento grazie al quale, in democrazia, si esprime legittimamente la volontà politica della maggioranza, dunque con la legge. Anche il linguaggio esprime la singolarità della situazione, poiché è la sola volta in cui la Costituzione qualifica un diritto come «fondamentale», abbandonando l’abituale riferimento all’inviolabilità.
3. Autodeterminazione della persona e limitazione dei poteri esterni segnano così la via da seguire perché l’umano possa essere rispettato in quanto tale, sottratto alle pulsioni che vogliano cancellarlo. Sono criteri ancor oggi adeguati o hanno bisogno d’essere ulteriormente articolati e approfonditi per poter fronteggiare le nuove sfide continuamente poste dalle dinamiche della tecnoscienza?
Prima di cercare una risposta a questo interrogativo, tuttavia, è bene riflettere sul modo in cui la tecnologia viene oggi nominata, anche per gli oggetti di comune utilizzazione. Si parla, per esempio, di «smartphone». Compare la parola «intelligente». E questo non è un dettaglio, un’indicazione di poco conto, perché si descrive un passaggio – quello da una situazione in cui l’intelligenza era riconosciuta soltanto agli umani a una in cui comincia a presentarsi come attributo anche delle cose, di oggetti di uso quotidiano.
Entriamo così nella dimensione dell’intelligenza artificiale, della progressiva costruzione di sistemi in grado di imparare, e così dotati di forme di intelligenza propria. Una prospettiva che inquieta alcuni tra i protagonisti del mondo della scienza e della tecnologia – da Stephen Hawkins a Bill Gates, da Elon Musk a Jaan Tallin – che esasperano i rischi di un’evoluzione che porterebbe a creare sistemi dotati di un’intelligenza che li metterebbe in condizione non solo di creare nuove simbiosi tra uomo e macchina, ma di sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana. Si è giunti a dire che si sta «evocando un demone», che ci si avvicina pericolosamente a quella che sarebbe «l’ultima invenzione dell’uomo», dunque a un rischio ben maggiore di quello determinato dalla bomba atomica.
Quattrocento scienziati hanno discusso questa prospettiva. In un documento non catastrofista, si mette in evidenza la crescente apparizione di sistemi autonomi, veicoli autonomi, forme autonome di produzione, armi letali autonome. Ma autonomia rispetto a che cosa? Il criterio di comparazione è chiaro: rispetto a una situazione nella quale le decisioni sono affidate alla consapevolezza e alla indipendenza delle persone, e quindi alla loro responsabilità. Ora, invece, l’autonomia sembra abbandonare l’umano e divenire carattere delle cose, ponendo problemi concreti di responsabilità civile (chi risponderà dei danni provocati da un’auto senza conducente?), privacy (quali garanzie di fronte a una continua e capillare raccolta delle informazioni personali sempre più facilitata, ad esempio, dall’impiego di droni?), futuro del lavoro (sono annunciate fabbriche interamente robotizzate), legittimità dell’uso di sistemi di armi letali (prevedere almeno una moratoria per quanto riguarda il loro impiego, considerando anche l’eventualità di un loro divieto, come già si è fatto per le armi chimiche o batteriologiche?).
In questo modo di affrontare le molteplici questioni poste dalle ricerche e dalle concrete innovazioni legate dall’intelligenza artificiale si coglie un bisogno di innovazione che investe direttamente la dimensione della regola giuridica. Se il tempo a venire è descritto come quello della «nostra invenzione finale: l’intelligenza artificiale e la fine dell’età umana», quale spazio rimarrebbe per quell’attività propriamente umana che consiste nell’agire libero e nel dare regole all’agire? Scompariranno i diritti «umani», e con essi i princìpi di dignità ed eguaglianza, o verranno estesi ad altre specie viventi e anche al mondo delle cose?
Nel ricostruire la dimensione del postumano si insiste sull’assoluta libertà della ricerca scientifica e sull’incondizionato riconoscimento del diritto alla tecnologia, specificato a livello individuale come «libertà morfologica», come diritto all’uso legittimo di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone. Nessun limite, dunque? Ma, discutendo proprio le tesi di Günther Anders, Norberto Bobbio metteva in evidenza come in esse la fondazione di una nuova morale assumesse un significato assolutamente prioritario e come i rimedi giuridico-istituzionali fossero condizionati dal raggiungimento di quell’obiettivo.
Questi due piani si sono via via sempre più intrecciati nel mutare di un contesto nel quale l’accento si è spostato dalla considerazione della sopravvivenza fisica dell’umanità, qual era implicata dal riferimento alla bomba atomica, a una sua trasformazione così radicale da portare a una sopraffazione dell’umano da parte del mondo delle macchine. Se, allora, si deve guardare nella direzione della costruzione di un contesto istituzionale coerente con la novità dei tempi, sono i princìpi del giuridico a dover essere presi in considerazione in quella loro particolare fondazione ad essi offerta dall’ultima fase del costituzionalismo – in primo luogo quelli di eguaglianza e di dignità, non a caso presenti, direttamente o indirettamente, nell’insieme della discussione che si sta svolgendo.
4. Questi temi sono entrati nel discorso pubblico con il diffondersi delle tecniche di riproduzione assistita e con l’emergere di ipotesi estreme, come quelle delle madri-nonne o della scelta di una coppia di lesbiche sordomute di ricorrere a quelle tecniche per avere figli anch’essi sordomuti. Ma ormai l’orizzonte si è assai dilatato, la definizione del campo del postumano non fa più riferimento soltanto alle innovazioni legate a biologia e genetica, ma è il risultato della convergenza di diverse discipline e esperienze, che vanno dall’elettronica all’intelligenza artificiale, alla robotica, alle nanotecnologie, alle neuroscienze.
Molte trasformazioni sono già visibili e giustificano la considerazione del corpo come «un nuovo oggetto connesso», addirittura come una «nano-bio-info-neuro machine», richiamando quell’«homme machine» di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D’Holbach. Si individua così una nuova dimensione dell’umano, spesso rappresentata come un campo di battaglia dove si combattono visioni inconciliabili. Le trasformazioni assumono così un valenza qualitativa inedita, anche se di esse possono essere rintracciate ascendenze persino sorprendenti, come in quelle Magnalia naturae, che Francis Bacon nel 1627 pone in appendice alla Nuova Atlantide, indicando le prospettive aperte dalla scienza: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all’altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».
Oggi si discute molto di realtà «aumentata», considerando il modo in cui l’elettronica trasforma l’ambiente in cui viviamo, e noi stessi. Ma Bacon, a ben guardare, ci parlava già di un uomo «aumentato», e questa è la terminologia alla quale ricorrono i tecnologi. Si entra così nel campo dello «human enhancement», di un potenziamento della condizione umana grazie all’eliminazione di vincoli naturali e culturali resa possibile dalla scienza, con un’estensione delle opportunità di vita.
Un uomo aumentato, o spossessato di quei tratti dai quali riteniamo che l’umanità non possa essere separata? Se spostiamo lo sguardo dalle premonizioni del passato alle ipotesi di oggi, ci imbattiamo in anticipazioni profetiche e promesse allettanti. Verrà un giorno, dicono i più radicali tra i transumanisti, in cui l’uomo non sarà più un mammifero, si libererà del corpo, sarà tutt’uno con il computer, dal suo cervello potranno essere estratte informazioni poi replicate appunto in un computer, e potrà accedere all’immortalità cognitiva e l’intelligenza artificiale viene presentata come quella che ci libererà dalle malattie e dalla povertà, dandoci una pienezza dell’umano, liberato dalle sue miserie. Ma questo «meglio dell’umano» può esigere un prezzo elevato, l’abbandono di consapevolezza e indipendenza delle persone, facendo assumere al postumano le sembianze di un’ideologia della tecnoscienza.
5. Ma già viviamo l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo «automatico». Grazie a un’ininterrotta raccolta di informazioni sulle persone, la costruzione dell’identità è sempre più affidata ad algoritmi, sottratta alla decisione e alla consapevolezza individuale. Possiamo dire che stiamo passando da Cartesio a Google. Non si può parlare dell’identità con le parole «io sono quello che io dico di essere», bensì sottolineando che «tu sei quel che Google dice che tu sei».
Partendo da questa constatazione, la persona viene conosciuta e classificata, la sua identità è affidata ad algoritmi e tecniche probabilistiche, si instaura una sorta di determinismo statistico per quanto riguarda le sue future decisioni, sì che la persona, declinata al futuro, rischia d’essere costruita e valutata per sue possibili propensioni e non per le sue azioni. Così, la separazione tra identità e intenzionalità, oltre a una «cattura» dell’identità da parte di altri, conferma una tendenza verso un progressivo allontanarsi dall’identità come frutto dell’autonomia della persona. Diventiamo sempre più «profili», merce pregiata per un mercato avido di informazioni, e sempre meno persone. Si appanna, fino a scomparire, la forza dell’umano nella costruzione del sé, ed è faticosa la ricerca di vie per reinventare l’identità nel tempo della tecnoscienza.
Sono continui gli scambi tra l’umano, il postumano e un mondo delle cose che manifesta una crescente autonomia. Non è senza significato il passaggio dall’internet 2.0, quello delle reti sociali, all’internet 3.0, l’internet delle cose. E il mondo delle cose è trasformato dalla presenza variegata dei robot, sempre meno riferibili alla sola dimensione fisica. Compaiono robot virtuali, appunto gli algoritmi che consentono il funzionamento dei computer che governano determinate attività, e robot sociali, che sarebbero poi quelli ai quali deve essere già riconosciuta «una piccola umanità». Piccola come unica possibilità o primo passo verso un’integrale «umanità» della macchina?
L’umano si distribuisce, esce dall’area che culturalmente gli era stata attribuita, il mondo delle cose si anima, e così a qualcuno sembra che debba essere certificata addirittura l’eclisse definitiva di quello che abbiamo chiamato umanesimo. Una nuova manifestazione di quel conflitto tra le due culture di cui tanto si parlò anni fa? Si annuncia piuttosto una passaggio radicale. Non solo l’assunzione di sembianze di macchina da parte dell’umano. Ma la creazione di sistemi artificiali in grado di imparare, dotati di una forma di intelligenza propria che li metterebbe in grado di sopraffare l’intelligenza umana, di creare una simbiosi macchina/uomo influente sulla stessa evoluzione della specie.
Due situazioni diverse, che tuttavia hanno in comune il problema della soglia, superata la quale si passerebbe da una dimensione all’altra. E in questo intreccio tra dati del presente e proiezioni nel futuro si colloca la faticosa costruzione di un contesto di regole e princìpi, di una RoboLaw in grado di massimizzare i benefici della seconda rivoluzione delle macchine.
Una nuova forma sociale si sta manifestando e, com’è già avvenuto in passato, i suoi effetti vengono subito misurati sul rapporto tra condizione postumana e destino del lavoro. Una società liberata dal lavoro o insidiata da più profonde servitù? Esclusioni crescenti o un «fully automated luxury communism»? Queste domande rinviano a un interrogativo più radicale, che si manifesta sempre più esplicitamente nelle discussioni: queste trasformazioni avvengano all’insegna del profitto o dell’interesse della persona? Per affrontare questo problema, il riferimento non può essere cercato nell’intelligenza artificiale, ma in quella collettiva, dunque nella politica e nelle decisioni che questa è chiamata ad assumere. Il vero rischio, infatti, non è quello di una politica espropriata dalla tecnoscienza. È il suo abbandonarsi a una deriva che la deresponsabilizza, induce a concludere che davvero malattia e povertà siano affari ormai delegabili alla tecnica e non problemi da governare con la consapevolezza civile e politica.
Questa politica non può essere senza princìpi. Lo dimostra, ad esempio, la questione dello human enhancement, del potenziamento dell’umano. Tema tutt’altro che astratto, perché il corpo si presenta non solo come oggetto connesso, ma come destinatario di interventi sempre più invasivi. Un’invasività, peraltro, che non evoca soltanto rischi, ma descrive recuperi di funzioni perdute, accesso a opportunità nuove, arricchimento dei legami sociali.
Chi governa questi processi? Torna qui il tema della libertà e dell’autonomia, essendo evidente che il potenziamento dell’umano non può risolversi nella disponibilità del corpo altrui, quali che siano le sue motivazioni, culturali, paternalistiche o autoritarie. Si è discusso della legittimità della decisione di una coppia di lesbiche sordomute di avere un figlio anch’esso sordomuto. Libertà di scelta, dunque, ma fino a quando le decisioni producono effetti nella sola sfera dell’interessato. E questo mette in discussione l’affermazione postumanista di un diritto incondizionato al ricorso a tutto ciò che la tecnoscienza mette a disposizione.
Il potenziamento dell’umano incontra poi il principio d’eguaglianza. Quale criterio governerà l’accesso alle opportunità offerte dalla tecnoscienza? La logica dei diritti o quella del mercato? Basta pensare al potenziamento dell’intelligenza e alle conseguenze di una situazione in cui questo potenziamento fosse legato alla disponibilità delle risorse necessarie per comprarlo sul mercato o a una situazione di privilegio sociale. Non basta più dire che così nascerebbe una società castale, perché storicamente questa forma sociale era fondata su una discriminazione culturale, economica, sociale, religiosa, che poteva sempre essere eliminata. Quando, invece, è implicato il corpo, nasce una distanza umana, come tale irredimibile. E la disparità delle intelligenze, accettata in nome del suo discendere da fatti naturali, non sarebbe più possibile nel momento in cui diverrebbe fatto socialmente determinato. Il legittimo rifiuto di questa deriva, che allontanerebbe l’umano dall’eguaglianza e dalle dignità, porterebbe a quelle che sono già state chiamate guerre tra umani e postumani.
Alla questione dell’eguaglianza si congiunge così quella della dignità, che ricompare quando le tecniche di potenziamento implicano forme di controllo esterno, permanenti o transitorie, quali possono essere quelle legate all’inserimento nel corpo della persona di dispositivi elettronici in grado di ricevere e trasmettere informazioni. Qui la regola non può essere, semplicisticamente, quella del consenso della persona interessata, essendo ben noti i condizionamenti della libertà di consentire. Quel che può essere ammesso è una modifica o un potenziamento transitorio, dunque reversibile in base alle decisioni dell’interessato.
Queste vicende dell’umano rinviano a una considerazione più generale che muove dall’osservazione secondo la quale l’umanità sembra uscita da due processi nelle apparenze opposti: l’ominizzazione, dunque l’evoluzione biologica, che ha portato all’emergere di una sola specie umana, con un processo di unificazione tendente all’universalismo; e l’umanizzazione, dunque l’evoluzione che si è articolata attraverso le culture, con un processo di diversificazione tendente al relativismo. Universalità e unicità, da una parte; differenziazione propria di ciascun gruppo umano, dall’altra. Nel tempo di un’innovazione scientifica che modifica le modalità della procreazione e costruisce integrazioni nuove del mondo umano con quello animale e con quello delle macchine, queste categorie non ci darebbero più una descrizione delle dinamiche umane adeguata alla profondità del cambiamento.
L’accento dovrebbe essere posto con intensità particolare proprio sull’ominizzazione, poiché la profondità del mutamento dei processi biologici e il loro intersecarsi con l’intero complesso delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sembrano indicare una direzione che porterebbe a una diversificazione della specie umana, fino alla creazione di nuove specie. Nei processi di umanizzazione, al contrario, si colgono significativi segni di un movimento verso l’unificazione, di cui è testimonianza proprio il diffondersi di norme giuridiche comuni nei settori in cui l’umano è messo più visibilmente alla prova dalla tecnoscienza. Un radicale rovesciamento di prospettiva, dunque, che è stato anche descritto riferendosi alla speranza che l’umanità riuscirà a sostituire «la casualità del processo evolutivo con una auto-diretta re-ingegnarizzazione della natura umana». Processi che, comunque, ci portano fuori dalla logica dell’evoluzione darwiniana.
6. Possiamo fermarci alla contemplazione di questo orizzonte, che può apparirci smisurato? O dobbiamo guardare oltre, tornando a quell’uso umano degli esseri umani citato all’inizio? Su chi incombe la responsabilità di quest’uso umano? Infatti, anche se si accettasse la tesi una tecnologia tendenzialmente incontrollabile perché produttrice autonoma di fini sempre nuovi, non si potrebbe trascurare un’analisi delle forze concretamente all’opera, che orientano la ricerca, la sostengono e la finanziano, dando ai complicati tragitti tra umano e postumano la funzione di trasformare profondamente gli stessi rapporti sociali.
La diffusione della robotica, come già è avvenuto con l’elettronica, porta a una concentrazione del potere nelle mani di soggetti che ne controllano la dimensione tecnica. Con la sua esasperata enfasi sull’indefinita e libera espansione del potere individuale il progetto transumanista finisce con l’incarnare la logica di una competitività senza confini, di cui ciascuno è chiamato a essere protagonista. Se soccombe, è solo perché non è stato capace di cogliere le opportunità offerte dalla tecnoscienza. La nuova rivoluzione svela così un’anima antica e mostra inquietanti continuità con la logica di un incontrollato mercato concorrenziale.
L’umano, e la sua custodia, si rivelano allora non come una resistenza al nuovo, un timore del cambiamento o come una sottovalutazione dei suoi benefici. Si presentano come consapevolezza critica di una transizione che non può essere separata da princìpi nei quali l’umano continua a riconoscersi, aprendosi tuttavia a un mondo più largo e in continua trasformazione. Non è impresa da poco, né di pochi. Non basta evocare, per i rischi del futuro, la vicenda della bomba atomica, sperando che il tabù che l’ha accompagnata possa essere trasferito nei nuovi territori. L’impegno necessario esige un mutamento culturale, un’attenzione civile diffusa, una coerente azione pubblica. Parlare di una politica dell’umano, allora, è esattamente l’opposto delle pratiche correnti che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente.