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«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l'antagonismo anche duro. Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi. Pisapia? Un progetto perdente».

MicroMega online, 5 luglio 2017 (c.m.c.)

E' ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. «E' la mia contraddizione personale» ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell'associazionismo diffuso nel Paese. Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l'unico motore per un cambiamento possibile: »Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa». Non a caso, questo weekend sarà a L'Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su "Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

In Italia, ma potremmo dire in Europa, cresce la disaffezione nei confronti della politica. Una crisi della rappresentanza forte a tal punto che ormai vota meno di una persona su due, intanto aumenta la disuguaglianza e il potere economico è nelle ferree mani dell'establishment. Viviamo una fase di crisi democratica o di post-democrazia?
«In tutto l'Occidente assistiamo ad un distaccamento tra la gran parte della popolazione e le classi dirigenti. E ciò, attenzione, non è causa delle tendenze epocali degli ultimi anni – il boom economico di Cina e India, le nuove tecnologie o l'emergenza migranti – bensì delle politiche sbagliate adottate per fronteggiare tali tematiche. E' diverso. Sono stati commessi due errori gravi. Anzitutto l'apertura al made in China, che ha fatto diventare più competitivo il mercato, ha portato vantaggi solo per le classi sociali abbienti mentre le più deboli sono state penalizzate. Di fronte a tale problema bisognava intervenire rafforzando lo Stato sociale, invece si è andati nella direzione opposta e dal 1985 ad oggi si è deciso coscientemente di indebolire il welfare lasciando soli i lavoratori».

Qual è il secondo errore commesso?
«I cittadini sono stati trasformati in votanti/consumatori. Chiamati in causa solo per formare il Parlamento, ogni cinque anni, ma per il resto non vengono coinvolti nella res publica. Assistiamo alla chiusura degli spazi di partecipazione e democrazia quando invece la fase chiederebbe di ampliarli».

Lo scontro ormai è tra popolo vs elite o è una semplice banalizzazione populista?
«Detta così si rasenta l'errore, perché i redditi medi e medio-alti che beneficiano della globalizzazione sono cospicui. Non si tratta di una semplice élite. Preferisco parlare di faglie presenti in seno al popolo, due faglie, secondo me, "di classe": da un lato gli esclusi, i precari, i lavoratori subordinati; dall'altra le borghesie e l'intellighenzia del Paese. Possiamo pensarle anche in termini di faglie territoriali – da un lato la città, dall'altra la campagna – o allo storico conflitto tra centro e periferia. Il popolo sta da entrambe le parti ma ne esiste uno (maggioritario) perdente e l'altro (minoritario) vincente».

In questa Europa esiste un problema di sovranità perduta?
«Il recupero della sovranità nazionale è un imbroglio di chi vuole sfruttare le faglie per farsi dare pieno mandato, per i propri interessi, scaricando le responsabilità della crisi sociale sulle aperture di mercato e delle frontiere, foraggiando così la guerra tra poveri. Soprattutto le destre populiste hanno assunto tali posizioni; però, com'è nella tradizione del movimento operaio, anche a sinistra sta prendendo piede questa infausta linea del ritorno al nazionalismo. Se ci riflettiamo, durante la Prima guerra mondiale, i socialisti si divisero e una cospicua parte appoggiò l'intervento bellico. La classe operaia - che esiste ancora e nella quale includo il precario o il lavoratore subordinato di Eataly - non si deve far ingannare: la soluzione non passa per la chiusura delle frontiere, ma per una nuova attivazione sociale. In Italia e in Europa».

La partecipazione civica è la risposta dal basso all'antipolitica?
«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli, perché in questo periodo storico è necessario l'antagonismo, anche duro. C’è un pezzo di popolo che non ha chance di rappresentanza politica pur avendo all'interno intelligenze collettive. Dato che i partiti tradizionali non riescono più a dar voce ai soggetti esclusi, vanno costruiti nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese».

Per mesi ha provato a riformare il partito del Pd, adesso invece parla di centralità della società civile. Ha cambiato idea?
«Siamo in una fase di ricerca. Continuo a pensare che ad un certo punto servirà un partito capace di rappresentare gli esclusi: un soggetto collettivo che riunisca pezzi di classi diversi, cittadini rurali – il 30 per cento della popolazione in Europa – con operai e borghesia illuminata. Quindi ritengo sia ancora fondamentale l'idea di un partito moderno, ma ad oggi non lo intravedo sullo scenario politico. Nel Pd non sono capace di vedere per ora margini di recupero. In questo momento preferisco focalizzare il mio impegno politico nella società civile dove vedo molto impegno e le esperienze migliori».

Crede in forme di democrazia diretta?
Bisogna dare sempre più strumenti di potere alle persone esterne ai Palazzi, ma senza nuove norme non esistono oggi i mezzi per conquistare peso sul campo. Inoltre, penso sia indispensabile un rafforzamento del welfare con agevolazioni su reddito e nuova mobilità.

Matteo Renzi, dopo la recente sconfitta alle amministrative, non sembra in grado di fare autocritica... che ne pensa?
«Quando alle ultime elezioni nella ricca Emilia Romagna scopriamo che ad aver votato è soltanto il 40 per cento degli aventi diritto, significa che siamo di fronte ad un fallimento. Una crisi incredibile della rappresentanza in cui tutti si dovrebbero sentire coinvolti e invece... non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire».

Dando per scontato che non ha sostenuto Renzi alle primarie, ha votato Orlando o Emiliano?
«Ho votato Orlando, perché ho ritrovato in lui un modo di agire giusto. Da ministro, quando è intervenuto sulle carceri non si è messo nelle mani degli “esperti” ma prima ha coinvolto le organizzazioni che da anni lavorano nei penitenziari e con i detenuti. La partecipazione non è un mero strumento per il consenso; bensì serve per capire cosa fare e come legiferare in quel campo. La vera partecipazione consiste nella raccolta di conoscenze».

Che destino intravede per il Pd?
«Non lo so, ci sono tanti Pd nel Pd. Alcune esperienze sono virtuose, penso a Parma, dove hanno perso bene contro Pizzarotti. Ma nel partito purtroppo ci sono pure persone che sono lì soltanto per avere un posto di lavoro. Io, dall'interno, ho provato a cambiare le cose, ma evidentemente non sono riuscito a spostare l'ago della bilancia. C'è un’assenza assoluta di visione ed organizzazione; nel Pd manca una rigenerazione culturale».

Si può considerare ancora un partito di sinistra?
«Su alcuni temi civili lo è. Mi riferisco alla proposta sullo ius soli o alle unioni civili. Diciamo che non è un partito di destra».

Pensa che dal sociale possa nascere un nuovo soggetto politico?
«Manca un'organizzazione complessiva, questo è il vero limite: si rischia che restino mille fiori, non in relazione tra loro. Molte organizzazioni svolgono un lavoro meritorio con competenza e concretezza, ma sono settoriali».

Insomma, non c'è nessuno che possa rappresentare i tanti esclusi e gli indignati del Paese?

«Ho rispetto per chi ha tentato in passato questa via, come per Maurizio Landini. O chi ci prova oggi, penso a Pisapia. Ma temo siano tentativi perdenti. I tempi sono lunghi. I giovani sono restii ad un nuovo soggetto, la disillusione soprattutto a sinistra è troppa. Troppi fallimenti nel recente passato. Non credono più al cambiamento politico, almeno finché il quadro resterà questo. In questo momento guardo con interesse ad alcune campagne come quella dell'Alleanza contro la povertà (Caritas, Acli etc) sul reddito di inclusione sociale. Sono mobilitazioni proficue e dal basso si possono ottenere risultati».

Barca, non si è pentito di aver perso il treno? In molti hanno sognato intorno alla sua figura la nascita di un nuovo centrosinistra. Potesse tornare indietro, rifarebbe ogni singola scelta?
«Non ho rimpianti. Non avevo il potere e gli strumenti per far cambiare rotta al Pd. Adesso vivo una contraddizione personale: il mio impegno è nella cittadinanza attiva, sono convinto che da lì possano nascere proposte politiche interessanti, poi nella democrazia rappresentativa voto Pd per non regalare il Paese a Salvini o Meloni».

Di Beppe Grillo invece ha paura?

«Io non ho paura nemmeno di Salvini e Meloni. Come non ho paura di Donald Trump; quell'elezione dimostra che la borghesia di sinistra o di destra delle città viene sconfitta al voto dalla massa di esclusi che vive nelle periferie e in campagna o fa parte dei ceti meno abbienti. Una logica conseguenza. Ripeto, ci vuole tempo per cambiare le cose, intanto punto a far dialogare le tante esperienze sociali».

Al Festival sulla partecipazione sarà anche moderatore di un dibattito tra Roberta Lombardi (M5s) e Alfio Mastropaolo (professore di Democrazia e Partecipazione Politica all'università di Torino) dal titolo: "Serve il finanziamento pubblico ai partiti?". Ci sarà da divertirsi?
«Sono orgoglioso che a L'Aquila ci sia un tale dibattito, immaginato dall’Associazione Etica ed economia. Noi abbiamo perso l'abitudine al confronto acceso, ragionevole ed aperto. Si tende sempre a ridicolizzare ed esultare l'avversario parlando a dibattiti senza contradditorio. Si sono ridotti i luoghi di confronto. Il Festival della Partecipazione, in tal senso, va in controtendenza. Abbiamo già sperimentato il formato in tre confronti romani. E ci siamo accorti, rilevando le opinioni prima e dopo il dialogo, che le persone sono pronte a cambiare opinione. E’ questa capacità di cambiare idea o di trovare punti di convergenza che rende la partecipazione uno strumento operativo».

Intervista di D.Sacchetto a E.O.Wright, l'animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, in cui uguaglianza, libertà, partecipazione sono i principi guida.

il manifesto, 6 luglio 2017 (c.m.c.)

«È sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e sicuramente frutto di congetture.

Questo è uno dei motivi per cui Marx è sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico. Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi delle forme economiche alternative al capitalismo.

Abbiamo incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).

Negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto «utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori: uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà. Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia profondamente e solidamente democratica.

Cosa significa in pratica?
L’utopia di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche, le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.

Il punto saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.

La strategia di base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo. Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e nella società civile.

Questi mattoni sono anche nell’interesse di un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.

L’anticapitalismo è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la disabilità e l’emarginazione.

I movimenti sociali più recenti negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale, allora la classe deve essere importante, perché una delle caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.

L’identità di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici (l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del conflitto.

Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto riguarda la tassazione.

Quando la socialdemocrazia raggiunse il suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».

Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la rigenerazione del movimento operaio.

Ma sono divisioni che devono essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi, sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il lavoro migrante.

La denuncia del portavoce del sindacato USB del taglio di fondi che costringerà' al licenziamento e all'inattività' dei dipendenti dell’ISPRA.

La Stampa attualità, 30 giugno 2017 (m.c.g.)

Le ultime settimane hanno visto le tematiche ambientali ritornare sulle prime pagine dei giornali per le importanti dichiarazioni di politici, italiani e esteri, che hanno confermato l’impegno e la determinazione nella lotta ai cambiamenti climatici e nella salvaguardia dell’ambiente. Qualche giorno prima del G7 Ambiente di Bologna, occasione colta dal ministro Gian Luca Galletti e dal Premier Paolo Gentiloni per ribadire l’adesione al fronte unito contro le scellerate prese di posizione dell’amministrazione Trump, succedeva, però, che ricercatori e tecnologi dell’ISPRA organizzati da USB, insieme ai tecnici e al personale amministrativo, entrassero in occupazione.

L’ISPRA, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale, nasce nel 2008 quale risultante dello scioglimento di due istituti di ricerca (l’ICRAM sul mare e l’INFS sulla fauna selvatica) e dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i Servizi Tecnici (APAT). L’ISPRA è un Ente Pubblico di Ricerca “vigilato” dal MATTM, in pratica il suo “braccio tecnico”. È il principale ente pubblico di riferimento per le tematiche ambientali nel nostro Paese e svolge anche attività di ricerca funzionale all’implementazione dei numerosi compiti attribuitigli per legge e garantisce il supporto tecnico-scientifico alle istituzioni. Un Ente cosiddetto “strumentale” alle azioni del Ministero in tema di politiche ambientali. Nel panorama degli Enti Pubblici di ricerca “strumentali” ritroviamo, ad esempio, l’Istituto Superiore di Sanità o l’ISTAT, vigilati rispettivamente dal Ministero della Salute e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Ci sarebbe da aspettarsi, pertanto, un’attenzione particolare del Ministro di riferimento Galletti e del governo, invece no perché l’ISPRA è stato ridotto al collasso economico. I numeri parlano chiaro: meno 13 milioni di euro al contributo ordinario dell’Ente da parte dello Stato operati in ragione della razionalizzazione della spesa; meno 43% registrato per i fondi esterni; un disavanzo di bilancio di 6,3 milioni di euro, come dichiarato pubblicamente dallo stesso direttore generale nonché presidente incaricato dott. Stefano Laporta; una contrazione delle unità di personale scese dalle 1650 del 2008 alle attuali 1200, compresi i precari, a fronte di sempre più numerosi e gravosi compiti attribuiti per legge “senza ulteriori aggravi per il bilancio dello Stato”. Le conseguenze immediate saranno il blocco delle attività per mancanza di fondi e il licenziamento di precari storici.

Ebbene, nonostante sia nelle prerogative del Ministero dell’Ambiente intervenire fattivamente, con integrazioni al contributo annuale elargito dal MEF, questo non ha mai voluto effettuare ulteriori passaggi stabili di finanziamento, se non per piccole attività aggiuntive, preferendo invece la ben più costosa società privata Sogesid. La Sogesid è una società in House del ministero dell’ambiente, oggetto di attenzione della procura e di numerose interrogazioni parlamentari, nata sotto la Prestigiacomo e, di fatto, un doppione dell’ISPRA. Lo stato preferisce attingere a privati, spendendo anche più soldi e con procedure privatistiche che fanno nascere dubbi anche ai procuratori.

Dal 22 maggio, sacrificando salario, ferie e famiglia, un gruppo nutrito di lavoratori sta cercando di denunciare agli Italiani la reale situazione della politica ambientale italiana che non trova rispondenza con le belle parole proferite dal ministro Gian Luca Galletti e dal Presidente Gentiloni. La politica distratta quando non ostile ci ha ridotto al collasso economico. Se non si agirà rapidamente da luglio, come peraltro dichiarato pubblicamente dallo stesso Stefano Laporta, i 1200 dipendenti dell’ISPRA saranno costretti alla inattività per mancanza di fondi; circa un centinaio di precari storici, con anzianità di servizio fino a 17 anni, saranno licenziati. Licenziati nonostante l’art. 20 del d.lgs 75/2017, il Testo Unico della Pubblica Amministrazione voluto dalla ministra Madia, li consideri stabilizzabili. Ma non ci sono soldi. E l’Italia si concede di sperperare un patrimonio di conoscenza e professionalità.

Ne conseguirebbe che i controlli dei grandi impianti industriali, come l’ILVA di Taranto, gli adempimenti del protocollo di Kyoto e degli accordi di Parigi, le attività nelle zone terremotate e dello studio del territorio (cartografia geologica e naturalistica, studio e difesa della biodiversità), i controlli e le valutazioni ambientali (rifiuti, istruttorie VIA/VAS, piattaforme off-shore), le certificazioni di qualità ambientale Emas e Ecolabel, la gestione delle emergenze ambientali, l’accertamento del danno ambientale, la supervisione agli interventi di ripristino dei fondali dell’Isola del Giglio colpiti dal naufragio della Costa Concordia, i monitoraggi (qualità dell’aria e delle acque marino-costiere), le attività di laboratorio, per citare solo alcuni degli ambiti di attività dell’istituto, e la “ricerca finalizzata” alla protezione ambientale, subiranno uno stop. A rischiare il collasso sarebbe anche il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale (ex L.132/2016) che ha l’ambizione (senza stanziamento di fondi) di mettere a rete ISPRA e le Agenzie Regionali così da garantire controlli e monitoraggi adeguati in tutto il territorio nazionale. Un po’ il parallelo dei LEA della Lorenzin applicati all’ambiente.

Il messaggio d’allarme che vogliamo dare va oltre la richiesta del legittimo riconoscimento dei precari alla stabilizzazione. Numeroso è il personale di ruolo, incluso me, che partecipa alla lotta. Siamo stanchi di lavorare in un istituto in agonia sin dalla sua istituzione, 8 anni fa, e che non decolla mai. Bastano pochi soldi per rilanciare ISPRA e SNPA. La parte carente è la volontà politica. Lottiamo e occupiamo dal 22 maggio anche e soprattutto da cittadini che aspirano a che siano enti pubblici in prima linea a garantire la tutela ambientale e non società private come SOGESID. L’occupazione è luogo di lotta e crescita personale e con determinazione presidiamo 24 ore su 24, sacrificando ferie, salario e famiglia, per mandare un messaggio che spero venga colto: il nostro Paese ha bisogno dell’ISPRA, ovvero di un istituto terzo e indipendente che supporti i decisori politici per una corretta e utile azione di prevenzione, controllo, gestione del territorio e delle emergenze ambientali. Anche facendo ricerca applicata e funzionale a migliorare il conseguimento degli obiettivi istituzionali.

A chi ci dice che con la nostra protesta rischiamo di passare dalla ragione al torto, rispondiamo che l’aver ragione è un concetto che non può e non deve rimanere astratto. Noi vogliamo passare dal semplice avere ragione a prenderci questa ragione ed applicarla nel nostro lavoro al servizio dei cittadini. La saggezza popolare e la storia raccontano che i mali estremi si guariscono con estremi rimedi. Questo è il nostro estremismo.

il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)

Meno di duecento voti favorevoli (198), vale a dire meno di un terzo della camera dei deputati, sono bastati ieri sera a far entrare con trent’anni di ritardo il reato di tortura nel codice penale italiano. La ragione di tanto scarso entusiasmo è che la legge delude quasi tutte le attese, tanto da essere stata criticata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, da una lunga schiera di giuristi e persino dai magistrati che hanno portato in tribunale le forze dell’ordine per le violenze del G8 di Genova. La «informe creatura giuridica» approvata ieri (secondo la definizione di uno dei tanti appelli al parlamento perché correggesse la legge, tutti inascoltati) secondo i giudici genovesi non sarebbe stata applicabile neanche alla «macelleria messicana» della scuola Diaz.

Di fronte a un testo del genere, frutto di successivi compromessi al ribasso voluti dal Pd, soprattutto nell’ultimo passaggio al senato durato due anni, i sostenitori dell’introduzione del reato di tortura fuori dal parlamento si sono divisi tra chi apprezza comunque il passo in avanti (Amnesty Italia) e chi lo ritiene al contrario un passo falso, controproducente (A buon diritto, associazione Cucchi, comitato verità e giustizia per Genova). In parlamento ha votato a favore praticamente solo il Pd (gli alfaniani di Ap in teoria erano della partita, ma si sono presentati solo in 4 su 24); i democratici hanno registrato comunque il 40% di assenze. Segno di un forte malcontento, espresso giorni fa in un’intervista dal presidente del partito Orfini – «legge inutile, meglio non approvarla» – e in aula solo dalla deputata Giuditta Pini. Si sono astenuti i 5 Stelle, che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno, e infatti al senato sull’identico testo avevano votato a favore, Mdp che parla di «legge debole», i centristi di maggioranza del gruppo Civici e innovatori e anche Sinistra italiana che è assai più critica: «Abbiamo confezionato il reato impossibile per il retropensiero di alcuni che in questi tempi di terrorismo un po’ di tortura possa tornare utile», ha detto il deputato Daniele Farina. Mentre è noto che il senatore del Pd Luigi Manconi, che ha presentato il progetto di legge originario nel primo giorno della legislatura, ha parlato di un provvedimento «completamente stravolto». Contraria tutta la destra, che vede nella legge una minaccia alla libertà di azione delle forze di polizia. Con argomenti come quelli del «fratello d’Italia» Cirielli: «Il poliziotto che di fronte a uno stupratore o a un autonomo perde la pazienza e lascia partire qualche schiaffo o qualche calcio rischia più dei delinquenti».

Difficile però che si possa applicare a casi del genere – «meno di un occhio pesto», per citare sempre Cirielli – il reato di tortura. Perché così com’è stato approvato definitivamente ieri non è più un reato proprio del pubblico ufficiale ma un «delitto comune» che può essere compiuto da chiunque si trovi nelle condizioni di esercitare «vigilanza, controllo, cura o assistenza» nei confronti della vittima. È forse la peggiore novità imposta nel passaggio in senato, rispetto al testo già approvato dalla camera nel 2015. Le altre, tutte negative, sono la previsione che le violenze e le minacce debbano essere «gravi» (un po’ come dovevano essere «particolarmente efferate» le sevizie escluse dall’amnistia del ’46) «ovvero agendo con crudeltà», una circostanza difficile da dimostrare per i pm. Perché si verifichi tortura è adesso richiesto che siano commesse «più condotte», sembrerebbe cioè non bastare un singolo episodio e neanche un episodio reiterato della stessa natura. L’azione del pubblico ufficiale è adesso sempre giustificata «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti». Infine è necessario che l’azione del torturatore cagioni sulla vittima «un verificabile trauma psichico», sempre difficile da provare soprattutto a distanza dai fatti (quando in genere si arriva al processo).

Le pene sono alte, al massimo dieci anni aumentati a dodici nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale, ma la prescrizione non è del tutto scongiurata. Mentre è addirittura prevista la pena fissa, solo massima, di trent’anni e dell’ergastolo nel caso in cui dalla tortura derivi la morte, accidentale o intenzionale. «Tutti questi requisiti rendono difficile l’applicazione della nuova norma», ha spiegato il presidente della prima commissione, il centrista Mazziotti. D’altra parte nella legge è rimasto il divieto di espulsione dello straniero quando ci sono fondati motivi di ritenere che rischi di essere torturato, anche sulla base delle violazioni sistematiche dei diritti umani nel suo stato di origine. Ma 33 anni dopo la Convenzione dell’Onu e 29 anni dopo la legge italiana che la recepiva (al governo c’era Ciricaco De Mita), il nostro paese per adottare il reato di tortura ha avuto bisogno di snaturarlo.

anche sul no profit, invitando i suoi host a offrire alloggi a migranti e sfollati.

Huffpost online, 5 luglio 2017 (i.b.)

Un patto per l'accoglienza. Airbnb, società leader mondiale nel settore dell'ospitalità, ha presentato oggi il portale Open Homes Rifugiati e la collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio e Refugees Welcome Italia, per rendere più semplice per tutti i milanesi aprire le porte della propria casa e accogliere temporaneamente migranti e sfollati. Chiunque desideri condividere i propri spazi con persone in difficoltà potrà candidarsi direttamente sul sito. Gli host Airbnb già attivi potranno in pochi click mettere a disposizione il proprio annuncio a costo zero, mentre tutti gli altri verranno guidati nella creazione di un profilo per poter condividere il proprio spazio. Il nuovo servizio metterà in contatto gli host di Airbnb disponibili a offrire gratuitamente una sistemazione ai rifugiati con le due associazioni, che potranno verificare sul sito la disponibilità di posti letto e prenotarli.
"È facile sentirsi impotenti di fronte alle grandi sfide globali come quella dei rifugiati, ma ci sono azioni che chiunque di noi può fare e che possono fare la differenza", spiega Joe Gebbia, co-fondatore di Airbnb, "il semplice atto di aprire la propria casa per poche notti può cambiare la vita a una persona che ha dovuto lasciarsi tutto alle spalle". Airbnb si è impegnata a fornire ospitalità a 100mila persone nel mondo nei prossimi cinque anni. A oggi sono 6.000 i membri della community che hanno accettato di aderire al programma, oltre un centinaio le prime adesioni in Italia. "Siamo felici di unire le competenze di Refugees Welcome e della Comunità di Sant'Egidio su un tema così delicato con la solidarietà della community di host di Airbnb", aggiunge Matteo Stifanelli, country manager di Airbnb Italia, "crediamo sia giusto provare a dare il nostro contributo, a fianco delle città, nell'affrontare la difficile situazione che queste persone stanno vivendo".

L'idea attinge da esperienze passate analoghe: lo scorso anno il Progetto Open Homes, promosso dal Comune di Milano in collaborazione con l'associazione no profit I sei petali, ha raccolto l'adesione di 126 host che hanno ospitato 90 familiari di pazienti ricoverati negli ospedali milanesi. Ma già prima, nel 1012, durante l'Uragano Sandy, la comunità di Airbnb si è offerta di accogliere senza costi gli sfollati a causa del ciclone. Di lì è nata l'ispirazione per la creazione del programma di risposta alle catastrofi di Airbnb, che da allora ha fornito alloggi temporanei alle persone colpite da 65 disastri naturali nel mondo. A oggi è stata offerta ospitalità per oltre 6.000 notti senza alcun costo per gli operatori umanitari al lavoro per le crisi dei rifugiati a Kos, Lesbo, Giannina, Atene e nei Balcani, mentre l'anno scorso è stato raccolto circa un milione di dollari tra i membri della community da devolvere all'Unhcr. All'inizio di quest'anno, poi, Airbnb si è impegnata a contribuire all'International Rescue Committee con 4 milioni di dollari nei prossimi 4 anni per rispondere all'emergenza rifugiati a livello internazionale.

"Da oggi potremo contare non solo sul sostegno delle nostre famiglie ospitanti, ma anche sulla disponibilità degli host di Airbnb a offrire un appoggio per qualche giorno e in casi specifici: quando un nostro rifugiato, in attesa di essere ospitato in famiglia, ha bisogno di un posto dove andare, o quando, terminata una convivenza, non è ancora totalmente autonomo", spiega Germana Lavagna, presidentessa di Refugees Welcome Italia, mentre Stefano Pasta, responsabile dell'accoglienza profughi a Milano della Comunità di Sant'Egidio, rimarca come "dal 2013, a fronte dell'emergenza profughi, assistiamo a due Europe: da un lato l'Europa dei muri, dei fili spinati, dei respingimenti e di chi è indifferente ai morti in mare, dall'altro l'Europa delle associazioni e dei tanti cittadini che vogliono aiutare in modo solidale i profughi, anche inventando forme innovative di welfare. Sono due Europe entrambe vere, anche se paradossalmente opposte. Apprezziamo particolarmente questo progetto con Airbnb perché ci permette di contribuire a costruire l'Europa dei ponti e non dei muri".

Non è raggruppando in un cartello elettorale tutti gli antirenziani di "sinistra" che si costruirà una formazione politica all'altezza delle sfide di oggi, quale quella lanciata al Bracaccio da Falcone eMontanari Huffington Post, 3 luglio 2017 (c.m.c)

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La domanda è: la manifestazione di Santi Apostoli ha resuscitato il desiderio di votare in chi fa parte di una sinistra senza casa, in chi magari il 4 dicembre è andato ai seggi per dire No, ma non sa ora dove guardare? Per quel che vale, come membro di quella categoria rispondo di no.

Intendiamoci, in quella piazza romana c’erano tantissime brave persone: a partire da Pier Luigi Bersani. Persone di sinistra: cioè intenzionate a cambiare lo stato delle cose, e a cambiarlo in direzione dell’eguaglianza, dell’inclusione e della giustizia sociale.Ma i discorsi, il tono politico, il filo conduttore della manifestazione e soprattutto la reticente conclusione di Giuliano Pisapia sono apparsi autoreferenziali, chiusi: a tratti ombelicali. Rivolti al passato, e non al futuro.

L’analisi della realtà condivisa da coloro che hanno parlato è sembrata la seguente: «il problema della Sinistra, e del Paese, è Matteo Renzi». Il fatto che quel nome non sia quasi stato pronunciato non ha fatto che aumentare la sua centralità, da fatale convitato di pietra: un gigantesco “rimosso” che tornava fuori ad ogni frase. La versione dei fatti è stata grosso modo questa: «la stagione del centrosinistra è indiscutibile, l’Ulivo è ancora la stella polare. Poi è arrivato Renzi e tutto si è rovinato. Ma se riusciamo a neutralizzarlo possiamo tornare indietro, come se non ci fosse mai stato».

Ora, non sarò io a minimizzare la portata eversiva della presenza di Renzi nella sinistra, e in generale nella politica, italiana. Credo, anzi, di essere stato tra i primissimi a denunciarne l’estrema pericolosità. Ma oggi ­– mentre Renzi galoppa senza freni verso un definitivo suicidio politico, trascinandosi dietro il Partito Democratico – sarebbe irresponsabile non chiedersi come siamo arrivati a lui. Non possiamo raccontarci che è venuto fuori come un fungo, senza radici e senza ragioni. Non possiamo nasconderci che Renzi è il più grave sintomo di una malattia degenerativa della sinistra, ma non ne è la causa.

Dalla classe dirigente del centrosinistra, cioè da coloro le cui scelte politiche hanno generato un Renzi, ci si aspetta dunque un’analisi profonda, e profondamente autocritica. Tanto più se hanno votato fino a ieri tutte le leggi renziane, magari arrivando a votare sì anche alla disastrosa riforma costituzionale. Sia chiaro: non si pretende un’abiura, non si chiedono delle scuse, ma questa inquietante rimozione rischia di preludere ad una coazione a ripetere che non possiamo permetterci.

Per intendersi, con un singolo brutale esempio: se oggi il ministro degli Interni del governo Gentiloni (governo sostenuto dalla fiducia dei parlamentari che da settembre si riuniranno nel gruppo di Insieme) minaccia di chiudere i porti italiani in faccia ai migranti non lo si deve ad una mutazione genetica renziana, ma ad un processo di smontaggio dell’identità della classe dirigente di sinistra che parte ben prima di Renzi, e minaccia di continuare ben dopo di lui.

Sul piano della tattica politica, tutto questo si traduce nella formula esibita dal ministro Andrea Orlando, non per caso presente dietro il palco di Santi Apostoli: «questa piazza non è alternativa al Pd». E Massimo D’Alema ha chiarito, con la consueta intelligenza: «parleremo dell’alleanza di governo con il Pd solo dopo il voto». E dunque è ormai chiaro: questo centrosinistra che si autodefinisce “di governo”, per tornare al governo avrà bisogno del Pd. Di un Pd senza Renzi, o con Renzi nell’angolo: questa è la scommessa di Santi Apostoli.

Ammettiamo che il gioco riesca: un simile governo non sarebbe quello che è già il governo Gentiloni (Lotti e Boschi a parte)? In concreto cosa cambierebbe? Un tale governo di centrosinistra senza Renzi fermerebbe il Tav in Val di Susa e l’Autostrada Tirrenica, bloccherebbe le privatizzazioni e le alienazioni del demanio, cancellerebbe la scellerata riforma Franceschini dei Beni Culturali, abrogherebbe la Buona Scuola, farebbe davvero (e non solo studierebbe, come ha detto Pisapia) una seria tassa patrimoniale, attuerebbe una progressività fiscale e la gratuità del diritto allo studio, ricostruirebbe i diritti dei lavoratori? Niente, nei discorsi di Santi Apostoli, permette di predire una simile “inversione a u” rispetto alle rotte degli ultimi vent’anni – e ho trovato francamente indegno il tentativo di Gad Lerner di arruolare Stefano Rodotà tra i sostenitori di un progetto così poco interessato al futuro.

Dunque non c’è ormai più speranza di costruire una sinistra unita, che sia davvero sinistra, e davvero unita? Io credo che, malgrado tutto, questa speranza ci sia ancora. Credo che ci debba essere. Perché sarebbe drammatico rassegnarci fin da ora a due percorsi paralleli e alternativi, anzi tra loro ostili: uno che guarda all’elettorato Pd, l’altro che guarda all’Italia dei sommersi e dei senza politica.

Ma c’è un solo modo di provare a tenere insieme queste due strade: aprire finalmente un confronto vero: sulle cose. E non sulla fuffa mediatica: leadership, alleanze, candidature. In uno dei pochi passaggi davvero chiari del suo discorso, Giuliano Pisapia ha detto che è stato un errore sopprimere l’articolo 18: ebbene, partiamo da lì, e vediamo fin dove si può arrivare. È per questo che lo avevamo invitato a parlare al Brancaccio (dove non è voluto venire), è per questo che gli avevamo chiesto di parlare a Santi Apostoli (ricevendo un diniego). Pazienza, acqua passata: iniziamo da domani, proviamoci senza rancore.

Lo so: è evidente che il paternalismo compassionevole di Pisapia, o il genuino revival (e lo dico con grande rispetto, e simpatia) di Bersani non bastano a costruire una sinistra nuova. Ma possono invece essere una parte di una casa comune ben più grande e ambiziosa di quella presentata a Santi Apostoli. Sarebbe certo velleitario anche solo pensarlo se lì fosse nato un colosso autosufficiente. Ma guardiamoci in faccia: il soggetto politico nato il primo luglio (Insieme, o come si chiamerà), non viene accreditato, nei sondaggi, per più di un 3-4%.

D’altra parte, il percorso che è iniziato al Brancaccio ha già ottenuto la disponibilità di Sinistra Italiana (pesata più o meno per un 3%), di Rifondazione Comunista (circa all’1%), di Possibile (circa allo 0,6 %) e di molte altre forze. Non c’è dunque pericolo di alcuna egemonia prescritta: c’è invece la possibilità che queste formazioni camminino insieme.

Ma soprattutto c’è la vitale necessità che queste piccole forze immaginino se stesse come una parte di una cosa molto più grande. Che esse accettino, cioè, di costruire una vera alleanza con i cittadini: cioè con quelle forze civiche che ormai passano alla larga dalla politica e dalle urne. L’esempio di Padova ci dice che se questa alleanza funziona, si può superare il 20%: a patto di cambiare linguaggio, di uscire dall’autoreferenzialità di riti comprensibili solo ai notisti politici. Ci vuole una politica nuova: un linguaggio, un forza, un entusiasmo capaci di far ricircolare il sangue nelle vene di questa povera democrazia in declino: e per capire cosa intendo si può confrontare il discorso di Pisapia con quello pronunciato qualche giorno fa da Corbyn davanti ai giovani riuniti a Glastonbury.

Per questo Insieme deve accettare l’idea di partecipare ad un insieme più grande. E una simile lista civica nazionale di sinistra non può nascere ponendosi il problema del governo, o dell’alleanza con il centro (leggi Pd), ma cercando invece di costruire prima di tutto se stessa, strutturandosi intorno ad alcuni grandi principi fondamentali. Non è affatto difficile: ricevo molte mail da militanti di Articolo Uno che chiedono di partecipare alle assemblee che, sul solco del Brancaccio, si stanno autoconvocando in tutta Italia, ennesimo segno che la base è molto, ma molto, più unita delle varie dirigenze in campo.

In conclusione: se la forza battezzata in Piazza Santi Apostoli pensa se stessa come un punto di arrivo, è finita prima di cominciare. Può essere invece davvero importante se pensa se stessa come il pezzo di un processo, di un percorso più grande e più largo. Un percorso vero: senza un destino già scritto, senza leader autoconsacrati e alleanze stabilite a priori. Un processo che si snodi intorno alla costruzione partecipata di un progetto culturale, civile e politico la cui bussola siano eguaglianza, inclusione, partecipazione.

Proviamoci: è questione di umiltà, generosità, lungimiranza, coraggio. E il momento è ora.

Recensione al libro di Revelli, che chiarisce i significati e le ambiguità' del termine populismo, e illustra i vari populismi di oggi.

Il Sole 24ore, 1 luglio 2017 (i.b.)

Il termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?

Il libro di Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania e Italia).

Tra i tanti «populismi» individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato, dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una «malattia infantile» del ciclo democratico).

Quello attuale è, invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto “ascensore sociale”».

La lotta di classe “orizzontale” si è, così, trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato, buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti «homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario, «purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood, famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».

Specie nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson. Nell’iniziare l’age of commonman, 1830-1840 (quella che Tocqueville aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i potenti più potenti».

Nel 1892 viene poi fondato il National People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale, e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano irobber barons».

Con il senno di poi, non era difficile capire le ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi».

Coloro che si avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor, direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai radar dei media».

Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in relazione alla Brexit, alla Germaniafelix – che ha «le sue zone d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.

Nel nostro paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti governi.

Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un «cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione, specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di governo». Un populismo «dall’alto».

Si può, in conclusione, curare questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?

Le politiche italiane ed europee perseverano nella egoistica volontà di risoluzione dei soli effetti arrecati al mondo sviluppato, ignorando le cause che attanagliano i "dannati dello sviluppo".

il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2017 (p.d.)

Al netto delle vaghe iniziative decise ieri dalla Commissione europea, la situazione grossomodo è questa: avendo minacciato i fratelli-coltelli europei di rovesciare carichi di migranti nei loro porti, il governo italiano deve constatare che far la voce grossa ha prodotto scarsi risultati. Gli europei hanno fatto spallucce e non si sono mossi di un millimetro. Ove mai Roma volesse dare corso ai suoi moniti, chiuderanno i porti e schiereranno l’esercito sul confine, come hanno annunciato. E adesso? Il ministro degli Interni Marco Minniti rilancia, chiede una riunione per discutere; ma è evidente che un governo di incerta tenuta e le finanze in disordine non può battere i pugni sul tavolo.
Alla fine dovrà accontentarsi di quanto grida e invocazioni finora hanno permesso di raccogliere, non molto. Soprattutto questo: l’impegno dell’Unione ad aprire vie legali per trasferire rifugiati politici dal Nord Africa al l’Europa, in modo che in futuro (quando?) la ridistribuzione diventi equa ed effettiva; e un finanziamento della Commissione europea alla Guardia costiera libica, il perno della nuova politica italiana sull’immigrazione. Il problema è che questa politica ha molte possibilità di produrre un disastro umanitario: l’Europa intera ne sarebbe corresponsabile, ma quasi tutto il discredito e la responsabilità morale graverebbero sull’Italia.
Nel concreto il piano italo-europeo funzionerà così: le navi umanitarie d’ora in poi saranno soggette a un codice di comportamento, soprattutto per impedire che soccorrano migranti nelle acque territoriali libiche. A tenerle lontane dal litorale provvedono già ora le motovedette della Guardia costiera libica, di fatto una creazione del Viminale. In teoria questo nuovo regime dovrebbe nuocere agli scafisti, che non sarebbero più in grado di imbarcare i migranti su gommoni di basso costo, nella previsione che appena al largo quelle imbarcazioni verrebbero soccorse dalle ong. Un secondo obiettivo che Roma si prefigge, senza dichiararlo, è dotarsi di strumenti e pretesti per costringere le navi umanitarie a far rotta su porti non italiani (ma quali?) con il loro carico umano. Nel concreto le traversate diventeranno più rischiose e complicate per i migranti intrappolati in Libia in condizioni precarie, sovente in semi-schiavitù.
La loro sofferenza non inquieta la Ue, però le ong potrebbero reagire con veemenza all’imposizione di condizioni sgradite, quali quelle decise all’unanimità in giugno dalla Commissione Difesa per sottomettere le navi umanitarie al controllo della polizia italiana. E se si arriva ad uno scontro pubblico, la faccenda diventa imbarazzante per l’Italia. I nostri ascari di Libia, i guardacoste, sono raccontati da un recente rapporto delle Nazioni Unite grossomodo come un arcipelago di milizie inaffidabili, alcune in buoni rapporti con la maggiore organizzazione di scafisti, la stessa che detiene i migranti in un lager tra i più infami.
Inoltre sulla Guardia costiera libica indaga la Corte penale internazionale, sollecitata da una ong umanitaria. Insomma c’è il rischio di scoprire che l’Unione europea finanzia, su richiesta italiana, una sorta di mafia in divisa, sodale di quelle cosche di trafficanti che in teoria Roma dice di combattere. Se poi i finanziamenti alla Guardia costiera funzionassero come una specie di tangente e convincessero alcune organizzazioni di scafisti a sospendere le partenze per l’Italia, resterebbe comunque irrisolto il problema dei 150-180 mila migranti che sono in Libia e non sanno più dove andare se non in Europa, essendo bloccate le altre vie di fuga.
Quanto ai migranti che continuano a entrare in Libia, il piano italiano propone di chiudere il confine libico a sud, lungo la frontiera con il Niger, in modo da bloccare l’ingresso di migranti. In giugno il ministro degli Interni Marco Minniti ha stretto un’alleanza con le due principali tribù di quella regione, i Tebu e i Tuareg., che tuttavia sono una congerie di gruppi divisi da differenti fedeltà claniche e opposte alleanze politiche. Minniti al più potrebbe comprare l’assenso di alcuni capitribù alla presenza di 500 soldati italiani nel sud della Libia, a ridosso di pozzi e tubi dell’Eni. Ma per chiudere il confine ne occorrerebbero molti di più. A sud di quella frontiera, nel Sahel, Macron sta organizzando un mini-esercito di 5.000 soldati di cinque Paesi africani per combattere le milizie di al Qaeda. Tanti ne basterebbero, probabilmente, per cacciare gli scafisti da larghi tratti della costa libica e liberare i migranti lì reclusi. Ma a quel punto una parte di quegli sventurati potrebbe chiedere l’ingresso in Europa. E nessuno a quanto pare intende accoglierli.

«Il rapporto annuale . Il presidente Boeri dice no alla chiusura delle frontiere: creerebbe un buco di 38 miliardi. Sì al salario minimo fissato dalla legge. Cambiare i contratti a termine, squilibrati a favore dell’impresa».

il manifesto, 5 luglio 2017 (c.m.c.)

«Chiudere le frontiere potrebbe costare un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Conti alla mano, il presidente dell’Inps Tito Boeri ieri – in occasione della relazione annuale sull’attività dell’istituto – ha fornito nuovi numeri su un tema che sta dividendo il Paese. E ha invitato a non alzare muri: «Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere – ha spiegato – Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale». «Gli immigrati – ha concluso sul punto Boeri – offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole».

Ma la relazione è stata l’occasione per il presidente Inps di dire la sua su molti altri temi, in alcuni casi appoggiando le politiche del governo – con un elogio del Jobs Act, contro l’articolo 18 – in altri attaccando di petto i sindacati, facendo intendere che i dati diffusi dalle stesse organizzazioni sulla loro rappresentanza siano gonfiati. Ancora: Boeri ha auspicato l’istituzione di un minimo salariale fissato dalla legge – sulla scorta dei nuovi voucher, che già fissano una paga oraria sganciata dai contratti – e ha chiesto di modificare i contratti a termine, oggi troppo sbilanciati a favore degli imprenditori e a danno dei lavoratori.

Prima dei nodi politici, uno sguardo ai dati del rapporto Inps: nel 2016 i pensionati con un reddito mensile sotto i mille euro sono stati 5,8 milioni, il 37,5% del totale dei pensionati italiani (15,5 milioni). Erano stati il 38% nel 2015: più alta la percentuale di donne sotto i mille euro – il 46,8% sul totale delle pensionate – a fronte del 27,1% degli uomini. Sono invece 1,06 milioni i pensionati sopra i 3 mila euro al mese e 1,68 milioni (il 10,8%) quelli che restano sotto i 500 euro al mese. Nel 2016 l’Inps ha chiuso con un bilancio di esercizio negativo per 6,046 miliardi, in miglioramento rispetto ai 16,2 miliardi di rosso del 2015. Il patrimonio netto si è ridotto alla cifra di 254 milioni di euro. Il contributo degli immigrati è evidente: tanto più se si considera che per il momento è più alto il valore dei contributi incassati rispetto a quello delle prestazioni erogate.

Il presidente Boeri è entrato quindi nel dibattito sull’adeguamento automatico dell’età, pronunciandosi sul possibile stop nel 2019: il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani – ha spiegato – perché i costi si scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». «Sarebbe meglio – ha quindi aggiunto – fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile». Elogio poi per la cancellazione dell’articolo 18: «Ha rimosso il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti». «I nostri studi – ha spiegato – dimostrano che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8 mila al mese di fine 2014 siamo passati alle 12 mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Ancora, Boeri nega che vi siano legami tra la rimozione dell’articolo 18 e il boom dei licenziamenti disciplinari: «Avrebbe dovuto caratterizzare essenzialmente le imprese con oltre 15 dipendenti, ma in realtà – ha spiegato – la crescita del tasso di licenziamento è stata più rilevante nelle piccole imprese, sostanzialmente estranee a tali riforme».

Altro nodo toccato, i contratti a termine: Boeri nota che dopo la fine dei ricchi incentivi a quelli a tutele crescenti (da inizio 2016) sono tornati ad aumentare, cannibalizzando le assunzioni stabili. Sarebbe perciò «opportuno riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore, potendo essere rinnovati ben cinque volte nell’arco di tre anni». OK al salario minimo fissato dalla legge: «Avrebbe il duplice vantaggio di un decentramento della contrattazione e di uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente numero di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione», e dalla paga fissata dai nuovi voucher (9 euro al netto dei contributi sociali) «il passo è breve». Bene il Rei, il nuovo reddito di inserimento, ma la platea è ancora troppo ristretta e le somme erogate sono ancora troppo basse: «Manca ancora in Italia uno strumento universalistico a sostegno della disoccupazione e dell’indigenza».

«». MicroMega online, 3 luglio 2017 (c.m.c.)

«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra.
Ora - a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo».

Autore di pubblicazioni di rango internazionale in tema di Europa e lavoro, promotore del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times, Brancaccio è un marxista rispettato anche dai suoi antagonisti teorici. Un bel po’ di gotha della finanza e della politica italiana è venuto ad ascoltarlo pochi giorni fa a Roma, in un seminario organizzato dalla società Vera e dal Foglio sul ruolo odierno dell’intervento statale, al quale partecipavano anche l’ex banchiere centrale Lorenzo Bini Smaghi, il presidente della Commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti e il ministro per la coesione territoriale Claudio De Vincenti.

Professor Brancaccio, nella sua relazione introduttiva al seminario di Roma lei ha fornito dati piuttosto sorprendenti sul ritorno dello Stato negli assetti proprietari del capitale globale...

I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all'inizio di una nuova fase storica.

Quali sono i segni distintivi di questa nuova fase?
Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni. Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008.

Quali sono le conseguenze di questi continui soccorsi statali a favore del capitale privato?
Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.

Gli economisti liberisti la raccontano diversamente: essi continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra per il capitale privato…
Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio.

Qualcuno di essi obietterebbe che lo Stato fa bene a soccorrere il capitale nelle fasi di crisi ma non deve restare a lungo nelle compagini proprietarie, dato che l’impresa pubblica è comunque meno efficiente di quella privata. Non trova?
La realtà è diversa. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’OCSE effettuata sulle prime 2000 aziende della classifica mondiale di Forbes, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.

Per l’Italia però si riporta sempre il caso del vecchio IRI, da molti considerato un “carrozzone” di sprechi. Che ne pensa?Bisognerebbe ricordare che al momento della sua privatizzazione molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate dell’IRI non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani. Come vede, sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia.

In Gran Bretagna il leader laburista Corbyn ha ottenuto un notevole risultato elettorale con un programma basato su un ritorno dell’intervento statale in un’ottica non “ancillare” ma di lungo periodo, che prevede pure la nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori chiave. In Francia Melenchon ha sfiorato il ballottaggio presidenziale su una lunghezza d’onda analoga e altri in Europa si muovono nella stessa direzione. Sembra farsi strada l’idea di un diverso modello di sviluppo, con un ruolo centrale per gli investimenti pubblici strategici e forti richiami alla partecipazione democratica alle decisioni. E’ giunto il tempo di una sinistra che intercetta i cambiamenti del capitalismo e tenta di sfruttarne le contraddizioni?
Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti.

Però questi fenomeni politici emergenti sono anche trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Mi pare un punto di forza importante.

Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe. Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra.

Lei dunque ci spiega che il capitalismo si muove, si trasforma, e apre nuove contraddizioni sociali. Nel resto d’Europa, pur con tanti limiti, alcune forze di sinistra iniziano a cogliere i segni di questo mutamento. E in Italia la sinistra che fa?
In Italia la sinistra sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro.

Cosa non la convince del dibattito che si è sviluppato in questi giorni alla sinistra del Partito democratico?
Ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo. Ma soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.

Un punto di discrimine netto però esiste: sulla scia della vittoria referendaria del 4 dicembre, molti esponenti della sinistra invocano la difesa della Costituzione e dei suoi principi di uguaglianza contro i ripetuti tentativi di rottamarla.Una difesa che ovviamente condivido, ma che ho sempre considerato insufficiente. Il modo migliore per tutelare i principi costituzionali della “Repubblica fondata sul lavoro” consiste nel delineare una proposta di politica economica coerente con essi. Mi pare che in materia ci sia ancora poco lavoro collettivo, e ancora molti nodi irrisolti.

Il prossimo numero di Micromega, un almanacco su Europa e Stati Uniti, pubblicherà i testi di un dibattito tra lei e Romano Prodi che si è tenuto all’Università di Bologna nel febbraio scorso. In quella occasione l’ex premier ed ex presidente della Commissione UE ha condiviso apertamente la sua proposta di introdurre controlli sui movimenti internazionali di capitale. Lo considera un segnale positivo?
Lo è senz’altro, ma devo ricordare che già da qualche anno capita che persino il Fondo Monetario Internazionale plachi i propri entusiasmi per le liberalizzazioni finanziarie e segnali i pericoli di una indiscriminata libertà di circolazione dei capitali. Il mondo intorno a noi cambia rapidamente, la politica italiana sembra sempre un po’ in ritardo. Specialmente a sinistra.

«A tanta potenzialità desiderata, espressa o in formazione corrisponde una straordinaria povertà di politica pragmaticamente propositiva».

La Repubblica, 4 luglio 2017 (c.mc.)

E' in corso dal 4 dicembre un proliferare di movimenti a sinistra del Partito democratico, voci che emergono dalla società civile e aspirano a proporre visioni politiche. Singole personalità della cultura mosse dal senso civico di contribuire alla vita pubblica per rimediare alla debolezza dimostrata dalla leadership del Partito democratico. Sigle politiche nate per progressiva secessione dal Pd nel corso degli anni, a partire dalle primarie seguite al ritiro di Veltroni fino alle più recenti, e soprattutto dopo il 4 dicembre. Questo movimento plurale nella sfera pubblica è positivo, il segno di una società non apatica, ricca di potenzialità, insoddisfatta del corso attuale del partito di governo e del governo stesso e preoccupata del persistente e crescente astensionismo elettorale.

La questione sociale è grave e i timidissimi segnali di ripresa dell’economia non sono accompagnati da un effettivo percepito miglioramento delle condizioni di milioni di cittadini e lavoratori che vivono o nell’indigenza o vicini alla povertà. Diritti sociali che sono in molti casi diritti solo formali, e politiche governative che non hanno preso sul serio né i principi di giustizia ed eguaglianza contenuti nella Costituzione né le promesse democratiche, che non si riducono a mettere in piedi governi che durino. «Finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia», diceva Lelio Basso all’Assemblea costituente il 6 marzo 1947. Dopo settant’anni quegli intenti sono ancora allo stato di desiderio, con l’aggravante che oggi è debole la convinzione che lavoro e cittadinanza debbano stare insieme, che siano i valori fondamentali su cui impegnarsi. C’è uno spazio vuoto di progettualità politica da riempire perché l’insoddisfazione non si traduca in disillusione e senso di impotenza o, che è anche peggio, reazione xenofoba e nazionalistica.

A tanta potenzialità desiderata, espressa o in formazione corrisponde una straordinaria povertà di politica pragmaticamente propositiva. Povertà per troppa ricchezza di attori individuali e, soprattutto, per l’abitudine ad un linguaggio che è emotivo e morale, incapace di farsi politico, di nominare problemi invece che leader, idee programmatiche invece che frasi a effetto, critiche motivate sulle cose invece che attacchi personali. La “vibrante società civile”, per usare un’espressione habermasiana, dovrebbe riuscire a incanalarsi nella deliberazione politica; e perché questo avvenga sono indispensabili forme di partecipazione che sappiano articolare e unire. A questo servono i partiti. La loro asfissia, anzi la loro scomparsa fuori dalle istituzioni e la loro sostituzione con manifestazioni personali di leadership: questo è uno dei maggiori problemi del presente (che non sia solo italiano non è di alcun sollievo).

Il 4 dicembre ha squadernato questo problema, che è colossale, e ha messo a nudo la miopia di una politica leaderistica e plebiscitaria. Ma quel che ha lasciato è una pratica personalistica tracimante. Cosicché oggi il problema non deriva dalla scarsità dell’offerta individuale, ma dalla sua sovrabbondanza. Ogni voce si presenta come vera rappresentante della sinistra, come la parola che manca o quella più autentica. Alla fine, la sinistra sembra sempre più una categoria metafisica indecifrabile alla quale ci si appiglia per coprire un disordine di elaborazione che è proporzionale al numero dei candidati a risolverlo.

I partiti politici hanno una funzione che in questi tempi di attivismo senza bussola emerge con chiarezza: rendere le varie personalità che la vita politica naturalmente genera capaci di collaborare, di dialogare, di trovare nella loro rappresentatività singolare una forza che arricchisca progetti collettivi. Senza questa cooperazione per uno scopo elettorale comune, la pluralità di leader è un problema. Ed è quanto rischia di accadere a questa sinistra fatta di tanti soggetti individuali ma con una gracilissima coralità. Una sinistra di tanti capitani di ventura, con eserciti transitanti e, anche questi, composti di menti singole, abituate a dichiarare e asserire sui social, ma troppo poco a delibeare o discutere con altri. E invece, ad ogni idea una persona, ad ogni persona una sinistra, e a ogni sinistra un leader. Questa proliferazione per partenogenesi di individualismo dissociativo uccide la politica.

Senza dialogo, senza una trama comune di idee, senza una riflessione competente su progetti possibili, senza riannodare tradizioni di valori e di studio — senza l’accettazione del fatto che la politica nella democrazia elettorale deve costruire soggetti collettivi per competere e non può corrispondere soltanto a capi plebiscitari — senza tutto questo la vibrante società civile resta tale. E la profusione di bandiere nuove che sventolano, di siti internet e di sigle è destinata a restare una selva che non ha unità di senso, che non orienta ma disorienta.

Cronaca di un incubo: la vita in uno degli Hotspot, campi di concentramento provvisori per un’umanità in fuga dalla miseria e dalla morte.

Internazionale online, 2 luglio 2017 (i.b.)

“Moria è la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo l’entrata in vigore dell'accordo tra Unione Europea e Turchia nel marzo del 2016. Sophia è arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”, spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.

Dopo alcuni incidenti avvenuti lo scorso inverno, la recinzione esterna è stata rafforzata: un muro bianco circonda il campo, sovrastato da una rete e da una corona di filo spinato. Dopo la recinzione, c’è qualche metro di vuoto, la casupola di ferro di un secondino che svetta nell’azzurro del cielo, poi una nuova recinzione al cui interno ci sono dei container bianchi e grigi: parallelepipedi regolari montati uno a fianco dell’altro. In ogni container dormono dieci o quindici persone, su letti a castello. Non hanno armadietti, non hanno nessuno spazio privato, usano qualche vecchia coperta di lana grigia come una tenda intorno al letto, per riprodurre un’idea d’intimità.

Da tutto il mondo

La maggior parte delle persone che arriva a Lesbo dalle coste turche si sente di passaggio, spiega Sophia Koufopoulou. “Arrivano in Grecia pensando che prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche altro paese europeo”. Ma in realtà, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica nel marzo del 2016, rimangono bloccati in Grecia per mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento (relocation) o di ricongiungimento familiare sia valutata dalle autorità europee. L’ingresso di Moria è un cancello, controllato da un poliziotto che lascia entrare solo chi riconosce. Dopo il primo blocco, si arriva davanti a un container che funge da reception: dietro una finestra una donna bionda chiede con gentilezza il nome di chi entra e di chi esce, si fa scrivere i nomi su dei post-it blu, li spunta da una lista, quindi lascia passare.

Un ragazzo afgano ha disegnato sulla parete del container dove vive il suo viaggio dall’Afganistan all’hotspot di Moria. Nella mappa ha tratteggiato con un pennarello nero la forma del suo paese: carri armati e cecchini ovunque. Nel suo percorso ci sono piccoli uomini, soldati, prigioni, carcerieri e foreste. “I ragazzi ci raccontano spesso degli abusi sessuali e delle violenze che subiscono da parte dei trafficanti che li conducono attraverso il percorso”, racconta Niovi Sakellaridi. “Eid Mubarak”, dice con timidezza Mohammad Qadeem, un ragazzo pachistano di 17 anni, mentre cammina svelto sulla strada in salita che attraversa il campo per raggiungere la sezione dove dormono gli uomini soli, il gruppo più nutrito del campo. È l’ultimo giorno del Ramadan, la più importante festività islamica e tutti i musulmani praticanti dell’hotspot stanno andando a pregare. Ibhraim Al Nasir è appena arrivato sull’isola con sua moglie Sherazade e le sue tre figlie. La più piccola, Bayam, non ha nemmeno un anno. Ibhraim ha pagato duecento euro per la traversata dell’Egeo da Ayvalık, in Turchia. La famiglia siriana, originaria di Raqqa, è partita di notte dalla costa turca con un gommone che è stato intercettato dalla guardia costiera appena entrato nelle acque greche. Le famiglie siriane sono state fatte salire su un’imbarcazione più grande che le ha portate nel porto commerciale di Mitilene, la città più grande dell’isola, dove sono sbarcate e portate direttamente all’hotspot di Moria su un autobus.
Sull’isola, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNCHR), ci sono 4.521 profughi, in gran parte nell’hotspot di Moria. Tra loro 45 minori non accompagnati. Le famiglie invece vengono sistemate perlopiù nel campo attrezzato di Kara Tepe, qualche chilometro a nord di Mitilene. “Mentre un anno fa arrivavano a Lesbo via mare soprattutto siriani ora sbarcano gruppi di persone da tutto il mondo: dalla Repubblica Democratica del Congo alla Nigeria, dal Mali al Kuwait. Quelli che vengono da paesi considerati sicuri come l’Algeria e il Pakistan sono sottoposti a una procedura accelerata per la richiesta di asilo e nella maggior parte dei casi la domanda viene respinta. A quel punto sono riportati indietro in Turchia”, spiega. Il campo è diventato un hotspot, cioè un centro d’identificazione e registrazione per i migranti irregolari nel gennaio del 2016. Si sviluppa verticalmente sulla collina, come un fortino. Ci si arriva attraverso una strada che dalla litoranea svolta verso l’interno, tra uliveti, campi di grano e vecchie edicole religiose che riproducono in miniatura i monasteri ortodossi dell’isola. Gruppi di persone camminano avanti e indietro sulla strada, chiacchierano tra loro e al telefono, non troppo preoccupati delle poche macchine che percorrono la via. Sono migranti che risiedono nel centro e a cui da qualche mese è stato concesso di uscire. Alcuni hanno dei braccialetti colorati che indicano che possono rimanere fuori dal centro solo qualche ora al giorno per poi rientrare nella sezione a cui sono stati assegnati, divisi per nazionalità.
Piccoli tagli
Un gruppo di poliziotti e militari greci staziona sul secondo ingresso: chiacchierano del più e del meno, mentre si riparano dal sole che già a metà mattina si riflette sui container spargendo una luce e un’afa insopportabili. Passato il secondo posto di blocco, si comincia a salire percorrendo una stradina che costeggia il campo. Così si arriva a un terzo cancello, dove alcune volontarie con delle pettorine arancioni sorvegliano l’ingresso. Entrano nel cuore del campo solo le persone che indossano un braccialetto di riconoscimento: minori, donne, gruppi familiari, ma anche chi deve andare dal medico o chi ha appuntamento con i funzionari dell' European asylum support office (EASO) o con quelli greci dell’Asylum Service.
Dopo il posto di blocco si apre una sorta di corridoio di cemento: sulla sinistra c’è una piazza circondata dai container, alcune persone aspettano sedute su una panca altre sono in fila davanti all’ambulatorio. Sulla destra invece ci sono tre corridoi circondati da recinzioni, tre settori, ognuno chiuso da un cancello: il settore dei minori non accompagnati, quello delle donne e quello delle famiglie. Nel primo compound i container sono stati dipinti di fresco con vernici colorate dagli studenti americani venuti insieme alla professoressa Koufopoulou. Sembrano casette estive – gialle, rosse e blu – ma sono circondate da filo spinato. In questa parte del campo sono rinchiusi i minorenni arrivati da soli sull’isola, a cui non viene mai concesso di uscire, se non per gite organizzate dagli operatori. Al cancello una volontaria statunitense che indossa un vestito tradizionale della comunità mormona – abito lungo grigio e cuffietta bianca – deve sorvegliare l’ingresso: possono uscire ed entrare solo gli operatori. Ibu, un ragazzino siriano, sta finendo di dipingere con una vernice celeste la parete di un container, ha lo sguardo vivace, velato in certi momenti da una patina di sconforto.
“Vengono dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dal Pakistan”, spiega Niovi Sakellaridi, un’operatrice dell’associazione greca Praksis che lavora all’interno di Moria da un anno e mezzo. “Non capiscono perché siano stati rinchiusi nell’hotspot e per questo cerchiamo di rassicurarli e di spiegare loro che presto saranno trasferiti in un centro per minorenni, appena sarà accertata la loro età”, dice Sakellaridi. Secondo le norme europee, detenere minorenni è illegale. La legge greca sull’asilo invece prevede che i minori possano essere detenuti in un regime amministrativo (senza l’autorizzazione di un giudice) per un massimo di 25 giorni per “proteggerli”, in attesa che siano trasferiti in un centro di accoglienza adeguato. “Tuttavia abbiamo conosciuto ragazzi detenuti anche per sei mesi”, afferma Sakellaridi. Il fatto di dover vivere all’interno di un carcere, senza aver commesso nessun tipo di crimine, provoca una sofferenza profonda nei ragazzi: “Gli attacchi di panico sono all’ordine del giorno: vediamo sempre più spesso ragazzini che si fanno piccoli tagli sulle braccia”, racconta l’operatrice umanitaria. “Un ragazzino che abbiamo soccorso dopo che si era tagliato mi ha detto: ‘Volevo farmi del male sul corpo, perché così almeno posso vedere il male che sento dentro”. Nel cortile tra i container ci sono delle cabine telefoniche, i volontari hanno dipinto anche quelle con vernici colorate. “I ragazzi chiamano spesso le loro famiglie, ma non dicono dove si trovano, si vergognano di dire ai genitori che sono in difficoltà”, spiega Sakellaridi.
Carcerieri e foreste

“L’incubo ricorrente è un bosco che si trova al confine tra Iran e Turchia: nella foresta i ragazzi hanno dovuto nascondersi dai militari di frontiera che sparavano a vista a chiunque cercava di attraversare il confine”. L’operatrice ha un sorriso aperto e luminoso, ma confessa di aver provato spesso sconforto: “Lavorare otto ore nel campo, reclusi, non è facile. All’inizio soffrivo d’insonnia, poi mi sono uscite delle bolle sulle braccia e poi su tutto il corpo. Credo che sia il mio modo di sfogare lo stress”, racconta mentre mostra delle piccole bolle biancastre sulle braccia. Praksis, l’organizzazione per cui lavora, ha deciso di lasciare il campo di Moria: “Crediamo che non sia giusto trattare le persone come pacchi, come cose, e per questo dopo aver cercato di dare assistenza a chi vive all’interno di Moria per molti mesi, l’ong Praksis ha deciso di andarsene”. Niovi Sakellaridi è combattuta perché crede che i ragazzi abbiano bisogno di essere aiutati, ma si rende conto che la detenzione acuisce i traumi e le difficoltà dei bambini.

Spesso nel campo scoppiano rivolte violente e lo scorso inverno sono morte tre persone in diversi incidenti causati dalla precarietà delle condizioni di vita: molti dormivano nelle tende nonostante il freddo e la neve e usavano stufe a gas per scaldarsi. “Queste persone hanno più di un trauma: hanno subìto abusi e violenze nei loro paesi d’origine, poi ne hanno subiti durante il viaggio, sono riuscite ad attraversare il mare, ma quando pensavano di avercela fatta è cominciata una condizione di attesa e di sospensione, ed è in quel momento che affiorano i traumi”, spiega la ricercatrice greca Sophia Koufopoulou mentre chiede a uno dei ragazzi di aiutarla a dipingere anche i container in cui vivono le famiglie, dopo aver concluso il lavoro nel settore dei ragazzi.
Esperimento Grecia
In cima alla collina, in una delle estremità dell’insediamento, un imam algerino ha allestito in una tenda una specie di sala di preghiera. Mohammad è arrivato quattro mesi fa, è minorenne, ma sostiene che di questo non si è tenuto conto a causa della sua nazionalità. “Ai pachistani si applica una procedura accelerata perché sono considerati migranti economici”, spiega Mairaj, un altro pachistano, in un ottimo inglese. E raccontano di aver conosciuto molte persone, a cui è stato negato l’asilo e che sono state rimandate in Turchia, oppure che hanno accettato un programma dell’Organizzazione mondiale dell’immigrazione (Oim) per il rimpatrio volontario nel loro paese. “Meglio tornare a casa che finire in qualche carcere in Turchia”, dice Mairaj mentre allestisce un piccolo fuoco dietro una costruzione di cemento per preparare il cibo della festa. “Preferiamo cucinarci da mangiare, invece di mangiare sempre il cibo che distribuiscono. Per questo alcuni si sono organizzati con bombole a gas e fornelli anche se non potrebbero farlo”, racconta. Nel campo la vita quotidiana è molto dura: l’elettricità va e viene, manca spesso l’acqua e i bagni sono inservibili. Cumuli di bottiglie di plastica giacciono abbandonate dentro i bagni del settore maschile e l’odore è insopportabile.
Ahmed, un ragazzo algerino di 25 anni, si affaccia da un container per guardare Mairaj che cucina: “Algerini e pachistani non hanno nessuna possibilità che la loro domanda di asilo sia accettata”, conferma. Per questo molti provano a rimanere sull’isola in maniera illegale, dormono in fabbriche abbandonate vicino a Mitilene e lavorano nei campi. “Ma non è facile, rischiano di essere rimandati in Turchia e quello che li aspetta dall’altra parte è la prigione”, dice Ahmed. Per sfuggire al rimpatrio Nazeed, un ragazzo afgano, racconta di essersi nascosto in un camion che si stava imbarcando su un traghetto per Atene. “Sono arrivato ad Atene, poi in Italia sempre con lo stesso metodo. Ma la polizia mi ha fermato e dopo qualche mese mi ha rimandato in Grecia”, racconta. La tendenza delle autorità greche a valutare con procedure diverse le domande di asilo, in particolare sulla base della nazionalità, è stata denunciata anche dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nel rapporto Esperimento Grecia: un'idea di Europa, , pubblicato il 22 giugno. “Per bloccare i flussi migratori verso l’Europa dalla Turchia, Atene ha sperimentato nell’ultimo anno una serie di procedure in particolare nelle isole greche”, spiega l’avvocata Lucia Gennari, una degli autori del rapporto dell’Asgi.

“Riformando la legge sull’asilo nell’aprile del 2016, dopo un mese dall’entrata in vigore dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sui migranti, la Grecia ha introdotto il meccanismo dell’ammissibilità della domanda con cui si valuta se il richiedente asilo provenga da un paese terzo considerato sicuro come la Turchia. Quindi le autorità greche non valutano le domande nel merito, ma nel caso dei siriani valutano solo se la Turchia sia un paese sicuro dove rimandarli”, continua. “Non c’è bisogno di andare troppo a fondo per sapere che la Turchia non è un paese sicuro perché non garantisce la protezione internazionale praticamente a nessuno e perché si è resa spesso responsabile di respingimenti alla frontiera con la Siria”, continua Gennari. “Il meccanismo ellenico ci interessa anche perché ci sembra che la Grecia si possa considerare un laboratorio delle politiche europee sull’immigrazione. Infatti se esaminiamo le riforme che il parlamento e la Commissione europea stanno valutando in questo momento – come la riforma del regolamento di Dublino e la riforma della direttiva procedure – norme che riguardano i pilastri del diritto d’asilo, ci rendiamo conto che Bruxelles vuole estendere a tutti i paesi europei molti meccanismi che sono stati sperimentati in Grecia, in vista di una restrizione generale dell’accesso all’asilo”, conclude Gennari.

Nuovi arrivi

“Da quando siamo arrivati ci hanno messo a dormire in un container con altre sette famiglie, per terra, con delle coperte, perché la stanza non è un dormitorio, ma una scuola. Non ci sono letti, non c’è acqua, la bambina ha una ferita sul piede ma non è ancora stata visitata dal medico”, afferma Ibhraim che ha vissuto a Urfa, in Turchia, prima di provare a raggiungere la famiglia della moglie in Grecia. Sull’isola di Lesbo da qualche settimana è stato registrato un leggero aumento degli arrivi. “Ogni giorno arrivano più di cento persone”, conferma Chloe Haralambous dell’associazione Borderline-Europe che monitora gli arrivi sull’isola greca. “Un incremento rispetto alle scorse settimane, ma niente di paragonabile agli arrivi di massa del 2015, quando se ne registravano anche tremila al giorno”. L’aumento degli sbarchi ha convinto le autorità a riaprire tre campi di transito nel nord dell’isola, dove da tempo le barche non arrivavano più direttamente sulla costa. “Credo che questa situazione sia dovuta più alle condizioni del mare, in questi giorni particolarmente piatto, che a un cambiamento della strategia da parte delle autorità turche che pattugliano le coste e riportano indietro i migranti”.

Quello che è certo è che si sono aperte nuove rotte: “Mentre nel 2015 il flusso era composto quasi esclusivamente da siriani, afgani e iracheni, ora arrivano migranti da tutto il mondo, anche se i siriani rimangono il gruppo più numeroso. Recentemente si è aperta una rotta dalla Repubblica Democratica del Congo: i congolesi arrivano all’aeroporto di Istanbul o a Smirne con un volo di linea e lì trovano trafficanti ad aspettarli. Questa situazione è sicuramente legata anche al deterioramento della rotta del Mediterraneo centrale, sempre più pericolosa”. Per compiere la traversata dell’Egeo i migranti riferiscono di aver pagato anche 50 euro, un prezzo molto basso rispetto ai cinquecento euro che servivano nel 2015, prima dell’accordo tra Unione europea e Turchia. “È paradossale che i viaggi costino di meno dopo l’approvazione dell’accordo, proprio quando cioè dovrebbe essere più complicato arrivare in Grecia dalla Turchia, con il dispiegamento di mezzi navali europei al largo delle coste turche, ma non riusciamo a capire bene che cosa stia succedendo in Turchia per quanto riguarda il traffico di esseri umani”, afferma Chloe Haralambous. Una cosa è certa: “Se la rotta dalla Turchia alle isole greche dovesse riaprirsi, la Grecia non sarebbe in grado di far fronte a una nuova emergenza”.

«È possibile combattere la miseria senza combattere i meccanismi che la producono? No. Eppure è ciò che facciamo se non affrontiamo il tema del debito pubblico».

comune-info, 2 luglio 2017 (c.m.c.)
Sono decenni che i governi italiani dichiarano con solennità di voler abbattere il debito. Poi però, con puntualità svizzera, si tolgono di mezzo lasciando un debito più alto. Questa bizzarra consuetudine non si verifica perché la gente scialacqua, come ci fanno credere, ma perché siamo divorati dagli interessi. Lo Stato ha rinunciato al potere di stampare moneta, così ogni volta che deve spendere più di quel che incassa chiede denaro al sistema finanziario privato. Diventiamo sempre più poveri mentre banche, assicurazioni e fondi di investimento ingrassano con un debito che diventa cattivo quanto il colesterolo che devasta le coronarie. Nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro ma il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio non arrivava a coprire la spesa per interessi. La storia si ripete dal 1992, da allora il debito è passato da 850 a 2270 miliardi di euro nonostante 768 miliardi di risparmi. Su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a debito. Per cambiare davvero non ci sarebbe che la pressione popolare, peccato che ai governi e ai media che contano non sia affatto simpatica.

È possibile combattere la miseria senza combattere i meccanismi che la producono? La domanda è retorica: non esiste altra risposta che no. Eppure è ciò che facciamo se non affrontiamo il tema del debito pubblico. A onor del vero, va detto che il debito pubblico è come il colesterolo. C’è quello buono che rappresenta ricchezza e quello cattivo che rappresenta miseria. Il debito è buono quando la moneta è gestita direttamente dallo Stato in un’ottica di piena occupazione. In tale contesto la spesa in deficit si trasforma in ricchezza perché l’ammanco è finanziato con moneta stampata di fresco che entrando nel circuito economico stimola l’economia con effetti positivi su produzione, occupazione, consumi e risparmi. Il debito è cattivo quando lo Stato si priva volutamente di sovranità monetaria, ossia del potere di stampare moneta. In tal caso ogni volta che decide di spendere più di quanto incassa deve chiedere un prestito al sistema finanziario privato. Che lo darà solo in cambio di un tasso di interesse. Così il popolo si impoverisce a vantaggio di banche, assicurazioni, fondi di investimento e ogni altra struttura finanziaria che di mestiere presta denaro.

Purtroppo da una trentina di anni, già prima di entrare nell’euro, lo Stato italiano si è ridotto al pari di una qualsiasi famiglia o azienda che dipende dalle banche per qualsiasi spesa supplementare. Il suo debito nei confronti dei privati oggi ha raggiunto 2270 miliardi di euro[1] e si comporta come una zecca che affonda l’arpione nelle casse pubbliche per sottrarre denaro in base al livello dei tassi di interesse esistenti. Nel 2016 i soldi sottratti sono stati 68 miliardi di euro, nel 2012 addirittura 87 per un semplice capriccio della speculazione. Soldi di tutti, che invece di andare a finanziare asili, ospedali, scuole al servizio della collettività, vanno ad ingrassare gli azionisti delle grandi strutture finanziarie. In effetti solo il 5,4% del debito pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto il resto è nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, sia italiani che esteri. Più precisamente le strutture finanziarie italiane detengono il 63,1 per cento del debito pubblico italiano, quelle estere il 31,5 per cento.[2]

Si può senz’altro affermare che il debito cattivo è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi. Perché solo i ricchi hanno risparmi da investire in titoli di Stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da società a uovo si sta trasformando in società a piramide. Prima c’era un piccolo numero di famiglie con redditi bassi, un piccolo numero con redditi molto alti e nel mezzo un gran numero di famiglie con redditi medi. Oggi molte famiglie di mezzo stanno migrando verso il basso mentre quelle di cima sono sempre più esigue e naturalmente più ricche.

Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, depositi, le famiglie italiane possono essere divise in tre fasce. Quelle di cima, pari al 10 per cento, che detengono il 46 per cento dell’intera ricchezza privata. Quelle di mezzo, equivalenti al 40 per cento che controllano il 44 per cento della ricchezza. Quelle di fondo, che pur rappresentando il 50 per cento delle famiglie italiane, si aggiudicano appena il 9,4 per cento della ricchezza privata. [3] Mediamente la ricchezza delle famiglie appartenenti al 10 per cento più ricco è 22 volte più alta di quelle appartenenti al 50 per cento più povero. Ma se possibile la realtà è anche peggiore. Uno studio del Censis certifica che i 10 individui più ricchi d’Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani, appartenenti al club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro e non è conteggiato il valore degli immobili. In altre parole lo 0,003 per cento della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella detenuta dal 4,5 per cento.[4]

I segni di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Il 10 per cento più ricco della popolazione intasca il 25,3 per cento del reddito disponibile, il 10 per cento più povero solo il 2,1 per cento. In termini monetari ogni individuo del 10% più ricco dispone di 77.189 euro all’anno. Quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro.[5] Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore di metà degli anni ottanta quando il rapporto era 8 a 1.

Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il debito aggrava tramite l’austerità, scelta classica di uno Stato totalmente asservito alle banche. Al pari di una famiglia, quando uno Stato senza sovranità monetaria si accorge di non avere abbastanza soldi per pagare interessi e capitale, cerca di raggranellare il dovuto aumentando le entrate e riducendo le spese. Due mosse che hanno ambedue conseguenze gravissime perché se lo Stato smette di offrire servizi, le famiglie debbono rivolgersi al mercato che nel frattempo si è impossessato di servizi primari come l’acqua, i trasporti, la scuola, la sanità. Con la differenza che prima erano gratuiti, mentre ora sono a pagamento. Così le famiglie italiane, già tartassate dal carico fiscale, sono sempre più salassate dalle imprese private per il godimento di bisogni fondamentali. Basti dire che in ambito sanitario la spesa privata è salita, anno 2015, a 34,5 miliardi di euro, il 3,2 per cento in più rispetto al 2013. In totale gli italiani che si rivolgono alla sanità privata, spinti da ticket sempre più alti e da liste di attesa sempre più lunghe, sono oltre 10 milioni. Ma contemporaneamente sono cresciuti anche quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di cura perché non hanno soldi né per pagare i ticket, né le parcelle. Nel 2016 gli italiani rinunciatari sono stati 11 milioni confermando che lo spostamento dalla sanità pubblica alla sanità privata si accompagna alla sanità negata.[6]

Che il binomio più tasse, meno servizi, impoverisca gli italiani, lo dicono i numeri. La forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le bollette, di chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non può permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni. Le persone in questo grave stato di deprivazione materiale sono 7 milioni, 11,6% della popolazione. Ma se allarghiamo lo sguardo a chi vive in bilico a causa del suo stato di precarietà e di incertezza, troviamo che le persone a rischio povertà, o esclusione sociale, sono 17 milioni e mezzo, il 28,7 per cento della popolazione italiana, il 3 per cento in più del 2004.[7] Persone a cui basta un dente da riparare, una batteria di esami sanitari imprevisti, una riparazione d’auto fuori programma, per mandarle sott’acqua e costringerle ad arrangiarsi chiedendo un prestito o rinunciando ad altre spese importanti.

L’assurdo della situazione è che ora neanche i creditori sono più così sicuri di voler spingere lo Stato debitore a pagare. La loro paura è di finire come quei bombaroli che non avendo calcolato bene la lunghezza della miccia sono colpiti anche loro dalla deflagrazione. Fuori di metafora, la paura è che a forza di estrarre ricchezza, il sistema possa impoverirsi a tal punto da entrare in una spirale di crisi che trascina tutti verso il fondo. Il punto delicato è la domanda, perché viviamo in un sistema che si regge sulle vendite. Solo se c’è un livello di domanda pari, o addirittura superiore, alla capacità produttiva, tutto funziona regolarmente e possono addirittura aprirsi prospettive di crescita come tutti invocano. Se invece la domanda si contrae, le imprese entrano in crisi e licenziano in una spirale sempre più ampia. Esattamente come succede nelle economie ad alto debito pubblico, dove i cittadini hanno meno soldi da spendere a causa dell’elevato livello di tassazione e lo Stato stesso spende meno per risparmiare risorse da destinare agli interessi. Tanto più che neanche i ricchi aiutano. Benché con più soldi, in virtù degli interessi intascati, la loro spesa non cresce. Non spendono in consumi perché tutti i loro bisogni sono già stati soddisfatti e non spendono in investimenti perché non sono così stupidi da avviare nuove attività produttive quando non ci sono prospettive di vendita. L’unica strada che imboccano è quella della finanza che si espande sempre di più.

Negli ultimi dieci anni, complice la crisi bancaria, l’austerità e la concentrazione della ricchezza, in Italia la domanda complessiva si è ridotta ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle. Nel 2016 i disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7 per cento della forza lavoro. Ma il dato si riferisce solo a chi cerca attivamente lavoro. Se si includesse nel conteggio anche quelli che un lavoro salariato lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati, il numero dei disoccupati salirebbe a 5 milioni e mezzo, il 21,6 per cento della forza lavoro.[8] Purtroppo anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema dal momento che fra il 2013 e il 2016, ha perso 84mila unità.[9] La disoccupazione colpisce in maniera particolare i giovani fra 15 e 29 anni. Nel 2016 i giovani disoccupati sono 960mila pari al 44 per cento della forza lavoro giovanile. In pratica ogni 10 giovani disposti a lavorare, 4 non lo trovano. Ed ecco la crescita dei Neet, giovani stanchi e sfiduciati che né lavorano né studiano secondo la definizione inglese Not in education or in employment training. Nel 2016 i giovani nullafacenti fra i 15 e i 29 anni ammontano a più di 2 milioni, il 24 per cento del totale.[10]

Da oltre trent’anni, ogni governo dichiara di porsi come priorità l’abbattimento del debito, ma se ne va lasciandosi dietro un debito ancora più alto. E non perché viviamo al di sopra delle nostre possibilità, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma perché non ce la facciamo a tenere la corsa con gli interessi. L’esame dei bilanci pubblici dimostra che siamo dei risparmiatori, non degli scialacquatori. Ad esempio nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro perché a tanto ammonta la differenza, in negativo, fra ciò che abbiamo versato allo Stato e ciò che abbiamo ricevuto indietro sotto forma di servizi, investimenti, previdenza sociale. Ciò nonostante nel 2016 il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio accumulato non è stato sufficiente a coprire tutta la spesa per interessi. Questa storia si ripete dal 1992 e ciò spiega perché da allora il nostro debito è passato da 850 a 2270 miliardi di euro nonostante 768 miliardi di risparmi. È semplicemente successo che su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a debito.[11]

Il debito che si autoalimenta attraverso la via degli interessi è una delle forme più odiose di sottomissione e strangolamento di un popolo. Ogni anno avvolge attorno al suo collo un nuovo giro di catena per tenerlo sempre più stretto e succhiargli sempre più sangue. Fuori di metafora è un’organizzazione perfetta di latrocinio per travasare quote crescenti di ricchezza dalle tasche di tutti a quelle dei ricchi. Ma ora è arrivato il tempo di alzarci in piedi e rivendicare il diritto di sottrarci a questo meccanismo perverso. Gli strumenti per farlo ci sono: vanno dal congelamento del pagamento degli interessi al ripudio del debito illegittimo; dall’imposizione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più ricchi ad una tassazione progressiva di reddito e patrimonio; dall’introduzione di una moneta complementare nazionale alla riforma della Banca Centrale Europea, dal controllo della fuga di capitali alla regolamentazione della speculazione sui titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la volontà. Purtroppo neanche i politici più progressisti hanno messo a fuoco la gravità della situazione ed hanno posto al centro del proprio programma politico la gestione alternativa del debito.

L’unica forza che può indurre al cambiamento è la pressione popolare. Ma i cittadini si attivano solo se si rendono conto dei danni provocati dal debito pubblico. Di qui il ruolo cruciale dell’informazione. Ma chi la darà? Non c’è da aspettarsi, né sarebbe auspicabile, che la dia chi ha interesse a mantenere lo status quo, l’unica opzione possibile è che questo compito venga assunto dalla società civile che lotta contro il disagio sociale. Associazioni e cooperative, fondazioni e sindacati, realtà laiche e religiose, tutti insieme dovremmo organizzare una grande campagna di informazione pubblica finalizzata a tre obiettivi: creare consapevolezza nei cittadini sui nessi esistenti fra debito pubblico e disagio sociale; obbligare i media ad accendere i riflettori sulle conseguenze sociali del debito, suscitare un grande dibattito pubblico sulle soluzioni alternative al solo pagare.

La storia ci insegna che i cambiamenti sono possibili, ma solo se si infervorano gli animi. E gli animi si infervorano se scatta l’indignazione che deriva dalla consapevolezza. Nessuno meglio di noi può assumersi il compito di fare sapere. Possiamo e dobbiamo farlo. Ma dobbiamo unire le nostre forze.

[1] Banca d’Italia, Finanza pubblica: fabbisogno e debito, 14 aprile 2017
[2] Elaborazione dati, Banca d’Italia, Finanza pubblica: fabbisogno e debito, 14 aprile 2017
[3] Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane, Bollettino n.65 del 13 dicembre 2012
[4] Censis, Crescono le diseguaglianze sociali: il vero male che corrode l’Italia, 3 maggio 2014
[5] Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2014, 3 dicembre 2015
[6] Censis, Dalla fotografia dell’evoluzione della sanità italiana alle soluzioni in campo, 8 giugno 2016
[7] Istat, Condizioni di vita e reddito, 6 dicembre 2016
[8] Istat, Rapporto annuale 2017
[9] Marco Rogari, Nel 2017 «effetto spending» da 30 miliard, Il sole 24 ore, 20 giugno 2017
[10] Istat, Rapporto annuale 2017
[11] Elaborazione dati Centro Nuovo Modello di Sviluppo su serie storiche Istat e Corte dei Conti

Prosegue la cieca politica di utilizzazione degli strumenti del nazismo per impedire l'evasione dei “dannati dello sviluppo” prima ancora di doverli respingere.

la Repubblica, 3 luglio 2017, con postilla.

Navi delle ong straniere fuori dalle acque libiche: non potranno avvicinarsi troppo alle coste africane nelle operazioni di salvataggio in mare. Dovranno inoltre garantire bilanci trasparenti. Un nuovo protocollo sulle Ong, quasi un codice di comportamento, che potrebbe spingersi a bloccare l’accesso in porto a chi non è in regola. E ancora: ruolo di coordinamento più forte in capo alla Guardia costiera italiana. Rilancio del piano dei ricollocamenti dei migranti giunti in Italia e Grecia. Esternalizzazione delle frontiere italiane (ed europee) in Libia, sulla scia dell’accordo con la Turchia e cioè più controlli al confine meridionale libico, vera porta d’accesso dei flussi.
Questi alcuni dei punti sul tavolo a Parigi, nel corso di una cena di lavoro fra i ministri dell’Interno di Italia, Francia e Germania per «trovare una risposta comune ai flussi migratori e capire come meglio aiutare gli italiani». Così un portavoce dell’Hotel de Beauvau, il ministero dell’Interno francese, ha descritto l’incontro di ieri fra il ministro Marco Minniti, il suo omologo francese Gerard Collomb, quello tedesco Thomas de Maizière e il commissario Ue, Dimitri Avramopoulos. I quattro hanno lavorato insieme alla stesura di un “approccio coordinato” alla questione migranti per alleviare la pressione sulle coste italiane, che aveva portato, mercoledì scorso, alla minaccia del governo italiano di «chiudere i nostri porti» alle navi straniere. «È stato un incontro lungo e franco - commentano dal Viminale - abbiamo raggiunto un’intesa e ora i francesi stanno scrivendo un documento di proposte condivise» da portare al Consiglio degli Affari Interni della Ue che si terrà giovedì a Tallin con i ministri di tutti i 28 paesi Ue. Molti dei quali si sono già dimostrati refrattari a condividere con l’Italia la responsabilità dei migranti.

L’obiettivo è naturalmente quello di ridurre gli sbarchi: a tal scopo si pensa di limitare la libertà di movimento delle navi delle Ong a cui potrebbe essere vietato l’accesso in acque libiche e che potrebbero essere invitate ad approdare anche nei Paesi di cui battono bandiera. Un’altra richiesta è quella di riscrivere il mandato di Frontex per permettere di sbarcare i migranti in altri Paesi europei oltre il nostro. Quel «segnale straordinario» invocato ieri dal ministro Minniti in un’intervista a Il Messaggero: «Sono europeista e vorrei vedere l’arrivo di una nave carica di migranti in un porto non italiano». L’Europa, naturalmente, è solo uno degli scenari: «La partita fondamentale si gioca in Libia - ha detto lo stesso Minniti - vero confine meridionale dell’Europa, da cui sono arrivati quest’anno il 97% dei migranti » e dove serve dunque un governo stabile. Infine si chiede di affrontare in maniera seria la questione della ridistribuzione dei migranti: quella ricollocazione che finora è stato un flop visto che dall’Italia sono state smistate solo settemila persone.

L’incontro di ieri ha dato il via ad una settimana di incontri cruciali per l’Italia: oltre all’appuntamento di giovedì a Tallin, infatti, domani a Strasburgo si tiene il dibattito plenario al Parlamento europeo con anche i presidenti di Commissione e Consiglio europeo Jean-Claude Juncker e Donald Tusk. Mentre il 7 e 8 luglio si tiene il G20 di Amburgo. Anche per questo si è deciso di preparare il terreno con Francia e Germania, che finora si sono detti pronti ad aiutare l’Italia, nonostante quella distinzione fatta dal presidente francese Macron, fra migranti economici e rifugiati. L’Italia ha ormai bisogno di risposte immediate visto che, secondo dati del Viminale nei primi mesi del 2017 sulle nostre coste sono sbarcate 83.360 migranti, il 18,7 per cento in più dell’anno precedente. Di questi - sono dati dell’Unhcr - 12.600 solo la scorsa settimana.

postilla

I governanti europei non riescono ad avere altri interessi che quello di conservare poltrone e potere connesso ai miserabili ruoli che i sapienti mandriani del popolo bue ha loro affidato. Perciò sono incapaci di comprendere che la tragedia dell’esodo, provocato da decenni di insensato «sviluppo» delle risorse del pianeta Terra, e che le pratiche neonaziste che hanno promosso e continuano a promuovere, si ritorcerà contro di loro e dei popoli che governano. (e.s.)

«L’ex Alimarket può ospitare fino a 480 persone quindi siamo a norma. Poi è chiaro che più aumenta il numero di ospiti, più la gestione diventa difficile. Rispetto a quello che potenzialmente potrebbe succedere è successo anche poco».

il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2017 (p.s)

I letti a castello sono ammassati gli uni vicini agli altri. Il caldo è asfissiante perché le finestre non ci sono. Quando piove, invece, com’è successo domenica, lo stanzone si allaga perché l’acqua viene fuori da sotto al pavimento. C’è chi parla di cimici, altri raccontano che i bagni non vengono mai puliti. A Bolzano trecento migranti vivono in un ex supermercato, si chiamava Alimarket. E’ lì che la Provincia di Bolzano li ha alloggiati, pagando un affitto di 39mila euro al mese al proprietario, un “prezzo congruo” secondo l’ente. Per i Cinquestelle, invece, «è inaccettabile che una Provincia ricca come Bolzano tenga così tante persone ammassate insieme in condizioni disumane», come dice al fattoquotidiano.it la consigliera comunale Maria Teresa Fortini. Per la Provincia, tuttavia, è tutto in regola: «In un anno ho visitato il centro 10 volte e rispetta gli standard accettabili di una struttura di quel tipo» assicura Luca Critelli, direttore della Ripartizione politiche sociali della Provincia.
Il centro di accoglienza bolzanino di via Gobetti è gestito da CroceBianca, Croce Rossa e Associazione Volontarius. Prima dell’allagamento di domenica era già finito sui giornali altre volte. Per esempio ad aprile quando erano scoppiate tre risse in pochi giorni. L’ultima, la più grave, aveva causato 10 feriti e portato a otto arresti. «La convivenza in un unico spazio di tante persone provenienti da molti Paesi diversi ha portato a questo – spiega la consigliera Fortini – tanto che è stato necessario istituire un servizio di vigilanza». Nella rissa erano coinvolti libici, marocchini, gambiani, afghani e pakistani. Un nigeriano aveva raccontato al quotidiano Alto Adige di essere “terrorizzato” per via della “presenza di armi all’interno della struttura”.
Ibrahima, un giovane senegalese che da quattro mesi vive nell’ex supermercato, ha iniziato a frequentare un corso di italiano: «Abbiamo tanti problemi - racconta al fatto.it - viviamo tutti in grandi stanze, dove fa molto caldo e non ci sono finestre. I bagni non vengono mai puliti, sono sempre sporchi». I letti sono uno attaccati, l’uno accanto all’alto, così la convivenza ravvicinata può creare attriti: «Le persone che vengono dai Paesi arabi non vanno d’accordo con chi viene dall’Africa centrale, con noi neri», spiega Ibrahima.

La consigliera M5s Fortini ha parlato anche con altri ragazzi dell’ex Alimarket «Mi hanno parlato della presenza di cimici - spiega - di pessime condizioni igieniche e di un’aria irrespirabile». Infine l’allagamento: «Quel giorno era allagata mezza Bolzano - replica Critelli - e i gestori del centro mi hanno assicurato che nel giro di qualche ora la situazione si è comunque risolta. Non credo che un paio di centimetri di acqua siano un problema esagerato». E gli ospiti del centro devono essere “attenti” con le loro lamentele, secondo i consigli del funzionario della Provincia: «Gli ospiti sono liberi di dire quello che vogliono - dice - Di solito però consigliamo loro di stare attenti a lamentarsi, perché la popolazione reagisce considerandoli degli ingrati».

Ad oggi ci sono circa 1600 profughi in Alto Adige, di cui 800 a Bolzano e più di 300 solo nel centro ex Alimarket. «La soluzione sarebbe distribuirli su tutti i Comuni della Provincia - propone Fortini - ma in molti si oppongono, specialmente ora che è periodo di turismo. Il risultato è che nel capoluogo qualche profugo finisce anche a dormire per strada». Stando ai dati di fine 2016, in Alto Adige sono operativi nell’accoglienza 18 Comuni, per un totale di 27 centri di accoglienza. «Anche noi preferiremmo avere solo strutture con 25-60 ospiti - spiega Critelli - ma per gestire un sistema di accoglienza serve almeno un centro con grandi numeri. L’ex Alimarket può ospitare fino a 480 persone quindi siamo a norma. Poi è chiaro che più aumenta il numero di ospiti, più la gestione diventa difficile. Rispetto a quello che potenzialmente potrebbe succedere è successo anche poco».

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
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Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

il manifesto, 2 luglio 2017 (m.p.r.)

Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile.

C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il Palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del «nababbo» (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno frutta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta. Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o ad Ashulia, distretti suburbani industriali. In pieno centro c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta. A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che «la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie…». «Le nostre inchieste - dice Deborah Lucchetti della campagna Abiti Puliti - mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, possa portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica».

Il paradosso è che la materia prima - cotone o cuoio - non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo. E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino. Uno dei grandi produttori mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. È una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale. Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia.

Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh
Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan. Un rapporto di Human Rights Watch mette sotto accusa il finanziamento di svariati milioni di dollari concesso dalla Banca mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiuto allo sviluppo. Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier We Can’t Refuse to Pick Cotton Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno). Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione – oltre 300 milioni di dollari – nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran.

In quelle zone, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca mondiale lo sa perché un gruppo misto - Uzbek-German Forum for Human Rights - glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, la Banca mondiale li ha allargati. Per la verità anche la Banca mondiale sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare. Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano «progressi».

Ma gli attivisti di Hrw fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre), ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che «…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande». Secondo Hrw la Banca mondiale e la International Finance Corporation (Ifc), un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato.


E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio
Passando alla Cambogia, qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation. Solo nell'ultimo anno, più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore. I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico.
«I suoi reportage mostrano come è cambiata l’Europa di mezzo. Così, anche in questo piccolo racconto, lo scrittore parte dai Carpazi in Polonia per ricordare come, dall’Ucraina alla Slovenia, la geografia dei luoghi abbandonati ci aiuta a capire la storia».

la Repubblica Robinson, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

Beskid Niski. Così si chiamano in polacco i Piccoli Beschidi, la diramazione dei Carpazi che si trova nella Polonia sudorientale. Fino alla Prima guerra mondiale questi territori erano appartenuti alla Galizia, terra della Corona austriaca. Una zona scarsamente popolata, con paesini e villaggi isolati. Prima c’erano più insediamenti umani qui, molti sono scomparsi nel ventesimo secolo. Per esempio Czarne, paese un tempo pittorescamente inserito in una valle attraversata da un fiumiciattolo che porta lo stesso nome.

Fino alla Seconda guerra mondiale vi avevano abitato circa trecentotrenta lemchi, che facevano parte di una popolazione rutena di lingua ucraina, quattro polacchi e un ebreo, che nel villaggio aveva una piccola bottega, collegata a un’osteria in cui si beveva perlopiù acquavite. I lemchi di Czarne appartenevano alla fede ortodossa, i polacchi, come è giusto che sia, erano cattolici, e l’ebreo era devoto, ma non un chassid. La chiesa tutta di legno, presumibilmente costruita nel 1789, era dedicata a San Dymitri. Nel 1934, un po’ fuori dal paese, fu eretto un obelisco di pietra in memoria del Santo Maksym Sandowycz: un prete ortodosso che nel 1914, poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, era stato fucilato dagli austriaci perché pareva che avesse simpatizzato per i nemici russi e che li avesse sostenuti attivamente.

Il paese di Czarne non esiste più. È scomparso. Con tutte le sue case, gli stallaggi e la chiesa a San Dymitri. Un solco appena percepibile nell’erba accenna il corso della via che una volta attraversava il paese. Soltanto due capanne disabitate e qualche pietra tombale dell’antico cimitero, ricoperte di erba alta e squarciate dalle radici, ricordano che qui vissero delle persone.
Anche l’obelisco a San Maksym Sandowycz è ancora in piedi, testimone solitario di un precedente insediamento in un paesaggio svuotato. La gran parte degli abitanti di Czarne fu trasferita nel 1945, dopo la fine della guerra, nell’Ucraina sovietica, molti contro la propria volontà.

Nel 1947 i restanti membri della minoranza etnica furono infine portati forzosamente dalle autorità polacche nei territori dai quali in precedenza erano stati espulsi gli abitanti tedeschi. Cose simili accaddero in molti altri paesi dei Piccoli Beschidi e dei confinanti Bieszczady, dove i membri della minoranza rutena si erano da sempre sentiti altrettanto a casa. Ormai molti lemchi hanno fatto ritorno nella loro terra, ma numerosi paesi erano irrecuperabilmente perduti, le case rase al suolo o distrutte dalle fiamme, al pari delle chiese. È così che si compie la pulizia etnica.

Czarne, Lipna, Radocyna, Wyszowatka, Rozstajne, Nieznajowa, ?ydowska, D?ugie — su una mappa dettagliata dei territori sono indicati i paesi che non esistono più. Il paese scomparso di Czarne dà il nome alla mia casa editrice polacca, Wydawnictwo Czarne, diretta da Monika Sznajderman e dal marito, il famoso autore polacco Andrzej Stasiuk.

Abitano in un paesino non distante da Czarne.
Hanno cura di preservare capitelli votivi, cappelle e pietre tombali in cui talvolta ci si può imbattere ben lontano da un qualsiasi insediamento umano.
Equipaggiato con gli schizzi e i consigli di Andrzej, qualche anno fa mi sono avventurato per i Beschidi alla ricerca dei paesi scomparsi. Colline fittamente imboschite, piccoli ruscelli e fiumi fiancheggiati da alberi e cespugli, vasti prati con l’erba che arrivava ai fianchi, non tagliata da nessuno, non brucata da nessun animale produttivo. All’improvviso, in mezzo a un prato mi sono trovato davanti, come fantasmi neri, dei vecchi alberi da frutto nodosi, arsi per metà, prugne, mele, pere, segno inequivocabile che lì una volta doveva esserci stato un paese. Dopo aver cercato per un po’, scoprii nell’erba alta delle pietre accatastate, evidentemente resti di fondamenta, i relitti di un’abitazione di cui non rimaneva nient’altro.
Un tempo le case venivano costruite tutte in legno, solo le fondamenta erano fatte in pietra.

Il legno è marcio e deteriorato, è stato roso e divorato dagli insetti, molte volte le case venivano anche incendiate; a coprire il poco che rimaneva ci ha pensato la natura. Si è ripresa senza pietà ciò che un tempo le persone le avevano strappato con il loro duro lavoro.

Questo ha anche i suoi lati positivi. Così, il verde rigoglioso copre benevolo le tracce della distruzione a opera delle persone, le rovine degli incendi e i mucchi di assi che erano rimasti delle capanne demolite.
In un affossamento c’era dell’acqua, così coperta di lenticchie d’acqua che di primo acchito non mi sono accorto della sua presenza e per poco non ci sono finito dentro. Lo stagno del paese? Su una morbida cupola si era presumibilmente trovata la chiesa. Nelle vicinanze sono inciampato nell’erba infeltrita su alcune pietre tombali, per metà immerse nella terra, le scritte sgretolate fino a essere illeggibili. Non sapevo in quale dei paesi scomparsi fossi, a Lipna, a Radocyna?

Soltanto le pietre e i vecchi alberi da frutto testimoniano dell’insediamento di un tempo, sono robusti e resistono all’impeto della natura selvaggia. Gli orti e i fiori curati meticolosamente, di cui le donne andavano così orgogliose, sono anch’essi scomparsi come le case e le persone.

Pomodori, cetrioli, fagioli e cipolle, ma soprattutto i fiori coltivati sono fragili e passeggeri, non sono all’altezza degli inverni rigidi; le patate, più resistenti, sono state dissotterrate e mangiate dagli animali selvatici, cervi, orsi e cinghiali. Su un melo dai frutti piccoli e dolci ho scoperto graffi profondi incisi da poco, e un po’ più su dei rami spezzati. Un orso si era arrampicato per prendersi le mele.

Mentre ero nel paese scomparso nelle diramazioni dei Carpazi, pensavo a immagini molto simili che avevo visto anni prima centinaia di chilometri più a sud, nel Ko?evski Rog, nella Gottschee, in Slovenia, dove mio nonno possedeva un casino di caccia. Anche nella Gottschee, un’ex isola linguistica tedesca, ci sono numerosi paesi scomparsi, i cui abitanti furono trasferiti ed espulsi durante la Seconda guerra mondiale.

Trasferimenti, deportazioni ed espulsioni passano come un filo rosso maligno attraverso la Storia del ventesimo secolo, e spesso non sono solo le persone a essere scomparse senza lasciare traccia, ma anche le loro abitazioni e le vie e le strade che le collegavano. I paesi scomparsi sono anche nella Selva Boema, in Repubblica Ceca, sul confine con l’Austria, e in altre regioni europee, in Bielorussia, in Ucraina, in Bosnia, solo per citarne alcune. Sulle mappe di un tempo i paesi sono ancora indicati, e continuano a esistere anche nei ricordi dei vecchi abitanti e dei loro discendenti, a volte anche nella letteratura, ma con gli anni i ricordi sbiadiscono, perdono significato, fino a non suscitare più sentimenti né emozioni. E allora rimane soltanto il paesaggio, apparentemente inviolato e inavvicinabile. Solitario e bello.

Traduzione di Melissa Maggioni di un brano tratto dal libro Galiziadi Martin Pollack (Keller, traduzione di Fabio Cremonesi)

il manifesto, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

Le tante bandiere di Articolo 1 e quelle dei Verdi sventolano, i palloncini arancioni volano in aria. Giuliano Pisapia ha appena terminato il suo intervento dal palco romano di piazza Santi Apostoli sotto la sede che fu dell’Ulivo, e Iseiottavi, la Rino Gaetano Tribute band alla quale viene affidata la colonna sonora del pomeriggio, attacca Il cielo è sempre più blu. È solo l’ultimo rewind, quello che chiude poco prima delle otto di sera «Insieme», il lancio di una «casa comune inclusiva e innovativa», promette l’ex sindaco di Milano.

«Nascerà una casa più grande e più bella… Dipende da voi, da tutti noi, la costruzione di una casa in cui non saremo più da soli». Lo aveva detto Piero Fassino, su quelle stesse note di Rino Gaetano, dieci anni fa, chiudendo a Firenze il congresso che congedava i Ds per dare l’avvio al Pd. «Da oggi parte la casa comune per una nuova sinistra, un nuovo centrosinistra. Una casa comune che guarda al futuro e guarda al passato. Non una fusione a freddo, ma una fusione a caldo», insiste ora Pisapia congedando la piazza del 1 luglio per dare un nuovo appuntamento a «Insieme» a settembre, quando «sceglieremo il nuovo nome, insieme» anche per i nuovi gruppi parlamentari.

Il futuro e il passato da non buttare tutti alle ortiche, come chiede Pier Luigi Bersani che, intervenendo prima di Pisapia, rivendica gli anni ’90 perché allora «abbiamo vinto ovunque, dall’Europa agli Stati uniti, proponendo una globalizzazione dal volto umano. Economia di mercato sì, società di mercato no, come diceva Jospin». Ma «discontinuità radicale» con le politiche degli ultimissimi anni, chiede l’ex segretario del Pd e ripete l’ex sindaco, il primo con un duro attacco a Matteo Renzi e al renzismo (applauditissimo, del resto la piazza è appunto dominata dalle bandiere di Mdp che Gad Lerner invita a sventolare con moderazione), il secondo senza citare mai Renzi (forse anche per questo applaudito con meno fragore) ma elencando i temi sui quali marcare la discontinuità.

E chiarendo anche che «in tempi non sospetti avevo detto di considerare un errore l’abolizione dell’articolo 18», scandisce Pisapia «l’anti-leader» (lo definisce il «presentatore» Lerner), a segnare in questo modo una distanza netta dall’attuale segretario del Partito democratico che da Milano aveva attaccato a testa bassa una piazza messa insieme dalla «nostalgia di un passato che non è mai esistito». Non a caso è attento, Pisapia, a cercare di allontanare quella sensazione di «nostalgia» parlando ripetutamente di futuro, della necessità di unire «indipendentemente dalle bandiere e dalle storie». Del resto all’inizio della manifestazione il colpo d’occhio della piazza parla molto del centrosinistra che fu, passeggiano – più o meno coinvolti nella «nuova casa» – diversi ex ministri dei governi di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, da Livia Turco a Barbara Pollastrini a Giovanni Maria Flick a Antonio Bassolino con seguito di fan… E applausi anche per Massimo D’Alema, al suo arrivo nella folla. Passeggia poi Gavino Angius, che fu capogruppo dei Ds. Ma ci sono anche Bobo Craxi che ascolta seduto sulla sua bicicletta e si rivedono pure ex dc non esattamente «ulivisti» o «unionisti» come Angelo Sanza, arrivato nel Centro democratico di Bruno Tabacci dopo essere passato per Forza Italia e per l’Udc.

Il rischio revival è nell’aria. Anche se l’atteso messaggio-benedizione di Prodi non arriva. E pure quello fusione a freddo, come appunto evidenzia Pisapia seppure dicendo che «Insieme» non ripeterà l’errore che riporta a quel congresso di Firenze e al Rino Gaetano di dieci anni fa. La scommessa è questa, la piazza è piena solo perché il palco è stato montato in posizione strategica per evitare vuoti, e dal palco e ai camion delle tv resta una fetta piuttosto limitata. Certo è il primo luglio, è un sabato e venerdì a Roma era anche festa e Pisapia dice «ci davano dei matti, ma ce l’abbiamo fatta», salutando «la bellissima piazza». Non c’è il messaggio di Prodi ma ci sono i pontieri del Pd. Gianni Cuperlo, Cesare Damiano e il ministro della giustizia Andrea Orlando ascoltano attentamente da dietro il palco dove si è sistemato un gruppetto di bersaniani. Il ministro in realtà cerca di spostarsi altrove, «siamo la delegazione straniera», scherza, ma sotto il palco è difficile arrivare. C’è il presidente della regione lazio Nicola Zingaretti e ascolta in posizione un po’ arretrata il franceschiniano David Sassoli. Selva di telecamere per la presidente della camera Laura Boldrini

Sul palco si susseguono le «storie» vere – come le chiama Pisapia, raccontate da Stefania Cavallo del centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, Elvira Ricotta della rete italiani senza cittadinanza, Alessio Gallotta che parla della vertenza Amazon… Poco prima della fine della manifestazione è l’attore Claudio Amendola (tocco di romanità da coniugare con la milanesità dell’anti-leader) a parlare esplicitamente del rapporto con i dem, di una «forza che dovrà essere la sentinella del Pd». Dal PD renziano la piazza è molto lontana. Ci sono anche i giornalisti dell’Unità «rottamata dal Pd». «Ci rivolgiamo al popolo del centrosinistra, disilluso, deluso, che sta a casa e ha ascolta il comizio di Renzi e sente che le parole gli scivolando addosso, come l’acqua sul marmo», dice ancora Bersani tra gli applausi. Perché «noi abbiamo un pensiero, se ne prenda atto. Ma voi del Pd che pensiero avete? Ora si sono liberati di D’Alema e il pensiero ce lo darà Bonifazi… Basta voucher, basta licenziamenti collettivi e disciplinari, basta stage che diventano lavori in nero, basta bonus, basta meno tasse per tutti come dice Berlusconi. E basta arroganza, il mondo non gira attorno alla Leopolda».

«Senza i più poveri, gli esclusi, questo Paese non cresce. Lo sciopero del voto ci spinge a ridare dignità al lavoro, solo così ripartirà lo sviluppo. Non si crea sviluppo pensionando i diritti», dice ancora Pisapia citando Rodotà e chiedendo la legge per lo ius soli. «Siamo partiti col piede giusto per costruire un nuovo progetto politico, ora si tratta di allargarlo. Stiamo andando verso le elezioni. Se questa forza avrà forza allora dopo il voto riapriremo il confronto» con il Pd. In piazza c’è la delegazione di Sinistra Italiana (De Petris, Marcon, Fassina…), c’è Pippo Civati. I «civici» del Brancaccio non ci sono. Quanto la casa sarà grande e comune è tutto ancora da vedere .

«». Left online,

Oggi, primo luglio in piazza Santi Apostoli, a Roma, Giuliano Pisapia spiegherà finalmente – almeno così in molti speriamo – quale strada intende imboccare. Grande coalizione da Carlo Calenda a lui, passando per il Pd di Matteo Renzi, ma con un governo a guida di Piero Grasso, si dice oggi, mentre scrivo. La formula Genova, insomma: il che non suona rassicurante, visto il risultato. Ma non è questione di formule, è questione di sostanza. E la sostanza è che queste grandi manovre di vertice danno per scontato che metà del Paese non voti più. Se per caso l’altra metà degli italiani tornasse a manifestarsi, anche solo al dieci per cento, tutto questo castello di carte verrebbe giù: come insegna il voto del 4 dicembre.

Anna Falcone, io, le 1.500 persone che erano al Brancaccio e le 65.000 che hanno seguito in streaming l’assemblea del 18 giugno: saremmo stati tutti felici se Pisapia avesse accolto il nostro invito a parlare, e ad ascoltare. O se solo avesse risposto alla nostra richiesta di prendere oggi la parola a Santi Apostoli. Ma mi rendo conto che non abbiamo l’appeal di Bruno Tabacci, o del napoletano Michele Pisacane. Provo allora a scrivere qua ciò che gli avrei voluto chiedere in pubblico.

È d’accordo, caro Pisapia, sul ripristino dell’articolo 18 e anzi sull’estensione, che era prevista dal quesito referendario della Cgil? È d’accordo ad istituire un reddito di dignità così come lo propone Libera? È d’accordo con la ricostruzione di una seria progressività fiscale, che alzi oltre il 60% lo scaglione per i redditi più alti? È d’accordo nel riaffermare il ruolo centrale dello Stato nella economia? Cioè, in concreto, è d’accordo nel sospendere le alienazioni del patrimonio pubblico e nel fermare le privatizzazioni? È d’accordo nella ricostruzione di un vero diritto alla salute, omogeneo sul territorio nazionale? È d’accordo nello stabilire il consumo di suolo a zero e nel varare una grande opera pubblica di risanamento del territorio? È d’accordo nel dire no al Ceta? È pronto ad impegnarsi a togliere dall’articolo 81 della Costituzione il pareggio di bilancio? È d’accordo nel ritirare lo Sblocca Italia, la Buona Scuola e il decreto Minniti? È pronto a dividere draconianamente le cariche di partito dalle cariche di governo, a cominciare dalla presidenza del Consiglio?

Non è un programma estremistico. È anzi assai più moderato di quello che propone Jeremy Corbyn. Ed è esattamente questo l’orientamento condiviso dalla base a cui lo stesso Pisapia dice di richiamarsi. Per esempio: l’assemblea regionale lombarda di Articolo Uno – Mdp che si è riunita il 24 giugno, ha approvato una mozione in cui si legge: «Occorre un nuovo soggetto politico che sappia offrire al vasto mondo del centrosinistra un’alternativa al Pd, che sia credibile e con ambizioni di governo. Un nuovo centrosinistra non può esistere a prescindere da questo nuovo soggetto. Per fare questo serve: il riconoscimento degli errori compiuti negli ultimi tre anni di governo, ma anche una forte discontinuità con le politiche neoliberiste che hanno condizionato anche le migliori esperienze di centrosinistra degli ultimi 20 anni; la piena consapevolezza di ciò che ha rappresentato il voto del 4 dicembre».

Su questa base la sinistra non solo sarebbe unita: sarebbe anche una bella sinistra. Troppo bella, per essere vera?

la Repubblica, 1 luglio 2017 (c.m.c.)

Appaiono non solo incomprensibili, ma destituite di ogni fondamento storico e culturale, le obiezioni relative al nucleo stesso della legge sullo Ius soli. Per una ragione molto semplice: in Italia l’idea stessa di nazione è indissolubile dal territorio come costruzione culturale. Non siamo mai stati una nazione etnica, “per via di sangue”: non c’è nazione più felicemente “impura” di quella italiana, frutto dei più vari e numerosi meticciati. È un’altra, la nostra storia.

Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato il volgare italiano, vengono esaltati Cimabue e Giotto, padri dell’altra lingua degli italiani: quella dell’arte figurativa, e dei monumenti. E quando Raffaello, nel 1519, prova a convincere papa Leone X a difendere le rovine di Roma antica, definisce questa ultima «madre della gloria e della fama italiane»: in un momento in cui l’idea stessa di nazione era ancora solo un vago progetto, era già evidente il ruolo decisivo che in esso avrebbe avuto il suolo, e ciò che su quel suolo avevamo saputo costruire. Come tre secoli prima aveva capito Cimabue rappresentando (sulla volta della Basilica Superiore di Assisi) l’«Ytalia» attraverso i monumenti di Roma, è proprio la lingua monumentale dell’arte quella che, lungo i secoli, ha reso noi tutti “italiani” per purissimo Ius soli.

È un filo, questo, che si può seguire fino al Novecento. Per esempio, fino al momento in cui un gruppo di intellettuali antifascisti (Piero Calamandrei, Nello Rosselli, Luigi Russo, Attilio Momigliano, Benedetto Croce, Alfonso Omodeo, Leone Ginzburg e altri ancora) intraprese una straordinaria serie di “gite” domenicali per cercare nel paesaggio e nei monumenti «il vero volto della patria». Scrive Calamandrei: «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana… Era questo amore, che nelle nostre passeggiate ci guidava e ci commoveva; e lo sdegno contro la bestiale insolenza di chi era venuto a contaminare colla sua presenza l’oggetto di questo amore, e a preparar la catastrofe (che tutti sentivamo vicina) di questa patria, così degna di essere amata». Mentre il fascismo pervertiva il concetto stesso di nazione, si sentiva che era dal territorio - cioè dal suolo, dalla sua natura e dalla sua storia - che potevano rinascere un’idea di nazione e di patria.

È ciò che, dopo la Liberazione, riconosce la Costituzione, dove la Repubblica prende solennemente atto che siamo nazione per via di cultura. Accade nell’unico dei principi fondamentali dove appaia la parola “nazione”, il 9. Dicendo che la «Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» si iscrive nella Carta fondamentale la vicenda nazionale preunitaria. E lo si fa attraverso che cosa? Non attraverso la lingua, non attraverso il sangue, non attraverso la fede religiosa, ma attraverso la storia, l’arte e la loro inestricabile fusione con l’ambiente naturale italiano. In altre parole, la Repubblica prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale e il suo sistematico nesso col territorio hanno avuto nella definizione stessa della nazione italiana, agli occhi dei propri membri e agli occhi degli stranieri.

Non è un’idea astratta. Chiunque abbia un figlio che frequenti una scuola pubblica vede con i propri occhi come bambini di ogni provenienza divengano giorno per giorno italiani: facendo propria la lingua delle parole, ma anche prendendo parte a quell’antico rapporto biunivoco per cui noi apparteniamo al suolo patrio, che a sua volta ci appartiene. Siamo tutti, da sempre, italiani per via di suolo e cultura. La legge sullo Ius soli si può certo discutere laddove (per esempio riferendosi al reddito del genitore non comunitario) rischia di introdurre una cittadinanza per censo. Ma la necessità di migliorarla ed ampliarla (ciò che si dovrà fare in seguito) non può certo indurre a dubitare della necessità di approvarla quanto prima: se non altro perché non fa che riconoscere un antico dato di fatto.

«l’Italia si trova in una condizione drammatica, la cui ultima frontiera è il più massiccio processo di sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata dell'epoca recente.Un nuovo ossimoro, il lavoro gratuito».

Granello di Sabbia n. 29 di Maggio - Giugno 2017 (m.p.r.)


«Interrogare il passato non serve a niente. E’ al futuro che bisogna fare le domande. Senza il futuro il presente è solo disordine». Un passaggio tratto da “Chourmo”, opera seconda della splendida trilogia marsigliese dell’indimenticabile Jean Claude Izzo. Un passaggio che ben si attaglia anche alla drammatica situazione vissuta, oramai da tempo infinito, nel nostro Paese da intere generazioni e, più in generale, riconducibile alla decadente parabola del pianeta rispetto proprio alle soluzioni da proporre alla questione giovani/lavoro/prospettive.

Ci raccontano costantemente di un Paese che non c’è più, legato al remoto ricordo del boom dei “gloriosi anni trenta”, il periodo del dopoguerra che consentì ad intere generazioni di sognare e praticare in ascesa la mobilità sociale, cioè la possibilità di migliorare la propria posizione sociale rispetto a quella di provenienza. Ma non c’è oggi, purtroppo, un solo indicatore - sociale o economico - che invece lasci intravedere un barlume di speranza, di “ripresa”, di superamento di quelle pazzesche diseguaglianze ingenerate dal “malsano quarantennio del liberismo”.

Le politiche neoliberiste degli ultimi quarant’anni, nel primo ventennio (‘75-’95) sincopate e quasi invisibili, almeno in Occidente, ma già dirompenti nelle “aree test”, Sud-America e Africa, poi ovunque apertamente e diffusamente aggressive, hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva.

Una simile libertà basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse per il bene e i beni comuni e sul conformismo, è in realtà illusoria per la sua assoluta sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato, e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica, sempre più sottomessa ai poteri forti e totalmente insignificante sul versante di una moderna e funzionale gestione della res publica. La vità individuale è così ipersatura di cupi pensieri e di sinistre premonizioni, tanto più terrorizzanti in quanto subite in solitudine interiore ed acuite dalla continua competitività individuale alla quale siamo chiamati per mantenerci a galla. In questa sorta di isteria collettiva, il risveglio è stato brusco, assai brusco: il mondo contemporaneo si ritrova quale contenitore colmo fino all’orlo di paura e di frustrazione diffuse, sia sociali che economiche, alla disperata ricerca di un tipo di sfogo che chiunque soffra possa ragionevolmente sperare di avere in comune anche con altri.

Per sentirsi meno soli, meno isolati. Meno fragili.
Per superare la fragilità individuale devi riacquisire la dimensione collettiva. Quindi in maturazione, forse, il bisogno di tornare ad essere comunità, collettivo. Per ora questo “bisogno” si palesa più con fughe, con derive che si incentrano con l’adozione degli “ismi” - qualunquismi, sovranismi, nazionalismi – più che rispetto al tentativo di ri-costruire un senso di appartenenza prospettico, nel quale saper coniugare la propria libertà individuale con il bisogno e l’impegno collettivo, dove tornare ad interrogarsi insieme per trovare risposte innovative e coerenti alle sofferenze individuali, in modo condiviso, comune, politico.

La vorticosa diffusione degli “ismi” è anche frutto di una studiata e meticolosa strategia messa in campo dalle istituzioni: come possono le istituzioni offrire sicurezze e certezze, in un simile disastroso contesto socio-economico? Quest’ansia, sempre più estesa e diffusa, viene convogliata verso un’unica condizione, quella della sicurezza, della sicurezza personale. Se per mitigare l’insicurezza e l’incertezza servono azioni comuni, gran parte delle misure adottate per garantire la sicurezza individuale risultano invece volutamente divisive: seminano il sospetto, allontanano le persone, le spingono a fiutare nemici, invasori, competitori, cospiratori.

Ansia e incertezza colpiscono tutti, proprio tutti, è oramai una situazione prospettica intergenerazionale, colpisce indistintamente donne e uomini, anziani e cinquantenni, tutti ne sono direttamente coinvolti. Ma risulta invece una vera epidemia sistemica per quanto riguarda le prospettive dei giovani: per la prima volta dal dopoguerra la mobilità sociale è in vorticosa discesa, tutti stanno introiettando il reale peggioramento della propria posizione sociale. La maggior parte delle nuove generazioni ha vissuto e sta vivendo questo processo di declassamento rispetto alla posizione acquisita dai loro genitori. Quello a cui si sta assistendo è, né più né meno, la storia della scomparsa dal mondo produttivo di una generazione, che, come viene ben descritto in alcuni degli articoli contenuti in questo Granello, è vittima di una serie di soprusi pazzeschi, tutti collegati alle logiche dell’economia a debito, come i “prestiti d’onore” per lo studio o il lavoro gratuito.

I giovani, gli studenti nel mondo sono oggi definiti con l’acronimo Ninja (No Income, No Jobs, No Assets), nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio. E anche quando i pochi fortunati trovano un impiego, gli interessi che devono pagare per rispettare “il debito d’onore” contratto per laurearsi, sono così alti che non riescono quasi mai ad estinguerlo. Ben pochi ce la fanno, gli altri ingrossano le fila dei “moderni peones” o se preferite degli “schiavi precari”. Il problema è serissimo, strutturale, ricorrente e su questo tema si incardina sia questo bel Granello di Sabbia sia la prossima Università Estiva di Attac Italia (Lavoro e non lavoro, Cecina Mare 15-17 Settembre). Il ricorso all’indebitamento come surrogato al reddito è sempre più esteso e praticato ed è un male così inarrestabile, una moderna “peste nera” che conduce alla più perversa e tragica degenerazione del capitalismo e ad una diffusione epidemica delle diseguaglianze prima e della povertà diffusa poi.

L’unico antidoto a questa degenerativa e contagiosa patologia è riuscire ad attivare una contro-narrazione puntuale ed efficace alle teorizzazioni dell’ Economia del debito che sappia condurci in tempi brevi almeno all’abolizione di tutti i debiti illegittimi. E’ lo scenario che occupa da tempo i maggiori sforzi di Attac Italia e che ha portato - come ben sapete – alla costituzione di uno specifico Centro Studi orientato all’azione, Cadtm Italia.

«Uno dei guai più grossi della nostra Società è che ha smesso da tempo di interrogarsi» (Cornelius Castoriadis). Le università sono da decenni la trincea vera del pensiero unico liberista, hanno sfornato intere generazioni “assuefatte” al mantra che il mercato sappia davvero regolare tutto e che il fondamentalismo capitalista di Milton Friedman sia l’unico zenit proponibile. La decadenza di un Paese si misura innanzitutto sulla condizione sociale e culturale delle sue giovani generazioni. Risiede in quella fascia di età l’energia, la creatività, la possibilità di un futuro per l’intera società. Un Paese che non investe sui giovani sta segando il ramo su cui è seduto. E senza futuro, c’è solo disordine.

Da questo punto di vista, l’Italia si trova in una condizione drammatica, la cui ultima frontiera è il più massiccio processo di sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata dell'epoca recente. L’ultima trovata del fondamentalismo capitalista è proprio questa: l’introduzione di un nuovo ossimoro, il lavoro gratuito. In Italia questa accelerazione (governi Renzi e Gentiloni, con Pd sempre in prima fila nel togliere diritti trasformandoli in doveri, ora pure “gratuiti”) prende la forma dell’alternanza scuola- lavoro resa obbligatoria dalla “buona Scuola” di Matteo Renzi, dalla trasformazione del servizio civile da volontario in obbligatorio, dal lavoro volontario per i migranti (Legge Minniti-Orlando), nella trasformazione del sussidio di disoccupazione in “patto di servizio”.
Suggerisco su questi aspetti la lettura del preziosissimo libro collettaneo curato dalla nostra Francesca Coin Salari Rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuitoEd. Ombre Corte, con contributi, tra gli altri, di Marco Bascetta, Anna Curcio, Alessia Acquistapace, Cristina Morini, Andrea Fumagalli, Silvia Federici, Christian Marrazzi, Franco Berardi “Bifo”. «Il lavoro gratuito - afferma Francesca nel libro – è un moto di spontanea solidarietà del lavoro nel confronto del capitale, legittima la competizione al ribasso che acuisce la povertà e la diseguaglianza sociale».
E’ una brutta epoca, ecco tutto!
«Interrogare il passato non serve a niente. E’ al futuro che bisogna fare le domande. Senza il futuro il presente è solo disordine». In dialetto provenzale Chourmo, il titolo del romanzo di Izzo, significa la ciurma, i rematori delle galere. Negli anni ’90 a Marsiglia viene ripreso dalle band alternative per indicare gruppi di incontro, di supporto, di fan. Lo scopo era che la gente si “immischiasse”. Degli affari degli altri e viceversa. Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quariere o di una cité. Eri chourmo.
Nella stessa galera a remare.
Per uscirne fuori.
Insieme.
Fuori dal lavoro gratuito, dalla precarietà, dal disordine del non aver futuro, dall’economia a debito, fuori da tutti gli “ismi”.
Usciamo fuori. Tutti, insieme. Chourmo!
«Nasce "Democratica", dopo la rottamazione dell'"Unità". Il primo numero riporta una citazione di Schröder al congresso della Spd: "Venceremos!": una sintesi tra Inti-Illimani e social-liberismo».

il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)

L’ non c’è più, al suo posto arriva «Democratica». Questo è il nome della pubblicazione multimediale di otto pagine, in formato pdf, lanciata ieri dal palco del teatro Linear-Ciak di Milano. Sarà scaricabile dalla piattaforma «Bob» – quella che nelle intenzioni del Pd dovrebbe far concorrenza al «Rousseau» del Movimento 5 Stelle – e consultabile sui siti unità.tv e su quello del partito democratico. Ci lavoreranno sette giornalisti dell’Unità.tv. «» è concepito come un «quotidiano politico» e sarà pubblicata ogni giorno alle 13,30. Lo dirigerà il deputato Pd Andrea Romano, già con-direttore con Sergio Staino dello storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», già quotidiano di riferimento del Nazareno, ormai chiuso da settimane.
Sfogliando il pdf di «Democratica» diffuso il giorno prima dell’assemblea dei circoli Pd a Milano – la contro-piazza renziana di oggi contrapposta a piazza San Silvestro a Roma di Pisapia e scissionisti di Mdp (D’Alema, Bersani & Co.) – colpisce il sottotitolo: «». La citazione degli Inti-Illimani, in spagnolo, è di Gerhard Schröder al congresso della Spd a Dortmund. Il bannerino cambierà, forse, ogni giorno, ma colpisce l’incongruità della frase: allude a Podemos o ai socialisti spagnoli ora guidati dal rieletto Sanchez su un programma diverso dal social-liberismo per cui è ricordato ancora oggi Schröder?
L’ex cancelliere tedesco è ricordato per l’«agenda 2010» e le leggi Hartz (I-IV) che hanno creato i «mini-jobs». Quelle leggi che l’attuale candidato Spd alla cancelleria Martin Schulz intende cambiare per eccesso di precarietà e impoverimento. Schröder è noto per avere accettato, pochi mesi dopo la fine del mandato, la nomina di Gazprom a capo del consorzio Nord Stream AG, il gasdotto russo-tedesco sotto il Mar Baltico e per essere stato consulente per lo sviluppo dell’attività di Rothschild nell’Europa centrorientale. Non diversamente dall’ex presidente della Commissione Ue Barroso, già presidente non esecutivo e advisor di Goldman Sachs, Schröder è considerato un esempio di commistione tra affari pubblici e interessi privati. Ora è diventato anche il riferimento politico-ideale del primo numero del nuovo quotidiano del Pd.
Un contributo alla confusione politico-ideologica (attardato neoliberismo da Terza Via o allusiva socialdemocrazia laburista? Blair o Corbyn?) che sta attraversando il Pd dopo la batosta delle amministrative, ad appena due mesi dal congresso che ha reincoronato Renzi ma non ha fatto passare i maldipancia ai «tenori» del partito scottati dalla sconfitta al referendum del 4 dicembre. «Non mi hanno detto nulla, hanno fatto tutto di nascosto – ha reagito l’ex direttore de L’Unità Sergio Staino – mentre chiedevo incontri ai rappresentanti Pd, stavano preparando questa nuova iniziativa, proprio con colui che era il mio condirettore e che avevo allontanato perché rappresentava l’antigiornalismo in persona. Mi ha fatto difficoltà ogni volta che pubblicavo pezzi critici con Renzi». «Mi sarebbe piaciuto che Staino avesse detto “mi dispiace, ho fallito come direttore di un quotidiano di cui non sono riuscito ad aumentare le copie vendute”, invece di prendersela con gli altri, ma ognuno ha il suo stile» ha replicato Romano.
Schermaglie che trovano nel comunicato del comitato di redazione dell’ un chiaro riferimento polemico: il Pd e il suo segretario Renzi. «Il 30 luglio 2014 la prima pagina del nostro giornale recitava “Hanno ucciso l’Unità” – sostengono i giornalisti – Due anni dopo si svelano gli autori del delitto perfetto, quello di allora e quello di oggi». «Il giornale non è più nelle edicole perché gli azionisti di maggioranza Guido Stefanelli e Massimo Pessina fra i tanti non hanno saldato i debiti con lo stampatore, il Pd (che della società editrice del giornale è socio al 20%) lancia il suo nuovo quotidiano on line senza ancora aver fatto nulla di concreto per garantire ai dipendenti almeno il diritto agli ammortizzatori sociali».
I migranti usati come giustificazione per espandere i confini dell'occidente, per difendere i "nostri" interessi in «Africa [che] gioca un ruolo cruciale per l’economia mondiale».

il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)

Parlando la settimana scorsa da Bruxelles, il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha annunciato la nuova strategia italiana ed europea per mettere fine agli sbarchi dei migranti. «La questione non è impedire che partano dalla Libia, ma che entrino proprio in Libia. Solo così si farà un vero passo in avanti», ha spiegato Alfano al termine di una riunione del Ppe. Un drastico cambio di direzione rispetto alle politiche intraprese fino a oggi, soprattutto perché lascia intendere, seppure senza dirlo ufficialmente, che sia Roma che Bruxelles stanno ormai accantonando l’idea di coinvolgere il sempre più debole premier libico al Serraj nei tentativi di fermare alla partenza i barconi carichi di disperati che ogni giorno arrivano sulle coste italiane.
In questa ottica – blindare le frontiere meridionali della Libia – va inteso anche il vertice che si terrà alla Farnesina il prossimo 6 luglio tra l’Ue e alcuni paesi di transito dei migranti. Con Alfano ci saranno i ministri degli Esteri di Germania, Austria, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Malta ed Estonia (a cui da domani e fino a dicembre spetta il turno di presidenza Ue), oltre alla rappresentante della politica estera dell’Unione Federica Mogherini. Per l’Africa è prevista invece la partecipazione dei ministri degli Esteri di Libia, Niger, Etiopia e Sudan, insieme ad esponenti di livello dei governi di Tunisia, Egitto e Ciad. Tra gli obiettivi dell’incontro – al quale parteciperanno anche rappresentanti dell’Oim, dell’Unhcr e dell’Onu – rafforzare le frontiere esterne dell’Ue e siglare nuovi accordi per i rimpatri, valutando anche la possibilità di aprire campi profughi a sud dei confini libici. Naturalmente in cambio di finanziamenti e mezzi destinati alla formazione di guardie di frontiera e a progetti di sviluppo nei paesi africani interessati. «L’idea – spiega il viceministro degli Esteri Mario Giro – è quella di dialogare con i paesi di origine e di transito dei migranti. Con i primi puntiamo a realizzare accordi che facilitino i rimpatri consentendo anche l’ingresso in Europa di poliziotti che aiutino nelle identificazioni dei migranti. Con i secondi invece il discorso è diverso: lo scopo è rafforzare i governi locali per evitare che si creino situazioni come quella libica, ma anche rafforzare la lotta al terrorismo e la sicurezza dei confini. Inoltre valuteremo la possibilità di aprire campi nei quali trattenere i migranti».
L’Africa si conferma quindi sempre più al centro delle strategie europee di contrasto all’immigrazione. Al punto che terrà banco anche al prossimo G20 che si terrà ad Amburgo sotto la guida tedesca, nel quale la cancelliera Merkel spera di poter lanciare un «piano Marshal» che incentivi gli investimenti privati nel continente (progetto nel quale Berlino ha già investito 300 milioni di euro). «L’Africa gioca un ruolo cruciale per l’economia mondiale, sia per il suo potenziale che per i rischi che rappresenta», ha spiegato giorni fa in un’intervista il ministro delle finanze Wolfang Schauble.
Non si tratta certo delle uniche iniziative messe in campo e l’Italia è spesso capofila di questi interventi. Ad aprile sempre Alfano ha firmato con il ministro degli Esteri del Niger un accordo che destina 50 milioni di euro per il rafforzamento delle frontiere del paese africano (accordi simili, anche se per importi inferiori, starebbero per essere raggiunti anche con Mauritania, Tunisia, Burkina Faso, Guinea a Mali), mentre a maggio il ministro degli Interni Minniti ha siglato con Niger e Ciad un accordo per l’apertura di campi profughi nei due paesi. Sempre l’Italia, ma questa volta insieme a Portogallo, Spagna e Francia, partecipa inoltre a un progetto finanziato dall’Ue con 41,6 milioni di euro per la formazione in Mauritania, Mali, Ciad, Niger, Burkina Faso e Senegal di reparti di élite di polizia tra i cui compiti figura anche il contrasto all’immigrazione.
Infine i finanziamenti. Due giorni fa Consiglio e ’parlamento europeo hanno dato il via libera a un stanziamento di 3,3 miliardi di euro per un Fondo per lo sviluppo destinati a diventare 44 miliardi grazie al cosiddetto «effetto leva». I soldi serviranno a incentivare investimenti privati destinati a progetti di sviluppo che si spera possano creare posti di lavoro e sostenere le Pmi locali. In cambio dei finanziamenti, i paesi beneficiari devono impegnarsi nel rispetto dei diritti umani e garantire la trasparenza fiscale.
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