loader
menu
© 2024 Eddyburg
comune.info.net, 22 luglio 2017 (p.d.)

Che cos’è l’etica? Roberto Mancini, filosofo che insegna Etica pubblica e culture della sostenibilità, ha scritto: “Etica è il nome che diamo alla fedeltà al bene. Una disposizione interiore, un criterio di scelta, uno stile di comportamento e di azione” (Eclissi dell’etica, Altrapagina, ottobre 2011). Da dove viene questa felice prerogativa umana? Dal profondo della coscienza che ci fa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, istintivamente, affettivamente, emotivamente. Nei bambini – sono certo – è così. Ma poi intervengono serie infinite di avvenimenti storici, ideologie, convenienze… che ci fanno credere che il bene comune dipenda da qualcosa d’altro e di diverso dai nostri singoli e specifici comportamenti. Il senso etico e la comune morale cambiano nel tempo, nei luoghi, nei diversi contesti.

Più o meno nel XVII secolo prende corpo in Europa l’etica del nostro tempo: l’etica del capitalismo, l’etica dell’utilitarismo individualista che afferma: se ognuno bada al proprio tornaconto, l’intera società ne beneficerà. L’egoismo individuale diventa virtù pubblica. In fin dei conti (lo ha ripetuto qualche secolo più tardi la signora Margaret Thatcher, credendo di essere moderna) la società non esiste: esiste solo una somma di singoli individui. Il benessere di ciascuno di loro è il benessere dell’insieme della comunità. “Arricchirsi è glorioso”, ha detto Deng Xiao Ping all’inizio delle grandi modernizzazioni che hanno portato la Cina ad essere la più grange potenza industriale. L’economia è diventata la scienza sociale più importante, perché insegna come fare ad aumentare indefinitamente le capacità produttive degli individui rendendoli ingranaggi di una megamacchina votata alla massimizzazione dei risultati.
Già John Locke (Secondo Trattato sul governo, 1662) era stato chiarissimo: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità”. In queste poche righe sono contenuti tutti i fondamenti teorici del sistema e dell’etica del capitalismo. L’appropriazione privata di un bene è non solo giustificata, ma esaltata in forza della ragione di un maggiore rendimento economico del bene utilizzato, di qualsiasi materia prima e fattore di produzione. Le risorse naturali, i beni comuni, comprese le popolazioni indigene insediate, non hanno alcun valore in sé (diritto di esistenza) se non generano utilità economiche tali da poter competere con i sistemi di produzione di tipo capitalistico. L’imprenditore diventa la figura sociale principale, il civilizzatore (colui che sviluppa i ritrovati della tecnica) e il benefattore a cui l’intera comunità deve riconoscere diritti di proprietà sui mezzi di produzione e maggiori quote sui benefici ridistribuiti. Ci sono tutte le premesse per la travolgente espansione del sistema di produzione capitalistico ai danni di qualsiasi altra diversa forma di organizzazione sociale.
Qualcosa, però, è andato storto. Ad un certo punto i costi della crescita economica misurata in valori monetari sono diventati maggiori (specie in campo ambientale) dei benefici sociali percepiti. Il calcolo economico ha preso il sopravvento su ogni altro tipo di valutazione della qualità delle vite personali. La concorrenza si è trasformata in feroce competizione. Il denaro da mezzo è diventato fine. L’avidità ha desertificato i sentimenti compassionevoli. L’egoismo ha riempito la psiche… Potremmo continuare, ma la Laudato si’ di Bergoglio ha reso verità a molti discorsi sulla crisi ecologica sistemica del modello sociale di sviluppo oggi prevalente (leggi anche Il Cantico che non c’era, ndr).
Per cambiare rotta serve quindi un ritorno delle ragioni etiche su quelle meramente economiche (economiciste). Semplicemente, servirebbe un ritorno alla etica della responsabilità (Hans Jonas) da parte di tutti gli operatori economici. Sulla Corporate Social Responsability (responsabilità sociale dell’impresa) si sono scritte intere biblioteche (Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, 2005). Così come sui sistemi di certificazione eco lab e sui listini specializzati delle Borse degli strumenti finanziari “etici”. Ultime comparse le Benefit Corporate. Troppo spesso si tratta di strategie di marketing per mettere a frutto il “capitale di reputazione” delle società. Era già capitato con le tecnologie green washing. Ma i cambiamenti di cui c’è bisogno non possono essere solo di facciata. Abbiamo visto che nemmeno le forme giuridiche più democratiche, come in teoria sono le cooperative e le società non profit, sono sufficienti a garantire delle buone conduzioni aziendali. I cambiamenti devono penetrare fino nei sistemi di governo sostanziali delle imprese. È necessario un processo di auto responsabilizzazione e autodisciplinamento delle imprese che devono maturare l’esigenza di dotarsi volontariamente di propri codici e carte di valori. Per sé stesse, prima che per i “clienti”. Per vivere in pace con sé stessi, prima che per non danneggiare gli altri. Come lo sono i sistemi di autocertificazione partecipata dei produttori biologici o i Bilanci del bene comune della rete delle imprese che l’hanno adottato. Come lo sono le cooperative e le fondazioni di comunità che hanno scelto di integrarsi con le popolazioni insediate in quel particolare contesto territoriale, nel solco delle intuizioni di Adriano Olivetti.
Insomma non basta pensare al prodotto (che sia buono, sano, bello …) e nemmeno al processo (economia circolare, rifiuti zero, basso impatto ambientale …), serve un’etica dell’impresa che – a prescindere dalla stessa forma giuridica adottata – sia capace di introiettare stabilmente nei suoi comportamenti i principi morali del bene comune. Non è poi una grande scoperta se pensiamo che l’articolo 42 della nostra Costituzione tutela la proprietà (quel “colui che recinta un terreno…”) solo se svolge una funzione sociale. Cioè, utile a tutti, non solo agli stakeholders più potenti.


Articolo preparato per l’incontro Etica del prodotto ed etica d’impresa, promosso a Padova il 16 luglio 2017 per Eco & Equo.
«e». il manifesto

Mercoledì 25 luglio, il Senato ha intenzione di ratificare Il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), trattato di libero commercio fra Unione Europea e Canada. Una scorciatoia estiva volta a silenziare la discussione e le proteste. Che tuttavia si sono alzate anche questa volta con forza, partendo dal basso per arrivare a coinvolgere centinaia di enti locali e diverse regioni (Lazio, Lombardia, Liguria, Veneto, Puglia, Calabria, Marche e Valle d’Aosta).

Il Ceta, come tutti i trattati di libero scambio, viene propagandato come decisivo per la nostra economia e portatore di tutti i benefici derivanti dalla liberalizzazione. In realtà, esattamente come tutti i trattati di libero scambio, l’obiettivo è quello di accelerare nel passaggio dallo stato di diritto allo stato di mercato, mercificando i beni comuni e relegando diritti e democrazia a variabili dipendenti dai profitti e dagli interessi delle grandi multinazionali e delle lobby finanziare.

Messo in stand-by il TTIP, grazie alle proteste dei movimenti sociali dilagate tra le due sponde dell’Oceano Atlantico e al conseguente esplodere delle contraddizioni interne tra gli interessi dei suoi sostenitori, l’attenzione è stata dirottata sul Ceta, che, fra l’altro, rappresenta un possibile “cavallo di Troia” per by-passare lo stallo del Ttip.

Una volta ratificato l’accordo, infatti, ad una qualsiasi multinazionale statunitense, basterebbe aprire una sede legale in Canada per poterne usufruire a tutti gli effetti, a partire dall’arbitrato internazionale d’affari che permette alle imprese di fare causa ai governi se le leggi da questi approvate comportino limiti ai profitti preventivati.

Come per ogni trattato, la litania dei suoi sostenitori è tanto ripetitiva quanto falsa. A partire da quel “ce lo chiede l’Europa”, smentito categoricamente dalla Corte di Giustizia Europea che, in una recente sentenza riguardante un analogo accordo tra Ue e Singapore, ha affermato come gli accordi di libero scambio, investendo materie di competenza degli Stati, possono essere approvato solo sotto la responsabilità degli stessi.

Naturalmente, vengono sbandierati dati inverosimili sui benefici per le nostre esportazioni, sottacendo come il nostro tessuto economico sia costituito da piccole, medie e micro imprese e che solo lo 0,3% del totale delle imprese italiane ne trarrebbe beneficio, mentre la liberalizzazione e l’apertura del mercato interno aprirebbe le porte all’agrobusiness d’oltre Oceano, minacciando la produzione di qualità dei nostri territori.

Si sprecano infine le rassicurazioni sugli ogm, sul principio di precauzione, sulla tutela dei servizi pubblici, quando basta leggere il testo del trattato per comprendere la fondatezza di tutte le preoccupazioni messe in campo nelle mobilitazioni di questi mesi.

D’altronde, se il Ceta (come tutti i trattati gemelli) fosse foriero di tutti i benefici raccontati, perché non aprire una discussione ampia, pubblica, reticolare e partecipativa dentro la società, invece di provare a ratificarlo di soppiatto in una riunione parlamentare pre-vacanziera?

Per questo la Campagna Stop Ttip/Stop Ceta invita tutte e tutti a proseguire la mobilitazione e a fare ancora una volta pressione su tutti i senatori (https://stop-ttip-italia.net/) perché questo ennesimo scempio di democrazia non venga perpetrato.

Forse se chi ogni giorno discute su come ricostruire una sinistra o un’alternativa per questo Paese parlasse di Ceta, Ttip e Tisa, invece che misurare col righello il perimetro politicista dentro il quale mandare segnali, l’inversione di rotta sulle politiche liberiste smetterebbe di sembrare un miraggio.

A Gerusalemme, nel luogo sacro a più religioni, ciò che si oppone alla pace e fomenta lo scontro non è il contrasto tra le fedi, ma la lotta di Israele per imporre il proprio potere oltre ogni limite. Articoli di Michele Giorgio, Zvi Schuldiner e intervista a Uraib al Rintawi. il manifesto, 22 luglio 2017



TRE PALESTINESI UCCISI
DAL FUOCO DEI COLONI
E DAI PROIETTILI DELLA POLIZIA
di Michele Giorgio

«Gerusalemme. Scontri intorno alla Spianata delle moschee e in Cisgiordania. Oltre ai tre morti la Mezzaluna rossa parla di 390 feriti. E ora si parla di una nuova Intifada in risposta alle politiche di Netanyahu»

Quattro giovani palestinesi uccisi, 390 feriti o contusi. Per Gerusalemme Est è stata una delle giornate più insanguinate degli ultimi anni. Cariche della polizia israeliana contro manifestanti palestinesi, con fuoco ad altezza d’uomo, come quelle di ieri non si vedevano dal 2014, quando le tensioni e la rabbia innescate dall’omicidio del 15enne Mohammed Abu Khdeir, compiuto da estremisti israeliani per vendicare il sequestro e l’assassinio di tre adolescenti ebrei, per giorni trasformarono la zona araba di Gerusalemme Est in un campo di battaglia. Quanto si è visto ieri è stata la ovvia conseguenza della decisione del premier israeliano di non rimuovere – malgrado, secondo i media, il parere favorevole dei servizi di sicurezza – i metal detector installati ad alcuni degli ingressi della Spianata delle moschee di al Aqsa e della Roccia dopo l’attacco armato palestinese della scorsa settimana (due poliziotti uccisi).

Giorni di trattative frenetiche e di pressioni arabe su Washington per spingere Israele a revocare le nuove misure, gli scontri notturni tra palestinesi e polizia nei quartieri di Silwan e Issawiyeh, non hanno scosso in alcun modo Benyamin Netanyahu che ha confermato, «per ora», l’impiego dei metal detector e di altri sistemi di controllo di chi varca gli ingressi della Spianata. È stata una decisione politica anche se il premier spiega di aver fatto la sua scelta sulla base delle motivazioni offerte dalle forze dell’ordine. Una prova di forza in realtà, per dire ad arabi e palestinesi che Israele non cede alle pressioni e conferma le sue rivendicazioni sulla Spianata, che per gli ebrei è il Monte del Tempio. Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha parlato chiaro: «I metal detector rimarranno dove sono per settimane, per mesi se necessario». Per i palestinesi si tratta di una palese violazione di uno status quo che non assegna in alcun modo a Israele l’esclusiva della sicurezza e del controllo del sito religioso.
L’esercito israeliano ieri aveva predisposto dozzine di posti di blocco ovunque in Cisgiordania per fermare i palestinesi diretti a Gerusalemme, in risposta all’appello lanciato dalle autorità islamiche e dai partiti politici in difesa di al Aqsa. I militari hanno bloccato prima degli ingressi in città decine di autobus e automobili. La polizia da parte sua ha negato l’accesso all’area delle moschee ai palestinesi maschi con meno di 50 anni. Nonostante ciò migliaia di palestinesi residenti a Gerusalemme si sono diretti in massa verso la Spianata, con l’intenzione però di pregare in strada, in modo da non legittimare i metal detector installati da Israele. Ad attenderli c’erano circa 3mila poliziotti schierati prima dell’alba in tutta la zona. Già prima della preghiera erano scoppiati scontri davanti alla Porta di Damasco e alla Porta dei Leoni, la più vicina alla Spianata. Piano piano si sono diffusi in vari quartieri della zona araba di Gerusalemme, infine hanno raggiunto Betlemme, Hebron, Qalandiya e altri centri abitati della Cisgiordania. La polizia a Gerusalemme ha prima lanciato granate assordati e lacrimogeni, poi ha aperto il fuoco. Filmati che girano in rete mostrano la violenza delle cariche dei poliziotti in assetto antisommossa e appoggiati da automezzi pesanti. Si sono riviste scene dell’Intifada e degli scontri del 2014 in una città che si vorrebbe “pacificata” sotto il controllo totale di Israele. Non a caso il ministero degli esteri israeliano ieri diffondeva tweet per invitare i turisti a visitare la città vecchia perché era tutto «sotto controllo».
La prima vittima, Mohammad Sharaf, però non è stata colpita dalla polizia nei pressi della Spianata ma nel quartiere di Ras al-Amud, di fronte alla città vecchia, da spadi un “civile” israeliano – probabilmente un abitante della colonia ebraica costruita in quella zona qualche anno fa dal miliardario australiano Mosckoviz – in circostanze che ieri sera non erano state ancora chiarite. Un altro giovane palestinese, Muhammad Abu Ghanam, ferito al Monte degli Ulivi durante gli scontri con la polizia, si è spento all’ospedale Makassed. Entrambi sono stati seppelliti subito dalle famiglie timorose che la polizia potesse confiscare i loro corpi. Gli agenti in ogni caso non hanno mancato di lanciarsi in blitz negli ospedali per arrestare i feriti, 390 secondo fonti della Mezzaluna rossa: la maggior parte intossicati dai gas lacrimogeni, 38 a Gerusalemme e 66 in Cisgiordania da pallottole vere e proiettili di gomma. Tra i feriti ci sono anche cinque gli agenti di polizia israeliani. Il terzo palestinese ucciso, Muhammad Khalaf, è stato colpito durante una manifestazione ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme che si trova dietro il Muro costruito da Israele intorno alla città. Khalaf era un attivista del Fronte democratico per la liberazione della Palestina.
Una notte gonfia di dolore e rabbia è scesa ieri sera su Gerusalemme Est. L’inizio di una nuova Intifada non è più lontano.

GUIDA AI CONFUSI
SU ULTRADESTRA E ISLAMOFOBIA
di Zvi Schuldiner

«Il gioco di Tel Aviv: la questione è non il metal detector sulla Spianata o la telecamera di sorveglianza. Il governo Netanyahu sfrutta l’apatia generale e l’islamofobia europea per proseguire con l’occupazione»
Che cosa sta davvero accadendo nella discussa e sacra Spianata delle Moschee – per i musulmani – o Monte del Tempio – per gli israeliani?
Mentre scrivo queste righe, in questo venerdì problematico e pieno di tensione, sono già tre i palestinesi morti, oltre a due feriti gravi e vari altri feriti leggeri. È il bilancio degli scontri registrati durante le preghiere del venerdì, stavolta recitate all’esterno della Spianata delle Moschee.
All’inizio della guerra del 1967, le truppe israeliane conquistano la città vecchia di Gerusalemme. Un soldato patriota ed entusiasta sale sul tetto della sacra Moschea di Al Aqsa e issa la bandiera israeliana. Il ministro della difesa Moshe Dayan ordina di toglierla immediatamente; capisce bene che si tratta di un affronto a uno dei luoghi più sacri per i musulmani.
Dayan, insomma, avviava un’occupazione dai risvolti drammatici, da un lato con pugno di ferro ma dall’altro con passi pragmatici e concilianti. I vari governi israeliani succedutisi nel tempo hanno sempre mostrato di rendersi conto che la Spianata delle Moschee era un luogo potenzialmente esplosivo; innescarlo poteva avere conseguenze terribili.

Dunque, badarono a frenare i fondamentalisti ebrei che sognavano il ripristino del tempio, elemento centrale delle concezioni messianiche – il tempio la posto delle moschee. Ma nel 1996, poco dopo essere diventato primo ministro, Benjamin Netaniahu, ebbro del successo elettorale, ordina di aprire un tunnel che porta alla Spianata.

Esplodono gli scontri: cento palestinesi e 17 soldati israeliani rimangono uccisi. Il premier è costretto a fare alcune concessioni ad Arafat rispetto a Hebron. Nel 2000, il premier Ehud Barak autorizza la visita di Ariel Sharon alla Spianata e la provocazione innesca la seconda Intifada. Nel frattempo altri incidenti provocano non poche vittime.

La settimana scorsa, tre israeliani, arabi palestinesi della città di Um El Fahem, imbevuti di ideologia fondamentalista (oppure no) portano nottetempo armi nella moschea e il giorno seguente attaccano i poliziotti in servizio, uccidendone due; gli aggressori sono a loro volta uccisi.

Come se non bastasse, i tre poliziotti morti sono drusi; un fatto che aggiunge benzina al fuoco delle tensioni fra arabi israeliani e drusi israeliani.

L’impulsivo ministro della polizia Gilard Ardan, schierato all’estrema destra, è il nuovo eroe. Più veloce di qualunque pensiero – va detto che l’attuale governo israeliano si distingue per l’incapacità di riflettere – induce Netanyahu a compiere passi che aggravano la tensione in un luogo pericoloso come la dinamite.

Senza consultare i giordani – con i quali, seppure in modo semiufficiale, vengono in genere prese le decisioni rispetto alla Spianata –, il governo israeliano dichiara il divieto di accesso alle moschee per due giorni, «per ragioni di sicurezza» e fa disporre telecamere di sorveglianza e metal detector, destinati a controllare e a bloccare l’ingresso di altre armi.

I leader religiosi musulmani non accettano queste apparecchiature, sostenendo che si tratta di una violazione dello status quo deciso fra le parti – israeliani, palestinesi, giordani. La polizia – grazie al suo problematico ministro – sostiene che si tratta di un passo minimo necessario per questioni di sicurezza e che ci sono telecamere sul Muro del Pianto, a cento metri di distanza, come negli aeroporti, nei supermercati e via dicendo.
Ma l’esercito israeliano e i servizi segreti fanno notare che, benché in effetti le apparecchiature di sicurezza siano in uso in molti luoghi, nel caso specifico sarebbe raccomandabile rimuoverle perché provocano tensioni e potrebbero far deflagrare nuovamente la situazione. Insomma, suggeriscono una visione strategica e chiedono al primo ministro di trovare la formula per una «ritirata onorevole».
Sabato notte il premier va in Francia, baci e abbracci con il giovane presidente; poi si reca da amici veri, in Ungheria. Netanyahu si sente a proprio agio con gli ultrà di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia.

Beh, certo, Orbán ha ordinato una campagna dai tratti antisemiti contro quell’orribile ebreo, George Soros, ma Soros per Netanyahu è una vergogna, un vero nemico che appoggia gruppi antiisraeliani, come ad esempio le organizzazioni per i diritti umani in Israele.

Ebbene, l’Europa deve capire che Israele è la frontiera che bloccherà la barbarie musulmana; invece di criticare lo Stato ebraico, gli europei devono rendersi conto che è una ricetta per la vittoria, altrimenti saranno sconfitti. In soldoni, è questo l’ammonimento che il grande premier dà agli statisti europei che non capiscono troppo bene la situazione laggiù.

Poi Netanyahu torna in patria e si trova di fronte a un grave dilemma. L’ultradestra spiega che la discussione non verte intorno alle telecamere e ai metal detector; piuttosto, è in gioco la sovranità del paese e il governo deve sottolineare con forza che Israele è sovrana anche sulla Spianata, senza arrendersi alle pressioni dall’estero o alla minaccia di situazioni esplosive.

Netanyahu non può mostrarsi meno radicale dei suoi alleati di destra e va avanti nella direzione suggerita dalla polizia.
Un morto, due, venti? Non ha importanza. Il punto è come fare per impedire qualunque accordo suscettibile di portare a una pace israelo-palestinese. Stavamo dimenticando l’annuncio del ministro dell’habitat che ha un magnifico programma: costruire case secondo piani che dividerebbero ulteriormente la Cisgiordania occupata.

Grazie all’apatia generale e all’islamofobia europea, il governo di Israele potrà proseguire con l’occupazione. Una politica che rende la pace impossibile.

LA SPARTIZIONE DI AL AQSA
È UN PROCESSO GIÀ IN ATTO
intervista di Michele Giorgio

«Intervista. Parla l'analista Uraib al Rintawi: il governo israeliano punta a dividere la Spianata delle moschee ma le sue politiche aggressive a Gerusalemme frenano la "normalizzazione" con i Paesi arabi»

Sulle ragioni delle proteste palestinesi e le implicazioni in Medio Oriente della crisi a Gerusalemme e delle politiche del governo Netanyahu, abbiamo intervistato l’analista arabo ed editoralista del quotidiano al Dustour Uraib al Rintawi.

L
e nuove misure israeliane per la Spianata delle moschee hanno innescato proteste e manifestazioni a Gerusalemme che non si vedevano dal 2014.
«L’escalation era inevitabile. Ed è destinata ad aggravarsi se il governo Netanyahu non revocherà subito le misure che ha annunciato per la Spianata della moschea di al Aqsa e non farà rimuovere subito i metal detector installare sul sito religioso. I palestinesi sanno che sul piatto c’è la difesa dello status quo per la Spianata delle moschee che è in vigore da 50 anni. Il fatto che Netanyahu descriva come temporanee le misure varato è un altro campanello d’allarme perché tutto ciò che per Israele ha un carattere transitorio nei Territori palestinesi occupati poi si è rivela permanente«.

I palestinesi denunciano un tentativo di Israele di creare sulla Spianata delle moschee una situazione simile a quella della Tomba dei Patriarchi ad Hebron, ossia la spartizione dell’area in cui sorgono le moschee di Al Aqsa e della Roccia di Gerusalemme considerata dall’Ebraismo il Monte del biblico Tempio.«Non si tratta di un tentativo ma di un piano a mio avviso molto concreto e in atto. La storia insegna come l’applicazione di presunte misure di sicurezza da parte Israele si sia poi rivelata il percorso per realizzare progetti politici. I segnali sono chiari, è sufficiente osservare in quali aree sono stati installati i metal detector sulla Spianata per rendersi conto, che di fatto, tracciano una bozza di divisione del sito. Ed è significativo che, nel frattempo, nonostante la tensione, sia garantito l’accesso sulla Spianata ai turisti israeliani che in realtà non sono turisti ma estremisti religiosi che spingono per la ricostruzione del Tempio ebraico, coloni ed esponenti della destra radicale. L’attacco armato della scorsa settimana in cui sono stati uccisi due poliziotti ha fornito alle autorità israeliane un pretesto per avviare la realizzazione di piani che erano nel cassetto da tempo».

Come valuta la reazione della Giordania, paese che si proclama custode di al Aqsa. Qualcuno la considera fiacca.
«Non sono d’accordo. La Giordania sul piano diplomatico sta facendo quanto è nei suoi poteri per persuadere gli Usa, l’Europa e altri Paesi a fare il possibile per imporre la retromarcia a Netanyahu. L’importanza della Spianata e il mantenimento dello status quo all’interno della mura antiche di Gerusalemme restano un punto fermo nella politica del Regno. A ciò si aggiunge il fatto che il governo deve tenere conto anche dei sentimenti popolari. Oggi (ieri per chi legge, ndr) sono scesi strada ad Amman e in altre città migliaia di giordani per protestare contro Israele e in difesa delle moschee di Gerusalemme. Non si vedevano dimostrazioni tanto ampie e le autorità ne devono tenere conto. E non si può dimenticare che la Giordania ospita milioni di palestinesi».
I passi fatti da Netanyahu avranno un impatto negativo sulle relazioni dietro le quinte che Israele ha allacciato con alcuni Paesi arabi, a cominciare dall’Arabia saudita.
«È inevitabile. Persino quei Paesi arabi che con entusiasmo procedono verso la normalizzazione dei rapporti con Israele saranno costretti a frenare, sotto l’onda di sdegno che attraversa le loro opinioni pubbliche. Senza dimenticare che quanto accade in questi giorni a Gerusalemme rafforza gli islamisti più radicali che accusano i loro governi di collaborazionismo con Israele. Per chi governa nel Golfo è una brutta notizia vedere i palestinesi in strada a manifestare per i loro diritti e contro le politiche di Israele. Vuol dire che dovranno mettere in frigorifero i loro piani».

LE CHIESE CRISTIANE
A DIFESA DEI LUOGHI DELL'ISLAM
di red.

«Gerusalemme. I patriarchi e gli arcivescovi delle chiese della Città Santa chiedono il rispetto di al-Aqsa e il diritto dei musulmani alla preghiera. E ieri, a pregare fuori dalla Spianata, accanto ai fedeli musulmani anche palestinesi cristiani»

«Noi, capi delle chiese di Gerusalemme, esprimiamo la nostra grave preoccupazione per la recente escalation di sviluppi violenti intorno a Haram ash-Sharif [la Spianata delle Moschee] e il nostro dolore per la perdita di vite umane». Così inizia il comunicato congiunto delle chiese cristiane della Città Santa, firmato dai patriarcati greco-ortodosso, cattolico, armeno ortodosso, copto, siriano ortodosso, etiope ortodosso, maronita, luterano evangelico, greco-melchita-cattolico, siriano cattolico e armeno cattolico e dalla Custodia di Terra Santa e la Chiesa episcopale di Gerusalemme e Medio Oriente

Una presa di posizione importante, che si unisce alle immagini che ieri giungevano da Gerusalemme: palestinesi cristiani che pregavano accanto ai musulmani fuori dalla Spianata. «Siamo preoccupati per ogni cambiamento dello status quo della Moschea di al-Aqsa e della Città Santa di Gerusalemme – scrivono i patriarchi e gli arcivescovi – Ogni minaccia alla sua integrità potrebbe condurre facilmente a serie e imprevedibili conseguenze. Riteniamo che la custodia del regno hashemita di Giordania sulla Moschea di al-Aqsa e sui luoghi sacri di Gerusalemme e della Terra Santa garantisca il diritto di tutti i musulmani ad accedere liberamente e a pregare ad al-Aqsa, secondo quanto previsto dallo status quo».

«la Repubblica, 20 luglio 2017 (c.m.c)

L’Italia appare come il secondo Paese più razzista d’Europa. È anche il Paese più islamofobo. Del resto, secondo i dati Istat, il 40% della popolazione ritiene che le religioni “altre” da quella maggioritaria siano un pericolo e che andrebbero contenute, tanto più nel caso della religione musulmana. Del sessismo pervasivo fino alla violenza abbiamo, ahimè, documentazione quasi quotidiana. Un po’ più del 50% degli 11-17enni è oggetto di qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di coetanei almeno una volta al mese.

Non si salvano neppure le persone con disabilità, che non solo devono abituarsi a sentire nominare la propria disabilità come forma di insulto corrente, ma sono anche oggetto di aggressioni e violenze più spesso delle persone normodotate. In particolare, i minori con disabilità corrono un rischio da tre a quattro volte maggiore dei coetanei non disabili di essere trascurati dai genitori, vivere in istituto, subire violenze fisiche o sessuali e di non venir presi in considerazione da servizi e agenzie che si occupano della protezione dei minori.

Tra le violenze che si possono effettuare o subire quelle verbali non vanno sottovalutate. «Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole. Di queste parole dell’odio e dell’intolleranza il catalogo può essere forse istruttivo ma a tratti è ripugnante ». Così scriveva Tullio De Mauro nel piccolo dizionario italiano delle parole dell’odio — parole per ferire — preparato per il rapporto sull’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e i fenomeni d’odio curato dalla Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente della Camera Laura Boldrini.

In una raccomandazione del Consiglio d’Europa il discorso dell’odio è stato definito come l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo. Chiunque può diventare oggetto di questa forma di odio e per i motivi più futili: un insegnante che boccia o dà un brutto voto, un automobilista che non cede il passo, un giovane che guarda la ragazza di un altro, una ministra che fa una riforma scomoda, un personaggio pubblico che esprime un parere da cui si dissente. Ma se si appartiene a particolari gruppi sociali, se si condividono caratteri somatici o culturali minoritari nella società in cui si vive si può essere oggetto di insulto, denigrazione e incitamento all’odio solo per questo, a prescindere da ciò che si è, si è fatto e si fa.

In questi casi il discorso dell’odio si innesta spesso su fenomeni di stereotipizzazione e discriminazione. Per questo la definizione sopra ricordata comprende anche le forme che si giustificano su motivi quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale. È proprio dell’incitamento all’odio per motivi di appartenenza a un gruppo identificato come inferiore, moralmente pericoloso, nemico o semplicemente debole che si occupa il Rapporto della Commissione Jo Cox che viene presentato oggi alla Camera. Esso documenta come essere donne, omosessuali, transessuali, migranti, rom o sinti, islamici, ebrei, portatori di disabilità esponga al rischio di essere non solo discriminati sul lavoro a prescindere dalle proprie competenze, o nell’accesso all’abitazione, ma oggetto di insulti, di accuse, a seconda dei casi, di pericolosità morale o politica, di vere e proprie forme di linciaggio.

Le persone che ne sono vittime spariscono con la loro individualità, storia, esperienza, divenendo parte indistinta di un gruppo negativo e stereotipato. Il linguaggio dell’odio si alimenta, infatti, di superficialità e ignoranza. A esempio, un quarto della popolazione italiana ritiene che i rom e sinti presenti in Italia — il gruppo in assoluto più disprezzato e più discriminato — siano tra uno e due milioni, a fronte di una consistenza effettiva stimata tra 120 e 180 mila. Analogamente si ritiene che siano tutti nomadi, laddove la maggioranza è stanziale.

Queste percezioni sbagliate sono a loro volta rafforzate da una informazione che enfatizza avvenimenti e comportamenti fuori dalla norma e da politiche che si definiscono emergenziali, evocando l’immagine di un fenomeno fuori controllo e potenzialmente catastrofico. È successo con “l’emergenza nomadi” e sta succedendo ora con “l’emergenza migranti”.
Nella società contemporanea, il linguaggio dell’odio non si affida più solo alla comunicazione faccia a faccia o tramite la carta stampata. Trova un potente mezzo di diffusione sui social media, caricandosi di una forza distruttiva troppo spesso fuori controllo. I dati disponibili segnalano che sono le donne le maggiori destinatarie del discorso d’odio online, seguite a distanza da omosessuali e immigrati.

Nelle sue raccomandazioni la Commissione insiste sull’azione di autocontrollo che dovrebbero esercitare i media, non solo rispetto al linguaggio che utilizzano, ma anche rispetto alla qualità della informazione. Lo stesso autocontrollo dovrebbe essere esercitato da chi ha un ruolo pubblico, a cominciare dai politici. Altrettanto, se non più importante è l’opera di formazione che dovrebbe essere messa in atto dalle scuole, per educare al rispetto degli altri nelle loro molteplici diversità e all’uso critico delle informazioni e degli strumenti di comunicazione. Sono necessarie anche norme punitive per chi incita all’odio e al dileggio. Ma senza una azione di prevenzione rischiano di rimanere inefficaci.

o», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche». il manifesto, 20 luglio 2017

Una nuova forza di sinistra potrà nascere se saprà interpretare questo tempo, dimostrando di poter proporre un mutamento reale allo stato di cose presenti. Sarà giudicata – ed eventualmente votata – in ragione della sua capacità di definire un orizzonte ideale. Un orizzonte «sociale», se non «socialista»; «comune» se non «comunista», che si allontani dall’egoismo populista dominante.

Non sarà facile. Anzitutto, perché la paura del nuovo e le incertezze del presente portano molti – anche a sinistra – a limitarsi a resistere, adottando magari strategie di pura sopravvivenza. Ma v’è un’altra ragione che rende complesso impegnarsi per il cambiamento: esso non sarà immediato. Chi pensa di riscrivere la storia dell’ultimo quarantennio in un giorno (magari quello delle prossime elezioni) non potrà che andare incontro all’ennesima delusione.

Meglio attrezzarsi per una lunga marcia.

È questa la ragione per la quale dovremmo misurarci sulle cose, sulle idee, sulle prospettive e non invece sulle persone, sulle liste, sulle biografie personali. Ciò di cui abbiamo bisogno è un «pensiero lungo», non abbiamo invece nessuna necessità di alchimie politiche.

La discussione non è iniziata bene. Il processo di definizione di una (nuova) soggettività politica mi sembra eccessivamente condizionato dai rapporti e dagli equilibri di vertice. Dei tanti piccoli vertici cui è divisa la galassia frantumata della sinistra.

Temo che limitandoci ad unire sigle e persone non andremo molto lontano. Anzi, alla fine non uniremo un bel nulla: le divisioni del passato, le incomprensioni del presente lo impediranno. Dovremmo prenderci tutti un impegno: non parliamo più di persone, ma solo di idee. Chiediamo a tutti di confrontarsi su queste, quale che sia il loro passato, per verificare se c’è un possibile futuro in comune.

Non si parte da zero. Intanto perché la storia della sinistra è certamente in una fase di confusione, ma ha anche radici profonde. Se la politica sembra aver abbandonato le ragioni della sinistra, non per questo i principi di eguaglianza, libertà e fraternità che l’innervano sono svaniti. Non basta, ovviamente, il richiamo ai grandi valori, è necessario riuscire a declinarli, renderli proposta politica concreta.

In quest’opera di traduzione di nostri ideali in un programma d’azione collettivo è alla realtà della storia che bisogna guardare. Alla Costituzione repubblicana, innanzitutto. Non certo perché la nostra «parte» (la sinistra) si possa appropriare del «tutto» (la Costituzione), ma per la semplice ragione che è dalla costituzione che si può ripartire per invertire la rotta.

Lo dimostra il recente passato. Vi sono stati due fatti di assoluto rilievo costituzionale che hanno segnalato la necessità del mutamento.

Da un lato, il rifiuto popolare della riforma costituzionale proposta del governo, dall’altro la doppia pronuncia dei giudici della Consulta sull’incostituzionalità delle leggi elettorali. Una scossa tellurica, che ha prodotto due vistose crepe nell’assetto consolidato dei poteri.

Lacerazioni che in molti – anche a sinistra – vorrebbero rapidamente ricomporre, per poi riprendere la stessa strada che ci ha condotto sin qui, eliminando solo gli eccessi che hanno determinato l’incidente di percorso. Così, gli inviti a non abbandonare il modello di democrazia maggioritaria si sprecano.

Un nuovo soggetto politico di sinistra dovrebbe, invece, assumere come prioritario il compito di dare seguito coerente alla rottura, cambiando finalmente strada, promuovendo un diverso modello di democrazia costituzionale.

Se, dunque, è la democrazia la vera posta in gioco (la sua qualità, la materialità delle sue forme istituzionali e sociali) non ci si potrà limitare a definire contenuti minimi o di sola convenienza elettorale, miope saprebbe guardare ai pur legittimi interessi delle attuali forze politiche organizzate. Bisogna essere più ambiziosi e operare in base ai valori, scegliere la direzione e poi cominciare a risalire la corrente.

Ma quale sarebbe in concreto il modello di democrazia attorno al quale costruire la soggettività della sinistra politica in Italia? Tre espressioni la potrebbero qualificare: «pluralismo», «partecipazione», «diritti fondamentali».

È il pluralismo che legittima la rivendicazione di un sistema elettorale tendenzialmente proporzionale, non invece una discussione basata sul calcolo di convenienza delle diverse forze politiche. È la partecipazione che impone di ripensare le forme dell’associazionismo politico e sociale, abbandonando le incomprensibili lotte personali che stanno dilaniando i partiti attuali.

Sono, infine, i diritti fondamentali che ci indicano da che parte stare: da quella di chi ne è privo. Il costituzionalismo democratico moderno nasce per dare un fondamento giuridico alla lotta per l’emancipazione dei soggetti storici concreti. La sinistra che è oggi alla ricerca di sé stessa potrebbe ripartire da una coraggiosa politica di salvaguardia dei diritti fondamentali e dalla indicazione dei correlati doveri di solidarietà.

Pensare in grande, tornare ai fondamentali: forse è questa la strada maestra per ritrovare il popolo della sinistra, che, alla fine, potrebbe pure convincersi che valga la pena tornare a votare.

Una forte invettiva contro i mille silenzi dei mass media sulla giungla di delitti che giorno dopo giorno vengono compiuti in Africa. I nostri posteri ci ricorderanno come noi oggi ricordiamo i nazisti?,

FNSI (Federazione italiana stampa italiana), 18 luglio 2017 (m.c.g.)

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani.

Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)

È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.

È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai. È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.

È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.

È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.

Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.

Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).

Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

La politica in mano agli psicoanalisti : a Napoli si direbbe "'a pazziella 'n mano 'e criature" se fossero tutti come Recalcati.

il manifesto, 19 luglio 2017, con postilla

Lo psicoanalista Massimo Recalcati (la Repubblica, 17 luglio), si occupa delle ragioni che fanno covare un “odio” smisurato per il segretario Pd e dei perché della mancata elaborazione del “lutto” che porta la sinistra ad essere rancorosa.

Si direbbe una difesa di parte, troppo appassionata per essere oggettiva e poco credibile per le categorie analitiche utilizzate. Si sa che Matteo Renzi, come segretario del Pd, e Recalcati, come ideatore della Scuola quadri del partito, si sono scelti per vincere. Il segretario, sempre più solo al comando, aspira ad essere eletto Capo del governo nazionale. Lo psicoanalista, sempre più criticato dai suoi stessi colleghi, mira a divenire il Grande guru della psico-politica italiana. Messa così c’è poco da sperare per le sorti del Paese. Renzi e Recalcati come due maschere della scena politica e psicoanalitica italiana.

Vedono bruciare l’Italia e incuranti si lodano fino all’incanto. Forse, non percepiscono che con il loro fare e dire stanno accelerando la precipitazione nel baratro. Quello aperto dal rifiuto degli italiani della politica renziana e dall’assenteismo elettorale dei cittadini.

Questi fattori critici sono in continua crescita e già in maggioranza nel Paese. Si potrebbe dire che lo stato comatoso di Renzi non trova nei rimedi del suo psicoanalista una possibilità di rianimazione, con molte probabilità ci penserà Berlusconi.

Il povero Pd si trova sbattuto da ogni lato, ormai esangue si vede incitato dal suo segretario ad andare Avanti, titolo del libro di Renzi. Un documento pieno dei segni e sintomi dell’autore, pagine intrise dei propri fantasmi senza mai trovare una parola significante per la sinistra e i democratici che non vogliono rassegnarsi a consegnare il Paese alla destra.

Come, d’altra parte, lo stesso Recalcati non trova una categoria freudiana o lacaniana credibile che lo possa aiutare ad analizzare la tragicommedia del renzismo e più in generale del Pd e del radicalismo scissionista. Parla di odio e di lutto per descrivere lo stato d’irresponsabilità e di lacerazione in cui si sono ricacciati dirigenti storici e nuovi della sinistra. Parla del Male e del Bene come concetti per risolvere il conflitto del Novecento che attanaglia ancora il socialismo italiano.

Recalcati, sempre convinto che le teorie della psicoanalisi europea siano universali, non avverte la necessità di adottare un diverso paradigma proprio del campo che si vuole esplorare, in questo caso delle scienze della politica.

L’odio che sta investendo il segretario del Pd non risponde a logiche arcaiche o pulsionali dei suoi gufi. E’ semplicemente il risultato di una personalizzazione dello scontro politico voluta da Renzi prima con la scanzonata rottamazione e poi con la pretesa di fedeltà. Queste sì che sono categorie pre-politiche.

I nodi reali e insoluti nella sinistra non sono quelli dell’odio viscerale e del lutto mancato. Sono, invece, quei nodi fatti di fili storici che continuano a intricarsi nella contrapposizione irrisolta tra egemonia e pluralismo, tra centralismo e democrazia, tra governo e opposizione. Forse, su queste categorie proprie della politica si riesce a capire perché i movimenti del comunismo, del socialismo e del riformismo nella loro evoluzione non sono mai riusciti a darsi una identità unitaria e una pratica di unione.

Questa miopia di visione è quella che per esempio non ha permesso di fondere i Ds e la Margherita, la famosa fusione a freddo. In realtà Renzi e D’Alema, come i loro simili, sono vittime del culto personale e del potere egemonico. Idea sconfitta definitivamente dalla caduta del muro di Berlino e mai sostituita con quella più rivoluzionaria “uniti per unire”.

Un’altra parola vincente emersa dalla tragedia del Novecento è “democrazia” intesa come senso del limite, delle differenze, dell’inclusione, del pluralismo, della responsabilità. Solo con questi “nuovi” connotati la sinistra può raggiungere l’unità e costruire una democrazia governante, capace di realizzare il bene comune (la sinistra cattolica) e l’interesse collettivo (la sinistra riformista).

C’è ancora molta strada per una sintesi vincente, sicuramente non servono inesistenti scorciatoie, inappropriate letture e illusori rimedi.

A noi, che siamo ingenui, per essere contrari a Matteo Renzi è bastato comprendere, fin da quando organizzò le Leopolde che era, meglio di Berlusconi, l'uomo del neoliberismo e della Trilateral per l'Italia, e poi renderci via via che il suo sistema di potere era basato sul ricatto, la corruzione, l'impadronimento di fondi pubblici, la feudalizzazione delle istituzioni (e.s.).
«I leader europei stanno cercando di distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero problema: la mancanza di canali sicuri e legali per le persone che vogliono raggiungere l’Europa».

Internazionale online, 18 luglio 2017 (p.d.)

Tra un’ora, Stephane Broch, il vicecoordinatore delle operazioni di soccorso salirà sul ponte di comando della nave Aquarius con un binocolo e comincerà il primo turno di avvistamento. La luce è nitida, il mare leggermente increspato, ci aspettano tre giorni di bel tempo. Intanto la squadra di Sos Méditerranée è a prua: Rocco, Tanguy, Charlie sistemano i giubbotti di salvataggio arancioni dentro dei grossi sacchi di rafia bianca. Mentre Alain, Alessandro e Svenja gonfiano i gommoni. Bananas, li chiamano. Sono lunghi galleggianti arancioni che vengono lanciati in acqua se qualcuno finisce in mare. “Anche se abbiamo fatto decine, centinaia di soccorsi, ogni volta che saltiamo dentro un gommone per cominciare un’operazione ci prende paura. Nessun soccorso è uguale al precedente, ogni volta è diverso. La paura ci aiuta a tenere l’attenzione alta e a non fare sbagli”, spiega Rocco Aiello, uno dei soccorritori.
Sotto coperta Craig Spencer di Medici senza frontiere tiene una breve lezione per i giornalisti sulla rianimazione cardiopolmonare. “Ci succede così frequentemente che le persone che soccorriamo perdano coscienza che abbiamo deciso che tutti a bordo debbano saper fare la rianimazione, perché in questi casi il tempo è tutto: la tempestività è inversamente proporzionale alla mortalità”, spiega Spencer. Piegato su un manichino di gomma steso a terra, il medico americano mostra tutte le fasi del soccorso: “Dovete prima accertarvi che la persona non risponda agli stimoli sia verbali sia fisici e che la situazione non comporti pericolo. Poi dovete chiamare i medici con la radio di bordo. Urlate: "Medical emergency, medical emergency" e il punto della nave in cui vi trovate. Quindi dovete controllare il respiro della persona e in caso sia assente procedete con la manovra di rianimazione cardiopolmonare”. Cento pressioni al minuto, intense, alla base dello sterno, con entrambe le mani una sopra all’altra, ginocchia ben piantate per terra. “Per darvi il ritmo pensate alla canzone Stain’ alive dei Bee Gees, aiuta!”.
Un codice di condotta per le ong
“Quando arriveremo a 25 miglia dalle coste libiche, ridurremo la nostra velocità di crociera e cominceremo a pattugliare quella che viene chiamata in gergo Sar zone (area di ricerca e soccorso)”, afferma Hauke Mack, il coordinatore di Sos Méditerranée sull’Aquarius. È seduto al computer nella sua cabina e controlla le condizioni del tempo. Vive ad Amburgo e ha lavorato nel settore navale per tutta la vita, fino a quando ha letto sul giornale che Sos Méditerranée avrebbe cominciato a salvare i migranti nel Mediterraneo e ha deciso di mettere a disposizione del progetto le sue competenze. “Io mi sento europeo, anche se so di avere molte identità: sono tedesco, del nord della Germania. Sono molto critico verso l’Unione europea, ma penso che sia stata un grande passo in avanti per tutti, perché ha garantito soprattutto la pace. Questo le persone tendono a dimenticarselo”.
Come previsto dal vertice dei ministri dell’interno europei che si è svolto a Tallinn, il 18 luglio le organizzazioni non governative hanno ricevuto dal governo italiano un codice di condotta in undici punti, e sono state convocate al ministero dell’interno a Roma il 25 luglio per discutere delle nuove norme. Se non lo dovessero sottoscrivere, il governo potrebbe impedire loro di continuare a operare nel Mediterraneo centrale. Le nuove norme prevedono tra le altre cose che le ong non entrino nelle acque territoriali libiche, che non spengano mai i transponder delle navi e che facciano salire a bordo su richiesta delle autorità degli agenti della polizia giudiziaria contro il traffico di esseri umani.
“La maggior parte di queste norme sono inutili”, afferma Mack. “Perché sono quelle già previste dalla legge che rispettiamo: non entriamo nelle acque territoriali libiche, non spegniamo i transponder. Quello che facciamo nel Mediterraneo è conforme alla legge: soccorriamo imbarcazioni in difficoltà che è un obbligo per qualsiasi nave”. Tuttavia c’è un punto problematico nel codice di condotta, quello che prevede che la polizia salga a bordo delle navi umanitarie su richiesta delle autorità. In particolare per le grandi organizzazioni come Medici senza frontiere e Save the children questo punto potrebbe rappresentare un ostacolo: infatti, nello statuto di queste organizzazioni, c’è il divieto di cooperare con le forze armate in qualsiasi parte del mondo per garantire la neutralità degli spazi umanitari in qualunque tipo di situazione. “Rispettiamo tutte le norme internazionali in merito ai salvataggi in mare, il fatto di imporci un codice di condotta implica che noi stiamo facendo qualcosa di sbagliato”, afferma Marcella Kraay di Medici senza frontiere. “Quello che facciamo qui è salvare vite umane e sulle nostre imbarcazioni ospitiamo persone molto provate e vulnerabili che possono essere interrogate dalla polizia una volta arrivate in Italia, perché mentre sono sulla nave non rischiano di scappare”.
Secondo Marcella Kraay, i leader europei stanno cercando di distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero problema: la mancanza di canali sicuri e legali per le persone che vogliono raggiungere l’Europa. “Le ong in questo momento stanno mettendo in luce con le loro azioni che le istituzioni europee non si stanno prendendo responsabilità, non stanno facendo il loro dovere e per questo sono sotto attacco”. Per gli umanitari impegnati nei soccorsi è molto chiaro che il problema è il sistema che costringe le persone ad affrontare viaggi pericolosi attraverso il deserto e attraverso il mare per raggiungere un paese sicuro dove vivere. “Ci vorrebbe un codice di condotta per l’Europa, che permette ai suoi stati membri di non essere solidali”, afferma Mack.
“Le persone continueranno ad attraversare il Mediterraneo anche se le ong se ne andranno, come facevano già prima che noi arrivassimo”, assicura Mack. “Ho l’impressione che i leader europei vogliano solo chiudere gli occhi di fronte a questa tragedia, non gli conviene vedere quello che sta succedendo qui. Ma è un’illusione pensare che se le ong se ne andranno le persone smetteranno di mettersi su una barca”. Le persone che vengono soccorse spesso non sanno quanto sia grande il Mediterraneo, anche per questo accettano di salire su barche instabili, secondo il coordinatore di Sos Méditerranée. “Pensano che sia un fiume o un lago, perché molti di loro il mare non l’hanno mai visto”, conclude Mack.
Questo articolo fa parte di un diario che racconta la vita a bordo dell’Aquarius, una delle navi impegnate nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo centrale.

il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)

In occasione del 25° anniversario della strage di via D’Amelio pubblichiamo l’ultimo discorso pubblico che Borsellino tenne il 25 giugno 1992 durante un dibattito organizzato dalla rivista Micromega nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi ci accorgiamo come lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell'antimafia.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a Palermo. Ma (poi) si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni (...) cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io (...) mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. (...)
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Csm immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia non deve morire in silenzio. (...) Giovanni Falcone, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne (…) di non poter più continuare ad operare al meglio. Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti e di Claudio Martelli, ma perché ritenne di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. (…) Una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa (...).
E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, per ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

«La continua sollecitazione all’amore verso il capo non regge senza prove d’amore».

la Repubblica, 18 luglio 2017 (c.m.c)

Non so se giovi mettere la politica sul lettino dell’analista, specie se l’analista non è estraneo al gioco politico. In ogni caso, se si cerca la ragione della diffusa insofferenza verso Matteo Renzi, la risposta è: Matteo Renzi.

Lungo tutta la sua carriera politica, Renzi non ha lavorato a costruire una comunità, ma a drammatizzare il rapporto tra un capo e la folla. Non con la parola razionale, l’argomentazione, ma con la seduzione dello storytelling, cioè di un marketing capace di vendere al pubblico una scatola il cui unico contenuto era Renzi stesso. «Un rullo compressore lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo», secondo un’efficace definizione di Stefano Rodotà.

Una ultrapersonalizzazione che sostituiva alle istituzioni e ai corpi intermedi la consorteria fiduciaria del capo, il famoso giglio magico. Un ritorno all’antico regime, al tanto vagheggiato Rinascimento: non al dittatore, e nemmeno all’amministratore delegato berlusconiano, ma al principe e alla corte.
Qualcuno ricorderà la massima impresa mediatica del Renzi sindaco: la risibile ricerca della inesistente Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. La narrazione opponeva un giovane sindaco che parlava di «sogni», ai «professoroni della storia dell’arte», con la loro incapacità di «essere stupiti dal mistero».

E quando Roberto Saviano puntò il dito contro il conflitto di interessi del ministro Boschi nell’affaire Banca Etruria, Renzi rispose teatralizzando l’amore e l’odio: «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche ». Era lo stesso schema poi adottato per il referendum, contro i costituzionalisti del No: il rapporto diretto con la gente e la demonizzazione dei portatori di senso critico. Ma la continua sollecitazione all’amore verso il capo non può reggere a lungo senza concrete prove d’amore.

Se il rullo compressore non funziona, la fascinazione si trasforma presto in diffidenza, poi in ostilità. Renzi è passato molto velocemente dalla Provincia, al Comune a Palazzo Chigi. E quando lì è stato evidente che le promesse mancate, le insufficienze di governo, la mancanza di visione, l’incapacità di creare una squadra e di tenere in piedi una comunità minavano la credibilità dello storytelling, il rimedio è stato la scommessa del referendum.

Lo schema più amato da Renzi: lui solo contro tutti, appellandosi alla folla. È finita come sappiamo: tutta la personalizzazione renziana ha cambiato segno in poche ore, dall’amore al suo contrario. L’apprendista stregone è stato travolto dalla forza evocata. E il mancato ritiro dalla politica, solennemente promesso, ha infine trasformato un dramma nell’eterna commedia italiana.

Ora l’errore più grave sarebbe seguire lo stesso schema. E cioè pensare che, finito Renzi, la Sinistra italiana possa ricominciare dal 2014. Quando è evidente che il futuro non può essere il ritorno alla classe dirigente che, con la sua catena di errori e debolezze, ha aperto la strada all’avventurismo personale renziano. Per questo la mia richiesta a Giuliano Pisapia di discutere senza remore la sua scelta di votare sì al referendum non mira (come suggerisce Recalcati) a una nuova personalizzazione, stavolta in negativo: ma, anzi, vuole aprire una seria riflessione di merito.
Quella riforma puntava sulla centralità dell’esecutivo a spese della rappresentanza, sulla figura del capo, su un restringimento degli spazi della critica: è ancora questa la direzione? È questa la via più adatta per combattere la diseguaglianza che sfigura il paese? Lasciamo i capi al loro destino, riprendiamo ad occuparci della comunità.

Corriere della Sera


«L’ITALIA NON PUÒ DIVENTARE
LA DISCARICA DI TUTTA L’AFRICA
BLOCCHI LE NAVI ESTERE»

di Lorenzo Cremonesi
«Occorre assolutamente che i leader europei, in particolare di Francia, Germania e Italia, si riuniscano a Bruxelles per elaborare una politica comune di fronte al problema migranti. L’Italia non può accogliere le navi straniere colme di migranti, come del resto non può diventare la discarica delle masse di persone che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente mentre l’Europa non fa nulla per aiutarla».
È molto determinato Gilles Kepel mentre riflette sulle questioni poste dai massicci arrivi di migranti sulle nostre coste. Il celebre politologo francese, noto per i suoi studi sull’estremismo islamico, si occupa anche di questo tema in una serie di lezioni che sta tenendo all’Università di Lugano.
Centinaia e centinaia di migranti continuano ad arrivare sulle coste italiane. Nelle ultime ore sono approdate nei porti italiani anche navi battenti bandiera tedesca e britannica. Non crede che queste navi dovrebbero portare i migranti a casa loro?
«Credo che nei confronti della questione migranti l’Europa stia conducendo una politica assolutamente irresponsabile. Manca un coordinamento gestito da Bruxelles. L’Italia non può diventare uno spazio grigio dove arrivano i migranti senza alcun controllo e senza alcun coordinamento con gli altri partner di Bruxelles. Si rischia in questo modo di destabilizzare l’Italia in vista degli importanti appuntamenti elettorali dei prossimi mesi. E la questione migranti rischia di spostare il vostro elettorato verso le destre nazionaliste e il Movimento 5 Stelle. È tempo che le istituzioni europee smettano di disperdersi nei rivoli burocratici infiniti dei loro meccanismi interni e assumano finalmente le loro responsabilità nei confronti di questi giganteschi ed epocali movimenti di popolazioni che premono alle nostre coste meridionali. Il tema sarà sempre più esistenziale per l’unità europea. Occorre darci criteri di accoglienza e di divisioni dei compiti. Senza questo l’Italia diventerà sempre più una zona anarchica di accoglienza. La Germania continuerà a scegliere a suo piacimento gli elementi migliori tra i migranti. La Francia sempre più sarà costretta a ricevere i migranti che la Germania espelle. Mentre i Paesi dell’Est europeo continueranno a rifiutarli tout court».

DALL’UE VIA LIBERA AL CODICEPER LE ONG
IL VIMINALE: LINEA DURA CON CHI NON FIRMA
di Dino Martirano
ROMA L’Unione Europea dà il via libera al «Codice dicondotta per le Ong impegnate nelle operazioni salvataggio dei migranti inmare» che ora l’Italia è pronta a utilizzare per regolare il traffico dellenavi umanitarie nei nostri porti. Secondo il diritto internazionale, gli scaliitaliani non possono certo essere chiusi ma è chiaro che adesso, con il codicecondiviso in sede Ue e sottoscritto dalle organizzazioni umanitarie, leautorità portuali — su indicazione del ministero dell’Interno — potrebbero rivelarsimolto ma molto pignole con le Ong che dovessero rifiutare di firmare.
Il testo, corretto, ha eliminato i vocaboli «obbligo» e«divieto», posizionandosi su un più tenue «si impegna». La nuova formulazionesoddisfa comunque il ministro dell’Interno, Marco Minniti, che oggi farà ilpunto al Viminale per stabilire modalità e tempi del tavolo aperto con le Ong(già in settimana) attraverso la Guardia Costiera. A Bruxelles il via libera al«Codice» c’è da giovedì 13 ma è stato annunciato dal Viminale ieri al terminedi un fine settimana molto articolato sul fronte immigrazione. Infatti con inumeri di nuovo massicci degli sbarchi — e la rivolta dei cittadini e delsindaco di Castell’Umberto nel Messinese contro l’arrivo dei migranti — ilTimes di Londra ha dato ampio spazio a un meccanismo, già utilizzato nel 2011dal governo Berlusconi per ridistribuire i migranti in tutti i Paesi Ue,definendolo «l’opzione nucleare dell’Italia».
L’idea — spinta da tempo da Emma Bonino, dalla comunità diSant’Egidio e dal senatore Luigi Manconi — si aggancia alla direttiva Ue55/2001 che prevede la concessione ai migranti di documenti provvisori a scopoumanitario validi anche per varcare le frontiere Ue. Spiega Emma Bonino: «Laminaccia di bloccare i porti era inattuabile, come quella di espellere iclandestini. I visti temporanei sono un buon modo per affrontare la questioneperché non fanno pressione sui profughi ma sugli Stati membri».
Alla vigilia del vertice di Tallinn, il ministro Minniti haricevuto al Senato da Luigi Manconi un documento con i dettagli del «pianovisti» ma al Viminale la proposta non ha fatto breccia: perché per rilasciarequei visti umanitari serve la maggioranza qualificata del Consiglio Ue dei capidi Stato e di governo.
Manconi ricorda che nel 2011 il ministro dell’InternoRoberto Maroni, davanti al «niet» dell’Ue, forzò la mano:«Applicando l’articolo20 del Testo unico sull’Immigrazione concesse migliaia di permessi di soggiornotemporanei e marocchini e tunisini che in parte riuscirono a passare inFrancia». Maroni conferma: «Il sistema funzionò e potrebbe funzionare ancora maprima bisogna dichiarare lo stato di emergenza». È certo — dice il viceministrodegli Esteri Mario Giro citato dal Times , che nel governo è il piùpossibilista — che l’Italia avrà «un duro negoziato» con i partner Ue.

16 luglio 2017 (c.m.c)

«Prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale», osserva Naomi Klein. «È interessante il fatto che ci metta in difficoltà. Penso che dobbiamo farlo nostro». Klein è quanto di più simile a una rock star si possa trovare nella sinistra radicale. È un personaggio pubblico fin da quando la sua opera prima, No logo, è diventato un libro di culto del movimento no global nei primi anni duemila, ma lei rifugge la celebrità.

La incontro all’inizio di giugno al People’s summit, una grande riunione dei progressisti statunitensi organizzata a Chicago, un paio di giorni prima della pubblicazione del suo ultimo libro, No is not enough. Ma Klein non è qui per promuovere il suo lavoro. Come tutti gli altri, è qui perché le importa.

«Trump sta creando e alimentando il desiderio di un cambiamento sistemico. Incarna un fallimento di sistema, che, sì, a quanto pare è un motore più potente dei cambiamenti climatici. Questo potenziale di trasformazione mi emoziona».

Il lavoro più urgente e personale

Klein parla davvero così, senza mai fermarsi. Si capisce che crede in quello che dice. Nata in Canada negli anni settanta da oppositori alla guerra del Vietnam, non ha mai chiesto scusa per il fatto di essere un’attivista oltre che un’autrice e una giornalista. No is not enough è il suo lavoro politico più urgente e istruttivo, oltre che il più personale.

Klein passa senza difficoltà dal discutere nuove strategie per combattere il programma sessista, razzista e schiavo delle multinazionali dell’amministrazione Trump alla descrizione della sua esperienza di madre (ha un figlio di quattro anni) e del modo in cui la sua comprensione della responsabilità umana è cambiata dopo l’ictus che sua madre ha avuto quando Naomi era appena un’adolescente. Ciò che tiene tutto assieme è l’architettura del prendersi cura. E il prendersi cura, mi spiega Klein, «è tutt’altro che un segno di debolezza».

“Il prendersi cura” ha una brutta reputazione all’interno della sinistra. Fa pensare agli orsi dei cartoni animati o alle adolescenti che hanno sentimenti esagerati per i delfini. The leap, il movimento canadese guidato da Klein, che combatte contro il cambiamento del clima e per la giustizia sociale, ha come slogan “Dedichiamoci alla terra e agli esseri umani”. In effetti, ammette Klein, sembra uno spot pubblicitario dell’attivismo biologico. Ma è anche un riassunto di ciò che gli esseri umani non sono riusciti a fare negli ultimi secoli e di ciò che dobbiamo imparare a fare, se non vogliamo andare incontro alla catastrofe.

Il lavoro di cura dell’uno nei confronti dell’altro e delle nostre comunità non rientra tanto in un programma femminista quanto in un programma declinato al femminile, ed è per questo che per così tanto tempo è rimasto fuori dal quadro politico più generale. Dunque è perfettamente logico che il motore del People’s summit sia il principale sindacato di infermieri degli Stati Uniti, il National nurses united (Nnu), che ha più di 150mila iscritti, in maggioranza donne non bianche.

La resistenza nell’era di Trump

«Seguirei un infermiere ovunque», ha dichiarato Klein nel comizio d’apertura, e ripete il concetto durante il nostro incontro dietro una piccola fila di bancarelle di libri nel terzo giorno del vertice. Quattromila persone hanno già passato 36 ore in questo cavernoso centro congressi, tra discussioni e workshop, con la luce artificiale e l’aria condizionata ad alimentare la sensazione di essere in uno spazio fuori dal tempo, dove tutto è possibile, anche (e soprattutto) nell’America di Donald Trump.

Klein ha un sesto senso per pubblicare il libro giusto al momento giusto. No is not enough è stato scritto in quattro mesi, mentre l’autrice gestiva un gruppo di attivisti e cresceva un figlio. È un’opera brillante, una guida alla resistenza nell’era di Trump, costruita sull’idea che limitarsi a resistere all’oppressione non basta.

Come società, spiega Klein, dobbiamo decidere non solo quali atrocità sono intollerabili, ma anche cosa siamo pronti a costruire per combattere queste atrocità. Il libro ha un pregio rarissimo nella scrittura politica: è stimolante e profondamente sensato. Leggendolo – e partecipando al People’s summit – mi sono trovata ad annuire davanti alla richiesta di un cambiamento profondo nel modo in cui organizziamo la politica economica, quella ambientale, la giustizia razziale e molto altro, nello stesso modo in cui annuiamo davanti a un medico che ci spiega la cura per una grave malattia. È una proposta che fa paura, ma è anche l’unica sensata. L’urgenza di questa fase della storia umana lo impone.

«Le nostre idee si diffondono sempre di più, ma lo stesso si può dire delle idee più dannose e pericolose del pianeta», spiega Klein. «Si manifestano con atti estremi di violenza in strada, commessi dallo stato e dai suprematisti di destra, spinti dal fatto che alla Casa Bianca ci sono persone che la pensano come loro. È una sfida intellettuale, sociale, ambientale».

In caduta libera

Se dovete sentirvi male a un raduno di qualsiasi tipo, vi consiglio di farlo a un raduno di infermieri. Sono arrivata a Chicago per intervistare Klein e capire se c’è una speranza per la sinistra nella prima, torrida estate dell’America di Trump. Ma appena ho messo piede fuori dell’aereo sono stata colpita da quella che la scienza definisce malattia immaginaria galoppante.

Sentivo le ossa come se fossero in un calderone di zuppa bollente. La mia testa era piena di una melma tossica. Ho chiesto al banco del check-in se avevano antidolorifici. Dieci minuti dopo ero seduta su un divano di plastica e cercavo di non vomitare la colazione. Deborah Burger, copresidente dell’Nnu, che sicuramente aveva qualcosa di meglio da fare, mi chiedeva cosa mi facesse male.

Tutto, volevo dirle che mi fa male tutto, che tutte le persone che conosco lavorano come bestie per quattro soldi e che il tardo capitalismo sta lentamente strangolando ciò che rimane dell’energia giovanile della mia generazione. Il mio paese è in caduta libera politica e sembra che ogni settimana ci sia uno psicopatico religioso che decide di ammazzare un po’ di gente. Come se non bastasse, avevo la madre di tutti i mal di testa.

Burger mi ha dato gli antidolorifici e un bicchiere di succo d’arancia. Poi mi ha parlato dell’imminente fine della cleptocrazia. È un’infermiera convinta che il suo lavoro non finisca quando il paziente va a casa. «Non possiamo limitare il nostro sostegno al letto d’ospedale. Dobbiamo allargarlo, perché vogliamo evitare che la gente arrivi in ospedale. Vogliamo sostenere la prevenzione. Vogliamo tenere le persone lontane dalle prigioni, perché il denaro speso per incarcerare la gente potrebbe essere impiegato nel sistema sanitario e per quello scolastico».

Parte del motivo per cui Klein ha potuto scrivere un libro così dettagliato in così poco tempo è che in un certo senso si preparava a scriverlo da tutta la sua vita adulta. È la sintesi delle teorie contenute nei tre libri politici precedenti: il potere politico dei marchi in No logo, il modo in cui l’élite sfrutta le crisi sociali ed economiche per consolidare il suo potere in Shock economy e il modo in cui la prossima crisi climatica renderà necessario un nuovo genere di attivismo per la sopravvivenza della specie in Una rivoluzione ci salverà.

«Ho scritto il libro per molte ragioni, ma la più urgente derivava dalla sensazione che gran parte delle discussioni su Trump non avesse un contesto storico», mi ha spiegato. Secondo Klein troppe persone continuano a trattare la crisi costituzionale in atto alla Casa Bianca «come una sconvolgente aberrazione destinata a sparire una volta che ci saremo liberati di Trump. Ma abbiamo già commesso questo errore, per esempio con George W. Bush». Trump, in ogni caso, ha reso tutto molto più chiaro.

Qui nessuno è contento che Trump sia il presidente degli Stati Uniti. Ma la posta in gioco ormai è evidente anche a quelli che prima tentennavano. Per esempio, è ovvio che le politiche favorevoli alle imprese e contrarie ai princìpi ecologici, oltre al ritorno al potere di sentimenti sessisti e razzisti, sono intimamente connessi, e la resistenza a queste due tendenze è una resistenza unica. Trump potrebbe essere l’onda d’urto – per utilizzare un’espressione di Klein – che spingerà la sinistra globale a rimettersi in sesto.

Un sovrumano signore gentilissimo

A un certo punto interviene Bernie Sanders. Fa un bel discorso, per quello che riesco a sentire tra applausi continui. È come un pasticcio tra un sermone e le parti più stimolanti di I Miserabili. Questo significa che, anche se non si è convinti dalle idee di Sanders, si può capire perché la gente si appassiona a lui. Prima di Sanders ci sono stati altri oratori carismatici, e Bernie non ha detto nulla che non sia già stato detto durante tutti gli incontri. Ma su di lui si riversa l’entusiasmo della massa. In qualche modo la sua parlata semplice e il suo atteggiamento da zio incazzato risultano affascinanti. Non abbastanza da farmi alzare in piedi e ruggire insieme a tutti gli altri, ma io sono un po’ troppo britannica e troppo malata per farlo.

È qui che ho capito il vero senso di Bernie Sanders. Avere ragione non basta. Bernie personifica un’idea il cui tempo è finalmente arrivato, anche perché dopo due anni passati a riempire gli stadi ha ancora l’aria di uno che non capisce perché la gente lo stia a sentire ed è triste perché si trova in un punto della storia in cui è rivoluzionario chiedere che gli ospedali non rifiutino di prendersi cura dei bambini malati.
Non dovrebbe essere così, ma negli Stati Uniti è così.

Ciò che rende diverso il People’s summit è qualcosa che manca da generazioni alla sinistra globale: funziona. Le persone che non hanno più tempo per i teatrini si ascoltano a vicenda e con rispetto, cercando di stringere legami. Le sessioni sono aperte a tutti e concrete. Il cibo è sufficiente e decente. Gli organizzatori riescono in qualche modo ad assicurarsi che quattromila persone sappiano sempre dove devono andare e quando. Non è una cosa da poco per uno strato sociale caotico, segnato da lotte interne, da fragilità e dall’incapacità di mettersi d’accordo anche sulle cose più semplici.

«Ci ricorda perché lo spazio fisico è importante», spiega Klein. «Dobbiamo guardarci negli occhi. Penso che in questo momento ci sia un grande desiderio di creare una cultura della responsabilità e la capacità di ascoltare le critiche e di avere conflitti senza però mandare tutto all’aria».

Le infermiere sono all’avanguardia di questo cambiamento perché lo vivono da anni, come spiega Kari Jones, dell’Nnu: «Penso che il motivo per cui le infermiere si sono fatte avanti come leader del movimento progressista è che incarnano un sistema di valori che è l’opposto di quello guidato dal profitto, un sistema basato sulla cura, l’assistenza, la compassione, la comunità. È difficile intaccare la volontà di un’infermiera».

Questa architettura del prendersi cura è il vero luogo della resistenza. Può essere un compito noioso come prendersi cura di una giornalista malata o una grande missione come riorganizzare la cultura di una superpotenza per dare la priorità alla salute e all’assistenza sociale. Può essere facile come garantire che i nativi d’America siano adeguatamente rappresentati nei nostri dibattiti o difficile come chiedere che il petrolio sepolto sotto le loro terre resti dov’è. È qui che si vive la lotta per il cambiamento. Manifestare nelle strade aiuta, ma non basta. Il centro di tutto è ciò che vogliamo per la nostra società, per il nostro paese e l’uno per l’altro.

La teorica Nancy Fraser ha identificato una “crisi del prendersi cura” accanto a quella che molti hanno indicato come crisi del capitalismo. L’opera di costruzione delle famiglie, delle comunità, delle istituzioni e della democrazia non è un lavoro che il capitale può assorbire e monetizzare, ma senza di essa la componente umana del capitalismo si atrofizza. La gente diventa triste e malata.

Per questo la lotta per l’assistenza sanitaria universale, a prescindere dal reddito, è diventata un tema centrale della sinistra americana. Ripristinare Obamacare non è sufficiente. In tutti i dibattiti e in ogni intervento del People’s summit la richiesta di un’assistenza sanitaria per tutti viene ripetuta in diverse forme e suscita sempre le reazioni più calorose.

Per fornire assistenza medica per tutti negli Stati Uniti ci vorrebbe una radicale redistribuzione delle ricchezze dai ricchi verso i poveri. In California lo stato potrebbe permettersi questo enorme costo, ma la legge per la creazione di un sistema sanitario gestito da un unico ente è bloccata al senato locale. È una questione di priorità, di senso del bene e del benessere comune. È una questione d’amore, e dico sul serio.

Quando Hillary ha scelto “Love trumps hate”, l’amore sconfigge l’odio (gioco di parole con trump, sconfiggere in inglese) è sembrato uno slogan stupido, e lo era. Era insipido e banale perché non nasceva da una comprensione solida di cosa è l’amore. L’amore, in senso politico, non è un sentimento. È un’azione. È inarrestabile e spietato. È la disciplina dell’esserci l’uno per l’altro e per il bene collettivo, ancora e ancora.

Il potere della responsabilità

Amare le altre persone è molto difficile. Passare 36 ore in un centro congressi con gli esponenti della sinistra internazionale me lo ha ricordato. “La gente” è immorale e distratta, si emoziona davanti alle celebrità e agli slogan. Per metà del tempo le persone non riescono a stare in una stanza con altre persone. Ma quando arriva il momento decisivo niente di tutto questo è importante. Importa solo esserci l’uno per l’altro.

In tanti fraintendono il significato di “potere della gente”. Prima di tutto “la gente” non è unita di per sé, e la frase non si riferisce a un potere fisico. Non si intende il potere di resistere ai proiettili o agli attacchi dei droni. Quel tipo di “potere della gente” può essere abbattuto facilmente. Il vero potere della gente è il potere della memoria e della resistenza. Il potere di dedicarsi l’uno all’altro, il potere della responsabilità.

«È una responsabilità spaventosa», mi dice Klein. «Non è una responsabilità con cui sono cresciuta. Nella mia vita politica adulta non abbiamo mai pensato che avremmo conquistato il potere. Ma la campagna di Bernie Sanders, quella di Jeremy Corbyn e anche quella del candidato presidenziale francese Jean-Luc Mélenchon e di Podemos ci fanno capire che il potere è a portata di mano. E la spaventosa responsabilità di questa consapevolezza, mentre il conto alla rovescia del clima continua a correre e le crisi ci colpiscono sovrapponendosi l’una all’altra… no, non la chiamerei speranza. Ma la descriverei come un momento significativo. Non voglio sprecare tempo pensando alla speranza».

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

Può la Caritas di un pugno d'isolani riscattare la feroce assenza di una moltitudine di pasciuti costruttori di impenetrabili muraglie, erette per "aiutare a casa loro" gli sfruttati del mondo?

il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017

I naufraghi che arrivano morti a Lampedusa sono nudi. I lampedusani li vestono coi propri abiti e danno loro una tomba. Lo ius soli che tutti cercano è qui, nel cimitero dell’isola dove questi scappati per mare trovano una zolla e qualcuno anche un nome. Il naufrago che arriva a Lampedusa quando sta per annegare urla il proprio nome per sapersi presentare perché solo in questo modo, galleggiando – pur sbocconcellato dalle spigole – riafferma l’essere lui una persona e non lo “zero, virgola” di un calcolo.

Il naufrago è recuperato in acqua dalla Guardia Costiera e da lì, insaccato, approda allo stanzone dei morti nudi di tutto, pure di bara, con il custode che corre portando pantaloncini, magliette e legname, tanto legno con cui chiuderli – i morti, i naufraghi – per sorvegliarli nella pietà della terra che tutti ci fa uguali.

La Guardia costiera “che esce quando tutti rientrano” trova al largo una barca. Vi dondola dentro un liquame ustionante di benzina, urina e acqua di mare: una catasta di cadaveri putrefatti.

Solo il custode del cimitero sa come metterci mano, e quindi Compassione, su quella pappa informe. Il fetore della carne squagliata artiglia il blu incantevole del mare e del cielo.

Il custode, allora, alza l’ingegno: strappa dall’orto di casa sua le foglie d’alloro, le raduna in un fazzolettone che s’annoda in faccia al modo dei banditi del West e così coperto – proteggendo il proprio respiro – procede col da fare. Dal suo fagotto prende gli abiti asciutti con cui vestire i profughi, quindi scava, li seppellisce e poi vi mette sopra la croce.

“Come, la croce?” gli dicono tutti. “Non sono cristiani come noi, saranno di certo musulmani, dovevi metterci una cosa loro in segno di rispetto, una Mezzaluna”.

Ma solo il custode del cimitero, con l’alloro in faccia, conosce la parola giusta: “Se li avessi seppelliti sotto un altro segno li avrei fatti diversi da noi, il vero rispetto è farli uguali a noi”.

È come attraversare una dolorosa canzone a due voci trovarsi qua, a Lampedusa, e leggere Appunti per un naufragio di Davide Enia (edizioni Sellerio). Questo è lo scoglio dove si registra il numero più alto di riconoscimenti di cadaveri in una zona non di guerra. E così, sfogliare quelle pagine di realtà e camminarci dentro – con la cautela propria dello stare in un camposanto, tra le tombe – fa scoppiare in petto la verità.

Una granata che scoppia nel cuore è Lampedusa. I lampedusani si fanno in quattro per capire come aiutarli, i naufraghi – i sopravvisuti, e le salme – e il medico, presente da sempre, non ha certo fatto il callo alla fatica dei mangiamorte.

Ed è sempre come la prima volta. Poco prima di aprire il sacco necroforo supplica Dio mormorando “fa che non sia un bambino” – fa-che-non-sia-un-bambino! – poi va a spalancare quella borsa e vi trova proprio un bambino: “Era”, scrive Enia, “una cosuzza così.”

Enia nel suo libro descrive Pietro Bartolo – lui è il medico – mentre rivive lo sconforto di quella autopsia: “Le mani del dottore erano ferme nell’indicarne la statura. Non più di quaranta centimetri. Il bambino poteva avere un paio d’anni.”

E chissà adesso – in quale fossa, sotto quale lastra – è finito questo piccolino. Chiunque arrivi qui, tra le tombe di questo cimitero, scruta ogni placca – ogni buca – e s’interroga: “Dove l’avranno messo quel pesciolino?”

Chi legge Enia non può che andare a vedere e capire. Ecco qua, dunque, il pezzo di terra dove il mare, la benzina e l’urina hanno trovato tomba. Eccolo: un cespuglio fiorito, i lumini e “l’arriverò” di Cesare Pavese tra le croci. Così si legge: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”.

Tra le cale ricche di memoria, come nella grotta dedicata alla Madonna di Porto Salvo, c’è il segnale che da secoli, ormai, marchia l’isola. Al tempo in cui parlavano le armi dell’Orlando Furioso, come nella battaglia di Lampedusa – tre cavalieri mori e tre crociati – descritta da Ludovico Ariosto, coi cristiani hanno trovato sosta anche i musulmani fino a farne un porto franco.

Un segnale che fa stare insieme tutti, oggi, comunque c’è: un timone conficcato sul terreno. Lo stesso legno delle barche usate nelle traversate indica il luogo del qui riposano “musulmani e cattolici, vecchi e giovani, neri e bianchi…”

Un altro segnale scavato nella viva carne dei popoli è nella tela nella grotta che raffigura la Madonna, il Bambino e Santa Caterina. Il quadro, oggetto di infiammata devozione, nell’incastro dei dettagli e delle affinità svela un’intimità con il Monastero di Santa Caterina di Alessandria, in Egitto, da sempre collegato con questa isola che è ancora Africa quando Linosa, invece, è già Europa.

È il monastero dove Muhammad il Profeta accordò la sua protezione e dove i cristiani vollero erigere una moschea che purtroppo non poté mai accogliere la preghiera per via di un errore di costruzione: non era orientata a Mecca.

Ogni indizio rivela l’imprinting.

Una tomba antica e senza nome, addobbata di piastrelle color turchese, svela all’occhio una suggestione più che una data: quell’anno Mille in cui erano appunto solo mille gli abitanti dell’isola di Lampedusa e tutt’e mille saraceni.

La prova Qibla con l’i-phone, l’applicazione dello smartphone che indica la direzione di Mecca, conferma: l’elegante fossa è correttamente rivolta verso la preghiera. Tutto il resto, no. Tutto è confusione nel segno di fare presto e fare al meglio.

I fiori sono scelti finti apposta per restare lungo a sulle pietre, ancora più duraturi delle lapidi di plexiglass del “Qui riposa”.

Ecco, se non un nome, la storia: “Il corpo di una donna di età compresa tra i 30 e i 40 anni viene rinvenuto dagli uomini della Guardia di Finanza a circa 5 miglia da Capo Ponente” La data, quindi: il 7 giugno 2008.

Ancora una data: 26/02/1973 –21/01/2009. Èla tomba di Eze Chidi: “Nato in Nigeria è stato ritrovato senza vita in un’imbarcazione a bordo della quale tentava di raggiungere l’Europa”.

Sono più di vent’anni che dura, la storia. Paola e Melo dicono che è la tomba a segnare l’appartenenza. È la tesi dell’antropologo Marco Aime, loro amico, un tema fatto proprio dal Forum Lampedusa Solidale che non è un’associazione, ma solo un gruppo di persone che in questo punto sul mare – il più vicino all’altro oceano, quello di sabbia – trova un bandolo alle esistenze venute a morire nel Mediterraneo dopo essersi lasciate alle spalle il Sahara.

Un ragazzo somalo che muore e fa sapere chi è – racconta Paola – rinuncia allo ius soli di qua perché la famiglia, nell’urgente richiamo dello ius sanguinis di là, in Somalia, viene a Lampedusa e se lo riporta a casa.

Per marocchini, tunisini, eritrei e nigeriani capitati qui è il tumulo a stabilire il domicilio. E mentre i sopravvissuti – indiscutibilmente vivi – diventano cifre di statistiche, i morti sono uomini e donne anche a dispetto del “pare che…”

Ed ecco il sepolcro di Yassin: “Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo, è che è arrivato a senza vita a Lampedusa.”

Paola e Melo gestiscono un B&b sull’isola che è come una camera di compensazione tra l’incontrovertibile fatto della bellezza assoluta e l’epica di Lampedusa.

Enia vi ha scorto il genius loci in quella residenza e sono loro, personaggi della realtà trasferiti nella verità di sguardo e parola, a dare testimonianza. Nel libro, e poi ancora dopo, quando le pagine sono state chiuse: “I veri soggetti di questa storia, quelli che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa vengono rinchiusi nei Centri e zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni.”

Un libro che si legge coi piedi, questo di Enia detto Davidù nella realtà eclatante di una storia – quella del confine estremo d’Italia – diventata epica. Un libro da inghiottire trovando nomi. E tombe.

Nel mare delle notizie che, nel loro complesso. spingono al pessimismo, abbiamo scelto due scritti, di diversa natura e radice, di Corrado Lorefice e di Marco Revelli, entrambi ripresi dal

manifesto (16 luglio 2016). Sollecitano entrambiverso la stessa domanda.

Neppure un grido si leva?
Le tragedie dei nostri anni e l’anatema per chi ha il poteree non lo esercita per abbattere la miseria e l’ingiustizia si incontrano, sullepagine del manifesto, nelle parole di un’omelia religiosa e di una cantatalaica, pronunciate la prima da Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, la secondada Marco Revelli, noto saggista e animatore sociale.
Ma una domanda sorge prepotente in chi legge quelle parole econnette quelle tragedie con l’enorme dispendio di risorse materiali e moraliprovocate dalle guerre ormai endemicamente presenti in ogni angolo del pianetae con i conseguenti impegni bellici degli Stati. Come mai non si leva alto ungrido corale contro la guerra, la sua feroce inutilità, la miseria e l’ingiustiziache provoca?
Anche ciò che una volta si chiamava Sinistra tace. Forse lanotte è già calata, e il nuovo giorno non ha la forza di sorgere. (e.s.)
LA DURAOMELIA DEL VESCOVO DI PALERMO
SULL’«ALLEANZA DEI DUE ESODI»
una sintesiredazionale delle parole del vescovo di Palermo Corrado Lorefice
Dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Loreficedurante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti emigrazioni.
«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostrotempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la piùimportante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo diessere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di unastoria gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo digettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischiadi sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani».
«L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storicaterribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare unterritorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le ideee le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso deidecenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senzail sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavorovero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».
E ancora: «Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo ela Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioniplanetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelliafricani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e diopportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghicomuni o le visioni distorte di molta politica.
La molla ultima di questo esodobiblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio digiustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senzagiustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano,mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord– gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possonosfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia– senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio cheaffama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta laguerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (odi disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone chein definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Siciliarappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto idealedell’Occidente».
Poi: «Care Palermitane, Cari Palermitani, sarebbe un graveerrore contrapporre i due esodi, quello dei nostri giovani e quello dei popolidel Sud. Chi ha una responsabilità politica ed è purtroppo miope e ignorantepuò farlo.
Noi no. Noi no.
Pensare che sia l’arrivo di tanti fratelli dal Sud del mondo atogliere il lavoro ai nostri giovani è una totale idiozia. Al contrario:l’esodo epocale dall’Africa attraverso il Mediterraneo è l’appello, esoprattutto l’opportunità che la storia ci offre, per ribaltare il perverso assettodel mondo e della sua economia; per creare nuove possibilità e nuove speranzeproprio grazie all’accoglienza e all’integrazione dei tanti che giungono e chegià oggi sono un polmone del lavoro e dello stato sociale in Italia.
L’alleanza tra i due esodi, e non la contrapposizione, è il veroorizzonte che ci può consentire un passaggio nuovo. I migranti ei giovani in Sicilia non sono reciprocamente nemici, ma sono il popolo delfuturo, il popolo della speranza».
ITALIA,
A CHE PUNTO È LA NOTTE
di Marco Revelli

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slidetombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire laprecedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.
Giovedì l’Istat, nella suanota annuale sulla Povertà, cidice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.
Venerdì la Banca d’Italia, nelsuo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) lecose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…
Viene in mente Isaia (21,11) ela domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dallatorre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».
Per la verità la situazionedella povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare.Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali:i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze diper sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili»,essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.
Se però si spacchettano i dueinsiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente,addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, glioperai, e i membri di «famiglie miste».
Tra le «famiglie con tre o piùfigli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasidieci punti.
Schizzando al 26,8%. NelMezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.
Tra gli «Operai e assimilati»,poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentualepiù del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinneroperaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sonoi working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto dilavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi nonpuò permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa,alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesamensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parteconsistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.
Infine le «famiglie miste»,quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertàassoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) equella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), conbuona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» lapropria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propriamiseria.
Se poi si considera il quadronell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non soloil numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assolutarisulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione èstata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti»sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).
Stessa dinamica per gli«operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta,drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi èritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dovesi può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sulpotere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.
In questa luce l’inno allagioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbesembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invecedall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.
E cioè che economia e societàhanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramentidell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significanoaffatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante dellacondizione sociale).
Anzi. I ritocchini al rialzodelle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono ineffetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà edelle condizioni di vita delle famiglie.
Convivono nell’ambito di unparadigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce laricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto allafinanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui ilPil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in terminisociali).
Forse nel 2019 (forse!)ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo unpo’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.
Finché non si spezzerà questocircolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitivafine della notte.

il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2017 (p.d.)

Nel Veneto bianco il territorio è sacro. Non quello vero, violentato in ogni modo dai capannoni, dalle concerie e dal progresso scorsoio di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto: è sacra la retorica del territorio. Le “realtà produttive del territorio”, garantite e supportate in primo luogo dagli istituti di credito locali, piccoli, belli e sicuri. Volano della “nostra” economia. È ormai acclarato che alcune di queste banche ammannivano al territorio (e ai loro strapagati CdA) denari e utili che non avevano; e da molti mesi ormai, accanto a chi ha perso tanto o tutto, si vedono legioni di piccoli risparmiatori non sinistrati che corrono ad aprire negli istituti superstiti - fiducia o non fiducia - conti correnti di piccolo taglio, sotto i 100mila euro, quelli che dovrebbero essere al riparo da ogni sorpresa. Ma il fallimento del modello veneto non è stato solo bancario (propiziato, quello, dai mancati o tardivi controllidi Consob e Bankitalia): è stato in primo luogo un fallimento politico e culturale di chi avrebbe dovuto accorgersi, o almeno obiettare, e non l’ha fatto.

Montebelluna è un borgo piccolo, a lungo governato da un politico di rilievo nazionale, Laura Puppato: nel 2008, come sindaco, la “pasionaria” antirenziana - persona di sicura integrità, sia ben chiaro - conferì la cittadinanza onoraria al "coraggioso ed esperto timoniere" Vincenzo Consoli, per 16 anni grande capo e stratega di Veneto Banca, dunque vero artefice del castello di carta sfaldatosi pochi anni dopo sotto i colpi delle ispezioni della Banca d’Italia e poi del decreto Renzi che obbligava alla trasformazione delle banche popolari in SpA. L’inchiesta romana che ha portato in cella lo stesso Consoli nell’agosto 2016 ipotizza vari reati, ma è un fatto indiscutibile che l’istituto è finito al disastro, ed è un fatto che a livello politico né il Pd né la Lega (ancora nel 2014, il governatore Luca Zaia difese platealmente Consoli e il vecchio management dal primo intervento di Bankitalia) hanno mai seriamente combattuto o messo in dubbio un sistema, un’idea di sviluppo bancario "territoriale" che ha portato alla catastrofe odierna. E gli intellettuali delle università hanno - nella migliore delle ipotesi - guardato altrove: Francesco Favotto, ordinario a Padova, sedeva direttamente nel CdA (e ha avuto per questo le sue grane); Loris Tosi, ordinario a Venezia, è uno dei Grandi soci della banca; nel 2011 Vincenzo Consoli fu l’ospite d’onore nella cerimonia di consegna dei diplomi ai neolaureati di Ca’Foscari, la cui Fondazione ha il suo conto proprio presso Veneto Banca, che nel 2015 finanziava con 1.250 euro una lezione veneziana di Vittorino Andreoli, dopo avere sponsorizzato nel 2013 un ominoso concorso “Ambizioni per un mondo migliore”. Il Veneto è piccolo, la rete è tutta una. Sarebbe facile seguire, tramite una fitta serie di holding e di partecipate, i fili che menano da Veneto Banca ad alcuni maggiorenti veneziani, anzitutto quelli implicati nello scandalo del Mose (nella banca avevano grandi interessi l’ex governatore Giancarlo Galan e il manager Roberto Meneguzzo, creatore della Palladio Finanziaria), ma anche i più modesti proprietari di una società come EstCapital, che propiziò tra l'altro la devastazione di una parte del Lido in nome del nuovo Palacinema.

Ma torniamo in terraferma, 50 chilometri più in là: a Vicenza, gli ultimi vent’anni della Banca Popolare hanno un nome solo, quello del presidente Gianni Zonin: riverito dalla politica e dalla città, senza eccezioni (nemmeno il Pd di Alessandra Moretti, già vicesindaco), trattato coi guanti bianchi financo dopo la caduta (a lui, benché accusato dei medesimi reati di Consoli aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza - è stato fin qui risparmiato ogni provvedimento cautelare), l’ex presidente avrebbe goduto, secondo il suo predecessore Giancarlo Ferretto, di appoggi importanti dal Quirinale al Vaticano. Per le università, anche qui, briciole: oltre a un’altra passerella per educare i neolaureati veneziani nel 2012 (stavolta del vicedirettore Emanuele Giustini, oggi indagato), spiccano il Master honoris causa in banche e finanza ammannito a Zonin nel 2005 dalla "Fondazione consorzio universitario di organizzazione aziendale" (con dentro tutti gli atenei del Nordest: ne parla Sergio Rizzo ne La repubblica dei brocchi), e un convegno organizzato da BpVI a Verona nel 2009 su “Evoluzione dei controlli di vigilanza e implicazioni gestionali per le banche”. Colpisce che rimanga beatamente impunito il responsabile primo (al di là dei risvolti penali) di una strategia imprenditoriale che, secondo ogni evidenza, ha puntato a gonfiare l’ego e le azioni dei vicentini tramite un vasto sistema clientelare, anziché ad avviare una più lungimirante fusione virtuosa con altre banche sane del territorio. Chi voglia seguire i dettagli dei molti procedimenti in cui Zonin è stato coinvolto e singolarmente prosciolto negli anni (sul Fatto si è parlato del tristo destino dell'inflessibile giudice Cecilia Carreri), o più in generale farsi un’idea delle reti di potere sviluppate negli anni dalle due banche venete, può leggere gli articoli impeccabili sul sito Lettera43.it.

Nel marzo scorso, l’azione di responsabilità finalmente intentata contro Zonin e la precedente gestione della Popolare di Vicenza ha molto irritato uno degli ex-componenti del CdA di tale banca (dal 2007 al 2012), Paolo Bedoni. Al netto del suo passato (è stato anche presidente nazionale di Coldiretti dal ‘97 al 2006), Bedoni è un uomo molto importante, dal 2006 presiede la veronese Cattolica Assicurazioni, uno dei più grandi gruppi italiani (lo Ior è tra i maggiori azionisti), che tra l’altro assicura buona parte delle parrocchie italiane. Assai restio a trasformare la Cattolica in una SpA (ma pronto a investire decine di milioni in un controverso progetto universitario con l’incubatore H-Farm e l’università Ca’Foscari), secondo alcuni Bedoni potrebbe risentire della recente caduta dell’ex sindaco Flavio Tosi, il quale nel 2011, all’apice del suo potere, aveva "scalato" il gruppo coi suoi uomini. La questione però non è tanto né solo veronese, ma nazionale, e tocca i più delicati equilibri della finanza cattolica, che ha in Veneto uno dei suoi fulcri. Il 16 giugno, nel silenzio della stampa nazionale, sono finiti in cella per ordine della procura di Venezia (tanto per cambiare, un filone del Mose) il direttore amministrativo di Cattolica Giuseppe Milone e l’ex dirigente Albino Zatachetto,insieme ad altre14 persone: tutti accusati di un episodio (che secondo gli inquirenti sarebbe solo "la punta di un iceberg") di corruzione alla Guardia di Finanza, volta ad ottenere, in cambio di rolex, assunzioni e favori, uno "sconto" di 6 milioni di euro su una multa fiscale, e - così si legge nelle intercettazioni pubblicate sul sito del Fatto - a “tener fuori il presidente dal penale”. Sebbene Bedoni non sia indagato, e sebbene il CdA di Cattolica abbia immediatamente sospeso gli amministratori coinvolti, c’è da chiedersi cosa possa pensare papa Francesco, che tanto tuona contro la corruzione, di sospetti così pesanti che gravano su un gruppo assicurativo centrale per le finanze della Chiesa.
Non si tutta solo di "una falla", ma di un regime che ha distrutto la Repubblica, da cima a fondo. E gli incendiari comandano ancora. Gi abitanti della penisola accetteranno ancora per molto?.

il manifesto, 15 luglio 2017

Le telecamere della Rai, ieri, hanno mostrato le immagini dell’aeroporto di Ciampino, dove è ospitata la flotta antincendio dello stato. La maggior parte degli elicotteri resta a terra: sono 16 ma solo 3 vengono utilizzati. La colpa, secondo il servizio, è la mancanza dei decreti attuativi per rendere operativo il personale che è passato dal Corpo forestale ai Vigili del fuoco. La riforma Madia ha infatti soppresso la forestale, dividendo il personale tra caschi rossi e Arma. Altri 16 velivoli sono andati ai Carabinieri che però non avrebbero ancora stanziato fondi sufficienti per la manutenzione di tutti gli elicotteri.

La polemica su una delle riforme simbolo dei mille giorni del governo Renzi è proseguita anche ieri. «Che lo squilibrio nella ripartizione numerica degli uomini del soppresso Corpo forestale avrebbe depotenziato la lotta agli incendi lo avevamo denunciato inascoltati da mesi – ha spiegato Antonio Brizzi, del sindacato Conapo dei Vigili del fuoco -. Sin da quando, a fine 2016, si era saputo che solo 360 ex forestali sarebbero stati assegnati ai pompieri, per svolgere mansioni che sino al 2016 svolgevano, seppur in modo non esclusivo, in quasi 8mila forestali e nonostante eravamo già carenti di 3.500 caschi rossi».

Sotto accusa anche la gestione dei mezzi: «Ai Carabinieri sono stati assegnati 8 elicotteri Breda idonei all’uso civile antincendio – spiega Brizzi -. Ci risulta che quest’anno non hanno versato nemmeno una goccia d’acqua sino a giovedì, quando li hanno visti in volo per la prima volta. A conferma che questa assurda riforma è squilibrata, avendo assegnato ai Carabinieri elicotteri che servirebbero ai Vigili del Fuoco».

Ieri l’Usb ha diffuso un documento, firmato il 7 luglio dal generale dell’Arma Antonio Ricciardi, comandante dell’Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare, nel quale si dice che gli ex forestali non hanno il compito di sedare gli incendi boschivi. Il documento, precisa l’Usb, impartisce ordini precisi: in caso di incendio chiamare i Vigili del Fuoco. L’intervento diretto è consentito solo in caso di «piccoli fuochi». Dei 32 elicotteri di cui il Corpo Forestale disponeva, prosegue l’Usb, 16 sono passati ai carabinieri e sono stati trasformati in velivoli militari con un cambio di matricola.

Mancanza di uomini, risorse e programmazione è quanto denuncia il coordinatore regionale Cgil dei pompieri toscani, Massimo Marconcini: «La situazione è disperata, gli elicotteri sono tutti fermi per problemi vari, le autopompe serbatoio e le auto hanno in media 15-20 anni. Le recenti scelte legislative hanno prodotto da un lato l’abbandono del corpo dei vigili, lasciato senza mezzi e con risorse inadeguate, dall’altro hanno creato confusioni normative e comportamentali con la soppressione del Corpo forestale».

Ai problemi legati alle decisioni del governo si sommano i ritardi a livello regionale: le due realtà più bersagliate dagli incendi, Sicilia e Campania, si sono fatte trovare impreparate. La Sicilia, che aveva 23mila lavoratori forestali, al momento non ha ancora stipulato la convenzione con il corpo dei Vigili del Fuoco per la prevenzione degli incendi. Il governatore Rosario Crocetta nega di esserne responsabile: «Abbiamo sempre avuto una convenzione con il Corpo forestale, dopo che l’hanno smantellato i mezzi dovevano essere trasferiti ai pompieri. Ho chiesto di rinnovare la convenzione e aspettiamo una risposta».

In Campania la firma in calce alla convenzione è stata messa dal governatore ieri e dovrebbe partire oggi. Il capogruppo di Fi in regione ipotizza un’illegittimità nella procedura.
A proposito di “radici cristiane”Ecco come la lettura del libello di Matteo Renzi può aiutare a rendere i chiacchiericci estivi un po più interessanti e chiarificatori che discutere delle differenze tra D’Alema e Pisapia.

Huffington Post online, 16 luglio 2017

Davvero non verrebbe voglia di parlare del libro di Renzi: anche perché viene da piangere pensando che un editore con la storia di Feltrinelli si sia prestato a questa grottesca operazione di marketing politico. Ma discutere di alcuni dei nodi toccati nelle innumerevoli anticipazioni del libro è almeno un modo per dirci con chiarezza cosa vuol dire oggi essere di sinistra. Parlando delle cose, e dei problemi: e non seguendo e alimentando, invece, il terrificante borsino quotidiano delle distanze di Pisapia da D'Alema, roba capace di far crollare ai minimi storici l'affluenza alle prossime elezioni.

Nella pagina ritagliata per il quotidiano dei vescovi, Avvenire, Renzi scrive che: «Avere rifiutato di menzionare le radici cristiane dell'Europa appare dunque un tragico errore che, in nome di un astratto principio di rispetto multiculturale, ha impedito una definizione più precisa della nostra identità. Quasi che avessimo paura a definirci per quello che siamo dal punto di vista oggettivo della cultura continentale, non certo dal punto di vista soggettivo del culto individuale».

Ecco, questa è una posizione inequivocabilmente di destra. Perché pensa di usare una costituzione europea per definire una identità escludente: ritenendo che l'Europa sia “casa nostra”, ben distante dalle case in cui dovremmo aiutare (cito sempre Renzi) i migranti musulmani. Devo dichiarare che sono cristiano, e cattolico praticante. Ma sono anche uno strenuo sostenitore della più rigorosa laicità dello Stato. Perché sono profondamente convinto – cito Oscar Luigi Scalfaro, il più cattolico e anche il più laico dei nostri presidenti – che «lo Stato deve essere la casa di tutti». Lo Stato italiano: e a maggior ragione l'Europa.

Matteo Renzi, che pure si è laureato con una tesi su Giorgio La Pira, forse non ricorda il dibattito alla Costituente del 22 dicembre 1947. Con la Carta sul filo del traguardo (verrà approvata quello stesso giorno), il cattolicissimo deputato fiorentino propose di inserire un preambolo che contenesse il nome di Dio. A questo punto intervennero, mirabilmente, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi e Piero Calamandrei: tutti garbatamente, ma fermamente, contrari. Marchesi – comunista, partigiano e grande umanista – disse che «questo mistero, questo supremo mistero dell'universo non può essere risoluto in un articolo della Costituzione, in un articolo di Costituzione che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno».

La Pira, alla fine, ritirò saggiamente la sua proposta, per non spaccare la Costituente sul nome di Dio. Ma il punto qui più rilevante è quello in cui La Pira chiarisce il senso della sua proposta: che voleva essere un alto riferimento ad una dimensione spirituale, non una dichiarazione confessionale. Il Dio che La Pira voleva in Costituzione, insomma, non era il Dio cristiano: «L'importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella Costituzione irlandese:"In nome della Santissima Trinità"», disse.

Oggi, settant'anni dopo, Renzi vorrebbe invece per l'Europa proprio quella dichiarazione di una matrice confessionale che La Pira non voleva allora. Ed è fin troppo evidente che Renzi non è più cattolico di La Pira: ma oggi questioni altissime come questa vengono cucinate sul fuoco della più brutale ricerca del consenso. Perché è chiaro che un'affermazione identitaria come quella che vorrebbe Renzi va letta nel quadro della retorica securitaria: nella retorica che definisce una “casa nostra” in opposizione alla “casa loro”. L'idea tristissima di un'Europa così incapace di futuro, e riversa su stessa, da trasformare la propria storia in un muro.

Allora, no: il “tragico errore” di cui parla Renzi non è certo quello di aver saggiamente rinunciato alla menzione delle “radici cristiane”. Da fiorentino e, appunto, da cristiano vorrei ricordare al mio ex sindaco un suo personale “tragico errore”: quello di essersi opposto in tutti i modi alla costruzione di una moschea a Firenze.

«Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento» diceva Renzi nel marzo 2011. Nacque allora un ampio dibattito, e quando gli scrissi una mail con la proposta di cercare quello spazio in una chiesa sconsacrata (è successo per esempio a Palermo), Renzi mi rispose: «È una bella sfida, Tomaso. Davvero una bella sfida...». Naturalmente una sfida mai raccolta: Firenze non ha una moschea.

E ancora recentissimamente Renzi ha rimbrottato il suo successore Dario Nardella, che finalmente dà qualche timido segnale di indipendenza e che aveva individuato un luogo dove fare la moschea, rimproverandogli di mettere a rischio un confinante affare immobiliare (dell'imprenditore che aveva comprato l'Unità).

Ecco: inscrivere nella costituzione europea le “radici cristiane” è un'idea di destra, che va d'accordo con la linea politica (di destra) di un'amministrazione che fa di tutto per non permettere la costruzione di una moschea.

È difficile esagerare la portata di una questione come questa. In un recente, magnifico libro (Ma quale paradiso? Tra i Jihadisti delle Maldive, Einaudi 2017) Francesca Borri racconta che quando un maldiviano apprende che lei è italiana, reagisce così: «Ho visto quelle foto di ... come si chiama, con tutti i musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati!». E l'autrice commenta: «Si chiama Nicolò De Giorgis, il fotografo. L'Italia ha 1,3 milioni di musulmani. E 8 moschee. I musulmani pregano in palestre dismesse, campi incolti. In periferie di cemento e ciminiere, tra vecchi copertoni. Al riparo di teli di plastica». Questa la percezione dell'Italia, alle Maldive: il paese del lusso per gli occidentali, e anche il paese con il più alto numero pro capite di foreign fighters, cioè di musulmani che vanno a combattere in Siria, con l'Isis.

Basta questo per capire che, se stiamo facendo un “tragico errore”, quell'errore non è certo evitare l'ennesimo arroccamento identitario dettato dalla paura, ma piuttosto quelli di non camminare a grandi passi sulla via non solo dell'integrazione, ma della giustizia.

Costruire giustizia, inclusione, eguaglianza: ecco cosa vuol dire essere di sinistra. E cioè provare a costruire un futuro migliore, e più giusto. E si potrebbe anche aggiungere: fare cose cristiane, invece che sbandierare radici cristiane. Può darsi che queste siano cose “estremistiche” o “radicali” rispetto al teatrino delle prossimità variabili tra i leader senza popolo di una sinistra che non c'è. Allora, spero che le sere di questa estate servano a discutere di queste cose: a costruire una sinistra un po' più radicale.

Un contributo da Parigi al ricordo di Marina, «donna di grande cultura, coraggiosa resistente che sfidava consistenti poteri politici ed economici», inviato a

eddyburg da una coppia di amici che, avendo conosciuto lei e i suoi "libretti", avrebbero voluto che il suo esempio si propagasse nel mondo


Marina Zanazzo, la femme qui osait ouvrir les yeux surVenise

Venise vient de perdre l’un de ses plus courageux lanceurs d’alerte: Marina Zanazzo s’est éteinte, à 61 ans, le soir du 12 juillet, après 18 mois de lutte acharnée contre un cancer du pancréas.


Marina avait créé une maison d’édition en 2005et lancé en 2011 une collection de livrets dénonçant, chacun, l’un des scandalesqui menacent Venise, sa Lagune et l’équilibre vital entre la cité et son cadreécologique. Ces livrets très denses, à la fois analytiques et synthétiques,réunis sous le titre Occhi aperti suVenezia, Yeux ouverts sur Venise, ont révélé des scandales, souvent quelquesmois avant qu’ils n’éclatent au grand jour .

Les auteurs étaient des universitaires, des journalistes, des spécialistesdont Marina rendait le propos accessible à tous. Cette femme de grande culture, cette courageuseRésistante défiait des pouvoirs politiques et économiques considérables. Ceux, notamment,de dizaines de notables complices dans l’affaire du Mose, (Modulo sperimentale elettronicomecanico), le barrage flottantinefficace, nocif mais utile pour détourner un milliard et demi d’euros !Et ceux de sociétés puissantes comme Benetton qui a dégradé l’antique Fontego dei Tedeschi, le transformant encentre commercial de luxe.

Marina a aussi affronté les politiques qui, àla commune même de Venise, se sont acharnés à amplifier encore un tourisme demasse qui étouffe la ville et chasse ses habitants des rues et de leurs maisons.Ces politiques et leurs complices maintiennent le passage des grands paquebots,les grandi navi, dans la Lagune, cequi creuse celle-ci, la transforme progressivement en bras de mer et sape lesfondations de Venise. Ces grandi navine rapportent rien à la ville de Venise et à ses habitants, n’enrichissent que l’organisationportuaire et des intérêts particuliers. Tous ces faits et autres méfaits sontdétaillés dans Occhi aperti su Venezia.

En exergue de ses courriels, Marina Zanazzoplaçait une phrase de Proust expliquant que les terres des barbares n’étaientpas celles qui n’avaient jamais connu l’art, mais celles, riches en chefsd’œuvres, qui ne savaient ni les apprécier, ni les préserver…

Epaulée par l’urbaniste Edoardo Salzano et l’archivisteLidia Fersuoch, sa directrice scientifique, Marina Zanazzo a, sur son chemin,rencontré tant d’entraves qu’elle a dû arrêter ses publications. Elle éditaencore hors collection, début 2016, un dernier livre au titre significatifaffirmant que « Venise est une ville » (Venezia è una città, Franco Mancuso). Elle préparait un ultimelivre dans ses Occhi aperti su Venezia,pour défendre une île de la Lagune menacée par des intérêts privés.

A la clôture de son activité éditoriale, Marinaavait décidé d’effectuer son Grand tour avec pour première étape Paris qu’elleallait contempler à nos côtés, perchée dans les nuages, au 28èmeétage d’une tour près de Montparnasse. Elle avait déjà dans sa poche le billetd’avion, lorsqu’elle découvrit sa maladie. Après avoir tant lutté contre le cancerde la corruption, elle était agressée en son corps par un autre cancer. Elleentama un nouveau combat et, malgré les souffrances, multiplia les projets, trouvala force de collaborer à un épais livre de Lidia Fersuoch, proposa de décorerd’un murales le parloir d’une prisonpour distraire les enfants visitant les prisonniers.

Sur sa page Facebook, elle publia une photod’elle, le crâne rasé, narguant son mal. Encore et toujours très belle.

Marina garda jusqu’au bout, tel un talisman,son billet d’avion pour Paris. I l y a un an, de sa voix chaude, chaleureuse, ellenous confiait un regret : les résistants qui combattent pour Veniserestent trop souvent en ordre dispersé, séparés par des querelles mineures. «Ilsdevraient s’unir sur l’essentiel: sauver Venise! » Parions que la disparition de Marina Zanazzo galvaniserases compagnons, leur donnera la force de faire revivre la collection des Yeux ouverts sur Venise et de continuer ainsià dénoncer les agressions menaçant la survie de ce qui reste de la Sérénissime.

Nous n’oublierons jamais cette grande et bellefemme qui, en janvier encore, arpentait Venise de son pas alerte, énergique.
Arletteet André-Yves Portnoff
Paris, le14 juillet 2017

Qualche giorno fa ho postillato un articolo di Enzo Scandurra dal titolo C'è vita a sinistra serve una lista contro i malati di realismo esprimendo il mio dissenso e riservandomi di argomentarlo. Ho impiegato qualche giorno più del previsto, e ringrazio Enzo per avermi stimolato a tentar di disporre con un po' di sistematicità cose cui riflettevo da tempo.

Credo che la chiave del dissenso sia nella parola ”sinistra”. Mi riferisco a quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, , migrazioni, disoccupazione.

1. Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento, riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, a tutelare i principi della Rivoluzione liberale laddove essi consentivano di accrescere il peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.

Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni della Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermato come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il ”comunismo”). Esso tuttavia non aveva rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel suo “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba).

In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì la sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.

Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciasse l’umanità: la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.

Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa. Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”.

2. Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure lo aveva subìto senza comprenderlo né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalismo” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).

Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamento e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperialismo fase suprema del capitalismo).

E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale). Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.

La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).

Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha accettato slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.

Ha potuto svilupparsi così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile”. Il compromesso operato dalla Commissione Bruntland, ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da parte ditutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della "vecchia sinistra" : il Neoliberalismo.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla sinistra nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là del solo sfruttamento economico.

Era divenuto potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. Come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo.

Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione


Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.

Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale, libro Primo, sezione III). E ancora: «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).

Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico. So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare)?

L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.

Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione in compagnia dei protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.

Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Ma è 'unica coerente con la mia visione delle cose.

Così come, del resto, sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che, nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita. Nella speranza che sia l’ultima volta.
14 luglio 2017 (correzioni formali 4 agosto 2017)

Ne siamo convinti, lo sosteniamo da tempo, e in questi tempi grigi nei quali i nostri governanti operano con fredda superiorità unicamente attenti al "nostro" tornaconto occorre ribadire con forza il concetto.

Internazionale, 14 luglio 2017 (p.d.)

Le frasi di Matteo Renzi sui migranti (“Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ma abbiamo il dovere morale di aiutarli a casa loro”) non sono un inciampo o un errore di comunicazione. Sono invece un buon indicatore dell’umore generale, perfino a sinistra. Un umore che Renzi asseconda e cerca di sfruttare, anziché combattere. Ma l’idea di “aiutarli a casa loro” è un bluff, un modo neppure troppo elegante di lavarsi le mani della questione. Perché se si fanno due conti, come li ha fatti Ilda Curti, esperta di relazioni internazionali e in passato assessore a Torino, si capisce subito che “aiutarli a casa loro” comporterebbe costi, non solo economici, di gran lunga superiori ad “accoglierli a casa nostra”.
Bisognerebbe smettere di vendere armi e tecnologie militari ai regimi autoritari (l’Italia è l’ottavo paese al mondo per esportazioni di armi); sospendere ogni forma di sostegno economico ai governi corrotti; interrompere lo sfruttamento delle regioni da cui proviene gran parte delle materie prime di cui hanno bisogno le nostre industrie; affrontare e combattere seriamente il cambiamento climatico; investire in scuole, ospedali, sviluppo locale, infrastrutture, tecnologia, energia rinnovabile, reti di mobilità sostenibile; combattere l’economia dello sfruttamento, quella che ci fa trovare i pomodori a un euro al chilo nei supermercati; aprire canali umanitari che tolgano ossigeno a trafficanti e mafie; riformare e dare autorevolezza alle istituzioni internazionali, cedendo tutti un po’ di sovranità nazionale. E molto altro ancora, con l’obiettivo di combattere le disuguaglianze globali e pronti a rinunciare a parte dei privilegi dell’essere nati casualmente da questa parte del mondo.

Ecco, per aiutarli davvero “a casa loro” bisognerebbe fare tutto questo. Ma è chiaro che nessun leader europeo ha realmente intenzione di farlo. Perché vorrebbe dire fare la rivoluzione.

il manifesto, 14 luglio 2017 (c.m.c.)

I recenti dati diffusi dall’Istat sulla crescita della disoccupazione e della precarietà, specialmente fra i giovani, chiariscono come la deregolamentazione del mercato del lavoro, che imperversa da vent’anni, ha prodotto i risultati devastanti a cui assistiamo.

Già durante i “ruggenti” anni Ottanta si era tentato intaccare le tutele dei lavoratori introdotte negli anni precedenti, ma con scarsi risultati. Si dovette aspettare il crollo del comunismo, il Trattato di Maastricht e il nuovo vento liberista degli anni Novanta per giungere a risultati concreti. Il pacchetto Treu (legge 196 del 1997), che compie ora vent’anni, costituì una svolta decisiva verso la flessibilità contrattuale: il provvedimento introdusse infatti la possibilità di utilizzare il rapporto di lavoro interinale, ampliando notevolmente i margini di applicabilità del lavoro a tempo determinato.

Alla fine degli anni Novanta il dilagare di forme di lavoro subordinato mascherate da contratti di collaborazione portò alla necessità di un’ulteriore regolamentazione normativa, la legge Biagi. Da un lato delimitò l’ambito di applicazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, dall’altro allargò ulteriormente le tipologie contrattuali «atipiche». I livelli di protezione normativa del lavoro, secondo la misura che ne dà l’Ocse, si sono via via ridotti negli anni più recenti, a seguito dell’introduzione di ulteriori livelli di flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro.

Dapprima la riforma Fornero (la legge 92 del 2012) ha ridotto la possibilità di reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Da ultimo il Jobs act varato dal governo Renzi ha previsto sia una maggiore libertà nell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato, sia l’abolizione di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

I provvedimenti renziani sono il triste epilogo di una storia ventennale, segnata sia da un progressivo indebolimento della classe lavoratrice, sia, non casualmente, da una generale penalizzazione dei salari. I limiti e le contraddizioni dell’ultima stagione che abbiamo vissuto emergono con maggiore chiarezza se tentiamo un confronto con le vicende degli anni Sessanta e Settanta, quando l’allargamento dei diritti (che per il capitale sono solo “rigidità”) andava di pari passo con la crescita economica e la bassa disoccupazione.

Molti dei principi costituzionali in tema di protezione del lavoro e parità fra i sessi trovarono per la prima volta applicazione, in un contesto di espansione del reddito, stabilità dei livelli generali di occupazione e in particolare, a partire dal 1973, di crescita dell’occupazione femminile. Non mancarono certo le criticità, specialmente per i giovani e le donne, ma è anche vero che in quegli anni il tasso di disoccupazione maschile si mantenne sempre inferiore al 5%. La vivace stagione di riforme di quegli anni si aprì con la legge 1369 del 1960, che vietava l’intermediazione nelle prestazioni di lavoro. Seguì nel 1962 la legge 230, la quale fissava vincoli stringenti per la stipula di contratti a termine, stabilendo la centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La legge 7 del 1963 vietò il licenziamento per matrimonio, una pratica molto diffusa che costituiva un fattore discriminante nei confronti delle donne. La legge 604 del 1966 riconobbe il principio della giusta causa nei licenziamenti individuali, anticipando quanto stabilito dallo Statuto dei lavoratori del 1970. Dopo anni di lotte, nel 1969 si arrivò anche all’abolizione delle «gabbie salariali», i differenziali retributivi per area geografica introdotti nel 1945.

Nel 1975 i sindacati ottennero poi il totale adeguamento dei salari all’inflazione, una riduzione della differenza retributiva fra categorie e un’estensione della Cassa integrazione come ammortizzatore sociale dei licenziamenti. Nel 1977 si giunse infine a una legge che stabilì la parità fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e nella retribuzione. Un’altra epoca, si dirà. Ma lo studio del passato serve proprio a questo: a offrire termini di confronto, a dimostrare che altri scenari sono sempre possibili e a confutare i dogmi che le classi dominanti ci impongono. Come la presunta necessità di barattare i diritti in cambio dell’occupazione e del benessere economico.

il manifesto, 14 luglio 2017

«Rapporto Istat Povertà in Italia 2016. Nel2016 oltre 4 milioni di persone in «povertà assoluta», erano la metà nel 2007.E aumenta anche il «lavoro povero». 8 milioni e 465mila persone, pari a 2milioni 734mila famiglie, sono in «povertà relativa». In questa condizione sitrova chi è prigioniero della «trappola della precarietà». 7 miliardi di euroall’anno sarebbero necessari per finanziare un sussidio contro la povertà.14-21 miliardi per un «reddito minimo». In Italia è in corso una guerraeconomica silenziosa, ma concretissima, che precarizza tutta la vita»

Nel paese dove si salvanole banche con 68 miliardi di euro, non si trovano i 7 miliardi all’annonecessari per un sostegno «universale» contro la povertà assoluta. Senzacontare i 14-21 miliardi necessari per finanziare le ipotesi di reddito minimoche permetterebbe di affrontare seriamente un nuovo problema: la «trappoladella precarietà». Oggi in Italia chi lavora con un reddito basso non riesce asottrarsi alla povertà e arrivare a fine mese.
La clamorosa asimmetria, prodotto di ungigantesco spostamento di ricchezza verso il capitale e di politiche economichesbagliate come i bonus a pioggia o l’abolizione della tassa sulla prima casa,si ritrova nel report «La povertà in Italia» nel 2016, pubblicato ieridall’Istat. Come sempre i dati vanno interpretati, e visti sulla tendenza dimedio periodo: gli ultimi dieci anni, quelli della crisi. L’Istat sostiene chenel 2016 i «poveri assoluti» erano 4 milioni e 742 mila persone, pari a 1milione e 619 mila famiglie residenti. La «povertà relativa» riguarda 8 milioni465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie. Rispetto al 2015, illivello si presenta «stabile». Dato in sé preoccupante a conferma che nulla èstato fatto in quei 12 mesi dal governo Renzi, in un periodo in cui lestatistiche attestavano una «crescita» che non produce occupazione fissa, né unarretramento della povertà. Tuttavia c’è qualcosa che peggiora ancora.L’incidenza della povertà assoluta sale tra le famiglie con tre o più figliminori e interessa più di 814 mila persone. Oggi aumenta e colpisce 1 milione e292 mila minori.
Parliamo di persone che non riescono araccogliere risorse primarie per il sostentamento umano: l’acqua, il cibo, ilvestiario o i soldi per un affitto. Questa situazione riguarda anche coloro chepossiedono un lavoro. L’incidenza della povertà assoluta è doppia per i nucleiil cui capofamiglia è un «male breadwinner» e lavora come operaio. L’Istatregistra anche un’altra tendenza: la «povertà relativa» colpisce di più lefamiglie giovani. Raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under35mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. L’incidenzadella povertà relativa si mantiene elevata per gli operai (18,7%) e per lefamiglie dove il «breadwinner» è in cerca di occupazione (31,0%). Suggestionistatistiche che indicano l’esistenza di un continente sommerso: il lavoropovero, e non solo quello della deprivazione radicale a cui spesso è associatala tradizionale immagine della povertà.
La situazione generale è tale che MarcoLucchini, segretario della fondazione Banco alimentare onlus, ha sostenuto cheoltre 80 mila tonnellate di cibo distribuite in 8 mila strutture caritative inItalia hanno arginato la crescita del fenomeno, ma non non risolvonol’emergenza sociale più dimenticata nel Belpaese. Dieci anni fa, nel 2007, ipoveri assoluti erano 2 milioni e 427 mila persone. Oggi sono raddoppiati: 4milioni e 742 mila. È uno scenario di guerra, quella economica che proseguesilente, ma concretissima, da anni. A tutti i livelli.
I rimedi sono pannicelli caldi. Ieriil ministro del Welfare Giuliano Poletti si affannava, ancora, nel tentativo dispiegare come il governo ha modificato i criteri di accesso alla prima, emodesta, misura «contro la povertà». Quest’anno 800 mila persone dovrebberoprima beneficiare della social card del «Sia» che sarà trasformata in corsa nel«reddito di inclusione». La sproporzione è evidentissima: solo i poveriassoluti sono 4 milioni e 742 mila persone. Ci sarebbe bisogno di una misurapluriennale crescente fino a 7 miliardi, ma i fondi stanziati resteranno fermial miliardo. E poi dovranno essere rifinanziati. Ma questa è un’altra storia:riguarderà la prossima legislatura. Quindi un altro mondo, un altro universo,lontanissimo. Concretamente si parla di un sussidio di ultima istanza che va daun minino di 190 a un massimo di 485 euro per le famiglie più numerose con 5componenti. Importi per di più vincolati a una serie di condizionalità cherendono tale sussidio tutto tranne che «universale».
La disconnessione totale trala politica economica seguita in questi 10 anni e la condizione materiale cheurla da questi dati è evidente. L’Alleanza contro la povertà, il cartello diassociazioni e sindacati che ha premuto per ottenere il «reddito di inclusione»chiede l’introduzione di un piano pluriennale già dalla prossima legge dibilancio che permetta a chi non ha una famiglia con figli di condurre unostandard di vita dignitoso. Susanna Camusso (Cgil) ritiene che tale «reddito»sia uno «strumento corretto da finanziare» evitando di «distribuire bonus apioggia». Il Movimento 5 Stelle attribuisce gran parte delle responsabilità diquesta situazione «all’immobilismo politico del governo Renzi». Giulio Marcon(Sinistra Italiana) fa un ragionamento di sistema: questo è il frutto del ciecorigore delle politiche Ue e dell’incapacità dei governi di uscire dalledisuguaglianze e dalla precarizzazione progressiva<

«Iil manifesto, 13 luglio 2017

La leadership mediatica di Giuliano Pisapia sul progetto di (centro)sinistra prossimo venturo sta stretto alla sinistra del teatro Brancaccio che non nasconde le sue critiche. In un incontro organizzato ieri al Senato dall’associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars), presieduta da Aldo Tortorella e Vincenzo Vita, i nodi sono venuti al pettine a cominciare con l’intervento di Anna Falcone, autrice dell’appello del Brancaccio con Tomaso Montanari: «Si sta creando un dibattito che si occupa del proprio ombelico con una discussione sulle alleanze e sulla leadership – ha detto – Al Brancaccio non abbiamo delimitato un’area chiusa della società civile contro la politica ma abbiamo parlato di una politica al servizio dei cittadini. Il nostro invito al dialogo viene rigettato giorno dopo giorno. Inizio a pensare che chi non vuole discutere non ha nulla da proporre. In queste condizioni si rischia di fare un accordicchio, non una lista unitaria e una sinistra seria con un programma credibile». Pur senza nominarlo, il riferimento polemico di Falcone era Pisapia.

A Arturo Scotto, ex Sel ora in Mdp, è toccato il compito di ribadire la centralità di Pisapia nel progetto del (centro)sinistra: «È necessario costruire una sinistra che ricostruisca il campo largo del centro-sinistra senza veti a destra e a sinistra, oltre il sì e il no» ha detto, probabilmente riferendosi al fatto che Pisapia ha votato «Sì» al referendum del 4 dicembre, mentre tutta la sinistra ha votato «No» e su questo intende dare battaglia in chiave anti-Renzi e anti-Pd. «È probabile che la sua sia solo una dimensione mediatica, e che fuori non esistiamo – ha continuato Scotto – Ma bisogna fare i conti con Pisapia: esiste e determina fatti politici».

Per Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana questa prospettiva ineluttabile non è accettabile. Dopo il forum al Manifesto, Maurizio Acerbo lo ha ribadito nella discussione di ieri all’Ars che invitava a riflettere sull’«unità della sinistra»: «Falcone e Montanari hanno chiesto ai partiti di fare un passo indietro per costruire una lista di sinistra. Noi e anche Sinistra Italiana ci stiamo – sostiene il segretario di Rifondazione – Mdp dice che vuole fare il centrosinistra che è un’altra cosa. Se l’appello del Brancaccio fosse stato accolto non ci troveremmo in questa impasse, la loro risposta è stata piazza SS. Apostoli. Insisteremo per creare un’unità, ma arriverà un momento in cui il tempo si fermerà e si dovranno prendere delle decisioni».

«Non vorrei che per la preoccupazione di evitare divisioni dopo le elezioni si finisca per dividersi prima» ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Il messaggio a Pisapia è chiaro: «Non sono disponibile a seguire come l’intendenza un processo che non trovo convincente. Penso che chi si sente unito più al Pd che a noi, come ha detto Pisapia di recente, ponga un problema politico gigantesco. Dopo l’«aiutiamoli a casa loro» che Renzi ha detto sui migranti non può dirlo. Le leadership e soprattutto i programmi si costruiscono insieme».

«È in corso una battaglia politica sul senso di questa lista – hanno detto Massimo Torelli e Alfonso Gianni (Altra Europa) – Bisogna spingere al confronto sui territori per capire chi esiste e chi no in questa partita». «Su cosa chiederemo il voto? Sul fatto che siamo uniti? Non è sufficiente – ha concluso Bia Sarasini (Altra Europa) – Un progetto politico deve farsi carico della vita materiale delle persone e da questo trovare un accordo su una lista elettorale».

© 2024 Eddyburg