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SGOMBRIAMO IL CAMPO DALLE SCIOCCHEZZE sui fatti di Bari:

1) NON C'E' STATA ALCUNA RISSA, né vera né sfiorata. I fascisti ci hanno aggredito a freddo e con armi bianche mentre avevamo già cominciato ad allontanarci lungo via Crisanzio, ovviamente disarmati.
Io sono stato colpito alle spalle, sulla testa, con lo scopo evidente di far male davvero.

2) NON C'E' STATA ALCUNA PROVOCAZIONE.

I fascisti hanno percorso circa 100mt dalla loro sede per raggiungerci. Non c'era stato alcun contatto se non quello visivo.

Siamo anche incredibilmente riusciti a non insultarli quando si sono avvicinati. Eravamo infatti preoccupati per la presenza di bambini in passeggino. Abbiamo gridato "Ci sono dei bambini" e "Stiamo andando via" mentre loro ci colpivano con la bava alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite urlando in dialetto barese.

3) NON C'ERA ALCUN PIANO DI ASSALTO ALLA LORO SEDE.

Che accusa ridicola, procedevamo alla spicciolata e ci stavamo "concentrando" in 5 persone, tra cui due passeggini. Hanno paura, questi fascisti, eh?

Semplicemente, via Eritrea incrocia via Crisanzio, che era la strada di deflusso più naturale dalla piazza in cui era finito il corteo antifascista (piazza del Redentore) verso la stazione e l'università, zona da cui eravamo partiti. Ci siamo fermati perché una ragazza di colore con bambina piccola aveva paura a rientrare a casa in via Eritrea dato l'assembramento fascista poco lontano. Si dovrà accertare il motivo per cui le forze dell'ordine erano assenti in quel punto ad impedire un contatto assolutamente prevedibile.

Abbiamo denunciato gli aggressori e raccontato i fatti nei dettagli. Andremo fino in fondo a questa storia.

Il primo obiettivo è che la sede barese di queste belve, un mix di frustrati e delinquenti comuni, nulla a che vedere con la politica, chiuda immediatamente.

I giornalisti mi hanno detto che Salvini avrebbe parlato di clamore esagerato dai media. Io penso che se un militante della Lega fosse stato colpito e ferito come capitato a me, o anche molto meno, da chiccchessia, per qualunque motivo, lui avrebbe parlato di terrorismo e mandato l'esercito, come minimo.

La malafede di questo fiancheggiatore dei fascisti è palese.

E' indegno che questa figura sia Ministro della Repubblica.

L'aggressione ai partecipanti alla manifestazione "Mai con Salvini" di ieri sera a Bari conferma che il fascismo oggi in Italia non è un rischio, ma un realtà operante con la complicità del governo. Link all' articolo de il fatto quotidiano. (e.s).

The Guardian

Sono passati ormai 10 giorni da quando il ‘Presidente del Consiglio’ Conte ha pronunciato alla Fiera del Levante il suo indecente discorso sulla rinascita italiana dopo l’8 settembre del 1943. Segue

Sono passati ormai 10 giorni da quando il ‘Presidente del Consiglio’ Conte ha pronunciato alla Fiera del Levante il suo indecente discorso sulla rinascita italiana dopo l’8 settembre del 1943.

Sulla stampa generalista si è parlato, per lo più, di una gaffe e si è sottolineato che, probabilmente, l’ineffabile personaggio (o un suo ghost writer) voleva fare riferimento al 25 aprile. Ma fra la Liberazione e l’inizio del cosiddetto miracolo economico sono passati ben 10 anni! E, soprattutto, la gaffe appare intollerabile perché Conte ha dimostrato di non avere alcuna consapevolezza su cosa abbia significato, per un paese già martoriato dalla guerra, l’8 settembre: la fuga vile del re e di Badoglio, lo sbandamento dell’esercito italiano lasciato senza una guida, le migliaia di morti militari e civili, la Repubblica Sociale, gli eccidi di popolazione inerme da parte dell’esercito nazista in fuga verso Nord e… la Resistenza Partigiana!

Sant'Anna di Stazzema, luogo dell'eccidio di centinaia di civili
da parte dei nazisti in ritirata e dei fascisti: 12 agosto 1944.
Fonte: foto di Maria Cristina Gibelli

Signor Conte: Marzabotto, le Fosse Ardeatine e Sant’Anna di Stazzema le ha mai sentite nominare? Ed è a conoscenza degli 87.000 militari caduti partecipando alla Guerra di Liberazione?

Nessuna reazione dagli accademici e, in particolare, dai giuristi?

Nessuna protesta formale da parte degli atenei e, in particolare, dalle Facoltà di Giurisprudenza?

Il prof. Conte ha delegittimato, con la sua ignoranza, tutti coloro che hanno insegnato o insegnano nell’università: qualcuno se ne è accorto?

lavoce.info, Il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Tra maggiori tutele per i produttori di contenuti e rischio di censura, ora spetta ai singoli stati recepire e applicare la nomativa. (m.p.r.)

La tutela dei diritti di proprietà, anche intellettuale

Molto probabilmente esiste un larghissimo accordo intorno all’importanza dei diritti di proprietà per il buon funzionamento di un’economia di mercato, pur in presenza di un settore pubblico di dimensioni relative ampie. Secondo un vasto novero di scienziati sociali, che va dai giuristi ai filosofi, dagli scienziati politici agli economisti, la loro definizione e tutela rende più ordinata e vivibile la vita collettiva, anche se ciò può portare a una disuguaglianza notevole nella distribuzione di questi diritti. Gli economisti sono particolarmente interessati al modo in cui diritti di proprietà ben definiti inducano cittadini e imprese a investire di più, in modo tale da aumentare l’utilità e il rendimento che ricavano dai beni che ne sono oggetto: perché mai dovrei ristrutturare una casa se esiste un rischio elevato di essere espropriato oppure di essere deprivato del bene da parte del primo che passa?

La civiltà industriale si è col tempo sviluppata anche grazie alla definizione dei cosiddetti diritti di proprietà intellettuale, cioè sulle opere dell’ingegno umano (brevetti, software, design, marchi, diritto d’autore), fissando generalmente limiti temporali, cosicché, a un certo punto, le idee possano diventare patrimonio comune – e non privato – degli esseri umani. La tecnologia, nel nostro caso l’invenzione di internet insieme con il ruolo progressivamente più esteso dei social network, impone la necessità di pensare a come questi diritti di proprietà intellettuale – e in particolare i diritti d’autore – debbano essere tutelati in presenza di una possibilità di espandere (quasi) infinitamente i contenuti digitali: può accadere infatti che lo stesso filmato o la stessa notizia divenga virale e finisca per apparire su centinaia di migliaia di pagine internet.

Per qualche tempo è stata coltivata l’illusione che i meccanismi di trasmissione dei contenuti su internet potessero essere decentrati secondo un meccanismo apprezzabilmente “democratico”. Al contrario, la dominanza di pochi motori di ricerca e pochi social network ha fatto sì che la distribuzione dei contenuti sia invece prevalentemente avvenuta in maniera accentrata, secondo un meccanismo di finanziamento basato in larga parte sugli introiti pubblicitari ottenuti dalle grandi piattaforme. La lamentela dei produttori di contenuti è che le piattaforme hanno potuto sfruttare i contenuti senza pagare “il giusto prezzo”, che dipenderebbe per l’appunto da una remunerazione del diritto d’autore: ciò vale per giornali e produttori di notizie nei confronti dei siti che aggregano le notizie, come Google News, e per i produttori di video e brani musicali che compaiono su YouTube e social network come Facebook e Twitter.

Due articoli per i produttori di contenuti

Ebbene, questa settimana il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato a larga maggioranza una direttiva sul copyright digitale che – negli articoli 11 e 13 – sposta il bilanciamento della tutela del diritto d’autore nella sfera digitale a favore dei produttori di contenuti e a svantaggio delle grandi piattaforme. L’articolo 11 in particolare si focalizza sull’estensione del diritto d’autore per gli editori e in generale i produttori di notizie rispetto agli “information society service providers”, cioè le piattaforme che ospitano link e riassunti delle notizie. Naturalmente, le grandi piattaforme – da Google a Facebook, a Twitter – hanno rimarcato come l’aggregazione di contenuti da parte loro aumenti di molto il numero di utenti che vengono smistati dalle piattaforme stesse agli articoli originali, così da aiutare i produttori a ottenere ricavi, pubblicitari e non. La replica degli editori è che – nel caso delle notizie – il riassunto della notizia stessa è la notizia, cosicché la piattaforma finirebbe per cannibalizzare i siti originali senza un’adeguata compensazione.

Nel caso invece dell’articolo 13, il riferimento è ai contenuti audio e video, per i quali è necessario che le piattaforme verifichino l’identità di chi detiene il diritto d’autore e – grazie a tecnologia adeguata – siano in grado di rimuoverli sotto richiesta di chi detiene i diritti originali. I detrattori della norma lamentano il rischio di censura, nella misura in cui ogni riutilizzo creativo di contenuti, ad esempio nella forma di una parodia o di una replica, sia potenzialmente soggetto alle richieste di eliminazione dalla piattaforma da parte dei creatori dei contenuti originali.

Come al solito nelle faccende sociali, economiche e giuridiche, entrambe le parti coinvolte nella contesa hanno le loro ragioni da far valere attraverso attività di lobbying e di propaganda verso l’opinione pubblica. In attesa che il processo legislativo UE faccia il suo corso (è necessaria l’approvazione dei singoli stati perché la direttiva possa essere definitivamente applicata attraverso provvedimenti legislativi nazionali), si può rilevare come sia sensato che il pendolo della tutela dei diritti di proprietà e di utilizzo da parte di terzi si muova ora nella direzione favorevole ai primi, così da incentivare e finanziare la produzione di contenuti. Tuttavia, per rispondere alle forti critiche mosse dagli oppositori, è importante che il pendolo non si sposti eccessivamente nella direzione presa questa settimana, e in particolare che si eviti un utilizzo strumentale della nuova disciplina – specialmente dell’articolo 13 – per censurare contenuti sgraditi. Sotto questo profilo è opportuno rammentare che nulla vieta, anche nel nuovo contesto normativo, di produrre contenuti gratuiti per i quali nessuna disputa “sul giusto prezzo” può aprirsi, in quanto il produttore stesso ha deciso di facilitare la diffusione azzerando il proprio guadagno monetario diretto.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

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    «Migranti. se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’austerity che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare»

    L’Unione, già Comunità (che vuol dire mettere le proprie risorse in comune) Europea, si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Forse si è già dissolta. A prima vista la causa più evidente del fallimento è la cosiddetta «crisi migratoria». È evidente che trattare decine o centinaia di migliaia di esseri umani come pacchi, come un peso da scaricarsi l’un l’altro e facendo finta, a ogni nuovo arrivo, di affrontare il problema per la prima volta, non è una politica lungimirante.

    L’Ue non ha combattuto le politiche di Orbàn quando era ora di farlo, mentre aveva a suo tempo condannato quelle dell’austriaco Haider (ma non quelle di Bossi quando per la Lega l’Unione era già “Forcolandia”). Così ha creato nel suo seno i Salvini, e i molti come lui, in tutto il continente. L’establishment europeo è stato accecato dalla sua “cultura economica”, pensando che il “resto”, l’unità politica, seguisse automaticamente (l’intendence suivra…). Così è passato come un carro armato sulla Grecia (culla della sua “civiltà”) per salvare qualche banca francese o tedesca e ora, dopo aver subito senza reagire la “brexit”, rischia di venir trascinata nel baratro dall’Italia: nazione “fondatrice” dell’Unione, ma Stato quasi fallito. Per cui, se l’Italia e i suoi abitanti sono un vuoto a perdere, con i migranti se la vedano loro…

    Eppure nel dopoguerra la ricostruzione dell’Europa, quella che aveva dato vita alla Comunità europea, era stata in gran parte opera di immigrati (metà profughi dell’Est europeo, metà provenienti dalle sponde Nord, Italia compresa, e Sud del Mediterraneo). Immigrati erano stati anche i protagonisti dei “miracoli economici” degli anni ‘60 e della successiva ancorché parziale ascesa dell’Unione a potenza (economica) mondiale. La svolta è arrivata con la crisi del 2008, che ha portato alla luce pulsioni represse da tempo. L’Unione l’ha affrontata con l’austerità, rinunciando con ciò a un ruolo da protagonista; e da allora i migranti - sia profughi, di guerra e, sempre più, anche ambientali, sia gente affamata in cerca di un lavoro - hanno cominciato a venir trattati come la peste. Le destre europee, e il popolo dei social e degli stadi che le segue, lo fanno apertamente, spesso con un linguaggio che è ormai, e in modo ostentato, nazista. Gli altri, le forze “istituzionali”, lo fanno in modo ipocrita, cercando di nasconderlo. Ma, per tutti, profughi e “migranti economici” sono solo un peso e come tali vengono trattati. Da loro c’è solo da ricavare qualche occasione per sfruttarli meglio per ripagarsi del fatto di non essere riusciti a scacciarli.

    Così, al centro delle prossime elezioni europee, ma soprattutto di un ben più importante confronto sul futuro delle nostre vite e della convivenza, ci saranno loro, i migranti; o, meglio, la capacità o meno di disfarsene; o la promessa di essere più bravi nel farlo. Privi di alternative, centro e “sinistre” non faranno che accodarsi alle ricette delle destre. Affrontare questa partita aggrappandosi alla zattera che affonda delle sinistre europee e al loro rosario di desiderata mai contestualizzati, mai veramente perseguiti e quasi sempre rinnegati - lavoro, welfare, diritti, istruzione, ricerca… - vuol dire averla già persa. Lo scontro tra accogliere e respingere è già deciso perché dietro ad “accogliere” non c’è né un programma per il “dopo” - che fare di e con chi viene accolto? – né il progetto di un’Europa diversa da quella che c’è; mentre dietro a “respingere” c’è un progetto preciso, anche se mai dichiarato: il trattamento riservato oggi ai migranti è quello in serbo anche per la maggioranza di noi. Perché che cosa ne sarà dell’Europa di domani, qualsiasi strada imbocchi, non riguarda solo i migranti ma tutti noi.

    Dunque, se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’ che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare.

    A essere bloccata è la conversione ecologica: la capacità di indirizzare forze e pensieri alle misure per far fronte ai cambiamenti climatici e a un degrado ambientale irreversibili. È l’unica scelta in grado di restituire un ruolo all’Europa, ma che è anche senza alternative che non siano la rovina del pianeta e dell’umanità e una guerra permanente contro i migranti destinata a provocare milioni di morti e ad alimentare reclutamenti di massa da parte di formazioni terroristiche. Ma è una svolta che non può più essere affidata a Governi e imprese che hanno dimostrato di non saperla affrontare. Solo quei movimenti attivi nella difesa dei territori e nel sostegno ai migranti, che sono molti e variegati, ma dispersi e scollegati, possono mettere all’ordine del giorno l’intera questione in modo concreto, con buone pratiche e un confronto aperto. Se sapranno farlo potranno riorientare anche una parte di quelle forze politiche e delle istituzioni, a partire dai governi locali, che hanno da tempo perso ogni contatto con la realtà.

    La conversione ecologica non può che essere un processo partecipato e svilupparsi a partire dal livello locale, avendo però di mira tutto il pianeta. Ma di esso profughi e migranti sono una componente essenziale, perché possono portare un grande contributo alla realizzazione dei milioni di interventi diffusi necessari (l’opposto delle Grandi opere e dei grandi eventi dell’attuale modello di “sviluppo”); soprattutto se il finanziamento di quegli interventi sarà legato all’inclusione di una consistente quota di migranti tra la manodopera da coinvolgere e non da sfruttare. Assisteremmo allora a una corsa per “accaparrarseli”, mentre continuando a trattare come ora la popolazione immigrata stiamo trasformando l’Europa in un grande campo di concentramento (da gestire accanto alla vita che si svolge “come sempre “), ma anche in un campo di battaglia.

    Ma i migranti sono una componente essenziale della conversione ecologica anche perché il loro coinvolgimento è una strada obbligata per la rigenerazione dei loro territori di origine, a cui molti di loro vorrebbero poter tornare e con le cui comunità molti altri mantengono dei contatti. Il risanamento ambientale e sociale (la partecipazione) di quei territori ha bisogno di nuovi attori, che possono essere solo loro; certo non gli attuali Governi locali o quelli che se ne stanno appropriando in continuità con le politiche coloniali del secolo scorso; e meno che mai le multinazionali che ne stanno devastando il territorio: cioè tutti quelli del “prima noi”, non solo qui, ma anche “a casa loro”.

    il Fatto Quotidiano

    Caro direttore,

    sul Corriere della sera di lunedì scorso, 13 agosto, l’ex membro della corte costituzionale Sabino Cassese ha riscritto l’articolo 1 della Costituzione, virandolo all’imperfetto: «La sovranità apparteneva al popolo». È questo il senso ultimo dell’editoriale in cui si afferma che «non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati», per concludere con una bacchettata agli ingenui che «hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo». Nello stesso giorno, il supplemento economico dello stesso Corriere pubblicava un altro editoriale del professor Cassese, in cui il nostro Stato non più sovrano viene esortato calorosamente a riprendere il filo delle privatizzazioni, spogliandosi del poco che gli è rimasto.

    Dal punto di vista di Cassese, che è quello della classe dirigente a cui dobbiamo l’Italia che abbiamo (e che, nel suo cerchio più interno e solidale, stringe anche gli ultimi due capi dello Stato, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella), si tratta di ovvietà: è ovvio che la volontà popolare non conti più nulla, è ovvio che la sovranità appartenga ai mercati e ai loro pagatissimi consulenti e difensori, è ovvio che lo Stato debba continuare a smontare se stesso (anche se lo ha fatto più di tutti gli altri in Europa, dopo il Regno Unito della Thatcher e Blair, e con risultati orrendi sotto il profilo economico, politico e morale). Coerentemente Cassese – che è stato ministro della Repubblica e appunto giudice costituzionale – non ha avuto alcun problemi a far parte del board di difensori di Vivendi contro gli interessi italiani: una cosa capace di scandalizzare solo chi ha un concetto troppo elementare dell’amor patrio.

    Ho dunque espresso questo stesso giudizio su twitter: «Per Sabino Cassese, sul Corriere di oggi, è troppo elementare l’idea di democrazia in cui un governo risponde al popolo. A essere davvero sovrani sono i mercati e i loro esperti-mandarini, profumatamente pagati. Ebbene, come si fa a non essere antisistema se questo è il sistema?». Ora, mi aspettavo risposte indignate o liquidatorie di berlusconiani d’antan, professori ultraliberisti, confindustriali trinariciuti. Invece, chi è che a muso duro mi scrive prima un gentile: «Quindi?», poi un garbatissimo: «Mentre leggevi il testo stavi ascoltando musica? Perché ho impressione che tu abbia capito molto poco»? Nientemeno che il presidente dell’Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni, il piddino Stefano Bonaccini. Passato lo stupore - sì, non smetto di stupirmi di fronte a una ‘sinistra’ che vede il mondo come la destra -, ho replicato che «Ad aver capito poco di tutto questo è il suo partito. Purtroppo per il suo partito e anche per questo Paese, oggi finito proprio per questo nelle mani di Salvini». A questo punto, Bonaccini è uscito dal seminato ricorrendo alla meravigliosa retorica dei gufi: «Se siamo nelle mani di Salvini suddividiamoci almeno la responsabilità visto lo sforzo che lei ha prodotto per attaccare quotidianamente il Pd ed i governi di csx. E visto il successo del suo progetto politico. Applausi».

    L’allusione al ‘mio’ progetto politico si riferiva, credo, a quello partito dal Brancaccio: fallito perché ciò che ne è nato (senza la mia partecipazione), e cioè Liberi e Uguali, era troppo vicino e appiattito sul Pd, non certo a causa di un suo radicalismo antisistema di sinistra (magari ci fosse stato). Quel che sfugge a Bonaccini e alla gran parte del Pd è proprio questo: un partito che introietta e fa propria ancora oggi l’analisi della realtà di Cassese (un’analisi che aderisce entusiasticamente alla realtà che descrive), dicendo al popolo che la sua volontà non conta né conterà più nulla, si candida a perdere in eterno, in un Paese in cui questo stato delle cose ha prodotto 11 milioni di italiani a rischio di povertà. Ed è quasi commovente che la dirigenza di un partito che ha governato per decenni potendo letteralmente tutto, oggi addossi la colpa ai pochi intellettuali che, da sinistra, ogni giorno dicevano al Pd che si sarebbe schiantato contro un muro, e non a a se stessa, che guidava a folle velocità precisamente contro quel muro.

    Quando parla di una sovranità più larga di quella popolare, Cassese allude a quella dei grandi organismi finanziari: per esempio la banca JP Morgan, che sostenne (insieme a lui) la riforma costituzionale del Pd, che aveva il preciso intento di diminuire il potere dei cittadini. La maschia reazione da tastiera di Bonaccini dimostra che il Pd è sempre fermo lì, entusiasticamente a guardia dello stato delle cose: lasciando così tutti coloro che (letteralmente) non sopportano più questo sistema a votare per Salvini e per Di Maio. Cosa deve ancora succedere perché il Pd inizi a capirlo?

    la Repubblica,

    Maschi di razza bianca tra i venti e i quaranta – l’età della guerra – quasi tutti con i capelli cortissimi, giubbotti di pelle, felpe nere e occhiali neri, l’atteggiamento muscolare/marziale di chi presidia un territorio per allontanare un pericolo, respingere un nemico. Sono gli attivisti argentini di Pro Vida che manifestano contro la legalizzazione dell’aborto (foto pubblicata ieri su questo giornale), fronteggiando, falange di uomini, un corteo di donne. Ma per capire dove siamo, e di quale gruppo umano si tratta, ci vuole la didascalia. Perché potrebbero benissimo essere, al primo sguardo, manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter – mai, comunque, da leader.

    A un colpo d’occhio vincolato alle tradizioni novecentesche parrebbe un’antropologia fascista, o fascistoide. In Europa abbiamo imparato a chiamarli "sovranisti", e le debite differenze storiche, territoriali, politiche, se non si vuole cadere nel luogo comune, vanno sicuramente fatte. Ma alcuni ingredienti ideologici si ritrovano ovunque, tra i supporter di Trump come tra quelli di Putin, di Orban, di Salvini. Il mito del Popolo come entità innocente corrotta dalle élite borghesi, la Nazione come fonte di purezza contaminata dal cosmopolitismo, la religione cristiana intesa come omaggio alle tradizioni, non certo come impegno solidaristico, una sempre meno malcelata omofobia, un diffuso antisemitismo, un vigoroso, quasi festoso antifemminismo, come se qualcuno avesse finalmente levato il coperchio al pentolone ribollente della frustrazione maschile.
    Questo ultimo aspetto – il revanscismo maschile – è esplicito nel caso di Pro Vida e di tutti i movimenti analoghi, per i quali l’autonomia del corpo femminile è un attentato non "alla vita" – come dice una propaganda che di fronte all’aborto clandestino non ha mai fatto una piega - ma all’ordine patriarcale. Ma sarebbe il caso di considerarlo più estesamente, più attentamente, come una delle componenti fondamentali della grande revanche della destra politica (comunque la si voglia chiamare) in tutto l’Occidente.
    È certamente lecito domandarsi quanto un’onda reazionaria di queste dimensioni attinga dagli errori delle democrazie, e/o dalla rigidità dogmatica di certi sbocchi del politicamente corretto: basti
    pensare alla scia non sempre limpida del movimento #MeeToo e allo zelo persecutorio contro molestie sessuali forse non così efferate da meritare la riesumazione venti o anche trent’anni dopo. Ma le dimensioni e la compattezza del neo maschilismo di destra sono tali da far capire che non possono essere, a nutrirlo, i codicilli e le fumisterie di quell’imponente corpus di libertà e giustizia che è il processo di autodeterminazione delle donne. C’è, evidentemente, qualcosa di molto più profondo e molto più sostanziale, a provocare tutte queste adunate di maschi in posa da maschi: e questo qualcosa è l’autodeterminazione delle donne in sé, della quale l’interruzione di gravidanza è una delle pagine più complicate e più inevitabili, con la legalizzazione a fare da discrimine secco tra un prima di sottomissione e un dopo nel quale le scelte della femmina contano, scandalosamente, tanto quanto quelle del maschio.
    Se vale l’ipotesi che siano l’insicurezza del maschio e la sua disperata voglia di rivincita, uno dei motori delle nuove destre in marcia, allora andrebbe percentualmente ridimensionata l’influenza che la crisi economica ha sull’aggressività montante da un lato; e sulla crisi della democrazia dall’altro. È un’influenza oggettiva, quella della crisi economica, e di grande rilievo: ma se ne parla sempre come dell’unica benzina che alimenta il motore delle destre nazionaliste, insieme all’additivo, potente, della paura dello straniero. Molto meno si parla del brusco processo di respingimento, sia esso cosciente o istintivo, che le donne subiscono all’interno degli assetti del nuovo potere.
    Del trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orban e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra...) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana; degli undici maschi su undici nello staff social di Matteo Salvini; della presenza marginale, e quasi mai menzionata, delle donne nel nuovo agone mediatico, che sembra costruito a misura di maschio a partire dalla vocazione all’insulto, alla sopraffazione, alla prova di forza che soppianta ogni dialettica e ogni riflessione. Di più "maschile", nel novero dei paesaggi sociali e dei passaggi storici, rimane solamente la guerra: alla quale, per linguaggio, per atteggiamento, perfino per abbigliamento, sembrano in qualche modo predisporsi i manipoli di giovani maschi già bene addestrati, in lunghi decenni di imbelle assenza dei governi (questo sì, un errore fatale della democrazia), nelle curve degli stadi di tutta Europa. E adesso molto visibili anche nelle piazze.

    Perché la Marcia Perugia-Assisi? Perché, come disse Aldo Capitini, è «un tentativo di entrare dentro il terreno della politica con una forma partecipativa ancora non sperimentata nel nostro paese». Questa marcia, ebbe modo di dire sempre Aldo Capitini riferendosi alle classi popolari, «è fatta per loro, perché i contadini sanno camminare, mentre sono a disagio nelle conferenze». Parole sacrosante...da sottoscrivere.

    Capitini definisce il suo pensiero come legato a una «prassi pura», cioè una pratica che realizza «un'intenzione retta che discende da un’adesione incondizionata alla verità». Frasi come «un primo lavoro da fare è di togliere tutte le crudeltà e le uccisioni inutili, se si vuole tener fede al principio di estendere l’unità anche con gli esseri subumani», oppure, parlando direttamente ad una pianta, «io non ti distruggerò; tu non sei per me un oggetto, uno strumento freddo, ma sei una compagnia, una presenza, un essere che ha in sé un soffio e un’apertura all'aria, alla luce, simile a quelli che ho anch’io», sono riflessioni che raccolgono una tensione universale.

    La nonviolenza è amore, «essa è la scelta – scrive Capitini – di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani».

    Se non si usa la violenza, trionfano i cattivi? Capitini scrive che innanzitutto anche «l’uso della violenza non ci dà sufficiente garanzia che trionfino i buoni, perché l’uso della violenza richiede che si facciano tanti compromessi» e poi, che «se per tenere testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei loro modi, all’ultimo realmente è la cattiveria che vince» e che, così, «scompare la differenza tra noi e loro, e c’è bisogno che sorga una differenza netta tra chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformino il mondo».

    Un percorso di crescita comune: «l’educazione moderna si svolge non soltanto lungo la linea di passaggio dal centro dell’educazione dall’educatore all’educando, ma anche lungo quella di una coscienza sempre più precisa dell’educarsi insieme».
    «Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi»

    Giacomo Leopardi

    L'Espresso, 1 agosto 2018. «A 38 anni dalla strage non conosciamo ancora i mandanti, ma sappiamo molte verità. Milano, Brescia, Bologna, le bombe sui treni, non sono attentati scollegati: sono stragi inserite in una più ampia strategia della tensione. Con mani esterne che hanno sempre lavorato contro la verità»

    Strage di Stato. È la definizione-shock che fu coniata, in origine, per piazza Fontana: la prima bomba nera, quella del 12 dicembre 1969 a Milano (17 morti). Significa che pezzi dello Stato sono stati complici degli stragisti. È la più tragica anomalia italiana. Il terrorismo colpisce in tutto il mondo, ma nei Paesi civili è contro lo Stato, che unisce le sue forze per combatterlo. In alcune nazioni, invece, è dentro lo Stato. Per anni la tesi della strage di Stato fu liquidata come “un’invenzione della sinistra”. Oggi è il marchio ufficiale del terrorismo di destra italiano, confermato già da quattro sentenze definitive. Ignorate o dimenticate. Anche se raccontano gli anni più neri della nostra democrazia. E offrono una chiave che potrebbe aprire l’armadio dei misteri anche delle stragi mafiose. Strategia della tensione. Dal passato al presente. Da Milano a Bologna. Da Palermo a Roma.

    Per la bomba che nel 1969, l’anno delle lotte operaie e studentesche, devastò una banca di Milano precipitando l’Italia nel terrorismo politico, sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio, per favoreggiamento, due ufficiali dei servizi segreti militari (l’allora Sid): il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio La Bruna. Entrambi affiliati alla loggia massonica P2. Invece di aiutare la giustizia, distruggevano le prove e facevano scappare all’estero i ricercati per terrorismo, con documenti falsi e soldi dello Stato. Per l’eccidio in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) è stato dichiarato colpevole anche dalla Cassazione, nel giugno 2017, dopo decenni di depistaggi, un neofascista che era a libro paga dello stesso Sid, Maurizio Tramonte: un confidente nero che avvisò della bomba, ma i servizi non fecero nulla e poi bruciarono i verbali.

    Anche per la strage di Peteano (31 maggio 1972, tre carabinieri dilaniati da un’autobomba) le indagini e i processi di Venezia hanno comprovato depistaggi gravissimi, orditi da altri ufficiali dei servizi, tutti militari, come le vittime. E poi c’è Bologna, la bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni, che ha ucciso 85 innocenti. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. L’Espresso ha recuperato tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera: strage di Stato. Anche a Bologna.

    Le linguette delle bombe a mano

    Valerio Fioravanti è un terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. La giustizia al suo massimo livello (Cassazione a sezioni unite) ha confermato che fu lui, con la sua complice e convivente Francesca Mambro, a portare il micidiale ordigno in stazione. Dopo l’arresto nel 1981, i due killer neri hanno confessato dieci omicidi. Ma per la strage si sono sempre proclamati innocenti. In un processo separato, altri giudici hanno riconfermato la loro colpevolezza condannando un terzo terrorista dei loro Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Francesco Ciavardini, 17enne all’epoca della strage. Dopo l’arresto, nel tentativo di sminuire la gravità degli indizi, Fioravanti dichiarò che lui e la Mambro erano «vittime dei servizi». Ma le sentenze certificano il contrario: furono protetti dal Sismi (l’ex Sid). Dopo la carneficina di Bologna, con una serie di depistaggi esplosivi. Ma anche all’inizio della carriera criminale. Come se fossero sempre stati creature dei servizi.

    Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti. Le Srcm hanno una linguetta metallica, con impresso un codice che identifica la partita. E noi abbiamo trovato le linguette, staccate dai terroristi, nei luoghi degli attentati. Quindi erano proprio quelle rubate da Fioravanti e Alibrandi. I servizi lo sapevano da anni. Ma non dissero niente ai magistrati che indagavano su quelle bombe».

    Alessandro Alibrandi è un terrorista nero che fu ucciso in una sparatoria con la polizia nel 1981. È stato uno dei fondatori dei Nar con lo stesso Fioravanti e con Massimo Carminati, arrestato di nuovo nel 2014 come presunto capo di mafia Capitale, ma già condannato negli anni Ottanta come armiere della Banda della Magliana. Tra Nar e Magliana era nata un’alleanza criminale, cementata da un arsenale misto di armi ed esplosivi. Il patto tra terroristi neri e big della delinquenza romana permise di allacciare rapporti con boss di Cosa nostra, riciclatori di denaro sporco, complici piduisti e servizi segreti.

    Le mille lire spezzate

    L’imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini, è al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25 è una stranezza: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. All’epoca nessuno vi diede peso. Oggi, tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio, la famosa rete militare segreta anticomunista, spuntano foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. A Bologna oggi emerge che pure un altro terrorista nero, legato a Cavallini, custodiva una banconota tagliata, questa volta da centomila lire, scoperta durante il suo arresto. «Su queste coincidenze bisogna riflettere», ha commentato in udienza il presidente della corte d’assise, il giudice Michele Leoni. I legali di parte civile hanno già chiesto di acquisire quelle carte di Gladio.

    Per la strage di carabinieri a Peteano, le indagini del pm veneziano Felice Casson hanno già dimostrato (come si legge nella sentenza d’appello diventata definitiva) che il particolarissimo innesco dell’autobomba era uscito da un arsenale friulano di Gladio. Fu proprio quell’inchiesta a svelare l’esistenza dell’organizzazione segreta militari-civili, che il governo Andreotti presentò, nel 1990, come una struttura della Nato, destinata ad attivarsi solo in caso di invasione sovietica. In realtà quel deposito di Gladio, il cosiddetto “Nasco 203”, come ricorda oggi Casson, «fu trovato aperto: mancavano proprio due accenditori a strappo, registrati ma spariti, identici all’innesco di Peteano». Segno che, sotto l’ombrello di Gladio, operavano nuclei ristretti non militari, segretissimi, autorizzati a usare l’arsenale di Stato. Per finalità opposte alla difesa della patria.

    I servizi manovrati dalla P2 hanno sicuramente usato esplosivo di Stato per inquinare le indagini di Bologna. I vertici del Sismi iniziano a depistare subito dopo la strage, inventando una lunga serie di false «piste internazionali», prima di sinistra, poi di destra, ma contro i nemici dei Nar. Il 13 gennaio 1981 i depistaggi raggiungono l’apice: il Sismi fa ritrovare, sul treno Taranto-Milano, una valigia con un mitra, un fucile a canne mozze e otto contenitori con due tipi di esplosivi, identici alla miscela utilizzata per la strage di Bologna. Nella valigia ci sono passaporti e biglietti aerei intestati a due inesistenti terroristi stranieri. Con un’inchiesta da manuale, i magistrati dimostrano che è un’altra montatura del Sismi: l’ennesima «pista estera», costruita per salvare Fioravanti e i suoi complici. Il processo si chiude con la condanna definitiva del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e del faccendiere dei servizi Francesco Pazienza.

    Due mesi dopo, il 17 marzo 1981, i magistrati di Milano, indagando su tutt’altro (il finto sequestro del banchiere Michele Sindona, organizzato da Cosa nostra) scoprono le liste degli affiliati alla P2: ci sono tutti i vertici dei servizi segreti, compresi Musumeci e il capo, il generale Santovito (morto prima del processo). Lo stesso Licio Gelli, da anni grande burattinaio dei servizi, viene condannato come regista del maxi-depistaggio di Bologna: un indizio decisivo è la scoperta che ha incontrato personalmente il capocentro di Roma del Sisde, il servizio segreto civile, e gli ha ordinato di smettere di indagare sui terroristi di destra per concentrarsi sulla (falsa) «pista internazionale». Una deviazione prontamente eseguita dal funzionario piduista. Nonostante le condanne definitive, alcuni politici della destra di oggi continuano a pubblicizzare fantomatiche «piste estere».

    Finora si pensava che i capi del Sismi fedeli a Gelli, con la valigia sul treno, avessero potuto duplicare l’esplosivo della strage grazie a una soffiata, una fuga di notizie sugli accertamenti, ancora segreti, dei periti giudiziari. Ma l’origine della bomba resta un mistero: non si è mai saputo chi fornì il composto militare (T4) che moltiplicò la potenza dell’ordigno. Ora il caso delle mezze banconote solleva un interrogativo spaventoso: i servizi sapevano tutto dell’esplosivo perché erano stati loro a procurarlo? Nella strage di Bologna anche la bomba ha il marchio di Stato?

    Di certo i legami con i servizi riguardano intere cordate di terroristi di destra. Fioravanti, nella gerarchia nera, è subentrato a Giuseppe Dimitri, arrestato nel 1979: nel suo covo furono sequestrate armi e 20 chili di esplosivo. E nell’agenda Dimitri aveva il numero riservato di Musumeci.

    Sergio Picciafuoco è un ex delinquente comune, reclutato nei Nar, che rimase ferito nella strage di Bologna, facendosi curare sotto nome falso. Sospettato di essere il basista, è stato assolto. Anche lui ha beneficiato di coperture straordinarie. Prima della strage viene fermato dai carabinieri in Alto Adige: è latitante da anni, viaggia su un’auto rubata e ha un documento vistosamente falso. Eppure viene lasciato libero, come scoprono i magistrati di Bologna. E continua a girare l’Italia con lo stesso documento in teoria “bruciato”. Viene arrestato solo nell’aprile 1981, mentre rientra dall’Austria con un falso passaporto molto particolare: ha lo stesso numero del vero documento di Riccardo Brugia, un altro terrorista dei Nar; e fa parte di un pacchetto di sette documenti falsificati con lo stesso metodo. Brugia è stato riarrestato nel 2014 come braccio destro di Carminati in mafia Capitale. Era il presunto responsabile del reparto estorsioni e pestaggi. La grande criminalità che ha spadroneggiato impunita per anni a Roma, secondo l’accusa, nasce dall’eredità nera dei Nar. Ed è cresciuta grazie alle complicità create negli anni del terrorismo.

    Nel nuovo processo di Bologna, ha dovuto testimoniare anche Luigi Ciavardini, il terzo condannato per la strage. E ha finito per confermare un fatto mai emerso prima: a Treviso, nei giorni della strage, i Nar non disponevano solo dell’appartamento dove viveva Cavallini, sotto falso nome. C’era un secondo covo, rimasto segreto. In aula, davanti alla corte, Ciavardini non ha difficoltà a ripercorrere le tappe della sua fuga da Roma dopo l’assalto armato al liceo Giulio Cesare, con l’assassinio dell’agente Francesco Evangelista e la sparatoria in cui restò ferito al volto, diventando riconoscibile. Così arrivò a Treviso, via Milano, per raggiungere Cavallini, che però non poteva ospitarlo. Di qui il rifugio segreto. Le parti civili gli chiedono l’indirizzo e chi lo ha ospitato. Ciavardini non risponde. Il presidente lo rassicura: qualunque ipotetica accusa per i suoi fiancheggiatori è ormai cancellata dalla prescrizione. Ciavardini ha ormai scontato la pena, è libero, per la giustizia non rischia nulla. Eppure lo stragista si trincera ancora nel silenzio. Perché tanto mistero? Le parti civili indagano ancora e hanno un’idea precisa: quel covo era vicino a una caserma e fu procurato dai servizi. Personaggi ancora in grado di impaurire un ex terrorista.

    Nell’atto d’accusa finale sulla strage di Bologna, il giudice Vito Zincani ha riassunto così i risultati della maxi-istruttoria, che portò a inquisire, con accuse diverse, decine di terroristi neri: «Non c’è alcuna delle persone coinvolte nelle indagini che non risulti collegata ai servizi segreti».

    Il documento “Bologna” e i soldi segreti

    Licio Gelli è morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale. Tutto parte dal crack del Banco Ambrosiano. Il capo della P2 è stato condannato come responsabile e primo beneficiario della colossale bancarotta dell’istituto di Roberto Calvi (il banchiere ucciso nel 1982 a Londra). Sui conti svizzeri di Gelli sono stati sequestrati oltre 300 milioni di dollari, usciti dalle casse dell’Ambrosiano. Tra le sue carte dell’epoca ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro»: svariati milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli con il tesoro rubato all’Ambrosiano. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari.

    La commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, ha concluso che Gelli, già nei primi anni Settanta, aveva finanziato «gruppi terroristici toscani di ispirazione neofascista o neonazista», compresi i responsabili dei «primi attentati ferroviari». Ora si tratta di capire se il capo della P2, oltre a depistare, possa aver finanziato anche gli stragisti di Bologna.

    Paolo Bolognesi è il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980. «A 38 anni dalla strage non conosciamo ancora i mandanti, ma sappiamo molte verità. Milano, Brescia, Bologna, le bombe sui treni, non sono attentati scollegati: sono stragi inserite in una più ampia strategia della tensione. Con mani esterne che hanno sempre lavorato contro la verità». L’associazione ha presentato i due esposti che hanno portato al processo contro Cavallini e alle nuove indagini sui mandanti. Bolognesi ha acquisito nuovi elementi anche come parlamentare della commissione Moro, nella scorsa legislatura: «Paolo Inzerilli, già capo di Gladio, ha ammesso che esisteva una “Gladio nera”, formata da ex fascisti e militari. Quindi abbiamo chiesto al ministero di fornirci gli elenchi di questi “nuclei neri”, ma il dirigente si è opposto con la scusa della privacy. Vista la reticenza, la commissione ha chiesto ai vertici dell’Aise, l’attuale servizio segreto militare, che ci ha mandato un plico di 600 pagine, ma senza alcun nome. Carta straccia, insomma. A questo punto ho chiesto alla commissione di indagare per depistaggio. E la procura di Roma ci ha chiesto gli atti e ha aperto un fascicolo. Questo dimostra che esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
    Tra i pochi che conoscono i segreti del terrorismo nero c’è Roberto Fiore, oggi leader di Forza nuova, che verrà sentito come testimone nel processo a Cavallini, con l’obbligo di dire la verità. Fiore fu condannato per banda armata come capo di Terza Posizione, l’incubatore dei Nar. Il 4 agosto 1980, due giorni dopo la strage, era a Castelfranco Veneto, dove accolse Ciavardini, che lo chiamava «capo». In giugno era in Sicilia, a casa di Francesco Mangiameli, assassinato da Fioravanti e Mambro perché aveva parlato della strage ad Amos Spiazzi, un ex colonnello dei servizi. La Cassazione nella sentenza definitiva scrive che Fioravanti e Mambro, dopo la strage, volevano uccidere anche Fiore: anche lui sapeva troppo?

    Poco prima della bomba, il 23 giugno 1980, l’attuale imputato Cavallini e il condannato Ciavardini avevano ammazzato, a Roma, il giudice Mario Amato. Come Vittorio Occorsio, ucciso quattro anni prima da Pierluigi Concutelli. Il giudice stava indagando sull’intreccio criminale fra terroristi di destra, banda della Magliana, servizi e loggia P2, che fu smascherata proprio dai due magistrati assassinati. Nel 1993, interrogato a Bologna, lo stesso Fioravanti, nel proclamarsi innocente, se ne uscì con una frase memorabile: «Siamo cresciuti col dubbio se le stragi siano opera di uno dei servizi infiltrato nell’estrema destra o se era uno di destra che tentava di infiltrarsi nei servizi». Luigi Ilardo, il boss di Cosa nostra che fu ucciso quando stava per pentirsi, confidò ai carabinieri che la mafia seguiva la stessa trama nera: «Per capire le stragi del 1992 e 1993 bisogna guardare agli anni della strategia della tensione. Cosa nostra le ha eseguite, ma quelle stragi sono state decise con settori deviati delle istituzioni, massoneria e servizi segreti». Di certo, anche nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino e della scorta, non sono mancati i depistaggi di Stato.

    Caro direttore, Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini.

    Ho dedicato un piccolo libro (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, Edizioni del Gruppo Abele) al dovere di – sono parole di Bobbio – non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza: e lì ho indicato proprio in Saviano uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi. Su Salvini, poi, ho preso la parola in ogni sede: scrivendo, tra l’altro, la prefazione al libro che Antonello Caporale e Paper First hanno dedicato al «ministro della paura».

    Ma rompere il silenzio non basta. Racconta Emilio Lussu di un comizio in cui, quando un ascoltatore reclamò: «voce!», si sentì rispondere: «orecchio!». Per battere questa destra orrenda serve più orecchio che voce.

    Ci vuole ascolto, per capire perché (oltre al tessuto ricco, e talvolta razzista, del Nord che da anni si riconosce nel potere della Lega) anche i poveri, gli ultimi, gli ‘scartati’ (come li chiama papa Francesco) hanno votato in massa per le forze che si sono saldate in questo governo. E perché, nonostante tutto, continuano a sostenerle. Se non lo capiamo, rischiamo di maledire un sintomo (Salvini) senza curare la malattia.

    È un problema di credibilità, certo: nessuna voce contro Salvini è sincera se non ha detto, o non dice, che Marco Minniti ha fatto di peggio, anche se lontano dalle telecamere. O se non dice che il Dario Nardella che si fa riprendere mentre spiana con le ruspe un campo rom a Firenze è un sintomo della stessa malattia. E così via.

    Ma c’è qualcosa di terribilmente più profondo. Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte ad un Sergio Marchionne? Questi è stato un formidabile campione della anti-costituzione materiale per cui lavoro e diritti non sono compatibili: se vuoi il primo, devi rinunciare ai secondi. Come si fa a non vedere che tra la canonizzazione di Marchionne e il consenso a Salvini c’è un nesso strettissimo? Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio? Come sperare che vengano ascoltati giornali e partiti nei quali Marchionne è esaltato come un super-uomo, in vita e in morte lontano anni luce dai sotto-uomini che muoiono sul lavoro, il corpo oscenamente sfranto in pubblico, o affogano aggrappati al relitto di una barca, sotto l’occhio delle telecamere?

    Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori. Quando Salvini dice «prima gli italiani», nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece «tra gli italiani»: tra i poveri e i ricchi, che «non vogliono le stesse cose» (Tony Judt).

    Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di ‘austerità’ e ‘responsabilità’, è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla. Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero.

    Ma nessuna risposta capace di erodere questo disperato consenso può fermarsi alla proclamazione delle ragioni dell’umanità. Carlo Smuraglia ha di recente ricordato che «ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e a cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto albertino: quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo». Ebbene, davvero pensiamo di convincere gli italiani a una nuova (e ovviamente diversa) resistenza, solo per tornare all’Italia del Pd (e che sia il Pd di Renzi o Zingaretti davvero poco cambia), dell’inutile e distruttivo Tav, del Jobsact, e di tutto il resto?

    Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo Paese anche ‘grazie’ a ciò che chiamavamo ‘sinistra’. Bisogna saper indicare un’altra strada per costruire giustizia, eguaglianza, inclusione. Rompiamo il silenzio con tutta la forza che abbiamo, d’accordo: ma, per capire cosa davvero dobbiamo dire, bisogna prima saper ascoltare il Paese. Mai come oggi «ci vuole orecchio».

    Tratto dal il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2018, pagina
    il manifesto, 20 luglio 2018. La descrizione del cosiddetto «modello Niger» di respingimento dei migranti osannato da Tajani: un altro super affare per l'industria militare e politici corrotti, che ha l'effetto di lievitare i costi del viaggio e aprire nuove vie, ma soprattutto morti e sofferenze. (i.b.)

    Ora che il Niger viene indicato come la prossima frontiera esterna dell’Unione europea, non passa mese che un leader o un sotto-leader europeo non si rechi nella caldo-umida Niamey o al più nell’infuocata Agadez: l’ultimo in ordine di tempo è il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, appena rientrato dal viaggio con al seguito una trentina di imprenditori europei. E anche Tajani ha voluto visitare Agadez oltre alla capitale.

    L’antico caravanserraglio schiavistico, poi avamposto coloniale francese ai bordi del Sahara, da dove provenivano fino a due anni fa il 90 per cento dei migranti subsahariani diretti in Libia e da lì in Europa, è oggi una città caotica – nei racconti di chi la vive – e strapiena di presenze occidentali, anche di militari – in particolare provenienti dalla vicina base di droni americana costata secondo il New York Times 110 milioni di dollari, che ospita oltre 800 «berretti verdi» e da cui partono i comandi dei raid aerei anti-Isis in Libia.

    Ma soprattutto è piena di ambasciate, rappresentanze di agenzie dell’Onu e della Ue. E sono in fase di ultimazione i lavori per la costruzione di due nuovi compound per le sedi diplomatiche di Arabia Saudita e Stati Uniti grandi come interi isolati e sormontate da alte mura con garitte alla maniera di quelle di Kabul o Baghdad.

    Tajani naturalmente ha incontrato e stretto la mano al presidente del Niger, l’intramontabile Mahamadou Issaufou – siede alla presidenza dal 2011 ma in precedenza è stato primo ministro dal 1993, presidente del Parlamento e capo dell’opposizione in un periodo di frequenti colpi di Stato – che per l’occasione si è fatto trovare in patria. Pare che non sia così frequente, che preferisca soggiornare all’estero, tanto che il soprannome che gli viene appioppato è «Rimbo», dal nome della più famosa compagnia nigerina di autobus transfrontalieri, per altro di proprietà del suo amico personale e politico Mohamed Rhissa Ali, segnalato nei Panama Papers per aver investito gran parte della sua fortuna alle Seychelles, il più vicino paradiso fiscale.

    Il Niger totalizza un certo numero di record: è uno dei paesi più poveri al mondo, una persona su dieci è affetta da malnutrizione grave secondo il Programma alimentare mondiale: 2,3 milioni di persone bisognose di aiuti Pam, con un aumento del 21% rispetto al 2017 e il governo calcola che altri 1,4 milioni di nigerini saranno colpiti da insicurezza alimentare nel corso della carestia attualmente in atto. I vertiginosi rincari di riso e zucchero hanno già provocato manifestazioni e tumulti questa primavera, dopo i quali gran parte dei leader della società civile sono stati arrestati.

    Contemporaneamente è uno dei paesi con più corruzione al mondo: è al 112 posto nella lista di 180 paesi in base agli indici dell’ong Trasparency international. E infine, più di recente, è diventato il Paese destinatario della maggior percentuale di aiuti della Ue pro capite al mondo. Il fondo europeo di sviluppo ha stanziato per il ciclo 2014-2020 731 milioni di dollari per il Niger, ai quali se ne sono aggiunti prima altri 108 milioni, poi altri 30 per l’assistenza ai profughi nella regione del Diffa e altri ancora sono stati promessi nei giorni scorsi da Tajani, anche se per il momento il presidente del Parlamento di Strasburgo ha preferito non evocare cifre esatte, quanto piuttosto affari.

    Tajani ha parlato espressamente della collaborazione con le autorità nigerine come di «un modello che dobbiamo estendere ad altri paesi del Sahel seguendo l’esempio della Turchia dove abbiamo impegnato 6 miliardi di euro per chiudere la rotta balcanica». E si è portato in delegazione, oltre ai trenta «uomini d’affari interessati ad investire in Niger» attraverso una «partnership vantaggiosa», anche i dirigenti della Banca europea per gli investimenti.

    Il presidente Issoufou ha annunciato che entro l’anno convocherà una conferenza sugli investimenti prioritari pubblici e privati in favore della forza, anche armata, del G5 Sahel – che oltre al Niger comprende Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso – cioè il cartello di Stati del Sahel a cooperazione rafforzata che hanno appena ricevuto quasi mezzo miliardo di dollari (414 milioni) di donazioni internazionali – tra Usa, Ue, Canada e Giappone – per finanziare addestramento e forniture militari alla nascente forza militare regionale che dovrebbe stabilizzare l’area. È a sostegno di questa forza del G5 Sahel che l’ex governo Gentiloni ha voluto inviare 479 soldati italiani di cui grazie ad un rocambolesco scaricabarile delle autorità di Niamey si sono quasi perse le tracce. Da notare che a fianco degli eserciti del G5 Sahel ci sono già i 4 mila soldati francesi dell’operazione Barkhane.

    Antonio Tajani, arrivato con il compito di «rafforzare la cooperazione strategica», anche «per il ruolo chiave che il Niger sta avendo nel ridurre drasticamente i flussi di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa», ha tratteggiato la possibilità di investimenti e trasferimenti tecnologici in vari settori, dall’agricoltura alle energie rinnovabili, ma soprattutto traffico aereo e controllo delle frontiere, attraverso l’impiego dei sistemi satellitari Galileo e Copernicus.

    Quanto al «modello Niger » tanto decantato da Tajani, oltre che sulle due basi occidentali di droni, fa leva sulla legge nigerina numero 36 che ha reso illegale ai cittadini stranieri viaggiare a nord di Agadez verso il deserto, cioè lungo le piste più battute perché costellate di pozzi e oasi. Non sono molti i migranti che le guardie nigerine intercettano, solo 7 mila rimandati indietro nel 2017, mentre nel frattempo la corruzione per far chiudere un occhio ai gendarmi ha fatto lievitare i costi dei viaggi verso la Libia e reso la traversata del deserto molto più pericolosa, spesso mortale, come denuncia il reportage apparso su Africa Report di Daniel Howden e Giacomo Zandonini.
    I costi proibitivi e i rischi di morte hanno contribuito a far passare quest’anno da 300 mila a soli 10 mila i migranti in transito da Agadez. Ma altri varchi esistono per i passeurs Touareg e Tebu, come ad Arlit al confine con il Marocco e a Seguedine, dove si sono verificate recentemente le maggiori stragi nel deserto.

    Le strategie di respingimento europee hanno fatto già triplicare negli ultimi tre mesi i migranti chiusi nei centri di detenzione libici, da 5 mila a 9.300, secondo l’ultima stima dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e hanno portato le morti in mare a un migrante ogni sette imbarcati. Ma ciò che conta è che le commesse militari, per il monitoraggio delle frontiere e per le agenzie al servizio di questa politica, continuano a maglie sempre più larghe.

    Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

    Internazionale

    La tragedia dei profughi provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa è una grave crisi umanitaria e geopolitica che minaccia anche il futuro dell’Unione europea. Perché il progetto europeo non era solo la costruzione di un mercato, anche se alcuni paesi lo riducono a questo, ma la proiezione in Europa e nel mondo dei valori umani che sono alla base di un mondo fondato sulla pace e sulla solidarietà tra le specie. La xenofobia, il razzismo e l’egoismo che emergono dalle reazioni di molti governi e molti cittadini minano, in pratica, il sogno europeo.

    L’Europa che ora molti difendono è una società anziana e spaventata, circondata da un mondo di un miliardo di africani percepiti come i nuovi barbari. E contro i quali vengono alzate barriere fisiche, legali e militari per sigillare i nostri confini e, in particolare, le coste del Mediterraneo. Sforzo vano, a medio termine. Naturalmente il flusso di immigrati potrebbe essere ridotto sostanzialmente con una politica di sviluppo condiviso, a cui l’Europa, nel proprio interesse, deve contribuire. Ma una questione a sé sono i rifugiati, in fuga da guerre dal Medio Oriente e dall’Africa, causate dalla stupidità e dall’ambizione di Stati Uniti e Russia, ma anche dell’Europa (ricordatevi Tony Blair, José María Aznar, Nicolas Sarkozy e gli altri autoproclamati difensori della civiltà).

    Milioni di persone sono state costrette alla fuga e sono ancora senza casa, perché non dobbiamo dimenticare le guerre infinite in cui sono immerse ampie aree dell’Africa. E quando queste persone sono in mare, devi salvarle prima di discutere. E poi devi accoglierle e infine integrarle quando si tratta di rifugiati. Un processo lungo e complesso che viene negato da paesi come l’Italia e dai regimi xenofobi dell’Europa centrale e orientale.

    Il gesto del premier spagnolo Pedro Sánchez di accogliere la nave Aquarius alla deriva (segno di un politico che non rinuncia ai princìpi umani, un po’ come Angela Merkel) ha dato origine a una nuova dinamica in cui si finalmente si parla e si negozia tra i governi. Perché solo dalla cooperazione paneuropea può emergere una politica globale e differenziata su immigrazione e asilo. Politica che dovrebbe includere lo sviluppo condiviso nord-sud in relazione all’immigrazione, e lotta legale contro le mafie criminali che trafficano con gli esseri umani. Tuttavia, nonostante un primo tentativo di compromesso guidato da Sánchez, Macron e Merkel, tutto è stato lasciato nella nebbia perché gli xenofobi e i neonazisti oggi hanno l’iniziativa, oltre alla presidenza austriaca dell’Unione europea.

    E mentre nelle sale del potere si discute, migliaia di esseri umani vedono le loro vite distrutte senza un orizzonte di salvezza. Se non vi importa di questo, avete smesso di essere umani, e forse un giorno arriverà il vostro turno di vedere la porta chiudersi davanti ai vostri cari. Su questo pianeta, così com’è, o ci salviamo insieme o andiamo tutti all’inferno.

    Ma s’intravede qualche raggio di speranza. Se invece di guardare ai governi, paralizzati dalle loro lamentele, guardiamo le persone. Alle migliaia di cittadini che con generosità vanno in aiuto ai propri simili. E sono disposti a fornire alloggio, lavoro, istruzione a coloro che ne hanno urgente bisogno. Questa è la strategia alla base di una delle iniziative più esemplari ed efficaci che si stanno realizzando in Europa: i corridoi umanitari proposti e organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio con il sostegno diretto di Francesco. Un progetto che cerca di affrontare il problema chiave: l’integrazione nelle società in cui vivono i rifugiati. Evitare campi temporanei o ghetti assistiti, fonte di discriminazione e xenofobia.

    Il papa ha insistito sulla necessità di organizzare l’accoglienza da parte della società – che siano le famiglie, le parrocchie e le associazioni – per risolvere immediatamente il problema di dove vivere, lavorare, imparare la lingua e mandar a scuola i bambini. Per fare questo, individuano i rifugiati nei campi in cui sono arrivati ​​e organizzano il loro trasferimento legale verso i paesi europei. Come ha fatto lo stesso papa portando sull’aereo vaticano 22 profughi dall’isola di Lesbo.

    Questi sono i corridoi umanitari: quelli che vanno dalla geografia della disperazione ai paesi con i quali la Comunità di Sant’Egidio ha stretto accordi. Al momento Italia, San Marino, Belgio, Francia. E recentemente Andorra, che ha promesso di accogliere i rifugiati dalla Somalia e dall’Eritrea. Tutti i costi sono coperti da donazioni. L’unica cosa che serve ai governi è un visto per le famiglie individuate e accolte da Sant’Egidio.

    La Spagna non ha sottoscritto questi accordi. E se il ministro degli esteri Josep Borrell pensa, come ha giustamente affermato, che la questione dei rifugiati è la più grave crisi potenziale in Europa, farebbe bene a facilitare quei visti in collaborazione con il ministero dell’interno. Perché solo se la società civile, o le persone, vengono mobilitate, si può creare un tessuto sociale in cui i rifugiati non sono un problema, ma un contributo al paese ospite che ha bisogno di nuovo sangue per compensare il suo invecchiamento. In altre parole, i corridoi umanitari non solo salvano le persone senza alcun costo per il governo, ma consentono ai cittadini di essere parte della soluzione.

    Finora sono solo poche migliaia le persone che hanno viaggiato attraverso questi corridoi. Ma anche così sono più dei rifugiati accolti da quattordici paesi europei insieme. E se altre organizzazioni, compresi i comuni, adottassero iniziative simili, l’energia positiva che esiste in mezzo a noi potrebbe essere canalizzata per contrastare gli istinti distruttivi della mancanza di solidarietà che ci minaccia.

    Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano spagnolo La Vanguardia del 23 luglio 2018 e tradotto dall'internazionale.

    Tratto dalla pagina qui raggiungibile.


    Osservatorio solidarietà

    Marco Travaglio ha dedicato ben tre editoriali del Fatto, quasi consecutivi, alla difesa della politica del governo in tema di migranti (porti chiusi); il terzo, scritto insieme a Stefano Feltri. Le molte inesattezze e illazioni che costellano questi testi sono già state segnalate e confutate da numerosi articoli. Cito per tutti: Che c’è di vero nell’articolo di Marco Travaglio sulle ong di Annalisa Camilli su Internazionale.

    Qui cercherò invece di mostrare come si sviluppa il pensiero di Travaglio – e di quanti lo condividono – per portarlo a sostenere politiche micidiali in campo migratorio come quelle in atto da tempo.

    Scelta o racket?

    Il principio informatore di tutto il suo discorso – che è quello di tutti i governi europei – è questo: la lotta in corso non è contro i migranti ma contro “i trafficanti di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera (sic! Nera perché? Per il colore della pelle o per le tenebre che ne avvolgono le culture e le società?) e subsahariana, spesso convincendoli a partire con false promesse, li maltrattano durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittura li costringono a indebitare le proprie famiglie e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzare le traversate…dopo aver spogliato i migranti degli ultimi spiccioli”. “Parliamo – aggiunge Travaglio – di organizzazioni malavitose gigantesche, potentissime, ricchissime e attrezzatissime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate…Sono loro i responsabili del traffico, degli imbarchi e dei naufragi”.

    Qui Travaglio evita di dire tre cose. Primo: che se si esclude la tratta delle donne destinate alla prostituzione, spesso schiavizzate già alla partenza, quel termine, “prelevano”, tratta i migranti come burattini e ne sopprime completamente la libera scelta. Ma si tratta di persone dotate di una propria capacità di decidere, anche se spesso mal informate dei rischi a cui vanno incontro mettendosi in viaggi; ma non sempre, perché in qualche modo hanno ormai quasi tutte accesso a internet. Se scelgono di affrontare quei rischi – certamente sperando che a loro vada meglio – è perché considerano peggiore, per loro e per le loro famiglie e le loro comunità (che spesso ne finanziano il viaggio, aspettandosene un ritorno sul lungo periodo) la prospettiva di restare. Certo non vengono “prelevati” coloro che scappano da una guerra o da un conflitto armato; ed è comprovato che molti giovani relegati in un villaggio sperduto o in un ghetto urbano, ma comunque inseriti nel villaggio globale di internet, vivono con frenesia il desiderio di allontanarsene.

    Chi fa esistere i trafficanti?

    Secondo: che con un decimo di quello che spendono in un viaggio spesso mortale quei migranti potrebbero arrivare in Europa in aereo, se la cosa fosse loro permessa; e anche fare ritorno, se non trovano quello che cercavano – o dopo pochi o molti anni, se lo hanno trovato – sempreché quelle comunità, in cui la maggioranza dei migranti odierni (non parlo dei profughi di guerra in senso stretto) lasciano donne e famiglie a prendersi cura di quel che resta, non siano nel frattempo scomparse. In queste condizioni i trafficanti di uomini, i loro profitti, il loro potere, scomparirebbero d’incanto, come insegna la storia di ogni altra forma di proibizionismo. Il timore di Travaglio e di chi la pensa come lui è ovviamente che l’intera Africa, e magari tutto il Bangladesh o l’Afghanistan, si riversino da un giorno all’altro in Europa. Su questo punto tornerò, ma è noto che la maggior parte dei profughi, sia di guerra che ambientali, si fermano in paesi o territori vicini a quelli da cui sono fuggiti, e che a puntare sull’Europa è solo una ristretta minoranza. E se poi venissero istituite delle quote annuali, molti di quelli decisi a partire, prima di affrontare un viaggio così pericoloso, sarebbero probabilmente disposti ad aspettare un secondo o un terzo turno. D’altronde fino al 2008, prima della stretta economica chiamata austerità, arrivava in Europa almeno un milione e mezzo di “migranti economici” all’anno, ed erano i benvenuti, anche se poi venivano per lo più relegati ai margini della società; e anche ora governi di paesi che rifiutano migranti – “neri”, per usare la lingua di Travaglio – da Africa ed Asia, come Cechia e Ungheria, stanno programmando l’arrivo di diverse centinaia di migliaia di nuovi lavoratori stranieri dall’Est europeo, purché “bianchi” e “cristiani”. E’ una situazione in cui tutta l’Europa si troverà di qui a qualche anno (e in parte si trova già adesso) per motivi demografici.

    Chi governa in quei paesi?

    Terzo: che quei trafficanti pieni di soldi sottratti a comunità tra le più povere del mondo sono tanto potenti, come spiega Travaglio, da “fare, disfare e ricattare i governi locali”. Ma questi sono proprio i governi a cui l’Europa vorrebbe affidare il compito di combatterli e di fermarli. Il risultato di queste politiche lo vediamo già oggi con chiarezza in Libia: quelli che con la divisa della guardia costiera e le navi fornite dall’Italia riportano a terra i profughi dei gommoni che riescono a catturare sono gli stessi che, sotto forma di milizie armate, li reimbarcano dopo qualche mese, dopo averli imprigionati, affamati, massacrati e torturati per estorcere alle loro famiglie nuovo denaro. Perché sono loro a tenere sotto ricatto il governo libico, che non ha alcuna autonomia nei loro confronti. E sono loro, le organizzazioni criminali a cui noi permettiamo di arricchirsi in questo modo, che già oggi possono tenere sotto ricatto anche i governi dell’Italia o degli altri paesi europei rivieraschi, meta obbligata degli sbarchi che loro stessi organizzano. Come già sta facendo il governo turco, a cui l’Unione europea “perdona” tutto, senza nemmeno protestare, per paura che apra le dighe e riversi, prima sulla Grecia, poi sui Balcani, e poi in tutta Europa, i tre milioni di profughi che tiene in ostaggio con il beneplacito dell’Unione Europea.


    Chi è il colonialista?

    Travaglio ha poi un’idea singolare della sovranità territoriale. Dopo averci informato che il naufragio del 2 luglio scorso, che ha registrato 114 dispersi, “è avvenuto a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoriali della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare”, aggiunge che “se lo hanno fatto hanno violato il diritto internazionale”. Il che è falso: di fronte a un naufragio, su cui evidentemente la guardia costiera libica non ha saputo o non ha voluto intervenire, anche l’ingresso in acque territoriali straniere non solo è legittimo, ma anche doveroso. Ovviamente, se la gestione è stata assunta da un ente nazionale di coordinamento, questo dovrà chiederne l’autorizzazione. Per Travaglio invece quelle acque sono inviolabili, al punto da considerare inevitabile – “purtroppo esistono anche le tragedie inevitabili” – un naufragio sotto costa a cui nessuno dovrebbe prestare soccorso per non violare la territorialità delle acque. Farlo sarebbe un sopruso, tanto che Travaglio ne ricava un commento come questo: “O vogliamo ritornare alle colonie e ai protettorati di ‘Tripoli bel suol d’amore?’”. Qui c’è la completa inversione delle parti che rivela il modus operandi – per usare un’altra espressione a lui cara – di tutto il ragionamento. Quelli che vanno a salvare, anche a rischio della loro vita (le navi di alcune Ong sono state prese a mitragliate dalla guardia costiera libica), persone altrimenti destinate a morte certa sarebbero i nuovi colonialisti. Mentre governi, come quello italiano, che hanno trasformato in propri ascari le bande di trafficanti che controllano il finto governo di Al Serraj e le “sue” guardie costiere non avrebbero niente a che fare con una pratica vecchia e sperimentata propria dell’epoca coloniale.


    Di chi sono le acque?

    Ma la questione del controllo delle acque è molto più generale: Travaglio evita accuratamente di chiedersi che interesse può avere un governo come quello di Al Serraj, che non controlla che una minima porzione del suo territorio, se mai lo controlla veramente, a rivendicare il diritto esclusivo di intervenire in una zona sar(ricerca e salvataggio) di sua competenza, che si estende ben al di là della porzione di coste su cui pretende di governare; e senza avere i mezzi per farlo, tanto da appoggiarsi interamente sugli strumenti e le indicazioni messi a disposizione dalla Guardia costiera italiana. Riportando poi in Libia quei naufraghi “salvati”, o meglio, catturati, ad aggiungersi ai 700mila o al milione migranti che già vi sono intrappolati, sottoposti a ogni sorta di maltrattamenti. Si tratta – e Travaglio lo sa, ma non lo dice – di una forma mascherata di respingimento, pratica vietata dalla convenzione di Ginevra, che il governo libico si presta a realizzare per conto dell’Italia in cambio di finanziamenti di cui non è dato di conoscere né l’entità né la destinazione. Se non è colonialismo questo…

    Ma Travaglio confonde facilmente le acque territoriali della Libia con quelle della sua presunta zona sar: “fermo restando – scrive – che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’UE o per l’Italia) che contrastano i trafficanti salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza (dunque non in quelle libiche)”. Dunque, la zona sar della Libia viene tout court assimilata alle acque libiche, dove le navi non libiche non devono intervenire, perché “non di loro competenza”.


    Pull o push?

    E veniamo ora alla questione centrale: pull o push? Le Ong, sostiene Travaglio, contraddicendo persino i principali esponenti, attuali e passati, della Guardia costiera italiana, sono un potente fattore di attrazione che induce i trafficanti a usare gommoni invece di barconi, contando che qualcuno – le Ong – vengano a raccoglierne il “carico umano” al limite delle acque territoriali libiche che i gommoni non sono in grado di oltrepassare di molto. Ma senza Ong il fattore di attrazione, se c’è, non viene certo meno, tanto è vero che non appena sparite le loro navi, abbiamo visto ricomparire i barconi, che certo costano di più (sono anch’essi mezzi a perdere destinati alla distruzione), ma trasportano in un viaggio solo da quattro a sette-ottocento profughi, tanto che affondando ne portano a morire da tre a cinque volte di più di un singolo gommone. D’altra parte si è visto che i gommoni non sono affatto scomparsi. Arrivano fino a 80 miglia dalla costa, invece delle 12 di prima, e magari anche oltre prima di entrare in panne. E nessuno saprà mai quanti ne sono già affondati, e con quante persone a bordo, perchè è stato imposto di non segnalarne la presenza.


    Partenze sincronizzate?

    Per avvalorare la tesi pull, fattore di attrazione delle Ong, Travaglio si inventa una partenza sincronizzata tra navi delle Ong e imbarcazioni degli scafisti: “Navi di Ong salpavano all’improvviso dai porti europei (soprattutto italiani) e facevano rotta verso un punto X in simultanea, o addirittura in anticipo sulla partenza di un barcone carico di migranti dalla costa libica che, guarda caso, puntava diritto verso X”. Certamente le navi delle Ong sono più veloci dei gommoni degli scafisti, ma l’idea che partendo dall’Italia le une e dalla Libia gli altri, entrambi raggiungano simultaneamente i limiti delle acque territoriali libiche, il famoso punto X, è pura fantasia; che Travaglio sostiene confermata da intercettazioni, rilievi satellitari e filmati “che tutti possono vedere”, perché sono in mano alla Procura di Catania, che peraltro non ha ancora concluso le sue indagini. E così arriva a sostenere che Annalisa Camilli, la sua critica, “si arrampica sugli specchi”, perché cita una ricerca del gruppo di geografia forense della Goldsmiths Institute che dimostra esattamente il contrario; mentre quella che non è altro che la personale interpretazione che Travaglio dà del materiale acquisito dalla Procura di Catania – che avrebbe “acclarato”, anche se non “accertato” (sic!) le responsabilità delle Ong – sarebbero fatti, “più forti di qualunque gruppo di oceanografia”. Per questo quelli effettuati dalle Ong non sono salvataggi, bensì “consegne”. E per documentarlo Travaglio non trova di meglio che chiamare a testimoniare l’odiato quotidiano Repubblica, ben sapendo che è stato anch’esso un indefesso difensore delle politiche del ministro Minniti: quello che non ha fatto che aprire la strada a quelle di Salvini, che Travaglio esecra, cioè del governo Conte, che Travaglio sostiene invece con tutte le sue forze.


    Ma di chi?

    In realtà l’unica vera sincronizzazione di cui si ha notizia è quella che il 24 giugno scorso, ha preceduto, la visita di Salvini in Libia: circa mille migranti partiti tutti insieme dallo stesso punto della costa e alla stessa ora su una decina di gommoni – fatto mai prima verificatosi – in perfetto sincronismo con la partenza delle vedette libiche che li hanno prontamente intercettati. Una dimostrazione pubblica di efficienza, programmata a beneficio del nostro ministro degli interni, che è costata almeno 100 morti annegati, e che dimostra, questa sì, l’intesa perfetta tra trafficanti e Guardia costiera libica: un evento su cui nessuno, dopo la denuncia del comandante di Open Arms Oscar Camps, ha più voluto indagare.

    Ma la questione fondamentale su cui i sostenitori del fattore pull soprassiedono è la presenza del fattore push. Perché mai i migranti, quando vedono una vedetta della guardia costiera libica, si buttano in mare e preferiscono annegare piuttosto che venir “salvati”? Che cosa li spinge a fuggire e a non voler ritornare in Libia, costi quel che costi? Perché sanno benissimo che una volta “salvati” ritorneranno in mano a chi li ha massacrati, violate, torturati, venduti come schiavi, rapinato loro e le loro famiglie per mesi e a volte per anni: cioè in quei porti che Salvini vorrebbe venissero dichiarati “sicuri”. Nessuno di loro vuole tornare in quell’inferno; e il fatto stesso di venire dalla Libia fa di ognuno di loro un profugo meritevole di protezione internazionale, qualsiasi sia il suo paese di origine. Così, di fronte alla drastica riduzione del numero degli sbarchi nessuno, e meno che mai Travaglio, si è chiesto o si chiede che cosa ne sia di coloro che non arrivano più, che non partono più, o che vengono intercettati, catturati e riportati dalla guardia costiera libica là da dove stavano fuggendo. Ma è chiaro che in queste condizione quello che gioca è indubitabilmente il fattore push…


    Ma quali scafisti!

    Travaglio sostiene inoltre che andando a raccogliere il loro “carico umano” a ridosso delle acque territoriali libiche (il che peraltro non sempre è vero) le Ong proteggono di fatto gli scafisti da un possibile arresto, impedendo di fatto alle Procure italiane, come ha denunciato il procuratore di Catania Zuccaro, di portare avanti le loro indagini che, come è noto, languono. Ma è noto che gli scafisti non salgono né sui gommoni né sui barconi, alla cui guida mettono sempre qualche migrante a cui fanno lo sconto e che magari non ha mai visto il mare prima, tanto che la maggior parte delle persone arrestate come scafisti sono in realtà dei disperati che non hanno nemmeno i soldi per pagarsi il viaggio. Se le indagini devono partire da loro invece che da chi sta al vertice della cupola dove trafficanti e uomini del governo libico si incontrano – e va riconosciuto che l’impresa è tutt’altro che facile – difficilmente si arriverà mai a mettere le mani su qualche organizzazione di trafficanti.


    Più o meno morti?

    Meglio allora prendersela con le Ong. Mettendole fuori gioco, molte più vite che si potevano salvare andranno perdute, ma si ridurranno anche gli sbarchi. Meno sbarchi; anzi, meno partenze, meno morti, dice Salvini, e con lui Travaglio. In termini relativi, rispetto cioè a quelli che partono, è vero il contrario: i morti sono molti di più; in numero assoluto, rispetto a quando le partenze erano dell’85 per cento di più, è certamente vero. Ma, ancora una volta, che ne è di quelli che non sono partiti o che vengono riacciuffati dalla guardia costiera libica? Si stima che i morti durante il viaggio di terra, che comprende per lo più una lunga permanenza in Libia, siano almeno il doppio di quelli periti in mare, che sono ormai – quelli accertati – più di 35mila. E quanti di quei 70mila sono morti in Libia, là dove li vuole ricacciare la politica italiana ed europea dei respingimenti mascherati?


    Aveva ragione Berlusconi?

    Per questa strada Travaglio approda disinvoltamente a rivalutare la politica di Berlusconi che aveva stretto con Tripoli un patto che equivaleva a un vero e proprio respingimento, e per il quale l’Italia ha già subito una condanna dalla CEDU, relativamente a un singolo episodio. Quel patto, secondo Travaglio, “era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al-Serraj”; cioè, quello che era vergognoso con Berlusconi potrebbe essere proficuo con Conte…; anche se quello che veniva fatto ai migranti sotto Gheddafi impallidisce di fronte a quello che viene permesso, ma anche promosso e finanziato, sotto il governo Al Serraj.


    Quanti possiamo accoglierne?

    Non resta che affrontare l’argomento principe di tutti i nemici dei migranti, che Travaglio riassume così: “L’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenze sociali e politiche che potrebbero addirittura farci rimpiangere Salvini”. L’Italia forse no, ma l’Europa sicuramente sì, se invece di accanirsi sulla protezione dei confini esterni ci si impegnasse finalmente a legare il futuro e l’esistenza stessa dell’Unione Europea all’abbattimento delle barriere interne, quelle tra Stato e Stato, con un permesso di soggiorno europeo. Ma va anche ricordato che tra la fine del secolo scorso e il 2008 l’Italia ha accolto, e di fatto regolarizzato con una sfilza di sanatorie, molte delle quali decise dal partito di Salvini, allora al governo, quasi cinque milioni di migranti, in alcuni periodi al ritmo di 300mila all’anno. Poi è cambiata, in Italia e in Europa, la politica economica, avvitandosi sempre di più in misure di austerità le cui conseguenze si vedono, ben prima che sulla stretta sui migranti, sul peggioramento delle condizioni di vita di tutti coloro che non vivono sullo sfruttamento di altri.


    Farli star male non li dissuaderà dal venire

    Così chi oggi riesce a raggiungere l’Italia per arrivare in Europa trova ad accoglierlo un sistema che lo stesso Travaglio non esita a deplorare: è “il destino di quei disperati tra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidarietà (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio da pasti da fame, le spire della criminalità più o meno organizzata e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno” (dove ci sono peraltro anche aziende che rispettano i diritti di chi lavora per, e con, loro). Sembra che quel trattamento sia un destino ineludibile, mentre è una politica cinica, stupida e spietata, che non basta comunque a scoraggiare gli arrivi, ma che concorre a spaventare la gente, a far odiare o disprezzare i migranti, a impedire il loro inserimento sociale, a cacciare per strada coloro a cui non viene concesso alcuna forma di protezione – internazionale, sussidiaria o umanitaria – a trasformare la nostra agricoltura in tanti Lager, a fornire manodopera alla criminalità organizzata e carne umana allo sfruttamento della prostituzione. Ma, soprattutto, a impedire a chi è già arrivato di fare ritorno o di fare visita alle comunità e ai territori che ha lasciato, perché una volta usciti dall’Italia non vi si rientra più. Così si trasforma in una condanna a vita alla marginalità e alla “clandestinità” quello che potrebbe essere un legame tra paesi, comunità e culture diverse; e si riduce alla disperazione una umanità che potrebbe invece essere enormemente valorizzata, perché coloro che affrontano un viaggio rischioso come quello a cui devono sottoporsi i migranti di oggi sono la parte migliore, più intraprendente e spesso anche più istruita di quello che un paese dell’Africa o del Medioriente può offrire e che un paese dell’Europa può sperare di accogliere. Se fosse più umano…

    Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

    Effimera

    É un articolo lungo e impegnativo, cherichiede forse più di una lettura perché si intrecciano due discorsi complessi,ma ne vale la pena.
    Da una parte gli autori affrontano il temada un punto di vista dei contenuti e riassumono i caratteri peculiari dellemigrazioni di questo secolo. A questo proposito, l'analisi spiega in manierachiara il rapporto, imprescindibile, tra le migrazioni e il sistemacapitalistico. Ci spiegano che le migrazioni sono strettamente legate non soloal passato coloniale e ai processi di decolonizzazione, ma anche alle piùrecenti trasformazioni avvenute nei rapporti di produzione del sistemaeconomico globale. È un aspetto fondamentale per comprendere come lemigrazioni sono esse stesse prodotto del sistema socio-economico attuale,esattamente come lo sono le crisi che si stanno susseguendo una dopo l'altra.Mettono inoltre in evidenza che le migrazioni di questo secolo si distinguonodalle precedenti perché «si muovono al di fuori degli schemi classici didefinizione dell’identità nazionale, religiosa, linguistica, etnica» e quindivanno a creare nuove forme di aggregazioni sociali, con le quali dovremo fare iconti.
    Dall'altra parte,apparentemente più accademicamente, gli autori si pongono il problema di comestudiare il fenomeno e quanto l'approccio utilizzato possa essere determinanteper riuscire attraverso l'analisi a interpretarlo e fare emergere delle ideeper affrontarlo. Spiegano come le analisi che si continuano a fare, anche daparte degli studiosi, siano ideologicamente legate al modello coloniale. Unmodello eurocentrico, che affronta i problemi sulla base dei rischi e vantaggiper le società ricche, e che si porta appresso una idea di superioritàculturale che continua a determinare le relazioni di dominio dei paesioccidentali su quelli colonizzati.
    In realtà è questa la parte piùinteressante dell'articolo, perché è tutt'altro che una disquisizioneaccademica! È una questione fondamentale. Gli autori sostengono che se nonusciamo da questa logica, che non riguarda solo gli studiosi, ma noi tuttiquando ci poniamo di fronte a questo fenomeno, che implica anche porci neiconfronti dell'Altro (del migrante, del diverso), continueremo a perpetuareun'immagine del migrante come nemico, sostenere un dibattito pubblico basatosulla razzializzazione dei migranti, e a non trovare "soluzioni"diverse dall'escludere e marginalizzare, in maniera sistematica, continuativa estrumentale, un crescente numero di persone.
    Infine, ci sono tanti spunti su ulterioribuone letture per educarci a decolonizzare le nostri menti (i.b.)

    Introduzione al libro
    «Decolonizzare le migrazioni
    Razzismo, confini, marginalità»
    Lo sguardo violento sulle migrazioni

    La figura, indistinta e pericolosa, del migrante è probabilmente una delle rappresentazioni più forti che si è costruita negli ultimi decenni nella comunicazione politica delle aree più ricche del pianeta. Totalmente priva di riferimenti concreti con la quotidianità delle società europee è presente, priva del diritto di accesso allo spazio della politica, in tutte le forme di comunicazione e in tutti i riferimenti astratti della programmazione istituzionale. I migranti però esistono al di fuori della costruzione dell’immagine del nemico, esistono al margine dello spazio sociale e ci pongono di fronte al fallimento della grande costruzione della democrazia occidentale. Sono, infatti, il limite su cui si infrange il modello di democrazia universale che è stato presentato, a partire dalla metà dello scorso secolo, come l’orizzonte compiuto della nostra storia. Ci dicono, ad esempio, che quel racconto non teneva in considerazione minimamente la maggioranza del pianeta né le condizioni di costante e ineluttabile povertà a cui è costretta da più di cinque secoli la maggioranza della popolazione mondiale.

    Il volume curato da Tindaro Bellinvia e Tania Poguish si pone in modo evidente nel solco di quella critica che sta portando una parte sempre più ampia degli studiosi a rimettersi in discussione di fronte all’oggetto del proprio lavoro. Questa critica, da un lato, parte dall’esperienza diretta, dal legame necessario che le scienze sociali devono mantenere con la materialità sociale del vivente, e, dall’altro lato, è il frutto di un processo di riflessione, che tutti gli autori stanno compiendo, sul senso stesso del loro ruolo e sulla possibilità che il pensiero non addomesticato possa agire concretamente nei luoghi più problematici della quotidianità. Affrontando le diverse questioni che vengono poste dal lavoro di superamento dell’eredità coloniale, i vari autori mettono in discussione gli elementi che hanno determinato la costruzione di un discorso scientifico pienamente coinvolto nell’esercizio del contenimento e nell’uso economico delle migrazioni.

    l discorso violento sulle migrazioni costruito da un’ampia parte del pensiero politico recente rientra, a tutti gli effetti, nella narrazione coloniale, nonostante si possa ritrovare in luoghi che non sono necessariamente il centro dell’economia globale. È un discorso che presuppone uno spazio di vita civile contrapposto ad una massa informe e barbarica e, quindi, un valore asimmetrico delle esistenze, una differenza tra migrante e cittadino che sintetizza alcune questioni di fondo della società attuale. Sulle migrazioni si è evidenziata in questi anni la capacità finale del neoliberalismo di distruggere anche i residui del discorso universalista del tardo capitalismo europeo. Le vite dei migranti sono evidentemente sacrificabili. Esse sono esistenze di scarto a cui è riconosciuto al massimo l’obiettivo di inserirsi in un contesto che ha bisogno di un esercito di manodopera di riserva: un contesto che oggi non possiede più che una pallida speranza di accesso ai margini del mercato.

    La marginalità è l’unica dimensione stabile da cui non si può uscire. Le grandi migrazioni attuali si svolgono tutte all’interno di uno spazio asimmetrico che definisce l’intera esistenza della maggior parte degli abitanti del pianeta, esiliati oltre i confini della ricchezza, in qualunque collocazione geografica si situino. Da questa posizione, dal segno tracciato per definire tale differenza costitutiva, non è riuscita a scostarsi un’ampia parte degli studi sui processi in atto, né, in alcuni casi, le teorie politiche che sostengono l’integrazione.

    Nella sua adesione alle esigenze del mercato, con il linguaggio settoriale e con la ricerca di soluzioni per la crescita economica, lo studio delle migrazioni si è rivelato spesso una pratica violenta, che rimanda al dibattito sulla circolazione e la distribuzione globale delle merci. I migranti sono stati considerati, spesso a tutti gli effetti, variabili produttive e inseriti in un discorso generale sulla sicurezza delle società di arrivo (Palidda, 2016). I tre grandi poli delle migrazioni attuali (quelle dirette verso gli USA, a tappe attraverso tutto il continente da Sud a Nord; quelle dirette verso l’Europa, a tappe attraverso due continenti; quelle interne all’asse India-Cina), sono chiaramente alimentati dalla ristrutturazione dell’economia. Le migrazioni in quel caso rispondono allo schema, seppure divenuto più complesso negli anni più recenti, proposto dalla lettura del sistema-mondo: si organizzano da varie periferie in direzione di centri produttivi, nell’ipotesi di incontrare maggiori opportunità di occupazione.

    Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.

    L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.

    Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.

    L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.

    b. Le migrazioni odierne rideterminano in forme nuove in seguito alla nascita di movimenti controegemonici (de Sousa Santos 2010; Gramsci 2001-2007). È il caso dell’America Latina, in cui le nuove esperienze politiche si oppongono alle forme dirette di controllo politico-sociale realizzate dai vecchi governi e dalle grandi corporation euroamericane, ma avviano anche processi di movimento della popolazione su scala continentale. La manodopera non è più delocalizzata in base a grandi programmi nazionali di distribuzione della popolazione o alla nascita pianificata di aree di investimento, ma inizia, in diversi casi, a ridefinire i confini stessi e le appartenenze (Martinez, 2012; Novick, 2008).

    c. Le migrazioni correnti si definiscono come processi centro-periferia, attivati dalla ricerca di manodopera a basso costo all’interno delle aree ricche, ma sono anche il prodotto diretto della nascita di aree speciali di lavoro collocate in zone di confine, come è avvenuto nel caso delle Zonas Económicas Especiales, delle Free Trade Zone e delle Export Processing Zone in diversi casi in Asia Sud Orientale o in America Settentrionale (Mezzadra e Neilson, 2013; Sassen, 2005; Ong, 2005). Le migrazioni recenti giustificano inoltre un enorme apparato di controllo, una guerra a bassa intensità condotta contro i migranti lungo i confini delle aree ricche del pianeta, come avviene in Europa, Stati Uniti, Australia. Si costruisce dunque uno schema di distribuzione globale che può essere considerato un elemento centrale della divisione globale del lavoro all’interno del sistema-mondo (Castillo Fernández, Baca Tavira e Todaro Cavallero, 2016).

    d. Le migrazioni attuali sono condizionate anche dalla delocalizzazione delle produzioni in aree povere e a bassissimo costo del lavoro. Si definiscono in questo caso in modo misto, non seguono più i processi tradizionalmente indicati come migrazioni interne o internazionali né sono necessariamente dirette verso grandi aree urbane. Esse contribuiscono anzi, in molti casi, a creare nuovi processi di urbanizzazione (Sassen, 2005).

    e. Le migrazioni in corso si muovono al di fuori degli schemi classici di definizione dell’identità, nazionale, religiosa, linguistica, etnica (Appadurai, 1996; Anderson, 1983). Esse vanno oltre le categorie consolidate delle appartenenze e definiscono nuove aggregazioni sociali.

    I mutamenti degli ultimi decenni hanno contribuito a rimettere in discussione gli strumenti utilizzati finora, sono stati spesso oggetto di grandi proposte di revisione degli aspetti più profondi delle scienze sociali (de Sousa Santos, 2010; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015; Grosfoguel, 2017), ma continuano a scontrarsi con l’eredità culturale coloniale. In molti casi lo studio di questi processi si è strutturato, cioè, seguendo un preciso apparato ideologico che ne ha riproposto il modello di dominio, soprattutto nella costruzione di differenze tra gruppi umani e nell’abuso della categoria di identità etnica (Gil Araujo, 2011b; Avallone, 2015a). In parte si è trattato di quello che Balibar e Wallerstein hanno definito razzismo senza razza, una categoria che loro stessi consideravano non particolarmente nuova nello scenario politico occidentale (Balibar e Wallerstein, 1991; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015), individuando una costruzione culturale che ha proseguito il lavoro di differenziazione tra i popoli del pianeta.

    L’intero percorso delle migrazioni che sono iniziate insieme ai processi di decolonizzazione ha riproposto la questione in termini differenti, ma, al tempo stesso, ha in vari modi proseguito il progetto coloniale dell’Occidente. Le diverse pratiche coloniali hanno determinato un’eredità che ha condizionato la gestione delle migrazioni, che hanno assunto non solo l’immagine della differenza etnica, neorazziale, ma anche quella dell’assimilazione come processo evolutivo, dell’idea cioè che sussistesse una superiorità delle società di arrivo, un’emancipazione che non è solo economica. Nel complesso degli studi europei, le analisi relative alle migrazioni negli altri continenti sono state spesso affrontate solo come aspetto del percorso verso l’Europa, definita come la civiltà da raggiungere, faro globale di riferimento insieme agli Stati Uniti. Inoltre, tale analisi ha finito con il rappresentare di fatto una questione inespressa di fondo: quella della difesa dell’identità europea (Amselle, 2008). In questo quadro la categoria di integrazione si è rivelata molto ambigua, è stata utilizzata dal punto di vista assimilazionista e da quello multiculturale (Gil Araujo, 2011b; Palidda, 2010), ma soprattutto ha contribuito a costruire uno schema preciso in cui i migranti assumevano il ruolo di elemento estraneo da trasformare all’interno del corpo dello stato.

    La continuità ideologica però non corrisponde ad una sostanziale permanenza delle strutture di potere. Proprio l’esercizio del controllo sulle migrazioni ha reso evidenti gli elementi della nuova struttura geopolitica globale che indeboliscono l’assunto principale, la permanenza cioè delle funzioni dello stato moderno, l’unica struttura che possedeva il diritto di decisione, il potere di difendere i confini. La difesa dei confini tracciava anche il solco dell’appartenenza statale-nazionale e si estendeva ai diritti di sopravvivenza generali dei migranti, segnandone l’esistenza, attraverso la separazione naturalizzata tra nazionali e non nazionali (Sayad, 2013). La macchina in cui sono inseriti i migranti segue un principio che non può più essere quello del superamento dei confini statali (Balibar, 2005), anche se è evidente una forte permanenza del pensiero di stato nelle azioni delle istituzioni e nelle gerarchie adottate dagli studi. Le grandi linee fortificate del pianeta, quelle in cui si sta svolgendo un conflitto costante per il contenimento delle migrazioni, sono in genere i punti di accesso ad aree allargate di scambio commerciale e circolazione di beni e persone, non singoli stati. Non è possibile inoltre neanche ricondurre le grandi migrazioni cinesi e indiane degli ultimi due decenni al modello delle migrazioni coloniali o a quello della circolazione interna agli stati.

    Sulla crisi della visione tradizionale pesa anche la caratterizzazione contro-egemonica di alcuni movimenti di popolazione, soprattutto in America Latina e in Africa, i casi che creano più problemi all’inquadramento politico delle migrazioni recenti. In tutti e due i casi le dinamiche di rimescolamento della popolazione hanno ridefinito nell’ultimo secolo, più volte e molto velocemente, i quadri geopolitici e gli interessi economici. I mutamenti nelle migrazioni latinoamericane recenti hanno messo in evidenza, ad esempio, come diverse delle nuove esperienze politiche abbiano prodotto un mutamento generale delle condizioni di vita nei luoghi di arrivo, e non siano state solo il risultato di crisi economiche locali (Martinez, 2012; Yépez del Castillo e Herrera, 2014). Mentre quelli africani sono stati sostenuti soprattutto da enormi crisi umanitarie e conflitti armati. Le nuove forme della politica e le nuove rivendicazioni hanno rappresentato anche una forma di reinterpretazione delle gerarchie sociali sia nella percezione dei processi sia nella costruzione di nuovi spazi.

    La categoria gramsciana di egemonia può essere utilizzata in questo caso per ridefinire l’analisi delle migrazioni, perché in quel contesto consente di spostare l’attenzione sui soggetti migranti, che si collocano sempre nella categoria di subalterni, sono privi di diritti. L’esistenza di processi controegemonici (de Sousa Santos, 2010; 2003), secondo cui gruppi prima subalterni possono avviare nuovi processi culturali che diventano egemonici, colpisce direttamente le gerarchie utilizzate nell’analisi delle migrazioni. Ciò perché i migranti sono in genere la parte più debole della popolazione nello stato nazione moderno. In diversi casi, la crisi delle identità nazionali comporta una perdita di senso dei limiti statali al movimento umano e la presenza di nuove comunità può favorire tale processo. Bisogna inoltre sottolineare come, in molte aree del pianeta, la subalternità non differenzi più i migranti in modo netto rispetto ai residenti storici. Questa è una novità sostanziale nella costruzione storica della marginalità ed è un elemento su cui si perde un connotato fondamentale dei migranti.

    Lo spazio contro-egemonico è precisamente quello della costituzione di nuove aree di espressione della politica, in cui le identità previste dalle strutture pre-esistenti perdono valore. Le migrazioni assumono una caratterizzazione contro-egemonica quando rappresentano la prima tappa di creazione di spazi che non possono più essere riconducibili alle strutture tradizionali. In diversi casi si tratta di processi contro-egemonici perché sono il prodotto dell’attività di gruppi che iniziano a rivendicare identità territoriali di tipo nuovo, non statale, ma comunitario.

    Una parte del dibattito scientifico ha risposto a tale problema con la categoria di nazionalismo diasporico (Appadurai, 1996; Anderson, 1983), cioè quella costruzione identitaria che si realizza solo dopo una migrazione in un contesto culturale diverso da quello di origine. Non solo si pone una questione di notevole spessore, quella della nascita delle identità diasporiche che popolano il pianeta, ma anche un problema molto preciso relativo alla possibilità dell’esistenza di identità senza territorio. Il presupposto del nazionalismo diasporico è l’assenza di un territorio, la delocalizzazione dell’identità culturale e la ricerca di forme di integrazione in nuovi gruppi insediati in aree culturali distanti. La presenza di movimenti contro-egemonici è caratterizzata invece da una proposta politica, dalla volontà di costituire comunità all’interno di un conflitto sociale.

    Il potere e la colonia

    In una loro forma peculiare, gli studi decoloniali, come quelli postcoloniali, sono espressione di un pensiero della crisi, nascono dalla crisi di quello che Anibal Quijano (1991) ha chiamato modello di potere della modernità e dalla fine della grande espansione economica e finanziaria che ha sostenuto tutto il sistema nella seconda metà del XX secolo. La crisi del capitalismo ha spinto verso la formazione di uno spazio globale che, però, è diventato anche il luogo di espressione delle nuove forme di critica radicale. La percezione della conclusione del lungo percorso della modernità capitalista ha portato all’interno del dibattito politico la questione del superamento delle forme di potere, comprese quelle delle stesse esperienze di liberazione nazionale dei paesi colonizzati. La critica si è indirizzata verso la rilettura della storia della nascita degli stati e verso l’affermazione dell’idea del nazionalismo, contestata già da Sayad (2003) come prospettiva di rimodulazione in termini coloniali delle società africane. Lo stato come piena espressione della modernità è infatti una struttura colonialista, la perfetta espressione di quel modello di potere che viene contestato come proprio della storia del pianeta trasformato in una grande Europa. Per superare l’esperienza coloniale è però necessario anche rielaborare l’esistenza delle culture non europee, in un percorso molto difficile di revisione degli elementi culturali coloniali. Nelle specifiche modalità con cui gli studi decoloniali hanno iniziato a postulare la necessità di ridefinire secondo una prospettiva differente tutte le problematiche della società globale, si può identificare anche un percorso che inizia a connettere tra loro aspetti ritenuti spesso distanti dell’analisi sociale, del dibattito ecologico e della prassi politica (Avallone, 2017).

    Il percorso non è stato lineare e non è certamente concluso. L’area degli studi decoloniali, ammesso che si possa già definire come un campo autonomo di analisi, deve indubbiamente la propria nascita ad uno scambio globale mediato dal pensiero di opposizione europeo, all’elaborazione latinoamericana del dibattito politico sulla négritude, alla riformulazione delle grandi questioni dell’indipendenza del pensiero africano nello scenario della costruzione delle nuove democrazie dell’America meridionale della fine degli anni Novanta. Il percorso è chiaro: mentre nel dibattito asiatico e poi euro-americano si delineava un’idea della costruzione della società postcoloniale e si definivano i postcolonial studies (Mellino, 2005), come prospettiva di superamento dell’esperienza politica e sociale del progetto coloniale dell’Occidente (Said, 1979), nel dibattito latinoamericano si poneva l’esigenza di rivedere in profondità alcuni assunti della modernità e soprattutto la lunga eredità del colonialismo. Tutto ciò partendo dal presupposto che il colonialismo è ancora vivo, soprattutto nelle sue forme più estreme di sfruttamento e appropriazione (Moore, 2015). Costruire un pensiero decolonizzato significa superare l’insieme delle relazioni di potere che ancora definisce quella totalità eterogenea che è la società globale, superare quell’eredità che ha continuato a delineare il potere e la società in cui vivono gli eredi storici dei popoli colonizzati, insieme agli eredi storici dei colonizzatori.

    La decolonialità, il neologismo introdotto da Anibal Quijano e anticipato con parole diverse da altre studiose ed altri studiosi da W.E.B. Du Bois a Silvia Rivera Cusicanqui, rimanda ad una prospettiva più profonda che coinvolge il problema dell’epistemologia (de Sousa Santos, 2010) e della visione dominante anche nella società globale. Ciò che va decolonizzato è il potere, in tutte le sue forme ed espressioni. La colonia permane nei presupposti (neo) coloniali delle strutture di potere a livello globale, ma anche nelle prospettive, nella classificazione del mondo e nella stessa idea di una società futura liberata. Si tratta di un pensiero autonomo latinoamericano, che può ribaltare diversi approcci alla lettura della modernità e alle prospettive di cambiamento. Al tempo stesso, è un approccio che sta determinando, attraverso la partecipazione di intellettuali di varie culture, la costruzione di una nuova prospettiva politica a partire dalla ricerca di un’autodefinizione di cultura.

    Ngugi Wa Thiong’o sostiene che l’imperialismo ha creato un’arma molto potente, che chiama bomba culturale, per controllare i popoli colonizzati, spogliati del diritto di parola nelle loro lingue madri e derubati della loro storia. «La bomba culturale induce i popoli a vedere il loro passato come una discarica di insuccessi, dalla quale prendere le distanze. Li induce a desiderare di identificarsi con quanto c’è di più lontano da loro: per esempio con la lingua di altri popoli e non con quella loro propria. Li induce a rispecchiarsi in tutto ciò che è decadente e reazionario, in quelle forze che inibiscono la loro stessa sorgente di vita» (Ngugi Wa, 2015, p.11). Questo atteggiamento viene definito dallo scrittore gikuyu come un desiderio di morte, una partecipazione dei popoli colonizzati alla distruzione della loro identità. Lo stesso desiderio che, secondo Achille Mbembe, si riflette nella volontà di esercitare il potere di vita o di morte, nella necropolitica dell’Occidente (2003). Una distinzione tra chi deve morire e chi può vivere, sempre a patto di ibridarsi con la cultura dei colonizzatori e rinunciare alla propria lingua e alla propria storia.

    Nella sua più pura espressione di potere, la colonizzazione è stato uno dei processi costitutivi della modernità e ha definito questioni che sono ancora irrisolte nella costruzione dell’immagine del mondo attuale, così come nella lettura delle disuguaglianze e nella stessa essenza delle migrazioni. Una di queste, evidente nella costruzione del dibattito pubblico sulle migrazioni, è la razzializzazione dei migranti. Quijano sostiene che la razza è un’invenzione dell’espansione coloniale europea in America. La modernità produce la razzializzazione dei popoli non europei e, attraverso la costruzione della razza, si definisce una nuova gerarchia che permane per tutta la modernità. Le migrazioni attuali seguono la struttura della razzializzazione della società, non si tratta solo della modalità con cui sono presentate nel dibattito pubblico, ma della sostanziale subordinazione razzializzata dei migranti. Secondo Quijano, le relazioni di potere si strutturano in conformità alla classificazione razziale delle popolazioni, perché la razza è un elemento di gerarchizzazione universale che stabilisce superiorità e inferiorità e giustifica l’azione del potere (Navarrete, 2014) e questo processo corrisponde alle differenze storiche coloniali, ma anche alla distribuzione attuale della ricchezza.

    I modi in cui sono pensate, governate e vissute le migrazioni sono definiti dalle rappresentazioni coloniali dell’altro, dunque dalla colonialità che classifica le popolazioni e ne influenza le possibilità di mobilità spaziale, di accesso ai mercati del lavoro, di inserimento e collocazione sociale. La realtà coloniale è attiva nel presente postcoloniale, con effetti anche sui modi di pensare le migrazioni e le persone migranti. La costruzione coloniale del mondo, al cui centro vi è stata la razza, con i suoi specifici processi di controllo, disciplinamento, assoggettamento e resistenza, fondata sulla divisione tra zone dell’essere e zone del non essere (Fanon, 2015), influenza la definizione del mondo, dove i soggetti legittimi sono solo quelli della prima zona, quelli appartenenti alla zona dell’essere, e sono gli unici a porre le domande ritenute appropriate. È chiara la relazione che c’è tra gerarchie sociali e intellettuali: le prime organizzano le seconde, caratterizzando anche le scienze sociali, le quali «partecipano ad una tradizione intellettuale che attribuisce molta importanza alla distinzione tra oggetti nobili e oggetti ignobili, tra modalità nobili (ciò che si chiama “teoria”, speculazione) e modalità ignobili di affrontare questi soggetti» (Sayad, 1990, 8). Lo studio delle migrazioni si colloca in questa gerarchia in modo coerente con il suo oggetto ignobile, un oggetto dominato sul piano intellettuale e politico-sociale, e tende, per tanto, a riprodurre questa gerarchia, svolgendo il «lavoro del colonizzatore o il lavoro della società di immigrazione» (Sayad 1990: 20-21).

    In termini decoloniali, il riconoscimento di questa condizione vuol dire che non ci sono punti di vista neutrali, ma sono sempre all’opera una geo-politica ed una corpo-politica che definiscono uno specifico punto di osservazione, non individuabile, dunque, come una visione oggettiva, perché visioni oggettive non sono possibili (Fanon, 2009; Lander, 2000; Mignolo, 2009). La critica alle gerarchie, all’oggettività scientifica ed alla neutralità dei saperi apre ad una messa in discussione delle categorie prodotte nell’ambito della storia delle stesse discipline sociali, riconoscendo il peso avuto dallo stato e dai rapporti coloniali globali in questa storia, specialmente nel caso dello studio delle migrazioni, il cui oggetto di osservazione, quello dell’immigrato e dell’immigrazione, è stato costruito attraverso un discorso imposto (AA.VV., 2013). Dunque, andare oltre queste categorie, parole di stato e concetti prodotti lungo i rapporti coloniali, è una condizione determinante per liberare gli studi delle migrazioni dagli assunti già dati e dalla domande già definite dai rapporti di forza vigenti tra aree geopolitiche, popoli e razze.

    Praticare decolonialità

    Il testo curato da Bellinvia e Poguish segue una sequenza precisa che rispecchia il dibattito recente sulle migrazioni, ma prova a rispondere alle questioni che si presentano a chi lavora sul campo. Prima emergono le domande sulla sostanza dei processi e sul modo in cui si possono definire, seguite da analisi sulle modalità storiche con cui si è realizzato sul territorio europeo il mutamento di identità e funzioni delle migrazioni: successivamente vengono poste delle riflessioni sul ruolo di chi pratica attività di ricerca e sulle modalità con cui si può uscire dalla gabbia del pensiero coloniale, riflettendo, come fanno tutti i testi, sulla difficoltà concreta di lavorare all’interno della permanenza di una struttura come lo stato nazione, ponendosi, infine, il problema delle possibili alternative.

    I saggi contenuti nel volume affrontano, infatti, il problema della decolonizzazione nei suoi vari aspetti, partendo dalla decostruzione del pensiero europeo, riconsiderata da Lidia Lo Schiavo, che individua un legame tra il decentramento dell’Europa, operato dal pensiero decostruzionista, e il dibattito critico recente. Le migrazioni pongono di fronte all’esigenza di rielaborare anche l’epistemologia, le modalità con cui si definisce lo stesso oggetto di studio. Marco Letizia rende visibile il forte legame tra la questione del potere, come è stata posta da Michel Foucault, e la ridiscussione in cui è impegnato il dibattito attuale, suggerendo anche una riflessione sulla collocazione all’interno dei dispositivi di potere di chi realizza ricerche sul campo.

    Tania Poguish affronta direttamente la questione fondamentale della crisi del confine e pone il problema della permanenza del confine nell’Europa fortezza. Una delle questioni più citate nel volume è, in effetti, la presenza del confine come metodo, nell’accezione che Mezzadra e Neilson ne hanno dato, e non è un caso che il punto di partenza del lavoro sia stata la riflessione di Abdelmalek Sayad.

    Il lavoro di Eleonora Corace si inserisce in quel dibattito che ha dimostrato come le categorie del politico abbiano definito perfettamente la società attuale. Tra le categorie che vanno ridefinite inserisce quelle proprie della sfera dell’inclusione, che sottende tutti gli elementi della supremazia coloniale ed è carico di aspetti di profonda ambiguità. Seguendo la stessa linea, Sergio Villari ripropone la questione dei rapporti sociali, di dominio e sfruttamento, e, seguendo Sayad e Djouder, sottolinea come i processi di integrazione sottendano una forte dimensione repressiva.

    Tindaro Bellinvia ricostruisce i percorsi materiali che portano all’etnicizzazione delle migrazioni e alla criminalizzazione della figura dei migranti, individuando un processo essenziale per il funzionamento dei dispositivi di controllo e per la costruzione dello spazio permanente di marginalità.

    Le esperienze condotte sul campo dagli autori ci dimostrano come tutto il sistema italiano dell’accoglienza sia interno al processo della costruzione del margine invalicabile, dell’esclusione permanente cui è destinata la popolazione migrante. Angela Bagnato pone il problema della permanenza del controllo sui corpi e di come ciò si evidenzi anche in uno sfruttamento asimmetrico che colpisce le donne migranti, riproponendo le forme del potere patriarcale. Giovanni Cordova dimostra come la ricerca etnografica possa smontare con facilità l’immagine rassicurante costruita nel dibattito pubblico del sistema italiano dell’accoglienza.

    Il saggio di Carmelo Russo contribuisce a ribaltare gli stereotipi sulla costruzione dell’immagine del migrante, ridefinendo l’esperienza e i processi di revisione della memoria delle migrazioni siciliane dirette verso la Tunisia.

    Nel loro insieme, i saggi affrontano una molteplicità di vincoli attivi sulle migrazioni attuali, convergendo nella critica alle definizioni normalizzanti ed alle categorie coloniali e di stato che contribuiscono a governarle. Essi pongono, dunque, il tema della possibilità di liberazione politica, culturale ed epistemologica delle migrazioni e delle persone migranti: condizione determinante per costruire relazioni sociali più giuste su scala mondiale.

    Liberare le migrazioni

    I migranti sono ormai tra i principali attori di conflitti sociali in varie aree del pianeta (Mezzadra e Neilson 2013; Avallone 20l5b). Il loro protagonismo sociale e politico va oltre la storica problematica di integrazione nei paesi di arrivo e riguarda la crescente difficoltà nella costruzione di spazi di vita e l’impossibilità di rientrare nel sistema economico globale per una parte sempre più ampia degli abitanti del pianeta: si riferisce, cioè, allo status di esclusione permanente che si prospetta a vari strati dell’umanità. Di fronte a questa esplosione di esperienze conflittuali, Mezzadra e Neilson descrivono la moltiplicazione dei confini come uno dei processi fondamentali per la sopravvivenza del sistema economico globale. Un processo che si realizza in uno spazio eterogeneo, caratterizzato da alti livelli di controllo sulla libertà di movimento degli individui. La moltiplicazione dei confini corrisponde, nel quadro proposto dai due autori, alla moltiplicazione e parcellizzazione del lavoro e definisce, ormai, un fenomeno capillare in cui aumentano i confini fisici anche interni alle vecchie strutture geopolitiche. La divisione globale del lavoro determina la nascita di nuove forme di parcellizzazione sociale.

    Le categorie tradizionali di sovranità e potere costituente, legate all’esistenza di confini stabili, sono state rimesse in discussione, ma non sostituite dall’individuazione di nuove categorie interpretative soprattutto di fronte ad una situazione in cui è il potere economico che istituisce i confini, mentre quello politico li gestisce in subordine. Tale processo può definire anche il percorso in cui la dimensione di marginalità propria dei migranti si estende ad un numero sempre più ampio di abitanti del pianeta e non dipende solo dallo spostamento fisico. Secondo la definizione classica del dibattito critico, lo spazio politico neoliberale si definisce come schema in cui si muovono liberamente capitali e merci, ma non gli esseri umani, così anche la costruzione di nuove forme di identità globale passa dalla moltiplicazione dei confini. In questo quadro l’esigenza di procedere a diverse forme di decolonizzazione dell’analisi postcoloniale è sempre più pressante. Non si tratta solo di analizzare o contrastare la costruzione del migrante come nemico, ma anche di confrontarsi con la nascita di nuove forme di conflittualità che non rivendicano integrazione, nell’accezione tradizionale del termine. Si può partire dall’assunto che la definizione territoriale della categoria di migrazione corrisponde ormai evidentemente ad un solo aspetto del processo. Il problema si può inquadrare come la questione dell’ampliamento del numero di persone collocate oltre il margine, la linea che divide l’accesso alla ricchezza dall’esclusione permanente. Quella linea non corrisponde più alla struttura territoriale costruita dal progetto coloniale dell’Occidente, è un prodotto diretto di quella storia, ma non corrisponde più alla differenziazione territoriale tra paesi dominatori e colonie.

    La crisi della sovranità moderna si evidenzia chiaramente nel mantenimento delle formule di controllo prive di territorio e consenso. I migranti portano alla luce la permanenza di elementi forti, di un’eredità coloniale nella struttura stessa delle domande poste dalle scienze sociali. Come suggerisce la lettura di Sayad, non possiamo pensare di ricostituire il passato alla ricerca di forme sociali pre-esistenti la modernità e il capitalismo, non può esistere cioè una scienza sociale non coloniale nei suoi assunti. Può esisterne una decolonizzata, che assolva anche al ruolo storico di sapere di opposizione.

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    Left,

    Bombe italiane vengono usate in Yemen. Da anni denunciamo l’esportazione illegale di armi alla coalizione saudita impegnata nella guerra civile in Yemen». Da qui l’appello: «Fermiamo il massacro saudita» perché «i bambini continuano a morire, uno ogni dieci minuti». Era il 16 giugno 2017 quando l’europarlamentare M5s Fabio Massimo Castaldo denunciava, ancora una volta, la vendita di bombe dall’Italia all’Arabia, le stesse bombe che, come accertato dai commissari Onu, sono utilizzate in Yemen, in una guerra che ha prodotto una crisi umanitaria senza precedenti e migliaia di morti civili. Il Movimento 5 stelle, anche nel Parlamento italiano, nella passata legislatura non ha mai avuto dubbi da che parte stare: l’ex senatore Roberto Cotti (non ricandidato nel 2018) è stato uno dei più attivi nel denunciare con atti parlamentari ogni carico di armamenti che, dalla Rwm Italia con sede a Domusnovas in Sardegna, partiva alla volta di Ryad. Un altro sempre in prima linea è stato Manlio Di Stefano. «Europa e Italia fingono di non capire che le armi vendute all’Arabia Saudita vadano a finire nelle mani dei terroristi (e parliamo di uno tra i primi acquirenti al mondo nonché primo acquirente di armi italiane)», scriveva il 29 luglio 2016. «Italia ed Europa dovrebbero contenere in tutti i modi quei Paesi che forniscono soldi e armi ai terroristi e responsabili dello scempio in Yemen».

    Oggi la linea all’interno del Movimento sembra diversa. La deputata Pd Lia Quartapelle ha presentato un’interrogazione in commissione esteri nella quale chiede «se il Governo […] non ritenga opportuno, assumere iniziative per rivedere […] i termini delle forniture di materiali di armamento ai Paesi» impegnati nella guerra in Yemen. La replica di Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, non è stata incisiva e diretta quanto le sue osservazioni del 2016. Dopo un lungo ex-cursus sul ruolo del Cipe-Comitato interministeriale per la programmazione economica e su quello del ministero degli Esteri, il sottosegretario ha assicurato che «il Governo presterà particolare attenzione affinché tutte le richieste autorizzative di esportazione di materiale d’armamento continuino ad essere valutate con estrema attenzione e particolare rigore». In pratica il governo M5s-Lega continuerà a valutare le richieste esattamente come è accaduto fino a prima del suo insediamento (quando era guidato dal partito della Quartapelle). Il rischio che il commercio di bombe verso l’Arabia non venga fermato è concreto. Insomma, ancora una volta l’Italia pare non voglia prendere decisioni forti. «Le valutazioni avvengono in un quadro di concertazione fra Paesi Alleati ed UE, tenendo anche conto dei rapporti bilaterali e della cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo», si legge ancora nella risposta di Di Stefano. Una risposta che, appunto, ricalca esattamente la linea del Governo Gentiloni, a suo tempo tanto osteggiata dal Movimento 5 stelle.

    Sul punto è molto chiaro Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia: «La posizione espressa dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ripropone sostanzialmente quelle manifestate dai precedenti governi Renzi e Gentiloni», dice. «Si tratta di posizioni che nella precedente legislatura il M5S aveva duramente criticato dai banchi di Montecitorio chiedendo che venisse bloccata “l’esportazione di armi e articoli correlati prodotti in Italia o che transitino per l’Italia, destinati all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen”, ed invitando il governo ad “assumere questa posizione anche in assenza di una formale dichiarazione di embargo sulle armi da parte delle organizzazioni internazionali». Insomma, un gioco delle parti, come lo definisce Maurizio Simoncelli, dell’Archivio per il Disarmo: «La risposta è talmente generica che lascia stupiti, considerando le battaglie che a suo tempo il Movimento ha sposato. Come del resto lascia stupiti che l’interrogazione sia stata presentata dalla Quartapelle che fino a poco tempo fa era in maggioranza».

    Di «minuetto politico» parla anche il coordinatore della Rete italiana per il Disarmo, Francesco Vignarca, perché «se Di Stefano è passato da una posizione decisa sulla vendita di armi all’Arabia a una più morbida, è anche vero che quando noi nella scorsa legislatura chiedevamo lo stop al commercio armato, la Quartapelle e il Pd non ci hanno dato retta, hanno neutralizzato le nostre mozioni, spostandole sulla posizione che oggi Di Stefano ha riconfermato e cioè: “ragioniamo con l’Europa”. Il tanto agognato “cambiamento”, insomma, su questo fronte pare non esserci. O, meglio, c’è solo nello scambio di ruoli tra Pd e 5 stelle, come riflette ancora Beretta. «Nel novembre del 2016 – ricorda l’analista dell’Opal – i parlamentari del M5S membri delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno depositato un esposto in Procura a Roma per chiedere alla magistratura di indagare sulle esportazioni di bombe dell’Italia all’Arabia Saudita, ipotizzando reati ministeriali da parte dei ministri Pinotti e Gentiloni. La recente risposta del sottosegretario è perciò quanto mai rilevante perché manifesta una radicale differenza rispetto alle posizioni sostenute dal M5S quando era all’opposizione: differenza di cui non posso non prendere atto, ma che il M5S dovrebbe spiegare ai suoi elettori e a tutti coloro che sono in attesa di vedere le novità del Governo del Cambiamento».

    Non è detto, però, che una soluzione non possa arrivare, come spiega Vignarca. «Noi vorremmo lo stop immediato, ma la posizione di Di Stefano ricalca quella espressa in una mozione approvata dal Pd nell’ottobre 2017, ovvero impegnarsi a livello internazionale per risolvere la questione. Bene, ora fatelo». Il Pd a suo tempo non è mai andato al di là delle parole. Adesso, però, il governo giallo-verde potrebbe avere un’importante sponda a livello europeo considerando, sottolinea ancora Vignarca, che «nel contratto della Große Koalition, si parla chiaramente di stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita». Insomma, tutto dipenderà dalla volontà politica di chi governa. Ieri come oggi. Intanto continuano a piovere bombe sui cittadini yemeniti. E la guerra va avanti.

    Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

    Quando Donald Trump, lo scorso weekend, è passato per Londra, non aveva ad attenderlo solo drappelli di contestatori, un sindaco nemico e un grande palloncino con la sua caricatura alto nel cielo, ma anche, nel cuore della National Gallery, il ciclo del Course of Empire dell'angloamericano Thomas Cole (1833-36), cinque dipinti che mostrano come il progresso e l’apogeo di una civiltà siano seguiti dal declino e dall’estinzione, specie quando l'uomo lascia libero corso all’odio intestino e al disprezzo per l’ambiente naturale. La mostra londinese di Cole, che Trump probabilmente non ha visitato (il ciclo in questione è però di norma albergato presso l’American Geographical Society di Manhattan, poco lontano dalla sua Tower) è accompagnata dal recentissimo “rifacimento" ad opera dell’artista losangelino Ed Ruscha, che traspone il concetto di decadenza dell’impero nel confronto tra alcuni luoghi-simbolo del boom americano “prima e dopo la cura”: capannoni di aziende, grandi magazzini, cabine telefoniche, che oggi sono diventati fabbriche cinesi, insulsi fast-food, il vuoto dell’etere.

    “Decadence: a Very Short Introduction” si chiama il libretto di David Weir che spopola nelle librerie di Oxford. E anche se vi si parla di Wilde e di Baudelaire, l’impressione è che sia un tema sentito anche da questa parte dell’Atlantico. Chi percorreva le vie di Londra sabato 7 luglio si trovava dinanzi a una città solare e colorata, percorsa da migliaia di manifestanti del London Pride diretti a Trafalgar Square, e lucidamente commossa nel ricordo, in un angolo di Hyde Park, degli attentati jihadisti del 7 luglio 2005, che procurarono 52 morti e centinaia di feriti. Per una volta, questa cerimonia cittadina veniva tenuta al riparo dalle polemiche circa il protagonismo e la retorica “inclusiva" del sindaco musulmano Sadiq Khan (peraltro non capace di garantire la sicurezza in città, come hanno mostrato gli attentati degli ultimi mesi e il dilagare della violenza di strada), e dalle risse sulle responsabilità politiche remote della strage di 13 anni fa - risse che nel 2016, all’indomani del feroce rapporto Chilcot sugli errori e le volgari menzogne di Blair nell’intervento in Iraq, avevano avvelenato il clima di lutto condiviso. Sui giornali, campeggiava poi il nuovo nemico comune: l’intelligence russa, i cattivi del caso Skripal all’opera nella vicina Salisbury con danno anche - sembra - di due persone innocenti esposte per caso al letale novichok.

    Soprattutto, sabato 7 era il giorno in cui veniva reso pubblico l’esito positivo del delicatissimo vertice del partito conservatore sulla politica della Brexit: dopo snervanti trattative nella residenza di Chequers (i giornali fornivano mappe delle stanze e menù dei pasti), i Tories si erano finalmente attestati sulla linea “morbida” di Theresa May. E così, poche ore dopo, il quarto di finale Inghilterra-Svezia si risolveva nel trionfo di una nazione improvvisamente più convinta di sé e sempre più simile al proprio allenatore, Gareth Southgate, capace di infondere una serena fiducia e un sentimento di coesione e umiltà sotto il suo sguardo fiero e il suo immancabile panciotto. Southgate, per i meno giovani, è colui che sbagliò il rigore decisivo nella semifinale di Euro ’96 (giocata a Wembley) contro la Germania: il suo riscatto - per di più tramite la gioiosa macchina multietnica di Maguire e Dele Alli, il sacrificio di Kieran Trippier e le serpentine di Sterling - diventava un simbolo che trascendeva il destino privato e coinvolgeva l’intera nazione. Reduce da un sostanziale fallimento al Middlesbrough, Southgate non appartiene certo all’aristocrazia degli Eriksson e dei Capello, né alla vecchia guardia un po’ arrogante degli Hodgson e degli Allardyce; e ha avuto l’opportunità di portare l’Inghilterra al vertice di un campionato mondiale improvvisamente declassato ad Europeo.

    Ma di colpo, è venuto giù tutto il fragile castello. Le dimissioni di Boris Johnson precipitano il governo nel caos, lasciandogli una maggioranza esile in vista delle prossime scadenze, e soprattutto moltiplicando le incertezze sulla vera linea che il Regno Unito seguirà nelle trattative per la Brexit - già ora si paventa il rischio di finire marginalizzati come la Norvegia o l’Ucraina, mentre i seguaci di Johnson (tra cui la discussa ministra del lavoro McVey) promettono battaglia e vendetta, e l’ex segretario Hague e altri Tories - dinanzi all'ardua prospettiva parlamentare della linea May - evocano lo spettro di un secondo referendum: insomma, il caos. D’altra parte, i facili sfottò contro la legnosità della difesa svedese lasciano il passo a sconcertanti articoli circa l’”anarchia” che regnerebbe nella nazionale croata (dietro Modric il nulla; un allenatore improvvisato; una Federazione corrotta), e a una sicumera ignara perfino della scaramanzia: così, per dare sostanza al tormentone “Football’s coming home” cantato a squarciagola nei pubs dotati di maxischermo, la British Airways pensa bene di riempire i giornali con un biglietto aereo "Moscow-Home" (Demodedovo-Heathrow) a nome di "Mr. Football", datato 15.7.18 (il giorno della finale), imbarco alle 19.66 al "Gate-South”.

    E invece poi arrivano le zampate di Perisic e Mandzukic, e si scopre che quel giorno Mr. Football atterrerà a Charles de Gaulle o a Zagabria: a Charles de Gaulle, sappiamo ormai, trovando a terra magari Michel Platini in compagnia di un emiro. Del resto nella biancorossa Zagabria, accanto ai tifosi in delirio, avrebbe forse avvistato l’antico patron della Dinamo, quel Zdravko Mamic che il mese scorso è stato condannato a 6 anni e mezzo di reclusione per aver intascato illecitamente i proventi di alcune cessioni di giocatori, tra i quali lo stesso Luka Modric che l’avrebbe coperto testimoniando il falso in tribunale. Mamic - già grande supporter e finanziatore della presidentessa croata Grabar-Kitarovic che nella semifinale esultava merkelianamente in tribuna - è oggi de facto latitante in Bosnia-Erzegovina, tra Mostar e Medjugorje; ma le ombre sulla Federazione si allungano prepotenti, il processo al divo Modric incombe dopo la fine del Mondiale, e lo stesso entusiasmo dei Croati più avveduti per dirigenti, politici e calciatori tanto compromessi pare un po' meno convinto di quanto non fosse all’epoca del terzo posto a Francia ‘98.

    Quel che è certo è che sabato 14 i ragazzi di Southgate sono tornati a casa quarti, travolti dalla classe del multietnico Belgio; e anche se poi loro vengono ricevuti in pompa magna dalla May - pronta, come la sua collega croata, a trarre dividendi politici dagli exploits dei calciatori - Londra è tornata a lottare con le proprie paure del diverso, con l'assillo di una tambureggiante decadenza, e con le ancora oscure e irrisolte memorie del “seven-seven”, così assonante al “nine-eleven” (11 settembre) d’Oltreoceano. In fondo, era più probabile che Donald Trump, se avesse avuto un momento libero, visitasse la notevole mostra che la National Portrait Gallery, sempre a Trafalgar Square, dedicava alle rappresentazioni artistiche del suo grande amico Michael Jackson: tra le altre opere, il video di Rodney McMillan, che copriva il più importante concerto newyorchese della leggenda del pop, datato 10 settembre 2001.

    «... voglio parlare per gli immigrati, per coloro che vivono tale condizione e per coloro che li ricevono. Voglio mostrare la dignità degli immigrati, della loro volontà di integrarsi in un altro paese, del loro coraggio, del loro spirito imprenditoriale, e non ultimo, per dimostrare come con le loro differenze ci arricchiscono. Voglio dimostrare che una vera famiglia umana può essere costruita solo su solidarietà e condivisione...» Sebastião Salgado a proposito del suo reportage sulle migrazioni.

    Fonte: Immagine di Sebastião Salgado tratta dal suo libro Migrations (Aperture, 2000), che raccoglie sei anni di documentazione fotografica sulle più grandi migrazioni della terra, degli esodi di migliaia di persone a causa di guerre, povertà, carestie. Il testo è tratto da un intervista di Nancy Madlin a Sebastião Salgado nel novembre del 1999.

    Effimera

    Immigrazione e criminalità

    È luogo comune e fa parte dei discorsi da bar il nesso inscindibile tra immigrazione e criminalità. Un nesso che viene per di più fomentato da dichiarazioni politiche. Tra le tante da cui siamo assediati in questo periodo, ci limitiamo a ricordarne alcune dei tre leader del centro-destra.

    “L’aumento dell’insicurezza è dovuto al fatto che si è aggiunta la criminalità di 476mila immigrati che per mangiare devono delinquere. La prima cosa che svaligiano in una casa è il frigorifero e ciò è causato dal modo con cui il nostro Paese non ha saputo rispondere all’immigrazione” (Silvio Berlusconi a Domenica Live, 13 gennaio 2018).

    “In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?” (Matteo Salvini al Parlamento Europeo, 6 febbraio 2018).

    “Penso sia legittimo dire che l’immigrazione incontrollata va regolata e c’è un problema tra l’immigrazione incontrollata e il problema sicurezza. Ma le istituzioni non possono fare le omertose sui reati degli immigrati” (Giorgia Meloni, Tagadà, 5 febbraio 2018)

    La realtà dei dati è diversa. Secondo gli ultimi “numeri” forniti dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria (quindi dal Viminale, il cui ministro è Matteo Salvini) e raccolti dall’Istat, nel periodo 2012-2016 (quello dell’emergenza sbarchi) gli omicidi sono calati da 528 a 400 (-24,2%), i tentati omicidi da 1327 a 1079 (-22,4%), le percosse da 15.659 a 13.819 (- 11,7%), le violenze sessuali da 4689 a 4046 (- 13,7%), lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione da 1306 a 948 (- 27,4%), i furti da 1.520.623 a 1.346.630 (- 11,4%), le rapine da 42.631 a 32.918 (- 22,7%), le contraffazioni di marchi e prodotti industriali da 8.920 a 7.755 (- 13,1%). I reati che sono invece aumentati riguardano invece la pedopornografia, l’uso di stupefacenti e i delitti informatici.

    Non c’è, dunque, alcuna correlazione fra l’aumento degli stranieri e quello della criminalità. Dato che viene confermato anche da un’analisi di Michelangelo Alimenti che mostra come a fronte di un aumento del 71,18% di stranieri in 10 anni e addirittura di un +681,69% di richiedenti asilo, il numero di reati “attribuibili” a cittadini stranieri sia cresciuto solo del 2%.

    Uno dei dati più citati da chi sostiene che gli stranieri compiono più reati degli italiani riguarda la composizione della popolazione carceraria. Negli ultimi anni più o meno un terzo delle persone detenute nelle prigioni italiane è stabilmente di origine straniera, soprattutto extracomunitaria (nel 2016, il 33,8% contro una quota di migranti sulla popolazione di circa il 10%). Uno studio del 2016 di Francesco Palazzo, docente di Diritto penale all’università di Firenze, afferma però di considerare tale dato come fuorviante per analizzare il rapporto fra immigrazione e criminalità. Il motivo è semplice: i detenuti italiani possono accedere molto più facilmente a forme di pena alternativa degli stranieri. Nella prima metà del 2016 sono stati approvati in tutto 19.128 affidamenti in prova ai servizi sociali, di cui solamente 2.722 a detenuti stranieri (circa il 14 per cento). Nello stesso periodo di tempo, la detenzione domiciliare – cioè la possibilità di scontare l’ultima parte della pena a casa propria – è stata concessa a 14.136 detenuti italiani e solamente a 3.306 stranieri. Correggendo questa distorsione, la propensione a “delinquere” degli stranieri è in linea con quella degli italiani, nonostante che in galera ci vadano – come è noto – le persone più povere e svantaggiate (e quindi sarebbe lecito aspettarsi comunque una quota maggiore degli stranieri).

    Da notare, infine, che sul tema del rapporto tra immigrazione e criminalità, nel 2012 è stato pubblicato dal Journal of European Economic Association uno studio di tre ricercatori della Banca d’Italia, Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti, che arriva alla seguente conclusione:

    “According to the estimates, immigration increases only the incidence of robberies, while leaving unaffected all other types of crime. Since robberies represent a very minor fraction of all criminal offenses, the effect (of immigration, ndr.) on the overall crime rate is not significantly different from zero”[1].

    Immigrazione, previdenza, bilancio pubblico e Pil

    Nelle ultime settimane, si è scatenata una polemica tra l’onnipresente Matteo Savini e il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Al riguardo, ci limitiamo a fornire alcuni dati:
    Per quanto riguarda il bilancio Inps, l’immigrazione è una vera manna. Su 16 milioni di pensionati, gli stranieri sono circa 130mila (80mila pensioni contributive e 50mila pensioni assistenziali), meno dell’1% del totale, per un importo di spesa pari a circa 800 milioni di euro (2015). Di converso, i circa 2,4 milioni di migranti occupati regolarmente versano nella casse previdenziali contributi per un valore al 2015 di circa 11,5 miliardi di euro. Il surplus per le casse dell’Inps è quindi di circa 10, 7 miliardi di euro, un flusso di cassa rilevante anche per il pagamento delle pensioni di oggi. Inoltre, occorre considerare che l’87,6% dei lavoratori stranieri vedrà la propria pensione interamente calcolata con il metodo contributivo. E occorre aggiungere che non tutti vi accederanno: spesso, infatti – come sottolinea il rapporto “La dimensione internazionale delle migrazioni” della Fondazione Leone Moressa – questo non avviene: si stima infatti che negli ultimi anni gli immigrati abbiano lasciato nelle casse dell’Istituto circa 3 miliardi di euro di contributi versati, per prestazioni cui avrebbero avuto diritto se fossero rimasti in Italia.

    Per quanto invece riguarda il bilancio pubblico, l’immigrazione produce un deficit negativo. Secondo le stime della Fondazione Leone Moressa, i circa 2,4 milioni di lavoratori immigrati che fanno la dichiarazione dei redditi effettuano versamenti Irpef superiori ai 3 miliardi di euro. Al gettito Irpef devono poi essere aggiunta l’imposta indiretta sui consumi – Iva (stimata in 2,5 miliardi), le imposte sui carburanti (940 milioni di euro), circa 240 milioni annui derivanti da gioco del lotto e lotterie, altri 340 milioni di euro circa tra rinnovi dei permessi di soggiorno e richieste di acquisizione della cittadinanza italiana. In totale 7,2 miliardi di euro che entrano nelle casse dello Stato. Dal lato delle uscite, le stime relative alla spesa pubblica pro-immigrati ammonta a circa 4 miliardi di euro per quanto riguarda la sanità, circa 3 miliardi per la voce scuola/istruzione, 2,7 miliardi legati a costi sostenuti dal ministero dell’Interno, altri due per il settore della Giustizia. Il totale, con l’aggiunta di servizi sociali, casa e trasferimenti economici, porta a uscite per 16,6 miliardi di euro. Il deficit è quindi di 9,4 miliardi. Ma se consideriamo il saldo positivo dell’Inps, il bilancio pubblico complessivo dell’Italia può contare su 18,7 miliardi di entrate a fronte di 17,3 miliardi di spesa. Si registra quindi un surplus complessivo pari 1,4 miliardi. E’ un dato che smentisce un altro luogo comune, ovvero, il fatto che l’immigrazione graverebbe sulle casse dello Stato, vuoi per le spese di accoglienza o per le maggiori spese sociali.

    A questi dati, occorrerebbe aggiungere il contributo dell’immigrazione alla crescita economica italiana. I 2,4 milioni di occupati stranieri dipendenti nel 2016 (circa il 10% del totale) hanno prodotto 130 miliardi di valore aggiunto (8,9% del Pil, il prodotto interno lordo). A ciò occorre aggiungere la dinamica imprenditoriale. Negli ultimi cinque anni, infatti, mentre le imprese italiane sono diminuite del 2,7%, quelle straniere hanno registrato un +25,8% raggiungendo quota 570 mila (9,4% sul totale) e producendo 102 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 6,9% della ricchezza complessiva. Il contributo al PIL italiano del lavoro migrante è quindi pari a poco più di 230 miliardi di Euro, circa il 13,5% del Pil complessivo: una quota superiore a quella demografica. Ciò significa che il Pil per immigrato risulta superiore al Pil per italiano. Infine, occorre ricordare che si tratta di un’occupazione che non è in concorrenza con quella italiana – sottolinea il report – ma un’occupazione “complementare”. Italiani e stranieri fanno lavori diversi: tra gli immigrati, solo l’11% è laureato (ovvero con una laurea riconosciuta in Italia), mentre tra i giovani italiani questa quota raggiunge il 31%. Anche per questo alcune professioni sono a conduzione prevalentemente straniera: il 74% dei lavoratori domestici è straniero, così come oltre il 56% delle “badanti” ed il 52% dei venditori ambulanti.

    Da un punto di vista economico, il buon senso ci dovrebbe consigliare che favorire flussi migratori in grado di regolarizzarsi nel più breve tempo possibile (ad esempio, tramite sanatorie, come già avvenuto, con successo, in passato) produce effetti più che positivi sia per l’economia italiana che per i conti pubblici. Esattamente l’opposto di quanto la mala informazione vuole farci credere.

    Emigrazioni e immigrazioni

    Negli ultimi 12 mesi sono sbarcati in Italia 52.000 stranieri. Ma, in contemporanea sono partiti per la sola Germania, 65.000 italiani (il 25% in più degli sbarchi). Se tutti i media sono concentrati sull’immigrazione, quasi nessuno si sta rendendo conto dell’aumento dell’emigrazione, in un paese che nel periodo tra 1876 e il 1976, ha registrato circa 26 milioni di espatri, originando quello che è stato definito “the largest exodus of people ever recorded from a single nation”[2].

    Nel 2016 si sono registrate quasi 160 mila cancellazioni anagrafiche per l’estero. In generale le emigrazioni sono per lo più di cittadini italiani (nel 2016 se ne contano 114 mila, 73%).

    Le mete di destinazione sono prevalentemente i Paesi dell’Europa occidentale: Regno Unito (22,0 per cento), Germania (16,5 per cento), Svizzera (10,0 per cento) e Francia (9,5 per cento), i quali accolgono più della metà delle cancellazioni per l’estero. Le province per le quali si registrano i tassi di emigrazione più alti si trovano nel Nord (Bolzano, Vicenza, Mantova, Imperia e Trieste) e in Sicilia (Agrigento, Catania, Caltanissetta ed Enna).

    Molti italiani con alto livello di istruzione lasciano il Paese, pochi vi fanno ritorno. Selezionando i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016 si ottiene un saldo migratorio con l’estero di circa 54 mila unità, di cui circa 15 mila hanno almeno la laurea. La fascia d’età in cui si registra la perdita più marcata è quella dei giovani dai 25 ai 39 anni (circa 38 mila unità in meno) e, tra questi, quasi il 30% è in possesso di un titolo universitario o post-universitario. La giovane età di questi emigrati testimonia la difficoltà dell’Italia nel trattenere competenze e professionalità.

    Si tratta in ogni caso di dati sottostimati, ovvero della punta di un iceberg. Una ricercacongiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento.

    Ogni emigrazione rende vano l’investimento sociale effettuato sulla persona: 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca. Nel corso del 2016, il costo dell’emigrazione è stato quindi stimabile in 3,510 miliardi di euro per i 39.000 diplomati, 5,440 miliardi per i 34.000 laureati. Una perdita di circa 10 miliardi di euro che non può essere compensato dal saldo positivo dell’immigrazione, che abbiamo visto essere pari a 1,4 miliardi.

    Proprio guardando a questi dati, si stima che in Italia la popolazione residente attesa sia pari, secondo lo scenario mediano, a 59 milioni nel 2045 e a 54,1 milioni nel 2065 (dati dell’ultimo report dell’Istat, diffuso il 3 maggio 2018). La flessione rispetto al 2017 (60,6 milioni) sarebbe pari a 1,6 milioni di residenti nel 2045 e a 6,5 milioni nel 2065. Si tratta di uno scenario preoccupante che altera ulteriormente il rapporto intergenerazionale, la cui distorsione potrebbe essere compensata oltre che dalla regolarizzazione dei migranti (che hanno un’età media di 10 anni inferiore a quella degli italiani) anche da politiche che favoriscano la permanenza in loco delle generazioni più giovani.

    A guisa di conclusione…

    Sul tema dell’immigrazioni si gioca il futuro democratico ed economico di questo pese. La disinformazione regna sovrana, alimentata ad arte da una strategia comunicativa potente quanto rozza nella sua semplicità di attizzare comportamenti utilitaristici e opportunistici.

    Al riguardo è interessante uno studio condotto da Alberto Alesina, Armando Miano e Stefanie Stantcheva (università di Haward) che ha indagato lo stato dell’informazione e delle opinioni di europei e americani sugli immigrati dei loro paesi, tramite un campione di circa 23.000 nativi in sei nazioni, Francia, Germania, Italia Regno Unito, Stati Uniti, Svezia. In primo luogo, la presenza degli immigrata è sovrastimata sino a essere considerata tre volte quella reale. In Italia, la disinformazione fa ritenere che gli immigrati siano circa il 30% della popolazione quando nella realtà sono meno del 10% (la quota più bassa tra i 6 paesi considerati nello studio). Un dato in linea anche con un’analoga ricerca condotta da Ipsos nel 2017. Inoltre gli italiani pensano che il 50% degli immigrati sia musulmano, quando sono in realtà il 30%. E sono ben il 60% quelli di fede cristiana, mentre gli italiani pensano che siano meno del 30%. Ma c’è di più. Gli italiani ritengono che il 40% degli immigrati sia disoccupato, così da essere concorrenti agli italiani sul mercato del lavoro (“ci portano via il posto di lavoro”) oltre che pesare sulla spesa sociale. Il dato esatto è che poco più del 10% degli immigrati è disoccupato, un valore in linea, se non inferiore, con quello dei nativi.

    Ma il dato più interessante di questo studio è il seguente: il campione è stato diviso in due parti. Alla prima parte sono state rivolte delle domande inerenti prima l’immigrazione e successivamente lo stato sociale e la redistribuzione del reddito. Per la seconda metà del campione, l’ordine delle domande è stato invertito.

    I primi, con il tema degli immigrati in mente, si sono dimostrati più avversi allo stato sociale rispetto a coloro che prima hanno risposto alle domanda sullo stato sociale e solo dopo ai temi relativi all’immigrazione. Sembra cioè che i nativi siano più generosi con i nativi ma non con i “diversi, ovvero gli immigrati.

    Tale comportamento dipende dalla carenza di informazioni corrette sul fenomeno migratorio, il cui peso viene enfatizzato volutamente proprio per favorire e alimentare reazioni di tipo xenofobo. Ne è controprova il fatto che quella parte del campione che è stata correttamente informata sul numero degli immigrati e sulla loro origine, ha manifestato un deciso calo nelle posizioni anti immigrati. Ovvero, gran parte dei sentimenti anti immigrati deriva da percezioni errate.

    Possiamo provare a trarre allora due insegnamenti. Primo: abbiamo bisogno di una forte e costante informazione (a qualcuno piace chiamarla contro-informazione ma tocca partire dalla assenza di informazione). Il paradosso (non casuale) è che in tempi di trionfo della comunicazione come leva e processo di valorizzazione, l’esigenza di (buona) informazionesembra meno sentita o fa più fatica a diffondersi. Più facilmente si diffondono le fake news.

    Secondo: il sentimento anti-immigrati è figlio di questa non-conoscenza che facilita la sedimentazione di una cultura razzista, dentro uno strutturato disegno di dominio. La maggior parte delle persone rischiano di diventare facile preda di questo processo. A maggior ragione – come sempre – la diffusione di una corretta informazione è socialmente e politicamente vitale.

    Note

    [1] Trad. it.: “Secondo le stime, l’immigrazione aumenta solo l’incidenza delle rapine, lasciando inalterati tutti gli altri tipi di crimine. Dal momento che le rapine rappresentano una minima parte di tutti i reati penali, l’effetto (dell’immigrazione, ndr.) sul tasso complessivo di criminalità non è significativamente diverso da zero”.

    [2] Thomas Sowell, Ethnic America, Basic book, New York, Usa, 2009, cap. 5. Trad. it.: “il più grande esodo che si sia mai verificato in un unico paese”.

    Tratto dalla pagina qui raggiungibile



    Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.

    Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.

    Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.

    La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.

    Un’altra affermazione fatta da Travaglio è che le navi delle ong siano un incentivo per le partenze di migranti. “Le ong agiscono anche con le migliori intenzioni come pull factor (fattore di attrazione) che rende i viaggi meno costosi e rischiosi”. Ma questa accusa (già rivolta anche alla missione militare del governo italiano Mare nostrum nel 2013) è stata smentita da più di uno studio. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), aveva spiegato che un’attenta e approfondita analisi dei dati aveva fatto emergere la fallacia di questa suggestiva affermazione: “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno, i flussi non ne erano influenzati”.

    Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.

    Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.

    Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.

    Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.

    Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.

    La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.

    Un’altra affermazione fatta da Travaglio è che le navi delle ong siano un incentivo per le partenze di migranti. “Le ong agiscono anche con le migliori intenzioni come pull factor (fattore di attrazione) che rende i viaggi meno costosi e rischiosi”. Ma questa accusa (già rivolta anche alla missione militare del governo italiano Mare nostrum nel 2013) è stata smentita da più di uno studio. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), aveva spiegato che un’attenta e approfondita analisi dei dati aveva fatto emergere la fallacia di questa suggestiva affermazione: “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno, i flussi non ne erano influenzati”.

    Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.

    Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.

    I morti e gli sbarchi

    “L’equazione ‘più ong, meno morti’ è falsa: è vera invece quella ‘meno sbarchi, meno morti’”, afferma ancora Travaglio nel suo editoriale. La questione in realtà è ben più complicata. Innanzitutto bisognerebbe parlare di partenze e non di sbarchi, nel senso che la mortalità deve essere calcolata in relazione alle persone partite e non a quelle arrivate. Inoltre i dati dell’ultimo mese farebbero pensare il contrario. Nel primo weekend in cui Tripoli ha coordinato i soccorsi in mare e le ong si sono ritirate in seguito alla chiusura dei porti italiani, ci sono stati tre naufragi che hanno portato il numero complessivo dei morti e dei dispersi nel solo mese di giugno a 679.

    Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il dato in meno di un mese è più che raddoppiato. Matteo Villa ha elaborato i dati dell’Unhcr e dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sulle morti registrate in relazione alle partenze dalla Libia e ha stabilito che dal 1 giugno la rotta del Mediterraneo è diventata la più pericolosa al mondo: “Muore una persona ogni dieci”.

    Un dato allarmante che riporta il tasso di mortalità e il numero assoluto dei morti ai livelli di quelli registrati prima della riduzione delle partenze nel luglio del 2017. “Dopo la repentina diminuzione delle partenze dal 16 luglio 2017, il numero assoluto dei morti e dei dispersi si è ridotto, ma ora siamo tornati incredibilmente ai livelli di prima”, afferma Villa.

    Secondo il ricercatore, questo fattore è legato a tre elementi: “Le ong sono coinvolte sempre di meno nei salvataggi, i mercantili non intervengono perché temono di essere bloccati per giorni in attesa di avere indicazioni sul porto di sbarco (come è successo al cargo danese Maersk) e la guardia costiera libica non ha né i mezzi né la competenza per occuparsi dei salvataggi”.

    La distruzione dei barconi

    Travaglio inoltre afferma che la presenza delle ong avrebbe indotto i trafficanti a cambiare il tipo di imbarcazioni usate per la traversata: “A parte appunto gli scafisti, che negli ultimi anni, grazie al progressivo avvicinarsi delle navi delle Ong alle acque territoriali libiche, hanno impiegato natanti sempre più pericolanti, proprio perché sicuri di dover percorrere un tratto di mare molto limitato prima della ‘consegna’ sincronizzata (il ‘salvataggio’ è tutt’altra cosa) del carico umano alle imbarcazioni private”. In realtà sappiamo che la tipologia delle imbarcazioni è cambiata in parte in concomitanza del lancio della missione Sophia di EunavforMed che aveva l’obiettivo di distruggere proprio i barconi di legno.

    Inoltre non è vero come dice Travaglio in un secondo editoriale pubblicato l’11 luglio “che i barconi devono essere distrutti per legge”. Nessuna legge impone alle ong di distruggere i gommoni vuoti. Nonostante questo molti soccorritori dopo aver trasferito al sicuro i migranti avevano l’abitudine di affondarli o distruggerli per evitare che i trafficanti li recuperassero. Il codice di condotta imposto dal governo alle ong nel luglio del 2017 chiedeva alle organizzazioni di recuperare ove possibile le imbarcazioni e i motori e di consegnarle o segnalarle alle navi militari nella zona. Ma il codice di condotta ha un valore pattizio, non è una legge dello stato.

    La Libia e il traffico di esseri umani

    Infine Travaglio sostiene che “ora in Libia premono per partire chi dice 700mila, chi dice 1 milione di persone”. La giornalista Francesca Mannocchi, esperta di Libia, ha fatto notare che non tutti i migranti che si trovano nel paese in questo momento sono pronti a partire, perché la Libia è anche un paese di destinazione e non solo di transito per i migranti. Inoltre citare delle stime ufficiali dei migranti richiusi nei centri di detenzione non ufficiali gestiti dai trafficanti è rischioso, perché questi luoghi sono inaccessibili alle autorità libiche e internazionali e non conosciamo esattamente quante persone sono nei centri di detenzione.

    “In Libia l’Oim stima la presenza di 700mila migranti, presenza non significa pronti-a-partire, dato che semplicemente non esiste. Come il direttore Travaglio può facilmente verificare sulle statistiche di Unhcr le persone presenti nei centri di detenzione ufficiali – cioè gestiti dall’ufficio anti immigrazione clandestina del ministero dell’interno libico – sono circa 30mila”, ha scritto Mannocchi su Facebook.

    Nel suo editoriale infine Travaglio dice che comunque la priorità dovrebbe essere quella della lotta ai trafficanti di esseri umani, che definisce “i veri responsabili”. A questo proposito il giornalista Lorenzo Bagnoli, che è esperto di questi temi e ha scritto molti pezzi proprio per il Fatto, ha contestato il direttore definendo “pietoso che in tutta questa retorica della lotta ai trafficanti non si ricordi mai che l’unico ‘boss’ che si pensa in carcere, Yedahego Medhanie Mered, in realtà sia ancora libero”.

    Bagnoli ha argomentato dicendo che “non sappiamo ancora niente dei trafficanti. Non sappiamo nemmeno se esiste una ‘cupola’ davvero oppure no. Siamo maledettamente indietro su questa tipologia d’indagini. Il potere dei trafficanti non è come quello delle mafie italiane. Non è così ancestrale, è cambiato con il mutare delle migrazioni. Non c’è l’ideologia dell’anti-stato contro lo stato. Forse bisogna dirselo quando si paragonano le mafie italiane con quelle libiche”. Di questo ha scritto approfonditamente il giornalista Lorenzo Tondo sul Guardian e il giornalista Ben Taub sul New Yorker.

    Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

    Il Fatto Quotidiano,

    Sapevo che sarei andato in Vietnam. A quel tempo filmavo per Tv7. La data (1 febbraio) era stata decisa secondo le esigenze e i turni della troupe e nessuno si aspettava, in quel momento, neppure gli strateghi americani, che i Viet Cong avrebbero attaccato Saigon, si sarebbero spinti fino a combattere sul prato intorno alla ambasciata americana, uccidendo e facendosi uccidere come in un grande e ben diretto spettacolo di morte. Noi siamo arrivati a Saigon di mattina, poche ore dopo l’inizio della “offensiva del Tet” e non sapevamo neppure che il Tet era (è) il Capodanno vietnamita. Ci ha portati a Saigon un Caravelle delle linee aeree thailandesi che è partito e arrivato in orario, senza alcun avvertimento o notizia all’aeroporto o dal pilota. Strano, dicevamo l’uno all’altro, per un volo di linea: stiamo volando sopra i fiocchi bianchi di decine e decine di esplosioni. A terra il Caravelle ha parcheggiato evitando le buche di esplosioni, fra due aerei distrutti.

    L’aeroporto appariva deserto e devastato, le barriere d’ingresso abbattute, nessuno al controllo. Ma sul piazzale ingombro di macerie di una distruzione appena compiuta, c’era, in uno spiazzo ripulito e collegato ai resti di una strada, un unico taxi, forato di pallottole (un grosso buco al centro del parabrezza) ma con l’autista al volante. Forse non parlava il francese ma lo capiva. Ed era deciso ad accettare clienti, anche strani (io ero in giacca e cravatta) o pericolosi (le macchine da presa) come noi.
    Quello è stato l’inizio del mio 1968. E da quell’inizio è arrivato in Italia il documentario I bambini di Bien Hoa (senza parole, la guerra, specialmente quando le vittime sono i bambini, parla da sola) La Rai di allora (Bernabei, Fabiani) lo ha messo in onda nonostante le reazioni dure del Quirinale di Saragat e dell’ambasciatore americano Martin.
    Nel viaggio di ritorno io però mi sono fermato a New Dehli nella prima sera di pace che stavo trascorrendo in India (lavoravo a un progetto con l’unico documentario al mondo sui Beatles non fatto dal titolo I discepoli di Gandhi) ho incontrato i Beatles, appena arrivati nello stesso albergo e in viaggio verso la meditazione sull’Himalaya. John Lennon era intelligente e curioso, e con lui era naturale parlare. È nato, nella notte, il progetto di seguirli con le cineprese, la prima volta che qualcuno li avrebbe filmati, senza che fosse un loro progetto, senza la loro regia e la loro gente fidata. Ma Lennon si è fidato, e un po’ alla volta anche gli altri. E così siamo saliti all’Ashram del loro guru Maharishi Maharishi Yoghy (insieme a Mia Farrow, Donovan e al leader dei Beach Boys, Brian Wilson) e ne siamo discesi una settimana dopo con l’unico documentario al mondo sui Beatles non fatto dai Beatles, ma da una televisione italiana che lo ha trasmesso, lo ha venduto con grande successo nel mondo ma, stranamente, non lo ha mai commercializzato in Italia.

    Ho dovuto abbandonare il documentario sui discepoli di Gandhi e la pace dell’India, perché il Tg di quei tempi mi voleva negli Usa per seguire Martin Luther King.
    Stava diventando, in un anno elettorale, il grande leader politico nero. Quando King è stato assassinato, al Lorraine Motel di Memphis, Andrew Young e Jesse Jackson (le due persone più legate e più vicine a lui) mi hanno aiutato in una immediata inchiesta filmata a partire dal punto in cui loro (che erano accanto a King al momento del delitto, sul ballatoio del motel) avevano visto partire il colpo. Niente del nostro film coincideva con i rapporti di polizia, e per anni Coretta King e i suoi figli si sono battuti per la liberazione del presunto assassino (James Earl Ray) morto in isolamento in prigione. Ma erano i giorni (3,4 e 5 aprile) in cui Washington era in fiamme per la rivolta nera contro il delitto di Memphis. Le truppe federali non sono riuscite a fermare la rivolta. Ma è riuscito, nel cuore della notte in fiamme (5 aprile) Robert Kennedy, ormai candidato vincente alle primarie democratiche presidenziali, con una idea che è diventata anche un celebre Tv7 della Tv italiana.

    Illuminato dall’unica lampada del datore di luci, in piedi sulla macchina scoperta noleggiata dalla Rai, facendosi sentire con due altoparlanti a cui era stato collegato il microfono, Kennedy ha detto: “Hanno ucciso mio fratello, hanno ucciso vostro padre. Ma non siamo quelli che uccidono, non vogliamo diventare come i nostri assassini. Noi siamo coloro che portano pace.

    «Kennedy era credibile perché era il solo a battersi contro la guerra nel Vietnam e perciò seguito e sostenuto da una marea di giovani. La rivolta del ghetto di Washington è finita quella notte e Bob Kennedy diventava ogni giorno di più il futuro presidente degli Stati Uniti». Andrea Barbato e io lo abbiamo seguito, intervistato e filmato per la Rai durante tutti i mesi e tutti i giorni seguenti della campagna elettorale.

    Fino alla notte del 4 giugno, quando l’uomo colpito con precisione alla testa e morente sul pavimento della cucina dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, è andato ad aggiungersi ai grandi cadaveri della politica americana, ancora una volta colpito con esattezza da un assassino sfuocato, e non veramente identificabile, per ragioni mai dette, salvo le falsità accettate ancora una volta nei tribunali per chiudere il caso.

    Ma il caso non si è mai chiuso, e non era chiuso quando, in tanti (una folla di decine di migliaia, guidati da Allen Ginsberg e Norman Mailer) siamo andati al Pentagono “per levitarlo” (Allen Ginsberg) e infondergli una volontà di pace. E il caso non era chiuso quando, alla Convezione democratica di Chicago, soldati armati di baionette hanno circondato e bloccato l’immensa folla giovane, e il documentario lungo come un film che ne abbiamo tratto era in molti punti diretto da Michelangelo Antonioni, che era venuto a raggiungerci nel momento cinematograficamente migliore e politicamente peggiore di quel 1968. Nelle elezioni presidenziali, ricorderete, ha vinto Nixon. Ma con un trucco che, in due anni, lo porterà alla rovina del Watergate.

    Tratto da Il Fatto Quotidiano del 13 luglio 2018, p. 22.

    il manifesto, 11 luglio 2018. Se una causa è giusta, se comporta la vita o la morte di milioni di persone, , non basta manifestare solidarietà alle vittime, occorre mettere in gioco se stessi.
    Se si vuole manifes7are davvero la solidarietà da chi cerca rifugio, se si pensa che non basta firmare o promuovere appelli, bisogna dimostrare che si è capaci di pagare un prezzo per una causa sacrosanta come è quella di lasciare aperti i porti e tendere le proprie mano per accogliere chi è costretto a fuggire. È ciò che ha deciso un gruppo di religiosi e religiose protestando davanti al Parlamento con un presidio permanente e tre giorno consecutivi di digiuno a rotazione. Ne informa Luca Kocci qui di sguitoAnche eddyburg sta valutando le modalità della sua partecipazione all’iniziativa(e.s.)

    Il manifesto, 11 luglio 2018
    “Digiuno di giustizia” in marcia a Roma
    «Disobbedienza civile, basta tacere»
    di Luca Kocci

    Non possiamo accettare in silenzio queste politiche contro i migranti che sono un insulto alla civiltà e all’umanità. Ecco perché siamo qui». Così il missionario comboniano Alex Zanotelli spiega il senso del «Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti», promosso insieme all’ex vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, a don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge di Firenze, a suor Rita Giaretta delle orsoline di Casa Ruth di Caserta (che lavorano con le donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale) e al sacramentino Giorgio Ghezzi di Castel Volturno.

    Alle sue spalle c’è il cupolone e piazza San Pietro, attraversata dai turisti incuriositi da quello che sta succedendo. Una cinquantina di persone fra cui diversi religiose e religiosi – non tantissime, ma non erano attesi i grandi numeri – in cerchio oltre le transenne che delimitano il colonnato del Bernini (ordine della polizia) attorno ad una lampada accesa inviata dai francescani di Assisi, assenti ma aderenti all’iniziativa.

    Arrivano gli scout di Caserta che aprono lo striscione («Digiuno di giustizia»). «Digiuniamo perché il digiuno è uno degli strumenti della resistenza nonviolenta», aggiunge Zanotelli, «contestiamo gli slogan “America first” o “Prima gli italiani”, c’è spazio per tutti». «È un tentativo di risvegliare le coscienze dei cristiani, e non solo», spiega Santoro, «c’è un silenzio che spaventa, invece ci vorrebbe un tuono che lo spezzi e denunci queste politiche».

    Il piccolo corteo si muove lungo via della Conciliazione, “scortato” da qualche agente in borghese: non si sa mai ci sia qualche pericoloso sovversivo infiltrato! Ci sono diverse suore (comboniane, orsoline, di santa Giovanna Antida Thouret), alcuni religiosi, aderenti alla Comunità di base di San Paolo (che in questi giorni ricorda Giovanni Franzoni ad un anno dalla morte) e alla Rete Radié Resch, c’è Vauro. «Nel Mediterraneo e nel Sahara si sta consumando un olocausto, fra l’indifferenza, la complicità e a volte anche il consenso di molti – ci dice Vauro – un crimine contro l’umanità che bisogna denunciare e combattere, cattolici e uomini e donne di sinistra insieme, mettendo da parte differenze e distinzioni».

    Si supera il Tevere, si cammina – sul marciapiede – lungo corso Vittorio Emanuele, fino a piazza Navona. Di fronte a Palazzo Madama gli scout provano ad aprire lo striscione, subito fermati dai solerti rappresentanti delle forze dell’ordine: «Non si può, è vietato!». Si arriva a piazza Montecitorio dove si forma il piccolo presidio, questo autorizzato. Don Santoro legge l’appello: «Sono oltre 34mila le vittime accertate perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della Fortezza Europa», «è il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta» e dell’Italia che «decide di non accogliere, di chiudere i porti», «è il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: ero straniero e non mi avete accolto».

    Suor Gabiella Bottani, comboniana, coordinatrice della rete mondiale delle religiose contro la tratta: «La chiusura delle frontiere è motivata con l’obiettivo di combattere la tratta. Invece la alimenta, perché lasciando donne e uomini nell’irregolarità si favoriscono le organizzazioni criminali che li sfruttano». Il presidente di Pax Christi, monsignor Giovanni Ricchiuti, telefona e comunica l’adesione di Pax Christi. Uno dei promotori, monsignor Nogaro (assente per ragioni di salute) spiega al manifesto: «Abbandonare i migranti in mare è un abuso di umanità che questo governo sta compiendo, bisogna organizzare una disobbedienza civile, non si può più tacere».

    In serata il presidio si scioglie. Oggi si riprende con il digiuno a staffetta, a cui hanno aderito in molti. «I rappresentanti del governo – dice Santoro – hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica ma il giorno dopo, con i respingimenti, hanno violato quel giuramento. Sarebbe bello se il ministro Salvini venisse qui in piazza a confrontarsi con noi». Salvini, però, non si è fatto vedere.

    Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

    Alla fine è stato autorizzato lo sbarco degli ultimi migranti recuperati in mare. Permesso dato solo perchè l'equipaggio della Von Thalassa che li aveva salvati sembra sia stato messo in pericolo di vita. Rimane intatta la posizione del governo: porti chiusi! (a.b.)

    Di fronte all'ondata migratoria presente non bisogna dimenticare che gli italiani sono stati essi stessi degli emigranti e che le migrazioni sono eventi che hanno sempre arricchito le regioni verso le quali si sono dirette.

    Riprendiamo due testi originariamente pubblicati tra il dicembre 2015 e il gennaio 2016, senza modifiche, salvo nuovi sottotitoli.

    ll primato dell’emigrazione italiana

    Quando alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile «Il Ponte» dal titolo Emigra­zione cento anni 26 milioni, sembrò prudente manifestare incredulità davanti alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impres­sionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emi­grati e famiglie).

    Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute, inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato ap­pena coerente con la speranza cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di sfruttamento pur di la­vorare e di abitare, tant’era pura sopravvivenza la vita in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l’orribile inammissibile invenzione idiomatica attuale, «econo­mici»? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l’uno operaio l’altro pesciven­dolo, onesti «economici» anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, in­vece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o «economici» che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR.

    Migrazioni interne e sfruttamento operaio

    Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come di­menticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei racco­glitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si pre­senta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.

    Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente – a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il Triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo as­sumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme con altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che, per alcuni aspetti e per tutt’altre cause, sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.

    Il caso torinese

    Torino simbolo dal momento in cui ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti con­nazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fos­sero piemontesi provenienti dalle campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come la­voratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi oc­cupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. E oggi in Italia, se raggiungere la resi­denza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci le­ghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.

    Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipen­denti. Erano le organizzazioni cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’ente per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sop­portati per il dipendente regolare. Che cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»? Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della rac­comandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi mano­vali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari perico­lose.

    Lavoro e casa, uguale discriminazione

    Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione gio­vane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai tradizionali, «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque sottoposte alla grande ma­dre.

    L’aspirazione dell’immigrato di poter accedere a un alloggio popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative. Per parte sua la Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l’immigrazione. La necessità, oggi nel paese, di un’estesa at­tività di edilizia popolare rivolta anche alla domanda dei «nuovi» immigrati è ignorata dalle aziende che hanno sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a Milano, per gran parte del se­colo scorso agiva il più qualificato Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal potere poli­tico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica.

    Il 1969 simbolo delle nuove rivendicazioni

    Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, lavoro, insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in se stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizio­nale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette – lentamente – verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle cele­brazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che, infatti, tardò a superare il dannoso statuto di città dipen­dente da una sola imponente monocoltura industriale.

    Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle rela­zioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per di­verse condizioni di lavoro, ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. I lavoratori di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre parteci­pavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero e di lotta nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il prin­cipe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di Corso Traiano a Torino».

    La differenza della Germania

    Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi di­chiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Or­ban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi. Per Angela Merkel, incu­rante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato.

    Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il si­stema delle pensioni. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di nata­lità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi ad assimilare rapida­mente comporta­menti di vita famigliare o personale. D'altra parte si devono risolvere due enormi problemi: assicu­rarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cit­tadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazio­nale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.

    Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole lo­gica capitalistica e mer­cantesca volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: ri­duzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.

    Il lavoro italiano, la città di Wolfsburg e il Käfer

    La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la per­centuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti ame­ricani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…

    Come simbolo del lavoro italiano all’estero scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), «Città del Lupo». Fu­rono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della «Macchina del popolo» voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e para-sociale bloccato dalla guerra e rilanciato dopo la scon­fitta, intensificato dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro de­gli immi­grati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una prefe­renza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Colloca­mento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.

    Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dap­prima Gastar­beiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo «ospiti», Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abi­tare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata. Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale «Altreitalie»[i], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costi­tuito da lunghe case a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale «per stirare» (?).

    Il racconto dello scrittore Maurizio Maggiani

    Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica de­dicato solo alla produ­zione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le ri­sorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Mag­giani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il co­raggio del pettirosso[ii] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[iii]. Ha amici compatrioti, del re­sto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle bibliote­che. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quar­tieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».

    Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania do­tato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Franci­sco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzio­nava già nel 1962. Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autun­nali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Al­lora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico ro­manziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conse­guenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truc­cate in certi modelli?

    Lavorare in miniera morte annunciata

    Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascol­tano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che soprag­giunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà tra­sformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emi­grati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavo­ravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di car­bone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.

    Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Rocca­strada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione Camorra: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminu­zione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro.

    Quando i letterati appartengono alla vicenda sociale

    Il libro d’epoca di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[iv] dedica un capitolo a La scia­gura di Ribolla. Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che sali­ranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro re­gione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta parte­cipazione agli eventi potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i «camerotti» costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. «Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma»[v].

    L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la missione di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Monte­catini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pra­tica degli assegni assisten­ziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré morti del quattro maggio. Chieden­domi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a con­tatto con qualsiasi sorgente di calore su­periore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quat­tro i palazzi».[vi]

    Note

    [i] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in “Altreitalie”, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.
    [ii] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Repaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.
    [iii] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.
    [iv] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.
    [v] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile, accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità’. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.
    [vi] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.

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