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. La feroce determinazione con cui si colpisce chi cerca di salvare vite umane mentre si lascia carta bianca alle multinazionali che si stanno spartendo la “risorsa rifugiato” sono due aspetti non disgiunti, ma complementari, dello stesso disegno di appropriazione del pianeta e di riduzione in schiavitù della maggioranza dei suoi abitanti perseguito dalle istituzioni finanziarie e dai governi che ai loro dettami ubbidiscono. Un disegno nel quale la crescente collaborazione tra il settore pubblico e le grandi imprese coinvolte nelle così dette “partnership per i rifugiati” ha un ruolo non irrilevante.

Più che dalla abusata motivazione che gli stati nazionali non hanno denaro e quindi devono collaborare con i privati ricchi di risorse ed esperienza manageriale, la diffusione di tali iniziative è frutto di una scelta strategica delle imprese. Molte, infatti, hanno capito che firmare un assegno o farsi un selfie con un rifugiato per migliorare l’immagine della ditta sono gesti che rendono poco rispetto ai profitti che si possono ricavare diversificando gli investimenti e destinando una quota di capitale alla filiera filantropica e hanno deciso di adottare linguaggio e metodi del capitale di ventura per conquistare il mercato dei beni e servizi per rifugiati.

Tale approccio è apertamente condiviso ai più alti livelli delle pubbliche istituzioni, come dimostrano, ad esempio, le dichiarazioni rilasciate durante il Summit per il rifugiato del settembre 2016 e la contemporanea iniziativa dell’allora presidente degli Stati Uniti Obama, che ha lanciato un call for action per spronare il settore privato a impegnarsi per “risolvere la crisi” dei rifugiati. All’appello hanno risposto con entusiasmo oltre 50 corporations, da Google a Airbnb, da Western Union a Linkedin, oltre che Goldman Sachs e JPMorgan.

Anche l’UNHCR, l’alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati, ha avviato una serie di compartecipazioni con grandi imprese mondiali. Uno dei primi accordi è stato siglato con IKEA, le cui iniziative, abilmente propagandate da campagne pubblicitarie, hanno suscitato il plauso unanime dei commentatori. In particolare Better shelter, un ricovero prefabbricato di semplice montaggio, ha avuto numerosi riconoscimenti. Nel 2016 è stato premiato come miglior oggetto di design dal museo di design di Londra e un suo esemplare è esposto al Moma di New York. UNHCR ne ha installati 5000 in varie parti del mondo: Iraq, Gibuti, Niger, Serbia, Grecia. Pressoché sotto silenzio, invece, è passata la notizia che IKEA ha dovuto ritirare dal mercato 10000 scatole di Better Shelter, già acquistate da UNHCR, dopo che la città di Zurigo si è rifiutata di usare le casette perché non soddisfano le norme antincendio svizzere.

Per Heggenes, amministratore delegato della IKEA foundation, ha ammesso che sapevano che il prodotto “non è adatto a tutti i climi” e che ora lo stanno ridisegnando. Comunque, sono soddisfatti perché è stata una esperienza istruttiva dalla quale hanno imparato molto. Quando il business incontra le Nazioni unite, ha aggiunto, ci sono sempre dei problemi… abbiamo bisogno di tempo di capirci… «noi non siamo organizzazioni umanitarie, noi investiamo. Ma cerchiamo un ritorno sociale e non solo finanziario».

E la ricerca del ritorno sociale è l’obiettivo dichiarato del più recente progetto che IKEA sta mettendo a punto per far lavorare i rifugiati in Giordania, uno dei paesi confinanti con la Siria dove Banca mondiale, Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna sono a caccia di occasioni di investimento.

2. Il piano di Ikea è di creare una linea di tappeti ed altri manufatti tessili da far produrre dai siriani dei campi. Le prime 200 postazioni dovrebbero essere pronte entro pochi mesi, ma l’ambizione è di creare, entro 10 anni, 200 mila posti di lavoro in varie località.

Rispetto a better shelter, si tratta indubbiamente di un programma diverso, nel quale il valore aggiunto non deriva tanto dalla merce prodotta ma dal lavoratore, secondo la logica sintetizzata dallo slogan “rifugiato come opportunità” ed ampiamente illustrata in un rapporto di un consulente della Unione Europea dal titolo inequivocabile: il lavoro del rifugiato, un investimento umanitario che genera dividendi (Philippe Legrain, The refugee work, an humanitarian investment that yelds economic dividends, 2016).

Anche la scelta di cominciare dal campo profughi di Zaatari non è irrilevante. Creato nel 2012, il campo è ormai, per dimensione, la quarta città della Giordania e secondo gli esperti internazionali non solo è destinato a permanere nel tempo, ma rappresenta il modello di città del futuro. Ed in effetti, se si tiene conto che la Banca mondiale ha concesso fondi alla Giordania perché riformi il mercato del lavoro, che l’Unione Europea ha negoziato la qualifica di “mercato preferenziale” per le merci prodotte in 18 zone industriali dove almeno il 15% degli occupati sono immigrati e che gli Stati Uniti hanno firmato un trattato di libero scambio commerciale con la Giordania, il futuro della città/deposito di esseri umani a disposizione degli investitori sembra garantito. Come ha spiegato il sottosegretario al commercio degli Stati Uniti, accompagnando una decina di rappresentanti di grandi imprese, tra le quali Microsoft, Master card, Coca cola e Pepsi cola a visitare il campo, «non vi portiamo in gita a Zaatari per farvi parlare con dei disgraziati, ma perché cogliate l’opportunità commerciale connessa all’impegno per una causa umanitaria».

3. In questo fervore di iniziative benefiche poco si dice a proposito delle condizioni di lavoro, ed anche immani disastri, come l’incendio di un capannone o il crollo di un edificio, vengono rapidamente archiviati e le ditte continuano a profittare dei nuovi schiavi. Quando nel 2015 l’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Centre ha distribuito un questionario alle grandi firme del tessile operanti in Turchia, solo H&M e Next hanno ammesso di aver scoperto che nelle fabbriche dei loro fornitori erano impiegati bambini siriani. Le altre hanno risposto in termini evasivi o non hanno nemmeno risposto.

In un momento in cui le organizzazioni senza scopo di lucro vengono trattate come criminali, non dovrebbe essere difficile pretendere trasparenza su questo punto da Ikea, che legalmente, cioè fiscalmente, è una onlus. Ikea foundation, infatti, non è una società per azioni ma una charity, con sede in Olanda, controllata dall’azienda olandese Ingka holding a sua volta posseduta da una fondazione non profit e paga le tasse con aliquota del 3,5%. La fondazione è una delle più grandi non profit al mondo ed ha un patrimonio che supera i 35 miliardi di dollari. Come recita un famoso aforisma di Henry David Thoreau «la bontà è l’unico investimento che non fallisce mai».

Paolo Rodari riferisce sulla"svolta" della Commissione episcopale italiana e il priore di Bose rivendica il rispetto della legge "restare umani".

la Repubblica, 11 agosto 2017, con postilla (i.b.-e.s.)

BASSETTI ALLE ONG:
RISPETTARE
LE LEGGI
E NON COLLABORARE
CON GLI SCAFISTI
di Paolo Rodari
«La svolta. Il presidente della Cei interviene sullaquestione migranti»
Il troppo buonismo fa vincere l’oltranzismo. Dopo giorni diriflessione la Cei esce allo scoperto. L’invito fatto sulle Ong allaresponsabilità e al codice imposto dal Viminale – «Si deve rispettare lalegge», ha detto ieri il presidente dei vescovi italiani, il cardinaleGualtiero Bassetti – muove dalla maturazione della consapevolezza che ilprincipio di umanità, che vale sempre e soprattutto nei confronti dei migranti,non può esautorare quel principio di legalità che anche Francesco tornando novemesi fa dalla Svezia aveva richiamato quando spiegò di comprendere le politicherestrittive di Stoccolma in materia di immigrazione. Anche sul tema delicatodell’accoglienza, insomma, il rischio che la Chiesa ha visto come reale è chela misericordia diventi ideologia ed è contro questo spauracchio che Bassetti èieri intervenuto.

Le parole del presidente dei vescovi trovano riscontri inVaticano. In questi giorni sono giunte Oltretevere alcune rimostranze, da partedel mondo cattolico e del mondo politico, per le prese di posizione giudicatetroppo schierate in favore delle Ong di Avveniree di alcuni presuli. Molto attivo verso il Vaticano è stato il ministrodell’Interno Marco Minniti. Bassetti, prima di parlare, ha ascoltato la SantaSede, ma anche la pancia di una buona fetta del mondo cattolico che sul temachiede maggiore rigore: «Non possiamo correre il rischio – ha detto – neancheper una pura idealità che si trasforma drammaticamente in ingenuità, di fornireil pretesto, anche se falso, di collaborare con i trafficanti di carne umana».

E’ stato anche per questo motivo che la maggioranza dei vescovi ha votato perlui quale successore del cardinale Bagnasco alla scorsa assemblea della Cei:era stato ritenuto, anche dai vescovi più a “destra”, e ieri ne è arrivata unaconferma, come la personalità più capace di mediare fra l’anima vicina alleaperture del segretario generale Nunzio Galatino e una base più tradizionale ecentrista.
Con ieri è iniziata di fatto una nuova via, quella di una Cei conuna guida che, rispettata da tutte le anime, è capace di fare sintesi fra lasensibilità del Papa e la tradizione moderata del cattolicesimo del Paese. Unsegnale che Bassetti sarebbe intervenuto è arrivato dalle parole pronunciatenelle ultime ore, dopo prese di posizione più spinte, dal ministro Delrio cheha chiesto, in extremis, di tenere assieme umanità e rispetto delle leggi.Così, tre giorni fa anche il presidente Mattarella che, benedicendo «il nuovocodice sulle Ong», aveva dato un segnale preciso. Fra Mattarella e Bassetti ilrapporto è ottimo: «C’è uno spazio enorme di collaborazione per il bene delPaese», aveva detto il prelato dopo la visita di giugno del Papa al Quirinale.E ieri questa collaborazione è divenuta effettiva e ha mostrato come, in scia auna tradizione consolidata nel cattolicesimo italiano, Bassetti è anche uomodelle istituzioni.

I MIGRANTI
E IL DOVERE DI RESTARE UMANI
diEnzo Bianchi

L’INVITO del presidente della Cei, cardinalBassetti, ad affrontare il fenomeno dei migranti «nel rispetto della legge» esenza fornire pretesti agli scafisti è un richiamo all’assunzione diresponsabilità etica ad ampio raggio nella temperie che Italia e Europa stannoattraversando. Un richiamo quanto mai opportuno perché ormai si sta profilandouna “emergenza umanitaria” che non è data dalle migrazioni in quanto tali,bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima ancora che operative con cui lesi affrontano. Non è infatti “emergenza” il fenomeno dei migranti - richiedentiasilo o economici - che in questa forma risale ormai alla fine del secoloscorso e i cui numeri sia assoluti che percentuali sarebbero agevolmentegestibili da politiche degne di questo nome. E l’aggettivo “umanitario” nonriguarda solo le condizioni subumane in cui vivono milioni di persone nei campiprofughi del Medioriente o nei paesi stremati da conflitti foraggiati daimercanti d’armi o da carestie ricorrenti, naturali o indotte. L’emergenzariguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza difronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioniche sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori ei principi della casa comune europea e della “millenaria civiltà cristiana”,così connaturale al nostro paese.

È un impoverimento del nostro essere umani chesi è via via accentuato da quando ci si è preoccupati più del controllo e delladifesa delle frontiere esterne dell’Europa che non dei sentimenti che battononel cuore del nostro continente e dei principi che ne determinano leggi ecomportamenti. È un imbarbarimento che si è aggravato quando abbiamo siglato unaccordo per delegare il lavoro sporco di fermare e respingere migliaia diprofughi dal Medioriente a un paese che manifestamente vìola fondamenti etici,giuridici e culturali imprescindibili per la nostra “casa comune”.

Ora noi, già “popolo di navigatori e trasmigratori”,ci stiamo rapidamente adeguando a un pensiero unico che confligge persino conla millenaria legge del mare iscritta nella coscienza umana, e arriva aconfigurare una sorta di “reato umanitario” o “di altruismo” in base al qualediviene naturale minare sistematicamente e indistintamente la credibilità delleOng e perseguirne l’operato, affidare a un’inesistente autorità statale libicala gestione di ipotetici centri di raccolta dei migranti che tutti gliorganismi umanitari internazionali definiscono luoghi di torture, vessazioni,violenze e abusi di ogni tipo, riconsegnare a una delle guardie costierelibiche quelle persone che erano state imbarcate da trafficanti di esseri umanicon la sospetta connivenza di chi ora li riporta alla casella-prigione dipartenza.

Ora questa criticità emergenziale di un’umanitàmortificata ha come effetto disastroso il rendere ancor più ardua la gestionedel fenomeno migratorio attraverso i parametri dell’accoglienza,dell’integrazione e della solidarietà che dovrebbero costituire lo zoccoloduro della civiltà europea e che non sono certo di facile attuazione. Come,infatti, in questo clima di caccia al “buonista” pianificare politiche checonsentano non solo la gestione degli arrivi delle persone in fuga dalla guerrao dalla fame, ma soprattutto la trasformazione strutturale di questacongiuntura in opportunità di crescita e di miglioramento delle condizioni divita per l’intero sistema paese, a cominciare dalle fasce di popolazioneresidente più povere? E, di conseguenza, come evitare invece che i migrantiabbandonati “senza regolare permesso” alimentino il mercato del lavoro nero,degli abusi sui minori e della prostituzione?

L’esperienza di tante realtà che conosco e della mia stessacomunità, che da due anni dà accoglienza ad alcuni richiedenti asilo, mostraquanto sia difficile oggi, superata la fase di prima accoglienza e diapprendimento della lingua e dei diritti e doveri che ci accomunano, progettaree realizzare una feconda e sostenibile convivenza civile, un proficuo scambio dellerisorse umane, morali e culturali di cui ogni essere umano è portatore. Non puòbastare, infatti, il già difficilissimo inserimento degli immigrati accolti nelmondo del lavoro e una loro dignitosa sistemazione abitativa: occorrerebberipensare organicamente il tessuto sociale di città e campagne, larivitalizzazione di aree depresse del nostro paese, la protezione dell’ambientee del territorio, la salvaguardia dei diritti di cittadinanza. Questo potrebbefar sì che l’accoglienza sia realizzata non solo con generosità ma anche conintelligenza e l’integrazione avvenire senza generare squilibri.

Sragionare per slogan, fomentare anziché capire e governarele paure delle componenti più deboli ed esposte della società, criminalizzareindistintamente tutti gli operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero ochiunque pensi diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, alcontrario è la via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, perinfliggere alla nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostropaese e l’Europa a un collasso etico dal quale sarà assai difficilerisollevarsi.

Anche in certi spazi cristiani, la paura dominanteassottiglia le voci - tra le quali continua a spiccare per vigore quella dipapa Francesco - che affrontano a viso aperto il forte vento contrario,contrastano la «dimensione del disumano che è entrata nel nostro orizzonte» esi levano a difesa dell’umanità. Purtroppo, stando “in mezzo alla gente”,ascoltandola e vedendo come si comporta, viene da dire che stiamo diventandopiù cattivi e la stessa politica, che dovrebbe innanzitutto far crescere una“società buona”, non solo è latitante ma sembra tentata da percorsi cheassecondano la barbarie. Eppure è in gioco non solo la sopravvivenza e ladignità di milioni di persone, ma anche il bene più prezioso che ciascuno dinoi e la nostra convivenza possiede: l’essere responsabili e perciò custodi delproprio fratello, della propria sorella in umanità.

postilla

Quale legge deve prevalere?

La questione deimigranti del nostro secolo e dell’atteggiamento da tenere nei confronti di chi,come alcune Ong, non rifiuterebbe contatti con “trafficanti di uomini”, (cioè conquegli attori che in cambio di un prezzo,aiutano i profughi a fuggire) divide anche il mondo cattolico.
Le due posizioni alternative emergono conevidenza nei due scritti che riportiamo: l’uno esprime la posizione dellaCommissione episcopale italiana, espressa dal suo presidente GualtieroBassetti, l’altra quella di Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della Comunitàmonastica di Bose.
Il pretesto con cui vieneammantato il dissenso è quello che si tira in ballo di solito quando gliargomenti di merito di una delle parti sono deboli: bisogna rispettare lalegge. Se la legge vieta alle Ong ad avere contatti con i “trafficanti” essesono obbligate a obbedire, quale che sia la pulsione, o il sentimento, o il principioo la convenienza che li spingerebbe a fare il contrario.
È evidente che ilgoverno italiano abbraccia con entusiasmo il rispetto della legge che impedisceogni accordo con i “trafficanti, e che invece parte rilevante del mondocattolico recentemente espressa dal quotidiano della Cei, l’Avvenire, si muove sul versante opposto. Èsignificativo che la stampa attribuisca a Marco Minniti un intervento direttosul Vaticano per convincere le gerarchie ecclesiastiche a mettere in riga i “buonisti”.
Ed è altrettantoevidente che il governo italiano si manifesta debole, impacciato, pusillanimefino alla viltà nel far comprendere all’Unione europea, della quale si spacciaper protagonista, che le migrazioni hanno la Penisola solo come il primo punto l’approdo,e che l’obiettivo e la responsabilità dei flussi migratori sono costituiti dall’insieme dell’Europa. Invece di Gentiloni e Delrio, è Enzo Bianchi a ricordare che sono «i parametri dell’accoglienza, dell’integrazione e dellasolidarietà che dovrebbero costituire lo zoccolo duro della civiltàeuropea»
L’intervento di EnzoBianchi mette in evidenza le due verità di fondo: non si tratta di un impegnoche riguardi solo l’Italia, ma l’intera Europa; né si tratta di un conflittotra chi rispetta la legge e chi non la rispetta, ma è un conflitto tra dueleggi. Deve prevalere lalegge secondo la quale ogni persona umana è portatrice di eguali diritti,oppure la legge (le leggi) che valgono solo a proteggere alcuni? La risposta diEnzo Bianchi, e della parte del mondo cattolico più vicina a papa Francesco,non sembra dubbia: “il dovere”, la legge, di “restare umani” (i.b.-e.s.)

Prosegue instancabile l'abbandono da parte del governo renziano dai principi dello stato liberale e dallo spirito e la lettera della Costituzione, cui i membri del governo avevano giurato solennemente fedeltà. La grande stampa tace. articoli di M. Bascetta e P. Pipino.

il manifesto, 10 agosto 2017
LO SCHEMA È QUELLO
DELLA LOTTA AL NARCOTRAFFICO
di Marco Bascetta

«Migranti. È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza»

Sotto la superficie della cronaca, con le parole sopraffatte dall’uso ripetitivo che se ne fa, scorre una narrativa mai esplicitata, ma tacitamente e immediatamente percepita. Questa narrazione applica all’immigrazione lo schema del narcotraffico.

C’è un cartello (o più cartelli) che manovrano gli scafisti (corrieri), ci sono governi e polizie corrotte che li coprono, ci sono centrali di smistamento in Europa. E, naturalmente, c’è la mercanzia: quell’umanità in fuga dalle più diverse catastrofi che rischia i propri averi e la propria vita nella traversata del mare. E che qualche approfittatore nostrano considera, ma non è vero, più redditizia degli stupefacenti. I trafficanti, piuttosto spietati, esistono e anche il confuso contesto politico-militare che ne consente, complice, l’azione. Ma lo schema si completa implicitamente con un elemento decisamente ripugnante: i migranti avrebbero sulle società europee lo stesso effetto della droga in termini di inquinamento della presunta purezza, di trasgressione delle regole di convivenza, di indebolimento dei legami sociali e di assorbimento indebito delle scarse risorse assistenziali degli stati. In una versione solo apparentemente meno efferata il migrante rivestirebbe invece la parte del tossico, colpevole di cercare scorciatoie per il paradiso, e pronto a farsi spacciare dagli scafisti il sogno di un’Europa immaginaria. Meritevole, dunque, di essere disintossicato a forza in qualche lager libico. Questo schema, che certamente entusiasmerà la destra xenofoba, sottende la riduzione del problema dell’immigrazione (che almeno in partenza è sempre e solo clandestina) alla lotta contro i trafficanti di fuggiaschi.

È la via più diretta per spacciare un fenomeno storico come emergenza criminale, un problema di politica globale come una questione di sicurezza (degli uni a scapito degli altri). Tutti sanno, beninteso, che non sono gli scafisti la causa delle migrazioni e neanche dell’impossibilità di tenerle sotto controllo, che è la domanda a creare l’offerta e la chiusura a produrre soluzioni fuori dalla legalità. E, tuttavia, i media sono concentrati su questa messa in scena della guerra agli scafisti e alle Ong sospettate di intelligenza con il nemico.

Proviamo a simulare un semplice scenario mettendoci nei panni di un trafficante. Caricando di disperati un natante del tutto inadeguato a raggiungere l’altra sponda, e sempre più frequentemente manovrato da un nocchiero scelto tra i passeggeri stessi, segnalerà via radio le coordinate del naufragio programmato.

Per le unità di soccorso non vi è altra scelta allora che lasciare al loro destino i naufraghi, poiché la segnalazione proviene dai trafficanti e il soccorso internazionale rischia di rientrare nel pacchetto che costoro vendono agli imbarcati, o soccorrere comunque le persone in pericolo di vita. Questa seconda scelta rende la Ong che la adotta rea di alto tradimento, meritevole di messa al bando e l’imbarcazione di essere catturata. Per il trafficante, comunque vada a finire, l’affare è concluso e la domanda non sarà scoraggiata perché non si tratta di un mercato di generi voluttuari e i fattori che lo alimentano lavorano a pieno ritmo.

All’opinione pubblica europea si potrà rivendere un “successo” nella lotta contro i trafficanti di esseri umani. Con il messaggio sottaciuto, perché impronunciabile, che un buon numero di affogati funzionerà da deterrente.

A completare l’intera rappresentazione di fronte alle coste libiche incrociano Ong che hanno firmato il codice di comportamento stilato dal ministro degli interni Minniti e altre che non lo hanno firmato, una nave nazifascista (speriamo resti l’unica) che da loro la caccia, la o le guardie costiere libiche delle quali ben poco si sa, la guardia costiera italiana e la marina militare, nonché quella del generale Haftar che minaccia di bombardarla, scafisti e relitti carichi di disperati. A suo tempo le acque della Tortuga dovevano essere molto più tranquille.

Alle spalle di questa specie di battaglia navale, un’Europa i cui membri cercano di truffarsi a vicenda e l’Unione che, quando si pronuncia richiamandosi ai “valori irrinunciabili”, afferma il contrario di ciò che concretamente lascia fare. Laddove la guerra navale diventa continentale, combattuta sui fronti del Brennero e di Ventimiglia, della Baviera e dei paesi dell’Est. Ma intanto, nella sua sostanziale insussistenza, la crociata contro i contrabbandieri di esseri umani riesce a mettere tutti d’accordo e a coprire i più diversi interessi che si nascondono nel suo cono d’ombra. È la comoda finzione che pretende di conferire perfino una coloritura etica (combattiamo gli schiavisti) al puro e semplice respingimento di una umanità che abbiamo costretto alla fuga o che cerca ragionevolmente di esercitare la sua libertà.

IMMIGRAZIONE,
REATO DI CRITICA.
TORNA GALLA IL VILIPENDIO
di Livio Pipino

«Ritorno all'antico. Un avvocato dice in piazza che i decreti Minniti-Orlando sono “allucinanti” e scatta la denuncia: “Vilipendio delle istituzioni e delle forze armate”. A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di «aver ingiuriato la polizia»

Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido «Abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma «quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte».

Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più». Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante.

Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, «se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana», aveva «candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione». Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta.

Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della “parola contraria” è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità – convalidata da atti di governo – di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono – nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana.

È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli “allucinanti” e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro «vergogna, vergogna» di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per «vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate», poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale).

Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha «incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato».

C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà.

Nulla richiama guerra come altra guerra, a parte i soldi. Tutto il resto non conta.

il Fatto Quotidiano online, 10 agosto 2017 (p.d.)

Gli Stati Uniti vendono 110 miliardi di armi all’Arabia Saudita. Anzi no, forse molti di più. E il presidente Donald Trump nello stesso giro di ore se la prende con l’Iran che, secondo lui (ma anche secondo molti tra noi… che però non andiamo in giro per il mondo a vendere armi e ad ammazzare la gente) è un paese pericoloso.

Poi oggi sempre lui, Trump, dichiara “faremo fuoco e furie mai viste” contro la Corea del nord che non è meno bellicoso di lui, dell’Arabia Saudita e dell’Iran. Criminali si confrontano sul tavolo del loro Risiko infame. E versano qualche lacrima sintetica via Twitter per lo sterminio americano di Nagasaki ricordato ieri.
Joe O’Donnell fotografò un bambino che portava il fratello piccolo sulle spalle. Sembrava addormentato. Mia figlia si addormenta spesso così. Anche a me succedeva. Mio padre diceva che ero un sacchetto di patate. Anche io lo dico dei miei figli. Due. Uno dell’età che ha il più grande nella foto. L’altra più o meno di quella che ha il sacchetto che stava sulle spalle. Ma il sacchetto di patate era morto e suo fratello lo accompagnava alla cremazione. Erano bambini di Nagasaki.
Scriveva il poeta “apritemi sono io…

busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli”.
Non li vedono i presidenti. Non li vedono i commentatori. Non li vedono gli elettori. Non li vede quasi nessuno. Speriamo nella bontà dei “quasi”.

il manifesto, 9 agosto 2017 (c.m.c.)

Le critiche teoriche avanzate nei confronti del Prodotto interno lordo (Pil) e le dimostrazioni pratiche della sua fallacia si vanno accumulando. Lorenzo Fioramonti, giovane economista approdato all’università di Pretoria e collaboratore del gruppo di ricerca «New Economy Foundation», le ha raccolte lungo la breve storia di «una delle più grandi invenzioni del XX secolo», secondo la definizione del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Dietro ad un titolo che vorrebbe essere scherzoso (Presi per il Pil. Tutta la verità sul più potente numero del mondo, L’asino d’oro, pp. 193, euro 20, con presentazione di Enrico Giovannini, già direttore dell’Istat e ministro con Letta), il volume ricostruisce rigorosamente l’evoluzione di un concetto che ha segnato la nostra epoca. Un sistema statistico che ha inventato la cifra con cui il discorso pubblico corrente indica il grado di sviluppo, progresso e benessere dell’intera società. Un sistema di contabilità che è diventato la base simbolica e retorica delle politiche tanto delle destre, quanto delle sinistre.

Ma come è possibile che un numeretto così rozzo e arbitrario sia riuscito ad avere tanta importanza? Secondo Fioramonti la ragione del successo non va ricercata nella sua fondatezza tecnica-scientifica, ma nell’essere un mezzo molto potente di egemonia politica: «uno strumento di dominio». Per questa ragione «sfidare la logica del Pil», demitizzarlo e detronizzarlo è un’operazione culturale necessaria che secondo l’autore va preliminarmente condotta da parte di chiunque sia interessato ad un reale processo di trasformazione economica e sociale.

A dispetto del significato generale che nel tempo gli è stato attribuito, il Pil non nasce (nel 1934 nel pieno della Grande depressione) affatto per indicare il benessere dei cittadini, o le attività utili alla società e nemmeno il grado di soddisfazione dei consumatori, ma per quantificare il volume delle transizioni monetarie che avvengono sui mercati nell’arco di un determinato periodo (oggi, trimestralmente). La corrispondenza tra gli interessi delle popolazioni e quello dei mercati non è però assiomatica e men che meno automatica. Lo sapeva anche il suo inventore, Simon Kuznets, economista e statistico di origine Russa, approdato negli Usa negli anni Trenta, che invitata a non far diventare il reddito nazionale «la principale preoccupazione dell’economia».

In realtà il sistema di contabilità nazionale adottato dal governo degli Stati Uniti nel 1934 era nato per pianificare la conversione dell’economica civile nella gigantesca macchina da guerra che si voleva realizzare. Da allora le spese militari sono rimaste ben saldamente dentro la metrica del Pil come una forma di investimento tra le altre e continuano a concorrere non poco alla «ricchezza delle nazioni» più armate. Ma non è questa la sola «aberrazione» di un sistema di contabilità nazionale che Fioramonti definisce in vario modo: «fondato su una grande menzogna», «obsoleto e inefficace», «distruttivo» e che Giorgio Ruffolo aveva già bollato come un «idolo bugiardo». In sostanza, un indicatore che non rispecchia né i desideri autentici delle persone, né l’effettiva utilità sociale delle attività economiche che si svolgono.

I prezzi di mercato delle merci non sono certo un onesto indicatore della loro utilità. Il tempo libero non ha valore. Le connessioni con l’occupazione e la diminuzione della povertà sono indimostrabili. Esiste un rapporto tra aumento del Pil e diminuzione delle disuguaglianze? Per Fioramonti il Pil è solo una «lavatrice statistica» che serve ad accompagnare la «furia inarrestabile del mercato» (come la chiamava Albert Hirschmann nel 1968).

Moltissime sono state le proposte avanzate a più riprese mirate quantomeno ad addolcire il Pil, correggerlo, integrarlo, relativizzarlo. Ma nessuna è fin’ora andata in porto. William Nordhaus e Jones Tobin nei primi anni settanta avevano elaborato una Misura del Benessere Economico che escludeva le spese militari. Robert Eisner negli anni Ottanta aveva proposto un Sistema di contabilità dei redditi totali con l’inclusione delle produzioni domestiche e l’esclusione delle attività di servizio alla produzione. Di Herman Daly e John Cobb è l’Indicatore del Progresso Autentico che prevedeva di dedurre dal Pil i «consumi difensivi», cioè i costi dovuti al consumo del capitale naturale, agli incidenti stradali, ai crimini.

Nel regno buddista del Bhutan è nato l’indicatore della Felicità Interna Lorda che tiene conto del benessere psicologico, dell’uso del tempo e della biodiversità. Nel 1994 l’amministrazione Clinton propose una riforma, ma il Congresso la bocciò. Per loro conto le Nazioni Unite hanno iniziato nel 1994 ad elaborare l’Indice di Sviluppo Umano che considera il reddito una condizione non sufficiente. Dal 2010 in 20 paesi si sta sperimentando un nuovo indice della Ricchezza Inclusiva che cerca di calcolare il valore del capitale sociale, umano e naturale. Infine, in Italia, proprio grazie alla tenacia di Enrico Giovannini, dall’anno in corso è entrato ad accompagnare il Documento di economia e finanza il Bes (l’indice del Benessere equo e sostenibile che aggiunge al Pil una serie di indicatori non economici).

La strada per abbattere il Pil sembra ancora lunga e, secondo l’autore, non può che procedere nella misura in cui avanza concretamente, dal basso, nella società un sistema di relazioni economiche liberato dall’ossessione della crescita monetaria. Fioramonti le individua, ad esempio, in ciò che è successo in Argentina durante la crisi o in Grecia oggi: officine autogestite, sistemi di scambio non monetari, mutualità, condivisione. Vi sono gli esempi pratici di decrescita suggeriti dalle «8 R» di Serge Latouche, le esperienze delle «Transition Town» inglesi, l’ecomunicipalismo catalano, la rete delle 70 valute locali (Regiogeld) in funzione in Germania, le mille esperienze dell’Economia solidale. E molto altro ancora.

«i». il manifesto, 9 agosto 2017

Da sedici anni, l’8 agosto è la giornata nazionale del sacrificio del lavoratore italiano nel mondo. La data è quella della strage più grande, l’incendio nella miniera di Marcinelle nel Belgio centrale dove nel 1956 persero la vita 136 minatori italiani; Sergio Mattarella ha ricordato come ogni anno questo giorno.

«Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione – ha detto tra l’altro il presidente, in un breve comunicato evidentemente preparato come sempre con qualche giorno di anticipo – hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza. È un motivo di riflessione – ha aggiunto – verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione europea».

Un richiamo alla solidarietà e alla condivisione europea per nulla clamoroso, pienamente nel solco di diversi interventi del capo dello stato sul tema dell’immigrazione. Troppo forzato sarebbe vederci una correzione della linea dura, o quanto meno rigorosa, appoggiata appena lunedì sera nel comunicato informale con il quale il Quirinale si era schierato al fianco del ministro Minniti. Casomai è quella mossa, che ha preso la forma di una nota di «ambienti del Quirinale», che rappresenta qualcosa di assai inconsueto per il presidente Mattarella. Non solo per la formula ma anche per il deciso intervento nel merito di una discussione interna al governo. Intervento c’è da supporre richiesto al Colle, magari con l’argomento che bisognava evitare il rischio di offrire all’estero l’immagine di un esecutivo diviso sul tema immigrazione.

Le poche parole di Mattarella sono bastate però per offrire a Salvini l’occasione per la sua polemica quotidiana, che sempre più deve diventare insulto per guadagnare visibilità (una delle occasioni, di un’altra leggete qui sotto). «Mattarella si vergogni – riesce a dire il leghista – perché paragona gli italiani emigrati (e morti) ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino».

Segue grande sforzo agostano del Pd e di un po’ di altri rappresentanti politici per difendere il capo dello stato dalla stupidaggine del segretario della Lega. «Si vergogni lui», dicono più o meno tutti senza troppa fantasia, «insopportabile e cinico». Mentre un deputato appena passato al Pd, Gianfranco Librandi (eletto con Monti dopo trascorsi berlusconiani), nota giustamente che «la Lega è nata contro i “terroni” che andavano al nord a lavorare esattamente come i nostri connazionali di Marcinelle, che dal sud Italia si sono mossi per andare nelle miniere del Belgio e anche lì sicuramente c’era un Salvini che li chiamava “clandestini mantenuti”». Quei lavoratori italiani che, secondo le parole di Mattarella, «hanno contribuito a edificare un continente capace di lasciarsi alle spalle le devastazioni della seconda guerra mondiale e di offrire alle generazioni più giovani un futuro di pace, di crescita economica, di maggiore equità sociale».

comune-info.net, 9 agosto 2017 (p.d.)



Le corporation stanno giocando con le nostre vite e con quella dell’intero pianeta. A 88 anni Noam Chomsky non attenua la critica nei confronti degli Stati Uniti e del capitale transnazionale che, spinto da un’insaziabile dinamica neocoloniale di accumulazione, non esita a depredare ogni possibile ricchezza dei popoli e della natura. In una recente conferenza a Montevideo, dove è stato invitato per girare un documentario con l’ex presidente José Mujica, il vecchio linguista non ha risparmiato le critiche rigorose quanto scomode nemmeno ai governi progressisti latinoamericani, nella migliore delle ipotesi inerti di fronte alla corruzione e all’estrattivismo. Chomsky ha poi ribadito che l’umanità ha costruito due macchine di distruzione: le armi nucleari e la catastrofe ambientale. Gli storici del futuro, ha detto, osserveranno il curioso scenario dell’inizio del ventunesimo secolo, dove per la prima volta nella storia gli esseri umani devono affrontare la prospettiva di una grave calamità che ne minaccia la sopravvivenza. La cosa assurda è che se la sono provocata da soli. E il paese più potente, quello che godeva di incomparabili vantaggi, ha fatto di tutto per accelerare il disastro.

Il pensatore anarchico statunitense Noam Chomsky, è stato ospite in queste ultime settimane, della Fundación Liber Seregni, a Montevideo in Uruguay. Ha tenuto una conferenza, accompagnato dall’ex Presidente José “Pepe” Mujica, il presidente buono, che ha sostenuto la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali, i ceti meno ambienti e più disagiati. Il Pepe anti-capitalista rifiuta apertamente il modello consumistico: «La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà». Si è sentito onorato, Mujica, di poter affiancare Noam Chosmky, che ha ribadito l’urgenza di affrontare seriamente i cambiamenti climatici e il rischio di una guerra nucleare, affermando: «L’umanità ha costruito due macchine di distruzione: le armi nucleari e la catastrofe medio-ambientale».
Il linguista poi si è soffermato sul grande problema che tocca tutta l’America Latina: la nuova colonizzazione da parte delle Corporation che con le loro imprese stanno devastando i territori, affamando le popolazioni, e minacciano l’esistenza dei popoli sacri ancestrali. Solo in Colombia, a causa delle miniere, ben 40 popoli indigeni sono a rischio di estinzione. Afferma Chomsky: «L’America Latina possiede grandi ricchezze che però servono solo a dare benessere a un piccolo settore delle società e alle imprese multinazionali, il capitale transnazionale continua a rubare queste ricchezze e i governi attuali sono incapaci di cambiare questa situazione». Chomsky poi ha puntato il dito anche sulla sinistra sud-americana che non ha avuto la capacità di risolvere la “corruzione endemica”, presente in ogni luogo. «Ci sono due problemi molto importanti: uno è l’incapacità dei leader politici di sinistra di fermare i forti livelli di corruzione, l’altro problema è che alcuni paesi del continente con governi di sinistra non sono riusciti a contrastare il modello economico estrattivista delle materie prime». L’oppressione neo-liberista statunitense e delle multinazionali straniere non ha fatto che creare una struttura sociale inclinata, con forti disparità tra classi, una mancanza di uguaglianza, e una grande concentrazione di potere nelle mani di oligarchie economico-finanziarie. Ma gli Stati Uniti, per Chomsky, restano un paese incontrastato da un punto di vista militare: «Nessun altro paese ha tante basi militari nel mondo» afferma, e anche le Corporation restano prime quasi in tutti i settori, dall’energia alle telecomunicazioni: «India e Cina sono ancora molto lontane dal poter rendere opaco il potere statunitense, restano comunque essenzialmente dei paesi poveri con problemi interni molto marcati».
Gli Stati Uniti sono sordi all’allarme cambiamento climatico. Diverse multinazionali canadesi e americane sono presenti in America Latina, continuando una politica di saccheggio delle materie prime presenti sul territorio, distruzione ambientale, contaminazione delle acque, con conseguenti piogge acide. La macchina di demolizione repubblicana per Chomsky ha smantellato quelle strutture come l’Agenzia di Protezione Ambientale, persegue una politica economica selvaggia in nome del profitto e del guadagno: «Proibito parlare di cambiamento climatico. Si sono distrutti tutti gli sforzi per ridurre il consumo di combustibili fossili. Non è solamente Donald Trump, ma sono tutti i leader repubblicani. Ognuno dei candidati, senza eccezione, o nega il cambiamento climatico o afferma che questo problema potrebbe esistere, ma non bisogna fare nulla a riguardo».
In più occasioni e in varie conferenze Noam Chomsky ha lanciato l’allarme cambiamento climatico e catastrofe ambientale: «La catastrofe ambientale è una cosa molto seria. L’effetto collaterale che stanno ignorando è il destino della specie. E in questo caso nessuno la salverà. Gli storici del futuro osserveranno questo curioso scenario dell’inizio del ventunesimo secolo, in cui per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave calamità provocata da loro e che minaccia la loro sopravvivenza. E noteranno che il paese più potente di tutti, che godeva di incomparabili vantaggi, ha fatto di tutto per accelerare il disastro. Il tentativo di preservare le condizione in cui i nostri discendenti potrebbero avere ancora una vita decente, invece, l’hanno fatto le società cosiddette primitive: le tribù indigene e aborigene. Le popolazioni indigene da varie parti del mondo che chiedono l’aiuto dei paesi ricchi per poter lasciare le loro riserve di petrolio sottoterra, dove dovrebbero restare. E le nazioni più civili e sofisticate ridono della loro ingenuità. È proprio al contrario dì ciò che imporrebbe la ragione, se non fosse una forma di razionalità distorta dal filtro della democrazia capitalista».
E qual è la responsabilità delle multinazionali nel futuro e nella sopravvivenza del nostro pianeta? Con la loro politica che segue la massima di Adam Smith «tutto per noi, niente per loro», i nuovi padroni dell’umanità, con le loro logiche volte al ricavo del massimo profitto, i loro istituti finanziari, le collusioni con i governi locali, e l’utilizzo di gruppi armati e paramilitari, per reprimere ogni forma di protesta e opposizione, continuano indisturbati a prelevare, ad estrarre ogni forma di materia prima dalla nostra madre terra, cambiando e modificando gli equilibri dell’ecosistema, deturpando bellezza e natura. Le conseguenze dello loro azioni indiscriminate non stanno tardando a farsi sentire. Il clima sul pianeta sta cambiando. Il riscaldamento globale si alza sempre più, cresce di anno in anno e in questo gioco, la posta è molto alta, si tratta del proseguimento della nostra specie, le multinazionali stanno giocando con le nostre vite e con la vita dell’intero pianeta.
Saggi ammonimenti, da un quotidiano che di solito ne è privo. Peccato che siano rivolti a una "sinistra" che non c'è, perché quella che usurpa questo nome è composta da tre destre.

la Repubblica, 9 agosto 2017

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa.

Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

ORA, il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono. Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.
Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.
Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.
Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.
«Un progetto per una nuova sinistra non può che ripartire da quel "pieno sviluppo della persona umana" che l'articolo 3 della Costituzione indica come bussola alla Repubblica. Mai come in questa estate essere e restare umani appare un obiettivo rivoluzionario».

Huffington Post online, 9 agosto 2017

Disumano. Tutto, in questa terribile estate 2017 ci pare disumano. Il caldo mostruoso e il fuoco che divorano l'Italia: e le piogge che iniziano a sgretolarlo, al Nord. E disumano appare un discorso politico che di fronte alla più grande questione del nostro tempo, la migrazione di una parte crescente dell'umanità, reagisce invocando la polizia. Un muro di divise che faccia nel Mediterraneo quello che vorrebbe fare il muro di Trump al confine col Messico.

Eppure no: è tutto terribilmente umano. È stato l'uomo a cambiare il clima. È stato l'uomo a innescare la grande migrazione: sono state la diseguaglianza, l'ingiustizia, la desertificazione, lo sfruttamento selvaggio dell'Africa, la stolta politica internazionale e le guerre umanitarie. "Ascoltate, e intendetemi bene: è dal cuore dell'uomo che escono i propositi di male", dice Gesù nel Vangelo di Marco.

Umano, dunque: terrificantemente umano. Di una umanità sfigurata dalla paura, dalla rabbia, dall'avidità. Parliamo di tutto questo quando parliamo della vittoria della destra: peggio, di una egemonia culturale della destra che si estende sul discorso pubblico. Una egemonia culturale che domina – piaccia o non piaccia: è un fatto – il maggior partito italiano: già di centro-sinistra, oggi inequivocabilmente vittima del pensiero unico della destra della paura e dell'odio. E ci sono almeno tre differenti tipi di destra che si stanno mangiando oggi il corpo del Pd.

La prima è quella che ha dominato il pensiero unico del centrosinistra negli ultimi decenni: quella del neoliberismo appena travestito da terza via blairiana. Quella per cui ormai siamo non solo in una economia, ma in una società, di mercato. A cui non c'è alternativa. Per esempio: nella legge sulla concorrenza approvata la settimana scorsa c'è un articolo che distrugge alla radice l'idea stessa di tutela dei beni culturali. Che si potranno esportare con una semplice autocertificazione basata sulle soglie di valore. Il denaro come unico metro, la totale libertà dell'individuo, l'abdicazione dello Stato. Un articolo esplicitamente scritto dalla lobby dei mercanti d'arte, un cui rappresentante sedeva nella commissione, nominata dal ministro Franceschini, che ha scritto la legge.

Un provvedimento settoriale, certo: ma che confermando ancora che il denaro è l'unica misura della libertà chiarisce molto bene l'orizzonte anti-umano di questo "centrosinistra".

La seconda destra è quella, più tradizionale, del ministro Minniti. Una destra law and order che vuole mettere la polizia a bordo delle navi Ong: una destra perfino un po' grottesca, perché vorrebbe resuscitare la faccia poliziesca dello Stato avendo però smontato del tutto lo Stato. Se non è la Guardia Costiera a governare la situazione, nel Mediterraneo, è perché centrodestra e centrosinistra hanno indistinguibilmente distrutto lo Stato, definanziando e disprezzando tutto ciò che è pubblico, dalle forze di polizia alla scuola, dalla sanità alla forestale, dalle biblioteche ai pubblici ministeri. E non è certo militarizzando le Ong che si ricostruisce lo Stato. Come non è con il reato di immigrazione clandestina che si può sperare di affrontare l'età delle migrazioni.
La terza destra è quella di Matteo Renzi. Una destra anarcoide, individualista e populista. Una destra che sostituisce allo Stato una somma di gated communities: comunità separate dai soldi, divise per censo. Una destra che non ha nessuna chiusura verso le libertà individuali, anzi le incoraggia in chiave antisociale. Gratificando privatamente i cittadini a cui si toglie ogni dimensione pubblica, sociale, comunitaria.
E, come ha scritto Guido Mazzoni in una analisi molto fine:

«Se un certo fondo di anarchismo unisce la destra populista al modello liberale classico, ciò che li separa è l'ethos. La destra populista costruisce se stessa attorno a un'antitesi netta, identitaria, fra Noi e Loro. ... Il senso comune cui la destra populista si richiama nasce dall'arcaico: è l'ethos dei primi occupanti, che separa i legittimi dagli illegittimi, i normali dagli anormali, gli autoctoni dai barbari. Il gruppo dei primi occupanti trasforma la propria identità nel corso del tempo, includendo gruppi di secondi occupanti radicati, o mostrandosi più tollerante verso identità di genere e comportamenti che fino a qualche anno fa avrebbero portato all'esclusione, ma non viene mai meno l'asimmetria fra chi viene-prima e chi viene-dopo».

È esattamente questa la chiave culturale che permette di comprendere l'affermazione di Renzi sull'"aiutiamoli a casa loro".

Dove il punto è la contrapposizione delle case: la nostra, la loro. Un fortissimo richiamo identitario: il conflitto tra "Noi" e "Loro" che prende il posto del conflitto di classe e di censo, negato, rimosso, depotenziato. E questa terza destra, si badi, non è solo del leader: la mutazione riguarda tutto il partito, come dimostrano le affermazioni di una esponente della segreteria Pd sulla "razza italiana" da perpetuare, quelle di un senatore sul fatto che salvare vite umane non è un obiettivo (perché sono le Loro vite, beninteso), quelle della sindaca che aumenta le tasse a chi accoglie Loro.

Mi pare che se non si prenda atto di questa triplice involuzione destrorsa del Partito democratico tutti i discorsi sul futuro della Sinistra italiana non faranno i conti con la realtà. È davvero possibile un centrosinistra se il centro è questo? E una forza come Mdp (che vota la legge sulla concorrenza e sostiene il governo del Codice Minniti) ambisce a contrastare l'egemonia culturale di questa nuova destra espansiva, o ne è a sua volta vittima? Sono questi i nodi da sciogliere.

Perché oggi un progetto per una nuova sinistra non può che ripartire da quel "pieno sviluppo della persona umana" che l'articolo 3 della Costituzione indica come bussola alla Repubblica. Mai come in questa estate essere e restare umani appare un obiettivo rivoluzionario.

«il manifesto, 8 agosto 2017
Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’«inumano» è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale.

L’«inumano», è bene chiarirlo, non è la mera dimensione ferina della natura contrapposta all’acculturata condizione umana.

Non è il «mostruoso» che appare a prima vista estraneo all’uomo. Al contrario è un atteggiamento propriamente umano: l’«inumano» – come ha scritto Carlo Galli – «è piuttosto il presentarsi attuale della possibilità che l’uomo sia nulla per l’altro uomo».

Che l’Altro sia ridotto a Cosa, indifferente, sacrificabile, o semplicemente ignorabile. Che la vita dell’altro sia destituita di valore primario e ridotta a oggetto di calcolo. Ed è esattamente quanto, sotto gli occhi di tutti, hanno fatto il nostro governo – in primis il suo ministro di polizia Marco Minniti – e la maggior parte dei nostri commentatori politici, in prima pagina e a reti unificate.

Cos’è se non questo – se non, appunto, trionfo dell’inumano – la campagna di ostilità e diffidenza mossa contro le Ong, unici soggetti all’opera nel tentativo prioritario di salvare vite umane, e per questo messe sotto accusa da un’occhiuta «ragion di stato».

O la sconnessa, improvvisata, azione diplomatica e militare dispiegata nel caos libico con l’obiettivo di mobilitare ogni forza, anche le peggiori, per tentare di arrestare la fiumana disperata della nuda vita, anche a costo di consegnarla agli stupratori, ai torturatori, ai miliziani senza scrupoli che non si differenziano in nulla dagli scafisti e dai mercanti di uomini, o di respingerla a morire nel deserto.

Qui non c’è, come suggeriscono le finte anime belle dei media mainstream (e non solo, penso all’ultimo Travaglio) e dei Gabinetti governativi o d’opposizione, la volontà di ricondurre sotto la sovranità della Legge l’anarchismo incontrollato delle organizzazioni umanitarie.

Non è questo lo spirito del famigerato «Codice Minniti» imposto come condizione di operatività in violazione delle antiche, tradizionali Leggi del mare (il trasbordo) e della più genuina etica umanitaria (si pensi al rifiuto di presenze armate a bordo). O il senso dell’invio nel porto di Tripoli delle nostre navi militari.

Qui c’è la volontà, neppur tanto nascosta, di fermare il flusso, costi quel che costi. Di chiudere quei fragili «corridoi umanitari» che in qualche modo le navi di Medici senza frontiere e delle altre organizzazioni tenevano aperti. Di imporre a tutti la logica di Frontex, che non è quella della ricerca e soccorso, ma del respingimento (e il nome dice tutto).

Di fare, con gli strumenti degli Stati e dell’informazione scorretta, quanto fanno gli estremisti di destra di Defend Europe, non a caso proposti come i migliori alleati dei nuovi inquisitori. Di spostare più a sud, nella sabbia del deserto anziché nelle acque del Mare nostrum, lo spettacolo perturbante della morte di massa e il simbolo corporeo dell’Umanità sacrificata.

Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti.

Non si era mai sentita finora un’espressione come «estremismo umanitario», usata in senso spregiativo, come arma contundente. O la formula «crimine umanitario». E nessuno avrebbe probabilmente osato irridere a chi «ideologicamente persegue il solo scopo di salvare vite», quasi fosse al contrario encomiabile chi «pragmaticamente» sacrifica quello scopo ad altre ragioni, più o meno confessabili (un pugno di voti? un effimero consenso? il mantenimento del potere nelle proprie mani?)

A caldo, quando le prime avvisaglie della campagna politica e mediatica si erano manifestate, mi ero annotato una frase di George Steiner, scritta nel ’66. Diceva: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Aggiungevo: Anche noi «veniamo dopo».

Dopo quel dopo. Noi oggi sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega. La cosa può essere sembrata eccessiva a qualcuno. E il paragone fuori luogo. Ma non mi pento di averlo pensato e di averlo scritto.

Consapevole o meno di ciò che fa, chi si fa tramite dell’irrompere del disumano nel nostro mondo è giusto che sia consapevole della gravità di ciò che compie. Della lacerazione etica prima che politica che produce.

Se l’inumano – è ancora Galli a scriverlo – «è il lacerarsi catastrofico della trama etica e logica dell’umano», allora chi a quella rottura contribuisce, quale che sia l’intenzione che lo muove, quale che sia la bandiera politica sotto cui si pone, ne deve portare, appieno, la responsabilità. Così come chi a quella lacerazione intende opporsi non può non schierarsi, e dire da che parte sta. Io sto con chi salva.

Da anni si moltiplicano le denunce dello scandalo delle galere libiche, eppure il governo italiano continua a consegnare agli "alleati"stupratori torturatori assassini chi tenta di fuggirne.

La Repubblica, 8 agosto 2017, con riferimenti

«Il dramma dei migranti riportati in Libia “Picchiati e torturati, aiutateci a fuggire”
Le organizzazioni internazionali: nei centri di detenzione le condizioni sono disumane»

LE mani attaccate alle sbarre della cella del centro di detenzione di Abu Sleem dove è rinchiuso senza un filo d’aria insieme ad altre 39 persone, Mounir chiede aiuto ad un delegato del Cir. «Ho 25 anni, vengo dal Gambia, mi hanno rinchiuso di nuovo in questo inferno. Ero partito dalla spiaggia di Garabouli su una barca in legno, ma le guardie del mare ci hanno arrestato e riportato indietro. I guardiani picchiano i bambini, violentano le donne, ci torturano mentre parlano al telefono con i nostri familiari e chiedono altri soldi per liberarci. Aiutateci ad uscire da qui».

È la lotteria del migrante. Chi è soccorso da una nave umanitaria e portato in Italia è salvo, chi viene recuperato dalla guardia costiera libica torna all’inferno. Ottocentoventisei a Sabrata, 128 a Zawia, 43 a Misurata. In mille, come Mounir, nelle ultime 48 ore sono stati soccorsi in mare dai libici e riportati nei centri di detenzione dove, come denunciano le organizzazioni umanitarie, da Amnesty International all’Unhcr, dall’Oim all’Unicef, le condizioni sono disumane e i diritti umani non garantiti. Federico Soda, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim (organizzazione presente in Libia ai punti di disimbarco insieme all’Unhcr), lo ha detto chiaro al Comitato Schengen: «Consideriamo inaccettabile fare dei soccorsi in mare per poi riportare i migranti in luoghi le cui condizioni sono considerate inaccettabili in tutto il mondo. Quando la Libia potrà essere considerata un porto di sbarco sicuro faremo altri ragionamenti. Per altro così si continua ad alimentare la tratta e il traffico».

Perché chi sopravvive al suo viaggio dall’inferno e ritorno quasi sempre ci riprova. Soprattutto se, come spesso accade, subito dopo essere riportato a terra dalla guardia costiera libica ed essere registrato e soccorso in uno dei dodici centri di disimbarco attualmente attivi sulla costa finisce immediatamente nelle mani dei trafficanti e viene rinchiuso in uno dei centri di detenzione controllati dalle milizie. Può accadere facilmente soprattutto se a recuperare i profughi sono dipartimenti di guardia costiera come quello di Zawia, guidati da personaggi come Abdulrahman Milad, fino a qualche tempo fa ritenuto trafficante di uomini. È lì, tra quelle mura inaccessibili, dietro quelle sbarre invalicabili che nascondono più di 8.000 persone, stupri e violenze a carico di uomini, donne, bambini sono l’inferno quotidiano.

Quattrocentomila persone pronte a partire, stime ufficiali dell’Oim, che raddoppiano da informazioni ufficiose che arrivano da diverse fonti. Ventinove centri di detenzione, non tutti accessibili alle organizzazioni umanitarie. Roberto Mignone, capomissione dell’Unhcr, è in Libia da tre mesi. Loro riescono a supportare e far liberare gli aventi diritto allo status dei rifugiati, ma tutti gli altri finisconorisucchiati nel grande buco nero dei lager in mano alle milizie. «Noi e i rappresentanti dell’Oim — spiega Mignone — siamo presenti nei dodici punti di disimbarco in cui vengono portate le persone intercettate dalla guardia costiera. Abbiamo migliorato le condizioni di assistenza, distribuiamo kit di soccorso e servizi medici. Poi i migranti vengono tutti portati nei centri di detenzione, uomini, donne, bambini, tutti insieme. In quelli sotto il controllo del dipartimento che combatte l’immigrazione clandestina, nonostante le condizioni di sovraffollamento, mancanza di igiene e insicurezza, riusciamo ad attivare l’assistenza per chi ha diritto allo status di rifugiato, ad ottenerne il rilascio, a fornire loro documenti di richiedente asilo e proviamo a facilitare il rimpatrio volontario. Certo le condizioni sono molto molto complicate».

A sei donne, vittime di abusi sconvolgenti e tenute in schiavitù da un gruppo armato, è andata bene. Tre settimane fa l’Unhcr è riuscita a farle liberare dal centro di detenzione e adesso sono al sicuro in una casa protetta in un paese che ha accettato di accoglierle. Ma sono più di cinquantamila le donne e i bambini, soprattutto dell’area subsahariana — denuncia l’Unicef nel suo ultimo rapporto — che sono passati nell’ultimo anno dai centri di detenzione libici.

Rinviamo alla lettura degli articoli di questi ultimi mesi Italia e Libia in guerra contro i fuggitivi, L'accordo sui migranti con la Libiacrea una Guantanamo. Ma non da oggi sono note le condizioni dei luoghi di contenzione e tortura in Libia. si veda, ad esempio, l'articolo dell'Espresso del 23 giugno 2014

Alcune domande più che legittime alle quali i politici politicanti non hanno una benché minima idea di come rispondere se non con il silenzio imposto dalle armi.

barbara-spinelli.it blog, 6 agosto 2017 (p.d.)

Il Parlamento italiano ha autorizzato l’invio di navi da guerra nelle acque territoriali libiche con il compito di sostenere la guardia costiera di Tripoli nel contrasto ai trafficanti di uomini e nel rimpatrio di migranti e richiedenti asilo in fuga dalla Libia. La risoluzione, affiancata al tentativo di ridurre le attività di ricerca e soccorso di una serie di ONG, è discutibile e solleva almeno sei interrogativi:

1) Come può la Libia, la cui sovranità sarà secondo il governo italiano integralmente garantita, «controllare i punti di imbarco nel pieno rispetto dei diritti umani», quando non è firmataria della Convenzione di Ginevra, dunque non è imputabile se la viola?

2) Come può dirsi rispettata la sovranità in questione, quando di fatto quest’ultima non esiste? È infatti evidente che il governo di Fāyez al-Sarrāj non esercita alcun monopolio della violenza legittima – presupposto di ogni autentica sovranità – come si evince dalla condanna dell’operazione militare italiana ed europea da parte delle forze politiche e militari che fanno capo al generale Khalifa Haftar.

3) Come può esser garantito il pieno “controllo” dell’UNHCR e dell’OIM sugli hotspot da costruire in Libia, e rendere tale controllo compatibile con la sovranità territoriale libica affermata nella risoluzione parlamentare? E come possono UNHCR e OIM gestire “centri di protezione e assistenza” in un Paese in cui, stando a quanto dichiarato il 16 maggio dallo stesso direttore operativo di Frontex Fabrice Leggeri, «è impossibile effettuare rimpatri», visto che «la situazione è tale da non permettere di considerare la Libia un Paese sicuro»?[1]

4) Come proteggere i migranti e rifugiati dai naufragi, se lo scopo è quello di screditare e ridurre le attività di ricerca e soccorso in mare delle ONG in assenza di robuste operazioni europee di ricerca e soccorso, e senza che sia ancora stata definita una “zona SAR” (Search and Rescue) di competenza libica che abbia come fondamento la Convenzione di cui sopra, e in particolare gli articoli che vietano i respingimenti collettivi (principio di “non-refoulement“)?

5) Come garantire che migranti e profughi soccorsi in mare non verranno riportati a terra e chiusi in centri di detenzione dove, come affermato dalla vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa Gauri Van Gulik, «quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi»?[2] Qualunque cooperazione con le autorità libiche che porti alla detenzione di migranti da parte della Libia, ha affermato il 2 agosto Judith Sunderland, direttrice di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale: «dovrebbe verificarsi soltanto in presenza di prove chiare che questo tipo di iniziative sia conforme agli standard sui diritti umani, a partire da un miglioramento dimostrabile nel trattamento dei migranti. Ciò richiede un monitoraggio indipendente e trasparente, ma non è stato stabilito alcun sistema di monitoraggio indipendente né per il programma di addestramento, né per i centri di detenzione libici».[3]

6) Come intende il governo italiano rispettare la sentenza con cui, nel febbraio 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che il trasferimento di rifugiati verso la Libia viola l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra secondo il quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»?[4]

Su una cosa il governo italiano ha ragione: come nel caso dei rifugiati approdati in Grecia, L’Unione europea si è dimostrata incapace di solidarietà. L’impegno a ricollocare in altri Paesi membri un numero minimo di migranti e rifugiati che giungono in Italia o in Grecia è rispettato in minima parte, mentre aumentano i rimpatri in Italia dei rifugiati che a dispetto del sistema Dublino hanno raggiunto altri Paesi dell’Unione.

Questo non giustifica tuttavia la violazione del principio di non respingimento, e tantomeno spiega l’offensiva contro le ONG: in particolare quelle che non hanno firmato il codice di condotta predisposto per loro dal governo italiano con l’appoggio dell’Unione europea. A tutt’oggi, sono del tutto ingiustificate le accuse di collusione con i trafficanti rivolte a organizzazioni come Jugend Rettet e Medici senza frontiere. In assenza di vie legali offerte a chi vuol chiedere asilo in Europa, è abusivo confondere l’attività dei “facilitatori” delle fughe con quella dei trafficanti di esseri umani. Ed è comunque pretestuoso attaccare le Ong in assenza di operazioni europee aggiuntive o alternative di ricerca e soccorso. Ancor più riprovevole è continuare a reclamare il rispetto dell’antiquata legge Bossi-Fini, confondendo migranti privi di documenti e richiedenti asilo.

Non per ultimo, segnaliamo il legame possibile tra l’indagine sulla nave Iuventa (Jugend Rettet) e le operazioni della destra europea “Defend Europe”. È un articolo di Famiglia Cristiana del 4 agosto a denunciare il contatto tra la società di sicurezza privata Imi Security Service di Cristian Ricci – ovvero il gruppo di contractor che ha denunciato le “anomalie” della nave Iuventa, facendo aprire il fascicolo della Procura di Trapani – con l’ex ufficiale della Marina militare Gian Marco Concas, uno dei portavoce di Generazione Identitaria. Esperto di navigazione e skipper, Concas è stato definito come il “direttore tecnico” dell’operazione navale della rete europea anti migranti, che in questi giorni sta muovendo la C-Star nella zona Search and Rescue (Ricerca e Salvataggio) davanti alle acque libiche.[5]

[1] “Diese Migranten sind Opfer der kriminellen Netzwerke”. Interview mit Fabrice Leggeri, “ZDF-Magazin Frontal21”, 16 maggio 2017.
[2] https://www.amnesty.it/missione-navale-italia-pronta-destinare-rifugiati-migranti-verso-orribili-violenze/.
[3] https://www.hrw.org/it/news/2017/08/02/307461.
[4] Sentenza CEDU 23 febbraio 2012, Ricorso n. 27765/09 – Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
[5] http://m.famigliacristiana.it/articolo/caos-mediterraneo-quel-link-occulto-tra-defend-europe-e-l-operazione-iuventa.htm.

Affidare alle navi libiche i fuggitivi, come il governo italiano ha deciso, significa condannarli a subire le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire.

il manifesto, 6 agosto 2017

Coloro che dalle coste della Libia si imbarcano su un gommone o una carretta del mare sono esseri umani in fuga da un paese dove per mesi o anni sono stati imprigionati in condizioni disumane, violati, comprati e venduti, torturati per estorcere riscatti dalle loro famiglie, aggrediti da scabbia e malattie; e dove hanno rischiato fino all’ultimo istante di venir uccisi.

Molti di loro non hanno mai visto il mare e non hanno idea di che cosa li aspetti, ma sanno benissimo che in quel viaggio stanno rischiando ancora una volta la vita.

Chi fugge da un paese del genere avrebbe diritto alla protezione internazionale garantita dalla convenzione di Ginevra, ma solo se è «cittadino» di quel paese. Quei profughi non lo sono; sono arrivati lì da altre terre. Ma fermarli in mare e riportarli in Libia è un vero e proprio respingimento (refoulement, proibito dalla convenzione di Ginevra) di persone perseguitate, anche se materialmente a farlo è la Guardia costiera libica.

Una volta riportati in Libia verranno di nuovo imprigionati in una delle galere da cui sono appena usciti, subiranno le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire, fino a che non riusciranno a riprendere la via del mare.

Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un simile destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio. Invece, ora come allora, vengono trattati come criminali: dai Governi, da molte forze politiche, dalla magistratura, dai media e da una parte crescente dell’opinione pubblica (i social!); sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare.

Non ci si rende più conto che sono esseri umani: disumanizzare le persone come fossero cose o pidocchi è un percorso verso il razzismo e le sue conseguenze più spietate. Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista. Nessuno prova a mettersi nei panni di queste persone in fuga, per le quali gli scafisti che li sfruttano in modo cinico e feroce sono speranza di salvezza, l’ultima risorsa per sottrarsi a violenze e soprusi indicibili. La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.

Da tempo le imbarcazioni su cui vengono fatti salire i profughi non sono più in grado di raggiungere l’Italia: sono destinate ad affondare con il loro carico. Ma gli scafisti certo non se ne preoccupano: il viaggio è già stato pagato, e se il «carico» viene riportato in Libia, prima o dopo verrà pagato una seconda e una terza volta.

In queste condizioni, non c’è bisogno che un gommone si sgonfi o che una carretta imbarchi acqua per renderne obbligatorio il salvataggio, anche in acque libiche: quegli esseri umani violati e derubati sono naufraghi fin dal momento in cui salpano e, se non si vuole farli annegare, vanno salvati appena possibile.

Gran parte di quei salvataggi è affidata alle Ong, perché le navi di Frontex e della marina italiana restano nelle retrovie per evitare di dover intervenire in base alla legge del mare; ma gli esseri umani che vengono raccolti in mare da alcune navi delle Ong devono essere trasbordati al più presto su un mezzo più capiente, più sicuro e più veloce; altrimenti le navi che eseguono il soccorso rischiano di affondare per eccesso di carico, oppure non riescono a raccogliere tutte le persone che sono in mare o, ancora, impiegherebbero giorni e giorni per raggiungere un porto, lasciando scoperto il campo di intervento.

Vietare i trasbordi è un delitto come lo è ingiungere alle Ong di imbarcare agenti armati: farlo impedirebbe alle organizzazioni impegnate in interventi in zone di guerra di respingere pretese analoghe delle parti in conflitto, facendo venir meno la neutralità che permette loro di operare.

Né le Ong possono occuparsi delle barche abbandonate, soprattutto in presenza di uomini armati fino ai denti venuti a riprendersele. Solo i mezzi militari di Frontex potrebbero farlo: distruggendo altrettante speranze di chi aspetta ancora di imbarcarsi.

I problemi continuano quando queste persone vengono sbarcate: l’Unione europea appoggia la guerra ai profughi, ma poi se ne lava le mani. Sono problemi dell’Italia; la «selezione» tra sommersi e salvati se la veda lei… I rimpatri, oltre che crudeli e spesso illegali, sono per lo più infattibili e molto costosi.

Così, dopo la selezione, quell’umanità dolente si accumula in Italia, divisa tra clandestinità, lavoro nero, prostituzione e criminalità: quanto basta a mettere ko la vita politica e sociale di tutto paese. Ma cercare di fermare i profughi ai confini settentrionali o a quelli meridionali della Libia accresce solo il numero dei morti.

Dobbiamo guardare in avanti, accogliere in tutta Europa come fratelli coloro che cercano da lei la loro salvezza; adoperarci per creare un grande movimento europeo che lavori e lotti per riportare la pace nei loro paesi (non lo faranno certo i governi impegnati in quelle guerre) e perché i profughi che sono tra noi possano farsi promotori della bonifica ambientale e sociale delle loro terre (non lo faranno certo le multinazionali impegnate nel loro saccheggio). L’alternativa è una notte buia che l’Europa ha già conosciuto e in cui sta per ricadere.

3 agosto 2017
CISGIORDANIA. COMPLETATI ALTRI 42 KM DI MURO
della Redazione di NENA News

Un altro tratto di muro è stato completato: 42 chilometri di barriera israeliana – la cui costruzione è iniziata nel 2002 tra Cisgiordania e Israele – sono stati aggiunti al lungo percorso. Ad essere terminato è stato il tratto nelle colline a sud di Hebron, sud della Cisgiordania, all’altezza del checkpoint di Tarquimiya.

Ad annunciarlo è stato il ministro della Difesa di Tel Aviv, Avigdor Lieberman: “Il completamento del muro nelle colline a sud di Hebron è un altro passo negli sforzi del ministero per incrementare significativamente la sicurezza per i residenti dell’area e per tutti i cittadini di Israele”. Un’affermazione che ricalca le dichiarazioni degli ultimi 15 anni: Israele ha sempre descritto il muro come necessario ad evitare attentati nel proprio territorio.

Dichiarazioni smentite sia dai dati sugli attacchi che dalla stessa durata della costruzione: il muro non è mai stato terminato e non sono pochi i palestinesi che attraversano il confine per andare a lavorare illegalmente in Israele, con il beneplacito di caporali, aziende israeliane e dello stesso esercito, che spesso chiude gli occhi per garantire alle compagnie manodopera a basso costo.

La Linea Verde e in rosso il muro-barriera
costruito da Israele a partire dal 2002

Inoltre la barriera non corre lungo il confine ufficiale tra Cisgiordania e Israele, la Linea Verde, ma entra prepotentemente all’interno del territorio palestinese mangiando ulteriori spazi poi annessi de facto a Israele: secondo i dati dell’agenzia Onu Ocha, il 9.4% del territorio della Cisgiordania è stato isolato dalla costruzione del muro. L’88% del percorso entra in territorio palestinese e la sua lunghezza è quasi tre volte la lunghezza del confine ufficiale, 712 km contro 250. In molti casi assorbe le colonie costruite lungo la linea verde e in Area C, area palestinese controllata da Israele e che rappresenta il 60% dell’intera Cisgiordania.

In cemento in alcuni tratti ma per lo più costruito sotto forma di rete elettrificata – molto invasiva perché larga oltre 150 metri che attraversano e rendono inutilizzabili le terre agricole – è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004, ma mai smantellato.

Secondo i media israeliani i lavori al nuovo tratto sono cominciati all’inizio del 2017 come risposta punitiva ad un attacco a Tel Aviv, compiuto nel giugno dell’anno precedente da palestinesi provenienti dalla città di Yatta, a sud di Hebron. I 42 km in questione sono stati costruiti con blocchi di cemento di sei metri, intervallati da torrette e telecamere.

5 agosto 2017, Nena News
ANCORA IN ATTESA
DI UN GANDHI PALESTINESE?
LEI/LUI C’È GIÀ
di Zaha Hassan, trad. di Amedeo Rossi – Zeitun.info

«Ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks. Ogni prigioniero che fa lo sciopero della fame è un Mandela e ogni gazawi che sopravvive nonostante le condizioni disumane è un Gandhi palestinese».

La seconda domanda (dopo “Dov’è la Palestina?”) più frequentemente posta a un palestinese-americano è: “Dov’è il Gandhi palestinese?” Gli americani vogliono sapere perché i palestinesi non utilizzano tattiche non-violente per porre fine ai loro decenni di oppressione e di colonizzazione della loro terra.

Ovviamente in questa domanda è implicita la premessa, coltivata dalla rappresentazione mediatica dell’ “arabo infuriato” e del musulmano nichilista, così come da campagne lautamente finanziate di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che coinvolgono gruppi di lobbysti ed i centri di studio ad essi associati che dipingono tutto il Medio oriente come un covo ribollente di odio contro l’Occidente cristiano, che i palestinesi siano geneticamente predisposti alla violenza.

La verità è che, se un premio Nobel fosse assegnato a un intero popolo per la moderazione che ha dimostrato e per l’ostinata caparbietà a sopravvivere, a perseverare e a costruire un domani migliore nonostante i sistematici tentativi di eliminarlo – persino tentativi di negare addirittura la sua esistenza, come fece Golda Meir [nel 1969 in un’intervista l’allora primo ministro di Israele affermò che i palestinesi non esistevano, ndt.] – esso dovrebbe andare al popolo palestinese.

Perché, dove esiste un precedente dell’imprigionamento di 2.2 milioni di persone che sono stati resi deliberatamente dipendenti per il cibo, l’acqua e l’energia durante un intero decennio, mentre la narrazione continua a dire che è tutto giustificato dalla “sicurezza” di Israele, come nel caso delle attuali sofferenze di Gaza?

Dove c’è un precedente di sette milioni di persone a cui viene negato il diritto di tornare alle proprie case e proprietà confiscate settant’anni fa, solo perché sono della religione sbagliata, mentre nuovi insediamenti illegali si espandono freneticamente nel pezzo di terra della Cisgiordania che dovrebbe essere parte del loro Stato ancora da creare?

Dove c’è un precedente di Stati e istituzioni incaricati di difendere le leggi e la legalità internazionali che chiedono a un popolo occupato sempre più concessioni e di negoziare per legittimare crimini di guerra e per normalizzare l’esistenza dell’occupante?

La verità è che ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks [la donna di colore che nel 1955 in Alabama si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco e diede inizio alla lotta per i diritti civili dei neri negli USA, ndt.]. Ogni prigioniero che mette in pericolo la propria vita per settimane intere facendo lo sciopero della fame per lottare contro la propria incarcerazione e le condizioni di detenzione è un Mandela, e ogni persona che oggi vive a Gaza e che sopravvive nonostante le privazioni disumane, è un Gandhi palestinese.

Quante altre migliaia di tappetini da preghiera devono essere srotolati nelle strade di Gerusalemme prima che la resistenza non violenta palestinese sia non solamente riconosciuta ma anche appoggiata e incoraggiata? Quante altre proteste del venerdì devono aver luogo a Bi’lin e in altri villaggi in Cisgiordania? Quante tende della pace devono essere erette e demolite a Gerusalemme e nel Naqab [Negev in arabo, ndt.]?

La vera questione, tuttavia, non è quantificare le proteste, ma garantire che altri le conoscano.

Gandhi lo sapeva. Martin Luther King, Jr lo sapeva. E il governo israeliano, l’AIPAC [l’associazione ebraica filo-israeliana più potente negli USA, ndt.] e quanti sono interessati a mantenere il dominio di Israele sulla terra palestinese lo sanno. E questa è la ragione per cui vergognosi esempi di legislazione come la legge 720 del Senato contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.] stanno circolando nelle aule del Congresso. La legge, stilata con la collaborazione dell’AIPAC, lo farebbe diventare un reato punibile fino ad un massimo di 20 anni di carcere e una multa fino a 1 milione di dollari per il fatto di sostenere l’uso di metodi economici non violenti contro Israele.

Potete immaginare Rosa Parks che sconta 20 anni di prigione per aver organizzato il boicottaggio degli autobus segregati? O Martin Luther King Jr. obbligato a pagare un milione di dollari per aver boicottato ristoranti razzisti con posti separati?

Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che punire il diritto di espressione che ha lo scopo di porre fine a un’ingiustizia è sbagliato. Quando si vedono i fatti, gli americani lo capiscono. E lentamente ma inesorabilmente alcuni membri del Congresso che inizialmente erano stati co-promotori della legge con un tipico riflesso condizionato, una deferenza cieca verso l’AIPAC, stanno vedendo chiaro, come la senatrice Gillibrand, che, quando è stata messa in guardia dall’ACLU [American Civil Liberties Union, Unione Americana per le Libertà Civili, organizzazione non governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA, ndt.] sulle preoccupazioni relative al diritto di parola e a problemi di incostituzionalità della legge e sfidata da elettori durante un’assemblea comunale, ha espresso la sua volontà di riconsiderare il suo appoggio [alla legge].

Così, mentre CNN e Fox News [due importanti reti televisive statunitensi, ndt.] possono non informare sulle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno pregato nelle strade di Gerusalemme la scorsa settimana, protestando contro il tentativo mascherato di Israele di esercitare la propria sovranità sulla Spianata delle Moschee, questi accaniti tentativi legislativi da parte dei difensori di Israele per porre fine all’appoggio alla resistenza non violenta nei territori occupati o all’estero stanno accendendo riflettori da stadio di football sui problemi.

Attivisti del movimento progressista si rendono drammaticamente conto di come le loro libertà civili vengano minacciate in nome della protezione dell’occupazione di Israele sui palestinesi. Allo stesso modo, quando le linee aeree USA hanno messo in atto la legislazione israeliana che impedisce ai difensori dei diritti umani di viaggiare in Israele (compresi ebrei-americani, uno dei quali è un rabbino), gli americani hanno visto il rapporto tra questo fatto e gli abominevoli divieti di viaggio [si riferisce alla proibizione di ingresso negli USA dei passeggeri provenienti da alcuni Paesi musulmani, ndt.] perseguiti dall’amministrazione Trump.

I palestinesi ed i loro sostenitori dovrebbero sperare (e pregare nelle strade) che Israele continui a rivelare la natura della sua oppressione contro di loro, e al contempo continuare a perseguire metodi collaudati e non violenti per riportare la giustizia e lo stato di diritto, perché si giunga ad una vera comprensione delle cause e delle soluzioni del conflitto israelo-palestinese.

Non c’è un modo più efficace per mettere in luce un’ingiustizia e per modificare la percezione sbagliata ad essa associata che attraverso lo stesso oppressore. Rosa Parks, Dr. King e Gandhi lo sapevano e lo sanno anche i palestinesi e quelli che solidarizzano con loro.

Una sindaca feroce contro chi pecca di umanità. C'è nel PD bolognese chi chiede che sia espulsa. Ma i suoi maestri quel partito lo dirigono. E Salvini ancora non ha capito.

Corriere di Bologna, 5 agosto 2017
«Alice Zanardi: "Sto solo riportando un disagio sentito da tutta la popolazione". Ma il segretario regionale dem la striglia: "Proclama impraticabile, non risolve i problemi". E Salvini: «Cosa ci fai nel Pd?"»

CODIGORO - Controlli e tasse più alte ai cittadini che ospitano i profughi. È questa la linea dura, targata Pd, voluta da Alice Zanardi, sindaca da un anno di Cogidoro, Comune del Ferrarese di oltre 12 mila abitanti dove hanno trovato casa oltre 100 profughi, di cui 40 appena arrivati e alloggiati in strutture private. La prima cittadina dice di rispondere semplicemente a «un disagio sentito da tutta la popolazione». Ma si prende una strigliata dal segretario pd dell’Emilia-Romagna («No ai facili proclami») e da Bologna arriva anche la richiesta di espellerla dal partito («Sarebbe l’unico segnale democratico degno di questo nome», dice il vicesindaco bolognese Matteo Lepore). Applaude invece il leader della Lega Matteo Salvini.
«Chiedo che siano rispettate le regole» - Alice Zanardi però non ci sta. «Non la voglio buttare in politica - dice - pretendo solo che le norme vengano rispettate», sottolinea la prima cittadina. «Se c’è la regola del 2,5 migranti per mille abitanti, Codigoro l’ha già abbondantemente sorpassata, indipendentemente da come il Pd la pensa. Solo in un mese da 58 profughi siamo arrivati a 100. Ora basta, come sindaca non faccio altro che riportare un disagio sentito da tutta la popolazione». Ma può veramente alzare le tasse a chi ospita? «Quella sulle tasse è una provocazione. Ma se posso, ammesso che sia legale e possibile farlo, le alzerò per i privati che accolgono», dice.

La minaccia per chi compie il reato di umanità

«Nei luoghi di soccorso non ci sono armi: ecco perché Msf non accetta la polizia a bordo Il divieto di trasbordare migranti da una nave all’altra ne lascia molti di più in balia delle onde».

La Repubblica, 5 agosto 2017

Io sto con Medici senza Frontiere. Lo voglio dire ed esprimere chiaramente in un momento in cui sta avvenendo la più pericolosa delle dinamiche, ossia la criminalizzazione del gesto umanitario. Sto con Medici senza Frontiere nella decisione di non firmare il codice di condotta per le Ong che fanno salvataggi in mare voluto dal ministro Minniti. È una scelta importante e sostanziale, non un capriccio. Medici Senza Frontiere (Premio Nobel per la Pace 1999) difende un principio fondamentale: la neutralità. Questo significa che avere agenti armati sulle navi sarebbe la fine di questo principio. Il lettore forse ingenuo mi dirà: ma come? È una garanzia per tutti avere agenti armati sulle navi di Msf: per i migranti, per gli operatori volontari, per la sicurezza. Invece non è così e per capirlo basta conoscere le dinamiche di chi opera in situazioni difficili, di emergenza sanitaria, di guerra, dove l’assoluta assenza di armi nei luoghi del soccorso rappresenta la vera protezione. Il segnale di divieto che disegna il kalashnikov inserito nel cerchio rosso sbarrato è fuori di ogni laboratorio, ogni tenda, ogni presidio di Msf, Emergency e non solo.

È l‘elemento fondante che permette alle Ong di agire in sicurezza e con la propria identità. Non avere armi in un luogo di soccorso non significa che sono luoghi dove la legge è sospesa, tutt’altro. Infatti qualsiasi sbarco di profughi che effettua Msf viene coordinato dalla Guardia costiera e una volta a terra c’è totale collaborazione con le forze di polizia. A Mosul, ad Haiti, in Congo i soldati di qualsiasi esercito lasciano le armi fuori dai presidi di Msf. Invece il governo italiano vorrebbe portare agenti armati sulle navi.

Non firmando il codice Msf salva i suoi operatori e la sua condotta, tutte le parti in causa nei conflitti devono sapere che Msf non ha armi, mai, non nasconde soldati sotto le sue pettorine, non è un luogo utilizzato per indagini, ma solo di soccorso.

Questi sono i motivi per i quali Msf non ha sottoscritto il codice. Altre Ong possono firmare il patto Minniti perché non hanno presidi in zone di guerra o perché facendolo sanno di non mettere a repentaglio la propria identità. Ma non Msf. In questa triste fase storica si sta configurando in Italia, come ha scritto Luigi Manconi su il manifesto e come scrive da giorni Avvenire, il “reato umanitario”. È il frutto di mesi di confusione, durante i quali tutte le parti politiche hanno soffiato — in un clima di perenne campagna elettorale — sul fuoco della paura. Dall’aberrante definizione di “taxi del mare” di Di Maio sino a chi pone sullo stesso piano gli affari criminali fatti da Mafia Capitale e il business dei trafficanti con l’attività di chi salva vite. Tutti luoghi comuni banali, semplici, veloci per configurare il “reato umanitario”. L’indagine sulla Ong tedesca Jugend Rettet (che non ha firmato il protocollo Minniti) non c’entra nulla con le insinuazioni fatte sino ad oggi, tese a dimostrare che le Ong sono braccia operative dei trafficanti. Nonostante si cerchi di manipolare il più possibile - come tenta di fare l’aberrante (e come sempre ridicolo) post di Matteo Salvini che parla di Ong che hanno protetto scafisti - secondo la stessa procura di Trapani avrebbero agito «non per denaro» ma per «motivi umanitari». In ogni caso se gli appartenenti a Jugend Rettet hanno commesso reati, verranno processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati. Quello che sappiamo sino ad oggi è che se hanno violato regole lo hanno fatto per realizzare un corridoio umanitario, come lo definisce Massimo Bordin di Radio Radicale.

Null’altro che questo.

Mi domando a questo punto dove nasce tutto questo odio? Siamo di fronte a dinamiche psicologiche semplici, basterebbe rileggere “Psicologia delle folle” di Gustave Le Bon. Di fronte al senso di colpa d’essere incapaci di agire, dinanzi a centinaia di bambini che annegano nel Mediterraneo, si accusa chi agisce. La stessa cosa avviene con le mafie. Spesso è più facile attaccare chi combatte la mafia piuttosto del mafioso. Un paese al collasso economico e demografico ha l’esigenza di trovare altrove i colpevoli: i migranti sono il capro espiatorio perfetto. Più è semplice la lettura più verrà adottato quel bersaglio. Manca il lavoro? Colpa degli immigrati. Aumentano i crimini? Colpa degli immigrati. Anche se i dati ci smentiscono, anche se si ha una falsa percezione del problema. Furbescamente chi soffia sulla paura, sul razzismo, vuole approfittare della enorme possibilità distraente del dramma immigrazione. Se il problema sono gli immigrati l’incapacità economica di far ripartire il paese, di snellire le dinamiche burocratiche, di contrastare il crimine organizzato diventa un corollario.

La coperta dell’immigrazione protegge tutti. Per cui quando Renzi dichiara «pugno duro contro le Ong che hanno contatti con i trafficanti», senza conoscere i termini dell’indagine, bisognerebbe rispondere che ci sarebbe piaciuto sentirlo tuonare contro la vendita delle armi italiane ai paesi in guerra. Né abbiamo sentito insistere Minniti sulla necessità di aumentare la quota di Pil destinato ai paesi in via di sviluppo che oggi è appena dello 0,17%. Parole legittime le loro ma che li precipitano al di fuori della tradizione di sinistra del paese. Avverto i miei lettori: tutti coloro che non si inseriscono nella canea anti immigrazione e contro le Ong saranno soli. In questo momento l’odio verso le Ong e verso gli immigrati non ha pari, magari le mafie avessero avuto contro tutto questo impegno e questa solerzia. Facciamoci forza, io ne sono consapevole. Bersagliati dalle più basse menzogne, ci vedremo sui social sommersi dalle più comuni banalità. Sarà un profluvio di «portateli a casa tu», «vi fate pagare per fare le anime belle», «buonisti». Ma pazientemente, smontando il fuoco di fila delle bugie ne verremo fuori. Ricordo che non è solo il Mediterraneo a vivere il problema profughi, anzi sono quasi 3 milioni i rifugiati intorno al Lago Chad dove si sta consumando una delle peggiori crisi umanitarie del

La decadenza profonda della democrazia nella quale viviamo è testimoniata dal fatto che le scelte politiche più impegnative sono compiute in funzione dei voti che si possono raccogliere. Articoli di Andrea Colombo, eAdriana Pollice, il manifesto, 5 agosto 2017


RENZI SCIPPA IL “PUGNO DI FERRO”
A GRILLO E SALVINI
di Andrea Colombo

«Migranti. Il segretario completa la correzione di rotta del partito democratico invocando linea dura contro le Ong. Si è convinto che solo una politica feroce può conquistare voti. Gli avversari reagiscono alla concorrenza. Di Maio: l’avevamo detto prima noi. La Lega: di più, bisogna affondare

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Come se il grottesco duello sulla primogenitura dei tagli ai vitalizi fosse stata solo una prova generale, Pd e M5S si azzuffano di nuovo, si contendono il copyright della guerra alle Ong camuffata sotto il velo di quella ai trafficanti. Ma stavolta la disfida rischia di finire in tragedia, perché in gioco ora non ci sono più le pensioni di un nucleo ristretto di ex parlamentari, ma la sorte di migliaia di persone. Renzi vuole che la firma sotto il proclama di tolleranza zero sia la sua: «Se qualcuna tra le decine di Ong che fanno benissimo il loro lavoro ha contatti con gli scafisti, come potrebbe essere, bisogna usare il pugno di ferro». La replica dei 5S, affidata a Di Maio, arriva immediata: «Ma quale pugno di ferro, faccia di bronzo piuttosto! Quando io sollevai il tema, in aprile, Renzi si mise a sparare a zero contro M5S».

Il Movimento di Grillo non si accontenta di ringhi e ruggiti vuole che «siano attribuiti alle unità nel Mediterraneo i poteri dell’autorità giudiziaria», torna a rinfacciare a Renzi «il patto stretto nel 2014 con Bruxelles per far approdare tutti i migranti del Mediterraneo in Italia». Renzi ha sempre negato che quell’accordo, porti aperti in cambio di flessibilità, sia mai esistito, ma è molto probabile che invece abbia ragione Di Maio, come ha ragione nel rivendicare la paternità della campagna contro le Ong. Certo, messa su questo piano la Lega avrebbe qualche titolo in più per reclamare la corona della muso duro. Invece, con una platea di cacciatori di voti sulla pelle dei migranti così folta, proprio Salvini è costretto a rilanciare oltrepassando i confini dell’assurdo: «Le navi Ong che hanno chiamato gli scafisti non vanno sequestrate ma affondate». Nella ressa s’inserisce Forza Italia: «Fermare immediatamente tutte le Ong che non firmano il Codice».

In superficie il problema è solo quello dei «contatti con i trafficanti» e si tratta di un problema reale, anche se l’idea di mettere sullo stesso piano rapporti stretti per lucro o per salvare migliaia di vite umane non è tra le più brillanti. Ma la campagna sulle Ong maschera in realtà una torsione radicale nella politica italiana nei confronti dei migranti. La «dottrina Minniti» non è a costo zero. Da un lato rende molto più difficili i salvataggi, dall’altro consegna i migranti salvati in mare ai lager libici, quanto di meno rispettoso dei diritti umani si possa immaginare. ««Non ci sono campi o centri per i migranti in Libia ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre dalle milizie e dai trafficanti, e vi sussistono condizioni terrificanti», dichiara l’inviato speciale dell’Unhcr Vincent Cochelet, confermando ciò che aveva denunciato Medici senza frontiere e ripetuto ieri Emergency: «Il Codice di condotta mette a rischio la vita di migliaia di persone. L’invio di navi militari è un atto di guerra contro i migranti».

Le dichiarazione fragorose rilasciate dallo studio di Agorà, con l’abituale improntitudine, dal senatore Pd Stefano Esposito due giorni fa non sono parole in libertà. Rispecchiano la «correzione di rotta» di un Pd convinto che solo una politica feroce sul fronte dell’immigrazione permetta di conquistare voti. Bisogna poter rivendicare di aver fermato gli sbarchi e «i risultati positivi che sta ottenendo l’Italia – spiega Verducci, altro senatore Pd – sono dovuti anche alla dottrina Minniti, imperniata sul governo dei flussi e principalmente sulla interlocuzione con la Libia. Abbiamo salvato centinaia di migliaia di vite, ma c’è un’esigenza fondamentale: quella del governo dei flussi».

Toni e parole molto più civili di quelli adoperati dal collega Esposito, ma il senso è identico. Non è che il Pd abbia perso interesse nei soccorsi. Però quell’esigenza non è più in testa all’agenda, è scivolata dietro quella, tanto più fondamentale con le elezioni vicine, di «governare i flussi». Gli annegamenti o lo strazio dei diritti umani che verrà fatto in Libia come del resto era d’uso prima del 2011, quando pagavamo Gheddafi perché risolvesse il problema per conto dell’Italia e poco male se il prezzo era un deserto cosparso di cadaveri, saranno, come dice la capogruppo di Sinistra italiana al senato Loredana De Petris, «effetti collaterali».

«SE CI COSTRINGONO AD ACCETTARE ILCODICE
LASCIAMO I SOCCORSI»
di Adriana Pollice

«Mediterraneo. Medici senza frontiere, che ieri ha salvato 129 migranti: “Se ce lo vietano andiamo via”»

Non abbiamo nessuna intenzione di aprire un braccio di ferro con lo stato, abbiamo salvato 69mila persone e tutti i nostri interventi sono stati coordinati dalla Guardia Costiera. Quindi se ci costringeranno ad accettare il codice che non abbiamo firmato, Medici senza Frontiere abbandonerà il soccorso dei migranti in mare»: Loris De Filippi, presidente di Msf, chiarisce la posizione dell’organizzazione. Sulle Ong che hanno rifiutato di sottoscrivere le regole di comportamento stilate dal Viminale è aumentata la pressione ad accettarle, dopo il sequestro della Iuventa tre giorni fa.

La vos prudence, nave ammiraglia di Msf, ieri ha salvato 129 persone al largo delle coste libiche: «Non ci sfugge il tentativo mediatico di collegare il procedimento penale con il rifiuto dell’accordo – prosegue – . Se qualcuno ha violato le regole è giusto che paghi. Non so cosa abbiano fatto quei ragazzi tedeschi, magari hanno peccato d’inesperienza». E sull’uso di infiltrati (come avvenuto contro Iuventa): «Nessuno può escludere che anche sulle nostre navi possa esserci polizia sotto copertura. È importante fare attenzione nel reclutamento del personale, noi stiamo molto attenti». Sotto accusa della procura di Trapani i trasbordi da un’imbarcazione di soccorso a un’altra: «In mare – spiega De Filippi – quando arrivano barche cariche di centinaia di persone, le Ong intervengono e, coordinate dalla Guardia costiera, procedono al trasbordo in modo che le persone salvate “riempano” la nave più grossa». Sulla polizia a bordo nessun passo indietro: «Vogliono obbligarci ad accogliere persone armate? Smetteremo di salvare la gente in mare, ma sarebbe una grave sconfitta per tutti. Su uomini armati a bordo e trasbordi non possiamo transigere. Vogliono il braccio di ferro? Ci metteremo da parte».

Ieri iuventa è arrivata sotto scorta nel porto di Trapani: «La Ong respinge ogni accusa. L’unica finalità della Jugend Rettet è salvare vite umane. I ragazzi che erano a bordo hanno già spiegato che non c’entrano nulla con il reato che viene loro contestato» spiega Leonardo Marino, legale dell’organizzazione non governativa tedesca. Nessun di loro risulta indagato. Su richiesta della procura sono stati prelevati anche pc, smartphone e documenti. Il reato ipotizzato è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, al momento contro ignoti. «Presto sarà pronto il ricorso per ottenere il dissequestro del materiale e della nave – conclude il legale -. Non si può, per pochi episodi da accertare, cancellare quanto di positivo è stato fatto». Un breve messaggio è stato diffuso anche dalla Jugend Rettet: «Nella zona Search and rescue negli ultimi due giorni sono stati recuperati otto cadaveri di migranti. Il sequestro della nostra nave ci impedisce di aiutare».

Sul caso della Ong tedesca è intervenuto Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) per la rotta del Mediterraneo Centrale: «Sta alla giustizia italiana pronunciarsi». Ma sulle condizioni dei migranti in Libia ha aggiunto: «Non ci sono campi o “centri per migranti”, solo prigioni. Alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti e vi sussistono condizioni orribili. Chiunque venga sbarcato sulle coste libiche torna in queste carceri».

Un ruolo fondamentale nella costruzione dell’inchiesta l’ha giocato la Vos Hestia: sulla nave che fa capo a Save the children si è imbarcato l’infiltrato dello Sco che ha prodotto il dossier di accusa, sullo stesso natante c’erano i due membri della Imi security service che si sono offerti come testimoni alla procura. Ieri Save the children ha spiegato la sua posizione: «Non eravamo a conoscenza della presenza a bordo di un agente di polizia sotto copertura» né controllavano i due uomini della security ma ribadisce «la volontà di continuare a collaborare con le altre organizzazioni».

Una precisazione è arrivata anche dalla tedesca Sea Eye, l’ultima Ong in ordine di tempo ad aver dato la propria disponibilità ad accettare il codice stilato dal Viminale. La firma però non c’è ancora: «C’è l’impegno a siglarlo poiché intendiamo continuare il soccorso marittimo e siamo d’accordo su tutte le regole tranne una: attestare l’idoneità tecnica della nave e del suo equipaggiamento». La Ong non si era presentata all’incontro del 31 luglio convocato dal Viminale, con il sequestro di Iuventa la posizione si è ammorbidita.

J il manifesto, 5 agosto 2017

Il nome della Ong nel mirino della procura di Trapani, Jugend Rettet, cioè «la gioventù salva», chiarisce perfettamente il significato dell’azione dei giovani tedeschi nel Mediterraneo. Solo gente che non ha alcuna responsabilità negli orrori commessi dalla Germania nazista, ma ne porta sulle spalle la terribile memoria, può salvare gli innocenti dalla morte. Ed ecco perché questi ragazzi non vogliono firmare alcun codice che ne limiterebbe l’azione: perché sanno quanto gli stati siano letali e colpevoli di fronte ai trentamila morti del Mediterraneo.

Questo è il punto, come notava Luigi Manconi sul manifesto di ieri: la pretesa di criminalizzare chi ritiene che ci sia una giustizia superiore alle esigenze, vere o presunte, degli stati. E anche alla giustizia terrena. Quando la Svizzera chiuse le frontiere agli ebrei in fuga dal nazismo, ci fu un capitano di polizia, Paul Grüninger, che violò le rigide norme della Confederazione falsificando i visti dei rifugiati ebrei e perciò meritò il titolo e l’onore di «giusto». Fu cacciato dal servizio, senza pensione, e morì in povertà. I giovani tedeschi, da pare loro, ci ricordano che esiste una giustizia più alta di quella delle procure e delle norme emanate da legislatori ciechi ed esecutori ottusi. Un credente ne troverà le radici in Dio, un laico nella ragione o nel semplice, intuitivo ma cogente senso dell’umanità.

la sacrosanta operazione di contatto per salvare i profughi

E poi, che infrazioni della legge avrebbero commesso? «Comunicare» con gli «scafisti», quando tutti sanno che in mare aperto si incrociano innumerevoli messaggi? E come non sapere o non capire che spesso i cosiddetti «scafisti» spesso sono poveracci che magari si procurano a un passaggio? Quelli che ci guadagnano davvero stanno a terra, magari nella stessa guardia costiera libica, per quanto ne sappiamo, o in qualsiasi banda che scorrazza in Libia. Questi non li ferma mai nessuno, tantomeno il Minniti l’Africano. L’ossessivo e ripetitivo slogan «guerra ai trafficanti» serve solo a coprire il vero scopo di tutto questo: impedire che le navi delle Ong salvino i migranti. Qualche genio strategico di Frontex – che non ha mai salvato nessuno e tiene le sue navicelle al sicuro nei porti – pensava che se ne annegano un po’ di più, ne arrivano di meno e quindi il conto va in pari. E magari si sente la coscienza a posto. E quindi non stupisce che, come ha scritto la Tageszeitung, «Chi salva i migranti viene fatto fuori».

Il Mediterraneo tra Sicilia e Libia non è un far west, come ha scritto Travaglio, che ora esige legalità, cioè ordine e disciplina, anche in questo nuovo campo. È un tratto di mare strapieno di navi militari e sorvegliato perennemente dai droni, senza che nessuno si preoccupi di trarre in salvo i potenziali naufraghi, tranne le Ong. D’altronde, anche il poliziotto infiltrato sulla nave di Save the Children, ha salvato il suo bambino, il brav’uomo. Ma come l’avrebbe salvato, se non fosse stato sulla nave dei volontari? Detto questo altrove infiltrano gli agenti segreti o i poliziotti tra i narcotrafficanti, noi tra i volontari che salvano i migranti.

Questa è una brutta storia per la giustizia e per gli organi di informazione che pubblicano video insignificanti, cercando di farci credere che rivelino chissà quali segreti. Naturalmente non poteva mancare la soddisfazione di Di Maio né il punto di vista di Renzi che esige un «pugno di ferro».

Spezzeremo le reni alle Ong? Tra l’altro, c’è da giurare che tra qualche tempo, finita la cagnara, andrà come nel caso della Cap Anamour accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel 2004 e assolta completamente nel 2009. Per fortuna, ci sono ancora giudici in Italia.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini! grida Gesù alla folla nel Vangelo di Matteo. Certo, l’Europa non è il regno dei cieli, ma, chissà perché, da giorni queste parole mi rimbombano ossessivamente nella testa.

In una realtà che vorrebbe, da parte di governanti saggi e di popoli civili, la realizzazione di canali sicuri da utilizzare per l'inevitabile esodo, si incolpano quelli che organizzano una supplenza. Articoli di Luigi Manconi e Adriana Pollice. il manifesto, 4 agosto 2017, con postilla
REATO D’ALTRUISMO
di Luigi Manconi


Reato umanitario: come capita non di rado, è stato il quotidiano «dei vescovi» a trovare la definizione più efficace, e moralmente e giuridicamente più intensa, per qualificare la colpevolizzazione delle Ong: e, nel caso specifico, della Jugend Rettet. Il che potrà indurre molti laici, anche solo per questa ragione, a schierarsi dalla parte della magistratura e dello Stato, quasi che gli orientamenti delle chiese e delle organizzazioni umanitarie fossero l’espressione di un profetismo antistatuale e anarcoide.

Altri, e io tra questi, vedono invece in quegli stessi orientamenti un’ispirazione, rigorosamente democratica e liberale, che si rifiuta di ricondurre l’agire umano e l’azione sociale nell’ambito esclusivo degli apparati istituzionali, delle loro norme e del loro ordine superiore.
È un’idea statolatrica, e tendenzialmente autoritaria, che i democratici e i garantisti non possono condividere.

Se gli appartenenti a Jugend Rettet o l’equipaggio della sua nave – ma il pm di Trapani ha parlato solo di «alcuni membri» – hanno commesso reati, vengano processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati.

Ma finora, dai dati conosciuti e dalle stesse dichiarazioni della procura – avrebbero agito «non per denaro» ma per «motivi umanitari» – si tratterebbe solo ed esclusivamente della realizzazione di un «corridoio umanitario». Così ha suggerito Massimo Bordin nella sua rassegna stampa su Radio radicale.
E a me sembra proprio che di questo si tratti. Uno di quei rarissimi «corridoi umanitari» che possono consentire ingressi sicuri in un’Italia e in un’Europa, dove tutti gli accessi legali risultano ermeticamente serrati.

E, dunque, si può dire che – fatte salve l’indiscussa buona fede della magistratura e la necessità di attenderne le conclusioni – siamo in presenza, sul piano della pubblica opinione e del senso comune, di uno degli effetti della campagna di degradazione del ruolo e delle finalità delle organizzazioni non governative, in corso da mesi. E delle conseguenze di un processo – se possibile ancora più nocivo – di svilimento di alcune categorie fondamentali come quelle di salvataggio, soccorso, aiuto umanitario. Questo è il punto vero, il cuore della controversia in atto e la vera posta in gioco morale e giuridica. E, per ciò stesso, politica.

Dunque, e torniamo al punto di partenza, la falsa rappresentazione da cui guardarsi oggi è quella che vedrebbe uno schieramento, definito «estremismo umanitario», utopistico e velleitario (e tanto tanto naif), e, all’opposto, un fronte ispirato dal realismo politico e dalla geo-strategia, tutto concentrato sul calcolo del rapporto costi-benefici. Ma, a ben vedere, quest’ultimo mostra tutta la sua fragilità. Davvero qualcuno può credere che sia realistica e realizzabile l’ipotesi di chiudere i porti? E di attuare un «blocco navale» nel mare Mediterraneo?

Cosa c’è di più cupamente distopico dell’immaginare che la missione militare, appena approvata dal Parlamento italiano, possa essere efficace in un quadro segnato da un’instabilità oggi irreparabile, come quella del territorio libico e del suo mare?
Se considerato alla luce di questi interrogativi, il reato umanitario di cui si macchierebbero le Ong rappresenta davvero la riproposizione, dopo un secolo e mezzo, di quelle fattispecie penali che precedettero la formazione dello stato di diritto. Reati senza vittime e privi di quella offensività e materialità che sono i requisiti richiesti dal diritto contemporaneo: il vagabondaggio, l’anticlericalismo, il sovversivismo, la propaganda antimonarchica.
Di questi comportamenti, il reato di altruismo rappresenta una sorta di forma disinteressata («non per denaro») e ispirata dalla obbligazione sociale e da quel senso di reciprocità che fonda l’idea contemporanea di comunità e di cittadinanza.

«CONDOTTA UMANITARIA»
SORVEGLIATA SPECIALE
di Adriana Pollice

«Immigrazione. La nave Iuventa è bloccata nel porto di Trapani, l’equipaggio sotto scorta a Lampedusa. L'avvocato della ong tedesca precisa: “Faremo ricorso contro il sequestro. Non c'è nessun indagato, sono liberi cittadini”»

L’equipaggio della nave Iuventa, della Ong tedesca Jugend Rettet, è stato trasferito ieri sotto scorta in alcune abitazioni di Lampedusa. La nave, sequestrata mercoledì su ordine della procura di Trapani, è sorvegliata dalla polizia. L’equipaggio è stato interrogato dagli inquirenti: il fascicolo è a carico di ignori, il reato ipotizzato è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Faremo ricorso contro il sequestro. Non c’è nessun indagato, sono liberi cittadini» ha spiegato Leonardo Marino, difensore della Ong, che si è fatta sentire via Twitter: «Per noi il salvataggio di vite umane è e sarà la priorità e ci dispiace non poter operare nella zona di ricerca e salvataggio in questo momento. Stiamo raccogliendo informazioni e solo dopo potremmo valutare le accuse. Speriamo di incontrare le autorità italiane prestissimo».

Jugend Rettet non ha sottoscritto il codice di condotta stilato dal Viminale. Ieri invece è arrivata la firma al regolamento, voluto dal ministro Minniti, da parte di Sea-Eye. Salgono così a quattro (con Moas, Save the children e Proactiva Open Arms) le organizzazioni non governative a essersi allineate. Continuano a opporsi invece Sos Mediterranee, Medici senza frontiere e Sea-Watch. Il commissario europeo per le Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, è tornato a chiedere alle Ong l’adesione al codice mentre la sinistra tedesca attacca: «Il sequestro della Iuventa è un ricatto con il quale il governo italiano vuole forzare le Ong a firmare un accordo-bavaglio» dichiara la Linke. Sia Linke che Verdi sottoscrivono le critiche dell’associazione Pro-Asyl, che accusa il governo italiano di violare il diritto internazionale

Fermata martedì dalla Guardia costiera per «controlli di routine», la Iuventa è stata poi sequestrata e trasferita a Trapani, scortata con un grande dispiegamento di forze. Sequestrati documenti e computer, verranno esaminati gli strumenti di bordo per tracciarne i movimenti. L’inchiesta resterà a Trapani: ci sarà il trasferimento alla Dda di Palermo, competente per legge, solo se la procura decidesse di contestata l’associazione criminale.

«Ci sono gravi indizi di colpevolezza. Gli episodi raccolti contribuiscono a sostenere che questa condotta sia abituale» ha spiegato il procuratore Ambrogio Cartosio. Il titolare dell’indagine ha però specificato che la responsabilità degli illeciti è individuale, non ci sarebbero quindi legami tra i trafficanti e la Ong, infatti non è stata contestata l’associazione a delinquere. «Le persone coinvolte non hanno agito per denaro – ha sottolineato -, sulla nave si sono alternati diversi equipaggi e al momento non pare abbiano percepito compensi. La mia personale convinzione è che il motivo della condotta dell’equipaggio sia umanitario».

Ieri Matteo Renzi ha insistito: «Sul tema migratorio, aiutarli davvero a casa loro non è una parolaccia». Mercoledì è intervenuta Giusi Nicolini, che Renzi ha voluto nella segreteria nazionale del Pd. L’ex sindaca di Lampedusa si è smarcata dalle posizioni del segretario dem: «Se si vuole cacciare le Ong dal Mediterraneo vuol dire che si vuole che di migranti ne arrivino di meno e dunque, quando sono a mare, che ne muoiano di più. Questa visione è andata peggiorando fino alla criminalizzazione delle Ong».

Nell’inchiesta, condotta dallo Sco, è stato usato un agente sotto copertura, che ha lavorato sulla nave Vos Hestia di Save the Children. Sono state le rivelazioni di due suoi operatori a far avviare l’indagine, poi assunti dall’agenzia Imi security service. Cartosio ha spiegato: ci sarebbero stati almeno tre casi in cui alcuni componenti dell’equipaggio della Iuventa, non ancora identificati, avrebbero avuto contatti con trafficanti libici e sarebbero intervenuti in operazioni di soccorso senza che i profughi fossero in pericolo. I migranti sarebbero stati trasbordati sulla nave della Ong scortati dai libici. Il reato si configurerebbe anche perché sarebbe mancato l’imminente percolo di vita.

L’accusa si basa sui testimoni che operavano per Save the children, uno di loro avrebbe raccontato ai pm: «La più temeraria era sicuramente la Iuventa che, da quello che ho potuto vedere sul radar, arrivava anche a 13 miglia dalle coste libiche. La Iuventa, che è un’imbarcazione piccola e vetusta, fungeva da piattaforma ed era sempre necessario l’intervento di una nave più grande». I due avrebbero anche riferito di gommoni restituiti agli scafisti.

Ieri Save the Children ha però precisato: «I testimoni fanno parte del personale di sicurezza della società che collabora con l’armatore, dal quale è stata noleggiata la nave Vos Hestia».

postilla

Un sogno. Ci piacerebbe pensare che un giorno, in un saggio governo universale, un tribunale dotato di giudizio e di potere obbligasse i governanti colpevoli di non aver organizzato la fuga e l'accoglienza dei rifugiati a rimborsare di loro tasca e i migranti dei soldi hanno dovuto pagare agli scafisti e agli altri trafficanti.

il manifesto, 4 agosto 20017

«Immigrati clandestini» e «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina»: in quattro minuti di conferenza stampa,

il Procuratore della Repubblica di Trapani parla dei migranti trasbordati dai barconi sulle navi delle Ong in mare aperto senza mai usare la parola «persone», «esseri umani», «donne e bambini in fuga», «profughi», «richiedenti asilo».

Nel linguaggio burocratico sono tutti «soggetti» o «immigrati clandestini» e questo linguaggio disumanizzante e dissacrante (perché ogni essere umano è sakros, cioè unico e inviolabile) apre la strada alla deformazione della pubblica opinione, che di fronte agli «uomini di legge» che additano i «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina» correrà a chiudere porte, coscienze, cuori e senso critico.

Il cattivo uso del linguaggio, troppo sottovalutato, è una parte importante del problema.E per «cattivo» intendo esattamente ed etimologicamente «prigioniero» del proprio pregiudizio, che replicato dai media e rimbalzato di bocca in bocca diventa stereotipato «linguaggio comune».

Ma in questo caso il cattivo uso del linguaggio disegna anche la scenografia del cattivo uso del diritto.

Se è vero (ed è vero) che il salvataggio di vite umane in mare è un preciso dovere giuridico, se è vero che la stessa fattispecie di reato (articolo 12 Testo Unico Immigrazione) esclude la rilevanza penale di chi abbia agito per salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (è lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice penale), allora dove sta il reato e, soprattutto, chi è il criminale?

Colui che trasbordando un gommone carico all’inverosimile di esseri umani evita che si ribalti facendo affogare in mare le persone trasportate? O colui che aspetta che il gommone si spinga oltre, in mare aperto, si ribalti, consegni al mare le vite dei trasportati e solo allora, codice Minniti alla mano, intervenga?

E non è forse doveroso dubitare della legittimità di una missione militare dell’Italia che supporta i libici nel respingimento dei migranti, restituendoli ai campi di concentramento dove si perpetrano violenze, torture e stupri e rimettendoli nelle mani dei trafficanti di esseri umani? Contro il principio di non refoulement della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati (che del resto la Libia non ha ratificato, ma l’Italia invece sì) e contro l’articolo . 10 della nostra Costituzione che garantisce il diritto di asilo?

Lo dico con pacatezza e rispetto ma lo dico, perché è un mio preciso dovere etico, giuridico e politico dirlo: l’uso della forza del diritto contro i diritti fondamentali delle persone e l’esercizio dell’azione penale senza conoscenza approfondita e meditata del complesso sistema dei diritti umani e dei processi migratori contro gli operatori, singoli o organizzati, di solidarietà fa il paio con la cattiva politica dei decreti Minniti-Orlando che introducono il diritto diseguale, il diritto su base etnica, l’apartheid giudiziaria.E iniziano a disegnare i contorni di uno stato autoritario».

Libertà e Giustizia chiede con forza al governo Gentiloni di ritirare, o almeno di riconsiderare profondamente, il Codice di Condotta che ha voluto imporre alle Organizzazioni Non Governative che, nel Mediterraneo, svolgono una fuzione umanitaria fondamentale, sopperendo meritoriamente all’ignavia e all’inerzia dei governi.

Come ha notato l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione si tratta di una misura che «mina l’efficacia delle attività di soccorso». In altri termini, il costo di questo provvedimento ambiguo e sbagliato rischia di essere misurato in vite umane perdute.

Il Codice Minniti è in contrasto sia con il diritto internazionale del mare sia con ciò che il diritto di asilo impone all’Italia. In particolare, appare perfettamente condivisibile la scelta di alcune ong (come Medici Senza Frontiere, insignita del Premio Nobel per la Pace) di non sottoscrivere l’impegno a non effettuare trasbordi (una misura spesso invece necessaria per salvare le vite dei migranti), così come il rifiuto di portare armi a bordo, e la scelta di non ospitare unità di polizia.

Libertà e Giustizia rileva che il Codice Minniti non ha valore di legge, eppure sta già consentendo al governo di intervenire in modo straordinariamente pesante nello scenario già teso e difficile del Mediterraneo. In sostanza, il governo sta ribaltando la politica italiana verso i migranti senza passare dal Parlamento: un passo drastico, preceduto dalla inaudita minaccia di chiudere i porti, e ora accompagnato da oscure minacce alle ong che rifiutano, del tutto legittimamente, di sottoscrivere il Codice.

Libertà e Giustizia si rivolge anche a tutte le forze che sostengono il governo, e in generale al Parlamento della Repubblica: la lunghissima chiusura estiva delle Camere non può certo essere il pretesto per non discutere di questa terribile svolta anti-umanitaria, una svolta che nega e mortifica i principi fondamentali della nostra Costituzione.

Sinistra italiane e Movimento5Stelle hanno votato contro, Forza Italia e l’area gentiloniano-renziana, fino a Pier Luigi Bersani incluso, hanno votato a favore della guerra italo-libica contro i rifugiati. Articoli di Carlo Lania e Daniela Preziosi. il manifesto, 3 agosto 2017-



LA PRIMA NAVE ITALIANA
È GIÀ IN LIBIA.

L’OIM: «NO AI RESPINGIMENTI»
di Carlo Lania

«Messaggio in Codice. Via libera del parlamento alla missione. Forza Italia vota con la maggioranza, Mdp si spacca. Contrari Si, Lega e M5S»

La prima nave militare italiana si trova già nel porto di Tripoli. Si tratta del pattugliatore Comandante Borsini in servizio con la missione «Mare sicuro» che ieri, subito dopo il via libera del parlamento alla missione, ha ricevuto dallo Stato maggiore della Difesa l’ordine di dirigersi in acque libiche. A bordo ufficiali della squadra navale e del Comando operativo del vertice interforze che dovranno coordinarsi con i colleghi libici per decidere quali e quanti mezzi distogliere dall’attività di Mare sicuro – che opera non distante dalle acque territoriali libiche – per essere impiegati nella nuova operazione di contrasto all’immigrazione. Secondo le autorità di Tripoli serviranno almeno cinque giorni per mettere a punto tutti i particolari tecnici dell’operazione (oltre alle navi, l’area entro la quale utilizzarle e che tipo di supporto dovranno fornire alla Guardia costiera del Paese).

A questo punto l’avventura italiana in Libia è davvero cominciata, con tutto il suo carico di incertezze. Poco prima che la Comandante Borsini puntasse la prua verso il paese nordafricano, erano state Camera e Senato ad autorizzarne il via libera, seppure senza «l’ampio consenso» auspicato dal governo alla vigilia. Mentre Forza Italia si è schierata con la maggioranza, Lega Nord, Sinistra italiana e M5S hanno infatti votato contro e Fratelli d’Italia si è astenuto. Spaccato il Mdp, con alcuni deputati che hanno votato contro, altri che si sono astenuti e, infine, altri ancora che si sono espressi a favore. Al Senato i bersaniani hanno invece votato unanimi a favore.

Difficile capire il clima che già a partire da oggi circonderà la missione. Ieri, con una dichiarazione a metà tra l’apprezzamento e le minacce, il colonnello Ayoub Qassem, portavoce della Marina libica che fa capo al Governo di accordo nazionale guidato dal premier Fayez al Serraj, prima ha riconosciuto come il sostegno italiano abbia contribuito «a migliorare i salvataggi», poi ha definito «vaga» la decisione di Roma di intervenire in acque libiche e promesso di «vigilare con attenzione affinché non venga violata la sovranità delle nostre acque territoriali». Parole che in realtà sembrano servire più a smorzare possibili attacchi interni che un avvertimento alle navi della nostra Marina, tanto più se si pensa che richiedere l’intervento italiano è stato proprio Serraj con una lettera inviata il 23 luglio al presidente del consiglio Paolo Gentiloni.

A destare le preoccupazioni maggiori, però, è ancora la sorte che spetterà ai migranti fermati in acque libiche, a questo punto anche con il contributo italiano. «Consideriamo inaccettabile soccorrere i migranti in mare per poi riportarli in Libia dove vivranno in condizioni che tutto il mondo conosce», ha detto ieri parlando al Comitato Schengen il direttore dell’Ufficio coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Federico Soda. «Cercheranno di attraversare il mare di nuovo, e quindi, di fatto, intensificheranno la tratta e il traffico».

In Libia ci sono circa 30 campi governativi nei quali i migranti sono detenuti. Soda ha spiegato come l’Oim riesca a entrare solo in una ventina di questi dove ha potuto verificare le «condizioni pessime» in cui uomini, donne e bambini sono costretti a vivere. «E in quelli in cui non entriamo si trovano presumibilmente in condizioni peggiori», ha proseguito.

Torture, violenze di ogni tipo e sfruttamento sono all’ordine del giorno eppure per le organizzazioni internazionali finora non c’è alcuna certezza che i migranti che verranno ricondotti in Libia non subiranno le stesse sevizie. Duro il giudizio espresso da Amnesty International sul via libera del parlamento alla missione italiana. «Facilitare l’intercettamento e il ritorno in Libia di migranti e rifugiati – ha detto il vicedirettore dell’organizzazione, Gauri Van Gulik – significherà destinarli ai centri di detenzione del paese dove quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi. Il voto di oggi – è la conclusione di Van Gulik – potrebbe rendere le autorità italiane complici di questo orrore».

MDP, IL SÌ ALLA MISSIONE
FINISCE IN MINORANZA»
di Daniela Preziosi

«Libia. Alla camera tra assenti e contrari la maggioranza dei deputati non segue l'indicazione favorevole a un via libera "sofferto". Spaccatura tra gli ex Sel e gli ex Pd che al senato sono da soli e infatti il gruppo resta unito sul voto favorevole»

«Ma no, non ci siamo spaccati, abbiamo avuto una articolazione politica. Ma nulla di drammatico: veniamo da percorsi diversi sui temi della politica estera. E sulle missioni. Ma divisi no: sto preparando un viaggio per il medioriente con Roberto Speranza, a settembre…». In Transatlantico Arturo Scotto minimizza, ma il problema c’è e si vede. Anzi si conta: sulla missione in Libia al senato, dove Mdp è composto da ex Pd, tutti votano sì come un sol uomo. Alla Camera Articolo 1 si fa in tre-quattro, anche più.

Su 43 deputati, in 20 votano sì, in cinque no (come i cugini di Sinistra italiana), uno si astiene, in 13 escono dall’aula – per lo più ex Sel – e il resto sono assenti. Si misurano insomma quelle che in una vecchia sezione si definirebbero «divergenze di analisi». E la famosa «sintesi», che in queste ore viene faticosamente ricercata con Giuliano Pisapia per rimettere in carreggiata «Insieme» , non arriva. Tanto che a Montecitorio Carlo Galli, il filosofo della politica cui spetta l’onere di pronunciare il sì alla mozione governativa a nome del gruppo, deve ricorrere a un’espressione sofferta, parla di «appoggio necessariamente articolato, date le diverse sensibilità presenti».

La linea ufficiale di Mdp è dunque quella di un sì condizionato, ma comunque sì: la decisione del governo «presenta evidenti di criticità, tutte evidenziate nell’atto di indirizzo che abbiamo autonomamente presentato», chiede un «giusto riconoscimento» per il ruolo delle Ong. Eleonora Cimbro ci aggiunge una lamentela per l’ok agli emendamenti di Forza Italia: «Un atteggiamento schizofrenico oppure siamo di fronte a un accordo politico tra Pd e Fi».

Ma alla fine l’appoggio alla mozione della maggioranza non è discussione, «in un’ottica di assunzione di responsabilità nazionale più che di specifica fiducia verso l’esecutivo», dice Galli: esecutivo che pure sostengono, almeno per il momento. In attesa della legge di bilancio, sulla quale già si dichiarano pronti alla rottura.

Dai fuoriusciti di Sel arriva invece un fuoco di fila contro la missione. Per Scotto il sì del parlamento è «un tragico errore», un voto al buio perché l’invio delle navi «trae origine dalla lettera del premier Al Serraj» in cui chiede aiuto all’Italia, che però «il parlamento non ha potuto leggere» (tranne il Copasir).

«La logica del respingimento serve a strizzare l’occhio alla montante pulsione xenofoba», rincara il collega Michele Piras, «l’ingresso italiano nelle acque libiche rischia di generare un contraccolpo ulteriore sulla credibilità interna di Al Serraj» e insomma, «affrontare così un fenomeno colossale è miope ed inutile, un palliativo scorretto». Ancora più duro Florian Kronbichler: «Il passo dal piano politico a quello militare è una dichiarazione di bancarotta dell’Europa nella gestione della crisi migratoria», «governo e parlamento hanno deciso non di aiutare chi fugge, ma di catturare, in modo militare, chi fugge».

Fra le due componenti di Mdp insomma c’è in mezzo un mare di differenze, e sulle missioni militari si capisce: chi proviene dalla sinistra-sinistra lo sa già almeno dai tempi della guerra in Kosovo, per la quale l’allora Prc tolse l’appoggio al governo Prodi: e i Comunisti italiani di Armando Cossutta si scissero da Rifondazione e appoggiarono il governo D’Alema. Quello stesso D’Alema che oggi vuole rimettere insieme tutta la sinistra.

Il Prc, quello di oggi, non si fa sfuggire l’occasione di attaccare i «compagni», gli uni e gli altri: sulla missione in Libia: «Il voto a favore degli esponenti di Mdp e Campo progressista, in coerenza con il disastro combinato quando erano nel Pd, purtroppo conferma che queste formazioni non rappresentano un’alternativa di sinistra per questo paese».

L’Italia di Salvini, Meloni, Renzi, Gentiloni, Berlusconi e Alfano e la Libia dei negrieri saranno alleati nella guerra armata contro le persone che tentassero di fuggire dagli inferni che il Primo mondo ha creato nelle loro terre. La Libia ha tanto petrolio.

Il Fatto quotidiano, 2 agosto 2017

Una missione dai confini operativi labili quella che sta per partire per la Libia. E non tanto per la mancata volontà del governo italiano di stabilirli, quanto per la difficoltà oggettiva di rispettarli, una volta sul campo, trattandosi di un paese diviso e di un’operazione che sarà condotta in gran parte nelle acque territoriali libiche. L’Italia potrà rispondere sparando, se attaccata, e potrà farlo anche se ad essere attaccati saranno i partner libici.

Saranno due le navi italiane impegnate. Un pattugliatore che porterà il team dei nostri ufficiali che dovranno interlo-quire con i loro colleghi libici (da questa interlocuzione deriverà l’area di azione) e una nave logistica (che servirà ad aggiustare altre imbarcazioni). Il pattugliatore sarà stabilmente nel porto di Tripoli (quindi nelle acque territoriali libiche) ed agirà solo su richiesta e mai da solo: questo perché nel caso ci si trovasse in presenza di barconi affondati e di migranti in pericolo di vita dovranno intervenire le motovedette libiche. Per scongiurare due rischi opposti: quello di riportare i naufraghi in Libia, dando il via a respingimenti collettivi vietati dalle convenzioni internazionali.
E quello di portarli in Italia, rischiando un effetto boomerang. È quello il quadro generale illustrato ieri dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano e dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. “L’incontro di Parigi tra Serraj e Haftar è stato definito dall’Economist un piccolo passo. Noi invece gli abbiamo riconosciuto un valore”, ha detto Alfano. Un modo indiretto di confermare che l’accelerazione della missione italiana si deve soprattutto ad evitare di farsi surclassare da Macron.

“Si continua a rimuovere dal dibattito pubblico la vera causa di instabilità in Libia, ovvero il conflitto a bassa intensità tra Francia e Italia sul futuro assetto del Paese”, ha sottolineato Erasmo Palazzotto di Sinistra italiana. È toccato alla Pinotti dare le linee della missione: “Tutte le attività si svolgeranno sulla base delle e sigenze delle autorità libiche. Non si profila alcuna ingerenza o lesione della sovranitàli bica”. Ci ha anche tenuto a sottolineare che la Libia ha definito una sua area Sar (Search and rescue), cosa che l’Italia voleva.

Ma soprattutto: “Le regole d’ingaggio per i militari italiani saranno quelle previste per l’operazione Mare Sicuro” ma “dovranno essere estese al fatto che la missione diventa bilaterale”. Quindi, “il diritto internazionale prevede la legittima difesa estesa all’uso della forza graduale e proporzionale. I dettagli sono da definire con i libici, ma se gli scafisti sparano contro una nostra nave possiamo intervenire e la stessa cosa vale se è messa a ri schio una nave libica”. Le regole di ingaggio di Mare sicuro sono secretate. E verranno adeguate dopo un tavolo tecnico con la Guardia costiera e la Marina libica. Dunque oggi le Camere votano senza conoscerle.

La Pinotti ha ricordato come la richiesta è partita da una lettera arrivata da Serraj a Gentiloni il 23 luglio. La cosa non è stata priva di problemi: di ritorno dall’incontro con il premier Serraj ha smentito il fatto di aver chiesto aiuto all’Italia. Allora, Gentiloni gli ha chiesto una lettera formale. Questa è arrivata e ieri su richiesta fatta nelle Commissioni è stata letta ai membri del Copasir. Al netto della richiesta di supporto logistico non c’è niente di specifico. Da sottolineare anche che non ci sarà budget supplementare, oltre a quello di Mare sicuro.

Ieri nelle Commissioni hanno votato contro Sinistra Italiana e Cinque Stelle e non ha votato Mdp. Dovrebbe andare allo stesso modo nelle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Grazie al sì di Forza Italia i numeri dovrebbero esserci. A quel punto nel giro di un paio di settimane la missione diventerà operativa.

[nostri neretti n.d.r]

«Il filo che lega le opere è quello dell’esodo, ma non è facile riuscire a raccontarlo, soprattutto per i Paesi più grandi».

il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2017 (p.d.)

Da un po’ il governo del mio Paese, dopo aver già liquidato per ragioni essenzialmente economiche l’operazione “Mare nostrum”, vanto della nostra Marina Militare, in pro di una assai meno efficace, ha iniziato a prendersela con le Ong che raccolgono in mare i naufraghi: li salvano o non li salvano davvero? Sono colluse con gli scafisti o animate da principi nobili ma per i quali non c’è spazio? Il Testo unico sull’immigrazione all’articolo 12 recita “non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”; e la convenzione Sar obbliga a soccorrere chiunque si trovi in mare anche oltre le acque territoriali. Il “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, per molti odioso (riposa tra l’altro sulla malfamata legge Bossi-Fini), è per fortuna difficile da provare, quando la gente è in mare; e pare che il film Terraferma di Emanuele Crialese (2011) sia passato invano.
Da quando è iniziata questa svolta, ho ripreso in mano il mio Freesa, “documento di viaggio universale” rilasciato dal Padiglione tunisino della 57ma Biennale di Venezia: nelle sue pagine, anziché visti o normative, s’incontrano numeri (i 65,3 milioni di rifugiati del 2015; i 3,2 milioni di richiedenti asilo in attesa di conoscere il loro destino; i 165mila "abitanti" del campo di Kakuma in Kenya) e ideali (anzitutto quello della libertà di movimento, come elaborato sul sito theabsenceofpaths.com, un progetto che coinvolge anche l’ong maltese Moas). Il Freesa può sembrare l’ennesima, gratuita trovata di un’arte che sbandiera nobili principi, senza additare i veri conflitti o i responsabili; ma s'inserisce in un quadro più ampio.
Se una mostra come la Biennale di Venezia ha un senso, è infatti quello di registrare il clima del mondo in cui viviamo, un orizzonte di attesa che esca dal recinto strettamente estetico e rifletta anche la dinamica sociale e culturale. Tanto più in un’edizione come quella di quest'anno, alquanto insipida fin dal titolo (“Viva Arte Viva”, fino al 26 novembre), e incongruamente suddivisa in isole che richiamano piuttosto un Brek o un parco-giochi (“Padiglione della Terra”, “Padiglione dei colori”, “Padiglione del Tempo e dell’Infinito” e via dicendo). Optando per una selezione di basso profilo, la curatrice Christine Macel ha raccolto poche star (Eliasson, Parreno, Sala, Orozco), un po’di amarcord degli anni che furono (i defunti John Latham, Marwan, Maria Lai, Bas Jan Ader) e molti epigoni. Non mancano cose poetiche, però, come i totem dell'indiana Rina Banerjee, l’arazzo del maliano Abdoulaye Konaté, le precarie figurine della neozelandese Francis Upritchard, il video del giapponese Koki Tanaka, che percorre e conquista lo spazio da casa sua alla centrale nucleare più vicina, e quelli della russa Taus Makhacheva con il funambolo che trasporta quadri sui monti del Caucaso, e con i naufraghi che scompaiono in mare su un barcone capovolto; e naufraghi annegano anche nei dipinti della canadese Hajra Waheed.
I naufraghi, appunto. Come sempre alla Biennale, le partecipazioni dei singoli Paesi sono più vivaci della selezione ufficiale, e spesso la redimono. Quest’anno, sebbene le grandi nazioni preferiscano gingillarsi in cervellotiche astrazioni (taceremo del padiglione italiano, che oscilla fra il mistico e il compiaciuto), un filo rosso che emerge è proprio quello relativo al fenomeno migratorio, ai percorsi dello “straniero”. Storie concrete, documentate con uno slancio che sfugge alla retorica, ed elabora in segno il nocciolo dei problemi: la ferrovia della rotta balcanica nel padiglione sloveno, la tragedia delle famiglie strappate in quello messicano, le maschere dei Mapuche perseguitati in Cile, i cerchi di appartenenza nello Zimbabwe, e soprattutto, nel padiglione sudafricano e in quello australiano (in modi assai diversi), il confronto fra i volti e le parole degli attori di Hollywood e le icone vive e vere dei migranti dei nostri giorni. L’arte che prova, coi suoi mezzi, a riflettere sul mondo.
In questo discorso, ormai globale, l'Italia, al pari della Grecia, non riveste un ruolo marginale: molte storie hanno il loro fulcro nel Mediterraneo, molte immagini sono delle nostre coste. E sono passati già dieci anni dal mirabile trittico Western Union Small Boats di Isaac Julien, tutto ambientato in Sicilia, sulle spiagge che allineano cadaveri e vacanzieri (come in Crialese, appunto), tra i balli nei palazzi del Gattopardo e l'annaspare in acqua delle membra di giovani donne che non sanno nuotare. Ecco allora che il modo in cui l’Italia, messa alla prova dalla colpevole inazione dell'Europa, affronta l'esodo dei disperati, non ha solo una dimensione legislativa e politica, ma anche un valore simbolico e culturale: è da noi che si gioca la partita, da un nostro gesto (quelli dei Paesi balcanici li abbiamo visti: muri e filo spinato) dipende moltissimo. Di quali immagini, di quali parole (d'ordine?), di quali minacce, noi Paese di Fuocoammare, dovremo gloriarci (o vergognarci) un giorno? Dei poliziotti che accolgono schierati i ragazzi di Jugendrettet, o dei porti che respingono le navi di MSF?
La Grecia, nostra compagna in questa difficile vicenda (molti ancora i profughi imbottigliati nel Paese, che pure beneficia dei nefandi accordi dell'Unione con Erdogan), non perde tempo, e crea nel suo padiglione un capolavoro che vale da solo il biglietto di tutta Biennale: in Laboratorio di dilemmi, Yorgos Drivas presenta un'allegoria che parla di cellule epatiche ma in realtà soprattutto nel video finale, in cui recita una magnifica Charlotte Rampling - delinea il problema di come una società può reagire dinanzi al diverso. Tutta la storia è una sorta di riscrittura delle Supplici di Eschilo, una tragedia che, nel mettere in scena l’arrivo e la problematica accoglienza ad Argo delle cinquanta figlie dell’egiziano Danao, ha già detto tutto sul tema delle migrazioni (ne fanno fede i recenti adattamenti di Moni Oadia a Siracusa e di David Greig a Edimburgo): un’opera antica dalla quale una cultura europea meno immemore di sé dovrebbe forse ripartire.
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