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L'Europa di Marco Minniti sta raggiungendo il suo obiettivo: chi vuole o deve attraversare il Mediterraneo, perché in fuga dalla persecuzione o perché intrappolato nel caos libico, oggi è bersaglio della caccia al migrante. I diritti? cancellati.

la Repubblica, 29 agosto 2017

«Il corridoio è sempre più stretto e si muore nel deserto. Niger, l’esodo sta rallentando la strategia di Roma funziona ma la strage ora è nel deserto»
Le voci corrono veloci lungo le carovaniere del deserto, con un passaparola che trasmette lo stesso messaggio in tutta l’Africa occidentale: «La rotta per la Libia è diventata pericolosa ». Sì, costi e rischi sono sempre più alti, la speranza di arrivare in Europa sempre più bassa. E la gente smette di partire. Lo testimoniano i numeri dell’esodo monitorati in Niger, il grande crocevia dei percorsi che portano al Mediterraneo e snodo della strategia annunciata ieri a Parigi. Nel 2016 gli osservatori dello Iom, l’Organizzazione per le migrazioni, avevano censito 333 mila persone in viaggio verso Nord, quest’anno invece fino a luglio ne sono state contate 38 mila mentre dagli stessi valichi quasi il doppio ha fatto il percorso inverso, cercando di tornare a casa.
«C’è un calo drastico calo dei flussi verso la Libia. Non vediamo più quei convogli di 50-60 veicoli che l’anno scorso erano frequenti», conferma Alberto Preato, uno dei dirigenti Iom in Niger: «I migranti che accogliamo parlano molto tra loro e dai loro discorsi emerge con chiarezza come quella rotta sia diventata difficile».Le pressioni e le sovvenzioni europee hanno spinto il governo nigerino a cambiare linea.
C’è una nuova legge che punisce i trafficanti con l’arresto e il sequestro dei camion. Ci sono gendarmi meglio addestrati ed equipaggiati. Anche i francesi, presenti nell’ex colonia da quattro anni con una missione militare, adesso sono più attivi: l’onda lunga delle stragi terroristiche e il timore che in qualche modo l’Isis tragga vantaggio da questi movimenti, li ha convinti ad aprire gli occhi sulla situazione. E i primi progetti umanitari, finanziati dai singoli paesi o dalla Ue, stanno facendo nascere prospettive alternative all’emigrazione.
C’è però chi va avanti. Le organizzazioni dei trafficanti non sono scomparse: evitano i posti di polizia e sfuggono ai censimenti, muovendosi direttamente nel deserto. Una traversata micidiale, con persone che per guasti o cinismo vengono abbandonate nel nulla. «Molti rischiano la vita», spiega Preato: «Ora mandiamo quasi tutti i giorni delle missioni per soccorrere questi dispersi. Le autorità locali e l’esercito nigerino collaborano con noi in queste ricerche: più di mille persone sono state salvate negli ultimi mesi». Patrick, un giovane nigeriano, ha raccontato il calvario del suo gruppo: «Abbiamo vagato senz’acqua per dieci giorni. Ho visto due bambini morire e subito dopo la loro madre. Prima che arrivassero gli aiuti ho scavato 24 fosse nella sabbia».
Questo è l’altro volto della politica di dissuasione messa in atto dall’Unione europea, con una regia italiana e un contributo francese, in passato parallelo e infine convergente. Chi vuole o deve attraversare il Mediterraneo, perché in fuga dalla persecuzione o perché intrappolato nel caos libico, oggi affronta un viaggio infernale. I controlli delle istituzioni nigerine si trasformano in repressione armata in Libia, dove la caccia ai migranti è diventata più remunerativa – grazie ai fondi ufficiali e alle elargizioni dell’intelligence – del loro sfruttamento.
La strategia dei piccoli passi avviata dal ministro Marco Minniti sta funzionando: di fatto chi si dirige verso le nostre coste ha davanti un triplice sbarramento. Nel Fezzan, la prima tappa libica, la pace siglata a Roma tra tebù e tuareg ha concluso tre anni di guerra, finanziata soprattutto con il traffico di uomini. Le nostre sovvenzioni inoltre stanno spingendo alla sorveglianza dei confini e delle arterie principali. Più a nord sono scese in campo le milizie municipali, spesso guidate dagli stessi personaggi che fino a pochi mesi fa gestivano il mercato dei barconi come lo “Zio” che comanda la brigata 48 di Zuwara. Sono loro che dominano il territorio, espressione di quei consigli cittadini che costituiscono l’unica autorità: l’accordo con i loro leader è stato appena rinnovato a Roma e benedetto dall’Ue.
A Tripoli c’è poi un’altra forza, legata al governo Serraj, chiamata Rada, che la scorsa settimana fa ha catturato “il re dei trafficanti”: tal Musa Bin Khalifa indicato come il signore delle spiagge degli scafisti. Infine c’è la Guardia costiera, equipaggiata e assistita dalla nostra Marina, a cui adesso spettano tutti gli interventi nelle acque territoriali, tenendo alla larga le navi delle ong.
Tre giorni fa la Corte Suprema di Tripoli ha dato un riconoscimento giuridico ai patti per il contrasto dell’immigrazione. Quindi la forma è salva: le operazioni delle milizie municipali e delle strutture nazionali hanno un timbro di legalità. Ma la verità in Libia è sempre scritta sulla sabbia e nessuno può dare garanzie sulla sorte di chi finisce nelle mani dei potentati. Che si dividono ogni aiuto: pochi giorni fa abbiamo consegnato diecimila kit di prima assistenza per i migranti, subito spartiti tra guardia costiera e municipalità di Zuwara. Ma tutti sanno – e lo stesso Minniti ha posto la questione – che in Tripolitania è difficile se non impossibile ottenere il rispetto dei diritti umani: l’Onu ha ribadito ieri la denuncia sulle condizioni dei centri di dentenzione.
La soluzione che arriva da Parigi è quella di spostare il problema in Niger. Si annuncia la creazione lì degli hotspot dove vagliare le domande di asilo, valutando la possibilità di trasferirvi le persone fermate in Libia, sotto la vigilanza di un contingente militare. Un altro esodo, forzato e in senso inverso. Il segno delle difficoltà dell’Europa, che seguendo la pista aperta dall’Italia sta riuscendo a frenare gli sbarchi, ma ora deve trovare il modo di tutelare quei diritti che sono l’essenza della nostra civiltà.
Molti vizi ci impediscono di affrontare in modo corretto il dramma dei "migranti economici": l'ipocrisia, la smemoratezza, l'ignoranza, la complicità con gli sfruttatori delle regioni colonizzate. Eppure, 4 milioni sono i migranti italiani.

Avvenire, 29 agosto 2017

Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita.

L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.

E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant'è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.

Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici.

Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.

Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali. Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».

«La scoperta dell'Africa . Al vertice di Parigi l’Europa fa sua la linea italiana per contenere i flussi dei migranti. E promette di voler di riformare Dublino»

Campi profughi in Niger e Ciad, addestramento di personale dei due paesi africani per arrivare alla costituzione di una guardia di confine lungo la frontiera con la Libia. Ma anche trasferimenti dalla Libia direttamente nei Paesi di origine dei migranti, un ulteriore rafforzamento della guardia costiera di Tripoli e sostegno economico ai Paesi di transito, perché si adoperino nel contrasto dell’immigrazione irregolare.

A Parigi, in un vertice che vede riuniti i leader di Francia, Spagna, Italia e Germania con quelli di Libia, Ciad e Niger, l’Unione europea fa sua la linea indicata dal governo italiano per fermare i flussi diretti nel nostro Paese e, in questo modo, sposta ancora più a sud i suoi confini. Non più il Mediterraneo, non più la Libia – che nonostante la sua instabilità resta un punto di riferimento – ma Ciad e Niger, due Paesi che sono altrettanti punti di passaggio per quanti fuggono da miseria e persecuzioni e ai quali, adesso, si chiede di sigillare ulteriormente le proprie frontiere in cambio di aiuti allo sviluppo. Una linea che, prima ancora che al vertice francese, è stata confermata in un incontro che si è tenuto in mattinata al Viminale tra il ministro degli Interni Marco Minniti e i colleghi di Ciad, Mali e Niger nel quale è stata decisa la costituzione di una task force tra le polizie dei quattro Paesi.
E’ nei prossimi mesi che il «piano d’azione» messo a punto ieri a Parigi diventerà operativo. A spiegarlo è stato il presidente francese Emmanuel Macron sottolineando come, negli sforzi per contenere i migranti, non sia escluso un contributo militare da parte delle forze del G5 Sahel. «Allo scopo – ha spiegato – di mettere in sicurezza le frontiere all’interno del G5, misure che sono oggetto di vari milioni di euro di finanziamento a livello Ue».

Le prossime tappe prevedono un nuovo vertice in autunno da tenersi in Spagna prima di arrivare a novembre, quando si terrà il previsto summit tra Ue e Unione africana. Ma la strada – che punta alla chiusura la rotta del Sahel per chiudere definitivamente quella del Mediterraneo centrale, è ormai tracciata.

Ai paesi africani, ha spiegato Macron, l’Unione europea garantirà dotazioni economiche, di personale e di mezzi: jeep e sistemi radar per controllare i confini terrestri, addestramento del personale sono gli obiettivi a breve termine, ai quali faranno seguito finanziamenti destinati a progetti allo sviluppo. Come quelli su sanità e istruzione che l’Italia si è impegnata a finanziare ai sindaci libici e che sabato scorso, in un incontro al Viminale, sono stato consegnati al ministro Minniti.

Da tutti i partecipanti al vertice è stata sottolineata la necessità che si arrivi al più presto a una stabilizzazione della Libia, così come quella di riformare il regolamento di Dublino. A rimanere invece sullo sfondo, se non a parole, è come al solito la questione più delicata, vale a dire il rispetto dei diritti umani dei migranti. Era stato garantito per quelli detenuti nei centri di detenzione in Libia, – e oggi tutti sanno che non è così, al punto che ieri il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto alle autorità libiche di «rilasciare immediatamente» i migranti più vulnerabili. Ora viene garantita per i campi che verranno allestiti in Ciad e Niger e che dovrebbero essere gestiti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

«Abbiamo preso atto – ha assicurato sempre Macron – di poter avere un trattamento umanitario all’altezza delle nostre aspettative». Scopo dei campi sarà quello di selezionare i migranti dividendoli tra economici e quanti invece hanno diritto a presentare domanda di asilo. In Niger, come in Ciad e soprattutto in Libia, ha spiegato Macron, «l’identificazione degli aventi diritto avverrà su liste chiuse dell’Unhcr».

Ci vorrà qualche mese per capir se il piano d’azione messo a punto ieri a Parigi risponderà ai desideri europei oppure no. Tutto dipenderà anche da quanto l’Europa sarà disposta a investire in Africa, come ha ricordato ieri il presidente del Ciad Idriss Deby, presente anche lui al vertice. «Cos’è che spinge i giovani africani ad attraversare il deserto a rischio della vita?», ha chiesto. «E’ la povertà, la mancanza di istruzione. Il problema resterà sempre lo sviluppo, c’è bisogno di risorse».

«Folla alla celebrazione nella parrocchia di Vicofaro dopo le polemiche sui migranti. La formazione di destra accolta dai fischi». Resoconto agro-dolce d'un bell'episodio d'accoglienza praticata e d'antirazzismo corale.

Avvenire, 27 agosto 2017

Don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro, a Pistoia, nel mirino dell’estrema destra per le sue aperture generose verso gli immigrati, che nei giorni scorsi ha accompagnato in piscina scatenando anche le ire di Salvini, ha due prerogative vincenti. Innanzi tutto è un uomo di grande simpatia, poi ha una stazza da lanciatore di peso, più di un metro e novanta per circa un quintale di peso. La prima caratteristica gli è servita per accogliere con il sorriso le centinaia di fedeli che ieri mattina si sono presentate alla Messa nella sua parrocchia di Santa Maria Maggiore.

La seconda per stringere la mano con cordiale sicurezza anche agli esponenti di Forza Nuova - proprio coloro che l’avevano contestato - guardandoli dall’alto al basso mentre entrano in chiesa, mansueti come agnellini. Buoni buoni, i quindici esponenti del movimento di estrema destra che avevano annunciato la loro presenza alla Messa per “verificare” la correttezza dottrinale – absit iniuria verbis - delle parole di don Biancalani, sono stati scortati ai banchi loro assegnati. Gli ultimi tre della fila a sinistra dell’altare, dove hanno seguito disciplinatamente tutta la celebrazione, senza unirsi però alle esplosioni di applausi che, durante l’omelia, hanno costellato le parole del parroco. Tante le sue riflessioni di buon senso sul dovere dell’accoglienza, qualche spunto originale sull’esigenza di unire e non dividere, un racconto appassionato del suo apostolato con persone come gli immigrati “che ci regalano in umanità più di quanto riusciamo a dare loro”.

Ma anche una serie di critiche pesanti al governo per le scelte in Libia, “con tanti soldi pagati per non far più partire gli immigrati”. Forse sarà davvero così, ma è davvero l’omelia della Messa il momento più adatto per valutazioni politiche di questo tipo? In tanti applaudono, qualcuno sospira: “Don Massimo è così, prendere o lasciare”. Appassionato, simpatico, ribelle, un po’ sopra le righe. Prima dell’inizio della celebrazione, mentre smista il flusso di fedeli che prendono posto, alza gli occhi verso il matroneo e avverte: “Non appoggiatevi alla balaustra, che non è a norma. Accidenti, adesso mi prendo un’altra multa”.

E non si tratta dell’unico fuori programma della mattinata. Perché, è bene ammetterlo subito, la liturgia celebrata nella parrocchia all’estrema periferia ovest di Pistoia, è stata tutt’altro che ordinaria. La preghiera – se c’è stata – è stata tutta ritmata dagli applausi e, soprattutto all’inizio e alla fine, condita da qualche fischio, qualche slogan vecchio stile e alcuni canti partigiani. D’altra parte, con quel lungo preludio di polemiche e di tensioni, non avrebbe potuto andare diversamente. L’impegno del vescovo Fausto Tardelli per riportare la questione nel suo alveo naturale – quello di una celebrazione eucaristica –, per precisare anche con toni indignati che la pretesa di “esaminare” l’operato di un sacerdote appariva del tutto inaccettabile e per chiedere alla politica di fare un passo indietro, è valso a convincere solo gli uomini di buona volontà. Ma tra il migliaio di persone che già un’ora prima dell’inizio della celebrazione, affollano il piccolo piazzale davanti alla moderna costruzione, difficile dire quante lo siano davvero. Ci sono, numerosissimi, gli operatori dei media.

Ci sono in forze polizia e carabinieri. Ma anche molte decine di esponenti di estrema sinistra con striscioni antirazzisti che rumoreggiano e lanciano slogan. Quando appare lo sparuto gruppetto di Forza Nuova, quasi tutti con crani rasati e bicipiti palestrati, la tensione sale altissima. Un doppio cordone di forze dell’ordine divide i contendenti. Breve trattativa. Gli esponenti dell’estrema destra potranno entrare in chiesa a patto di seguire docilmente le indicazioni. Mentre la polizia fa barriera, volano insulti e sputi, partono slogan storici (“Fascisti carogne…”) ma a giudicare dalle barbe grigie e dall’abbigliamento ex Lotta Continua, sono “storici” anche gli autori degli stessi.

Poi, sul gradino più alto del sagrato, ecco la sagoma imponente di don Biancalani. Sorride e alza le manone in segno di pace. La piazza si placa. Chi vuole entrare in chiesa, compresi gli uomini di Forza Nuova, sfila davanti a lui che stringe mani, ascolta, sorride, ringrazia. Poi, una volta dentro, in una chiesa zeppa, verrebbe da dire “in ogni ordine di posti”, la celebrazione s’avvia secondo il registro stabilito. Il vicario generale, don Patrizio Fabbri, mandato dal vescovo a concelebrare, per portare a don Biancalani solidarietà e sostegno della diocesi, prende spunto dalla partecipazione straordinaria per invitare tutti a tornare anche domenica prossima. Sì perché – fa capire – il Vangelo e la Messa sono sempre gli stessi e non si capisce perché tutto questo entusiasmo non possa essere replicato. E anche l’impegno del parroco, la sua dedizione per i poveri, sono gli stessi da anni. Se merita di essere sostenuto oggi, perché non può avvenire la stessa cosa anche tra una settimana? Ma le ragioni della partecipazione straordinaria non sono un mistero per nessuno.

C’entra il clima di scontro alimentato sui social da posizioni intollerabili e da qualche uscita non proprio ben calibrata, c’entrano le tensioni sociali di un fenomeno come l’immigrazione che né a livello locale né sui grandi scenari nessuno sembra in grado di governare al meglio, forse c’entra anche la voglia assurda di rispolverare vecchie contrapposizioni che sembravano sepolte sotto la polvere dei decenni e delle tragedie. Invece, quando alla fine della Messa, il gruppetto di Forza Nuova viene accompagnato all’uscita dalla polizia, c’è ad attenderlo una folla di antirazzisti e di altri “anti” che riprende minacciosamente con gli slogan di cui sopra e conclude intonando a lungo “bella ciao”. Per canti liturgici e segni di pace ripasseremo un’altra volta.

Sla Repubblica, 27 agosto 2017

CENTRI IN AFRICA, CODICE ONG
IL PIANO EUROPEO PER I MIGRANTI

«Oggi a Parigi vertice con i big Ue. Arriva il sostegno alla linea italiana Intesa con i paesi del Sahel per fermare l’esodo attraverso la Libia»
I grandi d’Europa riuniti oggi a Parigi daranno il loro sostegno alle politiche migratorie italiane e cercheranno di lanciare un piano europeo, sul quale poi far convergere gli altri partner Ue, per chiudere la Rotta del Sahel che porta i migranti in Libia. E’ questo l’obiettivo del vertice organizzato da Emmanuel Macron al quale parteciperanno Merkel, Gentiloni e Rajoy. Un format che prevede anche una presenza europea con Federica Mogherini e coinvolge i paesi africani con l’arrivo a Parigi dei leader di Libia, Niger e Ciad. Sullo sfondo l’idea, che poi sarà sviluppata a livello europeo nel corso dell’autunno, di aiutare i paesi del Sahel a costruire campi dove raccogliere i migranti nel rispetto dei diritti umani prima del loro ingresso in Libia per poi, questa è l’intenzione del momento, procedere al rimpatrio volontario di quelli economici e all’accoglienza in Europa di chi ha diritto alla protezione internazionale. C’è anche il sostegno al lavoro della Guardia costiera libica, con l’impegno a favorire la costruzione di nuovi campi Unhcr dove accogliere i migranti che restano bloccati in Tripolitania.

Ieri la stessa Merkel ha riconosciuto che «non è possibile lasciare sole Italia e Grecia solo per la loro posizione geografica». Il vertice voluto da Macron riprende e cerca di razionalizzare una serie di idee — a partire dal coinvolgimento dei paesi del Sahel — che datempo circolano tra le capitali, in particolare tra Farnesina, Viminale e il team di Mogherini. Non a caso i quattro big dell’Unione promuoveranno le ultime misure italiane: «Germania, Francia, Spagna e Alto rappresentante Ue — reciterà la dichiarazione finale — si felicitano per le misure prese dall’Italia nel rispetto del diritto internazionale. Il codice di condotta sui salvataggi in mare è un passo positivo per migliorare coordinamento ed efficacia dei salvataggi.

I capi di Stato e di governo chiedono a tutte le Ong che operano in zona di firmare il codice e rispettarlo». Ancora, Berlino, Parigi e Madrid «continuano a sostenere l’Italia in particolare intensificando i ricollocamenti e fornendo il personale necessario a Frontex e all’Ufficio europeo che si occupa di asilo». Promosse anche le intese tra Roma e le 14 comunità locali libiche volte a contrastare il business dei trafficanti di esseri umani. Stesso discorso sulla cooperazione con Niger e Ciad, paesi di transito che possono aiutare a chiudere i flussi, così come l’impegno a lavorare con i paesi di origine dei migranti per bloccare le partenze.

TAJANI: “PER TRIPOLI 6 MILIARDI DI AIUTI
COME QUELLI CONCESSI ALLA TURCHIA”
Alberto d’Argenio intervista il presidente del Parlamento europeo

«Una parte dei finanziamenti dovrebbero andare a Niger e Ciad per chiudere la rotta del Sahel»

Un piano europeo immediato per la Libia uguale a quello messo in campo per la Turchia: sei miliardi per favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli e chiudere il Mediterraneo centrale. E poi un investimento di lungo periodo da 50-60 miliardi per tutta l’Africa capace di contrastare le cause più profonde delle migrazioni. È quanto chiede il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ai leader di Francia, Germania, Italia e Spagna che si riuniscono proprio oggi a Parigi per varare una strategia sui flussi migratori. «Non serve a nulla dare spiccioli, qualche decina di milioni: per contrastare le migrazioni dobbiamo varare un grande piano Ue per l’Africa», afferma Tajani forte della pressione che negli ultimi mesi l’aula di Strasburgo ha saputo esercitare su governi e Commissione europea.

Presidente Tajani, cosa si aspetta dal vertice di Parigi?«Quello che conta è che facciano un passo avanti verso la soluzione dei problemi legati alle migrazioni».

Quattro paesi possono dare risposte senza gli altri partner Ue?
«Chiaramente serve una strategia europea, ma trovo giusto che i governi che hanno un ruolo fondamentale in Europa prendano la guida dell’Unione e provino a trascinare gli altri verso una soluzione».

A suo giudizio come si risolve la questione dei flussi?
«Con decisioni di breve e di lungo termine. L’Europa ha dato sei miliardi alla Turchia per chiudere la Rotta balcanica. Ecco, è arrivato il momento di fare lo stesso con la Libia: diamo subito alla Libia 6 miliardi di euro e poi investiamo in una strategia complessiva per l’Africa».

Finora si è detto che era impossibile dare soldi a Tripoli perché il Paese è instabile e il governo, al contrario di quello turco, non controlla il territorio.
«Questi soldi servirebbero anche a favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli».

In che termini?
«Il generale Haftar potrebbe diventare il capo delle forze armate libiche e il premier Al Serraj potrebbe mantenere la leadership politica. Ma andrebbero coinvolte tutte le tribù, in particolare quelle del Sud».

I soldi andrebbero solo alla Libia o anche ai paesi confinanti che devono chiudere la Rotta del Sahel?
«Naturalmente parte dei sei miliardi dovrebbero andare anche a Niger e Ciad per chiudere il corridoio libico. Il presidente del Ciad, tra l’altro, mi ha detto che nei prossimi mesi l’Isis potrebbe far entrare in Europa proprio da quella rotta foreign fighters che sta arruolando nel Sahel per fare attentati nel nostro continente. Per questo serve subito un investimento europeo capace di chiudere la rotta e costruire campi in Ciad e Niger sotto l’egida dell’Onu dove accogliere i migranti. Stessa cosa andrà fatta anche in Libia appena sarà stabilizzata».

E i diritti umani?
«Ovviamente questi soldi dovrebbero finanziare la costruzione di strutture Onu capaci di rispettare i diritti dei migranti, di curarli e di sfamarli».

È d’accordo con chi chiede che la loro posizione sia esaminata in loco e che chi ha diritto alla protezione internazionale venga portato direttamente in Europa?
«Certo, chi è perseguitato, come ho visto con i cristiani che scappavano da Mosul per non essere decapitati, deve essere accolto. Farlo è un nostro dovere e va bene se accogliamo chi ancora si trova in Africa».

Parlava anche di un piano Ue a lungo termine.
«Dovremmo fare campagne di informazione nei paesi di origine e transito per scoraggiare le partenze visto che chi si mette in cammino pensa di trovare il Bengodi mentre poi rischia di morire nel deserto o in mare oppure, se ce la fa, finisce a fare lo schiavo in campagna. E poi sì, serve un piano europeo di lungo termine: a luglio il Parlamento ha sbloccato 4 miliardi per progetti in Africa, ma non basta. Servono 50-60 miliardi freschi che grazie all’effetto leva dei privati potrebbero mobilitare fino a 500 miliardi. Con questi soldi potremmo finanziare progetti in tutta l’Africa con un approccio economico, non di puro sfruttamento come fanno i cinesi, per rilanciare l’economia del continente e contrastare le cause che spingono le persone a partire verso l’Europa. Ovviamente i soldi andrebbero concessi solo dietro un sistema di monitoraggio di programmi e spesa. È questo il modo in cui la politica si prende le sue responsabilità, altrimenti che facciamo, continuiamo con le polemiche sugli sgomberi a Roma e magari diamo la colpa alla Polizia? O andiamo avanti con le liti elettorali sullo ius soli?».

Come si risolve il problema della cittadinanza?
«È inutile mettere queste persone in mezzo alla campagna elettorale, lascerei stare e spingerei per una norma europea. D’altra parte chi diventa cittadino italiano diventa anche cittadino europeo».


Un panorama degli scontri tra i suprematisti bianchi di estrema destra e gruppi antirazzisti, da Charlotteville alle successive marce sparse nei vari stati, da una serie di articoli dell'

Internazionale, 25 agosto 2017 (i.b.)


Premessa

Il 12 agosto scorso a Charlottesville, in Virginia i sostenitori della supremazia bianca, costituiti da nazionalisti bianchi, neonazisti e membri della Ku Klux Klan, scendono nel campus universitario per protestare contro il piano della città per abbattere i monumenti degli Stati Confederati, in particolare della statua del generale Robert E. Lee. La marcia suprematista ha scatenato la reazione degli antifascisti e lo scontro è rapidamente diventato violento. Tre persone sono state uccise (contando coloro che sono morti nell'incidente dell'elicottero di stato che si è schiantato) e decine di altre sono state ferite.

Vale la pena ricordare che gli Stati Confederati, un’ istituzione composta da sette stati americani, dichiarò la propria secessione dagli Stati Uniti D'America nel 1861, per mantenere la schiavitù. La questione della preservazione o abbattimento di questi monumenti, simboli della lotta contro la fine della schiavitù e il dominio bianco, è diventato un tema caldo negli ultimi anni. Dopo l’uccisione di massa nella chiesa di Charleston nel 2015, perpetuata da Dylann Roof, che si autodefinì suprematista bianco e posò con la bandiera degli Stati Confederati, una serie di città e stati hanno cominciato a mettere in discussione i monumenti alla Confederazione. Visti non solo come celebrazione dell’orgoglio sudista, ma anche simboli di una Confederazione che ha combattuto per mantenere la schiavitù e la supremazia bianca in America, la contesa su questi monumenti rappresenta qualcosa di molto più prodondo, è la lotta tra due culture contrapposte. Con una destra razzista che si è vista legittimata dall’elezione di Trump. Si legga a questo proposito, qui di seguito, l’articolo di Paul Mason.

L’episodio di Charlottesville non è un fatto isolato. Lo hanno confermato gli eventi che ne sono seguiti. Il 19 Agosto a Boston, dove i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”, si è svolta invece una contro manifestazione. Se a Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate” in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederali. Il 22 agosto 2017 è stata la volta di Phoenix, in Arizona, dove la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e spray al peperoncino per disperdere i manifestanti che si erano radunati davanti al Convention Center per protestare contro il presidente Donald Trump, che stava tenendo un discorso. Quattro persone sono state arrestate. Secondo la versione del dipartimento di polizia di Phoenix, gli agenti hanno caricato i manifestanti dopo essere stati attaccati con pietre e lacrimogeni. I manifestanti sostengono invece che la polizia ha reagito in modo sproporzionato al lancio di alcune bottiglie d’acqua. Sabato a San Francisco, un gruppo di destra di fronte a una resistenza su larga scala, ha annullato un incontro vicino al Golden Gate Bridge, ma gli anti fascisti hanno marciato comunque per ribadire che lì i neo-nazisti ei suprematisti bianchi non sono benvenuti. Altre manifestazioni, discorsi, rally - pro o contro il dominio bianco, e pro e contro Trump - si stanno tenendo in molte località.

Se da una parte il messaggio elettorale nazionalista di Trump dà forza non solo ai conservatori, ma anche ai neonazisti, negli Stati Uniti esiste anche una forte anima antinazista e antirazzista e ci sono decine di gruppi antifascisti, gli unici spesso a contrastare le organizzazioni di suprematisti bianchi. Si leggano qui di seguito gli articoli ripresi dal New York Time e dal The Guardian sulle mobilitazioni per contrastare il razzismo e la violenza, e i vari gruppi attivi sui vari territori, con un approfondimento sui Redneck Revolt, un gruppo antirazzista, anticapitalista, ma favorele alle armi. (i.b.)

LA GUERRA CULTURALE
DELLA DESTRA AMERICANA
di Paul Mason

Le memorie del generale unionista William Tecumseh Sherman sono una lettura sgradevole. Nonostante combattesse per gli stati dell’Unione, Sherman si oppose all’emancipazione degli schiavi, sabotò il tentativo di liberarli da parte delle sue stesse truppe e li usò per costruire le sue fortificazioni. Ma fece anche un’altra cosa che può servirci da lezione, alla luce della marcia fascista di Charlottesville: scatenò una guerra totale contro i suoi nemici degli stati del sud. Ordinò alle truppe di fare a pezzi chilometri di ferrovie, dare fuoco alle fattorie dei proprietary di schiavi che facevano resistenza e bruciare Atlanta. Dopo aver visto gli estremisti di destra che nei giorni scorsi hanno silato per le strade di Charlottesville con elmetti e fucili d’assalto, ovviamente nessuno vorrebbe mai che gli Stati Uniti sprofondassero in un’altra guerra.

Ma i conflitti culturali che caratterizzano l’America di oggi ricordano in parte il periodo precedente alla guerra civile. Come ha fatto notare lo storico Allan Nevins, alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento l’America bianca era composta da “due popoli” culturalmente molto diversi e che avevano due modelli economici contrapposti: l’industria e il libero mercato contro la mezzadria e la schiavitù. I concetti che i confederati portavano con sé in battaglia hanno resistito fino a oggi: i diritti dei singoli stati contro il governo federale, la supremazia bianca, l’idea di una nazione fondata sulla religione.

Non è un caso se queste idee sono sopravvissute. La statua del generale confederato Robert E. Lee, che il comune di Charlottesville ha deciso di rimuovere, è considerata un simbolo da difendere per i gruppi di estrema destra, che si sentono legittimati dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre.C on le bandiere confederate che a Charlottesville sventolano accanto a quelle con le svastiche, i progressisti di tutto il mondo devono farsi una domanda: cosa siamo pronti a fare per sconfiggere la destra razzista?

Gli estremisti di destra hanno scatenato una Guerra culturale. “Questa comunità è di estrema sinistra”, ha dichiarato Jason Kessler, l’organizzatore della Marcia Unite the right (Uniamo la destra), aggiungendo che gli abitanti di Charlottesville hanno “assimilato i princìpi marxisti difusi nelle città universitarie che tendono a dare la colpa di tutto ai bianchi”. Non è una richiesta d’aiuto, è l’espressione della stessa ostilità culturale alla modernità che possiamo ritrovare negli scritti dei leader politici sudisti.

Tutti gli studi fatti dopo le elezioni hanno rivelato che la coalizione di Trump ha conquistato consensi dopo che ha permesso a milioni di persone di esprimere il loro razzismo e la loro violenta misoginia. Eleggendo Trump, i suoi sostenitori hanno dichiarato una guerra culturale alla sinistra moderata e contro il movimento antirazzista Black lives matter. L’atteggimento del presidente in seguito all’omicidio di Heather Heyer, l’attivista antifascista investita dal suprematista James Alex Fields, non è casuale.

Alla Casa Bianca inoltre ci sono persone legate all’estrema destra come Sebastian Gorka. L’intero movimento dei sostenitori di Trump alimenta il razzismo, non lo combatte. Carl Paladino, imprenditore e sostenitore del presidente, di recente ha dichiarato che Michelle Obama “dovrebbe tornare a essere un maschio ed essere abbandonata nella savana dello Zimbabwe dove potrà vivere con Maxie il gorilla”.

Nell’ultimo anno della guerra civile il generale Sherman, pur essendo un razzista, capì che l’unico modo per allontanare la popolazione del sud dal suo modello economico basato sulla schiavitù era distruggere le infrastrutture che lo sostenevano. Oggi sembra che non esista più alcuna infrastruttura del razzismo americano, ma non è così. Ci sono le regole della polizia, secondo le quali basta la presenza di un nero in un quartiere di bianchi per fare una perquisizione, c’è la criminalizzazione dei giovani neri attraverso il sistema giudiziario, c’è una segregazione nascosta nella vita pubblica e ci sono gli atteggiamenti razzisti dei mezzi d’informazione, da Fox News fino ai programmi radiofonici locali.

Tutte le persone che hanno mostrato il loro volto durante le fiaccolate fasciste hanno il diritto costituzionale a esprimere la loro opinione. Ma usano anche siti gestiti da aziende americane e hanno lavori, telefoni, contratti, conti bancari. Non c’è alcun diritto sancito dalla costituzione a usare le infrastrutture statunitensi per organizzare delle violenze. E, al di là di tutto, la principale istituzione che legittima le azioni violente dell’estrema destra è la presidenza Trump.

Charlottesville è il campanello d’allarme per i progressisti di tutto il mondo. Che vi troviate in una città universitaria o in una città multietnica colpita dalla povertà, Kessler e i suoi alleati si stanno mobilitando per punire la vostra comunità, responsabile di sostenere il “marxismo culturale”. Se qualcuno scatena una guerra culturale contro di te, prima o poi ti devi difendere.

GLI STATUNITENSI IN PIAZZA
CONTRO IL NAZIONALISMO
The New York Times, Stati Uniti

Il 19 agosto decine di migliaia di manifestanti, spinti dalla preoccupazione per la violenza esplosa una settimana prima a Charlottesville, in Virginia, hanno sfilato in decine di città in tutti gli Stati Uniti per protestare contro il razzismo, il suprematismo bianco e il nazismo.

Queste mobilitazioni avvengono mentre il paese si ritrova ad affrontare i temi del razzismo e della violenza e si chiede cosa fare con i simboli della confederazione (l’unione degli stati favorevoli alla schiavitù durante la guerra di secessione del 1861). Il presidente Donald Trump, criticato aspramente dopo aver dichiarato che a Charlottesville “la colpa è stata di entrambi gli schieramenti”, ha scritto un tweet il 19 agosto per “complimentarsi con tutti i manifestanti di Boston che si sono schierati contro l’odio e il fanatismo. Il nostro paese tornerà presto a unirsi”. Poi ha aggiunto: “A volte servono le proteste per guarire, e noi guariremo e saremo più forti che mai”.

A Boston i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”. In risposta migliaia di persone convinte che l’evento sarebbe servitor a fare propaganda per neonazisti e nazionalisti, hanno partecipato in massa a una contromanifestazione. Si sono presentati al

Boston Common, il parco dove si doveva svolgere il raduno di destra, alcune ore prima e hanno trovato volantini con simboli neonazisti. “Sono qui per quello che è successo a Charlottesville”, ha detto Rose Fowler, 68 anni, insegnante in pensione afroamericana. “Qualcuno è stato ucciso mentre lottava per i miei diritti. Perché non dovrei lottare per me stessa e per gli altri?”.

A Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate”. A Hot Springs, in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederati. Molti passanti si sono fermati per protestare contro Trump e l’odio razziale.

Tre persone sono state arrestate. Intorno alle 13 a Charlottesville, in una strada secondaria, l’umore era cupo mentre si ricordava Heather Heyer, l’attivista antirazzista morta il 12 agosto dopo essere stata investita da una macchina guidata da un nazionalista. Susan Bro, la madre di Heather, era in piedi davanti a un memoriale di iori e candele, in lacrime e appoggiata al marito.

Contenere la rabbia

A Dallas, dove nel 2016 un uomo aveva ucciso cinque agenti durante una manifestazione degli attivisti neri, le forze dell’ordine hanno formato una barriera con autobus e camion intorno agli antirazzisti, per “mettere in sicurezza” l’area e impedire alle automobile di avvicinarsi. Al tramonto intorno a uno dei monumenti confederati della città si è scatenata una battaglia di urla e slogan, ma non ci sono stati episodi di violenza.

I poliziotti sorvegliavano la situazione da vicino e gli elicotteri sorvolavano la zona. A un certo punto sono arrivate alcune persone armate di fucili e in tuta mimetica. Un rappresentante del gruppo, chiamato Texas Elite III%, ha detto che non facevano parte di nessuno dei due schieramenti ma erano lì per garantire la sicurezza.

In tutto il paese le autorità stanno cercando di contenere la rabbia che accompagna il dibattito sui monumenti confederati.

Il 20 agosto l’università di Duke, nel North Carolina, ha annunciato di aver rimosso una statua del generale confederato Robert E. Lee dall’ingresso della cappella del campus di Durham. “Ho preso questa decisione per proteggere la cappella e per garantire la sicurezza degli studenti, e soprattutto per ribadire i valori dell’ateneo”, ha scritto il rettore Vincent Price in un’email agli studenti.

Price ha precisato che la statua sarà “conservata in modo che gli studenti possano studiare il complesso passato della Duke e creare un futuro senza conlitti”.

BIANCHI, ARMATI E ANTIFASCISTI
di Cecilia Saixue Watt

Alla grigliata ci sono pasti gratuiti, un banchetto dove dipingersi la faccia e una postazione che prepara “cartelli di protesta” con una pila di scatole di cartone ritagliate, pennarelli e rotoli di nastro adesivo. Alcuni bambini del quartiere – nessuno ha più di dodici anni – si fermano li davanti. Vogliono dei cartelli da attaccare alle biciclette per andare in giro e “dire a Trump” quello che pensano di lui. Uno prende un pezzo di cartone e ci scrive sopra a caratteri cubitali: “Trump è una puttana”.

Max Neely interviene subito. “Sarebbe meglio non usare quella parola”, dice in tono paterno. Con il suo metro e ottantacinque li sovrasta tutti. “È offensiva nei confronti delle donne, e oggi qui ce ne sono tante che meritano rispetto. Forse dovreste scegliere un’altra frase”. I bambini si consultano, alla fine decidono per una frase meno ofensiva: “Fanculo Trump!!!!”.

Neely, un attivista di 31 anni con i capelli lunghi e la barba folta, ha davanti a sé una lunga giornata di lavoro: Donald Trump è qui a Harrisburg, in Pennsylvania, per celebrare i primi cento giorni alla Casa Bianca con un discorso nel complesso fieristico degli agricoltori. In altre zone della città, l’opposizione di sinistra si sta preparando: gruppi come Keystone Progress, Dauphin County Democrats e Indivisible hanno in programma una manifestazione di protesta.

Il gruppo di Neely non è con loro. Ha preferito organizzare un picnic in un piccolo parco, con barbecue gratuito e volantinaggio. Qualcuno ha piantato nell’erba una bandiera rossa su cui sono disegnate falce e martello. Da un tavolo vicino pende uno striscione nero con la scritta “Redneck Revolt: contro il razzismo, per il lavoro, a favore delle armi”. “Se per caso non lo avesse notato, non siamo dei moderati”, dice Jeremy Beck, uno degli amici di Neely che si occupa della cucina. “Se ti spingi molto a sinistra, alla fine arrivi così a sinistra da riprenderti le armi”, di sicuro non sono progressisti dalle idee confuse. La Redneck Revolt è un’organizzazione nazionale di politici della classe contadina e operaia che si sono riappropriati della parola redneck, un termine storicamente usato in senso spregiativo per indicare i rozzi contadini del sud degli Stati Uniti che avevano il “collo rosso” perché lavoravano nei campi sotto al sole. Sono antirazzisti militanti. Non è un gruppo costituito esclusivamente da bianchi, anche se s’interessa soprattutto dei problemi dei bianchi poveri. I princ.pi dell’organizzazirne sono decisamente di sinistra: contro il razzismo e i suprematisti bianchi, contro il capitalismo e lo statonazione, a favore degli emarginati.

La Pennsylvania è uno degli stati in cui è ammesso per legge l’open carry, cioè girare per strada con un’arma in vista. Per gli attivisti di Redneck Revolt poter portare un’arma è un’affermazione politica: una pistola in vista serve a intimidire gli avversari e ad afermare il diritto ad averla. Molti di quelli che oggi sono alla grigliata possiedono un’arma, e avevano pensato di portarla con sé, ma alla fine ci hanno rinunciato, perché vogliono che all’evento partecipino le famiglie.

La Redneck Revolt è nata nel 2009 come una costola del John Brown gun club, un progetto di addestramento all’uso delle armi da fuoco con sede in Kansas. Dave Strano, uno dei suoi fondatori, vedeva una grande contraddizione nel Tea party, il movimento ultraconservatore, che all’epoca muoveva i primi passi. Molti attivisti del Tea party erano lavoratori che avevano sofferto a causa della crisi economica del 2008. Accusavano l’1 per cento dei più ricchi del paese di aver causato quella situazione, ma poi accorrevano in massa ai raduni inanziati da quelle stesse persone. Appoggiando i politici di idee conservatrici in economia, pensava Strano, sarebbero stati ulteriormente manipolati per fare gli interessi dei più ricchi. “Quella della classe operaia Bianca è sempre stata una storia di sfruttamento”, scriveva su un sito di anarchici. “Ma siamo gente sfruttata che a sua volta sfrutta altri sfruttati. Viviamo nelle case popolari delle periferie da secoli, e siamo stati usati dai ricchi per attaccare i nostri vicini, colleghi di lavoro e amici, di religione, pelle e nazionalità diverse”.

Otto anni dopo, in tutti gli Stati Uniti ci sono più di venti sezioni della Redneck Revolt: i gruppi variano molto per dimensioni, alcuni hanno solo una manciata di iscritti. Neely è iscritto alla sezione Masondixon, che comprende la Pennsylvania centrale e il Maryland occidentale, dove è nato. Molti degli iscritti sono bianchi, ma l’organizzazione cerca di costruire un’identità che vada oltre l’appartenenza etnica. “Sono cresciuto giocando nei boschi, facendo galleggiare bottiglie di birra sul fiume, sparando bengala. Insomma, facendo un bel po’ di casino”, racconta Neely. “Tutte cose che molti considerano parte della nostra cultura. Stiamo cercando di capire gli errori che abbiamo commesso accettando la supremazia bianca e il capitalismo, ma stiamo anche creando un ambiente che riletta la nostra cultura”.

La Redneck Revolt si rifà alla Young Patriots Organization, un gruppo di attivisti degli anni sessanta formato essenzialmente da operai bianchi della zona dei monti appalachi e del sud. “Ammiro gli attivisti della Redneck Revolt”, dice Hy Thurman, uno dei fondatori dei young patriots. “Penso che stiano andando nella direzione giusta”. Il suo gruppo era antirazzista ed era in stretti rapporti con gli attivisti delle Pantere nere, ma nelle sue campagne di reclutamento usava la bandiera dei confederati, simbolo del sud schiavista durante la Guerra civile. Thurman mi ha spiegato che la usavano solo per entrare in contatto con i bianchi poveri che s’identiicavano con quell simbolo. Allo stesso modo, oggi la Redneck Revolt sfrutta un altro emblema dell’america contadina: le armi. Molti dei suoi iscritti vivono in posti dove avere una pistola o un fucile è abbastanza normale. E Neely vorrebbe che la sua organizzazione diventasse un’alternativa accettabile per le persone che altrimenti potrebbero unirsi alle milizie di destra.

Dall’assedio di Ruby Ridge del 1992 – quando la casa di un suprematista bianco fu assediata nove giorni dalla polizia e nello scontro morirono tre persone – negli Stati Uniti c’è stata una proliferazione di organizzazioni paramilitari antigovernative. Gli Oath Keepers, per esempio, sono una milizia che afferma di voler difendere la costituzione minacciata dal governo federale. Sostengono di non essere politicamente schierati, ma le loro idee sono decisamente di destra. Durante le elezioni presidenziali del 2016 hanno annunciato che avrebbero controllato i seggi per impedire manipolazioni del voto, affermando di “essere preoccupati soprattutto per i tentativi di brogli da parte della sinistra”. Ma gruppi come gli Oath Keepers hanno molto in comune con alcune organizzazioni di sinistra: denunciano le violazioni dei diritti umani, sono contrary alla sorveglianza di massa e al Patriot Act (la legge antiterrorismo approvata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001) e s’indignano per la povertà che aligge la classe operaia.

“Usiamo la cultura delle armi per entrare in contatto con la gente”, dice Neely, il cui nonno era un cacciatore. “Non abbiamo niente a che fare con l’elitismo dei progressisti. Il nostro messaggio fondamentale è: le armi vanno bene, il razzismo no”.

Famiglia proletaria

“Sono preoccupato per Pikeville”, dice Neely. “Ho degli amici lì”. Pikeville è una cittadina del Kentucky, nel cuore della regione degli appalachi. Non ha un aeroporto internazionale né interstatale, ha una popolazione di diecimila abitanti e tanti idilliaci paesaggi di montagna. Ha sempre basato la sua economia sul settore minerario, ma punta anche sul turismo: ogni anno a metà aprile più di centomila persone arrivano per partecipare all’hillbilly days festival, che celebra la cultura e la musica degli appalachi.

Quest’anno per., una settimana dopo la fine del festival, l’atmosfera a Pikeville è decisamente diversa. Lo stesso giorno in cui Trump è a Harrisburg, in città è previsto l’arrivo dei neonazisti. Il Nationalist front – un’alleanza di gruppi di suprematisti bianchi di estrema destra – ha programmato una manifestazione davanti al tribunale. “Schieratevi dalla parte dei lavoratori bianchi”, si leggeva sul volantino che circolava online. “Questo è l’inizio di un processo di costruzione e allargamento delle nostre radici nelle comunità di lavoratori bianchi per diventare i difensori del nostro popolo”, ha scritto il neonazista Matthew heimbach sul Daily Stormer, un sito neonazista.

Il Nationalist Front considera la contea di Pike – cronicamente povera e abitata in grande maggioranza da bianchi – un terreno fertile per le sue ideologie. In realtà da qualche anno Pikeville se la sta cavando meglio, ma tutte le località intorno sono in difficoltà. Il tasso di disoccupazione della contea è tra i più alti del paese, sopra il 10 per cento. Nelle elezioni presidenziali Trump ha saputo sfruttare questa disperazione con la sua retorica a favore della classe operaia e contro gli immigrati, e ha ottenuto l’80 per cento dei voti. Heimbach spera di usare questo consenso per creare un movimento nazionalsocialista. “Abbiamo organizzato questa manifestazione perché ci stanno a cuore gli abitanti della contea”, dice Jef Schoep, capo del gruppo neonazista National Socialist Movement, in un video girato per pubblicizzare il raduno. “Abbiamo visto fabbriche chiuse, gente che ha perso il lavoro, famiglie disperate che hanno cominciato a usare droghe e a fare altre cose che non dovrebbero fare.

Vogliamo ridare speranza alla gente. Qualcosa per cui combattere”. Quel qualcosa è uno stato etnico bianco, ma la maggior parte degli abitanti di Pikeville non sembra interessata. Il consiglio comunale ha autorizzato la manifestazione del Nationalist Front citando il diritto alla libertà di espressione sancito dalla costituzione statunitense, ma il sindaco Donovan Blackburn ha anche rilasciato una dichiarazione a favore della pace e del rispetto per la diversità. Gli student universitari hanno organizzato una contromanifestazione di protesta, che per. è stata quasi subito annullata per motivi di sicurezza: le autorità accademiche temevano che lo scontro tra i nazionalisti e gli antifascisti – o antifa – potesse diventare violento.

Cresciuti in Europa in vari momenti del novecento, gli antifascisti rappresentano il fronte compatto della sinistra che si contrappone ai nazionalisti: un’allenza di anarchici, comunisti e attivisti di altri movimenti decisi a sradicare il fascismo con ogni mezzo, compresi quelli violenti, che giustiicano con la violenza intrinseca del fascismo. Usano spesso la tattica del Black Bloc di indossare maschere e vestirsi completamente di nero per non essere identiicati dalla polizia.

Negli Stati Uniti i gruppi antifascisti non sono mai stati attivi come quelli, per esempio, che ci sono in Grecia. Ma dopo l’elezione di Trump, e la successiva ondata di crimini d’odio commessi da gruppi di destra, si sono subito mobilitati. All’inizio di febbraio, due settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, c’è stata una manifestazione di antifascisti nel campus dell’università di Berkeley, in California, per impedire a Milo Yiannopoulos, ideologo dell’estrema destra, di tenere un discorso.

“Viviamo in un momento storico in cui c’è una disuguaglianza economica senza precedenti, e le persone faticano a tirare avanti”, dice Sidney (non è il suo vero nome), un antifascista degli appalachi che tiene d’occhio l’attività dei nazionalisti bianchi nella sua zona. “Quando i governi non fanno nulla per cambiare la situazione, la gente cerca una risposta altrove. Il fascismo sta risorgendo perché siamo in questo momento storico. Il problema non si risolverà lasciandoli in pace. Come lasciare in pace un’infezione”. Sidney, un ragazzo di 27 anni della Virginia, viene da una famiglia di minatori. Divide il suo tempo tra il lavoro come installatore di strutture in cartongesso e l’attivismo per la Redneck Revolt. “Pikeville ha attirato la mia attenzione”, dice. “Il Traditionalist Worker Party, di estrema destra, si sta mobilitando molto nella regione. Io non sono del Kentucky, ma vengo da una famiglia proletaria degli appalachi, e questa cosa non mi va giù”.

Per convincere i gruppi antifascisti a non indossare maschere – come fanno spesso durante le manifestazioni – le autorità di Pikeville hanno emesso un’ordinanza che vieta di a chiunque abbia più di 16 anni di andare a volto coperto nel centro della città. I manifestanti antifascisti dovranno girare a volto scoperto, e questo potrebbe essere pericoloso: i gruppi neonazisti usano software per il riconoscimento facciale e altri sistemi per identificare le persone che li contestano e acquisire informazioni che poi usano per attaccarli.

“Noi della Redneck Revolt in genere manifestiamo a volto scoperto”, dice Sidney. “Vogliamo conquistare il sostegno della comunità, ed è più facile riuscirci se tutti sanno chi siamo”. Ma Sidney ha un’altra preoccupazione: anche in Kentucky è legale girare armati in pubblico, e Hheimbach ha invitato gli iscritti del Nationalist Front a presentarsi armati sul luogo della manifestazione in vista di “possibili attacchi della sinistra”. Sidney ha deciso che porterà la sua pistola, una semiautomatica Smith & Wesson, ma la terrà nascosta. Alcune persone del posto avrebbero preferito che se ne fossero stati tutti a casa, sia i neonazisti sia gli antifascisti. “Non posso biasimarli se la pensano così”, dice Sidney. “Si ritrovano questo enorme scontro ideologico sulla porta di casa e non lo hanno chiesto loro”.

Poco dopo mezzogiorno un folto gruppo di manifestanti antifascisti – alcuni armati, altri in giubbotto antiproiettile – si dirige verso il tribunale pronto ad affrontare il Nationalist Front. Ma trova solo una decina di nazionalisti bianchi che li aspetta in una piccola zona transennata dalla polizia. Sono della Lega del Sud, un’organizzazione che promuove la secessione degli stati meridionali degli Stati Uniti. Le due principali delegazioni del Nationalist Front – Traditionalist Worker Party e National Socialist Movement – non ci sono. Gira voce che si siano persi. “Non mi sorprende, visto che non sono di queste parti”, dice Sidney.

Arrivano i nazisti a Harrisburg, intanto, sei giovani nazionalisti bianchi si avvicinano alla cucina da campo di Neely. Sono ben pettinati e indossano tutti una polo bianca, come se fosse un’uniforme. Neely si rivolge a loro con circospezione chiedendo se sono interessati al socialismo. No, rispondono. dicono di far parte di Identity Evropa, un gruppo che chiede la segregazione razziale e ammette solo persone di “origine europea non semitica”. Hanno sostenuto la candidatura di Trump, ma ora sono a Harrisburg per protestare contro di lui. Sono delusi perché il president non sta facendo abbastanza per creare uno stato etnico bianco.

Neely vuole tenerli lontani dalla cucina. Una giornata per famiglie e molti dei partecipanti al picnic sono giovani attivisti neri della scuola locale. Neely sa che potrebbero cavarsela da soli, ma difendere il diritto a esistere contro persone che negano la tua umanità è sempre un compito difficile. Perciò, mentre i suoi amici li tengono d’occhio dall’altra parte della strada, Neely li lascia parlare della loro ideologia, di come gli Stati Uniti erano destinati solo ai bianchi, del fatto che la cultura bianca è sotto attacco. Discute con loro nel modo più educato possibile, sperando che la situazione non degeneri, tanto che loro lo ringraziano di essere così calmo e civile. “Facile restare calmo quando sei bianco”, dice Neely. “. facile quando non è in gioco la tua vita o quella della tua famiglia”. L’incontro si conclude in modo piuttosto brusco quando tre ragazze del posto cacciano via i nazionalisti bianchi.

Nel 2014, durante le proteste contro le violenze della polizia a Ferguson, nel Missouri, esponenti armati degli Oath Keepers si piazzarono sui tetti, sostenendo di voler proteggere i manifestanti dalla polizia. Ma molti attivisti neri erano spaventati da quegli uomini bianchi armati pesantemente.

Quando gli attivisti della Redneck Revolt si presentano alle manifestazioni dei neri, invece, di solito è perché sono stati invitati. “Sono il nostro servizio d’ordine”, dice Katherine Lugaro, leader di This Stops Today, un gruppo per i diritti dei neri di Harrisburg. “Sono un muro tra noi e quelli che ci odiano. rischiano la vita per noi”.

A Pikeville, un’ora dopo l’inizio previsto della manifestazione, una roulotte entra nel parcheggio in fondo alla strada. Sono Heimbach e gli altri neonazisti. Un centinaio di persone che indossano vestiti neri coperti di simboli nazisti marcia verso il tribunale. Nelle prime file, molti sono armati. Altri portano scudi di legno decorati con svastiche e simboli celtici. Qualcuno ha uno scudo con l’immagine di Pepe the Frog (la rana simbolo dall’estrema destra online) e le parole “Pepe über alles”, Pepe sopra ogni cosa, un riferimento all’inno nazionale tedesco. Fanno il saluto nazista a Heimbach. Gli antifascisti sono il doppio di loro.

Poi cominciano i lunghi comizi dei neonazisti, che vengono coperti dalle grida degli antifascisti. Un gruppo di persone ascolta i discorsi del Nationalist front dietro le transenne piazzate dalla polizia. Ma quasi tutti i residenti di Pikeville si sono uniti agli antifascisti, e intonano i loro slogan. “Sono quelli che strillano di più”, dice Sidney. “Immagino che la maggior parte non s’interessi di politica, forse sono conservatori, ma capiscono che c’è un limite”.

Nessun ferito, nessunfa sparatoria. I neonazisti iniscono i loro discorsi e tornano alla roulotte. La forte presenza della polizia è riuscita a tenere separati i due gruppi e a impedire qualsiasi possibilità di scontro. Tutto finito. A Harrisburg scende la notte. Max Neely e i suoi si riuniscono in un bar. Bevono birra e parlano di hockey. Poi si spostano in una saletta privata per fare il bilancio della giornata.

Si siedono intorno a un posacenere e fumano una sigaretta dopo l’altra commentando educatamente a turno gli eventi. Ci sono molte cose da discutere. In mattinata un uomo che protestava contro Trump è stato arrestato, con l’accusa di aver avuto una discussione violenta con un poliziotto a cavallo, e il gruppo vuole dargli il suo sostegno. Tra due giorni ci sarà una manifestazione per i diritti degli immigrati. E poi devono decidere cosa fare per il festival dell’orgoglio della Pennsylvania centrale. Intorno a loro, le pareti della stanza sono coperte di bandiere statunitensi.

«Il Paese, che negli ultimi anni ha sempre esercitato potere e influenza oltre i confini, continua a essere oscurantista ed epurare chiunque dissenta».

il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2017 (p.d.)

Ciò che più colpisce nell’immenso palazzo di re Dario a Persepoli (V sec. a.C.) è la scalinata d’accesso: i gradini bassissimi, del tutto incongrui in rapporto a tanta magnificenza, furono voluti dal re – pare – affinché i dignitari e i sovrani in visita, impacciati da vesti e paramenti, non avessero a fare capitomboli.

Evidentemente immemore di tale insegnamento, così come dell’attenta politica di apertura varata da Barack Obama, la diplomazia americana fa oggi il passo più lungo della gamba, e minaccia l’Iran di nuove sanzioni in virtù di presunte violazioni dell’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra nel 2015: un accordo, comunque la si pensi, vitale per la stabilità della regione. Tassello essenziale della retorica incendiaria di Donald Trump, rinterzata per l’occasione dai timori dell’anziano Henry Kissinger circa il sorgere di un “nuovo impero persiano” dopo la sconfitta dell’Isis, l’attacco a Teheran appare quanto meno temerario, e non meno scomposto della recente messa al bando del Qatar (accusato di collusione proprio con l’Iran) da parte di vari Paesi del Golfo all’indomani della visita dello stesso Trump in Arabia Saudita.

L’attacco sul nucleare – preludio per molti a escalation di tipo coreano, specie dopo il Muslim ban – segue infatti l’insediamento del nuovo governo del rieletto presidente Rohani, un esecutivo moderato e di sostanziale continuità, tristemente privo di donne (salvo le tre vicepresidenti), e determinato a proseguire l’alleanza strategica con Russia e Turchia, che in questi giorni d’agosto ha già sfornato accordi miliardari per trivellazioni nel Caspio, colloqui bilaterali (e riservati) tra capi di Stato maggiore, e forti iniziative diplomatiche per risolvere la crisi yemenita e quella siriana (i proficui colloqui di Astana).

Se l’Europa, anche per i propri interessi energetici, appare più prudente (la recente, fortunata visita di Federica Mogherini al Parlamento di Teheran è culminata in un’imbarazzante gara dei deputati a farsi un selfie con la bionda lady Pesc (gli ayatollah non hanno gradito), gli Stati Uniti sembrano non aver inteso che la faccia feroce contro il regime iraniano può rivelarsi in realtà la strada migliore per rafforzarlo, indebolendo la crescente insofferenza interna in virtù dell’unità nazionale e dell’antiamericanismo diffuso. Nessuno qui ha dimenticato che fu la Cia – di concerto con gli ayatollah più retrivi – a rovesciare nel 1953 il governo più progressista e modernizzatore del secolo, quello di Mohammad Mossadegh, reo di voler nazionalizzare le risorse energetiche iraniane sottraendole al latrocinio delle compagnie occidentali.

Ed è opinione diffusa che la stessa rivoluzione khomeinista del 1979 – i cui esiti finali spiazzarono, o talora condannarono a morte, tanti suoi iniziali fautori – sia stata inizialmente avallata, se non orchestrata, anche nell’ambasciata di via Talaqani, il “covo di spie” già teatro di un celebre, lunghissimo sequestro che costò la rielezione al presidente Jimmy Carter. In quell’edificio oggi regnano i pasdaran del regime, che hanno dipinto sui muri una Statua della Libertà col volto della Morte; e proprio dirimpetto, la caserma delle Guardie della Rivoluzione esibisce le gigantografie dei caduti dal 1979 in poi accanto a quelle, recentissime, dei martiri della guerra contro l’Isis (che a Teheran ha messo a segno due sanguinosi attentati il 7 giugno scorso): una guerra che senza l’Iran e le milizie sciite di Hezbollah difficilmente si può vincere.

Lungo le strade delle città iraniane, così come nella valle della Bekaa (la parte del Libano in mano a Hezbollah, ai piedi delle rovine romane di Baalbek), le lunghe teorie di foto di giovani caduti – soprattutto nel conflitto con l’Iraq (1980-88) – rammentano quale ruolo giochi nella cultura sciita il mito del martirio. “Morire da martire vuol dire iniettare sangue nelle vene della società”, recitavano gli slogan degli anni ‘80. Proprio un’eroica sconfitta, quella patita dal nipote di Maometto, Hussein ibn Ali, nel 680 d.C. a Kerbala in Iraq, è del resto l’atto fondativo della fede sciita, al punto che quadratini di terra di Kerbala (la stessa terra che dal 2003 ha assorbito il sangue copioso delle sfortunate truppe d’occupazione americane) sono a disposizione dei fedeli in preghiera all’ingresso delle moschee.
Chi voglia sfidare in blocco gli iraniani, questo popolo fiero e antichissimo, non solo corre il rischio di perdere (per analogia, le recentissime dichiarazioni del segretario alla Difesa James Mattis sulla “non vittoria” americana in Afghanistan sono oggetto sui media iraniani di analisi e dileggi che rincuorerebbero Massimo Fini), ma soprattutto dimentica e condanna alla marginalità quella vasta fetta della società iraniana che ha sete di libertà, e da cui il regime oscurantista e criminale degli ayatollah riceverà – presto o tardi – il colpo di grazia. “Una finestra per vedere / una finestra per sentire / una finestra che come bocca di un pozzo / giunga fino al cuore della terra”, cantava la grande poetessa Farrough Farrokhzad.
Non solo dunque i leggendari festini notturni delle élite di Teheran, ma anche il bambino che guarda gli sconcertanti affreschi del Chehel Sotun a Isfahan (donne nude, per la sorpresa dei soprintendenti capitolini) con indosso una maglietta Nba; o lo studente di legge che a Shiraz ti intrattiene in piazza sulle liriche salaci di Hafez (XIV secolo) come sui film di Kiarostami e Farhadi; o le adolescenti di Yazd che da sotto il chador sbirciano ridacchiando gli allenamenti di giovani aitanti in una palestra sotterranea; o ancora la folla che ogni sera trasforma l’enorme piazza Naqsh-e-Jahan di Isfahan (l’Isfahan delle Lettere persiane di Montesquieu) in una sorprendente declinazione di quell’espace public di cui parlano gli intellettuali nostrani; o i fedeli che a Qom, nel centro religioso che governa la Repubblica islamica, prendono alla lettera il cartello di benvenuto, dove Mosè, Gesù e Maometto figurano sullo stesso piano; o il ristoratore del deserto che insiste a tenere la Coca Cola vera invece del surrogato locale Zam Zam (ma quanto più buoni i suoi succhi di melograno o di cantalupo!); o il ragazzo che dinanzi alla chiesa armena di Nuova Jolfa deplora che dei calciatori iraniani vengano sanzionati dalla Federazione per aver osato giocare con il loro club greco contro una squadra israeliana; o ancora, le migliaia di persone che, stanche dei mullah, il 21 marzo vanno a festeggiare il capodanno persiano (il Nowruz, tuttora la maggiore festività del Paese, legata al rito zoroastriano ad onta dei vani tentativi di Khomeini di islamizzarla) a Pasargade sulla solinga tomba di Ciro il Grande (VI sec. a.C.), il re achemenide che tanti persiani ammirano meno per le sue ragguardevoli conquiste territoriali che non per l’idea di “diritti dell’uomo” contenuta in nuce nell’iscrizione del suo famoso cilindro, oggi al British Museum. È lo stesso, sapientissimo Ciro ammirato dal greco Senofonte, che nel IV sec. a.C. gli dedicò la prima biografia della letteratura occidentale, la Ciropedia nota ai nostri liceali da temibili versioni.
Alle élite politiche dell’Occidente fa spesso comodo richiamare l’attenzione sulle impiccagioni pubbliche, sulla legge del taglione, sulle fatwa, su riti e modi ripugnanti di un regime che nel 1979 partì da Parigi sulle ali dell’entusiasmo di tanti maîtres à penser. Fa comodo anche confondere l’Iran con i Paesi arabi del Medio Oriente, dimenticando che il ceppo etnico è completamente diverso, che la storia è molto più profonda, e che qui le donne – pur obbligate al velo – guidano, lavorano, ereditano, vanno in tribunale (si ricordi l’avvocato Nasrin Sotoudeh, eroina del film Taxi Teheran di Jafar Panahi), e non usano né il burqa né il niqab. Fa comodo condannare l’aiuto di oggi al regime di Assad in Siria, obliterando lo sporco gioco condotto dalle grandi potenze nella guerra Iran-Iraq, con l’unanime appoggio occidentale al proditorio attaco di Saddam Hussein (la Siria di Assad padre fu tra i pochissimi a schierarsi apertamente con Teheran), e per contro la vendita sottobanco di armi al regime degli ayatollah pubblicamente tanto deplorati (l’ormai dimenticato, ma gravissimo, scandalo “Iran-contras”). Solo a posteriori, all’epoca delle Guerre del Golfo degli anni ‘90, gli occidentali si rammentarono all’improvviso dei massacri e delle armi chimiche usate da Saddam contro iraniani e curdi, peraltro fabbricate – secondo le denunce di Falco Accame – con materiali e tecnologia italiani.
È questa l’imbarazzante e perdurante incoerenza che inficia la credibilità di ogni proclama occidentale sui diritti umani, specie agli occhi di un popolo smaliziato e colto, al punto da non voler più traviare i propri sogni verso una nuova, traumatica rivoluzione (non era nemmeno ciò che chiedevano gli studenti scesi in piazza all’indomani della rielezione di Ahmadinejad nel 2009, repressi con rara brutalità): molti preferirebbero oggi riforme atte a uscire dalle secche di una società ingessata. Dopo la recente morte dell’ex presidente Rafsanjani, è ora giunto a capo del potente Consiglio per il Discernimento – che ha funzione consultiva e censoria – l’ayatollah Shahroudi, un iracheno di Kerbala (questo è un segnale dell’attenzione dell’Iran per il nuovo Iraq ormai guidato dagli sciiti), allievo di Khomeini e maestro di Nasrallah: un uomo contrario alla lapidazione delle adultere ma favorevole al controllo dei media e della rete. Così, gli iraniani faticano sempre più a illudersi che a cambiare le cose possano essere i medesimi rappresentanti superstiti di un regime che negli anni ha progressivamente e violentemente epurato chiunque sembrasse dissentire dal leader: dai rivoluzionari di orientamento comunista del Toudeh ai presidenti riformatori Moussavi e Khatami, fino all’ayatollah Montazeri, erede designato di Khomeini fino al momento in cui nel 1989 decise di dissociarsi da alcune delle brutalità del regime.
Nei primi anni ‘80, prima che cadesse in disgrazia, la foto di Montazeri iniziò a comparire ovunque accanto a quella, già ubiqua, di Khomeini. Oggi in quella stessa posizione, nelle botteghe dei barbieri come sui frontoni delle moschee, c’è l’icona dell’opaco ayatollah Khamenei, il vero successore del defunto leader: viene da pensare che forse solo con la morte di Khamenei, e con la fine di quella disgraziata generazione, si apriranno spazi per ripensare uno Stato che ha raggiunto un tasso d’ipocrisia incompatibile coi valori dei suoi veri progenitori (per Zoroastro, la Verità è il principio positivo fondamentale). Nell’attesa che qualcosa cambi (“in Iran sembra sempre debba cambiare tutto, ma non cambia mai niente”, disse una volta Romano Prodi, che il Paese lo conosce a fondo), il lettore italiano che voglia farsi strada fra tante contraddizioni ha a tiro un libretto eccellente e troppo poco noto, scritto dal più esperto dei nostri corrispondenti in loco: L’Iran oltre l’Iran di Alberto Zanconato (Castelvecchi 2016).

Riuscire a fare cose in sé sbagliate in modi sbagliati per servire meglio le voglie della speculazione immobiliare e il diffuso razzismo. Di questo record d'insipienza morale e politica ci raccontano gli articoli di Carlo Lania, Luca Kocci e Rachele Gonnella. il manifesto, 27 agosto 2017
«SIAMO RIFUGIATI,
ABBIAMO DIRITTO
AD AVERE UNA CASA»
di Carlo Lanìa


La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul presunto racketdegli affitti nello stabile di via Curtatone sgomberato giovedì dalle forzedell’ordine. Un’ipotesi che i rifugiati eritrei che occupavano una parte deisette piani dell’edificio che affaccia su piazza Indipendenza ieri hannorespinto con decisione. «Non pagavamo per poter dormire in una stanza, i soldiservivano per le ristrutturazioni e le pulizie», hanno spiegato in molti.

Dopo le cariche indiscriminate di tre giorni fa, quando sonostati svegliati dalla polizia e sgomberati a colpi di potenti getti d’acqua daigiardini dove dormivano da alcuni giorni, ieri per i rifugiati eritrei èarrivato il momento per un piccolo riscatto. Sono stati loro ad aprire la manifestazioneindetta dai movimenti della casa, e lo hanno fatto con un striscione con cuihanno voluto ricordare a tutti che loro sono «rifugiati e non terroristi». Piùdi cinquemila le persone che hanno partecipato al corteo che da piazzadell’Esquilino ha attraversato pacificamente il centro della città fino apiazza Madonna di Loreto dove i manifestanti hanno dato vita un sit in echiesto l’apertura di un tavolo sull’emergenza abitativa tra Regione, Comune eprefetto.

Ma al centro della manifestazione ieri sono stati i rifugiati divia Curtatone, diventati loro malgrado uno dei simboli delle molte occupazioniesistenti a Roma (secondo alcune stime oltre 90). «Vogliamo una casa, vogliamoun tetto, vogliamo la possibilità di poter mandare a scuola i nostri figli»,hanno gridato lungo via Cavour. Tra di loro anche una delle donne colpitegiovedì dal cannone ad acqua della polizia mentre cercava di recuperare vestitie documenti in piazza Indipendenza. «Gli ultimi episodi avvenuti nella capitaledimostrano il pieno fallimento delle politiche dell’accoglienza in Italia, dovesi ragiona solo per emergenze e in nome del profitto, generando mostri comequello di Mafia capitale», ha spiegato la «Coalizione internazionale deisans-papier».

Italiani e stranieri hanno sfilato insieme. Presenti tutte leprincipali realtà delle occupazioni capitoline, dai Blocchi precarimetropolitani al Coordinamento cittadino lotta per la casa. Nel corteo ancheuna delegazione delle 60 famiglie accampate nella basilica dei santi Apostoli:«La nostra colpa è la povertà», è la protesta affidata a uno striscione.

Dopo quello di via Curtatone in teoria nelle prossime settimane aRoma potrebbero esserci altri 15 sgomberi classificati come urgenti in unalista stilata sedici mesi fa dal prefetto Francesco Tronca, all’epocacommissario prefettizio della capitale, all’interno del «Piano di attuazionedel programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma capitale». Sgomberiche, come indicò Tronca in una delibera, dovrebbero essere eseguiti solo «manmano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa». Lastessa linea adottata ora dal Viminale che dopo gli scontri di giovedì invieràla prossima settimana ai prefetti unacircolare con le nuove linee guida per gli sgomberi, indicando come prioritarioil reperimento di abitazioni alternative prima di poter procedere con le forzedell’ordine. L’emergenza casa potrebbe però entrare anche nell’ordine delgiorno dei lavori del Campidoglio. Stefano Fassina, deputato e consiglierecomunale di Sinistra italiana, ha assicurato di voler chiedere alla conferenzadei capigruppo dell’assemblea capitolina di indire un consiglio comunalestraordinario per il piano casa.

«Qualcuno sta creandouna politica della paura ma non è questa la soluzione», ha detto ieri unaportavoce del movimento riferendosi a quanto accaduto nella capitale negliultimi giorni. L’esito della manifestazione dimostra che però è una politicache si può sconfiggere.

VIA CURTATONE, ILVATICANO:
«VIOLENZA INACCETABILE»
di Luca Kocci
«Migranti. Il segretario di Stato Parolin al meeting di Clesprime sconcerto e dolore per le immagini delle sgombero»
Le immagini dellosgombero dei migranti dallo stabile di via Curtatone e poi da piazzaIndipendenza a Roma «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattuttoper la violenza che si è manifestata, una violenza che non è accettabile danessuna parte». È quello che pensa il segretario di Stato vaticano cardinalePietro Parolin – il più stretto collaboratore di papa Francesco -, interpellatoa margine del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dove ieri èintervenuto sul tema «L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo».

A Roma, precisa ilcardinale, «c’era la possibilità di fare le cose bene, secondo le regole. Oraci sarà l’impegno a trovare delle abitazioni alternative per queste persone.Penso che se c’è buona volontà le soluzioni si trovano, senza arrivare amanifestazioni così spiacevoli». Certo, «ci si poteva pensare prima», rispondead una domanda, «perché soluzioni non mancano».

Se nel dialogoestemporaneo con i giornalisti Parolin cammina sul filo dell’equilibrio,durante il suo intervento all’interno dei padiglioni della kermesse ciellina ilcardinale è più netto. «Una parte non piccola del dibattito civile e politicodi questo periodo si è concentrata sul come difenderci dal migrante», dice ilsegretario di Stato vaticano. «Per la politica è doveroso mettere a puntoschemi alternativi a una migrazione massiccia e incontrollata. È doveroso stabilireun progetto che eviti disordini e infiltrazioni di violenti e disagi tra chiaccoglie. È giusto coinvolgere l’Europa, e non solo. È lungimirante affrontareil problema strutturale dello sviluppo dei popoli di provenienza dei migranti,che richiederà comunque decenni prima di dare frutto». Ma, aggiungerivolgendosi alla platea di Cl, «non dimentichiamo che queste donne, uomini ebambini sono in questo istante nostri fratelli. E questa parola traccia unadivisione netta tra coloro che riconoscono Dio nei poveri e nei bisognosi ecoloro che non lo riconoscono».

«Eppure – conclude, bacchettando i «cattolicidella domenica» – anche noi cristiani continuiamo a ragionare secondo unadivisione che è antropologicamente e teologicamente drammatica, che passa da un’loro’ come ’non noi’ e un ’noi’ come ’non loro’», mentre «abbiamo bisogno diricomprendere senza superficialità il tema della diversità, della suaricchezza, in un quadro di conoscenza e rispetto reciproci».

LO SGOMBERO E IL DESTINO
DEL PALAZZO DI VIA CURTATONE
di Rachele Gonnella


«Affari del mattone nella capitale. Mistero sul futurodell'edificio occupato dai rifugiati da quasi quattro anni»
Il palazzo da cuiesattamente una settimana fa la polizia ha cacciato i circa mille rifugiati –poi in parte accampati con donne e bambini nelle aiuole della sottostantepiazza Indipendenza e cacciati anche da lì con gli idranti tre giorni fa – èormai vuoto. O meglio, dei nove piani – più due sotterranei – dell’edificiorazionalista costruito negli anni cinquanta a non più di cento passi dalla stazionetermini resta vivo solo il supermercato al piano terra.

Attraverso le finestredella balconata rimaste aperte, da dove i bambini eritrei e etiopi sisporgevano durante il blitz per fare linguacce ai poliziotti «caritatevoli» chemanganellavano i loro parenti, ora entrano le cornacchie. E nessuno per ilmomento, neanche al i municipio, sa quale potrebbe essere la prossimadestinazione di quelle ampie metrature che un tempo ospitavano gli uffici della Federconsorzi.

Né si capisce l’urgenzadi quell’ordine di sgombero forzato in pieno agosto, cioè a ridossodell’apertura delle scuole, senza una effettiva e concordata alternativad’alloggio per tante famiglie, per lo più cattoliche, che abitavano là dentro.

L’occupazione andavaavanti dall’ottobre del 2013, e il decreto di sequestro preventivo per«invasione di terreni e edifici» – l’occupazione, appunto – è stato firmato dalgiudice il 1° dicembre di due anni dopo, quindi due anni e mezzo fa.

Di solleciti allaprefettura, per l’esecuzione dello sgombero forzato dei locali, da allora se nesono succeduti almeno tre.

Due solleciti da partedella proprietà risalgono all’inizio del 2016, quando poi all’interno delpalazzo un soprallugo dei vigili del fuoco portò al sequestro di unacinquantina di bombole di gas usate per preparare i pasti. Sempre in quelperiodo indagini della guardia costiera sui tabulati telefonici di sospettiscafisti portarono all’arresto di un paio di occupanti. Ma anche allora non siprocedette allo sgombero.

I dirigenti delsupermercato escludono che il palazzo sia ora stato messo in vendita, magariper sfruttare la ripresina del mercato immobiliare romano. «abbiamoristrutturato tutto solo un anno fa con un grosso investimento e il contrattod’affitto è appena stato rinnovato», dice l’addetto stampa che presidial’ingresso in giacca e cravatta, soddisfatto della cacciata deiclienti-occupanti e della presenza di due blindati dietro l’angolo.

Di certo la proprietà haavuto un danno dall’occupazione, calcolato in 240 mila euro l’anno di bolletteper acqua e luce – allacci che non si possono staccare in casi di primarianecessità come questi – e 575 mila euro di Imu e Tasi. Ma si tratta dispiccioli considerati volumi d’affari e plusvalenze miliardari dei proprietari:il fondo d’investimento omega, ossatura della holding idea fimit sgr, uncolosso finanziario nato per incamerare e mettere a reddito le grandi e spessoprestigiose proprietà immobiliari di banche (omega ha «in pancia» gli immobilidi intesa-s.paolo) o enti pubblici come Enasarco e Inps, diventato inbrevissimo tempo (dal 2008 al 20111, in piena crisi) primo playeritaliano di fondi immobiliari e quarto a livello europeo.

È una creatura dimassimo caputi, ingegnere civile che dall’azienda del padre onofrio, altroingegnere civile amico dell’«asfaltatore d’Abruzzo» Remo Gaspari a Chieti,diventato top manager dell’alta finanza real estate. Caputi, con moltemani in pasta – siede nei cda di Acea, Mps, Antonveneta – è un ex amico e oggi,vice presidente di Assoimmobiliare, concorrente di Caltagirone. E proprio conla ristrutturazione della vicina stazione termini ha avuto il suo trampolino dilancio.

Di recente è uscito daidea Fimit. Nel frattempo la «sua» creatura, tramite il fondo Alpha, è in balloper affittare due grossi edifici a Massimina, periferia nordovest dellacapitale, come hub per immigrati. I fili del destino tra l’1% e gli ultimi delrestante 99% talvolta si intrecciano.
«Prefettura e Campidoglio non sapevano quanti fossero i profughi. Soluzioni solo per 103: “Così famiglie divise”. Le pressioni della proprietà. I 700 in strada».Secondo il Palazzo chi non è "fragile" non ha bisogno di un tetto.

il Fatto quotidiano, 26 agosto 2017


Alla fine rimane la strada. La risposta per i 700 rifugiati – forse 800 secondo altre fonti, forse di più – che ora vagano dopo il doppio sgombero di piazza Indipendenza a Roma si ferma alla lista dei “salvati”. Sono 104 i nomi nell’elenco che la Prefettura di Roma ha consegnato al Campidoglio, con le situazioni ritenute di “fragilità”. Ovvero ammalati, disabili, famiglie con bambini. Le possibili soluzioni sul tavolo – in un caos di rimpalli e scaricabarile – riguardano solo queste persone. Per tutti gli altri nessun diritto e neppure sistemazioni temporanee. Quando si è riunito il Comitato per l’ordine pubblico non sapevano neanche quanti fossero, da tempo la polizia non metteva piede in quel palazzo.

La storia di via Curtatone inizia il 19 agosto, quando la Questura avvia l’espulsione degli occupanti. L’edificio, occupato da quattro anni, era già stato sottoposto a sequestro preventivo da parte del Tribunale e ospitava per lo più rifugiati eritrei ed etiopi. Dopo l’operazione di polizia una task force composta dai servizi sociali del Comune di Roma, dall’ufficio minori del commissariato e dalla proprietà – citata in un comunicato ufficiale della Questura, ma che non è chiaro a che titolo partecipasse alla task force – ha avviato un censimento degli occupanti, con l’obiettivo di individuare i soggetti fragili, ovvero chi, secondo la legge, aveva diritto di ricevere una assistenza, anche abitativa. Un primo elemento anomalo è l’inserimento solo in epoca recente dello stabile nella short list degli sgomberi urgenti. È di proprietà di un importante fondo finanziario che evidentemente è stato capace di far valere le proprie ragioni assai più di numerosi privati che pagano le spese per gli stabili occupati a Roma.

Per cinque giorni, dopo lo sgombero di sabato scorso, i rifugiati rimangono in attesa di una risposta accampandosi, in parte, nei giardini di piazza Indipendenza, a due passi dalla stazione Termini, davanti al Consiglio superiore della magistratura, in una Roma ancora semivuota. Il 23 agosto, ovvero quattro giorni dopo la prima azione di sgombero, si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per discutere sul caso, poche ore dopo un primo tentativo di allontanamento dei rifugiati dalla piazza operato dalla polizia.

In un documento firmato dal gestore dell’immobile, la società romana Sea Srl, e dall’assessore alle politiche abitative della giunta capitolina Rosalia Alba Castiglione, datato 24 agosto, si legge: “In data 23 agosto 2017, in sede di comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, è emersa la necessità di intervento anche dell’Amministrazione capitolina atta a garantire l’accoglienza ricettiva per evitare problematiche di ordine pubblico e sanitarie”.

Sarebbe toccato al Comune, ma era di fatto impossibile risolvere l’emergenza in poche ore e le cariche del 24 mattina hanno fatto precipitare tutto. E dal Campidoglio fanno sapere che in realtà la Prefettura ha chiesto di trovare una soluzione solo per i 104 inseriti in una lista consegnata dopo il primo sgombero. Tutti gli altri? Nessuno sa neanche quanti siano. È la lista dei sommersi, degli invisibili. “Un’operazione di cleaning”, ovvero di pulizia, come ha detto al Corriere della Sera il prefetto di Roma Paola Basilone, che passa la palla alla giunta Raggi. La sindaca, da parte sua, replica che “la Prefettura nei dati che ci ha comunicato il giorno dello sgombero non ha citato la presenza di 37 bambini. Siamo stati avvisati dello sgombero – ha scritto su Facebook – a poco più di 12 ore dall’inizio” e ha attaccato la Regione Lazio “che ha disatteso il decreto legge Minniti che la chiama direttamente in causa” e denunciato “l’assenza di adeguate politiche nazionali”. “Un vergognoso scaricabarile”, attacca la sindaca.

Sono le 6 di mattina di giovedì 24 agosto. Tutti i rifugiati interpellati dal Fatto Quotidiano raccontano la stessa versione: “Siamo stati svegliati dagli idranti”. Parlano di cariche dure, mostrano i lividi, raccontano frasi inquietanti – “Siete come topi, andatevene” – che però non trovano conferma. La Questura anzi ribadisce che la resistenza è stata violenta, con lancio di sassi, bottiglie e di almeno una bombola di gas. Quattro i fermi.

Poche ore dopo una telecamera inquadra un funzionario di polizia, Francesco Zerilli, dirigente del primo commissariato di Roma, Trevi-Campo Marzio, mentre dirigeva una carica. Si sente la frase: “Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Già in serata la questura annuncia l’avvio di accertamenti, la preistruttoria disciplinare è aperta e il dirigente, se i fatti saranno confermati, potrebbe perdere l’incarico. “Non è un violento”, lo difendono i colleghi. Ma è lo stesso dirigente che nel 2014 guidò le cariche che provocarono diversi feriti, sempre a Roma in piazza Indipendenza, tra gli operai della Thyssenkrupp. Con lui si scontrò verbalmente l’allora leader della Fiom Maurizio Landini.

Il giorno dopo gli scontri la situazione è ancora più drammatica. Le case promesse dalla proprietà ai 103 sono in realtà sei villini da 90 metri quadri (due camere da letto), in mezzo alla campagna della provincia di Rieti, a decine di chilometri dalle scuole frequentate dai bambini. Ai nuclei familiari il Comune aveva offerto posti in case famiglia, ma spesso separando genitori e figli. “Volevano mandare la madre con il figlio da una parte e il padre in un’altra zona di Roma, per questo non abbiamo accettato”. Dormono alla stazione Termini o accolti dalla solidarietà del centro Baobab della stazione Tiburtina: “Ora vorremmo andarcene dall’Italia, ma non possiamo”. Un rifugiato registrato e riconosciuto può rimanere solo qui.

La denuncia dell'inazione della sindaca di Roma di fronte al problema dei senza casa cacciati con la forza e le proposte inascoltate di un suo ex collaboratore.

il manifesto, 26 agosto 2017
Le città vivono di avvenimenti simbolici che restano negli anni a venire. I due sgomberi del palazzo e dei giardini di piazza Indipendenza resteranno come una macchia indelebile sull’amministrazione Raggi. Nei quattro giorni drammatici vissuti dalla comunità di rifugiati non si è affacciato né il sindaco né il suo vice, un atteggiamento che dimostra una intollerabile insensibilità sociale. La giunta che doveva riscattare la città dalla vergogna di mafia capitale si è asserragliata nel palazzo Senatorio e occupa il suo tempo a consultare Genova o Milano per avere lumi. Possiamo suggerire di tentare di trovare un nome cui affidare il ruolo di Capo di gabinetto visto che è un anno preciso che fu sfiduciata Carla Raineri e da allora manca il garante della correttezza amministrativa degli atti comunali. Non era mai avvenuto prima.

E passando dal dramma alla farsa ecco le dichiarazioni del vicepresidente della Camera Di Maio che ha addirittura teorizzato la priorità dell’impegno del sindaco Raggi verso i romani, al di là dei quali ci sono evidentemente soltanto leoni. Per un movimento che voleva cambiare la cultura politica italiana non c’è male. Il peggio seguirà.

Se mancava la città capitale, a piazza Indipendenza c’era però lo Stato. Quello con il volto meraviglioso del poliziotto che consola la donna disperata e quello del prefetto Gabrielli che accusa della mancata utilizzazione del finanziamento di 130 milioni conquistato con fatica negli anni scorsi per risolvere i problemi dei senza tetto. Su queste stesse pagine avevamo dato atto del suo lavoro quando era prefetto di Roma. Resta il fatto scandaloso che quei soldi non siano stati ancora spesi per responsabilità dell’amministrazione comunale.

È la prima volta che vinco il riserbo cui mi ero finora attenuto, ma dopo aver assistito a tre sgomberi avevo redatto e consegnato al sindaco e ai membri della giunta un progetto dal titolo «Un tetto per tutti» in cui tentavo di fornire un quadro di obiettivi per risolvere il problema delle occupazioni in atto a Roma.
- Il primo era nel riuso delle caserme abbandonate.
- Il secondo stava nella costruzione su aree pubbliche di piccole dimensioni comunali o dell’Ater (duemila metri quadrati) di edifici da assegnare a senza tetto. I 130 milioni di Gabrielli non erano certo sufficienti ma la bravura di una amministrazione si misura anche nella capacità di strappare risorse. Questa proposta fu in particolare contestata dalla stessa Raggi che mi ricordò che i 5Stelle erano contro il consumo di suolo. Su un altro tavolo erano però favorevoli allo stadio della Roma che prevedeva cemento su 20 ettari (cento volte di più!) solo di parcheggi.
- La terza stava nella piena utilizzazione del patrimonio pubblico spesso abbandonato o occupato da famiglie senza titolo.
- La quarta stava nella legalizzazione di alcune delle occupazioni in atto perché la proprietà privata deve essere certo rispettata ma all’interno di quanto previsto dalla nostra Costituzione.

L’elenco era più ampio, ma ciò che preme sottolineare è il fatto che a Roma ha vinto l’insensibilità sociale e il disprezzo per le condizioni della parte più sfavorita della società.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Con l’inerzia e i silenzi si avalla l’altro volto dello Stato, quello del ministro Minniti che sta riducendo il gigantesco problema dell’integrazione degli immigrati alla sola chiave securitaria: così si smarrisce il senso della comunità urbana e si dà anche voce all’istigazione alla violenza del dirigente filmato alla stazione Termini.

Rigurgiti razzisti anche a Pistoia. Bersaglio: il parroco che porta gli immigrati in piscina. La Diocesi lo difende, i razzisti si arrabbiano.

l'Avvenire, 24 agosto 2017
«Forza Nuova: "Sotto esame la cattolicità del parroco". Il vescovo Tardelli: spero si voglia scherzare. E manda il vicario generale a celebrare la Messa, con don Biancalani: una tutela, non una resa»

Diocesi in campo per evitare di trasformare la Messa in un terreno di scontro politico. E per proteggere, insieme alla sua comunità, un parroco coraggioso che talvolta non sa trattenersi dall’accompagnare con qualche considerazione un po’ colorita i suoi slanci solidali. Succede a Pistoia, dove da giorni si discute sulla decisione di don Massimo Biancalani, parroco di Santa Maria Maggiore in Vicofaro. La sua scelta di accompagnare in piscina un gruppo di quindici immigrati al termine di una giornata di lavoro, è diventata un caso nazionale.

Ha tuonato la Lega, Forza Nuova ha addirittura minacciato di verificare direttamente l’ortodossia del sacerdote durante la Messa domenicale. E il vescovo Fausto Tardelli, giustamente, si è indignato. Così, per tutelare il parroco e far sentire alla comunità la presenza della diocesi, domani la celebrazione festiva delle 11 sarà presieduta dal vicario generale don Patrizio Fabbri.

Nessuna "resa", come qualcuno ha sintetizzato in modo sbilenco. Nessuna volontà di esautorare il parroco. Anche perché don Biancalani sarà presente, concelebrerà e terrà l’omelia. Ma con il supporto autorevole del vicario che – ripetiamolo – non significa commissariamento ma vicinanza fraterna e supporto umano nel caso in cui, prima o dopo la celebrazione – Dio non voglia durante – si dovesse verificare qualche episodio spiacevole.

Purtroppo è già annunciata anche una cospicua presenza di forze dell’ordine. Purtroppo non tanto per l’impegno della polizia, che come sempre farà il suo dovere, ma perché quando una celebrazione eucaristica dev’essere protetta con uno schieramento di agenti significa che qualcosa si è inceppato.

E in questa vicenda sembra davvero che troppi sassolini siano andati a finire tra gli ingranaggi. A Pistoia, don Biancalani è conosciuto e apprezzato. Sempre in prima linea in tutte le emergenze sociali, sempre pronto a schierarsi per gli ultimi. Nella sua parrocchia, grazie al lavoro dell’associazione "Virgilio" che opera in sintonia con la Caritas diocesana, ospita una decina di giovani immigrati. Qualche anno fa non aveva avuto esitazioni ad avviare iniziative pastorali per gli omosessuali e le persone lgbt. E spesso accoglie e aiuta anche bambini rom. Proposte che, è facile immaginarlo, finiscono per risultare un po’ indigeste a coloro che guardano con sospetto a tutti gli slanci di radicalità evangelica. Soprattutto quando questa radicalità si rivolge a gruppi, etnie e situazioni "periferiche".

Certo, don Massimo non è l’unico sacerdote pistoiese schierato con i poveri e i rifugiati. La diocesi accoglie complessivamente circa 130 immigrati che fanno capo ai progetti Sprar e al centro per l’accoglienza rifugiati. Sono coinvolte alcune parrocchie con le rispettive associazioni e soprattutto una casa diocesana a Lizzano in Belvedere, sulle colline pistoiesi, che ospita una quarantina di immigrati. Perché allora questo accanimento contro il parroco di Vicofaro? Qualcuno ritiene che a Pistoia, con la nuova giunta di centrodestra presieduta dal sindaco Alessandro Tomasi (Fratelli d’Italia) il clima sia cambiato. Anche se ieri il sindaco ha detto di concordare pienamente con il vescovo.

Ma c’è anche chi pensa che a don Biancalani, da buon toscanaccio, sia scappata un’espressione un po’ borderline. L’altro giorno, quando ha postato su Facebook le immagini dei suoi immigrati in piscina – volti sorridenti di ragazzi che sembravano aver già conquistato una fetta di paradiso – ha aggiunto una didascalia un po’ provocatoria: «Loro sono la mia patria, razzisti e fascisti i miei nemici». Poteva risparmiarsela? Forse sì. Fatto sta che Forza Nuova è partita all’attacco: «Vigileremo durante la Messa sull’effettiva dottrina del prete». Minaccia che sarebbe ridicola, se non fosse anche fastidiosa. E in ogni caso sproporzionata rispetto all’uscita di don Biancalani, che è comunque uomo che opera per il bene.

« il manifesto, 26 agosto 2017

La notizia del progetto di accoglienza di Riace, messo in crisi da interpretazioni burocratiche sulla validità dei bonus o delle borse lavoro (fino a ieri accettate), è calata come una mannaia. Da un anno gli operatori non vengono pagati, così come gli affitti e i fornitori. Il sistema regge grazie ad una economia di sostegno davvero solidale che sta facendo miracoli. Non è il primo progetto che vede gli stessi operatori mettere mano ai propri risparmi per anticipare il pocket money ai richiedenti asilo. Era il luglio 2012 quando, sempre il sindaco Domenico Lucano aveva iniziato uno sciopero della fame e appeso la fascia tricolore al chiodo, simbolo di una resa, perché stretti dalla morsa dei ritardi questa volta imputati alla Protezione Civile. Si può capire dunque la stanchezza che gli ha fatto dire “Basta chiudiamo tutto”. E qui è partito un tam tam lanciato dalla Rete dei comuni solidali, una raccolta firme per attivare quel mondo che si riconosce in Riace che lo ha eletto come simbolo.

Nonostante la settimana di ferragosto stiamo registrando una risposta forte. Amministratori, pensionati, giornalisti, studenti, il mondo dell’associazionismo, le cooperative che lavorano per i progetti Sprar, persone dello spettacolo, scrittori, docenti universitari. Deputati, europarlamentari. Ma anche molti magistrati, il Comitato esecutivo di Magistratura Democratica e molti giudici a titolo personale da Genova a Pescara, Padova, Firenze Ravenna, Trapani, Sassari. C’è l’operaio tessile di Biella, il farmacista di Pontedera, il grafico di Andria, l’artigiana di Ladispoli, la casalinga di Quartu Sant’Elena. L’Agesci, l’Anpi, la Scuola di Pace di Boves, la neo segretaria della Fiom il comitato della Terra dei Fuochi, lo Spi Cgil di Reggio. Un mondo che si è mosso, consapevole che una firma vale poco, eppure la voglia di metterla per dare almeno un segnale e non essere allineati sul punto più basso della Storia.

Dalla decisione sulla prossima legge elettorale scaturirà il parlamento che potrà modificare la costituzione. Non è all'attuale "Parlamento dei nominati" che possiamo lasciare questa decisione.

il manifesto, 24 agosto 2017

La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.

Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.

È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.

La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più.
Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.

Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.

*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale

comune-info.net, 23 agosto 2017 (p.d.)

“Lavoro” è parola magica, ripetuta da tutti: si esce dalla crisi se aumenta l’occupazione non tanto per amore del lavoro o dei lavoratori ma perché solo così i lavoratori, cioè praticamente la totalità dei cittadini di un paese, possono guadagnare del denaro che possono spendere per comprare merci e servizi prodotti da altro lavoro. Il fine del lavoro è infatti produrre merci e servizi. Cioè, sostanzialmente, merci, perché anche i servizi sono resi possibili da qualche ”cosa” prodotta, venduta o acquistata per denaro. Il principale servizio, la vita quotidiana, è reso possibile perché qualcuno produce, col proprio lavoro, ferro, alluminio, bevande, patate, carne, plastica, carrelli della spesa, e trasporta, carica e scarica verdura e maiali.
Il servizio mobilità, la possibilità di andare al lavoro o in vacanza, è assicurato da quei tanti chili di acciaio, plastica, gomma, alluminio, eccetera che si chiama automobile che si muove soltanto se viene alimentata con un prodotto della raffinazione del petrolio. Il servizio illusione è reso possibile dalla raffinata rete telematica che alimenta le sale giochi, le macchine da poker e dalle persone che raccolgono o convogliano scommesse. Tutto lavoro. A rigore, anche i servizi evasione e prostituzione sono resi possibili dal lavoro di chi produce e vende stupefacenti, o accompagna le ragazze al posto “di lavoro” sulla strada. Ciascuna società scoraggia alcuni lavori perché producono merci e servizi eticamente sconsigliabili e ne incoraggia altri.
Mi piacerebbe che i responsabili dell’economia spiegassero quali merci e servizi intendono aumentare o scoraggiare per aumentare l’occupazione. Perché è vero che il capitale necessario per avviare la produzione di merci e servizi, in una società di libero mercato, è fornito dai capitalisti privati che si aspettano un giusto compenso – “to turn an honest penny”, come scriveva Marx – sotto forma di un profitto che gli consenta di avviare la produzione di altri merci e servizi, ma in realtà nelle società a libero mercato i capitalisti privati producono merci e servizi attraverso soldi pubblici, direttamente o indirettamente: sotto forma di prestiti, concessioni, incentivi. Badate bene che in questo ragionamento faccio finta che non esista corruzione. Sarebbe quindi bene che i governanti spiegassero chiaramente come intendono spendere pubblico denaro per produrre che cosa. Un solo esempio: ci sono merci e servizi che non “servono” più, che hanno saturato il mercato (penso all’automobile e a certi settori dell’arredamento). Le fabbriche chiudono, i lavoratori vengono licenziati; per assicurare occupazione a tali lavoratori ha senso continuare a produrre le stesse merci e servizi o occorre incentivare investimenti in altre produzioni ?
A mio modesto parere la salvezza dei lavoratori, ma anche dei capitalisti,andrebbe cercata nell’identificare dei bisogni, anzi delle gerarchie di bisogni da quelli urgenti e indilazionabili (cibo, abitazioni, acqua, salute, mobilità, istruzione) a quelli che possono essere considerati secondari. Uno dei settori che “tirano” sembra essere quello dell’edilizia consistente nella moltiplicazione di case e edifici che spesso restano non occupati anche dopo anni o che vengono occupati poche settimane o pochi giorni all’anno. Nello stesso tempo milioni di immigrati, del cui lavoro abbiamo disperatamente bisogno spesso sfruttandolo, vivono spesso in condizioni disumane senza che nessuno pensi a una edilizia popolare per loro.

All’alba della rivoluzione bolscevica i nuovi dirigenti, davanti ad un paese devastato dalla guerra, dalla carestia e dalla miseria, istituirono un ufficio per la pianificazione il quale aveva il compito di identificare quanto grano sarebbe stato necessario produrre, quante macchine sarebbero state necessarie per produrlo, quanto acciaio sarebbe stato necessario per tali macchine, quanti lavoratori sarebbero stati necessari per grano, macchine e acciaio. E così via. Roosevelt istituì un simile ufficio, per inciso impiegando il giovane Leontief che aveva lavorato nell’Unione Sovietica alla prima pianificazione. Oddio, anche in Italia esiste un ministero della programmazione economica che però ha programmato sempre quello che faceva comodo al grande e piccolo capitale e non ai lavoratori.

Da qui l’attuale crisi. Non so se vorranno farlo l’attuale o qualsiasi futuro governo, le organizzazioni di industriali, commercianti, agricoltori, i sindacati, o se vorrà cimentarcisi qualche gruppo di persone attente al futuro. Ma forse sarebbe utile interrogarsi su quello che viene oggi prodotto, importato ed esportato, su quali bisogni di merci e servizi sono soddisfatti e da soddisfare, quale sarà la situazione fra, diciamo, cinque anni. È vero che il mercato è globalizzato, come si dice, che non si possono impedire le importazioni nella speranza che ad esse corrispondano delle esportazioni, ma in realtà tutti o governi usano i propri poteri per decidere che cosa “ritengono” utile o inutile, spesso commettendo errori che si rivelano dopo qualche tempo e soldi e lavoro dissipati. Si pensi, solo per fare qualche esempio di ieri e di oggi, al ponte sullo stretto di Messina, all’alta velocità, alle centrali nucleari, al “Mose” di Venezia.

E non tocco i costi ambientali (che sono poi costi monetari, di pubblico denaro, cioè di soldi sottratti ai lavoratori) che molti errori di “programmazione” comportano sotto forma di inquinamento, di erosione del suolo, di frane e alluvioni. Si pensi alle cose “non fatte” come la difesa del suolo contro l’erosione, la regolazione del corso dei fiumi e torrenti, la bonifica delle zone inquinate, il corretto smaltimento dei 150 milioni di tonnellate di rifiuti solidi prodotti ogni anno dalla nostra “società dei consumi”.

Non è proibito essere sindaci ed essere anche gradassi e ignoranti. Come il sindaco di Venezia, che ha dichiarato che se sentisse qualcuno gridare a Piazza San Marco "Dio è grandissimo" in lingua araba lo abbatterebbe in tre passi.

la Nuova Venezia, 24 agosto 2017

RIMINI. «Dobbiamo battere qui in Italia il terrorismo, stiamo alzando le difese, e io dico che se qualcuno si mette a correre in Piazza San Marco gridando 'Allah Akbar' in tre passi lo abbattiamo». Imprevedibile come sempre il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha lanciato questa provocazione parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, a un convegno sulla demografia, riportato dall'agenzia Agi.

Dopo gli attentati di Barcellona e in Finlandia il questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi, spiega: «Eravamo pronti da una settimana». Apparecchiature speciali per garantire la sicurezza di centinaia di star e personalità che affolleranno il Lido durante la kermesse

Gli ha risposto il sindaco di Rimini , Andrea Gnassi, ironizzando: "suggerirò ai romagnoli di non cantare 'Romagna Mia' in San Marco, perchè non si sa mai, anche se non sono sicuro di aver ben capito l'intervento di Brugnaro perchè l'ha fatto per metà in veneto".

Un intervento che ha destato ilarità e un po’ di preoccupazione, visti i tempi, tra gli addetti ai lavori: quasi una sfida alla vigilia degli importanti appuntamenti (Mostra del Cinema e visita del Presidente della Repubblica) che tra pochissimi giorni vedranno arrivare a Venezia centinaia di personalità da tutto il mondo.

Sbilanciamoci.info, 23 agosto 2017 (p.d.)

Quali sono le nuove forme di dominio dei gruppi transnazionali di interesse privato? […] Da anni echeggia il refrain secondo cui i soggetti privati transnazionali avrebbero ormai acquisito un potere paragonabile o addirittura superiore a quello di molti Stati. In grado di ricattare i governi, le corporations sono considerate alla stregua di veri e propri enti sovrani[1], in una trama istituzionale sfaccettata, entro la quale la capacità di controllo degli Stati è sfidata anche dalla presenza di regimi regolatori globali e di organizzazioni sovrannazionali di vario genere, governativo e non. […]
Ma in che cosa consistono, effettivamente, gli elementi di potere, di influenza e di dominio delle corporations? La risposta non è scontata, se è vero che spesso, nel formularla, si ricorre a una serie di cifre che testimoniano null’altro che la forza economica. Si assume come valida misura della potenza delle global companies il confronto tra il loro fatturato annuo e i bilanci degli Stati: nel 2014 la prima azienda privata si sarebbe posizionata al ventiseiesimo posto nella classifica degli Stati più ricchi al mondo, prima di un paese come l’Argentina; e al ventisettesimo posto, prima dell’Austria, si sarebbero posizionate le altre prime quattro grandi imprese elencate dalla rivista «Fortune» (tutte aziende petrolifere, due cinesi). Insomma, solo le più grandi e influenti potenze statuali del mondo possono rivaleggiare con le global companies sul terreno economico. Ma questi numeri, pur significativi, non dicono nulla sulle modalità di potere, influenza e dominio. È opportuno, dunque, isolare tre aspetti del potere esercitato dai vari “giganti transnazionali”: strumentale, discorsivo e strutturale[2]. […]

L’odierno potere delle grandi imprese transnazionali si manifesta e rafforza innanzitutto in termini strumentali, asservendo le istituzioni pubbliche a interessi privati. E quando si parla di potere strumentale, la pratica cui la mente ricorre veloce è il lobbying: un’attività volta a condizionare le politiche pubbliche, favorendo determinati interessi a scapito di altri, soprattutto in tema di diritto societario, diritto del lavoro e diritto tributario. […]

Il potere culturale delle grandi imprese nel contesto del capitalismo globale ha un nome piuttosto preciso: quello […] del neoliberalismo. È questa la parola chiave per definire la cultura preminente dell’età globale, ovvero di quella fase della storia mondiale che prende avvio con il crollo delle regole di Bretton Woods e perdura ancora oggi. […]

Ma ciò che rende dominanti i gruppi di interesse privato transnazionale è il potere strutturale, legato alla spropositata asimmetria tra il carattere territoriale degli Stati e il carattere deterritorializzato dei grandi conglomerati economici che, facendo leva sulle proprie risorse, influenzano pesantemente le regole stabilite dalla politica.

La prima forma del potere in questione riguarda i grandi potentati finanziari e si esprime nel giudizio che costoro forniscono sulla condizione economica degli Stati. Tale forma di potere, esercitata attraverso le agenzie di rating, finisce in qualche modo per occupare il luogo stesso della sovranità[3]. […] Infatti, il principio su cui questa si erigeva era la presenza di un territorio statale nettamente confinato. Ma se nell’età globale la separazione tra "dentro" e "fuori" risulta quanto mai appannata, è anche perché le agenzie di rating – attori esterni, rappresentanti null’altro che la sommatoria di interessi economici sparsi in tutto il mondo – incidono profondamente sulle decisioni degli Stati. E vi riescono in quanto mandatari di un potere finanziario che appare, nelle parole di Alessandro Ferrara, come «una nuova specie di potere assoluto, cresciuto all’ombra di regimi democratici dediti ai valori della libertà e dell’eguaglianza e dello stato di diritto»[4]. La prima forma di potere strutturale può essere in effetti considerata come una forma di potere rigorosamente assoluto, nel senso che riesce a modificare, senza subire un effetto reciproco, le decisioni che sostanziano l’esercizio della sovranità politica all’interno di un determinato territorio.

La parola chiave, da questo punto di vista, è per l’appunto rating. Com’è noto, si tratta della valutazione del merito creditizio delle economie nazionali, ovvero di una stima del rischio che lo Stato debitore, per varie ragioni, non sia in grado di rimborsare puntualmente il credito garantitogli dagli investitori. E la crescente rilevanza di questa procedura è segnalata bene dal modo in cui si suole chiamare il rating relativo ai titoli di Stato: rating sovrano. Come se la valutazione di rischio dei titoli obbligazionari emessi dagli Stati diventasse essa stessa sovrana, violando proprio quella separazione tra "dentro" e "fuori" su cui si edificava l’ordine politico moderno. Perché nonostante i rating siano, in teoria, semplici opinioni e non voti certificati, di fatto, negli ultimi decenni, hanno finito per influenzare e, talvolta, distorcere il mercato finanziario.

Si è creata una situazione di predominio, aggravata dal fatto che i rating sono ormai appannaggio di un ristretto oligopolio di agenzie private, controllate da capitali di imprese finanziarie transnazionali e da fondi speculativi. E il fatto che il volume d’affari abbia superato i 4 miliardi di dollari (tra assegnazioni di rating, consulenze finanziarie e servizi) non ha impedito che il settore si concentrasse fino all’attuale predominio delle “tre sorelle”, Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s, capaci di acquisire decine e decine di società minori. Insomma, il cosiddetto “giudizio dei mercati” rappresenta una minaccia ben più preoccupante rispetto a quella costituita dai faticosi colloqui in cui consiste il lobbying, ma rappresenta soprattutto un’ulteriore limitazione del principio di sovranità che caratterizzava lo Stato moderno.

La seconda forma di potere strutturale viene esercitata dalle grandi imprese e consiste nella pratica di regime shopping: un’espressione che si riferisce alla possibilità delle aziende di indirizzare i propri investimenti verso paesi nei quali il costo e il diritto del lavoro, le infrastrutture materiali e immateriali, i prelievi fiscali e la protezione dell’ambiente siano più convenienti. Svincolate dai singoli territori e capaci di grande mobilità, le global companies hanno così guadagnato un notevole potere di condizionamento sugli Stati, che non sono più la loro patria obbligata, ma solo una delle possibili mete di investimento. Ed è questa nuova condizione strutturale a consentire loro di ottenere maggiori tassi di profitto a fronte di un impegno anche piuttosto scarso nelle innovazioni tecnologica, merceologica o strategica.

A onor del vero, il legame delle imprese con i paesi d’origine non è mai stato irrecidibile. Il mercato è da sempre un potenziale non-luogo, ma non c’è dubbio che lo sviluppo tecnologico abbia permesso un incremento straordinario della mobilità del capitale e della connettività della produzione. Al punto che il regime shopping è diventato un problema endemico.

Le conseguenze si riflettono non solo e non tanto nella contrapposizione tra imprese globali e Stati nazionali, tale per cui le prime cercano i modi per sottrarsi ai secondi e questi tentano di ampliare le proprie dimensioni per tenerle sotto controllo. Il rilievo del regime shopping dipende innanzitutto dalla sua capacità di produrre un superamento dello schema centro-periferia, cioè della struttura tipica del sistema-mondo moderno. Le disuguaglianze tra le varie aree del mondo restano ampie ed estremamente rilevanti, ma la peculiarità dell’età globale è che le nuove disuguaglianze non si articolano più secondo una gerarchia geografica a livello mondiale, bensì intorno a rapporti asimmetrici all’interno di ciascun paese[5].

E venendo al terzo e ultimo aspetto del potere strutturale, ci troviamo di fronte a uno dei risvolti più oscuri dell’attuale fase di globalizzazione economica: la quotidiana sottrazione di una colossale massa di denaro alla tassazione statale, anche nelle nazioni più ricche, e il suo trasferimento in paesi dove vigono speciali giurisdizioni segrete. L’offshoring, ecco la parola chiave, è una delle principali strategie attraverso cui i gruppi capitalistici transnazionali mettono a frutto la loro posizione dominante.

I numeri del fenomeno sono da capogiro. Si stima che ogni anno oltre la metà del commercio mondiale e degli attivi bancari venga dirottata verso i cosiddetti “paradisi fiscali”. Circa un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese transnazionali passa attraverso i tesori nascosti, entro cui si svolgono circa tre quarti delle emissioni bancarie ed obbligazionarie internazionali. La stragrande maggioranza delle più grandi imprese statunitensi ed europee possiede società off-shore. […]

E sebbene il termine "off-shore" evochi luoghi esotici, le giurisdizioni segrete, eredi come sono delle colonie britanniche e statunitensi, non abitano soltanto isole lontane. Se la più antica giurisdizione segreta d’Europa è la Svizzera, sono in particolare due i filamenti principali della ragnatela off-shore: uno fa capo alla City di Londra; l’altro alla borsa di Wall Street. […]

Non è mancato chi, in nome del principio della concorrenza fiscale, appoggiasse espressamente la diffusione di questi paradisi off-shore: gli Stati più efficienti, si diceva, sarebbero stati premiati. Le conseguenze sono state invece ben altre, due in particolare: una gara al ribasso nella quale tutti gli Stati hanno perso cospicue risorse e, così, la capacità di ripristinare l’eguaglianza nelle condizioni di partenza tra i propri cittadini; e un aumento della pressione fiscale sugli stessi contribuenti, che ha prodotto una sperequazione per la quale chi aveva di meno si è visto costretto a pagare di più.

Dopodiché, è vero che i paradisi fiscali servono anche a riciclare denaro sporco, ma ciò che conta qui è enfatizzare come il sistema off-shore sia al centro del processo di globalizzazione. Benché sia rimasto confinato nelle discussioni tra addetti ai lavori, esso rappresenta infatti una quota rilevante dell’economia globale, anche per il suo strettissimo legame con il sistema bancario, dove attraverso pratiche riservate ed estremamente complicate avvengono continui spostamenti di capitali, spesso usati per azioni speculative nei mercati borsistici. Il sistema off-shore non è, dunque, una semplice escrescenza, ma la testimonianza di come quei non-spazi, costruiti, protetti e incentivati da specifici soggetti politici ed economici, siano consustanziali alla logica del capitalismo globale[6].

È pur vero che qualcosa sta cambiando, che dopo anni di “concorrenza fiscale” distruttiva per le finanze pubbliche e assai vantaggiosa per le imprese transnazionali, i governi dei paesi industrializzati stanno cominciando a invertire la rotta. Ma la strada è ancora molto lunga e la determinazione politica non è sempre salda. Insomma, per dirla con Innerarity, non abbiamo ancora smesso di vivere in «un mondo offshore, cioè di poteri letteralmente “lontani dalla costa”, delocalizzati, un mondo i cui poteri rilevanti [o dominanti] non rendono conto a nessuno, sono irresponsabili e al di là della portata dell’autorità politica legittima»[7].

Il testo pubblicato è un estratto dal libro di Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, (Laterza, Roma-Bari 2017, euro 20).

L’autore è Dottore di ricerca in Filosofia politica, già borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, attualmente Junior Research Fellow presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza Università di Roma e visiting scholar presso l’École Normale Supérieure di Lione.

[1] Cfr. S. George, Shadow Sovereigns: How Global Corporations are Seizing Power, Polity, Cambridge 2015.

[2] Cfr. D. Fuchs, Business Power in Global Governance, Lynne Rienner, Boulder 2007, pp. 71-158; Ead., Theorizing the Power of Global Companies, in J. Mikler (a cura di), The Handbook of Global Companies, Wiley-Blackwell, Oxford 2013, pp. 77-95. Ma si veda anche S. Wilks, The Political Power of the Business Corporation, Edward Elgar, Cheltenham 2013.

[3] Sulla sovranità dello Stato al tempo della finanza, G. Zagrebelsky, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 33-45.

[4] A. Ferrara, La democrazia e il potere assoluto dei mercati finanziari disancorati, in «Politica & Società», a. IV, 2015, n. 1, pp. 7-26: 15.

[5] Lo dimostra al meglio François Bourguignon nel suo La mondialisation de l’inégalité, Seuil, Paris 2012.

[6] Insiste su questo punto Ronen Palan nel suo fortunato Tax Havens. How Globalization Really Works, Cornell University Press, Ithaca 2010. In proposito, con un taglio più teorico, è da vedere anche il libro di Alain Deneault: Offshore. Paradis fiscaux et souveraineté criminelle, La Fabrique, Paris 2010.

[7] D. Innerarity, Un mundo de todos y de nadie. Piratas, riesgos y redes en el nuevo desorden global, Paidós, Barcelona 2013, p. 30.

Un «bilancio di fine legislatura» sulla politica del PD «su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo» che induce a dimettersi dal partito di Renzi.

Nigrizia, 23 agosto 2017

Correva l’anno Duemila, lo stesso anno in cui ho cominciato a scrivere Giufà, la rubrica per Nigrizia, quando ho sentito per la prima volta un noto leader politico italiano proporre al telegiornale: “Dobbiamo sparare sulle imbarcazioni degli scafisti, affondiamole!”. In quel momento dirigevo il Tg1 e mi toccò dargli qualche minuto di gloria, pur sapendo entrambi che la sua sparata avrebbe lasciato il tempo che trovava. Nei diciassette anni successivi, tale ideona bellicosa è stata replicata infinite volte, sempre con la medesima prosopopea e in favore di telecamera, da leader di opposti schieramenti (dal centrodestra, al centrosinistra, ai grillini). Non mi stupisce, dunque, se quest’estate un tipo come Salvini, che sempre deve manifestarsi il più assatanato di tutti, sia giunto a chiedere anche l’affondamento delle navi delle organizzazioni non governative (Ong), colpevoli di supportare gli scafisti.

La falsa emergenza che descriveva la penisola italiana invasa da orde incontenibili di migranti, smentita dalle cifre ma alimentata dai giornaloni che si trincerano dietro alla scusa del “percepito”, e così manipolano la realtà, si rivela per quello che è: non una “emergenza migranti”, ma una “emergenza elezioni”. Se i giornaloni e le televisioni fanno da megafono a chi sproloquia di invasione, e gli italiani si sentono invasi, ahimè in automatico i politici di ogni ordine e grado innescano il refrain “stop all’invasione”.

Questo sta succedendo, e dobbiamo trarne le conseguenze. Per me la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la campagna di denigrazione mossa contro le Ong impegnate nei salvataggi in mare. Culminata in accuse di complicità con gli scafisti e tradotta nella pretesa governativa di sottometterle a vincoli non contemplati dal diritto internazionale né dai codici di navigazione.

Scusate se approfitto, forse impropriamente, di questo spazio che mi è tanto caro. Ma è venuto il momento di formulare anch’io un mio bilancio di fine legislatura su una materia, quella dei diritti umani, dei diritti di cittadinanza, dei rapporti presenti e futuri fra le due sponde del Mediterraneo e di un contrasto efficace al terrorismo, che considero di importanza cruciale. Non solo in quanto ebreo, ex apolide, figlio fortunato di più migrazioni. Ma proprio come cittadino italiano che, dieci anni fa, è stato fra i promotori di un Partito democratico i cui valori fondativi vedo oggi deturpati per convenienza.

Metto in fila l’operato degli ultimi tre anni. La revoca dell’operazione Mare Nostrum con la motivazione che costava troppo e con limitazione del raggio d’azione della nostra Marina Militare. La mancata abrogazione del reato di immigrazione clandestina, per ragioni di opportunità. La soppressione, solo per i richiedenti asilo, del diritto a ricorrere in appello contro un giudizio sfavorevole. La promessa non mantenuta sullo ius soli temperato. E, infine, la promulgazione di questa inedita oscena fattispecie che è il “reato umanitario” mirato contro le organizzazioni non governative.

Dietro a questa sequenza si riconosce un vero e proprio disarmo culturale. Vittimismo. Scaricabarile. Caricature grossolane della complessa realtà africana con cui siamo chiamati a misurarci. Il tutto contraddistinto da una impressionante subalternità psicologica alle dicerie sparse dalla destra. Lo scorso 13 agosto, sul Corriere della Sera, Luciano Violante raccontava di essere rimasto senza parole davanti a un vecchio calabrese che, indicandogli un gruppo di africani, si lamentava: «Per loro lo stato spende 35 euro al giorno, per mio figlio disoccupato, invece, non fa niente».

Ecco, mi lascia costernato che neanche un uomo delle istituzioni come Luciano Violante si mostri capace di far notare a quel cittadino che, per fortuna, lo stato ha speso e continuerà a spendere molto, ma molto di più per suo figlio che non per gli immigrati. Ne ha perso forse contezza, l’ex presidente della Camera?

Ho ben presente l’importanza dell’unità dentro un partito grande e plurale. So anche che nel Pd continuano a essere numerosi coloro che hanno a cuore gli ideali oggi deturpati. Ma io che avevo visto male la scissione, né ho considerato motivi sufficienti per un divorzio le riforme istituzionale e il jobs act, ora, per rispetto alla mia gerarchia di valori, mi vedo costretto a malincuore a separarmi dal partito in cui ho militato dalla sua nascita. L’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile.

… e quella
di Nigrizia

Non è una provocazione. Con questo editoriale, si è voluto sottolineare la presa di posizione di Gad Lerner perché coglie con precisione un problema che ha la politica oggi: invece di governare i fenomeni di questa epoca (come le migrazioni) prende la scorciatoia di sforbiciare i diritti e di raccontare all’opinione pubblica che va bene così. È un tragitto pericoloso e inconcludente perché rifiuta di fare i conti in profondità con la realtà politico-economica dell’Africa e del Mediterraneo e porta alla memoria un ammonimento del giornalista e scrittore Tiziano Terzani: «Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore».

Anche organizzazioni della Mafia in aiuto alla politica italiana ed europea dei respingimenti. A Roma come a Bruxelles hanno deciso: chiunque ci aiuta a respingere i fuggitivi dagli inferni che abbiamo contribuito a realizzare è nostro amico.

il Fatto quotidiano, 23 agosto 2017

Brigata 48. Ha un nome, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, il tappo che ha fermato le partenze di migranti dalla Libia verso l’Italia da luglio a oggi. È una milizia che sarebbe stata fondata da “un ex boss mafioso” libico, secondo quanto riferiscono fonti anonime locali alla Reuters. Questa Brigata 48 sarebbe molto attiva sulla costa per complicare la vita ai trafficanti e sabotare le partenze da Sabrata, la città a 65 chilometri a ovest di Tripoli che in questi anni è stata uno dei principali punti di imbarco per navi e gommoni carichi di migranti.

Pochi giorni fa, l’agenzia europea Frontex aveva comunicato il crollo degli sbarchi censiti a luglio: 15.400, circa la metà del mese prima. Tra le ragioni di questo rallentamento, di cui ha beneficiato soprattutto l’Italia, Frontex indicava proprio “gli scontri vicino a Sabrata, una delle aree chiave per le partenze”. E adesso sappiamo perché: è il frutto delle azioni di questa Brigata 48 combinato con quello della Guardia costiera libica che da settimane sembra aver finalmente deciso di contrastare il lavoro dei trafficanti invece che agevolarlo, come ha fatto per lunghi anni durante i quali – per colpa del caos della Libia – i suoi membri non potevano contare su uno stipendio regolare pagato dal governo. Il 24 di luglio, per esempio, il portavoce della Guardia costiera Ayoub Qassim si era premurato di far sapere ai media internazionali di un’operazione che aveva messo in salvo 150 persone, proprio a Sabrata.

In questi anni i trafficanti hanno spesso seguito una rotta che portava i loro carichi di umanità sofferente dalla città di Beni Ualid, nell’interno, a Sud di Tripoli e prima di Misurata, verso la costa. Evitando con attenzione le zone controllate dalla tribù Zintan, che gestisce in autonomia alcune attività del traffico, le carovane di migranti potevano arrivare ai porti di imbarco sulla costa senza neppure passare da Tripoli, grazie al supporto della tribù Warshefana che domina le cruciali aree di accesso alla costa per chi arriva dall’interno (l’alternativa è una strada costiera, troppo sorvegliata e quindi non utilizzata dai trafficanti).

Adesso qualcosa sembra essersi incrinato nel modello di business intorno a Sabrata. Secondo le fonti della Reuters, questa Brigata 48 non solo complica la vita ai trafficanti, ma gestisce anche dei centri di detenzione dove rinchiude i migranti (in Libia, non essendoci diritto di asilo l’unica destinazione per chi non riesce a partire via mare è di fatto la prigione). Difficile dire che cosa sia questa Brigata 48. Al ministero dell’Interno italiano non si lambiccano troppo: è chiaro che agisce per raggiungere gli obiettivi politici del governo di Al Sarraj, quello riconosciuto dalla comunità internazionale ma con scarso controllo del territorio in Libia.

Il ministro Marco Minniti in questi mesi sta perseguendo una strategia molto netta: rafforzare Sarraj in modo che il suo fragile esecutivo riesca a prendere il controllo del territorio almeno sulle coste e così fermare il traffico di migranti. A questo è servita la dura iniziativa contro le organizzazioni non governative che, nel tentativo di salvare i migranti abbandonati al loro destino sui canotti poco lontano dalle coste libiche, finivano per agevolare e quindi incentivare il lavoro dei trafficanti. L’Italia non ha alcun contatto ufficiale con questa Brigata 48 o con le altre compagini simili sul terreno: Roma tratta soltanto con Sarraj. Almeno in teoria, perché poi Minniti ha costruito una rete di relazioni con le tribù del sud della Libia, nel tentativo di disincentivarle a trarre lauti profitti dal traffico di esseri mani.

E il 28 agosto a Roma Minniti riunirà la cabina di regia che coordina i Paesi confinanti a Sud: Niger, Ciad e Mali. Lo scopo è sempre lo stesso: soltanto con il coinvolgimento di tutti gli attori che oggi partecipano al traffico di esseri umani si può arginare il flusso. Ci sono 90 milioni di euro di fondi europei da spendere nell’area proprio per progetti che offrano delle alternative di reddito a chi oggi vive di traffico. I primi tentativi in Niger per ora hanno creato più tensioni politiche che altro, ma al momento non ci sono strategie alternative.

Anche il ministro degli Esteri Angelino Alfano segue una sua agenda sulla Libia che prevede meno interventi diretti e un maggiore coinvolgimento del nuovo inviato dell’Onu, Ghassan Salamé. I due hanno avuto un colloquio lunedì.

L’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Articoli di Maurizio Giufrè e Alessandra Anselmi da

il manifesto, 23 agosto 2017 (c.m.c)


ROBERTO GOTTARDI
CHIAROSCURI CUBANI.

di Maurizio Giufrè

«All’età di 90 anni muore l’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Con Vittorio Garatti e Ricardo Porro, nel 1961 progettò la Escuela Nacionales»

Fino a quando non venne pubblicato nel 1998 Revolution of Forms di John Loomis nessuno poteva mai immaginare che la storia dell’architettura cubana della rivoluzione si sarebbe incontrata con quella di due architetti italiani, Vittorio Garatti e Roberto Gottardi, i quali, chiamati dal loro collega cubano Ricardo Porro, insieme svolsero l’incarico di trasformare l’esclusivo Country Club di l’Avana in uno dei centri culturali più importanti del Latinoamerica: la Escuela Nacionales de Arte (ENA), un insieme di cinque scuole per il teatro, il balletto, la musica, l’arte plastica e la danza moderna. Dopo la scomparsa di Porro a Parigi nel 2004, ieri ci ha lasciato Gottardi.

Con i suoi amici Vittorio e Ricardo, ancora nel 1999 volle scommettere di completare le parti mancanti della Escuela, per una seconda volta chiamato con gli altri, come nel lontano 1961, da Fidel Castro per un’opera che solo grazie a un architetto e docente statunitense è stata possibile restituire, dopo una lunga disattenzione, alla storia dell’architettura. Purtroppo come allora la mancanza di risorse economiche non ha permesso a Gottardi di vedere completata in tutte le sue parti la Escuela nonostante l’impegno del World Monument Found che l’aveva peraltro inserita nei cento monumenti del mondo da salvare, e le promesse di contribuire al finanziamento dell’intervento dell’amministrazione Bush e poi di alcuni governi europei, tra i quali il nostro all’epoca di Berlusconi. In questo momento di triste perdita per uno degli architetti più singolari per il suo impegno politico e sociale occorre citare innanzitutto questa che per Gottardi è stata la sua più «grande impresa».

In particolare collegarci agli anni del suo arrivo a Cuba poco più che trentenne dopo essersi laureato nel 1952 all’Istituto Superiore di Architettura di Venezia con Carlo Scarpa, un periodo di tirocinio presso lo studio di Ernesto Nathan Rogers e la sua prima occupazione nel Banco Obrero di Caracas dove si trasferisce nel 1957 e dove incontra i suoi due amici, tutti collaboratori di Carlos Raúl Villanueva: il pioniere dell’architettura moderna venezuelana. Tuttavia è con l’avvento della rivoluzione castrista che Gottardi raggiunge nel 1960 Cuba per partecipare, come egli stesso dichiarerà anni dopo, a «fondare un nuovo paese, con una nuova gente», ricordando con nostalgia lo spirito libero, senza alcuna imposizione, con il quale si lavorava e ci si confrontava nell’isola caraibica per la costruzione di una nuova società.

L’atmosfera di quegli anni è ritratta nella celebre foto di Alberto Korda con Castro e Che Guevara mentre giocano a golf sul campo di quello che i giovani barbudos decideranno dovrà diventare la più importante scuola d’arte dell’America Latina. Gottardi scelse di progettare lo spazio della Scuola di Arti drammatiche impiegando materiali poveri e tecniche semplici come la volta a cupola in mattoni di terracotta che nell’architettura dell’Escuela è l’unità minima, seriale e modulare di segno più elementare ma altrettanto organico, ad esempio, di quelle di Eladio Dieste. Il risultato è un’architettura che scaturisce dalla consapevolezza «che tutto fosse possibile per la mancanza completa di idee preconcette», quelle che vennero meno con l’arrivo dei militari sovietici in seguito all’accordo tra Castro e Krusciov nel 1962.

Gottardi non lasciò però mai Cuba a differenza di Porro e Garatti, coniugando dal 1965 l’attività di docente alla Facoltà di Architettura di L’Avana, di scenografo – sue le scene per Girón (1981) e Dédalo (1991) del coreografo Rosario Cárdenas – e di architetto (Ristorante Maravilla, 1968). La «rivoluzione delle forme» di Gottardi rimarrà tra le testimonianze più autentiche nei confronti dell’omologazione globale che interessa l’architettura contemporanea e come un «sogno utopico» può sopravvivere ad ogni forma di dispotismo, oggi come allora.

L’OTTIMISMO
DI UN INTELLETTUALE ECLETTICO

di Alessandra Anselmi
«Frank Lloyd Wright, Luis Kahn tra i riferimenti che ne segnarono la formazione»

Ho conosciuto Roberto Gottardi a L’Avana nel febbraio del 2008, ma il suo nome e le Scuole d’Arte mi erano già da tempo familiari. Me ne aveva, infatti, molto parlato mio padre, Alessandro Anselmi, che nel 1963, insieme a Renato Nicolini e altri architetti, provenienti da diverse parti del mondo, avevano partecipato al VII Congresso della U.I.A. (Unione Internazionale degli Architetti), fortemente voluto da Che Guevara.

All'epoca Roberto, nato a Venezia nel 1927, già si trovava a Cuba, dove era arrivato nel dicembre del 1960. Come lo stesso Roberto amava ricordare, pochi mesi dopo il suo arrivo aveva ricevuto, insieme al cubano Ricardo Porro e all’italiano Vittorio Garatti, l’incarico per partecipare alla costruzione di cinque scuole d’arte (musica, danza moderna, teatro, arti plastiche, balletto), là dove sorgeva l’esclusivo Country Club Park. Nell’ambito del progetto, fortemente voluto da Fidel e da Che Guevara, il giovane architetto veneto ebbe l’incarico per la Scuola di Teatro.

Tutti, soleva ripetere Roberto, eravamo molto ottimisti rispetto al futuro, la rivoluzione si caratterizzava per una grande coralità, e ognuno di noi con le sue diverse competenze sentiva di contribuire al salto qualitativo per una società diversa e migliore. Roberto, tra i suoi maestri metteva Carlo Scarpa, Franco Albini, Giuseppe Samonà e Ernesto N. Rogers, ma, diceva anche che per la sua formazione e per il progetto della Scuola di Teatro erano stati determinanti anche le esperienze «de vida real», vissute a Cuba, che avevano contribuito a fargli porre problemi che oltrepassavano quelli della forma e dello spazio. Oltre ad altri suoi riferimenti, come Frank Lloyd Wright, Luis Kahn e altri, il processo rivoluzionario lo aveva arricchito modificando il suo modo di concepire il progetto architettonico.

La scuola di teatro, che purtroppo come le scuole progettate da Vittorio Garatti, non è mai stata terminata, è caratterizzata da stretti passaggi scoperti, con i quali Roberto voleva ricordare le strade di una città, e da forti contrasti di luce ed ombra. Questi spazi sono inoltre modulati da scale che danno luogo a sorprese visive.

Nello spazio così articolato si aprono gli ambienti per la recitazione e le lezioni, queste le intenzioni, solo in parte realizzate, ma di cui restano numerosi disegni e un plastico. Alla riscoperta delle cinque scuole, i cui lavori si interruppero nella seconda metà degli anni Sessanta, hanno contribuito nell’ultima decade diverse iniziative, tra cui il libro di J. A. Loomis, Cuba’s forgotten Art schools revolution of forms. Importante, anche perché dedicato al solo Roberto, il catalogo della mostra Roberto Gottardi arquitecto. Sin dogma y con muchas dudas, tenutasi a L’Avana lo scorso ottobre 2016, pubblicato da Manfredi Edizioni.

Ho avuto in regalo questo catalogo da Roberto in occasione della mia ultima visita a L’Avana, lo scorso maggio; era fisicamente indebolito ma conservava l’indomito entusiasmo e desiderio di lavorare al suo progetto per la Scuola di Teatro, non certo l’unico da lui elaborato, ma sicuramente il più importante della sua vita, anche perché legato a quella che lui amava definire «l’adolescencia de una década», piena di quella ricca effervescenza, ricerca e creatività che ha caratterizzato la Cuba degli anni Sessanta. Roberto ha lasciato una traccia indelebile in tutto quelli che lo hanno conosciuto: Aldo Garzia, che avendo vissuto a L’Avana come giornalista ha avuto molte occasioni di incontro con lui, lo ricorda come un intellettuale appassionato e sempre ottimista.

Arma non tanto dei generici "populisti", come l'improprio titolo, ma chi alimenta «l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi. evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti».

la Repubblica, 23 agosto 2017
Caro direttore, la sospensione delle attività delle ong impegnate nel soccorso in mare di fronte alle coste libiche ha avuto conseguenze drammatiche, con la chiusura dell’unica via di salvezza verso paesi sicuri rappresentata per centinaia di migliaia di migranti dall’intervento dei volontari da tempo impegnati su questo fronte.

Dietro la riduzione dei salvataggi in mare, ottenuta con il sostegno alle autorità libiche nella loro decisione di limitare l’area di intervento delle navi impegnate nel soccorso umanitario, si consuma una gravissima e sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone: in mancanza di una via di accesso sicura e “legale” all’Europa, si nega il diritto d’asilo a quanti, costretti alla fuga dalla guerra e dalla fame, non sono messi in condizione di raggiungere i paesi dove questo diritto possa essere esercitato; con il trattenimento nei centri di detenzione libici i migranti diventano vittime dei trattamenti inumani e degradanti che in questi luoghi abitualmente si praticano.
Questo effetto giunge dopo vari mesi di costanti attacchi alle ong. La continua enfatizzazione della necessità di “regolamentare” gli interventi di soccorso per ragioni di sicurezza e per lottare contro la tratta di essere umani, evocando ipotesi di “cooperazione” e di “comunione di intenti” fra soccorritori e trafficanti, ha ottenuto il risultato sperato. L’opinione pubblica ha ormai metabolizzato l’idea che sia necessario mettere sotto accusa l’attività di salvataggio e che sia legittimo porre “limiti” al nostro dovere di intervenire per sottrarre al loro destino di morte i migranti abbandonati in mare dai trafficanti. Anche le recenti indagini avviate da alcune procure per accertare eventuali condotte di favoreggiamento attuate nel soccorso in mare confermerebbero l’esistenza di un “collateralismo” fra i soccorritori e i trafficanti di esseri umani.
A prescindere dagli sbocchi giudiziari di queste indagini, è evidente la pericolosa semplificazione operata nel dibattito mediatico delle problematiche con le quali si devono confrontare l’interpretazione e l’applicazione delle norme penali nel contesto di attività di soccorso delle quali è riconosciuta la finalità umanitaria e dove attori privati devono sopperire alle carenze degli stati operando in situazioni molto complesse dove l’inazione o anche la sola prudenza può comportare la perdita di numerose vite umane.
L’attacco alle Ong è parte di un più ampio progetto e dei suoi obiettivi:
- portare in secondo piano le gravi responsabilità dell’Europa e dei paesi europei per non aver saputo e voluto sino ad oggi elaborare una politica di gestione del fenomeno migratorio all’altezza delle sfide e del nuovo ordine mondiale;
- riproporre come prioritarie le risposte in chiave securitaria, difensiva e repressiva alle emergenze legate alla gestione dell’emigrazione, alimentando l’onda emotiva basata su insicurezza e paura che in tutta Europa cavalcano populismi e neonazionalismi;
- criminalizzare chi da tempo, con l’impegno umanitario nell’attività di soccorso e di accoglienza e oggi con scelte coerenti con la propria identità e con le finalità della propria missione, ha deciso di stare incondizionatamente dalla parte dei diritti, dei valori di solidarietà e di pari dignità delle persone;
- ridurre al silenzio quanti chiedono con forza alla politica nazionale ed europea sull’emigrazione e sulla gestione della crisi umanitaria che ha determinato, di restituire centralità a tali valori posti a fondamento delle nostre democrazie e del progetto di Europa come luogo di diritti, di accoglienza e di opportunità per tutti.
Il futuro delle nostre democrazie richiede oggi un impegno comune perché si immettano nel dibattito pubblico forti anticorpi ai veleni mortali diffusi dal populismo che nella propaganda sui temi dell’emigrazione ha trovato una delle sue più potenti armi politiche.
Per questo è necessaria la nostra resistenza culturale alla logica del “nemico” che al populismo fornisce linfa vitale e che è sempre alla ricerca di “nuovi nemici”. Per questo occorre la nostra consapevolezza che restare dalla parte dei diritti fondamentali dei migranti significa difendere la nostra democrazia e salvare la nostra Europa dal progetto alternativo di società che nuovi populismi e neonazionalismi perseguono, rinnegando i valori di solidarietà, di eguaglianza e di pari dignità delle persone.
L’autrice è segretaria generale di Magistratura Democratica
«Il messaggio per la prossima Giornata dei migranti. Visti umanitari, ricongiungimenti familiari, prima sistemazione decorosa, libertà di movimento: raccomandate quattro "azioni"».

Avvenire online, 21 agosto 2017

Quattro azioni per cercare di affrontare il tema dei migranti e dei rifugiati salvaguardando - sempre e in primo luogo - la dignità della persona. Papa Francesco ha scelto la giornata odierna per diffondere il testo del suo Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che la Chiesa cattolica celebrerà il prossimo 14 gennaio 2018. Un testo ricco di proposte e azioni concrete, che Francesco offre all'analisi e allo studio della comunità cristiana e di quella internazionale. Del resto, ricorda lo stesso Pontefice "nei primi anni di pontificato ho ripetutamente espresso speciale preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati". Una preoccupazione che lo ha portato a tenere sotto la propria guida quella sezione dedicata ai migranti istituita con la creazione del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano e integrale.
Quattro azioni: accogliere
Ecco allora i quattro verbi-azione che il Papa propone: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Per ognuno di loro il Messaggio offre anche indicazioni pratiche su come attuare questo invito. L'accogliere diventa "innanzitutto offrire a migranti e rifugiati ingresso sicuro e legale nei Paesi di destinazione" in modo che si sfugga al traffico di esseri umani. Sì, dunque, a visti umanitari, ai ricongiungimenti familiari, alla creazione di corridoi umanitari, alla formazione del personale di frontiera perché sappia operare nel rispetto della dignità umana. Forte chiaro il no a "espulsioni collettive e arbitrarie".
Proteggere il loro cammino
Anche il proteggere viene declinato dal Papa con alcune proposte operative concrete. In primo luogo l'informazione, sia in Patria sia nei luoghi in cui si recheranno, per evitare "pratiche di reclutamento illegale". Ma anche con il riconoscimento e la valorizzazione delle "capacità e delle competenze dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati", che rappresentano "una vera risorsa per le comunità che li accolgono". Dunque integrazione passando dal mondo del lavoro, perché in esso vi è anche la dignità dell'uomo. Un pensiero il Papa lo rivolge anche ai minori, specialmente quelli non accompagnati, affinché, in assenza di documenti reali, diventino apolidi. Il Papa chiede che nel rispetto del diritto universale a una nazionalità «questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita».
Promuovere la dignità della persona
Promuovere è il terzo verbo-azione indicato dal Messaggio. In questo punto il Papa invita la comunità che accoglie di "mettere queste persone in condizione di realizzarsi come persone in tutte le loro dimensioni", compresa quella religiosa, garantendo "a tutti gli stranieri presenti sul territorio la libertà di professioni e pratica religiosa". E ancora una volta l'integrazione lavorativa è una azione da promuovere con sempre maggior efficacia.
Integrare, cioè incontrarsi
Non meno importante la quarta pista di lavoro: integrare. Questo non vuole dire affatto assimilare, precisa papa Francesco nel suo messaggio, ma "aprirsi a una maggior conoscenza reciproca per accogliere gli aspetti validi" di cui ogni cultura è portatrice. Ecco allora l'invito ad accelerare questo processo anche "attraverso l'offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel Paese".
La responsabilità degli Stati
Non manca infine un chiaro e diretto richiamo alla responsabilità degli Stati di tutto il mondo che, ricorda il Papa, "durante il vertice all'Onu nel settembre 2016 hanno espresso chiaramente la loro volontà di prodigarsi a favore di migranti e dei rifugiati". Forte anche l'invito alla comunità cristiana "ad approfittare di ogni occasione per condividere questo messaggio con tutti gli attori politici e sociali che sono coinvolti al processo che porterà all'approvazione dei patti globali, così come si sono impegnati a fare entro la fine del 2018".
Ancora troppe ombre sul caso Regeni e molte domande che necessitano una risposta.

La Repubblica, 22 agosto 2017 (p.d.)

Caro direttore, la notizia diffusa a Ferragosto dal New York Times secondo cui le autorità americane avrebbero trasmesso nei primi mesi del 2016 al governo Renzi - attraverso l’Aise, afferma Repubblica - un dossier con “ notizie esplosive” e “ prove inconfutabili” sul coinvolgimento di istituzioni egiziane nel sequestro, tortura e omicidio di Giulio Regeni, nonché sulla consapevolezza che ne avrebbe avuto la “leadership dell’Egitto”, ha determinato polemiche e commenti di opposti contenuti: c’è chi dice che queste informazioni non sono mai state comunicate a chi indaga e chi afferma che comunque esse erano inutili e scontate. È preannunciata per il 4 settembre una fase di chiarimento politico, mentre il Copasir intende convocare il premier Gentiloni e forse il suo predecessore.
Premesso che chi scrive non ha alcuna conoscenza del contenuto processuale delle indagini in corso e del fondamento delle notizie diffuse dal Nyt, va comunque osservato che nel dibattito di questi giorni è mancato ogni riferimento ad una domanda pregiudiziale: cosa prevede la legge in casi come questi?
Va subito detto che secondo la legge n. 124/ 2007 ( che disciplina l’attività dei Servizi), l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise, ex Sismi) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero, mentre l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, ex Sisde) ha lo stesso compito sul fronte interno contro ogni minaccia, attività eversiva ed ogni forma di aggressione criminale o terroristica. Entrambe rispondono al presidente del Consiglio e informano, tempestivamente, i ministri della Difesa, degli Esteri e dell’Interno per le materie di rispettiva competenza.
I rapporti tra il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e l’autorità giudiziaria sono peraltro disciplinati in ossequio ai principi di leale e reciproca collaborazione e del bilanciamento tra l’interesse di giustizia e quello di tutela della sicurezza dello Stato. A tal fine è importante ricordare che l’articolo 23 della legge citata prevede l’obbligo dei direttori delle agenzie di riferire alla polizia giudiziaria (a sua volta obbligata dal codice di procedura a fare altrettanto, “senza ritardo”, nei confronti del pubblico ministero competente) ogni notizia di reato di cui vengano a conoscenza a seguito delle attività svolte dal personale dipendente. E l’adempimento di tale obbligo può essere solo ritardato (non omesso), ma su autorizzazione del presidente del Consiglio. Dunque, ai Servizi spettano fondamentali compiti di prevenzione, ma non attività di indagine giudiziaria in senso stretto, riservate esclusivamente alla polizia giudiziaria ed alla magistratura. Si tratta di previsioni che costituiscono una scelta virtuosa del sistema italiano, anche in chiave di sinergia istituzionale e di efficace contrasto del terrorismo.
Tornando al caso Regeni, ecco allora, alla luce della normativa vigente, le domande da porre all’Aise ( ove sia confermato che tale agenzia abbia ricevuto il predetto dossier) ed al governo:
1) l’Aise ha trasmesso alla polizia giudiziaria le notizie ricevute dalle autorità statunitensi?
2) se lo ha fatto, la polizia le ha inviate, dopo eventuali approfondimenti, alla Procura di Roma?
Se le risposte sono affermative, il problema non esiste e tocca solo ai pubblici ministeri romani valutare in assoluta autonomia e - se del caso - utilizzare le informazioni ricevute.
Ma se l’Aise non ha inviato alla polizia quelle specifiche informazioni, si pongono altre domande:
3) è intervenuto un provvedimento del presidente del Consiglio che ha autorizzato tale ritardo?
4) se sì, quale ne è stata la motivazione, posto che la legge prevede che l’inoltro sia ritardato solo “quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza” (il che non sembra pertinente al caso Regeni)?
Se non è intervenuto alcun atto di questo tipo, le ragioni del mancato doveroso inoltro delle informazioni a chi stava indagando sono da chiarire sotto ogni profilo, con il contributo del presidente del Consiglio, quale responsabile del Sistema dell’intelligence. Né può bastare una risposta del tipo “ma noi già sapevamo del coinvolgimento dei servizi egiziani” nella tragica vicenda. O del tipo: “il reato era già noto”. La notizia di reato di cui è per i Servizi obbligatorio l’invio alla polizia, infatti, può riguardare anche un reato di cui sia già nota la consumazione, mentre ogni valutazione circa il suo effettivo rilievo rispetto alle indagini (anche sotto il profilo del rafforzamento di ipotesi già sotto esame) e la sua eventuale utilizzazione in forma legale spetta esclusivamente alla Procura ed ai presidi di polizia giudiziaria che indagano.
Un’ultima osservazione: fortunatamente, in questa storia, non c’entra il segreto di Stato che, a quanto è dato di sapere, non risulta apposto- opposto: anzi è proprio la pertinenza della notizia a fatti notori che viene addotta come giustificazione della sua presunta irrilevanza investigativa.
La pratica migliore per combattere l'atroce impasto tra sessismo e razzismo violenza ed esclusione, che imperversa nel linguaggio monco dei "social" è l'esercizio paziente della democrazia: ascolto, rispetto, comprensione, risposta argomentata.

il manifesto, 22 agosto 2017
«Il sesso come violenza esplicitata nella classica giustificazione dello stupro. E il profugo, ovvero il "clandestino", identificato con lo stupratore. Viaggia in rete il feroce sessismo razzista. Non serve ribattere punto per punto, vanno riattivate pratiche di accoglienza e confronto dirette, fuori dalla giungla dei social»

Non c’ è niente che mostri con maggior chiarezza il nesso strettissimo tra machismo e razzismo dei tweet sessisti che Laura Boldrini si è decisa a denunciare. Da Beppe Grillo e Matteo Salvini, via via fino ai loro sconosciuti ma non anonimi seguaci. L’elemento centrale che balza agli occhi è l’identificazione tra sesso e violenza. I persecutori di Laura Boldrini, che la vorrebbero morta, per augurarle tutto il male del mondo invitano a sottoporla o sottoporsi a uno stupro: quanto più feroce, tanto più soddisfacente per loro. E non si mettono solo nei panni dello spettatore che assiste eccitato e divertito alla violenza, possibilmente di gruppo, e nelle forme più umilianti, che le augurano.

Traspare evidente anche il loro desiderio di parteciparvi, la loro identificazione con lo/gli stupratori; una visione della violenza come sesso, ma anche, e soprattutto, del sesso come violenza, esplicitata dalla classica giustificazione dello stupro: «ti piacerà anche chissà quanti ne hai ogni sera a farti sfondare», ecc. Ma non è tutto. Laura Boldrini è una donna, che si batte contro il razzismo e per l’accoglienza dei profughi. Il profugo, ovvero il “clandestino”, identificato con lo stupratore. Ovviamente nero: «Le sue merde nere tanto amate». E perché mai? Perché «è arrivata l’ora che ti togli dal cazzo italiano e sali sopra il cazzo nero che tanto hai voluto».

Fa qui la sua comparsa uno dei temi di fondo del machismo, ma anche del razzismo, di tutti i tempi: l’invidia del pene, a lungo, e a torto, identificato con la condizione naturale della donna; forse per nascondere un problema che tormenta da sempre gli uomini: il confronto tra i rispettivi attributi maschili, unito al timore di uscirne perdenti; soprattutto rispetto ai “neri”, identificati tout court con tutti i profughi e tutti i clandestini. Qui il razzismo non è che un tentativo di eludere il fantasma di un confronto da sempre centrale nell’educazione dell’uomo occidentale.

Ma a quest’assalto a Laura Boldrini a suon di tweet hanno partecipato anche diverse donne, che non possono essere state mosse dalle stesse pulsioni. Da una sicuramente sì: il voyerismo, il piacere e il gusto di assistere a una violenza sessuale come fonte di soddisfazione di un desiderio di sopraffazione altrimenti inesprimibile. Ma anche, ovviamente, la soggezione a una cultura maschilista introiettata. Il fatto è che sia dagli uomini che dalle donne che la oltraggiano, Laura Boldrini non è odiata solo e principalmente perché donna, ma soprattutto perché identificata con una rigida difesa dell’accoglienza. Altre donne prima di lei hanno ricoperto la stessa carica senza essere offese in questo modo.

All’epoca di Nilde Jotti la politica non aveva ancora abbandonato le parvenze di quel bon ton messo oggi sotto accusa insieme al cosiddetto political correct. E’ vero. E in fin dei conti, Irene Pivetti era lì come rappresentante di quella parte politica da cui proviene la maggior parte delle offese contro Laura Boldrini, ma che non era certo scontenta di avere una presidente donna. Anche questo è vero. Ma allora profughi e migranti non erano ancora il problema, mentre oggi la contrapposizione tra accogliere e respingere è il cuore della lotta politica; proprio ciò che ha fatto emergere come sua componente primaria il razzismo, ben assistito dalle pulsioni custodite negli strati profondi della psiche. E soprattutto, allora non c’erano ancora i social forum, che sono la palestra di queste esibizioni di feroce sessismo razzista: la trasposizione in una rete di dimensioni planetarie di discorsi e battute che forse ci sono sempre state, ma tra pochi amici, al bar. E che oggi, invece, non si accontentano più dell’anonimato e sono fiere di presentarsi con nome e cognome. Ciò che abbina sessismo, razzismo e degrado della politica non sta, ovviamente, solo nell’avvento dei social forum.

Sta soprattutto nel fatto che i social sono al tempo stesso il vettore e lo specchio di una disgregazione sociale che, mentre responsabilizza ciascuno per le vicende biografiche personali a cui lo ha destinato la società in cui vive, offre all’individuo isolato una compensazione alle proprie frustrazioni nella libertà di procurarsi un pubblico insultando e offendendo nel modo più crudo avversari politici, tifosi di altre squadre, nemici personali, esponenti di etnie, religioni e culture diverse.

Contro questa invadenza dei social non serve ribattere punto per punto. A parte il dispendio di tempo e di energia che ciò richiederebbe, il fatto è che contro la disgregazione sociale promossa dalla cultura della meritocrazia e della competitività universale e alimentata dai social funzionano solo politiche e pratiche di riaggregazione fondate sui rapporti diretti, sull’incontro e il confronto personale, sulla cooperazione in attività, progetti e lotte comuni, sulla solidarietà che non può prescindere dall’incrocio degli sguardi, dalla conoscenza personale e dal riconoscimento reciproco attraverso condivisione di gesti, gusti, parole, serate. E usando la rete solo a supporto, e non come fondamento, di forme più complesse e generali di organizzazione. Proprio quello che si cerca di fare nei centri di aggregazione.

L'imprevedibile Trump prende la svolta interventista e concede maggiori poteri ai suoi generali.

La Repubblica, 22 agosto 2017 (p.d.)

C'era una volta il Donald Trump isolazionista. In campagna elettorale diceva: «Basta missioni all’estero, è l’America la nazione che dobbiamo ricostruire». La guerra in Afghanistan? «Denaro sprecato, ritiriamoci subito» (un tweet del 2016). E c’è adesso il presidente Trump che rinuncia a un’altra delle sue promesse. Con il risultato paradossale che l’Afghanistan diventa da oggi una “sua” guerra. Qualsiasi rovescio sul terreno entrerà nel bilancio della sua presidenza. Il frastuono delle armi copre per un attimo gli ultimi due scandali: il Russiagate; e l’inaudita indulgenza verso i neo-nazisti di Charlottesville. Mentre il terrorismo islamico insanguina l’Europa, ecco un presidente americano che torna a parlare di talebani, di guerra al fondamentalismo, di nuove truppe da mandare al fronte. Nello stesso giorno in cui partono le grandi manovre militari congiunte con la Corea del Sud, in un altro teatro geostrategico ad alta tensione. (E sullo sfondo, c’è pure il mistero degli incidenti a ripetizione che colpiscono la Settima Flotta, proprio quella di stanza nell’Asia- Pacifico).
La decisione di inviare nuovi soldati americani in Afghanistan, in contro-tendenza rispetto ai piani di disimpegno totale annunciati da Barack Obama, è un prezzo che Trump paga per il suo strisciante “commissariamento” da parte dei militari. Avviene in una fase di difficoltà acuta della sua presidenza, coi sondaggi che scivolano ai minimi storici perfino negli Stati operai come il Michigan che lo avevano miracolato l’8 novembre. I mesi passano e il bilancio di governo è magrissimo, la contro-riforma sanitaria non c’è stata, la riduzione delle tasse dipende da quei gruppi parlamentari repubblicani che ormai diffidano apertamente del loro presidente. Nel caos di una Casa Bianca dove si susseguono i licenziamenti in tronco, restano gli uomini in divisa a garantire un sembiante di solidità, sangue freddo, disciplina. Lo spostamento del baricentro di potere verso i militari è confermato dal licenziamento di Stephen Bannon venerdì scorso. Bannon è un estremista di destra ma anche un tenace isolazionista. E’ contrario ad aumentare le truppe americane in Afghanistan e su questo aveva avuto vari scontri con la terna di generali che circondano Trump: McMaster capo del National Security Council, Mattis alla Difesa, Kelly capogabinetto. La cacciata di Bannon è una vittoria dei generali, che ora incassano un invio di nuove truppe americane all’estero.
L’Afghanistan è un conflitto interminabile, ormai più lungo del Vietnam. Iniziò con George W. Bush poco dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, si trascina da quasi 16 anni con risultati alterni ma per lo più deludenti. Ogni volta che gli americani stanno per ritirarsi o comunque riducono sostanzialmente la loro presenza, i talebani rialzano la testa. L’idea di “nazionalizzare” la guerra delegando tutte le responsabilità al governo di Kabul e alle sue forze armate, si è rivelata fin qui un’illusione. Obama fu a suo tempo protagonista di un memorabile braccio di ferro con il Pentagono che voleva a tutti i costi un “surge”, un forte incremento del dispositivo militare, al termine del primo mandato. Obama cedette alle richieste dei generali a condizione che il “surge” fosse temporaneo e accompagnato da una data certa per il ritiro. Sembrò sul punto di mantenere la promessa fatta agli americani, alla fine del suo secondo mandato la presenza di soldati Usa era diventata quasi simbolica. Ma non c’era stato un ritiro totale. Ad oggi restano circa 9.000 militari Usa in Afghanistan, su una presenza Nato di 13.000. Già a giugno il segretario alla Difesa Mattis aveva convinto Trump ad autorizzare l’invio di altri 4.000 soldati. A questo si aggiunge un ripensamento di strategia complessiva che abbraccia tutto il teatro “AfPak”, cioè Afghanistan più Pakistan. Da anni infatti il Pakistan è un santuario di protezione di forze integraliste, inclusi i talebani. Fin dai tempi dell’uccisione di Osama Bin Laden che si nascondeva sul territorio pakistano, l’opinione pubblica americana scoprì quanto poco affidabile fosse un paese teoricamente alleato degli Stati Uniti, al quale Washington continua a fornire aiuti militari.
Bannon ha precipitato i tempi del suo licenziamento con un’intervista in cui ridicolizzava l’opzione militare in Corea del Nord… minacciata dallo stesso presidente. Gaffe, peccato di presunzione? Forse no. L’ex consigliere dell’estrema destra sentiva arrivare il conto per la “militarizzazione” di questa Casa Bianca allo sbando. Trump sembra rispettare ormai solo due gruppi di persone: i familiari stretti e gli alti comandi delle forze armate. Questi ultimi lo risucchiano verso una logica imperiale, una continuità nella politica strategica. Tutto il contrario dell’America First che l’operaio di Detroit attende con impazienza da sette mesi.
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